sabato 12 settembre 2015

il manifesto 12.9.15
Ripartire da Gramsci
Gramsci, come risorsa per la definizione di un nuovo soggetto politico di sinistra
di Alberto ScanziPresidente Ass. Circolo Gramsci Bergamo


Sembra che si sia finalmente giunti alla decisione di costituire in Italia un nuovo soggetto politico di Sinistra. Provo allora ad elencare qualche snodo decisivo come contributo alla discussione. E’ importante partire con idee chiare, superando ogni sorta di perplessità e attendismo. In questo contesto ci può aiutare la ricchezza dell’attività giornalistica e politica di Gramsci degli anni torinesi. Le questioni affrontate, poi, da Gramsci nei Quaderni, sono tante e complesse che rimandano ai temi di stretta attualità dei giorni nostri, là dove Gramsci descrive una classe borghese che diventa casta, e per mantenersi tale, non esclude l’opzione della guerra. Né vanno sottovalutati i temi storici della «teoria della prassi» e i nodi concettuali di «società civile», «egemonia», «rivoluzione passiva».
Vorrei però oggi soffermarmi sull’analisi gramsciana di «coscienza di classe» e «ruolo e funzione del partito». Come spunto di riflessione per la costruzione in Italia di un nuovo soggetto politico a Sinistra, che rivendichi non solo i diritti civili ma anche l’eguaglianza sociale.
Gramsci muove dall’idea che senza coscienza (di sé ‚della realtà, del contesto storico) non ci sia soggettività, quindi sia inevitabile la subalternità al potere dominante. Senza coscienza di classe, la massa è indissolubilmente legata al dominio della borghesia capitalistica. La conquista della coscienza sociale è quindi il primo atto di quel processo che potrà portare a costruire un nuovo soggetto politico di Sinistra, poiché significa divenire consapevoli del conflitto sociale e politico in atto. Così come lo sono stati il partito Giacobino nella Rivoluzione francese del 1789, i Mille di Garibaldi nel 1860, la Comune di Parigi nel 1870, il partito bolscevico nella Rivoluzione d’Ottobre il nuovo soggetto politico è chiamato a svolgere una funzione pedagogica in termini egemonici e non autoritari, con l’autorevolezza e il prestigio della direzione.
Compito primo di questa nuova forza politica di Sinistra è, in altri termini, farsi soggetto promotore della contro-egemonia di classe, la quale deve a sua volta essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo, quindi concepire da subito i germi della nuova società, iniziando a costruire linguaggi alternativi, codici, forme, relazioni, esperienze sottratte al dominio dello sfruttamento capitalistico e finanziario. Quindi ribadire con forza i temi della Sinistra: ruolo pubblico nel mercato, la pace, acqua e beni comuni, lavoro, pensioni, scuola pubblica, l’Europa dei popoli, il No alla Nato, diritti civili ecc.. Per Gramsci il partito è un insieme di dirigenti all’altezza delle necessità e in grado di stare nel conflitto.
«Coscienza e organizzazione» costituiscono per Gramsci un binomio indissolubile. Il dovere più urgente, dice Gramsci, è il problema di organizzazione, di forza, di corpi fisici e di cervello, di organizzazione delle menti cioè formazione e coordinamento. Per Gramsci organizzare è sinonimo di direzione, di consapevolezza, di competenza delle conoscenze e di coerenza sul piano pratico.
Entra quindi in gioco il tema del «lavoro di massa», caratteristico e fondante della teoria gramsciana del partito. Lavorare tra le masse vuol dire essere continuamente presenti, essere in prima fila in tutte le lotte. Strategico e decisivo è quindi creare gruppi dirigenti «organici e adeguati» per la creazione e la formazione di un’autonomia culturale e politica che sappia dare risposte concrete, qui e ora al «Socialismo del XXI secolo». In questo arcipelago di movimenti di Sinistra, fondamentale sarà la presenza di un forte e nuovo Partito Comunista.
Alberto Scanzi, Pres.Ass. Circolo Gramsci Bergamo
il manifesto 12.9.15
Nuovo sondaggio: Syriza al 28% Nd al 23,5. Unità popolare al 2,5
Grecia. Alleanze post voto: possibile collaborazione con i socialisti
di Teodoro Andreadis Synghellakis


Un nuovo sondaggio di Efimerìda ton Syntaktòn (Quotidiano dei Redattori) di Atene, permette a Syriza di prendere una boccata di ossigeno.
Secondo i risultati dell’indagine demoscopica condotta dalla società Pro Rata, la Coalizione della Sinistra Radicale greca si aggiudica il 28,5% delle intenzioni di voto, mentre il centrodestra di Nuova Democrazia non supera il 23,5%.
Una differenza di cinque punti percentuali che non si era mai registrata nelle ultime due settimane. Per quel che riguarda gli altri partiti, i neonazisti di Alba Dorata sono stimati al 6,5%, mentre i socialisti del Pasok e i comunisti ortodossi del Kke sono entrambi al 4,5%.
I centristi del Fiume, secondo il sondaggio si attestano sul 4%, la rediviva Unione di Centro al 3,5%, mentre i conservatori dei Greci Indipendenti (ex alleati di Tsipras nel governo) ed Unità Popolare– creata dai fuoriusciti di Syriza– vengono dati entrambi al 2,5%.
Al momento, quindi, non supererebbero la percentuale di voti necessaria per entrare in parlamento, che è del 3%.
Secondo lo stesso sondaggio, il 37% del campione ritiene che Alexis Tsipras sia il politico più adatto a governare il paese, mentre il presidente di Nuova Democrazia, Vanghelis Meimarakis, segue a grande distanza, con il 25%.
Un aspetto da non sottovalutare, tuttavia, è che alla domanda «che tipo di governo vorreste dopo le elezoni», il 23% dei partecipanti al sondaggio ha risposto «una vasta coalizione formata da Syriza, Nuova Democrazia, il Pasok e il Fiume», il 18% «un governo monocolore di Syriza», il 10% sceglie un’alleanza tra Syriza e i conservatori, e l’8% «una riedizione dell’esecutivo nato lo scorso gennaio con la collaborazione della Coalizione della Sinistra Radicale con i Greci Indipendenti».
Secondo molti osservatori, questi ultimi dati mostrano sicuramente una certa stanchezza e sfiducia del corpo elettorale, ma confermano anche che il messaggio arrivato sinora agli elettori dai diversi partiti — e in particolar modo dalla sinistra– non è stato abbastanza forte, preciso, e capace di distinguersi dalla restante «offerta politica».
Un elemento che potrebbe giocare, tuttavia, a favore di Syriza, è costituito dal fatto che secondo il sondaggio pubblicato da Efimerida ton Syndakton, sino ad ora il partito di Alexis Tsipras è riuscito a mobilitare solo il 64% del suo bacino elettorale, mentre Nuova Democrazia è all’83%. La sinistra radicale greca, quindi, ha ancora un margine importante per far crescere la propria percentuale, in vista delle elezioni del 20 settembre.
Dal punto di vista della strategia politica, ovviamente, non si può non sottolineare che una eventuale creazione di un governo di grande coalizione, potrebbe penalizzare principalmente, proprio Syriza.
Continua a essere l’unico grande partito che si pone a favore della permanenza nell’Eurozona, chiedendo, tuttavia, degli sforzi continui per riuscire a cambiarne la rotta. Con un esecutivo, quindi, in cui i ministri del partito di Tsipras si trovassero a coabitare con quelli del Pasok, ma soprattutto con esponenti del centrodestra, penalizzerebbe ed indebolirebbe tutti gli sforzi tesi ad un reale cambiamento. Non solo per quel che riguarda il superamento dell’austerità in Europa, ma anche per la lotta contro la corruzione e lo stato clientelare sul fronte interno.
Bisognerà vedere, ovviamente, quali saranno gli equilibri ed il quadro generale del risultato elettorale.
Syriza si dovrebbe aggiudicare il bonus dei 50 seggi riservato al primo partito, ma molto dipenderà anche da quante forze politiche riusciranno ad entrare, alla fine, nella Boulì, il parlamento di Atene. Meno saranno, e più il partito di Tsipras –se, come sembra, vincerà la sfida con la destra-si avvicinerà alla maggioranza assoluta.
Quanto alle alleanze post –voto, rimane sempre in piedi la possibilità di una collaborazione con i socialisti, anche se Evànghelos Venizèlos, loro ex presidente e numero due del governo Samaràs, ancora non perdona, a Syriza, di essere riuscito a «sottrargli» la stragrande maggioranza dell’elettorato progressista.
il manifesto 12.9.15
Ripartire da Gramsci
Gramsci, come risorsa per la definizione di un nuovo soggetto politico di sinistra
di Alberto Scanzi
Presidente Ass. Circolo Gramsci Bergamo


Sembra che si sia finalmente giunti alla decisione di costituire in Italia un nuovo soggetto politico di Sinistra. Provo allora ad elencare qualche snodo decisivo come contributo alla discussione. E’ importante partire con idee chiare, superando ogni sorta di perplessità e attendismo. In questo contesto ci può aiutare la ricchezza dell’attività giornalistica e politica di Gramsci degli anni torinesi. Le questioni affrontate, poi, da Gramsci nei Quaderni, sono tante e complesse che rimandano ai temi di stretta attualità dei giorni nostri, là dove Gramsci descrive una classe borghese che diventa casta, e per mantenersi tale, non esclude l’opzione della guerra. Né vanno sottovalutati i temi storici della «teoria della prassi» e i nodi concettuali di «società civile», «egemonia», «rivoluzione passiva».
Vorrei però oggi soffermarmi sull’analisi gramsciana di «coscienza di classe» e «ruolo e funzione del partito». Come spunto di riflessione per la costruzione in Italia di un nuovo soggetto politico a Sinistra, che rivendichi non solo i diritti civili ma anche l’eguaglianza sociale.
Gramsci muove dall’idea che senza coscienza (di sé ‚della realtà, del contesto storico) non ci sia soggettività, quindi sia inevitabile la subalternità al potere dominante. Senza coscienza di classe, la massa è indissolubilmente legata al dominio della borghesia capitalistica. La conquista della coscienza sociale è quindi il primo atto di quel processo che potrà portare a costruire un nuovo soggetto politico di Sinistra, poiché significa divenire consapevoli del conflitto sociale e politico in atto. Così come lo sono stati il partito Giacobino nella Rivoluzione francese del 1789, i Mille di Garibaldi nel 1860, la Comune di Parigi nel 1870, il partito bolscevico nella Rivoluzione d’Ottobre il nuovo soggetto politico è chiamato a svolgere una funzione pedagogica in termini egemonici e non autoritari, con l’autorevolezza e il prestigio della direzione.
Compito primo di questa nuova forza politica di Sinistra è, in altri termini, farsi soggetto promotore della contro-egemonia di classe, la quale deve a sua volta essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo, quindi concepire da subito i germi della nuova società, iniziando a costruire linguaggi alternativi, codici, forme, relazioni, esperienze sottratte al dominio dello sfruttamento capitalistico e finanziario. Quindi ribadire con forza i temi della Sinistra: ruolo pubblico nel mercato, la pace, acqua e beni comuni, lavoro, pensioni, scuola pubblica, l’Europa dei popoli, il No alla Nato, diritti civili ecc.. Per Gramsci il partito è un insieme di dirigenti all’altezza delle necessità e in grado di stare nel conflitto.
«Coscienza e organizzazione» costituiscono per Gramsci un binomio indissolubile. Il dovere più urgente, dice Gramsci, è il problema di organizzazione, di forza, di corpi fisici e di cervello, di organizzazione delle menti cioè formazione e coordinamento. Per Gramsci organizzare è sinonimo di direzione, di consapevolezza, di competenza delle conoscenze e di coerenza sul piano pratico.
Entra quindi in gioco il tema del «lavoro di massa», caratteristico e fondante della teoria gramsciana del partito. Lavorare tra le masse vuol dire essere continuamente presenti, essere in prima fila in tutte le lotte. Strategico e decisivo è quindi creare gruppi dirigenti «organici e adeguati» per la creazione e la formazione di un’autonomia culturale e politica che sappia dare risposte concrete, qui e ora al «Socialismo del XXI secolo». In questo arcipelago di movimenti di Sinistra, fondamentale sarà la presenza di un forte e nuovo Partito Comunista.
Alberto Scanzi, Pres.Ass. Circolo Gramsci Bergamo
Corriere 12.9.15
Il sì del Congresso all’intesa con l’Iran: trionfo per la Casa Bianca
di Guido Olimpio


