sabato 9 dicembre 2006

l'Unità 9.12.06
«Comunismo, la modernità che ha fallito»
di Bruno Gravagnuolo


GRANDI OPERE A colloquio con Silvio Pons che ha curato assieme a Robert Service il Dizionario Einaudi dedicato al movimento scaturito dalla Rivoluzione di Ottobre del 1917

Una forza immensa che nascondeva una debolezza
estrema. Qui il vero enigma

Comunismo, lo spettro si aggira tra le macerie, oltre che tra libri, riscoperte (di Marx), revivescenze utopiche sotto forma di globalismo no global, contumelie e allarmi strumentali della destra. Colpisce perciò che in questo clima ci siano due studiosi che con energia quasi giacobina si siano presi la briga di convocare un centianaio di loro colleghi, tra i migliori storici su piazza. Per metterli a consulto sul comunismo storico, per quello che esso fu. Il consulto in due volumi di cui il primo esce ora si chiama Dizionario del Comunismo (Einaudi). Sono 400 lemmi, e cento firme prestigiose, coordinate dai due giacobini: Silvio Pons, direttore del Gramsci e storico dell’Europa orientale e Robert Service, celebre specialista di Lenin, Stalin e guerra fredda. Dentro, almeno nelle intenzioni, tutto il «fenomeno», articolato in personaggi, slogan tipici, istituzioni, elementi di costume e mentalità, eventi, concetti. E che ne vien fuori? Un primo responso: il comunismo come «modernizzazione fallita» e sistema di stati. Generato dal contraccolpo della prima guerra mondiale. Insomma una soluzione integrale della vita, che generò stati nazionali e stati di potenza. Una forzatura potente dell’ordine del mondo, e nondimeno debolissima, dal destino segnato. Discorso ambizioso, analitico. E fondato però su una domanda giusta: perché - oltre a rinascere oggi qua e là- il comunismo è durato così a lungo? Sentiamo Silvio Pons
Comunismo: fenomeno mondiale e unitario e non insieme di varianti nazionali. Questa la prima scelta del vostro Dizionario. È così?
«Sì, è vero. Ed è questo il presupposto per capire le articolazioni storiche del fenomeno, singolarmente incomprensibili. In tale uinitarietà la prima matrice è quella sovietica, sia nella genesi russa del 1917, sia nel carattere di guida e modello assunto dal Pc russo, attorno a cui visse un movimento internazionale».
Dunque rottura col socialismo europeo e carattere di spartiacque dell’ottobre 1917?
«Storicamente fu così, la continuità ideologica col socialismo viene spezzata da una cultura politica autonoma, il comunismo appunto. Che ha sempre rivendicato con radicalità tale originalità a sua volta incentrata sull’Urss. Senza l’Urss non vi sarebero stati i Pc né il movimento comunista»
Un’altra matrice nel Dizionario è la prima guerra mondiale. Emerge in molte «voci» - Rivoluzione, Gramsci, Imperialismo- come crisi d’epoca, a cui fa seguito il contraccolpo comunista...
«Non c’è dubbio, benché il nostro non sia un lavoro genealogico ma un tentativo analitico che punta alla lunga durata, al dopo. E che fotografa gli elementi portanti del comunismo. Istituzionali, economici, politici, di mentalità. In primo luogo però abbiamo evitato sia l’approccio ideologico - comunismo come utopia al potere - come in Naeckridge. Sia quello criminale, tipo “libro nero”. Anche se del terrore, del gulag e delle carestie si parla eccome nelle varie voci, come pure di ideologia e cultura politica, ma sempre nelle singole voci. Direi che il principale elemento unificante, concettualmente, è quello della “modernità alternativa” incarnato dal comunismo»
Risposta totale collettivista dentro la modernità ai mali della modernità, tra guerre, economia globale, e imperalismo?
«Sì, il comunismo è un paradosso. Sta totalmente dentro la modernità, senza riuscire a liberarsi dal suo mito. È il paradigma della modernità assunto nella sua chiave assiomatica e assoluta. Primitiva, totalitaria e unilineare»
C’è anche un confronto tra totalitarismi diversi che si rispecchiano a vicenda?
«Abbiamo inserito le voci Hitler, Mussolini e fascismo. Senza privilegiare le teorie del totalitarismo a vantaggio di altre, sebbene vi siano autori dell’uno o dell’altro indirizzo. Il Dizionario storicizza il comunismo come fatto unitario, ma non rivendica una chiave universale e risolutiva. Piuttosto, scompone il fenomeno nei suoi ingredienti portanti e da molteplici angolature»
C’è però un responso unitario: il fallimento del comunismo. È così?
«Senza dubbio, questo giudizio emerge. Una risposta fallimentare alla modernità. A partire dalla stessa voce “modernizzazione”. Fotografiamo un declino irreversibile, che attraversa tutto il secolo e che si intravede sin dalle basi di quel tentativo. Basi fragili o forzose, prive di risposte ai problemi della modernità, a cominciare dal tema dello sviluppo economico».
Non sopravvive almeno il tentativo, in singoli casi, di promuovere nazionalità e sviluppo, a partire dal sottosviluppo?
«Questo tema ha dato alimento al comunismo, ma alla fine anche lì c’è il fallimento, mascherato a lungo dalla politica di potenza sovietica, che però ha compresso altre nazionalità. In parte questo discorso vale per la Cina, che tuttavia migra altrove dal punto di vista economico sociale, e fuoriesce dal comunismo. Anche chi come Gorbaciov voleva riformare il comunismo inoltre, non si è mai rassegnato all’obiettivo nazionalista, che di per sé rappresenta un fallimento della promessa comunista. Gorbaciov non poteva seguire la via cinese, nazionale. Proprio perché anche lui era figlio della tradizione comunista, benché volesse revisionarla da cima a fondo. E l’Urss non poteva divenire nazionalista senza rinnegare se stessa. Che il comunismo abbia lasciato strutture statali, è innegabile, ma ormai esse si inscrivono in un altro orizzonte, opposto e diverso rispetto al comunismo».
Parliamo di «controfattualità». Di scenari alternativi a ciò che avvenne. Colpisce, in «Bolscevismo» di Service, l’azzardo della rivoluzione di Lenin...
«Sì, è una visione che condivido. Molto fu legato alla straordinaria capacità di Lenin, di “forgiare” e convincere, dentro la catastrofe della guerra. Un tratto, quello catastrofico ed emergenziale, che accompagnerà sempre la mentalità comunista: la modernità capitalistica come catastrofica. La guerra come fatto latente, come spettro. La guerra civile, le contraddizioni che si intensificano. Di qui anche l’idea della modernità alternativa alla catastrofe»
Veniamo a Berlinguer, a cui lei dedica una voce. Teorizzò «l’esaurimento della spinta propulsiva», nel 1982. Ma era un modo di salvare in pieno il «Dna» originario del comunismo. Stava qui il problema Berlinguer?
«Sì, quella è la contraddizione di Berlinguer. Nobile e tragica a suo modo. È il problema del comunismo riformatore, che è cosciente del declino e che cerca di dare una risposta senza fuoriscire dalla tradizione, pur spingendola agli estremi limiti. Politicamente la spinta propulsiva finisce almeno nel 1920, con la Nep e il fallimento della rivoluzione in Germania. E storicamente si estingue già di fronte alla guerra civile, rinfocolata dal comunismo di guerra. Che voleva passare alla produzione e alla distribuzione comunista. E però, mentre la spinta propulsiva si esaurisce subito, fu l’antifascismo a rilegittimare il comunismo. Berlinguer, attraverso Togliatti, viene di lì. Il comunismo riformatore di Berlinguer va di pari passo con l’indebolirisi della legittimazione antifascista che proviene dalla seconda guerra mondiale. Dalla “rivoluzione democratica e antifascista”, per intendersi».
Ma fu l’antifascismo a riconvertire democraticamente il comunismo italiano, non crede? Insomma, ruolo virtuoso dell’antifascismo...
«Senza dubbio, ma il prodotto staccato dalle origini, e teso a cambiare pelle senza poterlo farlo fino in fondo, crea il vero problema. Insomma, la mutazione in Berlinguer non può andare oltre. E mutatis mutandis è lo stesso problema di Gorbaciov...»
In sintesi, che resta di questo cumulo di macerie?
«È un po’ presto per un bilancio di questo tipo. Noi stessi non ci azzardiamo a farlo. Il comunismo non ha lasciato eredità pari alle altre rivoluzioni della modernità, americana e francese, ed è rimasto ai margini...»
In sintesi, restano l’esperienza di un fallimento, un patrimonio di critiche del capitalismo, vestigia statali e nazionali e un certo stimolo in occidente al Welfare state e ai diritti. È così?
«Sì, ma tutto questo significa “eterogenesi dei fini”. Vale a dire risultati diversi da ciò che il comunismo voleva conseguire. Tuttavia ciò è tipico di ogni rivoluzione. Nel caso comunista questo destino è stato estremo. E aggiungo: il comunismo ha rafforzato il suo antagonista, lo ha potenziato, anche modificandolo»
Si può dire avesse ragione il vecchio Kautsky: parabola radicale e violenta destinata a ritornare verso il socialismo classico?
«Occorre essere cauti, perché la storia è sempre imprevedibile. Si può dire che Kautsky avesse molte ragioni e molti argomenti. Ma poca forza politica per far valere quegli argomenti. E allora bisogna anche chiedersi perché Kautsky, come i menscevichi, furono sconfitti, malgrado le loro ragioni, in quel tornante drammatico segnato dalla prima guerra mondiale. E perché, malgrado tutto, il comunismo è durato così a lungo. Lo dico con un ossimoro: una forza intimamente debole. Dove la forza di potenza imperiale ha nascosto a lungo i germi della dissoluzione. Ed è una cosa ancora da spiegare a pieno. Un enigma a dipanare il quale tutte le buone ragioni esibite dagli avversari del comunismo non sono bastate».

l'Unità 9.12.06
«Egoisti o altruisti si nasce» dice uno studio americano
La rivista Science: la sopravvivenza della specie umana non premia solo il più forte ma anche il più generoso
di Bruno Marolo


Washington. L’altruismo è genetico, gli esseri umani sono generosi o avari ancora prima di nascere. A questa conclusione è arrivato il professor Samuel Bowles, un ricercatore del New Mexico che insegna economia in Italia all’università di Siena. L’articolo, pubblicato sulla rivista specializzata americana «Science», espone una teoria secondo cui l’evoluzione umana non è basata soltanto sulla sopravvivenza del più forte o del più adatto, ma del più generoso.
Il professor Bowles non è un biologo e non ha individuato il gene della generosità. Sostiene la sua teoria con una complessa elaborazione di dati sul clima e sulle condizioni di vita di 150 mila anni fa. Una verifica contemporanea è stata fatta attraverso lo studio di popolazioni come gli eschimesi o gli aborigeni australiani, che si procurano il cibo come gli uomini primitivi: non coltivano la terra, ma cacciano e raccolgono frutti selvatici.
Le tribù competono tra loro per la sopravvivenza, e i ricercatori hanno hanno accertato che alla fine prende piede il gruppo di individui più generosi e disposti ad aiutarsi tra loro.«In ogni società - sostengono i ricercatori - gli esseri umani hanno fato sacrifici per aiutare i loro simili senza aspettarsi un compenso. Per esempio noi facciamo l’elemosina ai poveri e ci prendiamo cura dei malati. In natura questo comportamento è rarissimo, a meno che non ci siano vincoli di sangue o speranze di essere ricambiati».
Il professor Bowles ha esaminato le differenze genetiche tra i gruppi umani presi in considerazione: la tribù in cui uomini e donne si aiutano tra loro sopravvive alle avversità e trasmette ai discendenti le caratteristiche che l’hanno resa forte.
«L’altruismo - affermano i ricercatori - comporta un costo personale. Chi divide il cibo con gli altri si priva di qualcosa che avrebbe potuto tenere per sè, ma la tribù diventa più forte e più unita grazie alla sua generosità». Per esempio, secondo il professor Bowles, in caso di guerra fra tribù il combattente con una gamba rotta muore di fame se abbandonato a se stesso, ma se i compagni lo nutrono e lo curano la tribù ha maggiori probabilità di vittoria.
L’articolo su Science è accompagnato da un commento di Robert Boyd, un antropologo dell’università della California autore del libro. «Non soltanto i geni: come la cultura ha influenzato l’evoluzione umana».
«La teoria del professor Bowles - scrive il commentatore - può spiegare la continuità dell’altruismo dei popoli, ma non è ancora chiaro se basti a spiegare la sua origine. L’ipotesi di Bowles è in accordo con il presupposto che le persone abbiano motivazioni sociali innate, e questi sentimenti siano rafforzati dall’appartenenza a un gruppo. Si tratta di questioni annose ma importanti, e il lavoro empirico svolto da Bowles ci aiuterà a trovare le risposte».

