sabato 10 luglio 2010

l’Unità 10.7.10
Bersani: «Quadro allucinante Il governo riferisca in Aula»
di A. C.

Opposizioni indignate per l’affaire di Flavio Carboni, arrestato con l’accusa di aver fatto pressioni sulla Corte Costituzionale per il lodo Alfano. «Dall’inchiesta emerge un quadro allucinante», ha detto Pierluigi Bersani. «I magistrati vadano fino in fondo, e il governo per favore venga in Parlamento a dirci qualcosa su questa vicenda». «Viene il dubbio ha aggiunto il leader Pdche nella fase del “ghe pensi mi”, sotto l’imperatore si muovano vassalli e valvassini che cercano di far andare le cose in un certo modo. Quindi c’è anche un problema di trasparenza». Bersani ha anche parlato della salute del governo: «Non reggeranno tre anni. Siamo al secondo tempo del berlusconismo, ma potrebbe essere un periodo pericoloso. Non so quanto durerà, noi dobbiamo essere pronti e presenti». Rincara la dose il responsabile Giustizia Pd Andrea Orlando: «Il governo deve chiarire al più presto e in sede istituzionale fino a che punto questa cricca eversiva ha condizionato la dinamica politica di questa stagione».
E ancora: «Il governo smentisca la notizia secondo cui alcuni esponenti dell’esecutivo e del Pdl avrebbero partecipato a riunioni per condizionare organi costituzionali»: solo in questo caso le persone coinvolte potrebbero continuare a esercitare la loro funzione». Il riferimento di Orlando è al sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo e al coordinatore Pdl Denis Verdini. Il sottosegretario ha ammesso di aver partecipato a una riunione con Pasquale Lombardi, uno degli arrestati, ma esclude «nella maniera più assoluta che durante la mia presenza alla riunione si sia parlato di possibili interventi presso la Corte Costituzionale».
Di Pietro parla di «tentativo chiaro di condizionare l’attività della magistratura», di «attentato allo stato di diritto». «Il puzzle sta per essere completato e porta la firma del Piano di Rinascita della P2». «Il ministro Alfano venga urgentemente a riferire in Parlamento», dice Leoluca Orlando. «Dall’ordinanza del gip De Donato emerge un quadro inquietante ed eversivo. Verdini, Caliendo, Cosentino, Dell’Utri e Cappellacci si devono dimettere». Dura anche l’Udc: «Quadro torbido e preoccupante, emerge un sistema di potere che punterebbe a intimidire e assoggettare parti dello Stato», dice Gianpiero D’Alia. «Se ne occupi la Commissione Antimafia».Opposizioni unite per chiedere chiarezza sull’affaire Carboni. Bersani: «Quandro allucinante, il governo riferisca in Parlamento». Orlando (Idv): «Caliendo e Verdini si dimettano». D’Alia (Udc): se ne occupi l’Antimafia.

l’Unità 10.7.10
«400 i migranti nei nostri centri». L’allarme di Napolitano: si faccia luce sui rifugiati
Il giurista Paleologo: lavori forzati in campi segregati. Quale destino per chi non accettasse?
Tripoli ammette: sono 245 gli eritrei consegnati dall’Italia
La Libia ammette: 400 rifugiati nel Paese, 245 quelli rispediti indietro dall’Italia. 245: lo stesso numero degli eritrei segregati per 8 giorni nel carcere di Brak. Napolitano: fare piena luce sulla vicenda...
I respingimenti collettivi: «Sono vietati da tutte le convenzioni internazionali»
Thomas Hammarberg: «Sui migranti violenze della polizia libica molti feriti seriamente»
di Umberto De Giovannangeli

Tripoli dà i numeri. E mette nei guai l’Italia. In Libia, rileva una nota del ministero degli Esteri della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista libico (ore 21:03 di giovedì scorso) citata dall’agenzia ufficiale Jana e ripresa dalla Reuters, ci sono 400 rifugiati in totale, 245 dei quali sono stati respinti da pattuglie italiane e consegnati a Tripoli. Duecentoquarantacinque: un numero che ricorre in queste drammatiche giornate. Altro che liberazione. Altro che «caso chiuso». A sottolinearlo, in una lettera inviata dal presidente del Cir (Centro Italiano Rifugiati),Savino Pezzo, è il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «Nella lettera riferisce Christopher Hein direttore del Cir afferma anche che la vicenda continuerà a essere seguita “con la dovuta urgenza” nell’auspicio che possano essere rapidamente chiarite le ragioni che hanno determinato la richiesta di aiuto dei rifugiati eritrei e che sia fatta luce sulle condizioni della loro permanenza presso i campi profughi della Libia».
CARCERE E LAVORI FORZATI
Rischiano i lavori forzati i 245 rifugiati eritrei rinchiusi nel carcere libico di Brak, nei pressi di Sebah. Non sono solo associazioni umanitarie a paventarlo. A denunciarlo è anche il giurista Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo. «L’accordo di liberazione e residenza in cambio di lavoro» annunciato dal ministro della Pubblica Sicurezza libico, il generale Younis Al Obedi, che prevede «lavoro socialmente utile in diverse shabie (comuni) della Libia» nasconde, secondo Paleologo, una forma diversa di detenzione nei campi di lavoro libici. Il documento si intitola «Arbeit macht frei» (Il lavoro rende liberi) in riferimento alla scritta che campeggiava all'ingresso del campo di concentramento di Auschwitz. Paleologo denuncia che «una parte soltanto dei detenuti di Sebah ha accettato» e che questa condizione «non permetterà loro alcuna libertà di circolazione, come spetterebbe a qualunque titolare del diritto di asilo, e li consegnerà ad una rigida catena gerarchica che esigerà da loro un vero e proprio lavoro forzato». Paleologo si chiede ancora: «Che fine faranno poi coloro che non accetteranno l'imposizione di questa ulteriore deportazione? Quali mezzi di persuasione verranno impiegati?». Nel documento si sottolinea che: «Il lavoro promesso in cambio della libertà appare solo come un tentativo di disperdere il gruppo di profughi eritrei, da giorni vittima di torture e violenze da parte della polizia libica, e rendere più difficili le inchieste internazionali sulle responsabilità di questa ennesima deportazione violenta subita da persone che avrebbero dovuto essere accolte come rifugiati».
Il giurista palermitano sostiene che diverse testimonianze raccolte smentiscono le dichiarazioni del ministro dell'Interno Roberto Maroni, il quale ha negato il coinvolgimento del governo italiano nella vicenda dei profughi eritrei trattenuti in Libia perché non sarebbe dimostrato che si tratti delle stesse persone respinte in mare dall'Italia. «La Corte Europea dei diritti dell'Uomo potrebbe emettere una sentenza di condanna per i respingimenti collettivi verso la Libia, vietati da tutte le convenzioni internazionali», ricorda Paleologo, che entra nel merito degli accordi bilaterali tra l'Italia e altri 30 Paesi. «Il governo italiano non vuole ammettere che gli altri accordi bilaterali sono solo accordi di riammissione, ma non prevedono il respingimento collettivo in acque internazionali, come nel caso degli accordi con la Libia scrive il giurista Lo stesso accordo tra Spagna e Marocco, troppo spesso richiamato a sproposito, ha consentito il respingimento di natanti fermati in acque marocchine, e non in acque internazionali, ed in ogni caso il Marocco, a differenza della Libia, aderisce alla Convenzione di Ginevra e consente, sia pure con gravi limiti le attività dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati». Viene ricordato un episodio di grave violazione dei diritti umani. «Nei giorni scorsi centinaia di nigerini presenti in Libia sono stati deportati in Niger, come riferisce la stessa agenzia di stampa ufficiale Jana, senza che a nessuno di essi fosse consentito chiedere asilo in Libia o far valere la protezione internazionale", scrive ancora Paleologo.
ALTRO CHE «CASO CHIUSO».
La richiesta al governo italiano, rilanciata dalle associazioni umanitarie e da un fronte parlamentare «bipartisan» ha un nome: reinsediamento. A chiederlo sono anche molti dei 245 eritrei «liberati». «Non lasciateci in balia dei libici», è il loro appello.
Il Commissario per i Diritti umani del Consiglio d'Europa Thomas Hammarberg afferma in una nota ufficiale di avere informazioni circa il fatto che i migranti sarebbero stati sottoposti a violenze dalla polizia libica, e che diversi di loro sarebbero rimasti feriti in modo serio. «Ci sono circa 400 migranti illegali dell'Eritrea detenuti in centri in Libia e vengono trattati come ospiti temporanei», puntualizza un comunicato del ministero degli Esteri libico citato dall' agenzia ufficiale Jana. «Le autorità libiche hanno aperto i centri di detenzione agli organismi umanitari e ai rappresentanti diplomatici perché testimonino le condizioni e il trattamento dei migranti», sostiene l'agenzia. «È una cosa che di per sé smentisce le accuse di maltrattamento».

l’Unità 10.7.10
Le iniziative
Italiani e eritrei, sit-in solidale al Parlamento e all’ambasciata
Giovedì davanti all’ambasciata libica e in piazza Montecitorio, oggi a Bologna e Firenze. La vicenda dei profughi eritrei ha scosso l’anima solidale dell’Italia. «Non lasciamoli morire, libertà per i profughi eritrei imprigionati in Libia» è lo slogan del sit-in del Pd davanti al Parlamento; con loro anche Livia Turco. «Non è possibile rimanere indifferenti di fronte a persone che fuggono da regimi dittatoriali ha detto il responsabile Immigrazione giovani del Pd, Khalid Chaouki Soprattutto di fronte ad un accordo con la Libia che ci rende pienamente responsabili di quello che lì avviene». «Coraggio fratelli, noi siamo con voi, lotteremo fino a quando il governo italiano non vi farà venire qui come rifugiati politici» è il messaggio di alcuni rifugiati eritrei ai 250 ristretti in Libia. «Asmerom, Mahari, Mahtios e Tzegga sono quattro rifugiati che vivono a Roma da anni. «Tutti noi eritrei dicono fuggiamo dal nostro Paese perché lì non è possibile una vita normale: c'è la dittatura, ci sono le persecuzioni, da 16 anni a 60 anni la vita non è più tua ma del dittatore. E il governo italiano ci butta verso il mare e fa affari con i dittatori eritrei».

l’Unità 10.7.10
Reato di immigrazione clandestina, la partita è ancora aperta
La Corte Costituzionale ha depositato le motivazioni delle sentenze con le quali ha affrontato la questione della legittimità dell’aggravante di clandestinità (249/2010) e del reato di immigrazione clandestina (250/2010). In relazione all’aggravante di clandestinità, la Consulta ha affermato senza mezzi termini che i diritti inviolabili spettano «ai singoli, non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani» e, pertanto, «la condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie nell’ambito del diritto penale ». Pertanto, l’aggravante di clandestinità è stata considerata incostituzionale, per violazione dell’art. 3 e dell’art. 25 della Costituzione, perché la sua unica giustificazione sarebbe «una presunzione generale ed assoluta di maggiore pericolosità dell’immigrato irregolare, che si riflette sul trattamento sanzionatorio di qualunque violazione della legge penale da lui posta in essere». Più chiaro di così. Il reato di immigrazione clandestina, invece, ha superato l’esame della Corte. Ma, nel leggere la sentenza, sembra che la Consulta abbia lasciato dei margini per ulteriori esami, laddove le ordinanze di rinvio investano profili che, fino ad esso, sembrano non essere stati sollevati. La Consulta, infatti, ha sottolineato come, sebbene la classificazione dell’immigrazione irregolare come reato rientri «nella discrezionalità del legislatore», tale discrezionalità potrebbe «formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove si traduca in scelte manifestamente irragionevoli e arbitrarie». Insomma, la partita resta ancora aperta. Provvidenzialmente.

l’Unità 10.7.10
Faccetta nera
Eritrea-Etiopia atroci conquiste degli italiani
Non c’è nulla di più resistente del mito degli italiani brava gente. Ma gli storici e i documenti fotografici raccontano torture, repressione feroce e offese violente alle donne
di Iolanda Bufalini

Turismo sessuale di guerra potremmo titolare questa sezione della mostra che si è chiusa ieri all’Accademia britannica di Roma. Sono immagini atroci, anche quando i volti sorridono e la messa in posa ammicca alla presunta «disponibilità delle donne native». Le etiopi, le eritree che subirono l’occupazione italiana dal 1935 al 1941.
Sono immagini che fanno parte di una sezione più ampia della mostra «Margini d’Italia» organizzata da David Forgacs, storico britannico, che per curarla e raccogliere i materiali ha soggiornato sei mesi ad Addis Abeba, oltre che in Italia.
In Etiopia Forgacs ha incontrato i vecchi patrioti che comabatterono contro gli italiani, filmato i loro racconti e riprodotto le fotografie che ancora i combattenti conservano. Si tratta di immagini molto rare, perché i combattenti africani non avevano macchine fotografiche e la gran parte della documentazione fu scattata quando, nel 1941 , arrivarono gli inglesi. Per questo è particolarmente importante il ritratto di Jagema Kelo con un fucile russo, fatto quando Jagema Kelo, figlio di un signore locale, capo di una banda ad ovest di Addis Abeba, che aveva solo quindici anni, aderì alla resistenza e prese il comando di un’unità. «Gli storici italiani, da Angelo Del Boca a Luigi Gorla, a Nicola Labanca hanno raccontato la verità. Ma il mito di ‘italiani brava gente’ è duro a morire. Anche gli italiani che ho incontrato in Etiopia, i discendenti di quelli che erano rimasti nel corno d’Africa, sono convinti che quello italiano fu un colonialismo pacifico, finalizzato a dare un po’ di terra ai contadini. Ma non è vero, fu una guerra violentissima, anche perché la resitenza era forte. Una situazione analoga a quella dell’Afghanistan oggi, con le truppe di occupazione che controllavano le città ma non le campagne. Dopo l’attentato a Graziani, la repressione fu feroce, con migliaia di morti». Ci sono le fotografie, in parte scattate dagli stessi militari italiani, degli impiccati e delle teste mozzate ed esposte appese a un cappio per terrorizzare. C’è l’immagine di un combattente torturato che giace in terra. C’è
la copertina della “Difesa della razza” che, in modo inquietante, raffigura un gladio che separa l’effige di un romano da quelle di un ebreo e di un africano.
Due delle immagini che pubblichiamo fanno parte della raccolta di Luigi Goglia, ora nel Laboratorio di Ricerca e Documentazione Storica Iconografica dell'Università di Roma Tre. «Nel porto di Massaua sul Mar Rosso quattro marinai italiani tengono ferma una giovane eritrea mentre il loro compagno, un marconista della marina, Mario Fiore, scatta una foto-ricordo. La ragazza ha la testa abbassata ma è costretta dalle mani che la afferrano a stare in piedi e a mostrare i seni all’obiettivo. Uno dei marinai tiene in mano la camicia strappata alla ragazzina. Ci sono anche due uomini eritrei, uno dei quali sorride, stanno a guardare». Il disagio che proviamo a guardarla 75 anni dopo, spiega Forgacs, è perché «siamo costretti a vedere la scena dalla posizione del fotografo. Riceviamo in pieno i sorrisi dei suoi compagni che ci invitano a partecipare al loro divertimento. Mentre vorremmo identificarci con la sofferenza e il pudore violato della giovane».
L’immagine con la donna a seno nudo sulla città costruita dagli italiani combina l’uso del corpo femminile con la “promozione del prodotto”, come le tecniche pubblicitarie fanno fino ai nostri giorni: «In questa singolare fantasia sostiene David Forgacs il paesaggio e la donna sono allo stesso tempo pronti ad essere presi dal colonizzatore bianco». L’idea della disponibilità delle «native» si diffondeva in Italia attraverso le canzoni, come “faccetta nera” e attraverso le cartoline e le fotografie dei militari con ragazzine nude. Ma «Alcuni testimoni italiani contemporanei ammisero che molte immagini della ‘donna nativa’ erano false. Molte delle foto-ricordo scattate dagli italiani erano di prostitute di città».
Alla mostra si è affiancato un convegno di due giorni, con sedute plenarie e seminari. Fra gli altri abbiamo ascoltato l’intervento di Nicola Labanca che ha presentato i testi del “diritto coloniale” in cui si stabiliscono le norme di segregazione nei confronti dei «sudditi» africani distinti dai «cittadini». Il pane per questi, ad esempio, doveva esserre «abburrato all’80 per cento, al 20 per cento quello dei sudditi». I salari degli italiani più alti, a questi ultimi, però, era vietato fare i cencialioli o i saltimbanchi, «per difendere la dignità della razza».