WASHINGTON Un po’ lo dicono perché sono ancora attaccati al mantello di Khomeini. Un po’ lo fanno per riattizzare il fuoco rivoluzionario. Un po’ le sparano perché convinti che gli Usa siano sempre e comunque il Grande Satana. Parliamo degli ayatollah che alzano i toni proprio nel momento che incassano, indirettamente, un risultato: l’appoggio del Senato americano all’intesa nucleare. Un successo per Obama, una sconfitta per i suoi avversari. Solo il futuro dirà chi ha ragione. La lunga maratona ha premiato la Casa Bianca che ha investito risorse per convincere una platea sospettosa. E alla fine ha portato a casa il necessario: i senatori democratici hanno bloccato la manovra dei repubblicani per far saltare il banco: 58 a 42. La Camera ha poi votato contro l’accordo in una mossa del tutto simbolica da parte del partito repubblicano visto che la stessa bozza di legge è stata bloccata al Senato, dando di fatto a Obama il via libera per implementare l’intesa senza dover mettere il veto. Vittoria di misura, ma comunque significativa.
Dopo il raggiungimento dell’accordo, i due schieramenti si sono lanciati in una campagna dura, confronto che si è allargato oltre confine, con sauditi, prìncipi del Golfo e Israele contrari. Il presidente ha risposto con una missione personale riuscendo a convincere molti. Per questo la Casa Bianca ora sostiene che quanto firmato con i mullah lascia ancora spazio a interventi. Se Teheran bara — è il messaggio — abbiamo strumenti per agire. Molti congressisti sono preoccupati, ritengono che l’Iran sia stato premiato prima di aver dimostrato la sua buona fede. Chiedono che siano posti limiti alle compagnie che vogliono investire nel settore energetico iraniano o che hanno contatti con istituzioni vicine ai pasdaran: altre sanzioni. I critici sottolineano come l’Iran potrà usare 60 miliardi di dollari attualmente congelati e due terzi di banche/istituzioni iraniane usciranno dalla lista nera. A Teheran hanno fretta di accorciare il periodo di applicazione dell’intesa (secondo stime Usa, 6-8 mesi). Servirebbe distensione. Ma giovedì la Guida suprema, Ali Khamenei, ha sostenuto che tra «un quarto di secolo Israele non esisterà più». E ieri l’ayatollah Kermani: «Intesa sul nucleare non significa normalizzazione con l’America».
La Stampa 12.9.15
A Cuba arriva il Pontefice E Castro libera 3522 detenuti


Arriva il Papa e si aprono le porte delle prigioni cubane: 3.522 detenuti beneficeranno entro poche ore di un indulto deciso dal governo dell’Avana, a una settimana esatta dall’inizio del viaggio di Jorge Mario Bergoglio sull’isola.
La misura coinvolge un numero di prigionieri mai così elevato dai tempi della rivoluzione castrista del 1959. I detenuti sono stati scelti in base «alla natura degli atti per cui sono stati incarcerati, al loro comportamento in prigione, alla durata della pena e a preoccupazioni mediche», ha riferito «Granma», il quotidiano ufficiale del regime. Tra questi, ci sono ultrasessantenni, minori di 20 anni senza precedenti penali, malati cronici, donne e cittadini stranieri.
Già nel dicembre 2011 Raúl Castro aveva concesso l’amnistia a 2.991 prigionieri in occasione della visita di Papa Benedetto XVI, a Cuba nel marzo 2012.
Corriere 12.9.15
Da Hamas alle canottiere L’Abc di Corbyn il rosso
Oggi potrebbe diventare il nuovo leader laburista inglese


Londra A USTERITY L’anatema di Jeremy, anche in versione light. Il Labour secondo Corbyn si smarca dalla linea Miliband, «reo» di aver perso le elezioni di maggio per non aver osato proporre un’alternativa chiara ai tagli di bilancio del governo Cameron. «L’austerità è una scelta politica, non una necessità economica».
B LAIR Per l’ex primo ministro la politica del quasi coetaneo Corbyn (ha 4 anni di meno) è «Alice nel paese delle meraviglie», un partito abbonato alla sconfitta. «Chi chi lo apprezza con il cuore — ha detto Blair — faccia un trapianto». Jeremy vorrebbe il rivale sotto inchiesta per la guerra in Iraq .
C OMRADES La formula di saluto ai comizi, tra generazione Facebook e vecchia sinistra: «Amici, compagni».
D EPUTATI Il suo tallone d’Achille. Solo il 10% dei 232 «compagni» laburisti in Parlamento lo sostiene. Le manovre per defenestrarlo sono già cominciate.
E UROPA Corbyn non farà campagna per la Brexit, ma è un tiepido eurofilo. Se per la destra Tory a Bruxelles c’è troppa burocrazia, per Jeremy c’è troppo liberismo.
F AN Dalla cantante Charlotte Church al produttore musicale Brian Eno, da Ken Loach all’attrice Maxine Peake (ex partito comunista).
G ABYS’S DELI , il ristorante preferito, nel West End. Il vegetariano Corbyn ha aiutato il proprietario a evitare lo sfratto.
H AMAS , Hezbollah. Le «amicizie pericolose» sul fronte internazionale. Il filo-palestinese Corbyn, che ha definito «una tragedia» anche l’uccisione di Bin Laden, cita il Mandela riconciliatore (lo sosteneva quando per la Thatcher Madiba era un terrorista).
I SLINGTON La tana. Londra Nord, da dove spiccò il volo pure Blair. La zona del giornale The Guardian, la nuova sede di Google. Ci abitò Lenin, ci vive il sindaco conservatore Boris Johnson. Quattro circoscrizioni. Dal 1983 Corbyn rappresenta Islington Nord. Casa vicino a Finsbury Park, gira in bici (con casco), non ha l’auto .
J EZ WE CAN : Lo slogan sulle magliette. Obama bianco, barbuto e attempato.
L ABOUR Old, New, New New. Nostalgico del Vecchio laburismo, snobbato da quello Nuovo (dopo l’avvento di Blair ha votato contro il suo partito oltre 500 volte), leader a sorpresa di quello Nuovissimo. Cioè Vecchio?
M OGLI La seconda, Claudia, cilena, ha divorziato perché lui non voleva mandare il figlio alla scuola privata. La terza, Laura, messicana, di 20 anni più giovane, importa caffè equo e solidale.
N AZIONALIZZAZIONI Il suo piano per riportare ferrovie e settore energetico sotto il mantello statale terrorizza non solo la City. E costa un botto.
O DDS Le quote dei bookmaker, che danno per certa la sua vittoria. Corbyn è dato 1/12 (vinci una sterlina se ne punti ben 12). Molto indietro i rivali: Yvette Cooper 8/1, (ne punti una, ne vinci otto), Andy Burnam 20/1, Liz Kendall 200/1 (la stessa quota di Corbyn a giugno!).
P UTIN Una sorpresa il tifo del Cremlino? Corbyn ha denunciato «l’eccessiva e ossessiva espansione della Nato verso Est dopo il 1990».
Q UANTITIVE EASING Per tutti, non solo per banche e finanze di Eurolandia: Corbyn propone di stampare moneta anche per sostenere i cittadini in difficoltà.
R IMBORSI s pese. Nessuno come lui in Parlamento. Uno scontrino uno: 8,95 sterline per una cartuccia di stampante.
S EB Il figlio, portavoce della sua campagna. Una caduta di stile?
T SIPRAS Corbyn non assomiglia al quarantenne premier di Atene. Piuttosto a un pacato, invecchiato Varoufakis (che la settimana prossima viene a Londra a trovarlo). Con altri (soli) 19 deputati laburisti Jeremy ha chiesto la cancellazione del debito greco.
U LSTER Amico di Gerry Adams, leader del Sinn Fein (lo invitò in Parlamento nel 1984). Storico sostenitore di un’Irlanda Unita. Nuovo leader in un momento di grandi tensioni a Belfast?
V EST Le maglie della salute, emblema di stile frugale: canottiere comprate per 2 euro l’una alle bancarelle. Con giacche beige, Harrington Jackets, cappelli neri alla Lenin, le biro nel taschino. Soprannome: l’uomo senza ferro da stiro.
W ENGER Arsène. Il francese dal 1996 allenatore dell’Arsenal, la squadra del cuore. Jeremy è membro di un club che sogna «Wenger a vita», l’anti-Mourinho che gioca bene e non vince mai.
il manifesto 12.9.15
Catalunya, Ara és l’hora: 2 milioni in strada per la Diada
Catalunya. Celebrazioni pro indipendenza
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA Dal 2012, quella che ogni 11 settembre era poco più di una manifestazione istituzionale che celebrava la Diada, la festa catalana, si è trasformata grazie alle associazioni indipendentiste Anc (Associazione nazionale catalana) e Òmnium Cultural, in una celebrazione esplicitamente indipendentista. La Diada ricorda la storica sconfitta dei catalani che (assieme agli aragonesi) si erano alleati con la casa reale sbagliata durante la lunga guerra di successione, iniziata nel 1701, al trono di Madrid, finito nelle mani di Filippo V (di Borbone) invece che in quelle dell’arciduca Carlo III d’Austria. Barcellona cadde nel 1714 dopo un lungo assedio, e Filippo V si vendicò ritirando tutti i privilegi di cui godeva la Catalogna.
Molti catalani si sentono di nuovo in guerra, dopo la dura sentenza del Tribunale costituzionale che, su richiesta del Pp, nel 2010 limitò in parte gli effetti dello Statuto catalano entrato in vigore nel 2006 dopo anni di discussioni. E quello che era un sentimento secessionista radicato ma minoritario – intorno al 30% — è andato rafforzandosi nel discorso politico e nel corpo sociale dei catalani. L’obiettivo della massiccia e coreografica manifestazione di ieri era di rendere evidente quello che gli organizzatori considerano il sentimento maggioritario dei catalani: la creazione di una repubblica catalana. Ara és l’hora, «ora è l’ora», il suo motto. Gli organizzatori parlano di due milioni di persone; matematicamente sulla sola avinguda Meridiana non ce ne stanno più di 7-800mila.
I 5,2 km di questo lungo viale erano divisi in 10 tratti colorati (dedicati all’innovazione, alla cultura e istruzione, alla giustizia sociale, al mondo, all’uguaglianza, alla diversità, alla solidarietà, all’equilibrio territoriale, alla sostenibilità e alla democrazia), le cause – secondo gli organizzatori – che caratterizzeranno la Catalogna prossima ventura. Alle 17,14 una frecciona gialla ha iniziato a percorrere lo statico corteo per andare a incastrarsi in un palco pieno di schede elettorali ubicato nel Parco della Ciutadela, luogo simbolico della battaglia di Barcellona del 1714 nonché sede del parlamento catalano.
L’anno scorso la Diada si celebrò poche settimane prima dello storico referendum del 9 novembre sull’autodeterminazione dei catalani che il governo di Madrid bloccò in tutti i modi possibili e che finì per essere una celebrazione “informale”, ma che portò comunque più di due milioni di persone a esprimersi maggioritariamente a favore dell’indipendenza.
Quest’anno il president catalano Mas ha fatto in modo che coincida proprio con il primo giorno di campagna elettorale delle elezioni anticipate da lui convocate in cui 7 milioni e mezzo di catalani eleggeranno il nuovo Parlament, che Mas e i suoi alleati vorrebbero che fossero «plebiscitarie» (cioè fossero solo a favore o contro l’indipendenza). Da parte sua, Mas – nascosto al quarto posto di una lista unitaria («Assieme per il sì») che oltre al suo partito unisce il teoricamente principale partito d’opposizione, Esquerra Republicana, oltre alle menzionate Òmnium Cultural e Anc, assieme a vari ex parlamentari di sinistra – ha già vinto la sua scommessa.
Nel momento in cui il suo partito (Convergència Democràtica de Catalunya) è al centro di gravissimi casi di corruzione (le cui indagini si sono riattivate sospettosamente proprio in corrispondenza dell’appuntamento elettorale), lui non deve neppure comparire nei dibattiti elettorali, pur essendo il vero candidato, mentre il capolista Raül Romeva, ex eurodeputato rossoverde, non si prende certo la responsabilità di rispondere dei casi di corruzione del partito di Mas o dei suoi selvaggi tagli in sanità, educazione e servizi sociali. Gli ultimi sondaggi danno i due partiti che promettono un’improbabile indipendenza in 18 mesi (“Assieme per il sì” e la Cup, i movimentisti di estrema sinistra) intorno ai 67 seggi che segnano la maggioranza del parlamento catalano (di 135 seggi), ma molto lontani dalla maggioranza dei voti (intorno al 40%).
Il che è sorprendente: gli indipendentisti sono riusciti non solo a rimettere al centro dell’agenda politica in Spagna la questione catalana e, indirettamente, la questione costituzionale, forti anche del miope immobilismo del Pp, ma anche di trasformarlo in discorso politicamente egemonico. In modo tale che le posizioni sfumate (per esempio quelle federaliste, come i socialisti) o le opzioni politiche che si concentrano sull’asse sociale – è il caso della lista che unisce Podemos, rossoverdi di Icv e Izquierda Unida (“Catalogna sì, si può”) – sono destinati alla marginalità nel dibattito. Il 27 settembre vedremo per chi sarà vincente la scommessa soberanista di Mas.
Corriere 12.9.15
La marea umana di Barcellona: «Libertat»
La storia dice che la gente va ascoltata E’ l’ora della libertà dopo 300 anni di oppressione
Mai fuori dall’Ue: non potete stare senza di noi
Urlano gli adolescenti, gridano le signore bene, le bandiere giallo-rosse avvolgono corpi e auto Centinaia di migliaia di catalani si riversano in piazza per chiedere l’indipendenza dalla Spagna
di Sara Gandolfi