l'Unità 9.12.06
Violenza sulle donne: questione di cultura
Cecilia D’Elia*, Katia Zanotti**


La violenza maschile contro le donne è fatto antico e come tale ha una sua storia. Attraverso il tempo e nelle diverse società i confini di ciò che viene denominato come violenza sono mutati a seconda della percezione che gli uomini e le donne hanno avuto di questo fenomeno. Questo è infatti un potente indicatore dello stato delle relazioni tra i sessi, del tipo di civiltà in cui si vive. Non a caso attraversa società tra loro diverse, quelle nelle quali i diritti delle donne sono stati riconosciuti, come quelle in cui il diritto è ancora territorio del dominio maschile.
Oggi sappiamo che è la prima causa di morte per le donne di tutto il mondo. Se possiamo denunciarla come tale è perché dalla seconda metà del secolo scorso, le donne hanno cominciato a dire che il loro corpo è inviolabile. Il paradosso è proprio questo: oggi possiamo illuminare la scena attraversata dalle migliaia di vittime della violenza maschile, dalla violenza domestica agli stupri operati dal nemico in tempo di guerra, perché quelle stesse vittime si sono fatte soggetti.
Le vittime hanno fatto la loro mossa. Ciò che non torna, che rimane non detta e occultata è la risposta maschile. Per questo comprendiamo chi dice che la violenza è un problema degli uomini. Per questo, a dieci anni dall'approvazione della legge contro la violenza, frutto di ben diciassette anni di mobilitazioni, discussioni e divisioni anche tra le donne, ci chiediamo e chiediamo se il deficit da colmare, il punto da cui ripartire, sia ancora la produzione di norme penali.
Contro la violenza c'è necessità di un progetto organico di intervento che sia in grado di contenere, ad esempio, la formazione all'eguaglianza dei generi fin dalla scuola primaria, l'informazione, la costruzione di una rete dei servizi sociali e di accoglienza per le vittime, la valorizzazione e il riconoscimento della importante rete dei centri antiviolenza, la relazione forte con il movimento e l'associazionismo delle donne in tutte le sue articolazioni e differenze. Affidare alla esemplarità della punizione la soluzione di un fenomeno che riguarda i rapporti che gli uomini hanno con le donne, che riguarda lo spaesamento maschile di fronte alla libertà guadagnata del genere femminile, rischia di dare parzialità di risposta ad un fenomeno, quello della violenza contro le donne, che non consente parzialità di lettura, perché in gioco è la qualità della civiltà in cui viviamo.
Servono politiche a sostegno delle vittime, a partire dalle pratiche che le donne delle associazioni e degli enti locali hanno messo in campo in questi anni, centri antiviolenza, sostegno legale, costituzione di parte civile delle istituzioni nei processi per stupro, reinserimento sociale e lavorativo delle donne in difficoltà. Dunque ben venga un Osservatorio nazionale sulla violenza e il piano di sostegno ai centri Serve soprattutto imporre al discorso pubblico la questione del controllo sul corpo femminile, campo di battaglia che attraversa il fatidico scontro di civiltà, ne mette in discussione i confini e la reale posta in gioco.
Se problema di ordine normativo si pone, a parer nostro riguarda il pieno riconoscimento della soggettività femminile, che è fatto culturale, simbolico e anche giuridico. Abbiamo misurato in questi anni quanto è difficile inscrivere l'habeas corpus femminile nel contratto sociale, che non può darsi senza inviolabilità del corpo femminile e il riconoscimento della libertà e della responsabilità nella procreazione. Dovremmo partire dal mutare le leggi che negano questo, a cominciare dalla legge 40 sulla procreazione assistita. Una delle condizioni di forza per tutte noi sta nella ritessitura della tela della relazione tra donne, dentro e fuori le istituzioni, a cominciare da quelle nel governo e nel parlamento.
* consigliere Provincia Roma
** deputato Ulivo

l'Unità 9.12.06
La morale del senso comune
di Carlo Flamigni


Il rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese, recentemente reso noto dal Censis, riferisce una serie di dati molto interessanti su cosa pensano gli italiani in merito ad alcuni di quelli che vengono indicati come «temi eticamente sensibili». L’idea complessiva che se ne trae è che la nostra società si orienti progressivamente verso un liberalismo prudente, molto più influenzato dal senso della morale comune che dalle ideologie religiose, un fenomeno che gli studiosi di storia della morale considerano inevitabile e del quale molti amministratori politici del Paese non sembrano conoscere l’esistenza.
Chiedo al lettore la pazienza di scorrere con me i dati più interessanti di questa indagine.
La maggioranza delle donne italiane (59,8%) è favorevole all’interruzione volontaria della gravidanza; tra le cattoliche praticanti questo consenso è certamente minore (49,4%), ma è comunque superiore al dissenso (46,5%). Meno netta è la posizione a favore dell’impiego della pillola abortiva (49,5% a favore e 44,5% contrarie).
Quando l’argomento è quello del controllo delle nascite, si ha la netta sensazione che l’antico (e un po’ ossificato) tabù della «dignità della procreazione» non rappresenti più un riferimento etico per le cittadine di questo Paese: l’89,7% delle interrogate si sono dichiarate favorevoli alla contraccezione sicura (85,5% delle cattoliche praticanti), il 70,2% approvano la pillola del giorno dopo (61,3% delle cattoliche praticanti) e ciò malgrado la consapevolezza di una forte contrarietà manifestata dal magistero ecclesiastico. Inoltre quasi il 75% delle donne approva la procreazione medicalmente assistita ed esiste anche una maggioranza relativa di interrogate (48,7% contro il 42,8% di contrarie) che è esplicitamente in favore della donazione di gameti: la quota di persone favorevoli è tra l’altro in netto aumento rispetto ai risultati di analoghe inchieste eseguite negli anni precedenti.
Questa evoluzione (il mio non è in questo momento un giudizio morale, ma solo una valutazione numerica) si rileva anche a proposito dell’eutanasia: nel 2003 le persone favorevoli e quelle contrarie si equivalevano in misura quasi imbarazzante, mentre oggi si dichiarano favorevoli all’interruzione di tutte le terapie mediche in caso di patologie gravi il 57% dei cittadini interrogati.
E ancora: 70% di donne favorevoli all’uso della pillola del giorno dopo; 53,3% di risposte in favore dell’utilizzazione degli embrioni umani per la ricerca scientifica, un dato particolarmente interessante se si pensa che nel 2002 quasi il 70% delle persone si erano dichiarate contrarie.
Non sarebbe male se su questi dati si aprisse una discussione, ignorarli sarebbe un grave errore. La prima cosa che voglio sottolineare è che questa è la morale di senso comune, lenta a modificarsi, sempre timorosa del nuovo, ma comunque sensibile all’intuizione dei vantaggi che possono derivare dalle conoscenze possibili, una volta che sia ben chiarita l’assenza di rischi. Sollecitata da queste intuizioni, la società ha sempre modificato, sia pur con estrema lentezza, il suo atteggiamento prudente: l’accelerazione che si può notare da questa ultima analisi del Censis si può interpretare come il risultato dei due anni di discussione e di promozione culturale che hanno fatto seguito all’approvazione della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. È evidente tra l’altro che, almeno secondo questi dati, il Paese non è per nulla in favore della posizione cattolica e delle norme proibizioniste che il magistero è riuscito ad ispirare, e che la mancata partecipazione al voto referendario è dovuta ad altre motivazioni e richiede una interpretazione più complessa di quella che è stata strumentalmente proposta.
La seconda considerazione che desidero fare riguarda la sempre più evidente divaricazione tra gli amministratori della cosa pubblica e il Paese reale. La maggioranza non riesce, in Parlamento, a evitare che un piccolo gruppo di cattolici integralisti, forti della sponda offerta loro da alcuni dei più influenti tra i nostri uomini di governo, riesca a influenzarla, impedendo l’approvazione di un insignificante emendamento sulle coppie di fatto e inducendola a impegnarsi in ipoteche temerarie di un futuro assai poco garantito. Tutto ciò in difesa di un «principio famiglia» al quale gli italiani dimostrano di credere ogni giorno di meno e in opposizione all’evidenza di una progressiva accettazione dei principi di responsabilità. La discussione sull’eutanasia finisce col confinarsi quotidianamente nei vicoli ciechi della morale cattolica (intesa nel senso più conservatore) che considera imprescindibile il privilegio della sacralità sulla qualità della vita e non prende neppure in considerazione l’idea, eppure molto diffusa, secondo la quale ogni uomo dovrebbe essere padrone e arbitro della propria esistenza, considerata invece un generoso dono divino, tutti dogmi che potrebbero essere facilmente superati se solo se ne esigesse la definizione. Alla presidenza del Comitato Nazionale per la Bioetica un cattolico succede a un cattolico, come se in Italia non esistessero bioeticisti laici capaci di assicurare una alternanza dignitosa. Eppure il Paese, come abbiamo visto, va in una direzione diversa.
Qualcuno potrebbe farmi osservare, e io non potrei dargli torto, che il nuovo presidente del CNB potrebbe rivelarsi altrettanto laico, quanto avrebbero potuto essere Stefano Rodotà o Eugenio Lecaldano. Questo è naturalmente anche il mio auspicio, anche se ritengo che non sarà semplice imporre al Comitato il cambiamento di rotta che molti di noi ritengono indispensabile. In realtà questo è un problema che va analizzato partendo da lontano, anche se per ragioni di spazio sarò costretto a riflessioni sin troppo frettolose.
A me pare che, tra le molte scelte possibili, oggi la Chiesa cattolica italiana abbia fatto quella di dimostrare al mondo di essere l’unica depositaria della verità. Impegnare tutte le proprie forze nel sostegno di questa “etica della verità” avrà sicuramente grandi ambizioni e potrà assicurare - con un po’ di fortuna - altrettanto grandi successi, ma non è privo di inconvenienti: ad esempio, porta inevitabilmente i cattolici a scontrarsi con altre verità, spesso non meno dogmatiche e non meno sicure di sé (si pensi alle recenti diatribe con i musulmani, apparentemente ricomposte, ma probabilmente destinate a riaccendersi). Una seconda ragione di scontro potenziale mi sembra dovuta alla necessità che qualsiasi etica della verità si confermi, nella società, attraverso l’ispirazione di specifiche norme di legge: in alcuni Paesi questo non è neppure necessario perché esiste coincidenza tra verità religiosa e legge; in altri ciò è possibile solo se il potere religioso ha sufficiente influenza politica, tale comunque da indurre a ignorare i valori della laicità dello Stato. E questo mi sembra proprio il nostro caso.
È a questo punto che interviene la bioetica. Credo che sia noto il fatto che esistono due tipi di bioetica, una bioetica normativa e una bioetica descrittiva. La prima propone le differenti interpretazioni, le mette a confronto, stabilisce maggioranze e minoranze, propone le interpretazioni vincenti confinando l’opinione dei perdenti in codicilli illeggibili e generalmente ignorati, prepara , insomma, le norme etiche giuste per un Paese che abbia già scelto di accettarle. La seconda si comporta come un laboratorio di etica, considera irrilevanti le maggioranze e le minoranze, chiarisce, interpreta, aiuta a capire. Non c’è bisogno che io dica che la mia simpatia va tutta a questa seconda interpretazione della bioetica: parlare di maggioranza e di minoranze quando si dibattono problemi morali è scorretto; attribuire peso a una maggioranza artificialmente precostituita (e altrettanto spesso sensibile a pressioni più o meno esplicite) non ha senso.
Tutto ciò, naturalmente, non ha niente a che fare con il dovere di ogni buon cittadino laico di rispettare le religioni, tutte le religioni. Con un unico commento: l’etica della verità mi intimorisce e mi respinge e certamente le preferisco una morale basata sulla compassione. In una società fatta di persone spesso moralmente estranee è arrogante considerare chi la pensa diversamente da noi come fratelli che sbagliano; in un mondo condizionato dalla sofferenza, sapere che altri condividono il tuo dolore aiuta a sopportarlo.

