sabato 8 giugno 2013

Il Consiglio dei ministri deroga dalla Costituzione!
Emma Bonino e Andrea Orlando si "salvano l'anima" facendo obiezione, ma poi subiscono!!!
E chi difende la Costituzione?
Repubblica 8.6.13
Rispettare l’articolo 138
di Alessandro Pace


Nella riunione del Consiglio dei ministri di giovedì scorso, dedicata all’approvazione del disegno di legge costituzionale relativo al percorso delle riforme, solo due ministri, Emma Bonino e Andrea Orlando, hanno sollevato obiezioni circa la riduzione da tre mesi ad uno dell’intervallo intercorrente tra la prima e la seconda approvazione del testo delle leggi costituzionali eventualmente modificative della forma di governo, del bicameralismo paritario e dei rapporti Stato-regioni. Entrambi i ministri hanno giustamente fatto notare l’importanza dell’intervallo dei tre mesi previsto dalla stessa Costituzione invitando alla cautela. Quell’intervallo è stato infatti voluto dai Costituenti allo scopo precipuo di poter discutere, prima del voto definitivo (senza possibilità di emendamenti), sulle modifiche approvate in prima lettura. È stato loro replicato che con una legge costituzionale ad hoc – come quella in discussione – si può derogare al procedimento previsto in Costituzione!
È bene allora ricordare alcuni concetti elementari, ma fondamentali.
1. La nostra è una costituzione rigida, che come tale si pone al vertice dell’ordinamento, al di sopra di tutte le leggi, siano esse ordinarie che costituzionali.
2. Il procedimento “speciale” di revisione costituzionale ha la funzione di “adeguare” la Costituzione alle mutate esigenze storiche, sociali e politiche. È quindi esercizio di potere costituito, non costituente. Parlare, con riferimento al momento attuale, di “percorso costituente” è frutto di ignoranza oppure sottende intendimenti eversivi.
3. Per quanto detto, il procedimento di revisione previsto nell’articolo 138 rinviene il suo fondamento giuridico nella Costituzione, di cui deve rispettare i limiti sia formali che sostanziali. Una legge di revisione costituzionale, come quella di cui giovedì scorso è stato approvato il disegno di legge, può quindi modificare l’articolo 138, ma, finché il 138 è in vigore, deve rispettarlo.
4. Nelle costituzioni rigide, il potere di revisione costituzionale incontra però un limite ulteriore. Le modifiche non devono surrettiziamente “flessibilizzare” il procedimento di revisione costituzionale. Il disegno di legge approvato giovedì non ha però la finalità di “modificare” l’articolo 138, bensì di “derogare” una tantum l’articolo 138. Il che è macroscopicamente illegittimo.
5. Siffatta deroga una tantum (sic!) consentirebbe infatti alle eventuali singole leggi modificative della forma di governo, del bicameralismo paritario e dei rapporti Stato-regioni di essere approvate con un procedimento difforme dall’articolo 138. È quindi una deroga, ma illegittima, perché esplica i suoi effetti nel futuro modificando surrettiziamente il procedimento di revisione costituzionale.

Repubblica 8.6.13
“Attenzione al rischio presidenzialismo”
Zagrebelsky: quei camaleonti dietro il presidenzialismo
intervista di Maria Cristina Carratù


IL POPULISMO, forma di rapporto diretto fra un capo e il “suo” popolo basato su elementi di emotività e senza altre mediazioni, è sempre esistito. Oggi però tv e social network sembrano perfezionare questa ambigua relazione fra governanti e governati, offrendo ai leader ulteriori strumenti di esercizio della loro “seduzione politica”. Motivo in più, secondo alcuni, per evitare di facilitare affermazioni personali attraverso corsie istituzionali, quali presidenzialismo e semipresidenzialismo. È la tesi del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, che oggi a Firenze discuterà con Ilvo Diamanti, Stefano Rodotà e Lucia Annunziata di “Italia post-populista” (ore 19, Salone dei ’500, Palazzo Vecchio).
Professor Zagrebelsky, perché questo timore riguardo agli esiti del presidenzialismo, da molti invocato come risposta all’attuale disorientamento politico?
«Perché presidenzialismo e semipresidenzialismo sono forme di governo che si potrebbero definire camaleontiche, cioè portate ad assumere il “colore” e il carattere dell’ambiente politico in cui si instaurano. Date queste caratteristiche, c’è il rischio che, in un momento di debolezza democratica, cioè di particolare esposizione di un paese agli effetti delle forze demagogiche, il presidenzialismo si riveli una forma di governo funzionale al populismo».
E il populismo, oggi, quale rischio potrebbe racchiudere?
«Il populismo è una forma di demagogia, ovvero, come dice la parola, una sollecitazione dei bisogni più elementari del demos, del popolo, tale per cui il popolo non è messo in condizione di agire, ma è fatto agire, vale a dire provocato dal leader, che di fatto gli fa fare quello che vuole».
Sottraendosi così a un vero controllo democratico.
«Il leader populista punta a identificarsi ideologicamente col popolo: “Io sono tutti voi”. Una situazione che parla da sola...».



Corriere della Sera 8.6.13
Francesco agli studenti: «Io non volevo fare il Papa»

... non ha voluto abitare nell'Appartamento apostolico «per motivi psichiatrici: è la mia personalità, se vivessi solo non mi farebbe bene». Che spiega: «Una persona che vuole fare il Papa non vuole bene a se stessa, Dio non lo benedice! No, io non ho voluto fare il Papa».
Ma tu volevi fare il Papa?, e Bergoglio sorride divertito: «Ma tu sai cosa significa che una persona non si vuole bene? Una persona che vuole fare il Papa non vuole bene a se stessa! Dio non lo benedice! No, io non ho voluto fare il Papa... ».

il Fatto 8.6.13
Casson, la mozione contro gli F-35 “spacca” il Pd


“SOSPENDERE la partecipazione al programma sugli F-35”, per destinare quei soldi alle vere emergenze del Paese, a cominciare dal lavoro e dalla messa in sicurezza dei territori a rischio idrogeologico. É la richiesta di Felice Casson, vicepresidente della Commissione Giustizia del Senato, con una mozione firmata da altri 17 senatori del Pd. “Non esiste a tutt'oggi alcun impegno all'acquisto di questi velivoli - ha spiegato - e non c'è alcun contratto firmato”. La battaglia anti-governativa sugli F-35 si fa sentire anche alla Camera con il capogruppo Pd della Commissione Difesa alla Camera che ha comunicato l'avvio, a partire dalla settimana prossima, di “un'indagine conoscitiva sugli F-35”. Posizioni opposte a quelle del governo con il ministro della Difesa Mauro che definisce gli F-35 dei “sistemi di difesa avanzati che servono per la pace”. La mozione presentata da Casson al Senato apre quindi una crepa nel Pd: da una parte i 18 senatori che ricordano come molti paesi, compreso la Gran Bretagna, hanno previsto la decurtazione delle spese militari, dall’altra la linea del governo che non sembra, al momento, intenzionato ritornare sui suoi passi.

il Fatto 8.6.13
Sindaco ferito a Terni, video Tg3 smentisce la polizia


L’AVVOCATO EMIDIO GUBBIOTTI, che difende l’operaio delle Acciaierie Speciali Terni indagato per il ferimento del sindaco Leopoldo Di Girolamo, ha depositato stamane una memoria in cui chiede formalmente che vengano acquisiti alcuni filmati del telegiornale regionale della Rai, andati in onda ieri sera, in cui, oltre all’ombrello, che secondo la polizia avrebbe colpito il sindaco Di Girolamo, si vede anche un manganello agitato vicino al sindaco. Oltre al video, il legale chiede che vengano ascoltati lo stesso sindaco Di Girolamo, il senatore Gianluca Rossi, l’assessore regionale Vincenzo Riommi, e due assessori del Comune di Terni, tutti presenti al momento dei tafferugli con la polizia nella stazione di Terni.