BARCELLONA Centinaia di migliaia di catalani — 2 milioni per gli organizzatori, poco più di 500.000 secondo le stime meno credibili del governo spagnolo — hanno risposto all’appello, ieri, a Barcellona. Il corteo nazionalista tracima nei grandi viali del centro, per la festa della «Diada», con le bandiere giallo-rosse che avvolgono i corpi, le carrozzine, le poche auto che riescono a circolare in una città sospesa.
Come l’anno scorso e quelli prima ancora, ma stavolta è diverso. Lo si legge sui volti sorridenti e tesi di chi aspetta per ore sulla Meridiana. Lo si ascolta nel canto quasi rabbioso che sale, metodico, ogni dieci minuti «Inde-inde-independència». Urlano gli adolescenti, arrabbiati come solo i giovani riescono ad essere, come Lorente, quinto anno di liceo, armato di un cartello con la scritta «Libertat» e un pugno rosso disegnato accanto. Gridano le signore bene che oggi si sono infilate la T-shirt bianca con la scritta «Ara és l’hora» perché «è arrivato il momento di non pagare più le tasse a Madrid». Qualcuno cita Salvador Allende, altri i Paesi baltici fuoriusciti dall’ex Urss. Alla fine tutti applaudono l’americana che sul palco scandisce, in inglese: «We want our own independent State» (vogliamo il nostro Stato indipendente).
Strana rivoluzione quella che è andata in scena a Barcellona, a poco più di due settimane dal voto regionale che potrebbe aprire la più grave crisi politico-istituzionale in Spagna dalla fine del franchismo, se il fronte indipendentista conquisterà la maggioranza dei seggi e avvierà, come promesso, il processo verso la secessione. Non c’è quasi polizia per le strade — «tanto qui son tutti pacifici» assicura l’agente — solo tantissimi volontari, a controllare che nessuno soffochi nella calca. Compare anche il calciatore Gerard Piqué, amatissimo difensore del Barça e fischiatissimo membro della Nazionale spagnola, nonché marito della cantante Shakira. «Per me è una sinfonia se mi fischiano al Bernabeu (stadio del Real Madrid) — assicura —. La storia dice che bisogna ascoltare la gente, e qui parliamo di milioni di persone».
Non è l’unico Vip sceso in piazza a rivendicare il diritto all’auto-determinazione. La più appassionata è Carulla Montserrat, una celebrità del teatro spagnolo, che a 84 anni si candida alle elezioni del 27 settembre nel listone di Junts pel Sí, la piattaforma che il presidente della Catalogna Artur Mas ha creato unendo le forze del suo partito di centro-destra Cdc con la sinistra di Erc. Troppo diversi? «Siamo uniti nell’obiettivo: un Paese finalmente indipendente dopo 300 anni di oppressione — esclama Montserrat —. Le forze repressive, prima di Franco e poi del governo spagnolo, hanno affondato il nostro popolo. È dagli anni Quaranta che lotto per questo». Il muro spagnolo ieri ha iniziato ad incrinarsi. Dopo i tanti «no» del premier Mariano Rajoy — a una maggiore autonomia fiscale e poi alla richiesta di un referendum — è toccato al ministero degli Esteri, José Manuel Margallo, tentare una ricucitura: poche ore prima dell’inizio della campagna elettorale, ha insinuato la possibilità di cedere la quasi totalità delle imposte alla Catalogna.
Troppo poco e troppo tardi, per chi era in piazza ieri. «Abbiamo pagato sempre noi il debito di Madrid, e non parlo solo di conti economici ma anche culturali e storici», dice Nandu Jubany, chef stellato che esclude l’uscita dall’Unione Europea: «Come potreste mai stare senza di noi!». Accanto a lui sfila l’avvocato ottantenne August Gil Matamala, penalista che ha difeso per quindici anni i prigionieri politici di Franco e poi, a fine anni Ottanta, decine di militanti del movimento Terra Lliure: «A quei tempi, bastava alzare uno striscione con la scritta “indipendenza” per finire in galera, a Madrid».
Difficile prevedere cosa succederà. Artur Mas si sta giocando il tutto per tutto. Ora o mai più. Il vantaggio sembra risicato e la macchina dei volontari lavora a pieno ritmo nei call-center per convincere al telefono quell’inquietante 26% di indecisi. Lo scozzese Irvine Welsh, autore del romanzo cult Trainspotting , a fine giornata è comunque contento: «Emozionante, colorata, quest’ondata democratica è una grande opportunità non solo per i catalani ma per tutta la Spagna. Come lo è stato il movimento nazionalista scozzese per la politica britannica».
Corriere 12.9.15
Le nove guerre civili
Dall’Afghanistan alla Nigeria le crisi che producono ondate di profughi E continueranno a farlo nel futuro
di Michela Farina


LONDRA Lo ammette anche l’angelico Steven Pinker, che nel 2011 pubblicò un ponderoso saggio intitolato «Il declino della violenza». L’ha ammesso ieri sul quotidiano The Guardian : nel mondo le guerre civili sono in aumento.
E pensare che, da ventisei che erano nel 1992, avevano quasi toccato il fondo nel 2007: «soltanto» quattro. Pinker tiene aggiornati i 100 grafici della sua contabilità del male. È vero che quasi tutti mostrano una curva decrescente: meno omicidi, meno esecuzioni capitali. La striscia positiva dei mancati conflitti tra grandi potenze si è allungata fino a raggiungere i 62 anni suonati. Le guerre tra Stati? Dopo il 1945, tre all’anno; quasi nessuna dopo il 1989; zero dopo Iraq 2003.
C’è però una linea imbizzarrita che non segue l’andamento calante della violenza. È la linea più incerta, ma non meno letale, dei conflitti interni: il numero delle guerre civili nel 2014 è risalito a quota undici. Quasi tre volte la conta di sette anni prima. Dall’Africa all’Asia, dalla Nigeria di Boko Haram all’Afghanistan dei nosferatu talebani, passando per il catino infernale del Medio Oriente, sono nove le guerre civili che riversano profughi verso l’Europa. Sul pallottoliere di Pinker due guerre (in Ucraina) sono attribuibili alle mire di Vladimir Putin; ben otto sono appese alle trame ramificate dei gruppi jihadisti. Una, in Sud Sudan, affonda le radici in laiche lotte di potere che soffiano sulla cenere di mai sopite divisioni tribali.
Immaginate le guerre come crateri di violenza inestinguibile, che genera flussi di popolazioni in fuga. Le rotte dei rifugiati che dai vari punti caldi del mondo convergono naturalmente verso il bacino del Mediterraneo: molti di loro si inabissano, i più fortunati attraversano il mare in gommone, oppure superano come una gigan-tesca onda umana il contraf-forte dei Balcani.
È l’onda crescente delle guerre civili. Ci sono crateri (conflitti) che tornano in attività, come il conflitto in Sud Sudan, riesplodendo dopo pochi anni di sonno. Ci sono eruzioni di lunga data come quella che sgorga dal caos della Somalia, dove lo scontro tra clan e la mai domata rivolta degli estremisti di Al Shebab hanno confezionato il pacco dello Stato fallito per antonomasia. Ci sono Paesi che «studiano» da failed State a suon di morti, magari con l’intervento esterno dei vicini (sta accadendo nello Yemen).
«Tutte le guerre sono pericolose», scrive Patrick Coburn sull’ Independent seguendo il vasto delta dei conflitti in corso. In mancanza di precise linee del fronte, «le guerre civili — sottolinea Coburn — si accaniscono particolarmente sulle popolazioni. E le guerre religiose sono le peggiori di tutte». Troppo semplicistico ridurre a un denominatore (religioso) comune la sequenza dei conflitti-crateri che infuocano Libia, Siria, Iraq. Secondo lo studioso francese Jean-Pierre Filiu questi conflitti sono alimentati da un altro tipo di «faglia» comune, dove la lotta religiosa è corollario e strumento: sotto la violenza in superficie c’è «la sistematica guerra dei regimi arabi contro i loro popoli», incarnata e condotta dalla casta militar-affaristica di quelli che Filiu chiama «i neo-mamelucchi». E fa l’esempio del regime di Bashar Assad in Siria, che dopo aver fomentato il jihadismo islamico ora si erge a estremo baluardo contro di esso.
Conflitti che alimentano (o si incistano in) altri conflitti. È quanto sta avvenendo nel Sudest della Turchia, nel confronto sanguinario tra le truppe di Ankara e i ribelli curdi del Pkk.
I fronti si moltiplicano anziché ridursi, si intrecciano come filo spinato. È in mezzo a quel reticolato che cercano di passare e si ingrossano i rivoli dei profughi, le storie personali di famiglie e fuggiaschi solitari. Sono i disperati delle nove guerre, rappresentanti inconsapevoli di una strana Onu: le Nazioni Unite dalla guerra .
Repubblica 12.9.15
Sui migranti una crisi devastante, Parigi e Berlino ora salvino l’Europa
Il filosofo tedesco: “I paesi della Ue non riescono ad accordarsi su una linea di azione comune, ed è un brutto segnale Francia e Germania prendano l’iniziativa per riunire gli Stati legati dall’euro
Per dimostrare che esiste un nocciolo duro in grado di andare avanti unito”
di Jürgen Habermas.


LA REAZIONE nel complesso positiva della popolazione tedesca all’afflusso di rifugiati segna un’importante discontinuità con lo stato d’animo imperante nel Paese all’inizio degli anni ‘90. Dimostra che una leadership politica risoluta – di cui finora, con la Merkel, abbiamo sentito la mancanza – può condurre nel lungo periodo l’opinione pubblica e la società civile a manifestare il loro sostegno e la loro volontà di venire in aiuto a queste popolazioni.
L’asilo politico non è una questione di valori – le chiacchiere sul tema dei “valori” mi esasperano – ma un diritto, e un diritto fondamentale. Questo diritto non può essere garantito solo dai Governi. Dev’essere rispettato dalla popolazione nella sua interezza. I Governi possono non riuscire a far fronte alla sfida attuale, per scoraggiamento o per mancanza di sostegno da parte dei loro mezzi di informazione e dei loro cittadini. E a volte anche per calcoli meschini e per la pusillanimità dei partiti politici di fronte alla pigrizia, l’egoismo e la mancanza di una visione alta nella popolazione.
Per il momento, vediamo che i Paesi membri dell’Unione Europea non riescono, complessivamente, ad accordarsi su una linea d’azione comune. L’onesta proposta del presidente Hollande e della cancelliera Merkel non incontra consenso. Si tratta indubbiamente di un segnale allarmante e vergognoso, ma che la dice anche lunga sul reale stato politico di una comunità che non è diretta da un Parlamento e un Governo comuni, bensì da compromessi stipulati tra ventotto Governi nazionali.
Le diverse reazioni nazionali al problema urgentissimo che dovrebbe oggi vedere una risposta comune testimoniano anche realtà di cui bisogna tener conto: la differente anzianità di appartenenza all’Unione, le differenze economiche importanti – troppo importanti – fra Paesi membri, e soprattutto le differenti storie nazionali e le differenti culture politiche.
L’Europa, di fronte a questo disaccordo insormontabile sulla sfida politica e morale rappresentata dalla crisi migratoria, non deve fallire, col rischio di uscirne alla lunga devastata. E a tale scopo vedo solo una strada realistica: la Francia e la Germania devono prendere l’iniziativa e riunire i Paesi strettamente legati fra loro dall’euro e dalla crisi che attraversa questa moneta per proporre delle soluzioni comuni. La Francia e la Germania devono dimostrare che esiste un nocciolo duro dell’Europa in grado di agire e di andare avanti unito.
Un successo simile potrebbe portare anche, finalmente, a un cambiamento dell’atteggiamento del Governo tedesco, da cui dipende in toto un esito positivo, più a lungo termine, della crisi monetaria stessa. La Francia, se adottasse una linea di condotta energica sulla crisi dei profughi, oltre a restare fedele alla sua tradizione politica darebbe una spinta al Governo tedesco, in modo indiretto: non è solo questione di mostrarsi solidali con quelli che cercano asilo politico, perché una solidarietà di questo tipo è un dovere giuridico; una solidarietà finanziaria è anche una necessità politica in seno a una comunità monetaria che può sopravvivere solo con una politica fiscale, economica e sociale comune.
(Copyright Jürgen Habermas. Traduzione di Fabio Galimberti)
Il Sole 2.9.15
Non aspettiamo i Paesi ostili, l’accoglienza è questione morale
di Daniel Gros