l'Unità 9.12.06
Coppie di fatto: tabù o realtà?
di Aurelio Mancuso


Perché il tema del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto continua ad essere al centro del confronto politico italiano? Se lo chiederanno in molti, anche dentro le aule del Parlamento. Il tema è sensibilmente cresciuto nella coscienza dell’opinione pubblica italiana, perché nella concretezza della vita quotidiana, sempre più si incontrano famiglie formate da persone non sposate. Questo è molto vero nelle zone del nord del paese, dove per esempio, la convivenza non è più una condizione minoritaria, ma assume i connotati di un fenomeno sempre più vasto, che si esplica dentro i grandi centri urbani, ma anche nei vasti hinterland del nord ovest, come nel nord est. Cresce, quindi, una prossimità al tema, che non tiene conto del dibattito tutto ideologico che si consuma tra i partiti e dentro di essi. Ed invece la convivenza, ma di più un’idea moderna dell’organizzazione familiare vive già, (sia essa omosessuale od eterosessuale) seppur con diverse intensità tra le varie zone e condizioni del paese, con naturalezza e serenità. Il moderno modello di società può essere sicuramente avversato e criticato da molti teorici “neocon” e “teodem”, però bisogna sapere che ora si è aperta una questione squisitamente politica, che non può essere affrontata con pavidi tentativi di mediazione al ribasso o di occultamento. Se l’istituzione familiare assume, per evoluzione non favorita da alcuno, connotati profondamente diversi dalle volontà culturali e politiche conservative, entra in gioco un elemento che deve far riflettere: la negazione stessa di una democrazia dei modelli, si configura come un atto di autoritarismo della classe politica italiana. Per approfondire, l’articolazione familiare, dopo i grandi mutamenti avvenuti con l’introduzione della legge sul divorzio e della riforma del diritto di famiglia, approvati grazie al ruolo svolto dai grandi movimenti di liberazione sessuale e di conquista della cittadinanza civile, si è evoluta rispetto alla formulazione Costituzionale. Anche se già nel 1946 nei lavori della Costituente il tema delle «famiglie irregolari» e di un loro riconoscimento giuridico, fu sollevato dalle donne della DC, che ben conoscevano, avendo grande radicamento sociale, il dramma delle migliaia di «dame bianche» italiane. Allora, per essere pazienti e moderati, di cosa oggi stiamo discutendo con la senatrice Paola Binetti? Della possibilità che la famiglia torni ad essere un unicum patriarcale, dove il dominio della soggettività e del corpo femminile sia l’architrave principale, in nome di un «naturalismo» fuori dal tempo e dalle determinazioni scientifiche? Il matrimonio inteso come unica possibilità di affrancarsi dalla zona nera della clandestinità è inconcepibile per la destra moderata europea, può essere giustificato dalle culture comunitarie e di tradizione solidaristica italiane? Ma tornando all’elemento centrale, che attiene al vissuto concreto delle persone, una classe politica nemica della libertà dei legami affettivi, si prefigurerebbe oltre che come dispotica sul piano dell’etica pubblica, come un vero e proprio ostacolo nei confronti dei processi organizzativi della società e, incorrerebbe in gravi errori strumentali in materia di politica del Welfare, dello sviluppo economico e finanziario, sul terreno della previdenza e giustizia sociale. Il tema oggi, è che la difesa della famiglia, come cellula «naturale» della società, se avviene ribadendo l’esclusività matrimoniale, rischia oggettivamente di favorire la disgregazione sociale e l’ampliamento di un baratro delle condizioni di vita tra segmenti sociali privilegiati e tutelati e gli altri cronicamente precarizzati e in balia dell’assenza del diritto. Una faccenda preoccupante anche per le gerarchie cattoliche più conservatrici, perché interpella l’incapacità di intravedere nei processi della comunione degli affetti, della cura, delle responsabilità, non istituzioni nobilitate dalla legge, ma valori che vivono nella carne e nell’anima delle persone. La democrazia e, non la rivoluzione, è il termine da cui partire per un confronto serio. Come donne e uomini del terzo millennio ci adoperiamo per il dispiegarsi di famiglie democratiche, aperte all’interno e all’esterno, capaci di guardare negli occhi il futuro, dove l’amore, la passione, la condivisione siano i valori portanti, tra persone eguali, con pari dignità.

Repubblica 9.12.06
Dalla parte delle madri
Un saggio della psicoanalista Sophie Marinopoulos sulla maternità oggi
di Umberto Galimberti


Il rapporto con un figlio è d´amore ma anche di odio e spesso vissuto in solitudine
La retorica dei buoni sentimenti occulta l´ambivalenza che è in noi
Tutto si complica per le trasformazioni che ha subito la famiglia ora troppo isolata
La natura vuole che a generare si sia in due e non solo nel concepimento e nel parto

«Apolline aspetta un figlio, si sente strana, diversa rispetto alle altre gravidanze. Eppure il medico non ha dubbi: è tutto a posto. Il bambino cresce bene e tutti gli esami sono rassicuranti: ma Apolline è inquieta, come se si trattasse del primo figlio. Le sembra di non sapere niente del parto e di quello che viene dopo. Ha vissuto questi ultimi mesi come se dovesse affrontare qualcosa di ignoto, non osando confessare a chi le sta vicino che ha dei sentimenti strani riguardo a questa nuova maternità».
Così prende avvio il libro di Sophie Marinopoulos, psicologa clinica e psicoanalista, che esercita a Nantes presso il reparto maternità del centro ospedaliero universitario. Il libro titola Nell´intimo delle madri. Luci e ombre della maternità (Feltrinelli, pagg. 182, euro 13,00). La tesi è che l´amore materno non è mai solo amore, perché ogni madre è attraversata dall´amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull´amore, e anche se non si arriva ai casi di infanticidio (il cui ritmo inquietante più non ci consente di relegare queste tragedie nella casistica psichiatrica e qui liquidarle nel perfetto stile della rimozione), l´ambivalenza del sentimento materno obbliga tutti noi a una riflessione più seria, che solo il terrore di sfiorare qualcosa che appartiene alla sfera del sacro ci evita di affrontare.
E così finiamo con il sapere troppo poco di noi e della potenza dei nostri moti inconsci. La retorica dei buoni sentimenti è una spessa coltre che stendiamo sull´ambivalenza della nostra anima, dove l´amore si incatena con l´odio, il piacere con il dolore, la benedizione con la maledizione, la luce del giorno con il buio della notte, perché nel profondo tutte le cose sono intrecciate in un´invisibile disarmonia. E scrutare l´abisso che queste cose sottende è compito ormai trascurato della nostra cultura, che con troppa semplicità distingue il bene dal male, come se i due non si fossero mai incontrati e affratellati.
Nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a spese dell´altra. Una soggettività che dice «io» e una soggettività che fa sentire la donna «depositaria della specie».
Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell´amore materno, ma anche dell´odio materno, perché, come ci ricorda Sophie Marinopoulos, il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall´amore per il figlio. Se poi il figlio è figlio dell´illegalità, del tradimento, della povertà, della paura, della sprovvedutezza, allora non solo il conflitto tra le due soggettività, ma anche l´impossibilità di prefigurare un futuro per il figlio scava nell´inconscio della madre quel che non vuol vedere e constatare ogni giorno: che il proprio figlio è troppo distante troppo dissimile dal proprio sogno o dal proprio desiderio.
E´ a questo punto che l´ambivalenza amore-odio, che il mondo delle madri conosce meglio del mondo dei padri, si potenzia e chiede una soluzione che non può trovarsi se non nel riconoscimento e nell´accettazione di questa ambivalenza come cosa naturale, e non con il senso di colpa che può nascere dall´interpretarla come incompiutezza o inautenticità del proprio sentimento.
Ma oggi tutto si complica per effetto della trasformazione che in questi anni ha subito la famiglia: troppo nucleare, troppo isolata, troppo racchiusa nelle pareti di casa che, divenute troppo spesse, la recingono e la secretano, creando l´ambiente adatto alla disperazione, che non è la depressione. Nel chiuso di quelle pareti ogni problema si ingigantisce perché non c´è un altro punto di vista, un termine di confronto che possa relativizzare il problema, o che consenta di diluirlo nella comunicazione, quando non di attutirlo nell´aiuto e nel confronto che dagli altri può venire.
Il nucleo familiare, osserva infatti Sophie Marinopoulos, è diventato oggi un nucleo asociale. Quel che succede in casa resta lì compresso e incomunicato. Quando si esce di casa, ciascuno indossa una maschera, quella convenuta, il cui compito è di non lasciar trasparire proprio nulla dei drammi, delle gioie o dei dolori che si vivono dentro quelle mura ben protette.
La tutela della privacy ha proprio nella famiglia il suo cono d´ombra. La non ingerenza nel privato, se da un lato è il fondamento della nostra libertà personale, è anche un fattore di disinteressamento reciproco, e quindi una macchina formidabile che crea solitudine e, nella solitudine, quell´ingigantimento dei problemi che la comunicazione sa ricondurre nella loro giusta dimensione, mentre l´isolamento li rende di proporzioni tali da farli apparire ingestibili. Fino a quel limite, dove l´unica via d´uscita sembra la soppressione violenta del problema, non importa in quale modo.
L´incapacità di gestire un regime familiare, dove le difficoltà oggettive possono mescolarsi con i fantasmi della mente e con le speranze deluse, produce una tragedia che forse poteva essere evitata se quel nucleo familiare si fosse aperto e reso permeabile allo scambio sociale, come accadeva presso i primitivi dove i figli erano figli di tutte le donne del villaggio, come accadeva fino a un paio di generazioni fa anche da noi, dove la povertà facilitava la socializzazione e l´aiuto reciproco, in quell´incessante andare e venire tra vicini di casa che rendeva impossibile, quando non addirittura innaturale, l´isolamento della famiglia.
La riduzione dei contatti sociali potenzia gli oggetti d´amore che per la donna, relegata nella clausura della famiglia, sono i figli e il marito. Al giorno d´oggi queste dinamiche si sono complicate terribilmente, perché l´uomo ha perso il potere che una volta aveva come autorità riconosciuta in famiglia. Bene o male che fosse, forse più male che bene, ma così era.
Dimessa l´autorità, oggi l´uomo stenta a trovare un ruolo in famiglia che non sia quello un po´ estrinseco di chi porta i soldi a casa. Per il resto lavora fuori casa e, stante la liceità dell´odierno costume, tende a erotizzare anche fuori casa.
All´interno della casa resta solo l´amore incondizionato per i figli, più come idea, più come sentimento che come pratica quotidiana, di solito relegata alla madre o all´esercito delle baby-sitter. La madre è lì, spesso, solo come anello che chiude il nucleo isolato del sistema famiglia.
Occorre allora denunciare, come fa Sophie Marinopoulos, la cultura dell´isolamento in cui la sacralizzazione del privato ha ridotto di fatto la famiglia, che troppo spesso registra in sé l´effetto del collasso sociale. Se infatti la società è solo la sommatoria delle solitudini delle famiglie, e i valori che oggi circolano non sono più solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, ma business, immagine, ricchezza, tranquillità, tutela della privacy, perché una famiglia inavvertita e inascoltata, e che a sua volta non ha voglia di farsi notare né di parlare, perché questa famiglia dovrebbe essere indotta a generare e per giunta con gioia?
Il rimedio suggerito è allora quello di «accudire le madri», perché, per la forma che ha assunto la nostra società, forse, per molte donne, troppa è la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l´occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l´anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte, non tanto come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all´amore separandolo dall´odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il sentimento truce.
E allora non basta che i padri assistano al parto, come è costume dei tempi, molto più utile assistere madre e figlio nel logorio della quotidianità, accarezzare l´una e l´altro per creare quell´atmosfera di protezione che scalda il cuore e tiene separato l´amore dall´odio. Lavoro arduo, che tutti coloro che amano conoscono in quella sottile esperienza dove incerto è il confine tra un abbraccio che accoglie e un abbraccio che avvinghia e strozza.
La natura contamina questi estremi. E la madre, che genera e cresce nell´isolamento e nella solitudine, conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei. Per questo, natura vuole che a generare si sia in due, non solo al momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento dell´accudimento e della cura.
Dove a essere accudito, prima del figlio che segue la sua cadenza biologica, è la madre, che ha messo a disposizione prima il suo corpo, poi il suo tempo, poi il suo spazio esteriore e interiore, infine l´ambivalenza delle sue emozioni che camminano sempre sfiorando quel confine sottile che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, perché così vuole la natura nel suo aspetto materno e crudele, che le madri avvertono quando affondano in quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell´abisso della solitudine.