il Fatto 10.7.10
Morte in Libia, vergogna Frattini
Il ministro degli Esteri di un governo collaborazionista con il regime di Gheddafi: indifferenza e disumanità
di Furio Colombo

La sera di mercoledì 7 luglio il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini è stato intervistato per il Tg3 (ore 19) da Elisabetta Margonari. Tema: 245 eritrei imprigionati e torturati dai libici. È una breve e terribile conversazione, in cui il capo della diplomazia di questa Repubblica ci fa sapere il grado di indifferente e irritata disumanità in cui è stata spinta l’Italia. Troverete il testo qui accanto. In queste righe riporto e commento i punti più impressionanti. La giornalista chiede se è possibile che gli eritrei dello spaventoso campo di Braq, che rischiano di morire stipati in celle sotterranee nel deserto, possano davvero essere liberati e lavorare, in Libia come annunciato dalla Farnesina. Frattini: “Siamo convinti che la rapidità con cui siamo arrivati a questo accordo dimostri la nostra buona fede, sicuramente quella dei libici”. Frattini sembra non ricordare che, con pompa e colore (e Berlusconi che bacia le mani a Gheddafi e le Frecce tricolori che saettano in onore di Gheddafi nel cielo di Tripoli) è stato firmato un trattato con la Libia, ratificato da tutto il Parlamento italiano, tranne una tenace opposizione dei deputati radicali, a cui – assieme a pochi altri – mi sono unito.
QUEL TRATTATO stabilisce che la Libia, in cambio del versamento da parte dell’Italia di 20 (venti) miliardi di dollari, provveda a bloccare qualunque tentativo di migrazione, dal deserto o dal mare, verso l’Italia. Infatti, dopo che le grida di aiuto e la denuncia di orrori dal campo di Braq avevano raggiunto l’Europa, né la Libia, né l’Italia hanno mosso un dito. Due lettere del commissario europeo per i diritti umani Hammarberg sono rimaste senza risposta. Ma Tg3 per primo, l’Unità e altri giornali (tra cui Il Fatto) hanno forzato il blocco del silenzio. Poi sarebbe stato raggiunto l’accordo, di cui non si vede e non si può verificare nulla. Una lettera del deputato radicale Mecacci, con dure e precise domande, è rimasta senza risposta. Ma ecco la voce, il pensiero, il senso di Frattini per gli esseri umani. Giornalista: “Queste persone che denunciano torture sono state respinte mentre cercavano di raggiungere l’Italia. Non ci riguarda?”. Frattini: “Bisogna vedere se dicono la verità (…). E poi è molto curioso che persone che si dicono torturate avessero telefoni satellitari con cui parlare con mezzo mondo”.
NOTARE la sprezzante espressione, “parlare con mezzo mondo”, come di petulanti vicini di ombrellone che disturbano con i loro telefonini. Notare l’avvertimento del ministro degli Esteri italiano ai carcerieri libici: “Attenti a perquisire bene i prigionieri. Non lasciate in giro telefonini”. Di sangue, torture e morte il ministro italiano, che ha coinvolto l’Italia in quell’impresa criminale, non vuol sentire parlare. “Chi lo dimostra? Qui niente è provato”. Neanche Via Tasso era provata. E chi ci proverà che gli eritrei, prigionieri di Italia e Libia, sopravviveranno?

il Fatto 10.7.10
Eritrea, prigione a cielo aperto in guerra da vent’anni
di Gianni Perrelli

Asmara. Attraversano di notte con i miseri fagotti la mai definita frontiera con l’Etiopia o i valichi desertici che sfociano in Sudan. Migliaia di profughi rischiano ogni anno la vita per fuggire dall’Eritrea, che secondo Human Rights Watch è diventata una gigantesca prigione a cielo aperto. Proseguono a tentoni, taglieggiati dagli sciacalli delle migrazioni clandestine, verso il miraggio dell’Europa. Rimanendo quasi sempre incastrati (come i protagonisti delle recenti, drammatiche cronache) nei lager-trappola della Libia. Ma le fughe proseguono ininterrottamente. Per chi ha coraggio, la percezione dell’altissimo rischio è com-pensata dalla forza della disperazione. Meglio giocarsi la vita ai dadi che languire in un gigantesco lager dove non si vota mai, finché non si è vecchi è impossibile procurarsi un passaporto, la libertà di parola è duramente repressa e se non si ricevono rimesse dall’estero si vive di stenti con le razioni di cibo fornite dallo Stato. L’Eritrea (quasi sette milioni di abitanti, nove etnie, per oltre la metà musulmani sunniti, per un terzo cristiani ortodossi) è oggi uno dei paesi più isolati del pianeta insieme con la Corea del Nord, la Birmania e il Turkmenistan. Retta con il pugno di ferro dal presidente autocrate Isaias Afewerki, 65 anni, leader del Pfdj (Fronte popolare per la democrazia e giustizia) che ha deviato l’originale ispirazione stalinista verso una miscela di socialismo, islamismo e nazionalismo sfrenato . Stremata da un’economia asfittica appena alleviata dagli aiuti degli organismi internazionali, ma su cui si sono abbattute le sanzioni degli Stati Uniti per l’appoggio in Somalia alle Corti islamiche alleate di al Qaeda.
Dall’anno dell’indipendenza dall’Etiopia (1993), l’Eritrea è stata quasi sempre in guerra. Con lo Yemen per la sovranità di alcune piccole isole, con il Sudan e Gibuti sempre per questioni territoriali, in Somalia tramite l’appoggio all’ala più radicale dei combattenti islamici. All’interno, contro gruppi di guerriglieri nemici di Afewerki. Ma il conflitto dal quale il paese non si è mai del tutto ripreso è stato quello (1998-2000) con l’Etiopia che provocò 70 mila morti. Dopo la pace firmata ad Algeri è rimasto irrisolto il problema dei confini monitorati fino al 2008 da contingenti dell’Onu. Oggi la frontiera è ufficialmente chiusa. Con le truppe che si fronteggiano guardandosi in cagnesco. Asmara non ha relazioni diplomatiche con l’Etiopia. Ad Addis Abeba ha inviato sì un ambasciatore ma presso la sede dell’Unione Africana. Afewerki si ostina a evitare qualsiasi contatto con Meles Zenawi, il premier etiope, a cui era molto legato ai tempi (anni Ottanta) della comune lotta di liberazione contro il dittatore Menghistu Hailé Mariam oggi in esilio nello Zimbabwe. Il clima di mobilitazione militare permanente ha prodotto la leva obbligatoria per chi ha meno di 50 anni. In pratica, quando la patria chiama (e chiama spesso) ogni eritreo deve imbracciare il fucile. E nel bilancio dello Stato le spese per gli armamenti sono una delle prime voci. Ad Asmara, che ospitando piccoli flussi di turismo internazionale conserva una sua dimensione cosmopolita, si avverte meno il senso di prostrazione. Sì, non possono passare inosservate le lunghe code davanti ai negozi di Stato. Si percepisce la carenza di cibo e di carburante, aggravata dal carovita: un chilo di zucchero non razionato costa al mercato nero un terzo del salario medio mensile. Ma la capitale, dal punto di vista architettonico un gioiello dell’art deco, ha un suo volto disteso. La gente è cordiale, neanche nella penuria rinuncia al rito del caffè macchiato e alla convivialità di tradizione italiana. E’ nelle desolate campagne, dove il visitatore straniero può accedere solo con uno speciale permesso, che balzano più all’occhio le difficoltà di un paese dove il reddito pro capite è di soli 300 dollari l’anno (meno di un dollaro al mese).
Afewerki, nella sua paranoia isolazionista , nutre una vera e propria idiosincrasia per le interferenze dall’estero. Ha messo al bando quasi tutte le Ong occidentali ed espelle dal paese qualsiasi straniero risulti sospetto di voler mettere il naso nelle faccende di Stato. Ancor più pesante è la mano con il dissenso interno. Le carceri sono piene di oppositori. Sono stati epurati perfino una mezza dozzina di capi della lotta di liberazione che avevano preso le distanze dagli eccessi di repressione. I giornali e le tv sono da anni imbavagliati: il regime li ha statalizzati tutti e nessun organo di stampa può registrare neanche un minimo accenno di critica. Eppure Afewerki, rampollo di una famiglia elitaria di religione cristiano ortodossa ed ex studente di scienze naturali, dopo la presa del potere sembrava intenzionato a dar vita a uno Stato basato sulla giustizia sociale e sull’egualitarismo. Diede impulso fino alla guerra con l’Etiopia a un vasto piano di infrastrutture e introdusse alcuni diritti costituzionali . L’involuzione autoritaria, secondo molti politologi, deriva da un complesso dell’assedio che lo spinge a intravedere complotti ovunque. Mentre la vocazione militare, applicata in nome del patriottismo e della sicurezza nazionale, è anche un modo per nascondere gli immani problemi del paese nell’emergenza bellica. Nelle rare interviste l’autocrate si è difeso dalle accuse dicendo di essere vittima di una propaganda negativa, tendente a mettere in cattiva luce l’Eritrea. I profughi, secondo Afewerki, non fuggirebbero per ragioni politiche ma per cercare altrove migliori opportunità economiche. In Somalia lui non fiancheggia le Corti Islamiche, pensa semplicemente che una soluzione per quel tormentato paese possa venire solo dando rappresentanza a tutte le fazioni in guerra. E pur riconoscendo che l’Eritrea per ragioni contingenti attraversa serie difficoltà economiche, non manca di sottolineare che sanità e scuola sono gratuite, e in più non esistono né criminalità né corruzione. A differenza di tanti altri satrapi africani, Afewerki ci tiene a ostentare una vita molto frugale. Gira (apparentemente) senza scorta, manda i figli alla scuola pubblica, va da solo a comprarsi i vestiti e le scarpe. Osteggiato dagli Usa, ha buone relazioni con Israele da quando (negli anni Novanta) andò a curarsi a Tel Aviv. Ma recentemente ha stretto legami con l’Iran. Un’ambiguità di difficile interpretazione. Che cela probabilmente la necessità di rompere un isolamento letale per l’economia nazionale.

il Fatto 10.7.10
Botte in piazza Polizia fuori controllo
Le manganellate a Roma agli aquilani e sugli operai a Milano. Che succede?
di Paola Zanca