Molti europei sentono che i loro Paesi sono stati presi d’assalto dal grande flusso di migranti che ha attraversato le frontiere. Che si siano confrontati direttamente con l’emergenza profughi o solo attraverso le immagini dei giornali, sono consapevoli della massa di disperati che sta cercando di entrare nel territorio dell’Unione Europea con qualsiasi mezzo. Ma quella consapevolezza deve ancora essere tradotta in una risposta comune.
E cresce la tensione tra gli Stati membri, forse perché l’entità del problema varia molto da Paese a Paese. I Paesi più piccoli ai confini d’Europa come Grecia e Ungheria non hanno la capacità di registrare e ospitare centinaia di migliaia di richiedenti asilo. E i Paesi più grandi, come l’Italia, sono incentivati a lasciar passare il gran numero di profughi che approda sulle loro coste, sapendo che, se non viene fatto nulla, probabilmente si dirigeranno altrove (per lo più in Nord Europa). Ora la Germania ha deciso di accogliere tutte le domande di asilo, indipendentemente dal Paese in cui i profughi siriani sono entrati nella Ue. La decisione è dovuta, almeno in parte, alla difficoltà di capire da dove è entrato un profugo, essendo le frontiere interne Ue così permeabili.
La Germania è lo Stato più grande della Ue in termini di popolazione e Pil perciò, in qualche misura, è logico che prenda la situazione in mano. Ma nemmeno la Germania è in grado di sobbarcarsi tutto il peso. Pochi mesi fa, la Commissione europea aveva cercato di risolvere il problema con la proposta coraggiosa di ripartire i profughi tra gli Stati secondo una semplice equazione basata su popolazione e Pil, ma la proposta era stata respinta perché gli Stati membri sostenevano che fosse un’ingerenza indebita negli affari interni.
E così la Ue si è trovata davanti alla difficoltà di sempre: tutti riconoscono il problema, ma per arrivare a una soluzione serve l’unanimità che non può essere raggiunta perché ogni Paese difende solo i propri interessi. L’unica strada percorribile è lasciar perdere i Paesi più ostili all’accoglienza degli immigrati, almeno per il momento, e creare una soluzione che coinvolga solo quelli disposti a condividere il carico. Potrebbe non sembrare “giusto”, ma con sempre più profughi che si presentano ogni giorno alle frontiere europee, i leader della Ue non possono permettersi di temporeggiare oltre.
E poi c’è un’altra dimensione della crisi che ne rende la risoluzione ancora più complessa. Non tutti i migranti fuggono da conflitti come quello siriano e così, stando al diritto internazionale, non tutti hanno “diritto di asilo”. Ci sono tantissimi immigrati economici provenienti dai Paesi più poveri dei Balcani, che sperano di scappare dalla miseria e cercano di sfruttare il sistema di asilo.
Perché non presentare domanda, anche senza la speranza che questa venga accettata, quando nel frattempo il richiedente ha diritto a alloggio, servizi sociali (compresa l’assistenza sanitaria) e qualche soldo che potrebbe essere sempre più dello stipendio che prende nel proprio Paese. Restare qualche mese in Nord Europa mentre la richiesta di asilo viene esaminata, è molto meglio che ritornarsene a casa, con un lavoro che ti dà un salario che ti permette appena di sostentarti, sempre che il lavoro ci sia.
Con il numero di domande in aumento, si allungano anche i tempi per esaminarle e questo rende il sistema ancora più invitante per gli immigrati economici. Tanto che quasi la metà dei richiedenti asilo in Germania proviene da Paesi sicuri come Serbia, Albania e Macedonia. Con i populisti d’Europa che usano quei casi di “turismo di welfare” per fomentare la paura e la rabbia tra l’opinione pubblica, sta diventando sempre più difficile raggiungere un accordo per gestire i profughi che sono arrivati.
In questo scenario, la Ue deve muoversi su due fronti: 1) i Paesi membri devono organizzarsi per riuscire a smaltire le domande di asilo in modo da individuare rapidamente chi ha diritto alla protezione 2) la Ue deve distribuire il carico – idealmente tra tutti i Paesi, ma forse inizialmente tra un gruppo più ristretto – per dare accoglienza a chi ha ottenuto l’asilo. È una questione di diritto internazionale e una questione morale.
Repubblica 12.9.15
Muri e gabbie, l’Ungheria di Orbán sfida l’Europa: “In carcere tutti gli illegali”
Il premier: dal 15 settembre sarà arrestato chi entra nel paese in modo non regolare
Le immagini della polizia che lancia i panini ai disperati hanno fatto il giro del mondo
di Andrea Tarquini


BUDAPEST LI CHIAMANO centri raccolta migranti, «ma ricordano qualcos’altro, le condizioni di vita sono spaventose», dice Peter Boukaert, direttore delle emergenze di Human rights watch. Il video online Bbc ieri ha fatto il giro del mondo:una folla di migliaia di disperati affamati rincorrevano i camion della polizia: adulti, anziani sulle stampelle, bimbi denutriti in lacrime. Tenendoli a distanza con la minaccia delle armi, gli agenti-rambo in uniforme blu lanciavano sacchi di plastica con cibo a caso nella folla, chi prende prende.
E il peggio deve ancora venire: dal 15, martedì prossimo, scattano le leggi eccezionali. «Farò arrestare ogni illegale», ha detto ieri il presidente Viktor Orbàn: cinque anni di carcere a chi aiuta i migranti anche con un passaggio o una coca cola in regalo, diritto della polizia di entrare in ogni casa privata, uso dell’esercito per respingere la marea umana, e – rivela l’insospettabile media economico indipendente Héti Vilàggazdasàg -i soldati della Magyar Honvédség se si sentono minacciati possono impiegare ogni arma per legittima difesa. Cuore di tenebra in Ungheria: il regime alza il tiro contro i migranti, l’Europa, e il poco che resta a casa della libertà.
«Nei cosiddetti centri di raccolta vengono trattati come animali », denuncia Michaela Spritzendorfer, la coraggiosa moglie di un politico dei Verdi austriaci. Le immagini lo testimoniano, fa capire: il fascismo è tornato in Europa. Centinaia di persone si accalcano verso i poliziotti, fra grida di bimbi e anziani, si contendono i pochi sacchetti di tramezzini di pessima qualità. Si spingono, urlano, sgomitano per alleviare il morso della fame, dice Alexander, marito di Michaela. «I poliziotti ungheresi con caschi e mascherine sanitarie lanciano i sacchi nel caos della folla, come per sfamare animali ammalati».
Orbàn alza il tiro, la marea umana non si ferma: 3226 migranti sono entrati in Ungheria dalla Serbia nelle ultime 24 ore, in alcuni momenti duecento al minuto. «Se la Grecia non è capace di fermarli - insiste - dobbiamo farcene carico noi, altrimenti il problema si sposterà in Ungheria, in Austria e in Germania ».
Promette il pugno di ferro il leader magiaro: «Arresto per tutti gli illegali, applicazione severissima delle leggi, siamo noi il Muro che difende l’Europa». Da giorni ripete il suo mantra in pubblico, in ogni occasione: «I migranti sono una minaccia alla purezza etnica e culturale dell’Europa cristiana e bianca». Poi altre professioni di fede: «La democrazia liberale multiculturale è fallita, impariamo dalla Russia di Putin, dalla Turchia di Erdogan, dalla Repubblica islamica iraniana ».
La gente è con lui: riprese il potere nel 2010, i socialisti erano troppo corrotti. Rivinse l’anno scorso. Lo insidia solo Jobbik, partito neonazista antisemita, seconda forza in Parlamento. «Tragicamente ovvio, l’economia tira e gli investimenti stranieri piovono grazie a diritti sindacali annullati al punto che a confronto Margaret Thatcher era di sinistra», mi dice un alto diplomatico di un paese Nato, «e ormai lui ha instaurato il sistema della paura: di perdere il lavoro, di finire su liste nere. Come quando alla radio-tv fecero l’inatteso appello nominale del mattino di tutti i dipendenti radunati nel cortile: “tu resti”, “tu sei licenziato”. Banca centrale, media, giustizia, polizia, ricordano fonti diplomatiche Usa, sono solo un ricordo. Horthy, dittatore dal 1919 al 1944 e autore delle prime leggi razziali antisemite, è riabilitato con molti monumenti. I monumenti ai grandi politici e intellettuali borghesi, dal “conte rosso” Karoly Mihaly al poeta Attila Jozséf amico di Thomas Mann, sono stati demoliti.
«Un sistema che voi italiani conoscete, io lo chiamo la piovra ungherese», spiega Bàlint Magyar, che contro il comunismo fu un eroe del dissenso. «Non è un capitalismo normale come in Polonia o ex Germania est, è un sistema di oligarchi e di amici degli amici», aggiunge la grande Agnès Heller, tra i maggiori filosofi- politologi dell’Europa d’oggi. Incalza il grande scrittore Gyorgy Konràd: «Orbàn ama fare la danza del pavone, presentarsi come difensore dell’Europa “ bianca” e insieme corteggiare le idee autoritarie di Putin».
Fu Berlusconi, ricordano qui amici giornalisti, a fornirgli strateghi e forse anche sponsor per la decisiva campagna elettorale vittoriosa, cinque anni fa. E ai vertici Ue Viktor ricambia sempre la cortesia: «Tra tutti voi Silvio era il più grande».
Corriere 12.9.15
Il salto all’indietro dell’Europa
di Franco Venturini


Lunedì prossimo, quando la Commissione presenterà ai ministri degli Interni e della Giustizia della Ue un piano migranti che fa leva sull’indispensabile solidarietà tra europei, l’Europa risponderà facendo un grande salto all’indietro e tornando a dividersi tra Est e Ovest. Gli ultimi dubbi sul «no alle quote obbligatorie» da parte di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia (con aggiunta della Romania e delle Repubbliche Baltiche) sono svaniti ieri quando il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha incontrato i quattro del Gruppo di Visegrad per tentare di convincerli. Siamo alle prese con quella che potrebbe essere la più grave crisi nella storia dell’Europa, ha ammonito Steinmeier mettendo sul tavolo tutto il non trascurabile peso della Germania. Ma i suoi interlocutori, guidati dall’Ungheria, hanno fatto orecchie da mercante. Va bene per la protezione umanitaria dei migranti (che proprio in Ungheria non si è vista e non si vede).
Va bene per il rimpatrio di chi proviene da Paesi ritenuti «sicuri» . Ma le quote obbligatorie no, quelle non le accettiamo nemmeno se ce lo chiede la Germania.
La conseguenza appare ormai inevitabile: come già era accaduto tra giugno e luglio quando la Commissione di Bruxelles fece il suo primo fallito tentativo di stabilire quote numeriche obbligatorie per l’accoglimento dei migranti in ogni Stato della Ue, anche questa volta il fronte del rifiuto (che può contare su otto Stati votanti, se non di più) imporrà un criterio di «volontarietà» che vanifica il progetto franco-tedesco fortemente appoggiato dall’Italia.
Nessuno si lascerà spaventare dalle sanzioni finanziarie, che peraltro restano da definire. Semplicemente il criterio della solidarietà rimarrà al palo un’altra volta, l’Europa offrirà al mondo un nuovo spettacolo di divisione interna proprio mentre gli Usa annunciano di voler aprire la porta a 10 mila migranti. E l’Italia, che pretende una logica contemporaneità tra messa in funzione dei centri di identificazione e garanzie di redistribuzione dei richiedenti asilo, si troverà, salvo miracoli, a dover valutare attentamente le conseguenze dei rifiuti orientali.
Rifiuti che hanno peraltro una valenza diversa di caso in caso. La Polonia non accetterà le quote ma accoglierà un numero più alto di migranti (sempre che le elezioni di ottobre, che vedono favorita la destra ultranazionalista, non impongano la retromarcia). In Slovacchia emergono forti umori anti islamici a fianco di quelli anti stranieri. In Ungheria la «sfida» di Orbán alla Merkel si nutre ogni giorno di nuovi capitoli, ora per i migranti è annunciato l’arresto preventivo. Ma se vanno accettate le diversità nazionali, è anche vero che una questione di principio accomuna tutti i nuovi soci della Ue: non sembr a prevalere, nei loro governi e nelle loro opinioni pubbliche, un sentimento di appartenenza europea che pure è stato assai forte nella corsa all’adesione e poi nell’utilizzo degli aiuti provenienti da Bruxelles. Al contrario di quanto è accaduto all’Ovest non si sono stemperati i loro nazionalismi, che anzi esplodono ora che non sono più sottoposti al giogo sovietico degli anni 1945-1989. Insomma, i nostri fratelli d’Oriente vivono una fase storica diversa dalla nostra e gli allargamenti sono stati portati a termine con non poche illusioni. Una parte dell’Ovest sembra muoversi in direzione opposta. Sappiamo che Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda usufruiscono di un Opt-out che peraltro Cameron ha addolcito accettando 20.000 rifugiati extra-quote. Sappiamo della generosità della Germania e della Svezia. Ma ora anche la recalcitrante Spagna sta al gioco. E nella Francia dei Le Pen un sondaggio mostra per la prima volta in vantaggio i pro accoglienza.
Divisi e sempre più lontani, è questo il destino degli europei? È possibile, almeno fino a quando non sarà chiaro a tutti che quello degli immigrati è un problema ma è anche una occasione che ci promette di finanziare uno Stato sociale altrimenti condannato dalle nostre realtà demografiche.
Corriere 12.9.15
L’Europa dell’Est dice ancora no
Spaccatura sulle quote di profughi
di Danilo Taino