Repubblica 9.12.06
Gli onorevoli conviventi paladini della famiglia "doc"
La "categoria" cresce di numero. E si è già autoassegnata l'estensione dell'assicurazione sanitaria
di Carmelo Lopapa


L'ex presidente della Camera: casi personali a parte, rivendico il diritto di dire no
Ma nella Cdl c´è anche chi, come Chiara Moroni, è sposata ed è favorevole ai Pacs

ROMA - Sono quelli che «la famiglia è sacra». Hanno alzato barricate contro i Grillini, Luxuria e tutti gli sponsor delle coppie di fatto, etero o omosessuali poco importa. Salvo glissare sul fatto che loro stessi sono conviventi. Il loro club affolla da anni il Parlamento. Ma la contraddizione tra gli attacchi sferrati in queste ore al progetto di governo e maggioranza e la personalissima condizione dei paladini della famiglia tradizionale di Camera e Senato si fa adesso come mai lampante.
Certo, qualcuno può anche ironizzare - come ha fatto due giorni fa a «Radio Anch´Io» Daniele Capezzone - sulla circostanza non secondaria che «loro non hanno certo bisogno dei Pacs per tutelare i diritti delle conviventi», dato che dal 1992 i parlamentari italiani possono estendere la copertura assicurativa sanitaria a chi vive con loro «more uxorio». Basta una dichiarazione a inizio mandato, et voilà, la coppia di fatto, almeno dentro il Palazzo, è servita. Ma questo è un dettaglio, roba di spiccioli. Il nodo vero sta nelle convinzioni personali degli onorevoli conviventi. Perché proprio loro contro il riconoscimento giuridico? Non che tutti i politici conviventi siano contrari, anzi, è l´esatto contrario. Ma quel drappello in conflitto di interessi fa assai rumore e si fa sentire più degli altri. Il più illustre iscritto al «club», Pier Ferdinando Casini, leader Udc, ancora ieri dichiarava che «c´è una parte della maggioranza che vuole portare l´Italia verso la Spagna di Zapatero, su questo faremo battaglia, in Parlamento e nel Paese». L´ex presidente della Camera, convivente con Azzurra Caltagirone, per coerenza ha sempre chiesto rispetto per il suo «diritto di dire laicamente no» ai Pacs, a prescindere dalla sua situazione. Incassando anche i rimbrotti di un moderato dell´altro fronte come il Dl Mantini: «Casini che conosce la condizione dei conviventi e dei padri di fatto comprende che i valori si tutelano senza ipocrisie». Daniela Santanché (An) ancora ieri salutava come una vittoria dei cattolici lo stop in Finanziaria all´equiparazione tra coniugi e conviventi. «Sì, hanno deciso un ordine del giorno che dà via libera alle coppie di fatto, ma tanto si sa cosa valgono gli ordini del giorno, la famiglia è quella riconosciuta dalla Costituzione». Scusi onorevole, ma lei non è convivente? «E allora? Parlo a ragion veduta. Ho ben chiara la differenza e sono consapevole di non voler acquisire i diritti propri della famiglia». Ma, sia chiaro, non c´è schieramento che tenga quando si entra nel recinto delicatissimo degli affetti e delle (quasi) famiglie degli onorevoli. Dorina Bianchi, deputata ex Udc e oggi paladina dei Teodem dentro la Margherita, già firmataria della legge 40, l´8 novembre scorso non ha esitato a protestare - al grido di «cosa c´entrano quelle coppie con la famiglia» - contro l´audizione in commissione Affari sociali della Camera della Liff, la Lega italiana delle famiglie di fatto, dopo che i colleghi della Cdl avevano abbandonato la sala. «È giusto riconoscere alcuni diritti giuridici alle coppie di fatto, ma sempre tenendo conto della differenza e plusvalenza della famiglia come istituzione, quella fondata sul matrimonio» è l´opinione della Bianchi che, separata, da qualche anno convive felicemente a Roma con un medico. Tra i parlamentari della Cdl che quel giorno alla Camera sono insorti contro la Liff, anche la forzista Elisabetta Gardini, divorziata, un figlio, da anni (raccontano le cronache) convivente con un regista: «Per ora vale quanto sancisce la Costituzione e infilare surrettiziamente il riconoscimento delle coppie di fatto vanifica lo sforzo di dare risposte concrete alla famiglia». E i leghisti? «Con le coppie di fatto il governo continua nella sua opera di demolizione» è stato il commento all´accordo nell´Unione dell´ex Guardasigilli Roberto Castelli, divorziato, dal ´98 sposato con rito celtico con una giovane attivista con la quale avrebbe «regolarizzato» le nozze in Comune solo lo scorso anno. D´Altronde, anche il leader Bossi, divorziato, si è risposato con Manuela Marrone dopo dieci anni di convivenza. Non manca però chi, nel centrodestra, pur regolarmente sposato, apre al governo e al riconoscimento delle coppie di fatto «soprattutto alle coppie omosessuali», avverte la forzista Chiara Moroni. E la Boniver (sposata in seconde nozze): «Con altri laici di Forza Italia valuteremo. È giusto assicurare identici diritti a tutti i cittadini».

Repubblica 9.12.06
Perché si diventa scrittori? Nella prolusione tenuta a Stoccolma, il Premio Nobel per la Letteratura racconta la sua esperienza di turco aperto ai valori dell´Occidente
e lo fa attraverso i ricordi che affiorano dalla valigia di suo padre


Due anni prima di morire mio padre mi consegnò un valigetta piena di suoi scritti, manoscritti e taccuini. Assumendo la sua solita espressione ironica e scherzosa mi disse che voleva che li leggessi dopo che se n´era andato, intendendo con ciò dopo la sua morte.
«Dai un´occhiata», disse con aria di lieve imbarazzo. «Guarda se c´è dentro qualcosa che ti può servire. Forse, dopo che me ne sarò andato, potrai fare una cernita e pubblicare il materiale».
Eravamo nel mio studio, circondati da libri. Mio padre cercava un posto dove posare la valigetta andando avanti e indietro come chi voglia liberarsi di un penoso fardello. Infine la depose con discrezione in un angolo dove non avrebbe dato fastidio. Una volta passato questo momento un po´ imbarazzante ma indimenticabile, riprendemmo la leggerezza tranquilla dei nostri soliti ruoli, le nostre personalità sarcastiche e disinvolte. Parlammo come sempre facevamo delle piccole cose della vita quotidiana, degli infiniti problemi politici della Turchia e delle avventure imprenditoriali di mio padre, per lo più fallimentari. Ne discorremmo senza troppo rammarico.
Ricordo che, andato via mio padre, per giorni passai accanto alla valigetta senza neppure sfiorarla. Conoscevo dalla mia infanzia quella piccola borsa di pelle nera, la sua serratura, gli angoli arrotondati. Mio padre la teneva sempre con sé nei brevi spostamenti e talvolta la usava per portare documenti al lavoro. Ricordo che, da bambino, quando tornava da un viaggio aprivo quella valigetta e frugavo tra le sue cose, beandomi del profumo di colonia e di paesi stranieri. Quella valigetta era una presenza amica e familiare, mi ricordava intensamente l´infanzia, il mio passato, ma ora non riuscivo neppure a toccarla. Perché? Senza dubbio dipendeva dal peso misterioso del suo contenuto.
Parlerò ora del senso di questo peso. È il senso del lavoro di un uomo che si chiude in una stanza, che, seduto a un tavolo o in un angolo, si esprime per mezzo di carta e penna, vale a dire il senso della letteratura. Nel momento in cui toccai la valigia di mio padre pur senza riuscire ad aprirla, sapevo che cosa contenevano alcuni di quei taccuini. Avevo visto mio padre intento a scrivere su alcuni di essi. Non era la prima volta che avevo sentito parlare del pesante carico contenuto nella valigia. Mio padre aveva un´ampia biblioteca. Da giovane, alla fine degli anni ‘40, aveva aspirato a diventare poeta, a Istanbul, e aveva tradotto Valery in turco, ma non aveva voluto vivere la vita riservata a chi scriveva poesie in un paese povero con pochi lettori. Il padre di mio padre, mio nonno, era stato un ricco uomo d´affari, suo figlio aveva vissuto una vita agiata da bambino e da ragazzo e non aveva intenzione di cadere in ristrettezze in nome della letteratura. Amava la vita e tutte le sue piacevolezze, e lo capivo.
La prima cosa che mi tenne lontano dal contenuto della valigetta di mio padre era, ovviamente, il timore di non gradire ciò che avrei letto. Mio padre lo sapeva, e per questo si era preoccupato di far finta di non prendere troppo sul serio il contenuto della borsa. Ne fui addolorato, dopo 25 anni passati a scrivere, ma non volevo neppure irritarmi con lui perché non prendeva la letteratura abbastanza sul serio...
Il mio vero timore, la cosa essenziale che non volevo sapere o scoprire era la possibilità che mio padre fosse un bravo scrittore. Non riuscivo ad aprire la valigetta di mio padre perché temevo questo. Peggio ancora, non riuscivo neppure a confessarlo a me stesso. Se dalla valigetta di mio padre fosse emersa della vera, grande letteratura, avrei dovuto ammettere che dentro mio padre esisteva un uomo del tutto diverso. Era una possibilità che mi spaventava. Perché anche alla mia non più tenera età volevo che lui fosse soltanto mio padre, non uno scrittore.
Uno scrittore è colui che passa anni alla paziente ricerca del secondo essere al suo interno, e del mondo che lo rende la persona che è: quando parlo di scrivere, la prima cosa che mi viene in mente non è un romanzo, una poesia o una tradizione letteraria, è una persona che si chiude in una stanza, si siede a un tavolo e, da solo, si concentra su se stesso, tra le sue ombre costruisce un mondo nuovo con le parole.
* * *
Avevo timore ad aprire la valigetta di mio padre e a leggere i suoi taccuini perché sapevo che non avrebbe tollerato le difficoltà che avevo sopportato io, che non era la solitudine che lui amava, bensì mescolarsi agli amici, la folla, i salotti, gli scherzi, la compagnia. Ma poi i miei pensieri presero una direzione diversa. Queste idee, questi sogni di rinuncia e pazienza, erano pregiudizi che avevo tratto dalla mia vita e dalla mia personale esperienza di scrittore. C´erano moltissimi scrittori geniali che conducevano una vivace, brillante vita sociale e familiare fatta di compagnia e allegre conversazioni. Inoltre mio padre quando eravamo piccoli, stanco della monotonia della vita familiare, ci lasciò per andarsene a Parigi, dove, come tanti autori, sedeva nella sua stanza d´albergo a riempire taccuini. Sapevo anche che alcuni di quei taccuini si trovavano nella valigetta perché qualche anno prima di portarmela egli aveva finalmente iniziato a parlarmi di quel periodo della sua vita. Raccontava di quegli anni anche quando ero bambino ma senza far cenno alle sue debolezze, ai suoi sogni di diventare scrittore, o alle crisi di identità che lo avevano afflitto nella sua stanza d´albergo. Mi parlava invece delle volte che aveva visto Sartre per le strade di Parigi, dei libri letti, dei film visti, con il sincero trasporto di chi comunica notizie importantissime. Divenuto scrittore, non dimenticai mai ciò che accadde grazie a quel padre che parlava degli scrittori di fama mondiale molto più che di pascià e grandi autorità religiose. Forse allora dovevo leggere i suoi appunti con questa consapevolezza e ricordare quanto fossi in debito con la sua vasta biblioteca. Dovevo tenere a mente che, quando viveva con noi, come me, amava star solo in compagnia dei suoi libri e dei suoi pensieri e non prestava troppa attenzione al valore letterario dei suoi scritti.
Ma mentre fissavo con apprensione la valigetta lasciatami in eredità sentivo anche che era proprio questo che non sarei riuscito a fare. Mio padre talvolta si allungava sul divano davanti ai suoi libri, lasciava cadere il volume o la rivista che aveva in mano e si perdeva in un sogno, sprofondato a lungo nei suoi pensieri. Vedendogli sul viso un´espressione così diversa da quella che aveva nell´atmosfera scherzosa e allegra dei battibecchi familiari, scoprendo in lui i primi accenni di introspezione, pensavo, soprattutto da bambino e nella prima giovinezza, con trepidazione che non fosse contento. Oggi, a distanza di tanti anni, so che questa insoddisfazione è la caratteristica fondamentale che fa di un individuo uno scrittore. Per diventare scrittore pazienza e fatica non bastano: dobbiamo innanzitutto sentire l´impulso irresistibile a fuggire la gente, la compagnia, la consuetudine, la quotidianità e a chiuderci in una stanza. Aspiriamo alla pazienza e speriamo di riuscire così a creare un mondo intenso nei nostri scritti. Ma è il desiderio di chiuderci in una stanza che ci spinge all´azione. Il precursore di questo genere di scrittore indipendente, che legge i suoi libri per soddisfare il suo cuore e che ascoltando esclusivamente la voce della propria coscienza, discute con le parole altrui, che conversando con i suoi libri sviluppa i suoi pensieri e il suo mondo personale, fu senza dubbio Montaigne, agli albori della letteratura moderna. Montaigne era un autore cui mio padre tornava spesso, un autore che mi raccomandava. Mi piacerebbe considerarmi parte della tradizione di scrittori che ovunque si trovino nel mondo, in Oriente o in Occidente, si tagliano fuori dalla società rinchiudendosi con i loro libri nella loro stanza. La vera letteratura parte dall´uomo che si chiude nella sua stanza con i suoi libri.