Giù la testa. Se protesti, son dolori. Dev'esserci qualcosa che non va se giovedì sera, un servizio di un tg nazionale – il Tg3 delle 19 – cominciava così: “Ma cosa sta succedendo alle forze dell'ordine? Perché tutta questa brutalità? È un eccesso di zelo o c'è una direttiva?”. Succede che nel giro di due giorni sotto i nostri occhi sono sfilate immagini surreali: prima i terremotati de L'Aquila, poi gli operai della Mangiarotti Nuclear. Rivendicano casa e lavoro, finiscono feriti in tre a Roma, in cinque a Milano. Le spiegazioni delle forze dell’ordine non convincono: nel caso degli aquilani, dicono sia colpa degli infiltrati dell'area antagonista romana e abruzzese, mentre contro gli operai milanesi sostengono ci siano state solo “azioni di contenimento”. Contenere cosa, non si sa.
Le forze dell’ordine e i feriti di questi giorni
Forse solo chi alza la testa: che l'aria che tira sia quella del “manganello facile”, è un dubbio che monta anche tra chi nella polizia ci lavora. “L'autoritarismo è il male del Paese e di questo governo”, dice Gianni Ciotti, che a Roma è segretario provinciale della Silp-Cgil. Gli episodi di Roma e Milano Ciotti li definisce “inconcepibili”.Ma un senso ce l'hanno eccome: nessuno crede che il clima si sia inasprito, che qualcuno abbia detto che è il momento di alzare le mani: “Direttive del genere non esistono e non possono esistere – spiega Ciotti – Ma è il sistema di tolleranza che è diverso”. A una manifestazione di terremotati, o alle proteste di lavoratori che rischiano di perdere il posto, ricorda Ciotti, “si sarebbe trattato fino all'inverosimile”. Cosa è cambiato? “Non siamo in un clima di tranquillità culturale, oggi chi dissente è un nemico. Chiunque manifesti è trattato come un diverso e può essere che anche l'agente delle forze dell'ordine lo percepisca come uno che rompe l'equilibrio. Oggi chi scende in piazza è uno che è fuori dalle regole: ma anche all'interno della polizia deve passare il messaggio che chi protesta ha gli stessi diritti di chi non protesta. Noi lo dobbiamo aiutare a manifestare, lo dobbiamo difendere” .E gli infiltrati? “Vorrei capire una cosa una volta per tutte: alla fine chi è stato ferito, un infiltrato o un cittadino inerme? Questa storia degli infiltrati continua a mostrare un po' di pecche – insiste Ciotti – Possibile che non si riesca mai a prenderne uno?”. Nemmeno dei famigerati black block si seppe più nulla. “È lì che bisognava fare chiarezza e stabilire qual era il modello di ordine pubblico vincente – dice Ciotti – Ma la politica non ha avuto forza di farlo. Ancora oggi – prosegue – vorrei qualcuno, non dico della maggioranza, ma almeno dell'opposizione che dicesse chiaramente se prende le distanze o meno dai poliziotti violenti di Genova”.
Per il Sap il modello vincente è il G8 di Firenze
Il modello vincente, “quasi da incorniciare” per Massimo Montebove, portavoce del Sindacato autonomo di Polizia fu quello di Firenze, al Social Forum del 2002, un anno dopo Genova: nessun contatto con i manifestanti, reparti “agili”, al massimo di 30 persone, servizio d’ordine interno al corteo, uso di lacrimogeni solo in casi di assoluta gravità e divieto assoluto di usare armi. Il Sap è convinto che a Roma il modello non abbia funzionato, sia perché c'erano “esponenti dell'area antagonista romana e abruzzese”, sia perché ci sono stati “tentativi di forzatura del percorso: non si può arrivare davanti a Palazzo Chigi, lo hanno impedito anche a noi quando abbiamo manifestato”. Ancora adesso sono “incazzati con il governo che ci sta trattando malissimo” e ammettono che quello che è successo a Milano è un “brutto episodio” che “la sera quando siamo senza divisa e discutiamo tra di noi, non ci lascia indifferenti”. “Le cose vanno migliorate, è evidente – conclude Montebove – Si sta tentando di incrementare la formazione psicologica degli agenti: da un lato per aumentare la professionalità, dall'altro perché ci sono stati episodi, penso al caso Aldrovandi, che hanno fatto capire che certi atteggiamenti vanno evitati”. Mentre vanno a lezioni di calma, le forze dell’ordine preparano “eclatanti iniziative di protesta”contro il governo e i minacciati tagli alle tredicesime. Chissà se a loro, alzare la testa, è ancora concesso.

il Fatto 10.7.10
Alleanza anti-bavaglio
Una giornata di sciopero per giornali, radio, tv e web Federazione della Stampa: “Il fronte è cresciuto”
di Stefano Caselli

Lo sciopero forse più controverso della storia del giornalismo italiano è andato in scena con successo, nonostante rimanga in piedi – insoluto – l’interrogativo-ossimoro di fondo, ossia l’efficacia di una “Giornata del Silenzio” proclamata “per fare rumore”. Nessun giornale in edicola (compreso Il Manifesto) tranne, com’era ovvio e prevedibile, Il Giornale, Libero, Il Tempo, Il Foglio e (seppur spaccato al suo interno) Il Riformista e il settimanale Gli Altri di Piero Sansonetti. Siti Web non aggiornati per 24 ore, finestre informative ridotte come previsto dalla legge sulla Rai (cui, come di consueto, si sono adeguate Mediaset, La7 e Sky), silenzio dalle agenzie (tranne l’AdnKronos): “Siamo molto soddisfatti – dichiara Roberto Natale, presidente della Fnsi – per il modo complessivo in cui lo sciopero è riuscito. Tra radio e televisione l’adesione è stata altissima, con punte del 99% a SkyTg24. La novità più importante però – prosegue – è che si è ristretta ulteriormente l’area dei giornali in edicola. Allo sciopero infatti, a differenza di quanto accaduto in passato, hanno aderito anche i quotidiani del gruppo Riffeser Il Giorno, Il Resto del Carlino e La Nazione”.
Anche molti periodici in edicola tra ieri e oggi hanno deciso di aderire alla protesta, rivolgendosi ai lettori con un comunicato firmato da 16 comitati di redazione, tra cui Mondadori, Rcs e Rizzoli.
Il Consiglio dell’ordine dei giornalisti appoggia “incondizionatamente” la protesta della Fnsi “contro il disegno di legge che pone intollerabili limiti al diritto di cronaca” e contemporaneamente “nella malaugurata ipotesi in cui il ddl venisse approvato nell’attuale formulazione” dà mandato al comitato esecutivo a “ricorrere a ogni possibile azione legale per difendere il diritto dei cittadini a essere informati”. Il dibattito sull’opportunità di ridursi al silenzio ha agitato nei giorni scorsi le redazioni di molti giornali, il Fatto Quotidiano compreso: “È uno sciopero di cui condividiamo fino in fondo le ragioni – ribadisce il blog di Marco Travaglio sul nostro sito – ma non le forme. Non ha alcun senso protestare contro il bavaglio imbavagliandoci per un intero giorno, facilitando il compito agli imbavagliatori che – oltre al danno la beffa – usciranno con i loro giornali-trombetta”. L’invito alla Fnsi, proveniente da più parti, di studiare forme alternative di protesta è stato respinto perché, spiega il presidente della Fnsi Franco Siddi “non è emerso alcun fatto nuovo”, ma il fattore determinante, probabilmente, è stato lo scarso tempo a disposizione per riformulare decisioni prese un mese fa.
Niente edicola nemmeno per Avvenire, il giornale dei Vescovi italiani, pur con molte perplessità del direttore: “Fatico a protestare per norme che non mi piacciono e che spero vengano giustamente ricalibrate, ma – scrive Marco Tarquinio – ritengo che la stretta di legge sia anche il pesante frutto di un modo sbagliato e guardone di fare giornalismo”. Parole sante per il successore di Dino Boffo, massacrato a mezzo stampa poco meno di un anno fa. Ma il ddl intercettazioni contro il tiro a segno che ha colpito l’ex direttore del quotidiano della Cei non sarebbe più efficace di quanto già previsto, dal momento che, come ha scritto Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera, “esistono già leggi che puniscono gli abusi, anche per quanto attiene gli aspetti deontologici” e il caso-Boffo (un dipendente degli uffici giudiziari di Napoli è indagato per accesso abusivo a sistema informatico e il direttore de Il Giornale Vittorio Feltri è stato sospeso per sei mesi dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia) ne è la dimostrazione.

l’Unità 10.7.10
Germania: non è reato scegliere embrioni sani Lo ha deciso la Cassazione
Due settimane fa la sentenza sull’eutanasia passiva che tanto scalpore ha suscitato. Ed ora la Corte di Cassazione tedesca torna a stupire con un nuovo pronunciamento destinato ad innescare polemiche.
di Gherardo Ugolini

La diagnosi preimpianto, ovvero l’analisi degli embrioni in provetta prima che vengano impiantati nell’utero, per verificare la presenza o meno di malattie genetiche, non costituisce un reato, neanche se il medico decidesse, sulla scorta dei risultati del test, di utilizzare solamente gli embrioni sani scartando quelli malati. Tale diagnosi consente di ridurre il numero degli aborti di bambini con gravi handicap o malformazioni, hanno spiegato i giudici del tribunale di Lipsia.
Il pronunciamento della Cassazione non significa affatto la possibilità di selezionare in misura illimitata gli embrioni in base alle caratteristiche genetiche. Opzioni come quella relativa al colore degli occhi o dei capelli, come anche per determinare il sesso, rimangono pur sempre vietate. Nessuna coppia in Germania avrà ora la possibilità di programmare un «bambino su misura». Tuttavia la sentenza incide profondamente nell’ordinamento in vigore, visto che una legge del 1991 vieta espressamente di distruggere gli embrioni. Ora sarà il Bundestag a dover intervenire per approvare una nuova legge possibilmente in armonia con la deliberazione dei giudici. La Germania si allinea così a Paesi quali Francia e Spagna in cui la procedura della diagnosi preimpianto è consentita pur con determinati limiti. In Italia invece la legge sulla procreazione assistita vieta radicalmente esami di questo tipo.
UN MEDICO APRE IL CASO
A rivolgersi al tribunale era stato un ginecologo di Berlino il quale si era avvalso della diagnostica preimpianto per tre coppie di genitori con malattie ereditarie sottoponendo gli embrioni a test genetici per poi impiantare solo quelli sani distruggendo quelli recanti anomalie. Incerto sulla correttezza giuridica del suo operato, il medico si era autodenunciato alla giustizia sollecitando un pronunciamento. Un tribunale della capitale tedesca in prima istanza lo aveva assolto, ma la Procura di Berlino aveva presentato ricorso. Ora è arrivata l’assoluzione definitiva della Cassazione.
Come era facile prevedere l’opinione pubblica ha reagito in modo differenziato. Da un lato c’è la presa di posizione dell’Ordine dei medici che si dice lieto del fatto che siano stati posti dei paletti giuridici espliciti e univoci sul tema scottante della selezione degli embrioni. Dall’altro la Conferenza episcopale ha ribadito il punto di vista cattolico per cui «l’uccisione degli embrioni non può essere tollerata in nessun caso, anche di quelli che dopo un esame sui danni genetici non devono più essere reinseriti nell’utero». Per i vescovi della Germania «ammettere la diagnostica preimpianto presuppone che all’embrione non venga riconosciuto alcuno stato equivalente a quello della persona nata». Anche le forze politiche sono spaccate sul tema: diversi leader della Cdu come per esempio la vice-capogruppo parlamentare Ingrid Fischbach, hanno contestato aspramente la sentenza sostenendo che «così si apre la strada ad una selezione tra forme di vita degne e indegne». Socialdemocratici, Verdi e Liberali sono invece propensi a varare rapidamente una legge quadro che accolga il giudizio della Cassazione.

Repubblica 10.7.10
Una mostra a Bucarest per ristabilire la verità storica sul personaggio
"Basta con i vampiri" la Romania dice addio al mito di Dracula
"È stata tutta una leggenda per presentare l’Europa orientale come una terra di primitivi"
di Valeria Fraschetti


Basta con falsi miti e leggende esageratamente truculente: per la Romania è arrivata l´ora di raccontare la verità storica sulla vita del principe valacco Vlad III, che nel 1897 ispirò allo scrittore Bram Stoker il personaggio di «Dracula». L´operazione di demistificazione ha preso ufficialmente il via ieri al Museo nazionale dell´arte di Bucarest, con l´inaugurazione della mostra di libri, manoscritti e ritratti intitolata «Dracula - voivoda e vampiro».
L´iniziativa, ha spiegato la curatrice Margot Rauch, è basata su «ricerche storiche che mostrano che le leggende sul Vlad Dracula erano tese a presentare l´Europa orientale come una terra di primitivi». Beninteso: non è che i visitatori troveranno testimonianze sulla vita di un santo. Vlad III non fu certo uomo magnanimo, bensì un autoritario governatore del Quattrocento che lottò strenuamente contro l´avanzata ottomana, famoso per non avere alcuna pena per i nemici. Non a caso, in onore della sua preferita tecnica di punizione, era più comunemente noto come Vlad Tepes, «L´Impalatore». E, difatti, tra le opere che per la prima volta da ieri sono esposte a Bucarest, c´è anche un´incisione che lo ritrae mentre consuma la sua colazione di fronte a un gruppo di prigionieri impalati, accanto a svariate teste sgozzate.
Ma gli organizzatori sostengono che Vlad III, che ereditò il titolo di Dracula dal padre, membro dell´Ordine dei Dragoni (drakul, in romeno), era «senza dubbio crudele, ma non meno di altri principi». Solo che lui fu «vittima della propaganda maligna dei suoi pari occidentali, specie gli ungheresi». Soprattutto, a peggiorare l´immagine del principe della Valacchia ha contribuito Bram Stoker: è unicamente al romanziere, dicono a Bucarest, che il principe deve la sua reputazione di vampiro.
A dispetto di questa convinzione, però, una parte importante della mostra è consacrata proprio al vampirismo, di cui si ritiene che diversi casi avvennero nel diciottesimo secolo in Europa sud-orientale. Fino al 10 ottobre saranno così esposti anche trattati sul fenomeno del vampirismo, dissertazioni sulla «masticazione della morte» e sull´attività (o l´ozio?) dei vampiri durante il giorno, risalenti al 1730-35.
La mostra tenterà anche di demistificare Dracula, ma di certo è in buona parte grazie alle vampiresche leggende sull´«Impalatore» se il 5,6 per cento del Prodotto interno lordo romeno è rappresentato dal turismo. Senza le fantasie di Stoker, la cittadina di Bran, nel cui castello è ambientato il romanzo, oggi sarebbe un sonnolente paesino e non un vivace centro turistico che pullula di negozietti di souvenir e libri che raccontano le atrocità di un governante che, in realtà, da lì forse mai neanche passò.

venerdì 9 luglio 2010

Retescuole 28.6.10
Ddl Meloni politiche giovanili: regalo ai neofascisti
Il ddl della ministra pensato ad hoc per legittimare e sovvenzionare le realtà di estrema destra, e escludere i centri sociali antifascisti

Ieri è stata una bella giornata per Casapound, così come per Giovane Italia (la giovanile del Pdl in cui sono confluiti vari gruppuscoli neofascisti) e per la galassia del neofascismo organizzato in generale. E si capisce l'entusiasmo con cui i militanti di Forza Nuova lo scorso 16 giugno hanno acclamato tra i saluti romani, davanti alla propria sede, Giorgia Meloni, la donna catapultata direttamente dalla leadership di Azione Giovani al Ministero per la Gioventù