il Fatto 8.6.13
Carissimo Epifani, quanto ci costi
Il leader del Pd si aumenta lo stipendio in Cgil per avere un assegno di anzianità più alto
di Salvatore Cannavò


Il tesoriere del Pd, Antonio Misiani, passa le sue giornate a far di conto. Il finanziamento ai partiti potrebbe diminuire, il personale è in fermento, si parla di cassa integrazione. Così, quando ha saputo che sarebbe arrivato Guglielmo Epifani alla segreteria del partito ha provveduto a blindarsi. Niente macchina per il leader, nessuna spesa straordinaria, utilizzo esclusivo delle “risorse interne”. L’ex segretario della Cgil ha così dovuto lasciare la storica portavoce al sindacato e avvalersi dell’ufficio stampa del gruppo e del partito. Come tutti gli altri deputati, assicura al Fatto Misiani, “anche lui dovrà versare i 1.500 euro al partito” come ha sempre fatto Bersani. Il tesoriere non sa ancora se il neo-segretario abbia regolato la sua posizione, ma non ha dubbi “che lo farà”.
IL PROBLEMA è che su Epifani, in Cgil si dice che sia costoso. Come tanti, del tutto legittimamente, non ha problemi, ad esempio, a sommare alla cospicua indennità parlamentare – 13.191 euro e rotti al mese – ai 5.037,38 euro lordi di pensione Inps frutto, come tiene a specificare lui stesso, “di 42 anni di contributi”. A questi, in realtà, aggiunge 428,34 euro mensili di pensione integrativa sottoscritta dalla stessa Cgil. Non c’è nulla di illecito. “Vuol dire che pagherà più tasse”, dicono i suoi collaboratori. Vantare un reddito così elevato è solo una questione di opportunità. Ad esempio potrebbe rendere più difficile proporre una legge per vietare il cumulo di redditi per chi svolge incarichi pubblici: un calcolo approssimativo parla di circa 2 miliardi di euro risparmiabili immediatamente.
Resta che l’ex segretario Cgil costa. La sua pensione, circa 3.200-3.400 euro netti, è un bel po’ più alta della media dei “colleghi”. Sul sito di Open-Polis, che pubblica i redditi dei parlamentari che lo consentono, ci sono le dichiarazioni di altri dirigenti sindacali, come Paolo Nerozzi e Achille Passoni. Le loro pensioni oscillano tra i 2.200 e i 2.600 euro netti. Il predecessore di Epifani, Sergio Cofferati, oggi europarlamentare – e dunque obbligato a presentare i redditi a Bruxelles – dichiara una pensione inferiore ai 2.400 euro netti al mese. Circa mille in meno del segretario Pd.
IL SEGRETO di Epifani sta in un momento della sua segreteria, il 2004, quando furono cambiati i parametri di riferimento degli stipendi dei dirigenti Cgil. La tabella salariale del sindacato di Corso Italia è complicata, i livelli dirigenziali sono 18 e vanno dal segretario generale (AS) al funzionario di prima nomina (E). Ognuno ha un parametro di riferimento su cui vengono calcolate la paga di livello e l’indennità di mandato. Nel 2004 Epifani aveva un parametro 279,73, una paga base, lorda, di 2.926 euro e un’indennità di 1.473 euro. Totale, 4.399 euro lordi al mese. L’anno successivo, però, ottiene uno scatto da favola, il 18 per cento: il parametro passa a 330 e la paga complessiva a 5.183,69. Lo scatto, circa 800 euro mensili in un solo anno, permette di ottenere sostanziosi aumenti negli ultimi anni lavorativi decisivi per chi, ai fini pensionistici, può ancora avvalersi del sistema retributivo. La pensione è infatti commisurata alla media degli ultimi dieci stipendi annuali. I dirigenti della segreteria confederale, al contrario, hanno soltanto uno scatto del 6 per cento, quelli mediani del 4,3. Da quel rinnovo in poi, però, dalle tabelle retributive di Corso Italia scompare il rigo AS, quello che riguarda il segretario generale. Sul cui stipendio non esistono quindi dati consultabili. Quello attuale di Susanna Camusso, a detta dei suoi collaboratori, è di circa 3000 euro netti. Più basso della pensione percepita da Epifani. I costi del segretario Pd, però, non si fermano qui. Quando ha lasciato la segreteria a Susanna Camusso, per lui è stata allestita l’Associazione Bruno Trentin, per un costo di circa 500 mila euro l’anno, dotata di segreteria, una portavoce, due autisti alle dipendenze del presidente e un’indennità per il medesimo. Questo è avvenuto però in un anno in cui la Cgil ha dovuto ridurre di 96.000 euro la voce “Studi, ricerche e formazione”: dai 2 milioni 746 mila del 2010 ai 2 milioni 649 mila del 2011. Segno che il costo aggiuntivo della nuova associazione si è scaricato sul resto delle attività e nonostante il sindacato abbia storicamente collocato i segretari generali uscenti alla Fondazione Di Vittorio.
LA NUOVA STRUTTURA, lo scorso 4 giugno, ha annunciato la propria fusione con gli altri istituti di ricerca della Cgil, Ires e Isf, per dare vita “a un unico centro di iniziativa sindacale, sociale e politica, di ricerca e di formazione”. Nei due anni alla guida dell’Associazione, Epifani ha continuato a percepire un’indennità di mandato pur essendo andato in pensione dal gennaio 2011. Dalle tabelle retributive al 2010 si tratta di 3966,10 lordi mensili, circa 2 mila euro netti. Ecco perché al Pd continuano a fare i conti.

il Fatto 8.6.13
“Traditori”, “parassiti” Rivolta contro i due addii
Due deputati M5S annunciano “Ce ne andiamo dal gruppo”
Gli insulti degli ex colleghi stasera a Taranto per riparare
di Paola Zanca