* * *
Fu questo a spingermi ad aprire la valigetta di mio padre. Aveva forse un segreto, un´infelicità che ignoravo, qualcosa che riusciva a sopportare solo riversandola nei suoi scritti? Non appena aprii la valigetta ritrovai il profumo di viaggi, riconobbi vari taccuini e notai che mio padre me li aveva mostrati anni addietro senza però soffermarvisi molto a lungo. La maggior parte dei taccuini che ora avevo tra le mani li aveva riempiti quando ci aveva lasciato per recarsi a Parigi, da giovane. Il mio desiderio era sapere che cosa avesse scritto e che cosa avesse pensato mio padre alla mia stessa età. Non mi ci volle molto a capire che non avrei trovato nulla del genere là dentro. A turbarmi particolarmente fu l´imbattermi qui e là, nei taccuini di mio padre, in una voce narrante. Non era la voce di mio padre, dissi a me stesso, non era la sua voce originale, o meglio, non quella dell´uomo che conoscevo come mio padre. Al di là del timore che mio padre non fosse più mio padre nel momento in cui scriveva, c´era un timore più profondo: la paura di non trovare nulla di buono negli scritti di mio padre, di scoprire che si era fatto eccessivamente influenzare da altri autori, e sprofondai nella disperazione che mi aveva afflitto da ragazzo tanto da porre in discussione la mia vita, la mia stessa esistenza, il mio desiderio di scrivere e la mia opera. Durante i miei primi dieci anni da scrittore avvertii quest´ansia più profondamente, e pur respingendola, talvolta temevo che un giorno avrei dovuto ammettere la sconfitta, come avevo fatto con la pittura e soccombere all´inquietudine, abbandonando anche l´attività di romanziere.
* * *
Un autore parla di cose che tutti sanno senza averne consapevolezza. Esplorare questo sapere e vederlo crescere dà al lettore il piacere di visitare un mondo al contempo familiare e miracoloso. Quando un autore si chiude per anni in una stanza per affinare la sua arte, quella di creare un mondo, se usa le sue ferite segrete come punto di partenza ripone, che lo sappia o no, una grande fede nell´umanità. La mia fiducia viene dalla convinzione che tutti gli esseri umani si somigliano, che altri portano ferite come le mie, e che quindi capiranno. Tutta la vera letteratura nasce da questa certezza fiduciosa e infantile che tutti gli individui si somiglino. Quando uno scrittore si chiude per anni in una stanza, evoca col suo gesto un´umanità unica, un mondo privo di centro. Ma come si può vedere dalla valigetta di mio padre e dalle nostre vite sbiadite a Istanbul, il mondo aveva un centro ed era lontanissimo da noi. Nei miei libri ho descritto in dettaglio come questa realtà evocasse un provincialismo cechoviano e come, per altra via, mi spingesse a porre in discussione la mia autenticità. Sapevo per esperienza che la gran maggioranza delle persone su questa terra condividono le stesse sensazioni e che molti sono afflitti da un senso ancor più profondo di inadeguatezza, insicurezza e abbrutimento rispetto a me. Sì, i maggiori dilemmi che l´umanità si trova ad affrontare sono ancora la povertà, la mancanza di un tetto, e la fame... Ma oggi la televisione e i giornali ci informano su questi fondamentali problemi più rapidamente e più semplicemente di quanto possa mai fare la letteratura. Oggi l´oggetto dell´indagine della letteratura devono essere soprattutto le paure dell´umanità: la paura di essere esclusi, la paura di non contare nulla e il senso di nullità che le accompagna. Le umiliazioni collettive, le vulnerabilità, gli affronti, i torti, le suscettibilità, gli insulti immaginati, e i vanti e la retorica nazionalista... Ogniqualvolta mi confronto con questi sentimenti e con il linguaggio irrazionale, eccessivo con cui vengono generalmente espressi, so che toccano un punto oscuro al mio interno. Abbiamo spesso visto popoli, società e nazioni esterni al mondo occidentale, e mi è facile identificarmi con essi, soccombere a timori che li conducono a commettere idiozie, tutto per paura di subire umiliazioni e a motivo delle loro suscettibilità. So anche che in Occidente, un mondo con cui mi è altrettanto facile identificarmi, nazioni e popoli eccessivamente fieri della loro ricchezza e del fatto di averci portato il Rinascimento, l´Illuminismo il Modernismo, di tanto in tanto hanno ceduto a un autocompiacimento quasi altrettanto idiota.
* * *
Significa che mio padre non era l´unico, che tutti diamo eccessiva importanza all´idea di un mondo con un centro. Ciò che invece ci spinge a chiuderci nelle nostre stanze a scrivere per anni e anni è la convinzione opposta, quella che un giorno i nostri scritti saranno letti e compresi perché tutta la gente del mondo si somiglia. Ma questo, lo so dai miei scritti e da quelli di mio padre, è un ottimismo inquieto, segnato dalla rabbia di essere relegato ai margini, escluso. L´amore e l´odio che Dostoevskij provò per tutta la vita nei confronti dell´Occidente l´ho provato anch´io, in numerose occasioni. Ma se ho afferrato una verità essenziale, se ho motivo di essere ottimista è perché ho viaggiato assieme a questo grande scrittore attraverso il suo rapporto di amore-odio con l´Occidente, per contemplare l´altro mondo che egli ha costruito dall´altra parte.
* * *
Mio padre avrà magari scoperto questo genere di felicità durante gli anni passati a scrivere, pensavo fissando la sua valigetta: non dovevo giudicarlo a priori. Gli ero così grato, dopo tutto. Non era mai stato un padre qualunque, autoritario soffocante, punitivo, ma un padre che mi ha sempre lasciato libero, che ha sempre dimostrato nei miei confronti il massimo rispetto. Avevo pensato spesso che se, di tanto in tanto, ero stato capace di attingere alla mia immaginazione, come un bambino, era perché a differenza di tanti miei amici dell´infanzia e della giovinezza, non avevo paura di mio padre e talvolta ero profondamente convinto che sarei riuscito diventare scrittore perché anche mio padre, da giovane, lo aveva desiderato. Dovevo leggere i suoi scritti con spirito di tolleranza, cercare di capire che cosa aveva scritto in quelle stanze d´albergo.
Animato di ottimismo mi avvicinai alla valigetta che giaceva ancora dove mio padre l´aveva lasciata. Facendo appello a tutta la mia forza di volontà ho letto qualche manoscritto e qualche taccuino. Che cosa scriveva mio padre? Ricordo qualche scorcio dalle finestre degli hotel di Parigi, poesie, paradossi, analisi... Mi sento ora come chi è appena stato vittima di un incidente stradale e si sforza di ricordare come è successo mentre al contempo trema alla prospettiva di ricordare troppo. Da bambino quando i miei genitori erano sul punto di litigare e tra loro calava un silenzio letale, mio padre accendeva sempre la radio, per cambiare atmosfera e la musica ci aiutava a dimenticare tutto più in fretta.
Permettetemi di cambiare atmosfera con qualche parola che, mi auguro, abbia l´effetto della musica. Come sapete la domanda che più spesso viene posta a noi scrittori, la domanda preferita è: perché scrive? Io scrivo perché sento il bisogno innato di scrivere! Scrivo perché non posso fare un lavoro normale, come gli altri. Scrivo perché voglio leggere libri come quelli che scrivo. Scrivo perché ce l´ho con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace stare seduto in una stanza a scrivere tutto il giorno. Scrivo perché posso prender parte alla vita reale solo trasformandola. Scrivo perché voglio che gli altri, tutti noi, il mondo intero, sappia che tipo di vita viviamo e continuiamo a vivere a Istanbul, in Turchia. Scrivo perché amo l´odore della carta, della penna e dell´inchiostro. Scrivo perché credo nella letteratura, nell´arte del romanzo, più di quanto io creda in qualunque altra cosa. Scrivo per abitudine, per passione. Scrivo perché ho paura di essere dimenticato. Scrivo perché apprezzo la fama e l´interesse che ne derivano. Scrivo per star solo. Forse scrivo perché spero di capire il motivo per cui ce l´ho così con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace essere letto. Scrivo perché una volta che ho iniziato un romanzo, un saggio, una pagina, voglio finirli. Scrivo perché tutti se lo aspettano da me. Scrivo perché come un bambino credo nell´immortalità delle biblioteche e nella posizione che i miei libri occupano sugli scaffali. Scrivo perché è esaltante trasformare in parole tutte le bellezze e le ricchezze della vita. Scrivo non per raccontare una storia ma per costruirla. Scrivo per sfuggire al presagio che esiste un posto cui sono destinato ma che, proprio come in un sogno, non riesco a raggiungere. Scrivo perché non sono mai riuscito ad essere felice. Scrivo per essere felice.
Una settimana dopo avermi lasciato la valigia, mio padre mi fece ancora visita. Come sempre mi portò una tavoletta di cioccolata (aveva dimenticato i miei 48 anni). Come sempre chiacchierammo e ridemmo della vita, della politica e dei pettegolezzi di famiglia. A un certo punto mio padre andò con lo sguardo all´angolo in cui aveva lasciato la valigetta e vide che l´avevo spostata. Ci guardammo negli occhi. Seguì un silenzio imbarazzato. Non gli dissi che l´avevo aperta e avevo tentato di leggere ciò che conteneva, ma distolsi lo sguardo. Capì lo stesso. Come io capii che aveva capito. Come lui capiì che avevo capito che aveva capito. Ma tutta questa comprensione durò solo lo spazio di pochi secondi. Perché mio padre era un uomo accomodante, sicuro di sé: mi sorrise come faceva sempre. E andandosene mi ripeté tutte le frasi affettuose e incoraggianti che mi diceva sempre, da padre.
Come sempre lo guardai andar via, invidiando la sua serenità, la sua spensieratezza, la sua imperturbabilità. Ma ricordo che quel giorno avvertii dentro di me anche un lampo di gioia di cui mi vergognai. Veniva dal pensiero che magari non mi sentivo a suo agio come lui nella vita, magari non avevo condotto una vita felice e libera come la sua, ma io l´avevo dedicata alla scrittura - avete capito... mi vergognavo di pensare quelle cose a scapito di mio padre. Di tutte le persone proprio mio padre, che non mi aveva mai fatto soffrire, che mi aveva lasciato libero. Tutto questo dovrebbe ricordarci che la scrittura e la letteratura sono intimamente connesse a un vuoto, al centro di tutte le nostre vite, e a un senso di felicità e di colpa.
Ma la mia storia ha un´altra componente, simmetrica, che immediatamente mi riporta alla mente un altro aspetto di quel giorno e acuisce il mio senso di colpa. Ventitré anni prima che mio padre mi lasciasse la sua valigetta e quattro anni dopo aver deciso, all´età di 22 anni, di diventare romanziere e, abbandonando tutto, di chiudermi in una stanza, terminai il mio primo romanzo, Cevdet Bey and Sons. Consegnai a mio padre con mano tremante il dattiloscritto del romanzo ancora non pubblicato perché lo leggesse e mi desse il suo giudizio. Questo non solo perché avevo fiducia nel suo gusto e nella sua intelligenza: la sua opinione contava moltissimo per me perché lui, a differenza di mia madre, non si era opposto al mio desiderio di diventare scrittore. In quel periodo mio padre non era con noi, ma molto lontano. Attesi con impazienza il suo ritorno. Quando arrivò, due settimane dopo, corsi ad aprigli la porta. Non disse nulla, ma ad un tratto mi abbracciò in un modo che esprimeva che il libro gli era piaciuto moltissimo. Per un attimo sprofondammo in quel silenzio imbarazzato che accompagna spesso i momenti di grande emozione. Quando ci calmammo e iniziammo a parlare mio padre ricorse a parole cariche ed esagerate per esprimere la fiducia che riponeva in me e nel mio primo romanzo: mi disse che un giorno avrei vinto il premio che mi accingo a ricevere oggi con tanta gioia.
Lo disse non per cercare di convincermi che apprezzava il mio libro né per pormi l´obbiettivo di questo premio. Lo disse come un padre turco dice a un figlio a mo´ di incoraggiamento «un giorno diventerai un pascià!». Per anni, ogni volta che mi vedeva, ripeteva quelle parole per incoraggiarmi.
Mio padre è morto nel dicembre 2002.

(traduzione di Emilia Benghi)
© The Nobel Foundation 2006


il manifesto 9.12.06
Benedetto XVI cita Dante
Ad attenderlo in piazza di Spagna, Benedetto XVI ha trovato il sindaco di Roma Walter Veltroni e il cardinale Camillo Ruini: «E' un grande piacere - ha detto Veltroni commentando l'accoglienza riservata al pontefice - dopo tanti anni di lavoro fatto, significa che c'è una stima».