Ieri è stata una bella giornata per i fascisti perché è approdato alla Camera dei Deputati il ddl sulla Comunità Giovanili, di cui la Ministronza parla dal giorno in cui ha assunto il dicastero.
Era un testo che voleva Paolo Di Nella, l'esponente del Fronte della Gioventù ucciso a Roma nel 1983, ha spiegato ieri la Meloni, dissipando ogni dubbio su quale sia la reale paternità del ddl. Una vecchia idea dell'organizzazione giovanile del Msi (da cui nasceranno Azione Giovani, e poi la Giovane Italia), quel Fronte della Gioventù che a cavallo tra anni settanta e ottanta certo non disdegnava squadrismo nero e pestaggi.
Il provvedimento, recita il testo, "è finalizzato a promuovere e incentivare, su tutto il territorio nazionale, la nascita di nuove comunità giovanili e a consolidare e rafforzare quelle già esistenti". A tal fine verrebbero stanziati 18 milioni di euro e previsti un registro e un osservatorio ad hoc
Per "comunità giovanili" si intendono "associazioni di persone non superiori a 35 anni" avente ad oggetto, per statuto, il perseguimento di alcune finalità, tra cui la promozione di attività sociali e culturali, l'educazione alla legaslità, attività sportive, ricreative, formative ecc ecc.
Per promuovere le Comunità, vengono finanziati "recupero, riadattamento, sistemazione di edifici e di strutture pubbliche e private con vincolo di destinazione d'uso a sede di comunità giovanili.
Chi deciderà quali associazioni sono meritevoli di essere finanziate? Il Ministero. Su quali criteri? Il testo dice che rientreranno nell'elenco le comunità che prevedono l'impegno a contrastare "promozione o esercizio di attività illegali", nonché "l'uso di sostanze stupefacenti o l'abuso di alcol". Insomma: nessuno si sogni di parlare di antiproibizionismo né di fare un corteo non autorizzato. È illegale. Intervistata ieri, Meloni si è spiegata meglio, palesando in poche battute tutta la portata fascista del ddl: L'obiettivo, la mission della legge, èquello di indicare i corretti stili di vita, quelli che attengono a una società sana. E com'è una società sana, ai giovani, lo dice il Ministro della Gioventù.
Ricapitolando, la Meloni si sta dotando dello strumento legale e dei finanziamenti utili a legittimare e sovvenzionare le varie Casapound, Casa Italia e quelle che seguiranno, con un provvedimento che ne traccia praticamente un identikit, escludendo al contempo, grazie alla retorica legalista e proibizionista, tutti i centri sociali e gli spazi autogestiti antifascisti. Anzi, il rischio concreto è che i requisiti elencati nel ddl Meloni divantino un grimaldello per delegittimare e attaccare i centri sociali stessi, sulla base di un fascistissimo discrimine: non "attengono a una società sana".

giovedì 8 luglio 2010

l’Unità 8.7.10
Intervista a Massimo Cialente
«Picchiati senza ragione. Il percorso era concordato»
di Jolanda Bufalini

Il sindaco de L’Aquila «In testa alla manifestazione vecchi e famiglie Non chiediamo privilegi. Schifani è rimasto stupito dai nostri problemi»

È la fine di una giornata campale: in testa al corteo, le botte, i posti blocco. Poi l’incontro con il presidente del Senato e quello con i capigruppo di maggioranza e opposizione. Intanto c’è stato l’impegno in piazza del segretario del Pd Bersani: «Per noi L’Aquila è la priorità». Il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente sdrammatizza, prendendo in giro l’onorevole Giovanni Lolli, che si è preso una manganellata mentre il corteo era bloccato sotto palazzo Grazioli , e prende in giro anche se stesso: «Mia moglie al telefono ha detto che me ne hanno date poche». Intanto però aspetta notizie. La capogruppo del Pd Anna Finocchiaro, ieri mattina, ha richiesto un incontro sulla vicenda delle tasse che i terremotati dovrebbero, ricominciare a pagare in toto dal 1 ̊ gennaio. «Berlusconi dovrebbe parlarne con Tremonti ma Tremonti non si trova». Dal vertice Pdl a palazzo Grazioli, mentre da sotto arrivava il rumore della protesta, la risposta è stata «valuteremo». A sera, in extremis, palazzo Chigi annuncia che le tasse saranno diluite in dieci anni. Sindaco, si è fatto male? Oggi si è trovato anche di fronte ai manganelli. «No, io sono un po’ acciaccato ma niente di grave, mi dispiace per i ragazzi che si sono presi le manganellate. Eravamo in testa al corteo davanti al posto di blocco. Per mediare, calmare gli animi. Poi c’è stata una carica e le manganellate. Mi dispiace anche per Giovanni Lolli (deputato aquilano del Pd, ndr) che sotto a palazzo Grazioli si è preso una manganellata sulla spalla. Non mi sarei mai aspettato una cosa del genere». Siete arrivati in cinquemila con i pullman. «È il popolo aquilano, gente di tutte le età, c’erano tutti, dagli industriali al sindacato di polizia, professori di scuola e presidi di facoltà, professionisti , istituzioni e sindaci dei paesi colpiti dal sisma, tanti ragazzi , donne e anziani».
Però c’erano i posti di blocco e ci sono state le manganellate. «Io avevo scritto e ho le carte: il percorso da piazza Venezia a Montecitorio passando da piazza di Pietra. Ho i documenti e avevo specificato che ci sarebbero statti vecchi e famiglie, tanto che avevo chiesto ad Alemanno, che lo ha concesso, di far fermare i pullman il più vicino possibile, a piazza Santi Apostoli. Se Marroni le vuole, glie le faccio vedere».
E invece?
«Invece ci hanno menato. Il presidente del consiglio aveva detto che non avrebbe mandato a L’Aquila più nessuno della Protezione civile perché qualche mente fragile avrebbe potuto usare la violenza. Ora sono io che mi trovo a dire agli aquilani di fare attenzione, che a Roma c’è qualche mente fragile che picchia i terremotati».
Come è andato l’incontro con il presidente del Senato, Schifani?
«Mi è sembrato colpito quando gli abbiamo spiegato di questa spada di Damocle che ci pende sulla testa: con il pagamento del 100 per cento di tasse, tributi e arretrati un operaio con una busta paga di mille euro si trova a pagare 240 euro al mese». Cosa avete ottenuto?
«C’è la proposta di Anna Finocchiaro, di diluire in 10 anni , anziché nei 60 mesi attuali, il 40 per cento del dovuto».
I Tg usano il condizionale ma sembra che la proposta sia stata accolta. «Ah, bene. Se la proposta passasse non sarebbe la soluzione a tutti i problemi enormi che abbiamo di fronte per la ricostruzione ma sarebbe una boccata di ossigeno. Una cosa grazie alla quale la notte puoi prendere sonno. Se passa quella proposta, almeno vuol dire che le botte che abbiamo preso sono servite a qualcosa». È una soluzione analoga a quella dell’Umbria, con il 60 per cento di sconto sulle tasse?
«L’Umbria ha iniziato a pagare 12 anni dopo, noi un anno e otto mesi dopo. Ma è meglio di niente. Alessandria, dopo l’alluvione ha avuto il 90 per cento di sconto e anche Foggia, alcuni mesi fa, noi non stiamo certo chiedendo dei privilegi. Il mio calcolo è che sia necessario trovare una copertura di 180 milioni di euro».

l’Unità 8.7.10
Gazzarra fascista fra i banchi del Pdl Botte all’Idv Barbato
I protagonisti: De Angelis, Saltamartini Rampelli... ieri estrema destra oggi parlamentari
Si discute del ddl Meloni e sui soldi per le «comunità giovanili» che in molti sospettano, finirebbero nelle casse dei gruppi amici del ministro della Gioventù
di Mariagrazia Gerina

A sera l’aggredito, ancora incredulo, invoca le immagini del circuito interno per capire da chi è partito il pugno che in piena aula di Montecitorio gli ha fatto mezzo-nero l’occhio. «Trauma contusivo della regione zigomatica e all'occhio destro» e una «cefalea post-traumatica»: 15 giorni di prognosi, recita il certificato medico del deputato Idv Franco Barbato. La squadra di ex An che l’ha circondato minacciosa è tale da lasciare incerti sia l’aggredito che i numerosi deputati-testimoni. «Invoco la moviola, non ero in area di rigore», alza le mani Marcello De Angelis. Non che da bravo rugbista, e da ex militante di Terza posizione, non fosse anche lui nella mischia. «Nessun corpo a corpo», assicura da par suo Fabio Rampelli, ex nuotatore e ala dura del Msi romano, a cui tocca smentire con una nota i sospetti che si affollano su di lui. I testimoni però narrano di un deputato dalla corporatura imponente. Molti non ne ricordano il nome. Qualcuno giura che si tratterebbe di Carlo Nola, deputato ex An di Pavia. Che, in effetti, dice di essere dispiaciuto. Ma di pugni -spiega- non ne ha sferrati. Il suo assicura era «solo un gesto simbolico».
E pensare che tutto era partito da una donna, scatenando persino, nel parapiglia, una questione di genere: chi interviene a fermare una onorevole donna la sottosegretaria alle Pari Opportunità, Barbara Saltamartini, classe 1972, romana, cresciuta nelle fila del Fronte della Gioventù -, partita dai banchi del governo (insieme a due colleghe) contro il malcapitato deputato dell’Idv, reo di aver appena concluso un intervento sgradito alla comunità militante in cui la stessa sottosegretaria è cresciuta?
L’argomento che surriscalda gli animi è il ddl sulle non meglio precisate nuove «comunità giovanili», da foraggiare con un fondo ad hoc di 12 milioni di euro: voluto dal ministro della Gioventù Giorgia Meloni, anche lei cresciuta nel Fronte, e appena impallinato dalla sua stessa maggioranza. Un modo per mettere le mani nel «barile del porco salato», accusa Martino. E per dare soldi a «gruppettari che occupano fabbricati», attacca Mussolini, che pure denuncia di essere stata aggredita dai deputati di An. Il ministro si è appena convinta a battere in ritirata quando l’Idv Barbato prende la parola. «Lei vuole finanziare la sua corrente, la quella di Alemanno e del suo assessore regionale Lollobrigida, che è anche suo parente», tuona il deputato. E le sue parole sono benzina sul fuoco per Barbara Saltamartini. Trattandosi di una donna, i commessi uomini, da regolamento, non possono nemmeno sfiorarla. Mentre le commesse non fanno in tempo a intervenire che alla volta di Barbato sono già partiti i maschi. «La politica non c’entra lì era questione di famiglia, Barbara Saltamartini ha iniziato a fare politica con me quando avevo 15 anni», spiega De Angelis, che quasi veniva alle mani con il capogruppo Fabrizio Cicchitto, costretto a chiedere scusa per il comportamento dei deputati del Pdl: «Era venuto verso di me per rimbrottarmi, ma io gli ho spiegato animatamente che non c’entravo niente».

l’Unità 8.7.10
Vergogna libica. Tripoli accontenta Maroni
Gli eritrei spostati dal lager ai lavori forzati
Il ministro libico della sicurezza annuncia «la liberazione» dei migranti detenuti L’allarme dal carcere: «Non vogliamo restare, rischiamo la deportazione» Il ministro leghista: «Il caso non ci riguarda». Frattini: mediazione frutto nostro
di Umberto De Giovannangeli

Il bluff: l’annuncio spacciato per un successo della mediazione italiana
La realtà: i 250 migranti resteranno sotto stretta osservazione
Dal lager ai campi di lavoro. Dalle torture al ricatto: siete sempre sotto osservazione, alla prossima vi rispediremo in Eritrea. Per le autorità libiche quei 250 eritrei da otto giorni segregati nei centri di detenzione di Mistratah e Brak, cominciavano a essere un problema: le denunce di Ong, associazioni umanitarie, organi di informazione avevano cominciato a smuovere anche i governi più recalcitranti: primo fra tutti, quello italiano. D’altro canto, quei 250 esseri umani, picchiati, sottoposti ad ogni vessazione, cominciavano a far porre seri interrogativi su quell’Accordo di cooperazione Italia-Libia che nel nome degli affari aveva sepolto ogni riferimento al rispetto dei diritti umani.
Qualcosa andava fatto, più per salvare la faccia dei contraenti l’Accordo che per dare un futuro ai 250 deportati. Nel pomeriggio di ieri, l’annuncio da Tripoli: È stato raggiunto l’«accordo di liberazione e residenza in cambio di lavoro» per i circa 250 rifugiati eritrei rinchiusi nel carcere libico di Brak nei pressi di Sebah, nel sud della Libia. A dichiararlo è il ministro della Pubblica Sicurezza libico, generale Younis Al Obeidi, secondo quanto riferito da fonti locali dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Iom). Tale accordo, firmato con il ministero del Lavoro libico, consentirà agli eritrei rinchiusi a Brak, di uscire in cambio di «lavoro socialmente utile in diverse shabie (comuni) della Libia». Da Tripoli a Roma: una conferma del raggiungimento dell’accordo viene dalla sottosegretaria agli Esteri, Stefania Craxi che lascia uno spiragli aperto alla possibilità che qualcuno dei 250 possa essere reinsediato in Italia. Poco prima, sulla vicenda era tornato il titolare del Viminale: «Il governo italiano ribadisce Maroni non ha alcuna responsabilità» nella vicenda dei 250 eritrei detenuti in Libia. «Se si chiede all’Italia di svolgere una missione umanitaria in Libia per questi eritrei sottolinea Maroni il ministro degli Esteri Frattini valuterà, ma noto che da parte dell’Europa e dell’Onu non ci sia stato alcun interessamento e questo è singolare ed incredibile: penso che le istituzioni europee debbano interessarsi e non solo chiedere a noi di farlo».
Pratica archiviata. A Maroni non importa niente che alcuni tra i rifugiati eritrei «sono stati respinti dall’Italia nel 2009 e altri rimpatriati in Libia su richiesta italiana nel corso di quest’anno», come ricorda il presidente del Comitato italiano per i rifugiati Savino Pezzotta che rilancia la proposta di «trasferire i rifugiati in Italia per un loro reinsediamento». «Alcuni tra quelli sottoposti a maltrattamenti da parte delle autorità libiche aggiunge Bjarte Vandvik, segretario generale del Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli sono stati respinti in Libia dall’Italia un anno fa. I rifugiati stanno subendo le conseguenze della violazione degli obblighi legislativi dell’Italia e del silenzio assenso degli Stati membri dell’Ue». «Abbiamo lavorato in silenzio, senza proclami, purtroppo nell’assenza totale e assoluta dell’Europa. Abbiamo chiesto un compromesso, una mediazione e il risultato è arrivato. Siamo soddisfatti», dice il ministro degli Esteri, Franco Frattini ai microfoni del Tg3. «Nessun altro Paese europeo si è mosso» per la vicenda dei rifugiati eritrei, sottolinea il titolare della Farnesina, «noi ci siamo attivati subito e abbiamo ottenuto un risultato». E poi, l’aggiunta, miseramente ironica: «È molto curioso che persone che si dicono torturate e imprigionate avessero telefoni satellitari con cui parlare a mezzo mondo... ». La chiosa finale è degna del passaggio precedente: «È molto facile dire a me piacerebbe Cipro, volevamo andare a Cipro e ci hanno fermato». «Chi lo dimostra?», domanda il ministro aggiungendo che «fino a prova contraria questo non è provato». CNR media ha raggiunto telefonicamente uno dei rifugiati eritrei nel campo di prigionia di Brak poco dopo la notizia della loro «liberazione» da parte del governo libico. Abbiamo saputo stamattina (ieri, ndr) della nostra liberazione dice il prigioniero che si fa chiamare Daniel non vogliamo restare a lavorare in Libia perché questo Paese non ci riconosce lo status di rifugiati politici e in qualsiasi momento potremmo essere deportati in Eritrea». E aggiunge: «Oltre cento di noi volevano raggiungere l’Italia e sono stati respinti dalle autorità italiane. Questo è bene che gli italiani lo sappiano. Non è vero quello che dice il vostro ministro (Maroni, ndr). Noi chiediamo lo status di rifugiati politici. Più della metà di noi durante lo scorso anno ha cercato di venire in Italia ma è stata respinta dalla Guardia costiera senza che neanche ci venissero chiesti i documenti. Poi abbiamo cominciato a girare di prigione in prigione e, alla fine, siamo arrivati a Brak . Da quando siamo stati respinti dalle autorità italiane abbiamo affrontato torture e percosse in ogni prigione dove siamo stati rinchiusi fino ad arrivare qui, nel deserto, in una condizione disumana». E questa la spacciano per «liberazione».

l’Unità 8.7.10
Intervista a Cristopher Hein
«Il caso non è chiuso. Sono rifugiati devono venire in Italia»
Il direttore del Cir: «Non c’è nessuna garanzia per i 250. Possono essere arrestati di nuovo A rischio sono anche i loro familiari in Eritrea»
di U.D.G.