Credevano di poter resistere fino a martedì, alla ripresa dei lavori dell'Aula. Speravano che la resa dei conti sarebbe arrivata con l’annuncio della Presidente Laura Boldrini. Invece no. Sul sito della Camera è tutto già scritto. I deputati Alessandro Furnari e Vincenza Labriola dal 6 giugno sono iscritti al gruppo parlamentare misto. Così, alle tre del pomeriggio, si siedono al computer e buttano giù il loro addio al Movimento. Non alle “idee fondanti”, precisano, ma all' “istituzione”. Ovvero a quel gruppo di 163 (una volta) parlamentari che si adeguano a “decisioni calate dall’alto”, dove “impera la disorganizzazione” e che non ha ancora una posizione chiara sull’Ilva, la piaga di Taranto, la loro città. Il tempo di premere il tasto “invio” e quel computer a cui hanno affidato il loro testamento politico sputa indietro la sentenza. Venduti, lo fate per i soldi, non fatevi vedere in giro.
LA LINEA la chiarisce un comunicato firmato dal gruppo di Montecitorio. Li salutano e augurano loro buona fortuna. Poi mettono in fila i due peccati capitali: sono avidi e lavativi. “Non sono riusciti a proporre neppure un progetto di legge, oltre ad aver apposto le loro firme a progetti altrui, siglando appena un paio di interrogazioni in due, in tre mesi di lavoro”. “Saranno finalmente liberi di disporre di tutto il denaro spettante senza dover più adempiere agli impegni presi con il codice di comportamento e col ‘fastidioso’ Beppe Grillo”. Chiudono con la peggiore offesa possibile: “Sapranno rendere merito anche al nuovo titolo di cui potranno ora fregiarsi: l’onorevole Labriola e l’onorevole Furnari”. È un testo duro, senza appello, che il neo capogruppo Riccardo Nuti rivendica immediatamente. Ma non tutti gradiscono i toni del comunicato, l’attacco frontale ai due ex colleghi ora buttati in pasto alla Rete. Ma in pochi lo dicono: solo quelli che con Vincenza Labriola hanno condiviso l’impegno in commissione Lavoro. Piuttosto, Facebook si riempie di ricordi non esattamente memorabili: “Li ho visti più sui giornali che dal vivo”, scrive il deputato Luca Frusone. “Certo che i soldi annebbiano la vista e la dignità. Avanti così Onorevoli! aggiunge la deputata napoletana Vega Colonnese – La Puglia si è liberata di due presenze inutili. Ora splende”. “I due valorosi non si sono mai visti in assemblea se non in quelle 2 occasioni (due) dove si è parlato di soldi quando Furnari ha addirittura preso la parola. Personalmente – ricorda il deputato Manlio Di Stefano – ho chiesto a Furnari, questo mercoledì, quali fossero i motivi del suo malcontento e cosa intendesse fare visto che si vociferava sui giornali del suo addio e la risposta è stata, oltre ad un generico ‘ci sono un po’ di cose che non mi stanno bene’, che le parole di Beppe Grillo sul caso Ilva lo avevano ferito. (…) Gli ho chiesto anche di venire a parlarne in assemblea mercoledì 5 così da liberarsi dal peso e ripartire ma, come sempre, non si è presentato . (...) Ecco quindi che si palesa in me l’atroce dubbio che a furia di scivolare sullo specchio il duo di eroici tarantini non avesse più unghia per restare appesi al traguardo di un roseo stipendio. Buon lavoro ragazzi, siamo certi che farete grandi cose laddove le fecero già i Razzi e gli Scilipoti”. Il pugliese Giuseppe D’Ambrosio dice che Furnari è un “resuscitato dalle parlamentarie”, mentre della Labriola ricorda: “Non sapevamo neanche chi fosse”: “l’hanno votata sul por-tale solo perchè era l’unica donna che per una questione anagrafica poteva rientrare nel listino della Camera”. Due “parassiti”, li chiama il deputato Gianluca Vacca. “Piccole pedine assetate di soldi nelle mani di ben più esperti giocatori”, chiosa il “cittadino” Federico D’Inca, certo che l’uscita dal gruppo alla vigilia dei ballottaggi e delle elezioni siciliane sia una studiata mossa per azzoppare il Movimento.
STASERA un gruppo di parlamentari andrà proprio a Taranto, ad un incontro con i cittadini che era già in programma. Al posto di Furnari e Labriola ci sarà anche il deputato romano Alessandro Di Battista. Sfogandosi dopo un’assemblea, Furnari aveva osato dare del “pezzo di merda” a Beppe Grillo, offeso dalle accuse di voler fare la cresta. Poi ritrattò, ma la riabilitazione del gruppo fu affidata proprio a Di Battista, impegnato in un plateale abbraccio a Furnari in mezzo al Transatlantico. Le agenzie batterono il lancio: “Pace fatta”. Macchè.

Corriere 8.6.13
La prima linea e i dissidenti, poi siciliani e fuoriusciti Le falangi (divise) di Grillo
La fronda interna si allarga e fa pesare i suoi voti
di Emanuele Buzzi


MILANO — Cento giorni e poco più nell'occhio del ciclone. Cento giorni per cominciare a scoperchiare il Parlamento, ad aprirlo «come una scatoletta di tonno», come ha evocato più volte durante i comizi dello Tsunami Tour Beppe Grillo. Cento giorni per conoscersi e (in parte) dividersi. La galassia dei parlamentari Cinque Stelle — da cui ieri si sono allontanati volontariamente i primi due deputati (Alessandro Furnari e Vincenza Labriola) — fa i conti con le sue diverse anime e appare sempre più frastagliata. E diventa quasi imperativo, anche all'interno del gruppo, tracciarne i confini per capirne gli orizzonti, in un momento di svolta.
La squadra dei fedelissimi
Ci sono anzitutto i volti della prima linea, quelli che si sono assunti onori e oneri, come Vito Crimi e Roberta Lombardi: loro a rappresentare il Movimento alle consultazioni da Giorgio Napolitano, loro a gestire la difficile fase dell'ingresso nei palazzi romani. Crimi e Lombardi incarnano certo l'avanguardia della colonia di «fedelissimi», ossia di attivisti storici vicini alla linea di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. All'interno della cerchia ci sono anche gli altri parlamentari — come Laura Castelli e Alessandro Di Battista — presenti (con qualche malumore nel gruppo) al corso tv coordinato settimana scorsa dai due leader, ma anche i volti istituzionali dei Cinque Stelle (il vicepresidente della Camera, Luigi di Maio, il questore al Senato, Laura Bottici, e il presidente della Vigilanza Rai, Roberto Fico). Un nucleo solido che esercita e ha esercitato (specie nei primi due mesi) un forte peso aggregante nelle scelte.
Il modello meet-up
Decisioni prese sempre a maggioranza, come confermano in modo quasi unanime i parlamentari, «dopo lunghissime discussioni e sempre a tarda sera». Un modello che è quello del meet-up, il mini gruppo locale che anima le attività dei militanti. Un modello esportato a Roma con alterne fortune. E che riflette a volte anche gli umori dei gruppi regionali, come i siciliani, nelle diverse conclusioni. «Queste continue discussioni ci hanno logorato», mormora qualcuno. Anche perché le voci della maggioranza sono spesso le stesse. Già all'epoca delle scelte per una possibile alleanza con il Pd c'è chi — come Alessandra Bencini — si era staccato. Ora la situazione si è deteriorata. La cartina di tornasole è il voto per il successore di Crimi come capogruppo a Palazzo Madama. Nicola Morra, considerato il favorito, indicato anche dal gruppo dei «fedelissimi» è davanti di un soffio a Luis Alberto Orellana, considerato dai più un «dialogante», mediatore tra le posizioni. Ma soprattutto il dissidente Lorenzo Battista ha raccolto oltre una decina di preferenze, creando un piccolo non esiguo fronte: quasi un quarto dei senatori. Che si sta coagulando, anche se — analizzano fonti vicine ai parlamentari — «tra loro non c'è una posizione comune su molti temi».
La fronda interna
Nell'ultimo mese, dopo le dure posizioni di Grillo sulla restituzione della diaria, sul caso Rodotà e dopo la sconfitta elettorale, la fronda interna si è allargata. «Grillo ha usato una mano un po' troppo impositoria», secondo Tommaso Currò. Sulla sua linea anche Walter Rizzetto o Adriano Zaccagnini: voci dissenzienti su argomenti sensibili. «Le posizioni come quelle esposte da Zaccagnini sono il sale della democrazia interna al gruppo — dice il deputato pugliese Giuseppe D'Ambrosio —. Si tratta di normali dinamiche. Noi, al meet-up di Andria, organizziamo periodicamente una serata in cui ci mandiamo a quel paese. Passata quella, tutto prosegue». Qualcuno, però, a Roma si è allontanato o è stato cacciato, come Marino Mastrangeli, il senatore espulso con votazione via blog. Isole alla deriva nell'arcipelago dei Cinque Stelle? «C'è stato un problema con il metodo delle Parlamentarie — commenta D'Ambrosio —: bellissimo come sistema per aggirare il Porcellum, ma perfettibile». A fare da pompiere ci pensa Crimi: «Di volta in volta ci troviamo in accordo o in disaccordo, ma c'è un obiettivo più grande di tutti, quello di creare una rivoluzione culturale, e quello lo abbiamo tutti ben presente». E poi rilancia: «Forse è ora di guardare cosa abbiamo già fatto».
La presenza sui territori
A scorrere le proposte presentate in Parlamento ci si imbatte in un bouquet di argomenti, compresi molti cavalli di battaglia: reddito di cittadinanza, conflitto di interessi, abolizione del finanziamento pubblico all'editoria, richiesta di istituzione di una commissione parlamentare sul Monte dei Paschi. E non solo. Anche progetti di legge per traslare le competenze regionali del servizio sanitario nazionale o per la soppressione dei tribunali militari. Ma anche altre iniziative come disposizioni per il contenimento del consumo del suolo e la tutela del paesaggio, per il riconoscimento della medicina omeopatica. I parlamentari, comunque, non si fermano solo all'Aula. Già oggi saranno a Taranto a una manifestazione sull'Ilva («Saremo oltre una decina», annuncia D'Ambrosio). Nelle scorse settimane sono stati impegnati in val di Susa, Sardegna, Abruzzo. Una strategia, quella di visite collettive, nei luoghi simbolo delle crociate a Cinque Stelle, che potrebbe anche incrementare nei prossimi mesi per rilanciare il legame con i territori.