BERLINO I profughi in cerca di asilo potrebbero essere «per la Ue la maggiore sfida della sua storia», ha ribadito ieri il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier. Non gli sono però bastate questa e altre affermazioni forti per fare accettare l’emergenza ai quattro Paesi del Gruppo di Visegrád: Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia gli hanno risposto, durante un incontro a Praga, che non sono intenzionate ad accettare le quote obbligatorie, per Paese, sulla base delle quali il piano avanzato dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, intende distribuire i 160 mila rifugiati già sul suolo europeo.
L’incontro tra i ministri degli Esteri del Gruppo di Visegrád con quelli di Germania e Lussemburgo era un tentativo di gettare le basi di una soluzione europea concordata prima dell’incontro di lunedì tra i ministri degli Interni e della Giustizia della Ue. L’obiettivo è che da quella riunione esca una risposta comune dei 28 Paesi: la posizione rigida espressa ieri e la possibilità che da una distribuzione concordata si chiamino fuori Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda (questi Paesi godono di una clausola nei trattati che lo permette) e altri Paesi dell’Est Europa rende complicata la ricerca di un accordo. Per questo, ieri il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha detto che, se lunedì non sarà trovato un accordo, convocherà una riunione dei capi di Stato e di governo della Ue per trovare una soluzione al massimo livello.
Il ministro ceco Lubomir Zaorálek ha sostenuto che i Paesi centroeuropei hanno bisogno «di avere il controllo di quanti (rifugiati, ndr) siamo in grado di accettare». I quattro di Visegrád non hanno posizioni identiche: sono però uniti, almeno per ora, nel ritenere che il sistema di quote li penalizzi, cioè mandi loro più profughi di quanti chiedono di andare nei loro Paesi. In più sono irritati dall’apertura tedesca di queste settimane che ha gonfiato il numero di arrivi. E ritengono, sulla base di quello che la stessa Germania prevede, che, dopo i 160 mila rifugiati da accasare ora, altre centinaia di migliaia ne arriveranno.
«Abbiamo una visione diversa» del problema, ha detto il ministro slovacco Miroslav Lajcak. «Il compito primo e più importante è acquisire il controllo del confine esterno dell’Unione europea», ha sostenuto il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjárto, che si è anche detto disposto a ospitare a Budapest una conferenza a cui partecipino anche Paesi dei Balcani occidentali. A differenza dei tedeschi, non credono cioè che il flusso di profughi sia incontenibile e quindi da gestire; ritengono che a esso ci si possa in qualche modo opporre.
Steinmeier ha anche detto che la Germania si aspetta l’arrivo di 40 mila rifugiati durante questo weekend, dopo i 15 mila di quello scorso: Berlino ha così messo in stato di allerta quattromila soldati con lo scopo di aiutare le operazioni logistiche. Ma la situazione può diventare insostenibile se non ci sarò uno sforzo comune europeo, ha affermato il ministro.
Sempre ieri, i media internazionali hanno diffuso immagini delle condizioni durissime, non a lungo sostenibili, in cui sono migliaia di profughi, in particolare in campi al confine tra Ungheria e Serbia. Inoltre, l’International Organization for Migration ha diffuso le stime di quel che è successo nel Mediterraneo tra l’inizio dell’anno e il 10 settembre. Dice che sulle coste europee sono arrivate 432.761 persone: 309.356 in Grecia, 121.139 in Italia, 2.166 in Spagna, cento a Malta. Ma nel viaggio 2.748 sono morte: 2.620 mentre cercavano di arrivare in Italia, 103 in Grecia, 25 in Spagna. Il 72,8% delle morti di profughi in fuga nel mondo è avvenuta nel Mediterraneo.
il manifesto 12.9.15
Camusso a piedi scalzi: Cambiare Dublino
Venezia. La segretaria Cgil: «Ribadiamo che è prioritario trovare delle regole comuni europee
Ma quello che sconvolge, di chi vorrebbe fermare i flussi migratori, è il fatto che accettano tranquillamente le politiche liberiste: delle due l’una
Perché non puoi sostenere la globalizzazione liberista e poi voler fermare le migrazioni»
di Antonio Sciotto


VENEZIA Anche Susanna Camusso ha tolto le scarpe e percorre il viale che da Santa Elisabetta, l’imbarcadero del Lido, porta fino al Casinò. È venuta con tanti militanti della Cgil: gli organizzatori della Marcia spiegano che il sindacato ha dato un bel contributo alla riuscita, sostenendo alcune spese di viaggio. «Abbiamo condiviso l’appello delle donne e degli uomini scalzi — spiega — perché ci è sembrato un bel simbolo, positivo, che parla di persone e famiglie in fuga verso la sicurezza e la libertà. Mentre in Europa, tra fili spinati e pennarelli, sono ricomparsi purtroppo simboli terribili».
Secondo la numero uno della Cgil, è fondamentale mandare un messaggio alla politica, al governo italiano come alle cancellerie europee: «Si deve cambiare il regolamento di Dublino, ricostruire un’accoglienza comune, ma anche delle procedure comuni di asilo, e una diplomazia europea».
Sulla lettera che il premier Matteo Renzi ha scritto in vista del vertice dell’Unione europea di lunedì prossimo, Camusso dice che «da tempo la Cgil ha posto l’attenzione su Dublino, e apprezziamo che questo problema lo ponga ora anche l’esecutivo». «Manca però una parte — aggiunge — L’idea che tutta l’Europa deve essere pronta ad accogliere, e che è necessario aprire dei corridoi umanitari: altrimenti quei viaggi di chi fugge restano monchi, diventano viaggi della disperazione».
Quanto al dibattito su chi accogliere — se solo i rifugiati in fuga dalle guerre o indistintamente tutti i migranti — la segretaria della Cgil spiega: «Chiaramente la richiesta di asilo ha una sua specificità e prevede dei requisiti precisi. E ribadiamo che è prioritario trovare delle regole comuni europee. Ma quello che sconvolge, di chi vorrebbe fermare i flussi migratori, è il fatto che accettano tranquillamente le politiche liberiste: delle due l’una. Perché non puoi sostenere la globalizzazione liberista e poi voler fermare le migrazioni».
Papa Francesco ha chiesto alle parrocchie di accogliere i profughi, e tanti cittadini aprono le proprie case. Il sindacato si sta ponendo lo stesso problema per le sue sedi locali? «Certo che ne stiamo discutendo, sia al nostro interno che con Cisl e Uil, e dei singoli casi di camere del lavoro accoglienti già ci sono stati — risponde Camusso — Però attenzione: nelle sedi sindacali spesso non puoi dare un’accoglienza dignitosa a persone che fuggono da traumi, fame e guerre, perché si tratta di semplici uffici, mancano le strutture base. E allora noi ci interroghiamo su tanti modi, che possono essere diversi, per sostenere concretamente queste persone: non solo sul breve ma anche sul lungo termine».
il manifesto 12.9.15
Scuola, a ottobre ripartono le mobilitazioni
Lazio. I sindacati dei prof chiedono un confronto sui decreti. Resta il nodo-precari
di Roberto Ciccarelli


Durante l’assemblea delle rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) della scuola, tenutasi ieri al teatro Quirino di Roma, i segretari generali dei cinque sindacati rappresentativi (Flc Cgil, Cisl e Uil scuola, Gilda e Snals) hanno annunciando una giornata di mobilitazione a livello regionale entro il prossimo ottobre contro la “Buona Scuola” di Renzi. Al governo hanno chiesto di aprire un confronto sui numerosi decreti attuativi della riforma della scuola e hanno ribadito la necessità di modificarla. Per i sindacati è centrale il rinnovo del contratto nazionale di lavoro scaduto da oltre sei anni e stanziare le risorse nella legge di stabilità.
Il nodo dei docenti precari è particolarmente sentito. «È stato il grande imbroglio di Renzi — ha detto Rino Di Meglio (Gilda) -. La prima versione della “Buona scuola” prometteva di porre fine al precariato. Ora non si pone fine al precariato, si viene assunti a rate e con ingiustizie». È stato usato «un algoritmo rimasto segreto» che «ha combinato pasticci». «È bastato un solo provvedimento, quello sulle assunzioni — ha detto Francesco Scrima (Cisl scuola) — per capire il pressapochismo del governo». Di fatto, con questo sistema «avremo più supplenze dell’anno scorso, ma non lo vogliono dire. Come è possibile non sapere chi è andato dove e con quanti punti?». Per Domenico Pantaleo (Flc-Cgil) «ogni giorno emergono gli evidenti errori. Il potere ai dirigenti scolastici è in conflitto con gli altri soggetti. Si mette in discussione il fatto che la scuola sia collettività. Vorrei dire alla politica che abbiamo portato l’88 per cento a votare le Rsu. Quelli in parlamento chi li ha votati?».
Repubblica 12.9.15
Firenze, l’ultima beffa
Alla Biblioteca nazionale manca il personale e il ministero lo dimezza
La carenza di lavoratori ha imposto di introdurre un orario ridotto
E ora il Mibact ha stabilito per legge che non sono più necessari
di Tomaso Montanari


LE nuove piante organiche del Ministero per i Beni Culturali condannano la più importante biblioteca del Paese: la Nazionale Centrale di Firenze, l’«unica — come si legge perfino sul suo account twitter — che può documentare nella sua interezza lo svolgersi della vita culturale della Nazione».
Fino ad agosto, la pianta organica della Biblioteca prevedeva 334 posti. Una cifra appropriata: la Nazionale di Francia — per esempio — ne ha 1.414 (più 660 non titolari). Ma se consideriamo che quella di Firenze possiede 6,5 milioni di libri, contro i 31 milioni francesi, i conti tornano.
Il problema è che da molto tempo quell’organico non era coperto. Nel 2001 l’allora direttrice Antonia Ida Fontana spiegava che la chiusura di molte sale e l’orario ridotto erano dovuti alle carenze di personale: e in quel felice momento c’erano ben 270 dipendenti. Oggi, invece, siamo a 165. E infatti la Biblioteca è in caduta libera. Pochi giorni fa i lettori sono stati accolti da un avviso che annunciava una drastica riduzione degli orari. L’unica novità era la franchezza con cui un avviso su carta intestata del Mibact indicava le cause politiche del disastro: «Si informano i gentili utenti che, a causa della continua diminuzione di personale che non consente il regolare svolgimento del servizio, da lunedì 31 agosto 2015 fino all’arrivo dei giovani del Servizio Civile Regionale, previsto per il mese di ottobre, la distribuzione del materiale moderno a stampa sarà effettuata secondo il seguente orario... Ci scusiamo per il disagio, causato indipendentemente dalla nostra volontà». Il diffuso sconcerto provocato da questa inedita ammissione di fallimento ha provocato non la soluzione del problema, ma l’immediata sostituzione dell’avviso.
Nello scorso aprile due interrogazioni parlamentari (di Miguel Gotor al Senato, di Maria Chiara Carrozza alla Camera) chiedevano cosa intendesse fare Franceschini «affinché la Biblioteca nazionale centrale di Firenze possa riprendere in pieno la sua funzione e garantire il servizio previsto dallo statuto»: visto che, appunto, «il personale addetto alla distribuzione e al funzionamento si è ridotto a 165 unità, mentre la pianta organica ne prevederebbe 334».
La risposta arriva ora, ed è la più surreale possibile: le nuove piante organiche del Mibact assegnano alla Nazionale di Firenze 170 posti invece di 334. E dunque — colpo di scena — non è più possibile dire che sia sotto organico. Geniale, no? Abbassare l’organico invece di assumere è come alzare il livello della diossina tollerabile nel cibo (lo fece Berlusconi nel 2007), o truccare il termometro per curare la febbre. Nemmeno Bondi o Galan erano arrivati a tanto: perché un conto è non riuscire ad assumere i giovani necessari per far vivere il nostro patrimonio culturale, altro conto è stabilire per legge che non sono più necessari. Questa è una pietra tombale su ogni futuro possibile.
E non vale solo per la Nazionale di Firenze: fino ad agosto l’organico teorico di tutto il Mibact era di 25.175 unità, di cui in servizio solo 17.700 (con l’età media di 55 anni!). Ora, le piante decretate da Franceschini abbassano il fabbisogno globale a 19.050: una specie di condanna a morte per fame del patrimonio culturale. L’idea reaganiana di «affamare la bestia» ha infine condotto al funerale della bestia stessa.
Certo, alla Nazionale di Firenze è andata particolarmente male: il taglio è stato del 50 per cento. Ma, si sa, nell’età dello storytelling le biblioteche non appaiono utili: o almeno non tutte. A giugno Franceschini annunciò infatti la creazione della Biblioteca Nazionale dell’Inedito: a organico zero, si suppone.
Corriere 12.9.15
Il patrimonio (tradito) delle Biblioteche
Sscene da una catastrofe
Roma e Firenze hanno 120 mila euro per i nuovi volumi, Londra e Parigi 19 milioni
di Gian Antonio Stella


Biblioteche, Tagli In sette anni, lo sviluppo dei servizi informatici è diminuito del 64% Confronti La più importante biblioteca nazionale italiana, ossia quella di Firenze, conta 165 dipendenti, tra i quali, soltanto 38 bibliotecari. Il confronto con la Bibliothèque nationale de France è schiacciante: 1.400 addetti. E Firenze non è un caso isolato: sommando i dipendenti delle nove biblioteche nazionali italiane si arriva a 884 persone. Per il bilancio a Firenze sono attribuiti due milioni l’anno, uno e mezzo a Roma. Contro i 254 milioni di Parigi, i 160 di Londra e 52 di Madrid. Quanto ai soldi messi per l’acquisto di nuovi libri, Roma e Firenze percepiscono 120 mila euro a testa, la British Library ha in dotazione 19 milioni come la Bibliothèque nationale de France.