Cita Dante per chiedere alla Madonna un aiuto per combattere la corruzione, la violenza e gli egoismi, ma anche per tornare a battere sull'esigenza, per l'Europa, di non dimenticare le sue origini cristiane nella costruzione del suo futuro. E' questo il monito lanciato da Papa Ratzinger in occasione del suo tradizionale atto di omaggio alla statua dell'Immacolata di piazza di Spagna, accolto lungo il percorso da una folla di ventimila fedeli. Ad attenderlo in piazza di Spagna, Benedetto XVI ha trovato il sindaco di Roma Walter Veltroni e il cardinale Camillo Ruini: «E' un grande piacere - ha detto Veltroni commentando l'accoglienza riservata al pontefice - dopo tanti anni di lavoro fatto, significa che c'è una stima».
Ai piedi della colonna che in piazza di Spagna sostiene la statua della Madonna, tradizionale luogo di appuntamento del Papa con i romani nella solennità dell'Immacolata, il papa teologo ha fatto ricorso ai versi del XXXIII canto del Paradiso per invocare la Vergine come «di speranza fontana vivace» per i mortali. E' stata la sua seconda citazione di Dante Alighieri, visto che durante l'Angelus ha usato la «Vergine Madre, figlia del suo Figlio, umile e alta più che creatura» (sempre dal XXXIII canto) per spiegare che Dio ha scelto proprio Maria come madre di Gesù in forza dell'umiltà di questa, la stessa «umiltà» espressa nel Magnificat.
Sotto la colonna fatta innalzare da Pio IX nel 1856 per commemorare la proclamazione, due anni prima, del dogma dell'Immacolata concezione, Benedetto XVI ha portato l'omaggio della «comunità cristiana e della città di Roma».
Il pontefice ha poi benedetto un cesto di rose deposto ai piedi dell'Immacolata ed è stato accolto da migliaia di turisti e romani. Presenti le autorità civili - con il sindaco Walter Veltroni e il presidente della Provincia Enrico Gasbarra - e religiose - con il cardinale vicario Camillo Ruini - della capitale e, in prima fila, un gruppo di malati in carrozzella. Il dogma stabilisce che Maria è nata senza l'ombra del peccato originale, in lei quindi, ha spiegato il Papa, «brilla la dignità di ogni essere umano», dignità che non viene meno nonostante la «triste esperienza del peccato» che «deturpa i figli di Dio». E a lei bisogna chiedere aiuto per dire «no al principe ingannatore di questo mondo» e «sì» a Cristo, che distrugge la potenza del male con l'onnipotenza dell'amore». «Dacci il coraggio - ha poi pregato il Papa - di dire 'no' agli inganni del potere, del denaro, del piacere, ai guadagni disonesti, alla corruzione e all'ipocrisia, all'egoismo e alla violenza».
Lasciata la piazza Benedetto XVI si è poi recato nella basilica di Santa Maria Maggiore, dove ha reso omaggio all' immagine «Salus populi romani», quindi ha fatto rientro in Vaticano.
Il Papa ha citato spesso Dante, che ha usato anche per spiegare il senso della sua prima enciclica «Deus caritas est», riprendendo il grande ideale medievale della forza dell'amore come strumento per conoscere Dio («l'escursione cosmica in cui Dante vuole coinvolgere il lettore - spiegò il Papa - finisce davanti alla Luce perenne che è Dio stesso»). E l'affidamento a Maria, rinnovato ieri, come già un anno fa per l'Immacolata, anche grazie ai versi danteschi, ha chiuso anche l'enciclica.
La scelta fatta da Benedetto XVI di utilizzare versi di Dante per le sue citazioni, è stata apprezzatata da Francesco Mazzoni, presidente emerito della Società dantesca italiana di Firenze. La citazione del XXXIII canto del Paradiso per esaltare l' umiltà della Madonna «è una citazione corretta perché si rifà alla preghiera di San Bernardo, uno dei teologi mariani più alti», ha spiegato Mazzoni. «Tutte le volte che un pontefice deve sottolineare le qualità della Madonna - ha proseguito - si rifà al XXXIII canto e questo, oggi, viene in risposta a un certo filone laicistico». Molti, secondo Mazzoni, sono i pontefici che si rifanno a Dante per sottolineare l'umiltà di Maria, a partire da Paolo VI in poi, citando espressamente la terzina «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio», proponendo quindi una lettura esclusivamente teologica.

il manifesto 9.12.06
Anche gli elefanti fanno i conti con lo specchio
di Pietro Perconti


Di fronte allo specchio gli oranghi si avvicinavano di più e sporgevano le labbra verso l'immagine come per baciarla Charles Darwin
Finora la scienza ci aveva assicurato che solo l'aristocrazia dei primati superiori fosse in grado di riconoscersi in una superficie riflettente. Ci si aspetta, infatti, che questa prerogativa sia associata a comportamenti sociali complessi, dotati di empatia e cooperazione La recente performance di Happy, un elefante che sembra riconoscersi allo specchio, mette in crisi le acquisizioni per cui questi animali sarebbero privi di prerogative così sofisticate. L'autocoscienza è

Figurarsi un elefante davanti a uno specchio è un po' come immaginarselo all'interno del famoso negozio di cristalli: goffo e fuori posto. Perché un elefante davanti a una superficie riflettente dà intuitivamente la sensazione di essere nel luogo sbagliato? Il motivo forse risiede nel fatto che per noi esseri umani gli specchi sono l'occasione per esercitare la nostra vanità, per esplorare minuziosamente il corpo e per preoccuparsi dell'aspetto fisico che abbiamo. Gli specchi sono nello stesso tempo utensili consueti nell'esperienza quotidiana di ciascuno di noi e oggetti dotati di un valore simbolico speciale. Ricorriamo all'uso dello specchio quasi ogni giorno della nostra vita, eppure il confronto con una superficie riflettente può sempre rivelarsi un'esperienza turbativa. Probabilmente gli specchi sono gli artefatti che hanno più a che fare con la nostra coscienza, decisivi come sono nella vita ordinaria delle persone per la costruzione della propria identità personale.
Di fronte al test della macchina
Per esempio, di norma è proprio davanti agli specchi che scopriamo di essere diventati vecchi. Le reazioni altrui possono risparmiarci la durezza che solo la superficie piatta e levigata degli specchi è in grado di riservarci. Con le parole dello scrittore e medico Georges Duhamel: «Parlavo con Gilbert ... ed ecco che vedo, attraverso il fumo del sigaro, un volto sconosciuto: un uomo robusto, con le spalle larghe e il collo tozzo, una zazzera di capelli grigi quasi bianchi, un'espressione di forza e di stanchezza nello stesso tempo. Era di profilo, e quasi mi voltava le spalle. Penso: 'Da dove viene questo vecchio signore? Non ce l'hanno presentato'. In quel momento, faccio un gesto, e quell'uomo fa lo stesso gesto. Fu come aver ricevuto un pugno nello stomaco. Quel vecchio signore sconosciuto ero io».
Tutto ciò, almeno intuitivamente, sembra estraneo alla forma di vita di animali come gli elefanti. Per apprezzare cosa è uno specchio, infatti, bisogna essere in grado almeno di riconoscere la propria figura nel riflesso. Finora la scienza ci aveva rassicurato sul fatto che gli elefanti, al pari di moltissime altre specie animali, non comprendono che in un riflesso è possibile contemplare la propria figura. Daniel Povinelli, uno psicologo comparativo che lavora all'Università della Luoisiana negli Stati Uniti, in un esperimento del 1989 aveva notato che - messi di fronte a uno specchio - gli elefanti non erano in grado di riconoscere la propria immagine. Essi, infatti, non passavano il cosiddetto «test della macchia».
Qualche buona intuizione
Si tratta di una procedura sperimentale, originariamente elaborata dallo psicologo statunitense Gordon Gallup, che permette di saggiare il riconoscimento allo specchio in creature che non sono in grado di dire se nell'immagine vedono se stessi. Funziona così: si produce una macchia su un animale facendo in modo che non si renda conto dell'operazione. La macchia viene situata in una parte del corpo che non può esser vista se non tramite uno specchio. Si colloca quindi l'animale in un ambiente in cui c'è una superficie riflettente e se ne osserva la reazione. Se l'esemplare tocca continuamente la macchia o tenta di rimuoverla, se in generale esibisce un comportamento diretto verso il proprio corpo che non potrebbe avere se non ritenesse che l'immagine riflessa gli appartiene, allora probabilmente si rende conto di stare guardando la propria figura. Altrimenti non possiede la forma di consapevolezza necessaria a fare le giuste inferenze relativamente a se stesso.
Approfittare di uno specchio sembra insomma qualcosa che è possibile soltanto per creature che sono dotate di una forma benchè embrionale di autocoscienza. Gli elefanti di Povinelli non manifestavano tale sagacia. Eppure dovevano avere qualche buona intuizione sul genere di oggetti a cui appartengono gli specchi. Infatti, se nel riflesso vedevano del cibo, per afferrarlo si voltavano indietro, invece di cercarlo in ciò che stava loro davanti. Sembrava che fossero in grado di comprendere il meccanismo riflettente degli specchi, anche se non giungevano fino al punto di afferrare il fatto che una delle cose che vedevano riverberate erano proprio loro.
Questo è ciò che sapevamo sugli elefanti e gli specchi fino a poche settimane fa. Ma ora, grazie al lavoro di altri ricercatori, tra cui il celebre primatologo Frans de Waal, siamo indotti ad ammettere almeno un elefante nel circolo esclusivo di coloro che sono in grado di riconoscersi allo specchio. Contrassegnato con una vistosa croce da un lato della fronte e posto dinanzi a una estesa superficie riflettente, Happy - un esemplare ospite dello Zoo del Bronx a New York - tocca ripetutamente la parte segnata, a quanto pare incuriosito della strana circostanza.
L'esperimento ha avuto una vasta eco sui giornali statunitensi e britannici, tra cui il «New York Times», il «Washington Post» e l'«Economist». La performance di Happy desta sorpresa perché non ci si aspetta che un elefante possa esibire un comportamento così complesso. Riconoscere se stessi, infatti, di norma è la base per attribuire credenze e sentimenti agli altri individui. Ci si aspetta che il riconoscimento di sé sia associato a una serie di comportamenti sociali complessi, di tipo empatico e cooperativo, che non supponiamo presenti in animali come gli elefanti. Proprio a motivo dell'interesse che l'esperimento ha suscitato nei media internazionali, è opportuno notare che l'evidenza in questione non è in effetti molto robusta e che la prova andrebbe ripetuta con altri esemplari nonché replicata in contesti ecologicamente più significativi di uno zoo. D'altra parte, è evidente che si tratta di un dato su cui la comunità scientifica è chiamata a riflettere e su cui ciascuno può farsi una idea personale osservando i filmati di Happy sul sito Internet della rivista in cui è stata data la notizia dell'avvenimento (vedi la scheda).
Se davvero gli elefanti fossero in grado di riconoscersi allo specchio, dovremmo aggiungerli a quelli di cui già si conosceva questa abilità, scimpanzè, bonobo, esseri umani, oranghi, alcuni gorilla, ossia l'aristocrazia dei primati superiori. Molti altri animali sono stati messi alla prova davanti allo specchio, offrendo un campionario vario e talvolta divertente di reazioni. Sembra che, contemplando la propria figura, i fenicotteri rosa si eccitino sessualmente. I delfini, per parte loro, fanno un mucchio di capriole e circonvoluzioni davanti alla loro immagine macchiata, dando talvolta la sensazione di comprendere ciò che stanno vedendo. Molte scimmie, invece, hanno un comportamento meno amichevole e aggrediscono colui che ai loro occhi deve sembrare un intruso. In generale la risposta che è stata osservata più frequentemente è di tipo sociale, come se l'animale supponesse di stare guardando un altro individuo e rispondesse sulla base delle regole sociali della propria specie.
Che la questione sia cruciale, e non da poco tempo, lo dimostra - fra l'altro - il fatto che già Charles Darwin avesse fatto interessanti osservazioni a questo proposito: nel suo L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali, ricorda di aver posto uno specchio tra due oranghi del Giardino Zoologico di Londra: «All'inizio essi guardavano le proprie immagini con la più grande sorpresa e spesso cambiavano il loro punto di vista. Quindi si avvicinavano di più e sporgevano le labbra verso l'immagine come per baciarla, esattamente come prima avevano fatto l'uno verso l'altro, quando erano stati messi alcuni giorni prima nella stessa stanza».
Di fronte a tali comportamenti ci si potrebbe semplicemente godere lo spettacolo dell'ottusità animale davanti agli specchi, riservando ai malcapitati narcisi il genere di sufficienza con cui generalmente nella storia abbiamo trattato le altre specie animali. Sono informati da questa disposizione d'animo molti filmati amatoriali che si possono guardare su YouTube, uno dei principali siti Internet di consultazione e condivisione di brevi filmati (http://www.youtube.com). Ma non si tiene conto di due circostanze: la prima è che, come abbiamo notato, noi umani non siamo l'unica specie in grado di riconoscere la propria immagine riflessa.
La seconda è che negli stessi esseri umani la capacità in questione è più fragile di quanto si possa supporre. Generalmente i bambini non passano il test della macchia se non sono arrivati a due anni di età. Prima di questo momento guardano la loro immagine come se stessero osservando un altro bambino, oppure cercano di esplorare la superficie dello specchio battendo sull'immagine con le mani e leccando ciò che vedono. A circa diciotto mesi, forse quando cominciano a nutrire dei sospetti sul bimbo riflesso e sono però ancora imbarazzati da una scena di cui evidentemente non comprendono del tutto il significato, cominciano a evitare senz'altro quel compagno di giochi dispettoso che compie esattamente i loro stessi movimenti. Tale reazione, detta appunto di evitamento, sparisce solo quando il bambino diviene capace di riconoscersi nel riflesso.
Anche quando la capacità di riconoscimento è ormai raggiunta, non lo è purtroppo in modo sicuro e irreversibile: una causa delle strane esperienze speculari che talvolta si possono sperimentare è la stanchezza, come nel caso di ciò che è accaduto al vecchio Ernst Mach, nonostante la sua eccellenza di neuroscienziato ante litteram: «Tempo fa, dopo un faticoso viaggio notturno in treno, molto stanco, sono salito su un omnibus e ho visto salire un altro uomo dal lato opposto. 'Che triste - ho pensato - quel professore che è appena entrato'. Ero io: di fronte a me c'era solo un grande specchio. La fisionomia della mia classe sociale, evidentemente, mi era più familiare di quella di me stesso».
Quando il riconoscimento allo specchio non fallisce a causa della stanchezza, come nel racconto di Mach, può fallire per una malattia neurodegenerativa, come nel caso dell'autismo o del morbo di Alzheimer.
Il ruolo dell'emisfero destro
Una serie di studi recenti suggeriscono che nel cervello umano vi sono circuiti neuronali dedicati al riconoscimento del proprio volto e che, quando sfortunatamente essi finiscono per essere danneggiati, il riconoscimento allo specchio va fatalmente incontro al fallimento. Scienziati di successo come Oliver Sacks hanno popolarizzato l'esistenza di strane sindromi come la prosopagnosia, a causa della quale un individuo può sperimentare una estrema difficoltà a riconoscere e memorizzare i volti delle persone che incontra. È meno noto però che ci sono casi di persone che, pur non essendo affette da questo genere di disturbi e avendo quindi normali capacità di riconoscimento delle facce altrui, non riescono tuttavia a riconoscere il proprio volto nel riflesso. Questo genere di pazienti sono affetti da una patologia nota proprio come «segno dello specchio», che di norma è causata da un danno all'emisfero destro del cervello. Sembra quindi che l'emisfero destro svolga un ruolo determinante nel riconoscimento della propria immagine.
Tale circostanza è stata provata anche ricorrendo a una recente tecnica investigativa, la stimolazione magnetica transcranica. Si tratta di una metodologia che permette di stimolare tramite un impulso magnetico esterno il sistema nervoso centrale inibendone in modo selettivo il funzionamento: è possibile, così, stabilire qual è il ruolo che una certa regione del cervello svolge nell'esecuzione di un determinato compito. Inibendo dunque l'attività della corteccia prefrontale dell'emisfero destro, si è scoperto che anche nelle persone sane la capacità di riconoscere il proprio volto può essere artificialmente compromessa, per poi ritornare nella norma una volta che l'effetto della macchina si sia esaurito.
Considerazioni istruttive
La capacità di riconoscersi allo specchio è dunque non soltanto una prerogativa di creature sofisticate al meglio delle loro capacità, ma è anche fragile: sono considerazioni istruttive riguardo a ciò che immaginiamo sia la nostra autocoscienza. Da una parte è chiaro che essere consapevoli di se stessi non può ridursi all'essere in grado di conoscere la propria immagine. La nostra vita interiore è fatta soprattutto di ricordi, conversazioni silenziose con noi stessi e sensazioni che non riusciamo a condividere con gli altri. Eppure, la semplice constatazione che una creatura non umana non sia indifferente alla propria immagine ci rende meno soli nell'ordine della natura - e forse mette anche noi all'interno di quel negozio di cristalli, alle prese con un senso del sé più delicato di quanto immaginavamo.