Republica 8.6.13
Cresce il dissenso grillino altri deputati verso l’addio. E c’è chi sogna il ribaltone
Ma il web insulta i transfughi: “Volevano i soldi”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Il prossimo a sbattere la porta potrebbe essere Adriano Zaccagnini, ribelle indomito con il pallino dell’agricoltura. Ma è l’intera pattuglia parlamentare del Movimento cinque stelle a essere ormai a un passo dall’implosione. Lo dimostra anche il trattamento riservato ai due deputati tarantini che giovedì hanno detto addio a Beppe Grillo. Investiti, per questo, dallo sdegno dei colleghi parlamentari. Sottoposti, soprattutto, alla gogna della Rete. Ma mentre altri ribelli valutano la tempistica dello strappo, a fibrillare è anche il gruppo del Senato. Lì, nella quiete apparente di Palazzo Madama, l’ala dialogante del grillismo lavora a un “ribaltone” morbido che potrebbe portare il “moderato” Luis Orellana alla guida del gruppo. Una svolta, dopo i mesi di reggenza dell’ortodosso Vito Crimi.
Per capire l’aria che tira a Montecitorio è istruttivo ascoltare Laura Castelli, grillina operosa e intransigente: «L’addio di Furnari e Labriola? Chi non si riconosce nel progetto è giusto che vada via. È meglio farlo che rovinare il movimento. E noi per questo dobbiamo essere felici». Il problema è che il dissenso si allarga a macchia d’olio. Qualcuno potrebbe rompere proprio sulla diaria. Altri “convinti” dal democratico Pippo Civati. Zaccagnini, intanto, non si nasconde più: «Ho un momento di difficoltà psicologica. Rifletto. Per decidere di andare via è troppo presto. Starò dove troverò serenità ». Quasi certamente fuori dal M5S. Come lui, anche l’agguerrita pattuglia del Friuli Venezia Giulia, da Walter Rizzetto ad Aris Prodani, è tentata dall’addio. Senza contare Alessio Tacconi e Tommaso Currò. Poi ci sono quelli che faticano a uscire allo scoperto. E sono parecchi di più. A Catania, intanto, il M5S inibisce l’uso del logo a due candidati.
A Palazzo Madama, intanto, i senatori più insofferenti si attrezzano. Per ora non preparano scissioni, piuttosto lavorano sottotraccia per cambiare bruscamente linea politica. Delusi dall’infruttuoso muro contro muro imposto dal quartier generale di Grillo, ripetono che “la politica è dialogo” e sostengono Luis Orellana nel ruolo di capogruppo. Si scontrerà con Nicola Morra, considerato più in sintonia con la linea ufficiale. Forse già martedì si terrà il ballottaggio. Ma i “turni preliminari” hanno sorpreso: 19 voti per Morra, 18 per Orellana, 16 per il “dissidente” Battista e 14 per la senatrice Bulgarelli. Un’altra considerata poco ortodossa.
Intanto, ai malpancisti di Montecitorio non è sfuggito il trattamento riservato a Vincenza Labriola e Alessandro Furnari. Una “gogna” impietosa alimentata dal gruppo grillino della Camera. «Saranno finalmente liberi di disporre di tutto il denaro spettante - si legge sul blog, sotto la foto dei due transfughi - senza dover più adempiere agli impegni presi».
Cioè la rinuncia alla diaria eccedente. Ma non basta. I due tarantini vengono bocciati perché incapaci di produrre disegni di legge e impegno concreto per l’Ilva.
Labriola e Furnari tentano di difendersi: «Siamo i primi Liberi Cittadini a compiere questo passo ». Una scelta necessaria dopo che «il Movimento ha voltato le spalle» all’Ilva e «il sogno si è trasformato in altro». Eppure, per la Rete la sentenza è già depositata.
Insulti e offese, soprattutto. Qualche minaccia. «Traditori», «vermi », «merde» e «pezzenti» i più gettonati, ma c’è anche chi - come l’utente “Vittorio da Milano” - si spinge oltre: «Spero incontrino presto un tarantino inc...ato che ha votato il M5S».
Ma anche gli ex colleghi non mancano di “salutare” i due deputati. Il capogruppo Riccardo Nuti li considera lavativi. Per Gianluca Vacca sono «due “parassiti”». Secondo Manlio Di Stefano, invece, faranno «grandi cose laddove le fecero già i Razzi e gli Scilipoti». Né Castelli si sconvolge per gli attacchi: «Se si rompe il patto fiduciario con l’elettore, la rete è libera di dirti “vaffa...” o “ti amo”». Insomma, nessuna pietà per chi tradisce.

Repubblica 8.6.13
Stefàno, il neo-presidente di Sel (ex Dc...): “Un grave errore sovrapporre la vita del governo a una questione di merito”
“La Giunta e l’ineleggibilità di Berlusconi? Non è che schiaccio un bottone e lui sparisce”
Certe idee son cresciute nel terreno di coltura di una violenza verbale che ormai ammorba il dibattito pubblico
Cauto come un ex dc? Per me non è un’offesa Sono da sempre nel centrosinistra accanto al governo Vendola
di Liana Milella