Le biblioteche di Alessandria, Sarajevo, Mosul sono state distrutte. E ci indigniamo. Ma perché farlo sulla storia cancellata dagli «altri» e chiudere invece gli occhi davanti alle condizioni in cui versano le nostre biblioteche ? Perché quelle di Roma e Firenze per comprare nuovi libri hanno a disposizione 120 mila euro a testa e British Library di Londra e Bibliothèque nationale di Parigi ne hanno 19 milioni?
A h, la biblioteca di Alessandria! Ah, la biblioteca di Sarajevo! Ah, la biblioteca di Mosul annientata dall’Isis! Dite voi: è normale sospirare sulla storia cancellata dagli «altri» e chiudere gli occhi davanti alle condizioni in cui versano le nostre biblioteche, i nostri archivi?
Certo, Dario Franceschini ha solennemente promesso che questo sarà «l’anno delle biblioteche e degli archivi» annunciando «otto milioni in più». Speriamo. L’altro giorno gli amici dell’«Associazione lettori» che mandarono al «Corriere» le foto dei teli di plastica per mettere al riparo le librerie della Biblioteca Nazionale di Firenze in caso di pioggia, però, hanno segnalato a Tomaso Montanari, che ne ha subito scritto, un avviso della direzione: «Si informano i gentili Utenti che a causa della continua diminuzione di personale che non consente il regolare svolgimento del servizio, da lunedì 31 agosto 2015 fino all’arrivo dei giovani del Servizio Civile Regionale...». Per cinque giorni a settimana (sabato compreso, chiusura alle 13) si posson chiedere libri solo la mattina, il martedì solo al pomeriggio entro le 17.30, domenica chiuso. Manco fosse una biblioteca rionale di Latina. Tutto inciso nel marmo digitale: «A causa della continua diminuzione di personale...» .
Era di 354 dipendenti, la pianta organica della nostra più importante biblioteca nazionale. Oggi sono 165, molto meno della metà. E la nuova tabella organici varata dal ministero ne prevede 170. Per sei milioni di volumi, tre milioni di opuscoli, 4 mila incunaboli, 25 mila manoscritti. La Bibliothèque Nationale de France, per dare un’idea, di addetti ne ha 1.400. Non bastasse, i bibliotecari veri e propri previsti sull’Arno sono 38. Per 120 chilometri lineari di scaffali.. .
Ma Firenze, con gli ospiti costretti a stare col paltò addosso d’inverno (freddo polare) e a boccheggiare d’estate (caldo tropicale), le toilette spesso chiuse per guasto, gli orari ridottissimi rispetto a tutte le grandi biblioteche del pianeta è solo una delle emergenze. Gli organici delle nove biblioteche statali italiane, da Roma a Napoli, da Torino a Venezia, arrivano insieme a 884 persone. Poco più della metà della sola biblioteca nazionale parigina.
L’aveva già denunciato Giovanni Solimine in L’Italia che legge (Laterza, pagine 173, e 12): «Le due Biblioteche Nazionali vedono i loro bilanci ridursi al lumicino (un milione e mezzo quella di Roma e 2 milioni quella di Firenze), mentre quelli delle consorelle europee sono di tutt’altro ordine di grandezza: Parigi 254 milioni, Londra 160 milioni, Madrid 52 milioni». Non parliamo dei soldi per comprare nuovi libri: 120 mila euro a testa le nostre due biblioteche nazionali, 19 milioni di euro a testa la British Library e la Bibliothèque nationale. E oggi, accusa Natalia Piombino dell’Associazione lettori, va perfino peggio: «Niente, niente, niente: non ci sono i soldi per comprare più niente».
Un dato dice tutto. Non una delle nostre biblioteche risulta tra le prime venti del mondo. Neppure una. Non c’è da stupirsi. La stessa Rossana Rummo, direttore generale per le biblioteche, riconosceva nel 2012 tagli «spaventosi»: «Negli ultimi sette anni, lo sviluppo dei servizi informatici è diminuito del 64% e del 93% per la catalogazione. Il budget, rispetto al 2005, è sceso del 63%».
Né le cose, nonostante gli impegni, appaiono molto migliorate: per la gestione ordinaria nel 2015 (lasciamo stare i soldi straordinari: le emergenze sono emergenze) la dote fissata è di 196.397 euro. Commento feroce di Montanari: meno del contributo «che lo stesso ministero ha pensato bene di destinare a Non c’è due senza te , l’ultimo film con Belén...».
Non bastasse, tutte queste biblioteche che funzionano a singhiozzo perché parevano già dispersive nel 1867 all’allora direttore di Firenze Desiderio Chilovi («Le “nazionali” italiane sono per numero sovrabbondanti; giacché lo Stato non è in grado di sopportarne la spesa») stanno infliggendo agli studiosi un supplizio economico e culturale supplementare. Vietano infatti a chi ne ha bisogno di fotografare per proprio conto libri e documenti imponendo a tutti di rivolgersi ad aziende e aziendine convenzionate.
Una gabella. Come spiegano nei loro documenti Mirco Modolo e gli altri animatori del movimento «Fotografie libere per i Beni Culturali», dalle altre parti del mondo non è così.
La British Library, ad esempio, non solo consente a tutti coloro che non hanno scopi di lucro e agli studiosi di «utilizzare i propri dispositivi per fotografare oggetti a scopo di ricerca personale», ma ha messo online su YouTube una spiegazione di come vanno correttamente girate le pagine d’un libro antico e infine («ci rendiamo conto che non vi è un grande vantaggio nel condividere le immagini su Twitter e altri social media»), ha concesso agli utenti di far circolare il materiale: è o non è quello della «British» un patrimonio di tutti? E così si regolano più o meno tutte le altre grandi biblioteche. Dalla Bibliothèque nationale de France alla Deutsche Nationalbibliothek, da quella di Oslo fino a tutte le biblioteche romane degli istituti culturali stranieri. Frequentatissime.
Da noi no. Men che meno negli archivi di Stato. Dopo avere liberalizzato le foto turistiche, infatti, il ministero ha fatto marcia indré . Col risultato che, ad esempio, per aver le foto di venti pagine uno studente che va all’Archivio di Stato di Venezia può essere costretto a pagare 300 euro.
Dettaglio incredibile: il prezzo dimezzato per «riprese digitali b/n da originali». Prova provata che c’è chi si mette al computer per ridurre in bianco e nero le foto originali ovviamente a colori. Ridicolo. E perché mai, questo pedaggio alla Ghino di Tacco contro il quale c’è una rivolta scandalizzata degli studiosi stranieri? Questioni contrattuali. E spilorceria di chi già lamenta di avere poche entrate...
Il bello è che, hanno scoperto i sostenitori del principio «libera foto in libero Stato», un sacco di soldi vengono buttati in una voragine: gli affitti pagati dai 103 archivi di Stato. Quello centrale su tutti: 4.361.858 euro di canone annuale. Quello di Roma città, da quasi un ventennio, 936 mila: per un edificio fatiscente che vale una quindicina di milioni. Quello di Verona, «gentilmente» ospitato da Cariverona, 580 mila: il quadruplo di prima. Totale degli affitti pagati all’anno: 18.807.250 euro. Cioè i quattro quinti (i quattro quinti!) di tutti i soldi dati dal governo.
E pensano di tappare i buchi facendo pagare una gabella sulle foto? Mah...
Repubblica 12.9.15
Renzi: “Ho i numeri Grasso non ferma tutto”
Ancora scontro nel Pd. Niente intese con la minoranza
Bersani: “Non sono scemo, ma l’articolo 2 si cambia”
Chiti: non voto pasticci. Lotti: si discute, poi decide la maggioranza
di Goffredo De Marchis


ROMA Sui numeri e su Grasso sono puntati gli occhi di Matteo Renzi. La riforma costituzionale passa da lì: dalla maggioranza in bilico dei senatori e dalle scelte del presidente di Palazzo Madama. Al Tg1 il premier ostenta il solito ottimismo, corredato da una lista di precedenti favorevoli: «Approveremo la legge come tutti gli altri provvedimenti presentati fin qui dal governo, alla faccia di chi diceva “non ci sono i voti”». Renzi fa l’elenco: «Da tanto tempo, da un anno e mezzo, mi viene detto non avrai i voti: la legge elettorale si è fatta, gli 80 euro ci sono, il Jobs act... E crescono i lavori, sono più stabili. Ce l’abbiamo sempre fatta e sarà così anche stavolta».
Dunque, secondo il segretario del Pd, è solo questione di mettere a fuoco i dettagli. Roba da tecnici. «L’importante è che nelle prossime settimane si chiuda in terza lettura e il prossimo anno saranno i cittadini a dire se questa riforma del Senato va bene o no». In verità, a Palazzo Chigi sono al lavoro sul pallottoliere. Lo saranno anche nei prossimi giorni. Luca Lotti controlla gli spostamenti e non si perde una festa di partito, lui che preferisce stare sempre dietro le quinte. Perchè? Perchè in questo momento il sottosegretario alla presidenza e braccio destro del premier sa di non poter scontentare nessuno, basta che un senatore scenda dal letto col piede sinistro e la riforma rischia. Perciò è cosa buona e giusta accettare gli inviti di tutti quelli che esercitano o potrebbero esercitare un’influenza sulla partita di Palazzo Madama.
I numeri, infatti, non ci sono. O meglio, sono incontrollabili con certezza anche per via della profonda crisi del Nuovo centrodestra, che conta ben 35 senatori. Nella sede del governo si fanno addizioni e sottrazioni. Alla prima voce si aggiungono alcuni possibili fuoriusciti di Sel (Stefàno e Uras), il rappresentante dell’Idv, gli ex grillini e ovviamente i verdiniani. «E nel Pd dice Renzi ai collaboratori - vedo un clima più disteso. I numeri ci sono già, ma io farò lo sforzo di tenere insieme tutti quelli che vogliono stare dentro al percorso».
Per Renzi «la soluzione è già pronta» e lui si può concentrare, assicura, «su crescita, legge di stabiità e immigrazione ». Ma l’altra incognita resta la decisione di Piero Grasso sull’emendabilità o meno dell’articolo 2, quello che stabilisce che i senatori non siano eletti direttamente dai cittadini. Ieri il presidente del Senato ha confermato i suoi tempi: «Mi fa piacere che qualcuno convenga con me che la decisione la devo prendere io. Quando il testo sarà in aula deciderò ». Non è la risposta che speravano i renziani. Una scelta anticipata del presidente avrebbe messo su altri binari la trattativa con la minoranza. Ma Palazzo Chigi ha segnali da Palazzo Madama che autorizzano il sorriso. Al governo risulta che Grasso farà votare il singolo paragrafo dell’articolo modificato alla Camera nelle preposizioni “nei” e “dai”. Stop. Poi autorizzerà soltanto la votazione finale sul articolo. Niente emendamenti. Se fosse questa la scelta finale «per me è ok», dice Renzi ai suoi fedelissimi. A quel punto sarà più facile procedere con il compromesso annunciato. «Credo che alla fine - spiega il premier - la proposta del listino fatta da Boschi e Finocchiaro sia una buona mediazione. Ci stanno in tanti». Se invece si riapre l’intero articolo 2 a modifiche, sono guai. Ma i tecnici di Palazzo Chigi non credono a questa ipotesi. Sarebbe, dicono, un precedente «che apre la strada a cambiare sempre tutto». Cioè, se una copia conforme, ovvero votato in maniera identitica (tranne le proposizioni) dai due rami del Parlamento viene rimessa in discussone si va «contro la logica del bicameralismo perfetto ».
Un voto “controllato” sull’articolo 2 è ciò che chiede la sinistra pd da tempo. Ma non come immagina Renzi. Vannino Chiti dice che le mediazioni uscite finora sono «un pasticcio». Pier Luigi Bersani insiste: «Non sono scemo. Basta blindare una modifica nel Pd. Nessun vaso di Pandora, ci si mette mezzora».
In sostanza, sullo sbocco rimane il muro contro muro, non ci sono passi avanti. Nessuno. Anche senza emendamenti sull’elettività, il pericolo di una spaccatura e di un voto contrario alla riforma può manifestarsi sul voto finale all’articolo 2. E sarebbe la fine di un percorso già molto lungo. «Se l’obiettivo è cambiare l’articolo 2, non ci incontreremo mai. Se, invece, stiamo al merito e interveniamo su altre parti del testo è possibile trovare una soluzione», avverte il capogruppo alla Camera Ettore Rosato e più chiaro di così non potrebbe essere.
Sono in campo anche i pontieri. Che però escludono l’elezione diretta. «Guardiamo al complesso delle innovazioni possibili che si possono condividere oltre l’articolo 2», dice il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina. «Parlo innanzitutto delle funzioni del nuovo Senato che possono essere irrobustite, del suo carattere di camera delle autonomie ancorata alle istituzioni territoriali e della sua conseguente composizione che può essere migliorata e potenziata».
Repubblica 12.9.15
Le tre ipotesi con l’Italicum
Dem in vantaggio nei ballottaggi è sfida con Grillo
di robertpo Biorcio e Fabio Bordignon