A differenza del ministro Maroni, per noi la “pratica” è tutt’altro che chiusa. Ben venga che siano rilasciati, ma questo deve avvenire senza alcuna informazione sui loro dati personali all’ambasciata eritrea. Resta comunque molto importante conoscere i dettagli di questo accordo». A parlare è Cristopher Hein, direttore del Consiglio Italiano dei Rifugiati (Cir).
Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, canta vittoria: quello dei 250 eritrei deportati nel lager di Brak, è un caso felicemente chiuso. È davvero così?
«Se c’è un modo perché queste persone possano uscire liberamente dal Centro di detenzione di Brak, sarebbe un’ottima notizia. Tuttavia, non a qualunque costo. Noi non conosciamo i dettagli di questo accordo. A cominciare dalla questione dell’identificazione, e quindi del coinvolgimento dell’Ambasciata eritrea in Libia. Noi sappiamo che veniva e forse viene tutt’ora utilizzato un modulo dove la persona deve formalmente ammettere di aver commesso il reato di espatrio illegale dall’Eritrea e chiedere scusa allo Stato eritreo. Questo ci preoccupa assai...».
Perché?
«Perché sappiamo da tanti documenti e testimonianze dirette, che i familiari rimasti in Eritrea dei 250 reclusi a Brak, saranno oggetto di rappresaglie: come minimo saranno costretti a pagare l’equivalente di circa 3mila euro, e se non lo fanno rischiano la reclusione a tempo indefinito. Tremila euro sono una cifra enorme per la maggior parte delle famiglie in Eritrea. C’è poi una seconda preoccupazione...». Quale?
«Quali tutele avranno queste persone in Libia? Quale garanzie ci saranno che non verranno di nuovo arrestati tra qualche settimana, quando sarà venuta meno l’attenzione sulla loro situazione? Vogliamo ricordare che quei 250 cittadini eritrei non sono migranti economici bensì rifugiati, e come tali non hanno fin qui la possibilità di essere riconosciuti in Libia». Resta la vostra richiesta al governo italiano del loro reinsediamento? «Sì, questa richiesta resta assolutamente in piedi, perché è l’unica, vera soluzione. Ben venga che siano rilasciati, ma questo deve avvenire senza alcuna informazione sui loro dati personali all’ambasciata eritrea. Per questo è molto importante conoscere i dettagli di questo accordo».
Per il ministro Maroni, la «pratica» se mai è stata aperta, si è comunque chiusa. E per il Cir? «Per noi assolutamente no. La questione resta aperta».

l’Unità 8.7.10
Pedofilia. Dopo il sequestro di due cd-rom sul mostro di Marcinelle Interrogato per 10 ore il cardinale Danneels
La Chiesa belga in rivolta: «Nessun legame con Dutroux»
di Marco Mongiello

La Chiesa belga al contrattacco dopo la diffusione della notizia che tra il materiale sequestrato all’arcivescovado ci sarebbero state le foto dei cadaveri delle vittime del mostro di Marcinelle: nessun legame con Dutroux.

La chiesa belga non ha nessun legame con il caso Dutroux, il mostro di Marcinelle arrestato nel 1996 dopo aver rapito e violentato sei ragazzine, uccidendone quattro.
Ieri la conferenza episcopale del Paese ha reagito con una nota indignata alla notizia, divulgata dal quotidiano fiammingo Het Laatste Nieuws, secondo cui tra il materiale sequestrato all’arcivescovado lo scorso 24 giugno ci sarebbero anche le foto dei cadaveri mutilati di Julie e Melissa, le due piccole vittime del pedofilo.
In realtà, ha spiegato il comunicato, si tratta di due cd-rom contenti il materiale del processo Dutroux, già in possesso di giornalisti, politici e altre personalità del Belgio e inviati alla chiesa da una fonte nota ma non rivelata. La stampa locale ha comunque ricostruito che la fonte sarebbe il mensile satirico britannico The Sprout, che nel 2004 avrebbe inviato una copia dei cd-rom all’arcivescovado di Bruxelles per ottenere un com-
mento su una teoria infondata che legherebbe le gerarchie ecclesiastiche al caso del mostro di Marcinelle.
La chiesa belga, dopo essere stata per una giornata al centro delle polemiche e dei sospetti più atroci, ieri è passata al contrattacco puntando il dito contro l’uso strumentale delle rivelazioni alla stampa.
«Sarebbe veramente disdicevole si legge nella nota se un’informazione, che è sotto il segreto professionale e sotto quello dell’istruttoria, fosse stata volontariamente comunicata alla stampa da una persona coinvolta nell’inchiesta allo scopo di creare sensazionalismi». Una decisione che «non contribuirebbe alla serenità dell’inchiesta», hanno aggiunto i vescovi del Belgio, ribadendo la loro disponibilità a «collaborare con la giustizia», ma di voler rispondere «agli inquirenti piuttosto che agli articoli di stampa».
LA POLEMICA
L’avvocato dell’arcivescovado, Fernand Keuleneer, ha inoltre inviato una lettera alla Giustizia chiedendo se le informazioni comparse ieri sul giornale fiammingo provengono «da persone incaricate dell’inchiesta», il «perché sono state rese pubbliche» e «come» i documenti siano finiti negli archivi ecclesiastici.
Anche se smentito il caso ha comunque ripiombato il Belgio negli incubi del passato, riaprendo vecchie ferite e creando un legame tra gli eventi di quindici anni fa e l’attuale scandalo pedofilia della chiesa cattolica.
«Per 24 ore si è creduto che tra i due casi ci fosse una relazione e questo deve essere stato molto doloroso per i genitori delle vittime», ha commentato all’Unità Dirk Depover, direttore della comunicazione dell’associazione antipedofilia «Child Focus», creata nel 1998 dal padre di una delle vittime di Dutroux, la piccola Julie Lejeune. Anche se, ha aggiunto Depover, è «proprio con il caso Dutroux che in Belgio sono cambiate molte cose riguardo alla pedofilia, sono state aggiornate le leggi e si è creata una nuova sensibilità».
Non è un caso che proprio qui sia stata lanciata l’inchiesta per pedofilia più vasta e più severa contro la chiesa che ha fatto infuriare il Vaticano.
Martedì la polizia giudiziaria di Bruxelles ha interrogato per oltre 10 ore l’ex primate del Belgio, il cardinale Godfried Danneels. Dal momento che l’ecclesiastico ha 77 anni all’interrogatorio ha partecipato anche un medico legale, ha riferito ieri il portavoce della procura di Bruxelles, Jos Colpin, smentendo le voci secondo cui l’ex capo della chiesa belga si sarebbe sentito male. Gli inquirenti hanno anche fatto sapere che per il momento il cardinale non è iscritto nel registro degli indagati, ma potrebbe essere riascoltato dai magistrati «alla fine della fase istruttoria». L’inchiesta però non è che all’inizio, ha fatto capire il portavoce. Dopo il sequestro del materiale dell’arcivescovado e dei 475 dossier contenenti le denunce delle vittime alla commissione della conferenza episcopale sugli abusi, ha spiegato Colpin, «ci vorrebbero delle settimane o addirittura mesi per analizzare l’insieme dei documenti».

l’Unità 8.7.10
Intervista alla cantautrice irlandese
Parla Sinéad O’Connor
«Il Papa? Un insulto alla nostra intelligenza»
di Giulia Gentile

BOLOGNA. Dimenticatevi la giovanissima anima inquieta degli anni Ottanta, capelli rasati e volto scavato da un’adolescenza turbolenta segnata dagli abusi, in famiglia e in un collegio di suore. La Sinéad O’Connor che stasera salirà sul palco dell’Arena del mare, a Genova, è una prosperosa quarantatreenne mamma di quattro figli, in testa un cespuglio castano che incornicia il viso florido. Una donna che lotta ogni giorno coraggiosamente contro i suoi demoni, e che oggi non fa mistero di mettere al primo posto «la famiglia, i miei bambini. Quando sei troppo coinvolto nel “music business” è facile perdere di vista le cose importanti della vita. Invece tutto ciò che faccio è scrivere canzoni e cantarle, come altra gente esprime in modo diverso la propria arte».
La sua però è da sempre un’arte di denuncia. Ad iniziare dallo scandalo dei preti pedofili. Nel 1992 strappò l’immagine di Giovanni Paolo II davanti alle telecamere del Saturday Night Live, farebbe lo stesso con la foto di Benedetto XVI? «Resto convinta del fatto che il Papa sia un insulto alla nostra intelligenza. Io credo nei precetti del cristianesimo e nel potere dello Spirito santo, ma non mi pare che chi dovrebbe guidare la Chiesa faccia lo stesso. Se solo avessi convissuto per anni anche solo con il sospetto che qualcuno, nella mia comunità spirituale, compiva degli abusi, non ci avrei dormito la notte. Invece, per decenni nessuno ha detto nulla e gli abusi nelle parrocchie e nei collegi sono proseguiti nell’omertà più totale. Per questo Benedetto XVI dovrebbe dimettersi, o essere messo alla porta: non ha mai collaborato con la commissione d’inchiesta su quanto accadde ad esempio negli istituti religiosi irlandesi. E invece è ancora lì, come i responsabili delle violenze sui minori. Mentre il popolo d’Irlanda è stato oltraggiato dalla noncuranza del Vaticano».
Nel ‘92, il veicolo per lanciare la sua personalissima lotta per «salvare Dio dalla religione» fu l’aggressiva «War» di Bob Marley. Qual è il suo rapporto con lo spiritualissimo reggae del cantante jamaicano? «Quella canzone mi permise di combattere apertamente contro le ingiustizie che mi balzavano agli occhi, di usare la mia arte e la mia popolarità come strumento di denuncia. Alcuni musicisti di grande popolarità fanno canzoni che non esprimono nulla. Ma come si può ignorare i problemi che sono sotto gli occhi di tutti? Al di là di questo, però, ascolto qualunque tipo di musica, dal reggae al pop (ho quattro bambini!) fino alla musica irlandese. In certi momenti amo anche il silenzio».
Dopo l’incredibile boom economico degli anni Novanta, più di altri Paesi europei l’Irlanda oggi è vittima di una violenta recessione economica. «Vivo ancora a Dublino. E sotto i miei occhi, ogni giorno c’è gente che perde la casa, famiglie vittime di un vero e proprio crack costrette a lasciare il Paese in cerca di lavoro. Ma in realtà anche durante gli anni del boom c’erano grossi problemi, guai che ora si sono aggravati come l’abuso di sostanze stupefacenti. Ma l’intero mondo è un disastro, e per questo io continuo a lottare. Per la paura di non essere più in grado, un giorno, di avere un tetto, cibo e vestiti per la mia famiglia». Nel 1989 annunciò pubblicamente il suo supporto all’Irish repubblican army (IRA). Com’è cambiato il suo approccio alla politica? E che ne pensa delle scuse pubbliche del nuovo primo ministro britannico Cameron per i 14 morti nella «Bloody sunday» del 1972?
«Di recente una commissione d’inchiesta ha stabilito cosa accadde, e che le persone assassinate erano innocenti che intendevano solo manifestare pacificamente. E questo è l’importante, per l’opinione pubblica mondiale e prima di tutto per i famigliari delle vittime e la gente della città dove avvenne la strage, Derry».
Parlando ancora di musica, a quando il prossimo lavoro? «Sto registrando un nuovo album che dovrebbe uscire nei primi mesi del 2011. Un misto di tutti i generi musicali che ho composto dal primo disco The lion and the cobra. In certi momenti ho paura che non piacerà a nessuno. Ma poi vado avanti, e continuo a lottare con la mia voce».