ROMA — Gli piacciono i paragoni. Per Berlusconi e la sua ineleggibilità evoca la playstation, «non è che schiaccio un bottone e puff!...lui sparisce», oppure la schedina, «non possiamo fare 1, 2 o X». Il neo presidente della giunta per le autorizzazioni, il vendoliano Dario Stefàno, per ora garantisce che la difficile decisione non sarà «politica» ma di merito.
Se l’aspettava, quando è stato eletto, che le sarebbe capitata addosso una grana come la presidenza della giunta per le autorizzazioni del Senato?
«A dirla tutta, pensavo di poter fare un’esperienza in una maggioranza di centrosinistra al governo al Paese. Poi sappiamo come sono andate le cose... Ma non considero la presidenza una grana, bensì l’opportunità di vivere un’esperienza, che non capita a tutti, nel cuore delle istituzioni, che affronterò con serietà e grande senso di responsabilità».
Ha realizzato che da lei dipende il destino del governo e della legislatura?
«Andiamoci piano: non è che io schiaccio un bottone e puff! il nemico scompare, come fossimo alla Playstation... È una idea cresciuta nel terreno di coltura di una violenza verbale che ormai ammorba il dibattito pubblico e di cui non se ne può più. Io sarò rigoroso e scrupolosissimo. Sento la responsabilità di lavorare per garantire, ai 23 componenti della giunta, le migliori condizioni per prendere le decisioni. Che non possono essere condizionate dalle emozioni o da ragioni meramente politiche. La giunta è un organismo paragiudiziario che si esprime su questioni delicate che spesso investono le libertà individuali».
Il dem Casson dice che ci vorranno mesi prima di decidere sull’ineleggibilità di  Berlusconi.
Non le pare che si potrebbe fare più in fretta?
«Credo che Casson abbia voluto sottolineare la necessità di doverci confrontare con una questione seria. In questo senso sono io che chiedo: si può ricondurre il tutto alla domanda se ci vorranno ore piuttosto che settimane? No, non dev’essere la fretta della contesa politica o la vivacità del web a condizionarci».
Dica la verità: non è un modo per tenere in vita il governo ed evitare la collera del Cavaliere?
«Sarebbe un grave errore sovrapporre la vita del governo a una questione che deve rimanere di merito».
Faccia un pronostico come se non fosse già presidente: come andrà a finire?
«Beh, mi perdoni: la questione è così seria che non possiamo farne una schedina: 1, 2 o X... So bene che la tentazione, sempre in agguato, è quella di provare a ridurre tutto a un braccio di ferro, alla politica come cosa “poco seria”, a un gioco. Non ho la sfera di cristallo. Ma sono certo, anche per lo spessore di chi compone la giunta, che faremo un lavoro serio e responsabile».
Che fa? Il democristiano come le contestano di essere stato?
«Per come lo si dice sembra un’offesa, alla stessa stregua di chi usa il termine comunista come dileggio. La mia storia politica, che inizia con le regionali 2005, mi ha sempre visto nel centrosinistra a sostegno di un modello di governo progressista che in Puglia è stato impersonato da Vendola».
Ora che sta con lui non si sente in imbarazzo a essere scavalcato a sinistra dai grillini?
«Il mio augurio è che i colleghi dell’M5S vogliano “sporcarsi le mani”, come diceva Don Milani. Sarà il banco di prova per dimostrare di aver trasformato la protesta in proposta politica».
Ci dica almeno questo: metterà il casus dell’ineleggibilità al primo punto all’ordine del giorno?
«Come primo atto ho chiesto ai gruppi di indicarmi il capogruppo per convocare prima possibile l’Ufficio di presidenza. Lì entreremo subito nel vivo delle questioni e definiremo il calendario dei lavori».

l’Unità 8.6.13
Emergenza umanitaria. Nell’inferno del Sinai
Profughi africani braccati come bestie, uccisi, venduti
Quindicimila disperati in fuga massacrati dai trafficanti
L’appello di Alganesh Fesseha:
«Il silenzio della comunità internazionale è assordante. Vi prego di intervenire subito»
di Umberto De Giovannangeli


DIETRO QUEI NUMERI, AGGHIACCIANTI, VI SONO ESSERI UMANI INDIFESI, IN BALIA DI ORGANIZZAZIONI CRIMINALI SENZA SCRUPOLI. DIETRO QUEI NUMERI, SCONVOLGENTI, VI È IL DRAMMA DI UNA UMANITÀ SOFFERENTE, indifesa, senza voce e senza diritti. Cifre spietate: dal 2009, quasi 15mila africani sarebbero stati rapiti nel deserto del Sinai e almeno 3mila sarebbero morti di stenti, violenze e torture. Sudanesi, eritrei e somali in fuga da guerre, pulizie etniche, miseria. Una fuga finità nella tragedia. E nel silenzio complice della comunità internazionale. Gli ultimi degli ultimi sono 750 profughi eritrei finiti nelle mani dei beduini, trafficanti di esseri umani. A dar conto di questo dramma è una donna coraggiosa, Alganesh Fasseha, la presidente dell’ong «Ghandi», che da anni lavora per stroncare questo traffico. Ai microfoni di Radio Vaticana, Alganesh Fesseha offre uno spaccato di questo inferno. Ricostruendo questo percorso della disperazione. «Questi profughi racconta partono dall’Eritrea per cercare lavoro e arrivano in Sudan. Una volta lì, vengono presi dai Rashaida una tribù sudanese-eritrea beduina che li vende ai beduini egiziani a una certa cifra tremila euro, tremila dollari e poi quando li hanno comprati, li vendono ad altri beduini egiziani, aumentando sempre il prezzo fino a quando non arrivano ai confini tra Israele ed Egitto».
«Qui prosegue il racconto di Fesseha chiedono anche 30, 35 o 50mila dollari. Adesso, vista la pericolosità del tragitto ci sono nuove tratte, gli eritrei cercano di andare verso Juba, ma per andarci passano comunque per Kharoum e così finiscono per ritrovarsi nel campo profugjhi di Shagarab, dove vengono rapiti dai Rashaida e poi venduti ai beduini egiziani. Questi ultimi, li tengono chiedendo un riscatto di 30-50mila dollari. Chi non può pagare viene ucciso, ma anche chi ha pagato viene torturato, può essere ucciso e poi gettato in strada...».
ANGOSCIA
Intorno a questo traffico di esseri umani gira una montagna di denaro che alimenta un’organizzazione criminale imponente: ci sono almeno 15 centri di smistamento nel deserto del Sinai. Veri e propri lager. Alganesh Fesseha è riuscita a salvare la vita di 150 di loro. In questo modo: «I prigionieri ci chiamano: i beduini danno loro il telefono per chiedere il riscatto. Mi contattano e io chiedo come stanno e loro mi descrivono la situazione. E se non sono legati, se hanno la possibilità di andare uno per uno o più di uno per volta in bagno, mi metto d’accordo chiedendo loro di uscire ad una certa ora. A quell’ora, io mando alcune persone che li prendono, li nascondono fino a quando non arrivo con il certificato delle Nazioni Unite, con la yellow card, che consegno loro e li porto al Cairo. Finora, siamo riusciti a liberare 1250 persone».
Ma non tutti ce la fanno. Anzi, la maggior parte da quell’inferno non escono vivi. «La storia più emblematica ricorda con commozione Alganesh Fesseha è l’uccisione di un bambino di tre anni, che ho trovato nella spazzatura, morto. Vedere un bambino di tre anni ucciso in quel modo, per me è stato molto scioccante. È una cosa inaccettabile e drammatica. Che colpa ha un bambino di tre anni?».
SILENZIO ASSORDANTE
Alla comunità internazionale, questa donna coraggiosa lancia un appello accorato: «Stanno morendo migliaia di ragazzi giovani: per favore, aiutateli! Aiutatemi a fermare questo massacro: è un vero massacro. C’è gente che sta morendo per nessuna ragione! Io faccio appello perché vengano salvate delle anime innocenti che non hanno fatto niente, che hanno soltanto cercato di fuggire dalla fame e dalla miseria del loro Paese, e dalla sofferenza». L’Unità aveva raccontato la storia di uno di questi ragazzi: Tekle, 25 anni, uno dei tanti. In base all’accordo stipulato dall’allora governo Berlusconi e dal Colonello Gheddafi, Tekle viene respinto dall’Italia. L’accordo prevede che i respinti finiscano in galera. Grazie ad un coraggioso sacerdote, Don Mussie Zerai, Tekle e i suoi compagni presentano un ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo: «Ma la giustizia tarda ad arrivare». Tekle non può aspettare, e scappa, fugge. Verso il più vicino paese libero, ovvero Israele. Ma ad attenderlo è un altro inferno: quello dei trafficanti di esseri umani. Tekle viene picchiato ogni giorno con tubi di ferro. Viene minacciato di morte se la sua famiglia non pagherà gli 8mila dollari richiesti per il suo rilascio. Tekle deve assistere gli stupri continui a cui sono costrette altre sue compagne di sventura. Una sofferenza indicibile, infinita. Chi tenta la fuga viene raggiunto e fatto fuori. Con una pallottola in testa, o con la gola squarciata. O lasciato morire di fame nel deserto. Questa storia dà conto di un’amara, vergognosa, verità politica: gli effetti devastanti dei respingimenti indiscriminati portati avanti in questi anni hanno dato anche questo di risultato, persone che hanno il diritto di asilo finiscono in pasto ai predoni del deserto, la lotta contro la tratta degli esseri umani tanto conclamata finisce per arricchire proprio quelli che si voleva combattere. È quello che sta succedendo nel Sinai. In un silenzio assordante. E complice.