ROMA. L’Italicum ancora non c’è: entrerà in vigore alla metà del 2016, e solo per la Camera. Tuttavia, salvo improvvise accelerazioni elettorali, sarà il nuovo sistema a decretare il vincitore delle prossime consultazioni. Per questo è utile interrogarsi fin d’ora sull’esito dell’eventuale ballottaggio, formulando diverse ipotesi di confronto “a due”.
Il Pd è oggi lontano dalla soglia del 40%, utile a “evitare” il secondo turno. Il M5s è, di gran lunga, favorito per conquistare la seconda piazza. Dunque, in base alle regole dell’Italicum, ballottaggio tra il partito di Renzi e quello di Grillo (e Di Maio). Risultato: Pd al 53.4%, M5s al 46.6%. Sette punti di distacco: abbastanza, ma non tanto da far dormire sonni tranquilli al premier-segretario. In questo scenario, il Pd sarebbe penalizzato dalle scelte di molti elettori di destra (oltre il 50%, nel caso della Lega) pronti a dirottare le proprie preferenze sul M5s. Oltre a fare il pieno di voti (70%) nel bacino centrista, il maggiore partito riuscirebbe ad attrarre la maggioranza (relativa) della sinistra radicale e dei forzisti. Il M5s prevarrebbe, però, fra gli under-45 e nelle categorie sociali più in sofferenza (disoccupati, operai, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori). Il partito di Renzi, per contro, staccherebbe gli avversari tra gli anziani, i pensionati e le casalinghe.
Molto più netto, sulla base dei test condotti da Demos, l’esito di uno “spareggio” tra Pd (62.7%) e Lega (37.3%). In questo caso, il partito di Salvini pagherebbe anzitutto le esitazioni di molti elettori di FI: più di quattro su dieci, di fronte all’ipotesi di uno schieramento a trazione leghista, si dicono pronti a confluire nell’area renziana. Nei ballottaggi che non lo vedono protagonista, l’elettorato 5 stelle tende a sua volta a dividersi: un quinto si asterrebbe; la porzione rimanente propenderebbe (ma di poco) per il Pd.
L’ultimo scenario testato prevede il confronto tra il Pd e una lista unitaria formata dai due maggiori partiti di centro-destra: cartello del tutto ipotetico, ancora privo di nome e leadership. Una alleanza forza-leghista potrebbe, ciò nondimeno, ricompattare il bacino di centro- destra (anche se oltre il 40% dell’elettorato Ncd resterebbe fedele al patto di governo con il Pd). Si riprodurrebbe, in parte, la tradizionale competizione fra centro-destra e centro-sinistra, che si aggiudicherebbe il ballottaggio con il 53.9%. La lista di centro-destra otterrebbe il 46.1%, prevalendo tra gli elettori che si collocano a destra del centro, nelle categorie del lavoro autonomo e tra gli imprenditori. Propendono invece per il Pd le aree che vanno dal centro alla sinistra e, in generale, le fasce più istruite della popolazione. In tutti i più verosimili scenari di ballottaggio, dunque, il Pd partirebbe oggi in vantaggio. Ma, sia nel confronto con il M5s sia in quello con una lista di centro- destra, il margine sarebbe esiguo. Al punto da rendere per ora azzardata qualsiasi previsione.
Repubblica 12.9.15
Una fragile stabilità
Stabile al 14% la Lega di Salvini che frena la crescita degli ultimi mesi
Il partito di Berlusconi è invece al minimo da quando è nato: all’11%
Nel centrodestra in ascesa la popolarità di Giorgia Meloni
In salita Pd e premier, cade FI M5S al 27%,massimo storico leadership solitaria di Renzi Immigrati,cala la paura
di Ilvo Diamanti


Il Partito democratico cresce di un punto, tornando sopra quota 33%. Aumenta di un punto anche la fiducia nel presidente del consiglio e nel suo esecutivo In discesa netta anche l’Ncd, il partito di Angelino Alfano che va sotto la soglia del 3%. Anche Sel perde consensi e scende di nuovo sotto il 5%

LA marcia di Matteo Renzi al governo procede senza scosse e senza accelerazioni particolari. Da tempo non riesce più a sollevare entusiasmo. Le speranze, attorno a lui, si sono raffreddate. Ma, per ora, non sembra in pericolo. Le vicende politiche interne e le emergenze esterne - per prima: la vicenda drammatica dei profughi - non hanno indebolito il sostegno al governo. Questa, almeno, è l’idea che si ricava dal sondaggio dell’Atlante Politico condotto nei giorni scorsi da Demos per Repubblica . Oggi, infatti, Renzi appare un leader senza alternativa, anche se è incalzato da opposizioni che hanno basi ampie e radicate. Il PD resta, comunque, il primo partito, fra gli elettori. Conserva il livello di consensi rilevato prima dell’estate. Anzi, lo migliora, seppure di poco. Supera, infatti, il 33%. Seguito, a distanza, dal M5s. Che si avvicina al 27%, il dato più elevato, da quando è sorto (secondo l’Atlante Politico). Dietro di loro, la Lega di Salvini staziona, intorno al 14%. Ma supera, per la prima volta, in modo netto, Forza Italia. Più che per meriti propri, per demerito del partito di Berlusconi, che scivola all’11%. Il minimo da quando, oltre vent’anni fa, è “sceso in campo”, trainato dal suo leader e padrone.
Tra le altre forze politiche, si osserva il declino dei centristi NCD e Udc. Ormai ridotti ai minimi termini (meno del 3%).
Anche il PD di Renzi, in caso di elezioni con il nuovo sistema elettorale, l’Italicum, appare comunque lontano dal 40%. La soglia prevista per conquistare la maggioranza dei seggi al primo turno. Dovrebbe, dunque, affrontare un ballottaggio, nel quale, secondo le stime del sondaggio di Demos, nessuno dei possibili sfidanti sembra in grado di batterlo. Tuttavia, solo nei confronti della Lega il distacco del PD appare largo. Quasi 30 punti. Di fronte al M5s oppure contro un “cartello” di destra, che riunisse Lega e FI, il PD si affermerebbe, ma non di larga misura. Sfiorando il 54%.
Nell’insieme, non si colgono segni di svolta né di grande cambiamento, in questo sondaggio. Semmai, la conferma di una fase di fragile stabilità. Ribadita dagli orientamenti verso i principali leader. Anche in questo caso, Matteo Renzi primeggia. Ma si attesta sugli stessi livelli degli ultimi mesi. Il 42%. È, dunque, il “preferito” fra gli elettori. Davanti a Matteo Salvini, in sensibile calo di gradimento personale. E a Giorgia Meloni. Che dispone di un consenso assai maggiore del proprio partito. È, invece, interessante osservare come Luigi Di Maio ottenga un indice di fiducia superiore a Beppe Grillo, fra gli elettori nell’insieme. Nella base del M5s, il fondatore – e “amplificatore” – risulta, però, ancora il più apprezzato (da circa il 70%). Ma Di Maio, il successore più accreditato, dispone anche qui di un livello di gradimento, comunque, ampio, prossimo al 60%. Segno che il M5s si è, in parte, autonomizzato da Grillo. Comunque, non è più identificato solo con la sua figura. E, probabilmente, anche per questo mantiene una base di consensi molto ampia.
Così, Renzi e il suo governo procedono in mezzo a molte difficoltà, ma non ne sembrano penalizzati in misura eccessiva. Il gradimento del governo, come quello personale del premier, è sceso di oltre 10 punti rispetto a un anno fa. Ma dall’inizio dell’anno appare stabile. E, negli ultimi mesi, perfino in lieve crescita. Sopra il 40%. La valutazione sulle principali politiche del governo, peraltro, non è peggiorata. In alcuni casi, anzi, è perfino migliorata. In tema di lavoro, di fisco. Ma, soprattutto, in tema di immigrazione. Argomento della lettera inviata dal premier a
Repubblica . L’ondata degli sbarchi, l’emergenza dei profughi, negli ultimi mesi, non sembrano aver danneggiato l’immagine del governo e di Renzi. Al contrario. Infatti, la quota di cittadini che vede negli immigrati un “pericolo per la sicurezza” oggi è poco più di un terzo della popolazione. Il 35%. In giugno era il 42%. Le immagini del grande esodo dall’Africa e dalla Siria verso l’Europa hanno modificato il sentimento popolare, oltre che l’atteggiamento di molti leader di governo (per prima: Angela Merkel). Così, alla paura e all’ostilità si sono sostituite l’apertura e la pietà. E se, fino a pochi mesi fa, tra gli italiani gli sbarchi erano considerati un’invasione, da respingere, erigendo muri e barriere, oggi prevale il sentimento – e l’orientamento – di “accoglienza”. Sostenuto da oltre il 60% degli intervistati: ben 20 punti in più rispetto a giugno. Una vera “svolta d’opinione”.
Nella politica italiana, dunque, si annuncia un autunno tiepido. Con un leader solo al comando, circondato da opposizioni che faticano a presentarsi come vere alternative di governo. Il M5s: è canale dell’insoddisfazione popolare. Ma anche soggetto di controllo democratico a livello centrale e locale. La Lega di Salvini: appare sempre più Ligue Nationale. Versione italiana del Front National di Marine Le Pen. Che, tuttavia, si è affermata interpretando le paure degli elettori moderati. Forza Italia, infine, declina, in modo inevitabile e inesorabile, insieme al leader che l’ha inventata. E da cui non può prescindere.
Matteo Renzi, dunque, prosegue la sua marcia. Aiutato dalla ripresa positiva del mercato e dell’economia. Dalla timidezza degli avversari. Visto che l’opposizione più insidiosa, oggi, appare quella “interna” al PD.
Così, il 46% degli elettori, ormai, ritiene che governerà fino alla scadenza naturale della legislatura. Il dato più elevato da quando è in carica.
A differenza del passato, paradossalmente, ciò avviene proprio quando sembra avere smesso i panni del velocista. Del leader ipercinetico, sempre in movimento, una riforma dopo l’altra, un “fatto” dopo l’altro. Mentre, al contrario, ha rallentato la corsa, ridimensionato le pretese. Il linguaggio.
Renzi. Un premier (più) lento, che riflette il sentimento di un Paese stanco. Di miracoli e di promesse.
Corriere 12.9.15
Ma i nemici della riforma sono privi di un «piano B»
di Francesco Verderami