il manifesto 9.12.06
la scheda:
Letture per indagare il senso di sé

La reazione di animali e bambini davanti allo specchio è stata investigata con un certo metodo almeno dalla seconda metà dell'Ottocento. Il libro di Charles Darwin «L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali» risale al 1872 ed è pubblicato da Bollati Boringhieri.
Ma l'interesse per gli specchi nel corso della storia è andato ben oltre la possibilità di indagare le basi della consapevolezza di sé.
Si pensi soltanto al ruolo che gli specchi hanno avuto nella storia della scienza, a come per esempio la costruzione dei telescopi e il tentativo di comprendere il funzionamento della luce siano stati resi possibili dalle nuove tecnologie nella costruzione degli specchi sviluppate nel Seicento. Sabine Melchior-Bonnet ha scritto una interessante storia di questo genere di artefatti, dai primi rudimentali specchi di ossidiana fino alla guerra commerciale combattuta nel Seicento tra Venezia, che produceva i migliori specchi sul mercato, e la Francia di Colbert, che voleva rubare il segreto delle manifatture veneziane ad ogni costo («Storia dello specchio», Dedalo, 2002). Una storia in inglese, scritta con particolare attenzione all'uso degli specchi nella ricerca scientifica, è quella di Mark Pendergrast («Mirror Mirror: A History of the Human Love Affair with Reflection», New York, Basic Book, 2003).
Il saggio sugli elefanti che si riconoscono si deve a Joshua M. Plotnik, Frans B. M. de Waal e Diana Reiss. Si intitola «Self-recognition in an Asian elephant» ed è reperibile nella rivista «PNAS, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America» (Novembre, 2006, vol. 103, no. 45, pp. 17053-17057). Collegandosi al seguente indirizzo Internet è possibile vedere tre filmati degli elefanti «consapevoli»: http://www.pnas.org/cgi/content/full/0608062103/DC1.
Il riferimento bibliografico del resoconto di Povinelli sugli elefanti incapaci di riconoscersi è il seguente: D. J. Povinelli, «Failure to find self-recognition in Asian elephants (Elephas maximus) in contrast to their use of mirror cues to discover hidden food», Journal of Comparative Psychology, 103 (2), 1989, pp. 122-131.
Anche al Festival della Scienza di Genova, che si è svolto dal 26 ottobre al 7 novembre scorso richiamando di nuovo quest'anno decine di migliaia di visitatori, ha presentato una mostra sugli specchi: «Scienza e coscienza allo specchio». Alcune informazioni sono disponibili presso il sito del Festival: http://www.festivalscienza.it/.

il Mattino 9.12.06
Michel Onfray
Ricomincio da Diogene
di Guido Caserza


L’attacco è perentorio. Il filosofo francese Michel Onfray, noto alle cronache per il suo Trattato di ateologia, ci riprova e ora si autolegittima a sottoporre al fuoco incrociato delle sue provocazioni ermeneutiche l’intera storia della filosofia, nella versione accreditata dall’idealismo storiografico, di impronta giuadico-cristiana. Lo fa con il primo dei sei volumi della sua Controstoria della filosofia, pubblicato in Italia da Fazi con il titolo Le saggezze antiche (pagg. 285, euro 15). In sostanza una storia della filosofia riscritta dalla parte dei vinti: contro l’egemonia idealistica, Onfray riparte dai cirenaici e dagli epicurei, ovvero dai presocratici amati da Nietzsche e rivalutati nella loro singolare individualità. Vengono così demistificate alcune etichette di comodo, riportati in auge filosofi come Democrito: immanentismo contro idealismo, dunque, monismo contro dualismo, la materia contro lo spirito e il francese tanto rimugina astiosamente sul potere repressivo del platonismo da preferire alcuni frammenti di Leucippo alle migliaia di pagine di Platone. Così, in questo primo volume dedicato all’antichità, dentro Leucippo, Democrito, Aristippo, Diogene, Epicuro e Lucrezio; fuori Pitagora, Parmenide, Cleante, Crisippo, Platone, Marco Aurelio. Dal novero delle inclusioni e delle esclusioni si capisce come la filosofia secondo Onfray appare rovesciata di segno: non più il cielo iperuranico delle idee, ma l’atomismo e l’espulsione dello spirito la fanno da padroni in questa costellazione del sapere occidentale. Ma cosa ne pensano i filosofi, ovvero gli accademici contro la cui corporazione Onfray spara le sue cartucce? «L’idealismo? È morto e sepolto e bersagliarlo come fa Onfray è come sparare sulla Croce rossa», taglia corto Remo Bodei, il quale giudica al pari di una mossa pubblicitaria «questo gioco della torre in cui si buttano giù grandi come Pitagora e Platone: null’altro che una stupida provocazione, o una trovata che serve a Onfray per promuovere la sua filosofia del ventre». Onfray come un Nietzsche rimasticato dunque? «Diciamo che chi ha letto Nietzsche sa già tutto e che a questo punto Onfray è innocuo: male non fa, basta non prenderlo sul serio». Umberto Galimberti concorda sulla gratuità della provocazione: «Basta considerare che due millenni dopo Platone gli scienziati lavorano ancora con i costrutti della mente. Dunque, anche la scienza appartiene a questa tradizione idealistica e platonica che insegnava a diffidare delle informazioni che derivano dalle impressioni sensibili». D’accordo, ma è pur vero che la tradizione idealistica ha mortificato il corpo. «Onfray ha anche ragione a insistere su questo punto», dice l’autore di Psiche e techne. «È stata la civiltà giudaico cristiana a mettere in ombra gli epicurei, i sofisti, a svalutare questioni empiriche che vanno reintegrate». È dunque d’accordo che la storia della filosofia vada riscritta? «Sono per una storia della filosofia che includa anche la dimensione corporea e trovi il suo coronamento nella fenomenologia di Husserl e in Merleau-Ponty, ma costruire una filosofia a partire dalla corporeità, come fa Onfray, è esattamente il rovescio dei limiti della filosofia idealistica». «Tutte le storie vengono continuamente riscritte nella prospettiva dei contemporanei», interviene Bodei che concorda con Onfray almeno su un punto: «Certo che vanno rivalutati Leucippo e Lucrezio, ed è bene ripartire dal basso per parlare dello spirito. Ma se uno volesse potrebbe trovare aspetti materialistici anche in Platone. La filosofia si è da sempre posta il problema del corpo, certo Epicuro ma anche Socrate, Lucrezio ma anche Giordano Bruno e persino Hegel». Sul fatto che le bordate di Onfray contro l’idealismo siano un pochino gratuite concorda anche Gianni Vattimo che pure vede nelle posizioni del francese una rimasticatura di Nietsche: «Onfray ha anche ragione a criticare il canone filosofico di impronta idealistica, ma che l’idealismo sia poco interessante per la scarsa attenzione al corpo mi sembra ormai una ovvietà acquisita». Sulla gratuità delle provocazioni del filosofo francese è d’accordo anche Salvatore Veca: «L’immagine canonica della filosofia antica fatta esclusivamente da Platone e Aristotele è superata da molto tempo. Nei buoni manuali di filosofia si è ormai consolidata una sorta di configurazione meticcia, Platone e Aristotele non vengono più studiati come figure assolute, ma come grandi canali in cui confluiscono prospettive diverse. Insomma, quella di Onfray mi sembra persino una posizione attardata». Dunque, Vattimo, quali filosofi del passato rivalutare o sottrarre all’oblìo? «Vorrei vedere maggiormente apprezzata la filosofia come esericizio ascetico di vita comunitaria, largo spazio a filosofi come Seneca, Marco Aurelio e persino a Cicerone». E lei Veca? «Riporterei in evidenza Epicuro, ridimensionerei Zenone, ma soprattutto vorrei che fosse considerato grandissimo Lucrezio». Il quale è grandissimo anche per Onfray. «Sì, ma fatto questo giochetto della torre, ho l’impressione che il suo schema sia banale e che si regga proprio sulla mitizzazione dell’asse Platone-Parmenide. Insomma, quella di Onfray mi sembra una trovata per vendere libri. Il suo approccio in realtà si basa su stereotipi, e risponde proprio in questo al canone».