il Fatto 8.6.13
Un Caffè ristretto ad alta intensità di keynesismo
di Stefano Feltri


La scena più bella la racconta Corrado Giustiniani nella prefazione: il professore entra nei corridoi del Messaggero per iniziare la sua collaborazione e si presenta così: “Piacere, Federico Caffè. Un Caffè ristretto, come vedete”, essendo alto appena un metro e cinquanta. Viste le circostanze mai chiarite della sua scomparsa, o meglio, sparizione, il 15 aprile del 1987, di Caffè si tende a ricordare più il personaggio che le idee, troppo affascinante il mistero del suo congedo. Per questo è apprezzabile un libro curato da Giuseppe Amari per Castelvecchi dal titolo Contro gli incappucciati della finanza (anche se la competizione sullo scaffale con le memorie di Luigi Bisignani è persa in partenza), una raccolta degli editoriali di Caffè per il Messaggero e L’Ora di Palermo, tra il 1974 e il 1987.
È sempre sbagliato cercare di piegare le polemiche del passato alle esigenze dell’oggi, cercare nella divulgazione di idee e approcci keynesiani di Caffè gli strumenti teorici per contrastare i chierici dell’austerità nella crisi dell’euro. Però, anche saltando qua e là tra i brevi, densi, articoli di Caffè si trovano spunti utili non solo per gli storici delle idee. Il 5 agosto 1986, per esempio, Caffè pubblica l’editoriale “Perché gli altri conoscano” (era precisa scelta redazionale usare titoli cloroformizzati) dedicato ai libri di testo di Economia nelle università. Caffè lamenta l’egemonia del manuale firmato da Stanley Fisher e Roger Dornbusch che imponeva l’approccio neoclassico (quello dell’uomo come razionale massimizzatore di utilità) a scapito delle teorie keynesiane e degli approcci più umili e narrativi, che non riconoscono all’economia la pericolosa qualifica di scienza esatta: “Un qualche accenno all’opera di Sraffa non farebbe male a un giovane apprendista dei primi principi dell’economia”. Critica precisa e valida anche trent’anni dopo, quando l’impermeabilità ideologica di molte facoltà di Economia (sicuramente la Bocconi, ma non solo) ha contribuito a creare il concime per la crisi. Poi ci sono diagnosi senza tempo, attuali perché capaci di andare oltre la contingenza: “Strano Paese il nostro: che difende a oltranza la libertà di scelta dei singoli, ma poi mette a carico della collettività - in modo diretto o indiretto - le decisioni erronee dei risparmiatori ingenuamente fiduciosi delle più spericolate prospettive di investimento finanziario”. E non aveva ancora visto lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena.

La Stampa TuttoLibri 8.6.13
Intervista con Luce Iragaray
“Ma l’umanità ha bisogno di infinite carezze”
«Il desiderio è una fonte di energia di cui il nostro corpo ha bisogno per crescere e fiorire»
«I tablet ora magnificano il “touch screen”, ma la cultura dell’Occidente ha sempre privilegiato la vista»
di Egle Santolini


Un pamphlet della filosofa elogia il “toccare” “Dobbiamo restituire all’altro la nostra pelle, fino a raggiungere un’intima comunione”
Luce Irigaray «Elogio del toccare» il Melangolo pp. 80, € 7

L’ultimo saggio di Luce Irigaray, la pensatrice belga che negli Anni Settanta infiammò la scena filosofica e psicanalitica con Speculum e la teoria della differenza, è un libro piccolo e densissimo appena tradotto in Italia dal Melangolo. Signora Irigaray, nell’«Elogio del toccare» lei denuncia la perdita di significato del tat­ to nella cultura occidentale, dominata dal «logos» ma­schile: secondo lei, siamo dunque una grande testa che continua a pensare ma che ha dimenticato la pelle? «E’ così. Il fatto che l’uomo abbia costruito la propria cultura attraverso la dominazione della propria origine naturale e della prima relazione con la madre gli ha impedito di coltivare la dimensione sensibile dell’identità umana. E dunque il tatto non è stato considerato un modo di entrare umanamente in comunicazione con l’altro(a), di restituire all’altro(a) la propria pelle attraverso le carezze, di avvicinarsi l’uno(a) all’altro fino a un’intima comunione grazie al tocco delle mucose». Poi sono arrivati i computer, le macchine che si frappongono ai corpi. Ci si guarda at­traverso gli schermi e ci si re­laziona in modo virtuale. Ep­ pure, i modelli più richiesti di tablet e cellulare si definisco­ no proprio «touch» e metto­ no l’accento sulle proprie qualità tattili. Non lo trova paradossale? « L’ industria lo fa per motivi commerciali, per dare l’idea di un contatto da lontano immediato e permanente. Certo il privilegio della vista nell’elaborazione della cultura occidentale non ha contribuito a una coltivazione del tatto. E l’uso della tecnica per dominare la natura ha trascinato con sé lo sviluppo di tutte le tecnologie che ci allontanano sempre più dal toccarci reciprocamente». Che cosa è successo quando, per i postumi di un incidente, ha cominciato a fare yoga? «Lo yoga e le tradizioni orientali mi hanno riportato ad abitare il corpo da cui la tradizione occidentale mi aveva invece esiliata, sia riducendomi a una semplice naturalità a disposizione di una cultura al maschile sia attraverso la sottomissione della mia energia corporea a valori soprasensibili. La pratica dello yoga, specialmente la cura del respiro, mi ha aiutata a superare a poco a poco la scissione fra corpo e mente, corpo e anima, dalla quale si è elaborata la tradizione occidentale. Il respiro è ciò che ci permette di passare da una vitalità soltanto naturale a una vitalità e perfino a una possibile condivisione spirituali, che restano radicate nel corpo e lo trasformano in un corpo spirituale che può fare da mediatore tra di noi. La pratica dello yoga mi ha perfino portata a un’interpretazione del messaggio cristiano dell’incarnazione che non mi era stata insegnata, benché sia fedele a parole del Vangelo. Ho in parte reinterpretato in questo modo l’evento dell’Annunciazione nel piccolo libro Il mistero di Maria (ed. Paoline 2010). Ma già in Amante Marina alludo all’importanza della fedeltà alla natura e del toccare nella vita del Cristo stesso, il mediatore fra appartenenza naturale e appartenenza divina». La salvezza sta ancora nel de­siderio? «Il desiderio è una fonte di energia naturale di cui il nostro corpo ha bisogno per crescere e fiorire. E’ come un sole interiore che si manifesta e si irradia attraverso il nostro corpo: per mantenere e portare a compimento la nostra vita dobbiamo coltivarlo, anche prendendoci cura della nostra bellezza naturale». Come lei scrive, «trasformare il proprio corpo in un’opera d’arte, non con voluttà narci­sistica, ma per rendere possi­bile un’umana condivisione di bellezza con l’altro». Eppu­re lei, che tan­to ama la cul­tura greca e che si è addi­rittura identi­ficata nella fi­gura di Antigone, conclude che coltivare la propria diffe­renza coincide con un destino tragico. «Rispettare la propria appartenenza sessuata implica sempre una parte di tragedia perché ognuno di noi deve assumerla e coltivarla nella solitudine. Per di più il desiderio aspira all’infinito e all’assoluto, mentre dobbiamo incarnarci in un mondo e una storia che sono finiti. Inoltre, dobbiamo rinunciare alla soddisfazione immediata del nostro desiderio per rispettare la differenza tra le nostre identità sessuate, e anche opporci alla riduzione della nostra identità sessuata all’universalità di un individuo neutro. Sono le due chiavi del tragico insegnamento di Antigone, che come ricordo nel libro All’inizio, lei era , appena uscito da Bollati Boringhieri, prima di unirsi al fidanzato Emone deve dare sepoltura al fratello Polinice. Obbedendo a un ordine più alto, a leggi non scritte che il nuovo ordine rappresentato da Creonte intende abolire. Ma forse l’attuale nostalgia di un ritorno alla cultura greca significa un voler tornare al nostro sé, un sé da cui la nostra tradizione ci ha sempre di più esiliati(e). Si tratta allora di tornare a un’autoaffezione di cui l’età d’oro della Grecia ci aveva già privati(e) sottoponendo il nostro essere globale a una dominazione del mentale. Ora l’autoaffezione ci è necessaria come il pane, perché è la prima condizione della dignità umana».