Se il Senato somiglia a un Grand Hotel è perché la modifica del bicameralismo non è solo un problema costituzionale ma è anche un caso di ristrutturazione aziendale che acuisce il nervosismo nel Palazzo, dove nessuno si salverebbe dal taglio di un terzo dei seggi parlamentari. Neanche il Pd.
Così su Renzi e le sue riforme si addensa un’ostilità trasversale. È un miscuglio di obiezioni tecniche e di aspettative personali presenti e future che cova in un pezzo di maggioranza, desiderosa di giocare contro il premier insieme alle opposizioni. Epperò priva di un «piano b», di un’alternativa. Potenzialmente, infatti, la minoranza del Pd e una frangia dei centristi potrebbero far cadere il governo, ma dovrebbero poi disporsi alle elezioni.
L’ipotesi di un Renzi bis infatti non esiste, perché il leader democratico ha pronta l’eventuale contromossa, studiata in questi giorni. Se si rendesse conto di non avere davvero i numeri al Senato sulle modifiche costituzionali, chiederebbe di spostare il voto dopo la legge di Stabilità. Portata a casa la manovra economica, convocherebbe il partito per dotarsi di un mandato, in base al quale il Pd — qualora non dovessero passare le riforme — si renderebbe «indisponibile» a proseguire la legislatura.
E per quanto il Quirinale non voglia elezioni anticipate, senza maggioranza parlamentare si troverebbe costretto a sciogliere le Camere. Altre opzioni, come quella di un governo istituzionale retto da Grasso, è considerato «fantascienza» dagli uomini del segretario dem. A quel punto, il voto con il Consultellum si incaricherebbe di falcidiare quei senatori che proprio facendo saltare le riforme sperano di salvare il seggio: con quel sistema elettorale che prevede una soglia di sbarramento all’8% su base regionale, i centristi — per esempio — potrebbero sperare di ottenere il risultato solo in Calabria e in Sicilia.
È chiaro che la minaccia di Renzi vuole avere solo un effetto deterrente. Ma oggi sono i numeri più che la politica a guidare il gioco delle porte girevoli nel Grand Hotel del Senato, dove c’è chi minaccia di uscire e c’è chi si prepara a entrare. La prossima settimana l’ex ministro berlusconiano Romano, insieme al collega forzista Galati, annunceranno alla Camera l’adesione al progetto di Verdini, portando in dote anche il senatore Ruvolo «in nome delle riforme, sia chiaro, non del governo». Renzi non se ne avrà a male per questa precisazione: a palazzo Madama, nel braccio di ferro con i suoi avversari, quel voto vale doppio.
Resta allora da vedere chi finirà incastrato in questo andirivieni, perché al momento i tentativi di mediazione proposti al premier sono stati respinti. E non solo quelli della minoranza interna. L’altra sera, incontrando Alfano dopo il Consiglio dei ministri, Renzi ha dato prova di aver imparato in fretta da Berlusconi come si gestisce una mediazione, ha riempito di promesse l’alleato — «vedrai cosa farò prossimamente» — ma non ha offerto spiragli prima del voto sulle riforme. A partire dalla disputa sulla legge: «Se lo facessi, farei prima a dimettermi».
Il leader di Ncd deve gestire il malcontento che alligna nei suoi gruppi, dove c’è chi — come il calabrese Gentile — s’infuria per la tempistica di alcuni amici centristi nella contrattazione: «Ma come, nel Pd sono al muro contro muro, e noi diamo l’immagine dello squagliamento? Lasciamo che si veda che i Democratici sono ormai due partiti, e noi diamoci da fare a costruirne uno». Perché il problema è questo, ed è un (grave) problema di linea e di prospettiva, che alimenta il movimento delle porte girevoli e il gioco di chi in Forza Italia lavora legittimamente a far saltare il tappo tra i centristi. Senza offrire in cambio nulla, beninteso: già molti parlamentari azzurri sono in over-booking per la prossima legislatura.
È questa precarietà di prospettiva dei suoi alleati — insieme all’assenza di un «piano b» dei suoi avversari — che induce Renzi a ostentare serenità, a ritenere cioè di poter gestire il Grand Hotel del Senato. Lì, nel vorticoso gioco delle porte girevoli, c’è chi fa mostra di uscire per vedere se invece avrà una stanza per dormire. «Lo dirò solo dopo», ribadisce il premier, quando — assicurato il passaggio delle riforme — stilerà la lista dei buoni e dei cattivi e assegnerà i posti di governo vacanti e quelli delle commissioni parlamentari da rinnovare. Tutto si muove ormai seguendo la logica dei numeri, perché la politica sembra latitare. Ed è proprio l’assenza della politica che potrebbe provocare un colpo di scena, e portare persino all’eutanasia delle riforme. Manca poco per sapere chi resterà incastrato nelle porte girevoli del Senato.
La Stampa 12.9.15
Schermaglie che servono a pesare la forza del governo
diMarcello Sorgi


L’uomo dei numeri ha parlato chiaro: e per qualche ora la giornata politica si è attorcigliata alle dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti, che ha poi dovuto precisare il suo pensiero, per evitare di appesantire il clima già teso della vigilia dello scontro parlamentare sulla riforma del Senato.
Per far passare la riforma ci stiamo rivolgendo a tutti i gruppi parlamentari, compreso ovviamente Verdini: aveva detto solo questo, Lotti, accreditato di aggiornare tutti i giorni la lista dei senatori disponibili a votare. In sé, niente di sconvolgente, o almeno nulla che non fosse già noto da almeno due settimane, se non di più, dato che la scissione da Forza Italia è avvenuta e il gruppo dell’ex-coordinatore berlusconiano è nato con il dichiarato proposito di offrire aiuto a Renzi nel passaggio delicato della riforma.
Ma le parole del sottosegretario sono bastate lo stesso a riattizzare il fuoco che da giorni cova sotto le ceneri dei rapporti interni tra maggioranza e minoranza nel Pd, accentuando i sospetti dei bersaniani che l’offerta di trattare del premier non sia sincera, e Renzi si accinga a far approvare la riforma con i voti di chi ci sta e anche senza ricostruire l’unità del suo partito. Così che Lotti è stato costretto a precisare e a ribadire che la richiesta di appoggio rivolta a tutti i gruppi del Senato non è antitetica alla ricerca della ricomposizione di un accordo interno al Pd.
Polemiche e successivi chiarimenti hanno comunque lasciato invariata una situazione di incertezza che il ministro dell’Interno Alfano non esita a definire a rischio di crisi di governo. Alfano è ovviamente preoccupato per le pressioni centrifughe che hanno spinto una parte dei senatori Ncd a dichiarare che non voteranno la riforma, rendendo più difficili le votazioni in aula, ma le considera mirate, non solo contro il suo partito, ma anche contro Renzi.
Il quale Renzi continua a ostentare tranquillità. Con le difficoltà, che permangono, di trovare un compromesso nel Pd, le crepe emerse nel gruppo parlamentare del principale alleato di governo, il dubbio ancora aperto che in mancanza di un accordo politico il presidente del Senato si risolva a dare via libera alle centinaia di migliaia di emendamenti al testo del disegno di legge Boschi, nonché il rischio ogni giorno più forte che l’iter parlamentare delle votazioni possa sfuggire di mano, con l’effetto di una bocciatura del governo che potrebbe portare a una crisi, davvero non si capisce come faccia il premier a mantenere la sua serenità.
Corriere 12.9.15
Una soluzione «tecnica» per scongiurare la rottura
Gli equilibri Il presidente del Consiglio assicura che ci sono i numeri per approvare il testo su Palazzo Madama ma è obbligato a trattaredi Massimo Franco


Le trincee delle posizioni iniziali non sono state ancora smantellate. Il governo continua ad avvertire che cercherà l’accordo fino all’ultimo nel Pd, senza però escludere di «rivolgerci ad altre forze politiche», nelle parole del sottosegretario a Palazzo Chigi, Luca Lotti. E gli avversari di Matteo Renzi ribadiscono che senza una revisione dell’articolo 2 della riforma, quello sull’elezione diretta o meno dei senatori, non ci può essere intesa. Ma non suona come anticipazione di un epilogo senza accordo.
In realtà la trattativa prosegue: entrambe le parti hanno deciso di doverla tentare. Per questo, nelle ultime ore si è cominciato a parlare di «soluzioni tecniche», insistendo sulla possibilità di trovarne più d’una. È un modo per aggirare gli ostacoli simbolici, e tutti politici, dello scontro prolungato all’interno del Pd. Ne ha parlato il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, lasciando capire che in quel modo non sarebbe necessario toccare l’articolo 2. E ne ha parlato lo stesso premier, con una novità: ieri ha ufficializzato la convinzione di avere i numeri per approvare una riforma controversa.
«Alla faccia di chi diceva “non ci sono i voti”, ce l’abbiamo sempre fatta», ha rivendicato Renzi. «Succederà così anche questa volta». Una premessa del genere serve a dire ai contestatori che la mediazione viene fatta anche se non sarebbe necessaria. Insomma, sono parole che vogliono pesare e condizionare il comportamento degli oppositori. E nascono dalla volontà di spingere quanti sono perplessi dal muro contro muro con Palazzo Chigi a piegare le resistenze degli irriducibili.
D’altronde, quando nella cerchia renziana si spiega di essere contrari alle espulsioni dal partito «in stile Grillo» e in parallelo si chiede alla minoranza di «adeguarsi» alle decisioni della maggioranza, viene consegnato un segnale chiaro. Significa che si cerca l’intesa fino all’ultimo. Si punta all’unità del Pd come accadde quando si trattò di eleggere il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Ma se quell’operazione fallisce, la resa dei conti sarà inevitabile. Un simile atteggiamento lascia pensare che la verità sia più sfumata di quella assertiva evocata da Renzi: nel senso che le certezze sui numeri non sono così scontate.
Oltre ai dissidenti del Pd ci sono anche quelli del Nuovo centrodestra, scontenti della piega strategica che sta prendendo l’alleanza tra Angelino Alfano e il Partito democratico, che sottolinea l’impatto positivo delle riforme a livello internazionale. E le continue riunioni di deputati e senatori del Pd sembrano fatte apposta per testimoniare l’intenzione di non rompere. Renzi sa che la rete di sicurezza gettata dalle istituzioni per garantire la stabilità non solo regge: si è rafforzata negli ultimi giorni. Il problema è che nessuno la buchi con parole e toni fuori luogo .
Corriere 12.9.15
La breccia nel fronte dei dissidenti
C’è chi non vuole arrivare alla battaglia finale
di Marco Galluzzo


ROMA Solo a chiedere ovviamente si crea una sorta di panico: «Per favore non scriva quello che le sto dicendo, non aiuta le trattative», dicono ad esempio coloro che nella maggioranza tengono i conti di un immaginario pallottoliere e incrociano le dita.
I conti sono quelli del Senato e della più o meno refrattaria pattuglia della minoranza dem: secondo Renzi la riforma passerà, al massimo «entro tre settimane» dovrà andare in Aula, alla fine l’auspicio di Palazzo Chigi e del gruppo dirigente del partito è che i 28 irriducibili dell’articolo 2 (sistema di elezione del nuovo Senato) diventino molti meno, 18, magari 15, chissà.
A reggere le fila delle trattative riservate sono in tanti, renziani, ex lettiani, governativi e non. Dall’altra parte ci sono quelli che vengono considerati «irriducibili», da Chiti a Gotor, da Corsini a Mucchetti, senatori da cui nessuno si attende una sorpresa, un’apertura alle ragioni del governo che sostiene l’impossibilità di rimettere in discussione l’elezione indiretta dei futuri senatori, già confermata da due votazioni.
Poi, anche se nessuno ha ancora fatto ufficialmente un passo indietro, ci sono coloro che vengono giudicati «aperturisti», passibili di riconsiderare nel merito l’impianto della riforma, di contemperare funzioni e garanzie della futura seconda Camera (ed eventuali modifiche sui punti, come offrono il ministro Boschi e il capo del governo) insieme al sistema elettivo come già emerso dai lavori parlamentari, lasciandolo dunque intatto.
E qui si entra in un’area che al momento è in movimento ufficioso ma non ufficiale, silenzioso, che solo a chiedere i nomi, visto che è in gioco la legislatura, si creano imbarazzi, reticenze, persino paure. Claudio Micheloni e Renato Turano, entrambi pd ed entrambi eletti all’estero, uno residente negli Stati Uniti e l’altro in Svizzera, vengono incasellati in una nicchia di senatori che alla fine potrebbero ritenere non così fondamentale una battaglia sul sistema elettivo.
E a loro vengono associati altri, come l’anziano filosofo Mario Tronti o Luigi Manconi, o ancora l’emiliano Claudio Broglia, sindaco del comune di Crevalcore, e ancora la piemontese Patrizia Manassero. Ovviamente al momento tutti negano tutto, soprattutto i diretti interessati: i precedenti richiamano episodi della stagione berlusconiana e cambi di casacca, anche se in questo caso gli argomenti di merito, i pareri dei costituzionalisti, l’autorevole opinione di Anna Finocchiaro — che non si stanca di ripetere che «il minimo è l’unità di partito» — lasciano ampi spazi di movimenti squisitamente politici.
Poi ci sarà, e sarà dirimente, dopo il lavoro della Commissione, al momento dell’arrivo in Aula del testo, la decisione di Pietro Grasso, il presidente del Senato: se la seconda carica dello Stato dovesse giudicare inemendabile l’articolo 2, visto che ci sono già state (tesi della maggioranza) due votazioni su un testo che avrebbe solo lievi differenze, ovviamente coloro che oggi vengono dati per «aperturisti» avrebbero una ragione in più per staccarsi dal dissenso della minoranza.
A meno che alla fine, come ancora auspicano in tanti, la frattura politica non si ricomponga, Bersani ci ripensi e l’unità del partito cui si è appellata la Finocchiaro dall’ Unità venga preservata. Troppo tardi? Vista la posta in gioco, i riflessi sul partito di un’eventuale spaccatura, sembra di no. «Il primo a sapere che una divisione sull’elettività del Senato non si spiega a nessuno è proprio Bersani», dicono a Palazzo Chigi.