«Se li conosci li eviti» /1
Avvenire 8.7.10
In Brasile primo ok per lo Statuto del nascituro
di Piero Pirovano

Il nascituro è, tra gli esserei umani, il più debole dei deboli, il più povero dei poveri e proprio per questo necessita di una particolare protezione. È un dato di fatto, che la beata Madre Teresa di Calcutta non si stancava di ri­cordare.
In Italia c’è la proposta, gia­cente in Parlamento, di rico­noscere il nascituro come sog­getto di diritto attribuendogli la capacità giuridica sin dal concepimento, ma una simi­le proposta non rientra nel pacchetto di riforme di cui si parla.
In Brasile invece lo «Statuto del nascituro» è attualmente oggetto di discussione in seno alla Commissione Finanza e Tributi della Camera dei de­putati (relatore il deputato Jo­sé Guimarães), dopo essere stato approvato, alle ore 14.00 del 19 maggio scorso, dalla Commissione per la Sicurez­za sociale e la famiglia.
Il documento approvato è composto da 13 articoli con i quali si intende espressa­mente «proteggere i nascitu­ri », come è scritto nello stes­so art. 1. Relatore è stata So­lange Almeida, deputato fe­derale al primo mandato (dal suo sito – www.solangealmei­da. com – può essere scarica­to il documento in portoghe­se).
Con l’art. 2 si definisce con chiarezza chi è il nascituro: «è l’essere umano concepito, ma non ancora nato».
Quindi con lo Statuto (art. 3) «Si riconosce dal concepi­mento la dignità e natura u­mane del nascituro, dando al­lo stesso piena tutela/prote­zione giuridica».
Quali i doveri della famiglia, della società e dello Stato? L’art. 4 è quanto mai esplici­to: «garantire al nascituri, con priorità assoluta, il diritto al­la vita, alla salute, allo svilup­po, al cibo, alla dignità, al ri­spetto, alla libertà e alla fami­glia, oltre a proteggerlo da o­gni forma di negligenza, di­scriminazione, sfruttamento, violenza, crudeltà e oppres­sione.
L’art. 5 quindi ribadisce: «Nes­sun nascituro sarà sottoposto ad alcuna forma di negligen­za, discriminazione, sfrutta­mento, violenza, crudeltà e oppressione, essendo punito come previsto dalla legge, o­gni attentato, per azione o o­missione, ai loro diritti».
Segue una norma per l’inter­pretazione della legge (art. 6), se legge sarà: «si terrà conto delle finalità sociali a cui è de­stinata, le esigenze del bene comune, i diritti e doveri in­dividuali e collettivi, e la con­dizione peculiare del nascitu­ro come persona in fase di svi­luppo ». «Il nascituro – recita l’art. 7 – deve essere il destinatario di politiche sociali che consen­tano il suo sviluppo sano e ar­monioso e la sua nascita, in condizioni dignitose d’esi­stenza ». Il diritto alla vita ini­zia davvero ad essere al cen­tro della politica! L’assistenza sanitaria sarà as­sicurata ai nascituri (art. 8) dal Sus. il Sistema unico per la sa­lute.
Con l’art. 9 viene introdotto nello Statuto un primo divie­to: «È vietato allo Stato e ai pri­vati di discriminare il nascitu­ro, privandolo di qualsiasi di­ritto, per motivi di sesso, età, etnia, origine, di disabilità fisica o mentale».
Pertanto «il na­scituro avrà a sua disposizio­ne le risorse te­rapeutiche e profilattiche di­sponibili e pro­porzionate per prevenire, cura­re o minimizza­re invalidità o patologie (art.10).
L’articolo 11 è dedicato alla questione della diagnosi pre­natale e al suo scopo: «La dia­gnosi prenatale deve rispetta­re e garantire lo sviluppo, la salute e l’integrità del nasci­turo » e deve essere preceduta dal consenso informato della madre.
Con questo stesso articolo (§ 2) Si vieta «l’uso di metodi per la diagnosi prenatale che cau­sino alla madre o al nascituro, rischi sproporzionati o inuti­li ». Infine lo Statuto, con due ar­ticoli, affronta il caso delle gra­vidanze conseguenza di stu­pri.
L’articolo 12 è al riguardo e­splicito: «È vietato allo Stato o alle persone di provocare dan­ni ai nascituri in virtù di atti commessi dai loro genitori».
Con l’art. 13 si sancisce che «il nascituro concepito a causa di uno stupro avrà assicurati il diritto all’assistenza prena­tale, con accompagnamento psicologico della madre, e il diritto di essere adottato, se la madre lo desidera.
Qualora poi la madre, vittima di stupro, non dovesse avere i mezzi sufficenti per allevare ed educare il bambino, sarà lo Stato a sostenere tutti i costi finché non sia identificato e responsabilizzato il genitore oppure finché il bambino sia adottato

«Se li conosci li eviti» /2 Parola di Papa!
Avvenire 8.7.10
L’udienza del mercoledì
«La libertà è vera se viene riconciliata con la verità»
Su Duns Scoto la catechesi settimanale di Benedetto XVI «I teologi conservino l'umiltà e la semplicità dei piccoli»

Cari fratelli e sorelle, questa mattina - dopo alcune cate­chesi su diversi grandi teolo­gi - voglio presentarvi un’altra figu­ra importante nella storia della teo­logia: si tratta del beato Giovanni Duns Scoto, vissuto alla fine del se­colo XIII. Un’antica iscrizione sulla sua tomba riassume le coordinate geografiche della sua biografia: «l’Inghilterra lo accolse; la Francia lo istruì; Colonia, in Germania, ne con­serva i resti; in Scozia egli nacque». Non possiamo trascurare queste informazioni, anche perché posse­diamo ben poche notizie sulla vita di Duns Scoto. Egli nacque proba­bilmente nel 1266 in un villaggio, che si chiamava proprio Duns, nei pressi di Edimburgo. Attratto dal ca­risma di san Francesco d’Assisi, en­trò nella Famiglia dei Frati minori, e nel 1291, fu ordinato sacerdote. Dotato di un’intelligenza brillante e portata alla speculazione - quell’in­telligenza che gli meritò dalla tradi­zione il titolo di Doctor subtilis ,
«Dottore sottile» Duns Scoto fu in­dirizzato agli studi di filosofia e di teologia presso le celebri Università di Oxford e di Parigi. Conclusa con successo la formazione, intraprese l’insegnamento della teologia nelle Università di Oxford e di Cambrid­ge, e poi di Parigi, iniziando a com­mentare, come tutti i Maestri del tempo, le Sentenze di Pietro Lom­bardo. Le opere principali di Duns Scoto rappresentano appunto il frutto maturo di queste lezioni, e prendono il titolo dai luoghi in cui egli insegnò: Opus Oxoniense (Oxford), Reportatio Cambrigensis (Cambridge), Reportata Parisiensia (Parigi). Da Parigi si allontanò quan­do, scoppiato un grave conflitto tra il re Filippo IV il Bello e il papa Bo­nifacio VIII, Duns Scoto preferì l’e­silio volontario, piuttosto che fir­mare un documento ostile al Som­mo Pontefice, come il re aveva im­posto a tutti i religiosi. Così – per a­more alla Sede di Pietro –, insieme ai Frati francescani, abbandonò il Paese.
Cari fratelli e sorelle, questo fatto ci invita a ricordare quante volte, nella storia del­la Chiesa, i credenti hanno incon­trato ostilità e subito perfino perse­cuzioni a causa della loro fedeltà e della loro devozione a Cristo, alla Chiesa e al Papa. Noi tutti guardia­mo con ammirazione a questi cri­stiani, che ci insegnano a custodire come un bene prezioso la fede in Cristo e la comunione con il suc­cessore di Pietro e, così, con la Chie­sa universale. Tuttavia, i rapporti fra il re di Francia e il successore di Bo­nifacio VIII ritornarono ben presto amichevoli, e nel 1305 Duns Scoto poté rientrare a Parigi per insegnar­vi la teologia con il titolo di Magister regens, oggi si direbbe professore or­dinario. Successivamente, i Supe­riori lo inviarono a Colonia come professore dello Studio teologico francescano, ma egli morì l’8 no­vembre del 1308, a soli 43 anni di età, lasciando, comunque, un nu­mero rilevante di opere.
A motivo della fama di santità di cui godeva, il suo culto si diffuse ben presto nell’Ordine francescano e il venerabile papa Giovanni Paolo II volle confermarlo solennemente bea­to il 20 marzo 1993, definendolo «can­tore del Verbo in­carnato e difensore dell’Immacolata Concezione». In questa espressione è sintetizzato il grande contributo che Duns Scoto ha offerto alla storia della teologia.
Anzitutto, e­gli ha medi­tato sul Mi­stero dell’Incarna­zione e, a differenza di molti pensa­tori cristiani del tempo, ha sostenu­to che il Figlio di Dio si sarebbe fat­to uomo anche se l’umanità non a­vesse peccato. Egli afferma nella «Reportata Parisiensa»: «Pensare che Dio avrebbe rinunciato a tale o­pera se Adamo non avesse peccato sarebbe del tutto irragionevole! Di­co dunque che la caduta non è sta­ta la causa della predestinazione di Cristo, e che - anche se nessuno fos­se caduto, né l’angelo né l’uomo - in questa ipotesi Cristo sarebbe stato ancora predestinato nella stessa maniera' (in III Sent., d. 7, 4). Que­sto pensiero, forse un po’ sorpren­dente, nasce perché per Duns Sco­to l’Incarnazione del Figlio di Dio, progettata sin dall’eternità da par­te di Dio Padre nel suo piano di a­more, è compimento della creazio­ne, e rende possibile ad ogni crea­tura, in Cristo e per mezzo di Lui, di essere colmata di grazia, e dare lo­de e gloria a Dio nell’eternità. Duns Scoto, pur consapevole che, in realtà, a causa del peccato origina­le, Cristo ci ha redenti con la sua Pas­sione, Morte e Risurrezione, ribadi­sce che l’Incarnazione è l’opera più grande e più bella di tutta la storia della salvezza, e che essa non è con­dizionata da nessun fatto contin­gente, ma è l’idea originale di Dio di unire finalmente tutto il creato con se stesso nella persona e nella car­ne del Figlio.
Fedele discepolo di san France­sco, Duns Scoto amava con­templare e predicare il Miste­ro della Passione salvifica di Cristo, espressione dell’amore immenso di Dio, il Quale comunica con gran­dissima generosità al di fuori di sé i raggi della Sua bontà e del Suo a­more (cfr Tractatus de primo prin­cipio, c. 4). E questo amore non si ri­vela solo sul Calvario, ma anche nel­la Santissima Eucaristia, della qua­le Duns Scoto era devotissimo e che vedeva come il sacramento della presenza reale di Gesù e come il sa­cramento dell’unità e della comunione che induce ad a­marci gli uni gli altri e ad amare Dio co­me il Sommo Bene comune (cfr Repor­tata Parisiensia, in IV Sent., d. 8, q. 1, n. 3).
Cari fratelli e sorelle, questa visione teo­logica, fortemente «cristocentrica», ci apre alla contem­plazione, allo stu­pore e alla gratitudi­ne: Cristo è il centro della storia e del cosmo, è Colui che dà senso, di­gnità e valore alla nostra vita! Come a Manila il papa Paolo VI, anch’io oggi vorrei gridare al mondo: «[Cri­sto] è il rivelatore del Dio invisibile, è il primogenito di ogni creatura, è il fondamento di ogni cosa; Egli è il Maestro dell’umanità, è il Redento­re; Egli è nato, è morto, è risorto per noi; Egli è il centro della storia e del mondo; Egli è Colui che ci conosce e che ci ama; Egli è il compagno e l’amico della nostra vita... Io non fi­nirei più di parlare di Lui» ( Omelia, 29 novembre 1970). N on solo il ruolo di Cristo nel­la storia della salvezza, ma anche quello di Maria è og­getto della riflessione del Doctor subtilis . Ai tempi di Duns Scoto la maggior parte dei teologi oppone­va un’obiezione, che sembrava in­sormontabile, alla dottrina secon­do cui Maria Santissima fu esente dal peccato originale sin dal primo istante del suo concepimento: di fatto, l’universalità della Redenzio­ne operata da Cristo, a prima vista, poteva apparire compromessa da una simile affermazione, come se Maria non avesse avuto bisogno di Cristo e della sua redenzione. Per­ciò i teologi si opponevano a questa tesi. Duns Scoto, allora, per far ca­pire questa preservazione dal pec­cato originale, sviluppò un argo­mento che verrà poi adottato anche dal beato papa Pio IX nel 1854, quando definì solennemente il dog­ma dell’Immacolata Concezione di Maria. E questo argomento è quel­lo della «Redenzione preventiva», secondo cui l’Immacolata Conce­zione rappresenta il capolavoro del­la Redenzione operata da Cristo, perché proprio la potenza del suo amore e della sua mediazione ha ot­tenuto che la Madre fosse preserva­ta dal peccato originale. Quindi Ma­ria è totalmente redenta da Cristo, ma già prima della concezione. I Francescani, suoi confratelli, accol­sero e diffusero con entusiasmo questa dottrina, e altri teologi – spesso con solenne giuramento – si impegnarono a difenderla e a per­fezionarla.
A questo riguardo, vorrei met­tere in evidenza un dato, che mi pare importante. Teolo­gi di valore, come Duns Scoto circa la dottrina sull’Immacolata Conce­zione, hanno arricchito con il loro specifico contributo di pensiero ciò che il popolo di Dio credeva già spontaneamente sulla Beata Vergi­ne, e manifestava negli atti di pietà, nelle espressioni dell’arte e, in ge­nere, nel vissuto cristiano. Così la fede sia nell’Immacolata Concezio­ne, sia nell’Assunzione corporale della Vergine era già presente nel po­polo di Dio, mentre la teologia non aveva ancora trovato la chiave per interpretarla nella totalità della dot­trina della fede. Quindi il popolo di Dio precede i teologi e tutto questo grazie a quel soprannaturale sensus fidei , cioè a quella capacità infusa dallo Spirito Santo, che abilita ad ab­bracciare la realtà della fede, con l’u­miltà del cuore e della mente. In questo senso, il popolo di Dio è «ma­gistero che precede», e che poi de­ve essere approfondito e intellet­tualmente accolto dalla teologia. Possano sempre i teologi mettersi in ascolto di questa sorgente della fede e conservare l’umiltà e la sem­plicità dei piccoli! L’avevo ricordato qualche mese fa dicendo: «Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, gran­di teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura… ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nu­cleo... L’essenziale è rimasto nasco­sto! Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno cono­sciuto tale mistero. Pensiamo a san­ta Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia 'non scientifi­ca', ma che entra nel cuore della Sa­cra Scrittura» ( Omelia. S. Messa con i Membri della Commissione Teolo­gica Internazionale, 1 dicembre 2009).
Infine, Duns Scoto ha sviluppato un punto a cui la modernità è molto sensibile. Si tratta del te­ma della libertà e del suo rapporto con la volontà e con l’intelletto. Il nostro autore sottolinea la libertà come qualità fon­damentale della vo­lontà, iniziando una impostazione di tendenza volontari­stica, che si svi­luppò in contrasto con il cosiddetto in­tellettualismo ago­stiniano e tomista. Per san Tommaso d’Aquino, che segue sant’Agostino, la li­bertà non può con­siderarsi una qua­lità innata della vo­lontà, ma il frutto della collaborazio­ne della volontà e dell’intelletto. Un’i­dea della libertà in­nata e assoluta col­locata nella volontà che precede l’intel­letto, sia in Dio che nell’uomo, rischia, infatti, di condurre all’idea di un Dio che non sarebbe legato neppure al­la verità e al bene. Il desiderio di sal­vare l’assoluta trascendenza e di­versità di Dio con un’accentuazio­ne così radicale e impenetrabile del­la sua volontà non tiene conto che il Dio che si è rivelato in Cristo è il Dio «logos», che ha agito e agisce pieno di amore verso di noi. Certa­mente, come afferma Duns Scoto nella linea della teologia francesca­na, l’amore supera la conoscenza ed è capace di percepire sempre di più del pensiero, ma è sempre l’a­more del Dio «logos» (cfr Benedet­to XVI, Discorso a Regensburg, Inse­gnamenti di Benedetto XVI, II [2006], p. 261). Anche nell’uomo l’i­dea di libertà assoluta, collocata nel­la volontà, dimenticando il nesso con la verità, ignora che la stessa li­bertà deve essere liberata dei limiti che le vengono dal peccato.
Parlando ai seminaristi roma­ni - l’anno scorso - ricordavo che «la libertà in tutti i tempi è stata il grande sogno dell’umanità, sin dagli inizi, ma particolarmente nell’epoca moderna» ( Discorso al Pontificio seminario romano mag­giore, 20 febbraio 2009). Però, pro­prio la storia moderna, oltre alla no­stra esperienza quotidiana, ci inse­gna che la libertà è autentica, e aiu­ta alla costruzione di una civiltà ve­ramente umana, solo quando è ri­conciliata con la verità. Se è sgan­ciata dalla verità, la libertà diventa tragicamente principio di distru­zione dell’armonia interiore della persona umana, fonte di prevarica­zione dei più forti e dei violenti, e causa di sofferenze e di lutti. La li­bertà, come tutte le facoltà di cui l’uomo è dotato, cresce e si perfe­ziona, afferma Duns Scoto, quando l’uomo si apre a Dio, valorizzando quella disposizione all’ascolto del­la Sua voce, che egli chiama poten­tia oboedientialis : quando noi ci mettiamo in ascolto della Rivela­zione divina, della Parola di Dio, per accoglierla, allora siamo raggiunti da un messaggio che riempie di lu­ce e di speranza la nostra vita e sia­mo veramente liberi.
Cari fratelli e sorelle, il beato Duns Scoto ci insegna che nella nostra vita l’essenziale è credere che Dio ci è vicino e ci a­ma in Cristo Gesù, e coltivare, quin­di, un profondo amore a Lui e alla sua Chiesa. Di questo amore noi sia­mo i testimoni su questa terra. Ma­ria Santissima ci aiuti a ricevere que­sto infinito amore di Dio di cui go­dremo pienamente in eterno nel Cielo, quando finalmente la nostra anima sarà unita per sempre a Dio, nella comunione dei santi.
Soggetto della riflessione del «Doctor subtilis» ha spiegato il Papa furono «il ruolo di Cristo nella storia della salvezza» e «il ruolo di Maria» per cui parlò di «redenzione preventiva»