La Stampa TuttoLibri 8.6.13
Psicoanalisi
Il saggio di Recalcati
I figli­Telemaco in attesa del padre che non c’è più
Come cambia il “ruolo” educativo nella società moderna col tramonto dei grandi sistemi di interpretazione del mondo
di Augusto Romano


Telemaco nel quadro di JacquesLouis David; il denso saggio di Recalcati è nella classifica dei bestseller da dieci settimane
Massimo Recalcati «Il complesso di Telemaco» Feltrinelli pp. 156, € 14

Una storiella ebraica, riportata da J. Hillman, racconta di un padre che vuole insegnare al figlio ad avere più coraggio. Perciò, lo mette in piedi sul secondo gradino di una scala e gli dice: «Salta, che ti prendo». Il bambino salta e il padre lo accoglie fra le braccia. Il gioco va avanti per un po’ finché il padre improvvisamente si tira indietro e il bambino cade lungo e disteso. Mentre piangente si rimette in piedi, il padre gli dice: «Così impari a non fidarti di nessuno, neanche se è tuo padre».
Se, al di là dell’aneddoto, cerchiamo di cogliere il significato simbolico della storia, ci rendiamo conto che esso è particolarmente pregnante. Il gesto del padre, nella sua apparente crudeltà, rompe la fiducia primaria e il bisogno unitivo e, creando distanza, rende possibile la relazione, la quale implica inevitabilmente la differenza, l’alterità. Inoltre, l’azione paterna apre al figlio il luogo dell’incertezza e della precarietà, la condizione dell’abbandono e dello sradicamento, che sono propri dell’esistenza umana; ma anche, indicando un limite, mobilita le energie volte a fare del limite stesso una opportunità e della solitudine un’occasione di creatività. Mette il figlio a contatto con l’ingiustizia e col non senso e gli affida il compito di elaborarli simbolicamente. In questa operazione trasformativa anche il padre sanguina, e proprio perché sanguina realizza una testimonianza efficace.
Simile in questo ad Abramo, rinuncia al possesso del figlio e lo abbandona pur senza abbandonarlo, giacché lascia in lui il segno del limite; si sacrifica, realizzando in prima persona ciò che addita al figlio; si assume sino in fondo la responsabilità del tradimento, confidando forse nel detto gnostico attribuito a Gesù, che dice: «Se sai quello che fai, sarai salvo; se non lo sai, sarai dannato». Il figlio si ricorderà di lui nelle situazioni limite dell’esistenza, per esempio nei rapporti d’amore, quando dovrà prendere atto della radicale dissimmetria dei soggetti della coppia ed assumersi il fardello (che però è anche uno sporgersi oltre se stesso) di amare nell’altra proprio l’irriducibile alterità.
Questo libro denso e appassionato di M. Recalcati si propone di analizzare la paternità nella società attuale, in cui sono tramontati i grandi sistemi di interpretazione del mondo e il nichilismo ha disvelato il carattere precario e per così dire ipotetico della vita individuale e associata. Com’è sotto gli occhi di tutti, mancano i padri come quello della nostra storiella, garanti con la loro testimonianza del nesso inscindibile tra limite, sacrificio, creatività e umanizzazione. Accanto a un piccolo drappello di padri tradizionali (padre-padrone, padre-eroe), che credono illusoriamente di essere portatori di una verità da trasmettere, la stragrande maggioranza è fatta di padri assenti e di padri-bambini, compagni di gioco dei loro figli. In questo sperdimento del limite, i figli tendono a loro volta a restare bambini, desiderosi di tutto e subito, insofferenti di ogni frustrazione, privi di orientamento verso scopi. Crescendo manifesteranno, a seconda delle situazioni, il rifiuto radicale dell’idea stessa di paternità e la tendenza compulsiva al godimento come esorcismo contro le responsabilità della vita; o, per contro, la nostalgia del padre della Tradizione, che li sollevi dall’obbligo di scegliere; o anche la chiusura saturnina, l’esigenza di controllo, il cinismo, la riduzione dell’altro a feticcio, la mercificazione dei rapporti: una vita al risparmio, una infelicità senza più desideri.
La coppia Ulisse-Telemaco rappresenta per l’Autore un esempio dell’esigenza che oggi si nasconde sotto l’infelicità, il disordine e la paura di padri e figli: un ritorno del padre che dia testimonianza della consapevolezza che la vita è il luogo di opposizioni logicamente inconciliabili ma esistenzialmente esperibili. Infatti, il discorso di Recalcati si muove sul sottile crinale che separa l’innovazione creativa dalla normatività da un lato, e dalla pura dissipazione energetica dall’altro. A una vita all’insegna dello scialo, inteso come uno spendersi sino in fondo per la realizzazione del significato della propria esistenza, si oppone una vita all’insegna dello spreco, dello smarrimento nella pura fattualità. Gli opposti che vengono costantemente tematizzati sono filiazione/separazione, memoria/oblio, identità/alterità, fedeltà/tradimento, libertà/legge, appartenenza/erranza, caos/cosmo.
Centrale, nel discorso di Recalcati, è il problema dell’attribuzione di senso, che lo porta a parlare dell’inconscio non solo come deposito del rimosso ma anche come «il luogo di ciò che non si è ancora realizzato e che domanda di potersi realizzare». Il che sembra allontanarlo dalla matrice lacaniana cui aderisce per avvicinarlo all’idea junghiana di inconscio «progettante» e alla nozione di simbolo come paradossale tensione di termini opposti, cui è affidata la funzione di rendere possibile la trasformazione interiore. Se si sorvola su qualche vezzo linguistico, il libro è tra quelli che danno da pensare.