Affari Italiani 9.12.06
La memoria da Sant'Agostino ad Heidegger. I segreti di un concetto affascinante
di Virginia Perini


Alzi la mano chi sa che Heidegger è stato un attento studioso di Sant'Agostino. Del libro X delle Confessioni in particolare.
Alta filosofia per parlare di memoria. Certo il protagonista del film Memento, che ha perso la memoria a breve termine a causa di un brutto incidente, non ha una vita. Ciò gli impedisce di riconoscere fatti e persone. La memoria è uno dei 'mondi' più complessi e importanti della vita della nostra coscienza e del pensiero.
Il filosofo Alessandro Ghisalberti, professore ordinario di Storia della filosofia medievale alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, parla con Affari di Heidegger e Agostino e annuncia una lettura heideggeriana della memoria come fonte di felicità.
Che cos’è la memoria per Agostino?
"Distaccandosi totalmente dalla concezione aristotelica della memoria, considerata il luogo di deposito delle immagini sensibili, che poi si vanno a far riemergere attraverso l’esercizio della reminiscenza (tutti conosciamo manuali di tecnica della memoria), Agostino fa della memoria il grande spazio dell’interiorità soggettiva, dove oltre alle immagini dei corpi stanno la memoria dei numeri, dei principi primi del sapere, delle tensioni del profondo con cui sentiamo di andare tutti necessariamente alla ricerca di felicità, di non trovarla nei piaceri fugaci della vita quotidiana, e perciò di invocarla con tutto il nostro essere: la felicità è possesso pieno del bene, e questo chiamiamo verità, ossia l’essere contenti solo quando ci capita di stare nelle cose veramente buone".
Dunque Agostino trova delle risposte?
"Agostino trova così la risposta alla domanda principale del libro X delle Confessioni: sono certissimo di amare Dio, ma ogni momento mi sorge l’interrogativo circa che cosa amo veramente quando amo Dio. Amo una cosa che sta nel profondo della mia memoria, di cui mi ricordo sfruttando anche i modi dell’oblio, e che struttura il mio pulsare vivo come un grande amore ed insieme una struggente nostalgia".
E la ripresa di Heidegger?
"Heidegger connette l’istanza del neoplatonismo, ossia la dottrina dell’interiorità, con la ricerca che Agostino fa del proprio mondo più intimo, quello della memoria contenitrice delle istanze della vita protesa verso la felicità, la quale deve fare i conti con tutte le forme della finitezza e della decadenza. Heidegger legge i tre generi di “tentazioni” di cui parla Agostino, come il necessario tributo alla “mondanizzazione”, alla dispersione dell’essere, che segna la finitezza dell’uomo".
Come si realizza?
"La prima forma del tentativo è data dalla concupiscenza carnale: memoria e concupiscenza che operano anche nel sonno, il piacere del cibo e delle bevande, la sensualità dell’odorato, dell’udito, degli occhi. Duplice tentazione della vista: il guardare la carne (la pornografia degli occhi, attratti dai prodotti degli uomini), e il guardare nella carne (la concupiscenza degli occhi, il gusto del mero guardare, della pura curiosità). La seconda forma della tentatio è rappresentata dalla bramosia (cupiditas) della vista che si traveste del nome di scienza, di ricerca spasmodica di forme nuove di conoscenza e di ammirazione, che distolgono la mente dall’ordine primo e universale".
E la terza forma?
"La terza forma della tentatio è data dall’autocompiacimento, dall’amore di sé che passa per la lingua (le tentazioni delle parole), dalla ricerca della lode anche attraverso la menzogna, opposta al vero piacere che è suscitato dal riconoscimento del dono ricevuto, e non dall’attaccamento all’io che riceve. Emergono qui i caratteri della verità che stanno a cuore a H.: solidità, anteriorità, la giustizia creata dalla continenza, la quale attiva pienamente la cura (Sorge) dell’amore".
L’originalità della lettura di Heidegger?
"Opta per una lettura fenomenologica, nel senso husserliano, dell’influenza esercitata in Agostino dal neoplatonismo sulla dottrina dell’interiorità, sulla ricerca del proprio mondo vitale (Lebenswelt) e della vita affettiva nel presente. Esiste una struttura del significare nel mondo dell’interiorità, e nella memoria in particolare, che non è catturabile attraverso la determinazione della conoscenza, ma è caratterizzabile come apertura, come coinvolgimento del flusso della coscienza del soggetto. Per Heidegger non ci si deve fissare sulla determinatezza del significato delle parole di Agostino, ma si deve prestare tutta l’attenzione al processo interiore, a ciò che va raccogliendosi nel cuore della parola, la quale si lascia interpretare in base agli stimoli che la fanno sorgere".

Panorama 4.12.06
Piergiorgio Odiffredi.
La matematica non è un'opinione. La fede invece sì
di Vera Schiavazzi


Piergiorgio Odiffredi, 56 anni, insegna logica matematica all'università di Torino, è autore di saggi e libri divulgativi e collabora con diversi giornali.
Lo studioso piemontese lavora a un nuovo libro in cui promette di attaccare ogni dogma della Chiesa. E intanto spiega come fa a rendere attraenti i numeri.

Doveva essere un tranquillo geometra di Cuneo, o magari un ingegnere o un architetto, come il padre e gli zii. Ma nell'estate del 1969 accaddero due eventi imprevisti: l'università aprì le porte anche a chi non aveva fatto il liceo e il diciannovenne Piergiorgio Odifreddi si imbatté in Bertrand Russell e nella sua Introduzione alla filosofia matematica. «Quel libro» scherza oggi lo scienziato polemista più alla moda d'Italia «mi ha salvato la vita: se fossi diventato ingegnere, mi sarebbe toccato di lavorare».
Da allora Odifreddi, accento piemontese coltivato con cura, come la barba risorgimentale e una certa inclinazione a farsi fotografare di tre quarti, ha fatto un mucchio di strada. Fino a diventare un matematico apprezzato in tutto il mondo, un ottimo divulgatore, un intellettuale brillante ed eclettico, capace di passare dal saggio al racconto e dal racconto al teatro, un professore ingaggiato anche negli Stati Uniti. E un grande dissacratore.
Non contento di aver reso la matematica più attraente e provocante di quanto fosse mai stata, indulgendo a giochetti come calcolare in metri l'ascensione della Madonna, ora Odifreddi si attacca alla religione, aggredendola dogma dopo dogma, credenza dopo credenza: Perché non possiamo dirci cristiani (e meno che mai cattolici) è il titolo del suo prossimo libro, che la Longanesi pubblicherà a marzo 2007.

Odifreddi, perché tanta ostilità verso la religione? Di solito, gli scienziati si limitano a pronunciarsi su singoli aspetti, come la fecondazione assistita o l'eutanasia. Lei invece pare un mangiapreti.
Diciamo che i laici italiani sembrano avere un po' abbassato la guardia, mentre le gerarchie cattoliche sono agguerrite. C'era bisogno di un controcanto e io ho provato a scriverlo. Non mi sento un militante ateo, come i miei amici dell'Uaar (l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti che ha in Odifreddi il suo «intellettuale di riferimento», ndr) con le loro campagne in favore dello «sbattezzo». Ma ritengo che l'influenza della Chiesa sia immensa, eccessiva, e che invada ogni aspetto delle nostre vite, come è evidente appena si guarda un telegiornale.

Con quali risultati?
La diseducazione alla razionalità. Pensiamo al mondo dei ragazzi, Harry Potter da una parte, ora di religione dall'altra. Guardiamo i programmi scolastici: non pretendo che la matematica superi ogni altra materia, mi accontenterei di un giusto equilibrio tra materie scientifiche e materie letterarie.

Perché questa irrazionalità dilagante, secondo lei, deriverebbe dal Cattolicesimo?
Perché è la più dogmatica delle religioni. Altri, come gli ebrei o i protestanti, hanno quantomeno un rapporto più stretto con il Libro, sono abituati a leggere direttamente e a interpretare. Altri ancora, come i buddisti, non sono dogmatici per nulla, la loro religione si basa sulla ricerca dell'armonia tra uomo e natura e non confligge necessariamente con la scienza. Quanto all'Islam, oggi non è certamente all'avanguardia, ma nei secoli più bui ha dato molto alla cultura scientifica. Identifichiamo la scienza con l'Occidente, ma questo non è esatto.

È per questo che ha studiato in Russia e in Cina?
Sì, volevo rendermi conto di ciò che avveniva in contesti scientifici completamente chiusi, o quanto meno separati dal nostro. È stata un'esperienza molto utile.

Esempi concreti di mancanza di razionalità?
Eccone alcuni. I nostri governanti che parlano continuamente della necessità di combattere la criminalità, la droga, l'aids. Tutte cose giuste, per carità, ma certamente non prioritarie se si guardano i numeri: in Italia muoiono ogni anno circa 600 persone ammazzate, altre 800 per aids, un migliaio a causa della droga.
I morti per tabacco e alcol sono invece 120 mila, cioè 300 al giorno. Qual è, allora, la priorità politica? Il potere simbolico degli avvenimenti, per esempio l'attentato dell'11 settembre con i suoi 3 mila morti, spesso travalica la realtà. Le torri abbattute hanno cambiato il nostro modo di pensare molto di più delle bombe americane su Hiroshima e Nagasaki.

Ma i numeri sono davvero sufficienti a scegliere? Non è necessaria anche un'etica che indirizzi, per esempio, la ricerca medica?
La medicina rappresenta un grosso problema. È un caso molto particolare e non la si può definire una scienza. Oggi, comunque, a orientarla è soprattutto il business. E l'irrazionale viene ampiamente cavalcato anche dai medici. Un conto è essere favorevoli alla ricerca sulle staminali e alla libertà dei singoli rispetto alla fecondazione, un altro è l'accanimento per avere un figlio a ogni costo, con qualsiasi mezzo.
Il lato oscuro della scienza è proprio questo, l'aspetto mercantile. Oggi sappiamo che una quota rilevantissima della ricerca è, direttamente o indirettamente, collegata alla produzione di armamenti. Un fatto drammatico, contro il quale possiamo soltanto esercitare una razionale vigilanza.

Lei ha avuto, come la maggior parte degli italiani della sua generazione, un'educazione cattolica. Come l'ha abbandonata?
Semplicemente crescendo, come quasi tutti. La religione è un modo di pensare infantile, serve a rassicurare i bambini, a consolarli contro la morte e le altre grandi paure. Ha per loro la stessa funzione che Fëdor Dostoevskij e Jean-Paul Sartre hanno per un adolescente in crisi esistenziale: poi passa. Oggi milioni di adulti si definiscono o vengono definiti come cattolici, ma soltanto perché non si pongono davvero la domanda su ciò in cui credono. Se lo facessero, moltissimi scoprirebbero di avere ben poco a che fare con una chiesa che, peraltro, non frequentano.

Le sue idee così nette in campo religioso trovano una collocazione politica adeguata?
No, non ho un'appartenenza politica. Sono stato molto a sinistra quando questo aveva un senso, e ancor oggi non mi riconosco in alcuna forza parlamentare. Anche in questo campo, comunque, si tende a rileggere la storia in un modo che non condivido. Il fallimento dell'Unione Sovietica ha azzerato l'idea comunista, ma il Medioevo non pare aver lasciato ombre sul Cattolicesimo.

Torniamo alla matematica, una disciplina che ha un'immagine difficile, astratta, respingente… Alcuni divulgatori, come lei, provano a farla diventare attraente. Ma come?
Spiegando che si tratta semplicemente di un linguaggio, certo complesso ma comprensibile e applicabile in molti campi. Dalla pittura, dove grandi artisti come Leon Battista Alberti e Piero della Francesca l'hanno utilizzata per introdurre la prospettiva, alla musica, con i canoni di Johann Sebastian Bach, che provo inutilmente a studiare al pianoforte. Scrittori come John Coetzee arrivano dalla matematica, che affascinava profondamente anche Italo Calvino. La matematica serve a ragionare, a tenersi alla larga dalla magia, o quanto meno a non farsene influenzare troppo.

Lei oggi insegna all'Università di Torino, scrive saggi teorici e libri per tutti, come «Il matematico impertinente», intervista ed è intervistato. Non ha paura che troppa visibilità le impedisca di studiare?
A impedirmelo sarà più semplicemente l'età. La matematica è impegnativa, richiede una mente da atleta, dopo una giornata di calcoli e di equazioni sei esausto. In questo senso è meglio dedicarvisi da giovani. Dopo la si può insegnare, spiegare, e si può continuare a godere della sua eredità più importante: una mente improntata alla logica.
Del resto anche da bambini la matematica è ardua: le capacità in questo campo si sviluppano solo verso i 13, 14 anni, e apparentemente più tra gli uomini che tra le donne. È impossibile insegnarla «a orecchio», occorrono tecnica e concentrazione. Insomma, tra le altre cose, questa scienza ci dimostra che esistono tanti tipi di intelligenza diversa.

Se avesse fatto un altro mestiere, che cosa le sarebbe piaciuto?
Diventare ministro dell'Istruzione. Ma è un rischio che non corriamo né io né gli italiani: per farlo bisogna essere democristiani.

Alla fine chi la spunterà, i preti o gli scienziati?
Dati i problemi del pianeta, come la scarsità di energie, c'è la possibilità che la civiltà tecnologica finisca prima della religione. Personalmente, non condivido il tono di certi catastrofismi ambientali e non sono contrario al nucleare, che oggi appare come la più efficace tra le fonti rinnovabili. Ma credo che questi problemi vadano affrontati a livello mondiale. E mi irritano certe nostalgie bucoliche del bel tempo che fu, quando si stava così meglio che la vita media durava 35 anni.

Come fa un matematico a innamorarsi?
Non ha nessuna difficoltà, basta che usi la parte non razionale del suo cervello, che in genere è un buon 50 per cento. Chi lo sa, forse l'amore coinvolge invece una razionalità più profonda che ancora non conosciamo. Ma va benissimo così.