l’Unità 8.7.10
Giornali, tv, radio e Internet in silenzio contro il bavaglio
di Roberto Monteforte

Domani i giornali non saranno in edicola, black out anche per l’informazione radiotelevisiva e per i siti internet. Sarà la «fragorosa» giornata del silenzio indetta dalla Fnsi contro la legge «bavaglio». Siddi: sciopero necessario

Domani sarà la giornata del silenzio contro la «legge bavaglio», il ddl Alfano sulle intercettazioni. Oggi scioperano i giornalisti della carta stampata. Domani sarà il turno di quelli di radio, televisioni, dei siti on line, degli uffici stampa. L’obiettivo è quello di rendere il più possibile «fragorosa» e «partecipata» la «giornata del silenzio» indetta dalla Fnsi con l’adesione convinta dell’Ordine dei giornalisti, contro la legge che «rischia di mettere a tacere tutto il sistema dell’informazione italiano» e contro i tagli della «manovra» di Tremonti all’editoria: un altro pesante «bavaglio» alla libertà di informazione. Oggi incroceranno le braccia anche i poligrafici aderenti alla Cgil e domani per la prima volta sciopererà anche il popolo della «rete»: i siti web non saranno aggiornati. Non sarà in edicola neanche il Manifesto, che è una cooperativa editoriale.
«Una scelta obbligata e senza alternative in mancanza di fatti nuovi che avrebbero potuto far cadere le ragioni della protesta» ha spiegato ieri il segretario generale della Fnsi, Franco Siddi, rispondendo anche a chi ha ipotizzato strumenti di lotta diversi ha ricordato che lo sciopero è stato proclamato dopo diversi momenti di mobilitazione. «Lo sciopero è un mezzo e non un fine che per noi resta quello di far arretrare una legge sbagliata». La protesta per difendere il diritto dei cittadini ad essere informati, ha assicurato, andrà avanti sino alla denuncia alla Corte europea per i diritti dell’uomo. «Sappiamo che alcuni giornali, per condizioni ideologiche o questioni di militanza, non aderiranno allo sciopero. Noi ci appelliamo perchè questa è una battaglia di tutti. Quanto più una protesta è fragorosa più il risultato è forte». In più ha ricordato a chi chiedeva maggiore «fantasia» e forme di protesta alternative, che la proclamazione di uno sciopero che coinvolge il servizio pubblico può essere disdetto solo in presenza di fatti nuovi che «non ci sono stati». Vi è stato il tentativo di cercare d’intesa con gli editori altre forme di protesta, ma non è stato possibile realizzarle per tempo. Per la Fnsi lo sciopero resta lo strumento di lotta unificante e più efficace della categoria, segno della sua «autonomia» in un’azione di «resistenza civile» che ha come obiettivo non un semplice aggiustamento della legge, ma lo stralcio dell'informazione dal ddl sulle intercettazioni.

Repubblica 8.7.10
La richiesta di convocare l’assemblea del partito "estinto" nel 2007 per dare vita al Pd
Bianco e il fantasma-Margherita "Un guaio se gli ex ds ci imitano"
Ho comunque il dovere di dire che i disagi tra i democratici sono forti. E che non si affrontano mettendoci il coperchio
di G. C.

ROMA - «Forse non convocherò l´Assemblea della Margherita per parlare di politica, perché sto riscontrando più "no" che "sì", però non è mettendoci il coperchio che si affrontano i tanti disagi nel Pd». Enzo Bianco, leader dei "liberal" democratici, è anche il presidente dell´Assemblea nazionale della Margherita, il partito che con i Ds ha dato vita tre anni fa ai Democratici ma che solo nel 2011 si scioglierà giuridicamente e del tutto.
Quindi, presidente Bianco, tanto rumore per nulla?
«Ho ricevuto oltre ottanta richieste di convocare l´Assemblea nazionale della Margherita, non possono essere ignorate».
Ma se anche gli ex Ds decidessero di far risorgere il loro partito, cosa accadrebbe?
«Sarebbe certo un problema serio... Non dobbiamo far rivivere i partiti del passato, però personalmente ho il dovere di verificare se convocare l´Assemblea è opportuno o meno. Ho registrato che alcuni autorevoli ex Dl - Marini, Franceschini, Bindi, Letta - sono contrari. Sentirò anche altri e rifletterò ancora qualche giorno: non farò nulla che possa apparire come un atto ostile al Pd, lungi da me. Se saranno sempre più i "no" che i "sì", riporrò questa richiesta nel cassetto. Ma...».
Ma?
«Ho il dovere di dire che, se anche la convocazione dell´Assemblea della Margherita non si facesse, ho registrato molto disagio, un termine che usa pure Gentiloni, persona acuta e accorta. Del resto l´avevo già detto a Bersani in direzione: il Pd manca di colpo d´ala. La nostra sfida è un partito di centrosinistra in cui convivono le posizioni tradizionali della sinistra e quelle più moderate sia cattoliche che liberali. Invece nel Pd ciascuno tira fuori il suo vessillo. Ci si appassiona al dibattito sull´uso della parola "compagno" e i popolari ritrovano l´anima discutendo dell´espulsione dei massoni».
Anche sulla collocazione internazionale del partito è tornato il tormentone polemico.
«Invece di lavorare a un´Internazionale democratica, c´è qualcuno che ha in mente di fare aderire il Pd al Pse. Su questo punto, riconvocare la Margherita sarebbe d´obbligo, secondo quanto stabilimmo prima di scioglierci. Anche come presidente dei liberal del partito devo segnalare una sofferenza: quando Fassino parla del Pd come erede della tradizione di De Gasperi e dell´eurocomunismo di Berlinguer, mi domando come mai dimentica Luigi Einaudi e cancella Ugo La Malfa».

Repubblica 8.7.10
Le correnti
In un partito, che non è un´azienda o una caserma, sono segno di vitalità. Ma possono degenerare trasformarsi in bande spudoratamente intente alla lottizzazione e diffondere l’antipolitica qualunquista
Il difficile equilibrio tra disciplina e pluralismo
La differenza è democrazia
di Carlo Galli

È, quella delle correnti, una metafora. Sta ad indicare che come nel grande spazio liscio del mare, così anche in un partito vi sono fiumi, privi di rive ma non di identità (quella napoletana di Gava era la "corrente del Golfo"). Indica insomma, quella figura retorica, il rapporto fra unità e differenza, fra il Tutto e la Parte, fra unità e divisione. Un rapporto che – insieme a quelle di comando/obbedienza, di amico/nemico, di interno/esterno – è una dimensione costitutiva della politica. E che riguarda anche lo Stato; il quale infatti, rispetto ai partiti, sta in una relazione analoga a quella che c´è fra un partito e le sue correnti: è un Intero, ovvero è il prevalere delle logiche dell´unità, poiché le divisioni non rescindono le radici del Tutto (tranne che non nascano guerre civili, o secessioni: in questi casi l´Uno muore, o meglio si moltiplica in diverse unità separate). Eppure, l´Uno non è tanto compatto da non essere attraversato da differenze organizzate, che pretendono di essere riconosciute come interne all´unità, ma distinte.
Gli Stati e i partiti totalitari, che fanno dell´unità un dogma, non tollerano "differenze"; quanto più alto è l´obiettivo della politica – riscrivere i destini del mondo, ovvero rifare l´uomo, attraverso la lotta di classe o il conflitto razziale – tanto più le correnti interne sono viste come tradimenti, come oggettivi indebolimenti dell´azione contro il nemico esterno. E vengono bollate come "cricche", frazionismi, scissionismi, gruppi antipartito, congiure; e spazzate via con sanguinose epurazioni – a volte vengono addirittura inventate, per regolare i conti con i concorrenti politici –. La storia del Novecento è costellata di queste dinamiche: feroci nei totalitarismi, vivaci nelle democrazie in cui la politica si incivilisce ma – a destra, al centro, a sinistra – conserva la tensione fra Parte e Tutto.
Ma perché è inevitabile che si formino "parti"? Perché, anzi, il formarsi delle correnti è segno che un partito è davvero politico e non un´azienda o una caserma, in cui non vi sono "correnti" ma "cordate" di carrieristi? Perché altrimenti il mare sarebbe una morta palude; ovvero, perché la politica ha a che fare con la pluralità del mondo; e quindi come lo Stato deve articolarsi in partiti per essere democratico, così all´interno di uno stesso partito, se questo non è una proprietà privata, non possono non manifestarsi differenze di opinione e di accenti; non possono non operare interessi materiali distinti; non possono non esistere personalità – diverse per stili, carattere, ambizioni – che a loro volta si circondano di persone che trovano utile essere "targate" come appartenenti a una corrente, e in quanto tali partecipare alla spartizione e alla distribuzione delle spoglie.
Inevitabili, e anzi segno di vitalità politica, le correnti possono degenerare, trasformarsi in bande, spudoratamente intente alla lottizzazione, all´affarismo, al saccheggio, alla pugnalata alla schiena, e compromettere quindi l´unità, l´efficienza, la riconoscibilità di un partito, o di uno Stato. Lo abbiamo visto, lo vediamo, e ne patiamo le conseguenze, anche col progressivo diffondersi di un´antipolitica qualunquistica. Ma non c´è formula che possa determinare una volta per tutte il giusto rapporto fra disciplina e pluralismo, fra Tutto e Parte, fra Unità e Differenze. La politica è un´arte più che una scienza, ed esige più sensibilità e prudenza che calcolo proprio perché ha a che fare con quella complessità della vita di cui anche le differenze – le correnti – fanno parte, nel bene e nel male.

il Riformista 8.7.10
Che senso ha parlare della Margherita?
di Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità

Mi piacerebbe capire che cosa sta accadendo nel Pd. Ogni tanto c’è un bagliore di fuoco. Prima sulla parola “compagni” poi sul socialismo europeo. Ora all’ordine del giorno c’è la convocazione dell’assemblea della Margherita. Quel partito non c’è più ma la sua assemblea esiste. È un nuovo mistero glorioso. Tuttavia non vedo lo scandalo. Se quelli che stavano assieme poco tempo fa decidono di rivedersi non c’è niente di male. Accade anche fra vecchio compagni di scuola. Generalmente è un sintomo di nostalgia e di vecchiaia. Si sa che le rimpatriate sono la cosa più triste che si possa organizzare. Non mi sfugge evidentemente il significato politico di questa convocazione. Il guaio è che nel Pd non si capisce più qual è il tema in discussione. Sui principali dossier aperti dalla situazione politica non vedo traccia di dibattito. Si sente dire, però, che gli ex popolari vivono un momento di malessere e soprattutto che il disagio investe i cattolici democratici. Non è roba da poco. Visto da fuori il Pd sembra un partito imbranato. È di moda dire che non fa opposizione, ma non è vero. È vero però che non morde e che la sua immagine è ancora troppo debole. Di questo bisognerebbe discutere. Invece quelli della Margherita ci propongono di interrogarci sul loro disincanto. Spesso si ha l’impressione che mentre la politica vera spinge da un lato, il dibattito nei partiti va per suo conto. Le nomenclature si combattono in modo incomprensibile. Ma ci volete spiegare che sta succedendo?

l’Unità 8.7.10
L’anniversario
I morti di Reggio Emilia Una lezione per la sinistra
Un convegno a cinquant’anni dalla strage. La battaglia di allora suggerisce l’agenda sindacale e politica di oggi: difesa della democrazia e dei lavoratori
di Stefano Morselli

Ed il nemico attuale è ancora e sempre uguale...». Il Teatro Ariosto ha davanti a sé la piazza in cui, il 7 luglio 1960, polizia e carabinieri uccisero Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri, Emilio Reverberi, Afro Tondelli e ferirono un’altra ventina di lavoratori. Dentro il teatro cinquant’anni dopo una strage che segnò la storia d’Italia la Cgil propone, più che una commemorazione, un’agenda sindacale e politica per le battaglie di oggi.
In sala non c’è Fausto Amodei, autore della canzone dedicata ai morti di Reggio Emilia, ma il senso delle parole dei relatori richiama quei versi. «Continuano a confrontarsi due Italie scandisce Marco Revelli, storico e sociologo -. Dietro Tambroni, c’era un blocco sociale e culturale che non aveva mai accettato la Resistenza e la Costituzione, che cercava di fermare il rinnovamento del Paese. Quel blocco, sconfitto nel 1960, ha continuato a manifestarsi in tutte le pagine oscure del nostro recente passato. E continua adesso, con il tentativo di demolire le istituzioni democratiche e i valori costituzionali, a partire dai diritti dei lavoratori».
La difesa del lavoro, dunque, diventa tutt’uno con la difesa della Costituzione. «L’articolo uno osserva Aldo Tortorella, ex partigiano, dirigente del Pci, oggi senza partito che parla del lavoro è il vero bersaglio del filo nero tra i tempi di Tambroni e i nostri». Alfredo Reichlin, altro padre nobile della sinistra, insiste in videoconferenza su questo tema: «Ogni colpo al lavoro non è solo un colpo ai sindacati: è un colpo alla democrazia. La modernizzazione ha riaperto in modo drammatico una nuova questione sociale. La civile convivenza tra le classi sociali è minacciata dalla precarizzazione e da fenomeni di semischiavitù».
Mirto Bassoli, segretario della Camera del Lavoro, ricorda i fronti dello scontro sui diritti: legge sull’arbi trato, modifica dell’articolo 41 della Costituzione, statuto dei lavoratori. E poi Pomigliano, la pretesa di imporre deroghe alle leggi, ai contratti, perfino all’articolo 40 della Costituzione sul diritto di sciopero. «Il Paese non è libero dice Bassoli se non è libero il lavoro». Da questo principio, la Cgil non intende arretrare: lo ripetono al microfono Loredana, Iman, Giovanni, Giorgia, giovani delegati delle Rsu. Hanno anche qualcosa da dire ai partiti della sinistra: «Ci state lasciando soli, non ci sentiamo rappresentati».
Tasto dolente al quale non si sottrae Reichlin. Lui ha sostenuto la nascita del Pd, ma ammette: «La sinistra non sta occupando questo campo di azione. Senza una nuova rappresentanza sociale, non può esistere una nuova sinistra politica». Autocritica, seppure su diverso versante, anche da Roberto Natale, presidente della Federazione nazionale stampa: «Sul lavoro l’informazione non ha fatto il suo dovere». Intanto, c’è un’altra emergenza, la legge bavaglio: «La contrasteremo in tutte le sedi. E siamo pronti alla disobbedienza civile e professionale».
Lotta senza quartiere la promette anche Carla Cantone, dirigente nazionale della Cgil: «Chi vuole distruggere la Costituzione non è un semplice avversario politico. È un nemico della libertà e della democrazia. Lo combatteremo con la stessa decisione dei giovani di quel luglio 1960».

l’Unità 8.7.10
Il ministro Alfano presenta una «riformicchia» in manovra. I cancellieri diventano magistrati
Colpo di mano sul processo civile. Giustizia solo per ricchi
Alfano presenta una mini-riforma del processo civile, che depotenzia i giudici. Protestano le opposizioni: è incostituzionale. Aumentano i balzelli per i ricorsi in appello e in cassazione. Giustizia per l’élite.
di Bianca Di Giovanni

Nelle ultime concitate ore di esame della manovra in commissione al Senato arriva anche una mini-riforma del processo civile. Tanto per trasformare il disordine in caos completo. Mentre il governo litiga e tenta di placare le proteste dei cittadini, allungando i tempi dei lavori parlamentari (la manovra arriverà in Aula solo martedì e la fiducia sarà votata giovedì), il ministro Angelino Alfano in persona si presenta in commissione Bilancio per annunciare la sua «riformicchia». Il testo prevede tra l’altro che gli ausiliari potranno decidere le sorti dei processi civili, e che i cancellieri potranno raccogliere le prove. Due funzioni oggi affidate ai giudici. In sostanza si indebolisce il processo, si attenuano le garanzie per i cittadini. Nel frattempo altri balzelli si impongono ai cittadini che chiedono giustizia: sale a 500 euro il contributo per i ricorsi in Cassazione, mentre aumenta del 50% il contributo unificato per le impugnazioni davanti a tribunale e corte d’appello. Come dire: la giustizia è roba da ricchi.
REAZIONI
Le disposizioni di Alfano sul processo civile hanno provocato la decisa protesta dei senatori, che hanno chiesto la sospensione dell’esame e la convocazione della Commissione Giustizia, titolata ad esaminare la materia. «Non si vede come una riforma del processo civile possa essere fatta all’interno della manovra dichiara Felice Casson Quanto al merito, le misure mi paiono molto gravi. Senza contare che anche i cancellieri mancano, quindi non si vede come si possa accelerare la giustizia civile dando più compiti a loro. Sul processo civile è stata presentata una proposta di legge, in quella sede andrà valutata la riforma». Andrea Orlando e Cinzia Capano del Pd accusano il fatto che «l’emendamento nega il diritto ad un processo giusto innanzi ad un giudice predeterminato per legge in tutti i processi civili. Con queste misure si premiano di fatto i giudici pigri. Inoltre, destinando a magistrati in pensione il ruolo di ausiliari, si danneggiano i giovani». «L'emendamento presentato dal Governo alla manovra sul processo civile è davvero una vergogna perchè, così facendo, il vero obiettivo che si vuole raggiungere è quello di privatizzare la giustizia civile», commenta il deputato Pd Lanfranco Tenaglia.
Le misure mettono in fibrillazione anche la maggioranza. Tant’è che in commissione Giustizia si era pronti a votare unanimemente un invito al ritiro. Ma il centrodestra ha interrotto i lavori ed ha deciso di contattare Alfano. Al rientro, la posizione dei senatori di maggioranza era radicalmente cambiata: hanno stilato e votato un parere favorevoli a certe condizioni. Le opposizioni si sono mantenute sulle loro posizioni iniziali. invito al ritiro. Dunque, l’emendamento resta e oggi sarà esaminato dalla commissione Bilancio. «È stato un fulmine a ciel sereno commenta la senatrice Silvia Della Monica Non capiamo perché Alfano si ostini a insistere».
Una valanga di altri emendamenti si è abbattuta ieri sul decreto, mentre Giulio Tremonti si è vantato in conferenza stampa di essere riuscito a riformare le pensioni con un emendamento senza provocare proteste. Chissà in che mondo vive. Arrivano le modifiche fiscali chieste dalla Confindustria, viene cancellata la disposizione sulle tredicesime, si finanzia un fondo per la sicurezza con uno stanziamento di 80 milioni per ciascuno dei due anni. Restano i pesanti tagli al pubblico impiego: anche gli 007 vengono colpiti, con un piano di snellimento che prevede 570 prepensionamenti. Nella conferenza dei capigruppo la maggioranza e il relatore assicurano che la fiducia sarà chiesta sul testo della commissione: nessuna novità dell’ultim’ora nel maxiemendamento. Più volte presentato, ma alla fine ritirato, anche un emendamento che prevedeva un taglio agli stipendi Rai.

l’Unità 8.7.10
Macché veleno Cleopatra fu vittima di Ottaviano
di Benedetto Marzullo

Un recente scoop (la Repubblica, 28 giugno, p. 37) proclama che «Non fu l’aspide, Cleopatra morì bevendo cicuta». Due studiosi, ovviamente americani, lo assicurano: un antichista, col debito sostegno di un tossicologo. Induttivamente, essi escludono che la regina ricorresse al veleno, consapevole che il tossico, tuttavia sperimentato a quel tempo (nel bene e nel male), «avrebbe procurato una...morte, ma solo dopo sofferenze atroci, salvo complicazioni, un salvataggio inatteso. Ripiegò quindi su una pozione di oppio e cicuta (!), addirittura lasciò istruzioni di (per) costruire la leggenda del morso del serpente, per restare nel ricordo della eternità». Espedienti di sorprendente vacuità: ingiuriosi per una regina, per una donna, dotata di senno, in verità di autentico senso della storia, di leggendario talento. «Menzogna gigante (in italiano gigantesca), ma via che cosa non si perdona a una donna bellissima e geniale», conclude tollerante l’articolista. La parola «genialità» non basta per fare storia, tanto meno per accreditarla, farisaicamente.
Che Cleopatra sia morta è indiscutibile, fantasioso però che provvedesse personalmente ad imbastire un copione da operetta, attuandone regia ed interpretazione. Della sua esistenza avventurosa, femminilmente chisciottesca (sembra il prototipo della drag queen), poteva dirsi soddisfatta: avrebbe continuato imperturbata ad esibirla (e a goderne), salvo eventi imprevedibili. Culmine delle sue aspirazioni era un impero planetario, miraggio della intera dinastia, ostinatamente perseguito dal suo capostipite Alessandro, meritamente designato Magno, stroncato anche lui dalla morte (naturale?) a poco più di trent’anni, in congiunture in apparenza non diverse dalla straordinaria Cleopatra: essi tentano una impresa ecumenica, fantasmagorica per l’Occidente, destinata a travolgerli. La dimensione, straordinaria, ma femminile di Cleopatra, risulterà delirante: della vicenda si impadronirà il cinema, i ristretti confini drammaturgici vengono forzati dalla ingorda filmografia, a riattivare se non esacerbare la commozione provvederanno sopravvenuti: spesso incauti studiosi, avventurieri massmediatici.
Non resta che rinunciare ad affabulatorie divagazioni, ritornare alle fonti, per quanto trasmesse da testimoni postumi, talvolta perplessi, superficiali. Plutarco (il maggiore, un secolo più tardi) di continuo avverte della aleatoria tradizione. Tra romanzeschi dettagli, riferisce che la regina, dopo una estrema visita dello sfortunato Antonio, rimpiange tra le innumerevoli sofferenze la stragrande brevità del tempo vissuto lontana (?) da lui, provvede ad una energica toilette: si abbandona tuttavia ad un banchetto «sontuoso» (Plutarco non saprebbe usare più acconcia sommarietà). Solo interrotto all’arrivo di un pastore, che le consegna il cesto dei fatidici fichi (abbondano, del resto, in Egitto), licenzia tutti, salvo le rituali due ancelle, scrive un biglietto ad Ottaviano. Che arriva, fulmineamente. Intuisce la tragedia, spalanca le porte, la catastrofe è compiuta: Cleopatra giace morta, su un letto ovviamente d’oro, regalmente addobbata.
Delle figliole, una era spirata ai suoi piedi, l’altra semisvenuta, il capo rovesciato, cercava di acconciarle il diadema sulla testa. Qualcuno potrebbe dirle, irritato: «Stai facendo bene, ragazza?» E lei: «Anzi benissimo, come si addice a chi discende da tanta dinastia». Non disse altro, crollò ai piedi del letto. Il duetto appare dovuto all’ingegno di Plutarco, farisaico pennaiolo.
Le vittime della sceneggiata sono indissolubilmente tre, un impreveduto eccidio: unico il mandante, identici gli esecutori, due involontari testimoni. Ad ordinarlo è indubitabilmente il giovane Ottaviano, definitivamente sbarra le porte dell’Oriente, lo riunisce con l’Occidente. Verrà consacrato col risonante nome di Augusto (27 a. C.), il primo degli imperatori romani: a dispetto di Cleopatra, della sua stravolgente bellezza.

l’Unità 8.7.10
Cartoline dal Sudafrica
I carcerati che tifano per i loro carcerieri
di Marco Bucciantini

Il ragazzino nero gioca sul prato del lungomare di Città del Capo. Ha la maglia arancione di Sneijder, e para i comodi tiri del
padre, Ralph Bakkies, un signore di 46 anni con la fronte spaziosa e poca barba sul mento e sulle guance. Quella fu la maglia anche di Hendrik Verwoerd, per dirne uno: non giocava nella squadra di Cruyff, ma fu leader nel National Party che segregò Ralph, i suoi genitori, la sua famiglia di 23 persone. Però Ralph e suo figlio tifano Olanda. Martedì sera lo stadio era ammantato di arancione. Molti erano venuti da Amsterdam, altri sono gli olandesi di centesima generazione, gli afrikaner, e prima ancora boeri (significa “contadini”, perché vennero 4 secoli fa a coltivare la terra e allevare bestiame per sfamare i naviganti della Compagnia delle Indie Orientali che doppiavano il Capo di Buona Speranza denutriti e malati). Ma la gran parte del tifo era dei neri sudafricani di questa penisola che fu selvaggia e respingente, fino all’arrivo dell’esploratore Jan van Riebeeck, partito da Rotterdam con tre navi, lunghi riccioli neri e baffi a manubrio: fondò Città del Capo.
I giornali di ieri scrivevano: “L’Olanda vince nella sua città madre”. Non c’era sudditanza, nel titolo. Se la storia si fa a spanne, e spesso a scuola si studia così, gli ex carcerati stanno forsennatamente tifando per i carcerieri, sindrome studiata dalla psicanalisi. Ma la storia è un’altra: “L’apartheid è finito”, fa Sibabalwe, tassista di colore che fino a 15 anni fa lavorava l’orto di casa, e la sua strada finiva lì. “Gli inglesi, sono stati gli inglesi”, ripete, e distingue fra coloni e invasori. I britannici incarognirono la vicenda, massacrando i boeri e separando quelle che sembrarono loro troppe etnie per vivere in pace: queste terre deserte furono “imbastardite”, olandesi e inglesi le popolarono dei loro schiavi di continenti diversi. Nel 1948 gli afrikaner ereditarono questo abbozzo di segregazione e ne fecero ignobile politica di governo. Ma i neri di Città del Capo sono in pace e prendono la storia per la coda: gli olandesi hanno denunciato l’apartheid, e fu uno loro discendente, Frederick Willem de Klerk, a scarcerare Mandela e chiudere così il secolo breve.
Poco più in là, verso l’aeroporto, i neri delle township non sanno nemmeno com’è finita la partita perché chi ha fame non può essere in pace.