Corriere 8.6.13
L'impossibilità di essere madri: la crisi riporta indietro le donne
Elena Rosci: ci sono aree del Nord in cui il 50% non fa figli
di Rita Querzé


La crisi mette al primo posto l'essenziale. I redditi, il lavoro, il rischio di tensioni sociali sono l'Urgenza. Ma il cambio di paradigma nello sviluppo economico porta con sé anche una serie di «effetti collaterali» nelle relazioni fuori e dentro la famiglia. Ancora tutti da mettere a fuoco. Il libro di Elena Rosci La maternità può attendere (Mondadori, pagine 175, 17) entra senza paura nel nuovo mondo ad aspettative ridotte. E costringe le donne (e gli uomini) a una presa di coscienza non rinviabile.
Tutto parte da una constatazione: le italiane mettono al mondo pochissimi figli. Ne facevano pochi prima del 2008, anno spartiacque, e ora anche meno. «L'Italia e la Spagna con 1,4 piccoli per donna sono i Paesi europei in cui nascono meno bambini — sintetizza Rosci —. E i dati relativi alle donne colte che vivono in alcune aree del Nord ci indicano che circa il 50 per cento conclude la vita senza figli: quasi una su due».
A partire dalla metà degli anni 90 i demografi avevano evidenziato una nuova e incoraggiante correlazione tra tasso di fertilità e occupazione femminile. Apripista i Paesi del Nord Europa dove più le donne lavoravano più facevano figli. Di qui la rinata speranza di poter, prima o poi, conciliare il lavoro/autorealizzazione con la famiglia. Magari con l'aiuto di uno stato sociale più generoso. Qualche segnale ha fatto pensare nei primi anni 2000 che anche nel Nord Italia culle e ufficio potessero andare di pari passo. La speranza è stata soffocata dalla crisi. Oggi per le italiane è il momento di bilanci spietati.
Primo boccone amaro: la conciliazione famiglia e lavoro non è più a portata di mano. Anche di questo si è parlato nei giorni scorsi sul blog della «27esima ora», con un fuoco di fila di interventi online scatenato proprio da un post di Elena Rosci. La presa di coscienza è dura soprattutto per chi ci aveva investito energie, risorse e intelligenza. Il libro della psicologa racconta casi e situazioni. Quelle tra le ragazze degli anni 90 che inseguono ancora il miraggio di una realizzazione sia sul lavoro che come madri si trovano oggi prigioniere nel ruolo scomodo di mamme acrobate (che poi è anche il titolo della precedente fatica dell'autrice).
Poi ci sono le altre. Le realiste. Sempre più numerose. Quelle che — di fronte a una partita che i fatti dimostrano difficile se non impossibile da vincere — hanno scelto di passare la mano: niente figli. Ma forse «scelto» è il verbo meno adeguato. Secondo Elena Rosci le donne che non fanno figli spesso si lasciano portare da un giorno per giorno di mancate decisioni. Che conduce all'ineluttabile: la non maternità, appunto.
È su questa sempre più grande famiglia di «non madri» che si concentra l'osservazione della saggista. Secondo Rosci ancora oggi c'è troppo spesso un solo modo di essere mamma. Quello dello stereotipo romantico fatto di corredini ricamati, dedizione e sacrificio. I modi di essere «non madre», invece, sono numerosi. Le donne con problemi di fertilità o che non hanno mai considerato l'idea di generare sono una minoranza. Più ampia la categoria delle narcisiste, troppo concentrate su se stesse per fare il salto dal ruolo di figlia a quello di madre. Mentre la gran parte delle italiane che non arriva in sala parto appartiene alle categorie delle «ondivaghe» o delle «ritardatarie». Perché, spiega Rosci «i tempi psicologici e sociali della formazione dell'identità si sono talmente dilatati, si sono così protratti, da rendere labile la percezione dei limiti biologici».
A guardar bene le «madri acrobate» e le «non madri» sono le due facce della stessa medaglia. Due modi di adattarsi a una realtà complessa e arcigna. Ruoli e destini opposti che hanno in comune l'incapacità di ribellarsi a una organizzazione della società e del sistema produttivo che impedisce la realizzazione in contemporanea nella famiglia e nel lavoro. «Perché le donne non dicono mai "non ce la faccio", non si battono per avere maggiori servizi per la famiglia?», si chiede Rosci. Ora la crisi rende tutto più complicato: i tempi del lavoro ancora più flessibili e le risorse per nidi e scuole difficili da trovare. La questione diventerà sempre più urgente. Ma potrà essere seriamente affrontata solo quando travalicherà il recinto angusto della battaglia di genere.

Corriere 8.6.13
Jackson Pollock un team di scienziati indaga su 11 opere


Al via un progetto di studio delle undici opere di Jackson Pollock conservate alla Collezione Peggy Guggenheim (con l'artista nella foto). Un team di esperti del Getty Conservation Institute di Los Angeles, del Solomon R. Guggenheim Museum di New York, del Seattle Art Museum, dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze, del Laboratorio di Diagnostica di Spoleto, il Molab, laboratorio mobile per le indagini non invasive sulle opere d'arte dell'Università di Perugia e del Centro Smaart di Perugia sono a Venezia per un'analisi dei pigmenti delle opere. «Sui dipinti — spiega Costanza Miliani, coordinatrice del laboratorio — effettueremo fluorescenza a raggi X e molecolare per analizzare i colori utilizzati dall'artista. E poi riflettografia multispettrale con lo scopo di studiare la tecnica pittorica adoperata e lo stato di conservazione delle opere».

Repubblica 8.6.13
Giuseppe Fiori, un testimone del ‘900
In un saggio le voci di chi ha conosciuto e frequentato il giornalista
di Nello Ajello


Peppino Fiori è stato uno degli esponenti più illustri di quella “storiografia dei giornalisti” della quale parlò a suo tempo Benedetto Croce. Se mi si chiede di indicare qualche altro nome di quella categoria, ne trovo, negli ultimi decenni, pochi a lui comparabili. Penso per esempio ad Antonio Gambino e a Corrado Stajano. Oltre che storico attentissimo Fiori è stato giornalista di prim’ordine nei più vari settori della comunicazione, dalla carta stampata alla radio e poi alla tv, con una piena armonizzazione — nel passaggio da una sede espressiva all’altra — del suo talento.
Va ricordato, tanto per cominciare, come efficace narratore di fatti. L’impasto fra cronista e storico era una costante della sua attività. Basti pensare alle biografie a sua firma. Prima fra tutte, quella dedicata ad Antonio Gramsci. Egli, anticipando una linea interpretativa che poi conoscerà altri cultori con risultati meno nitidi dei suoi, ha libera-
to la figura del leader politico sardo da quella santificazione acritica e a tratti strumentale che gli aveva assegnato, con qualche ipocrisia, il Pci di Togliatti. Il suo volume del 1966, più volte ristampato e oggetto di numerose traduzioni all’estero, resta un riferimento obbligato ogni qualvolta — negli ultimi tempi — è spesso accaduto — si accenda un dibattito sul pensiero gramsciano.
A Fiori va essenzialmente riconosciuto il merito — solo apparentemente canonico — di riportare con precisione i dati biografici di cui viene a conoscenza. Ad esempio la visita che fa ad Antonio recluso il fratello Gennaro, personalmente ascoltato dal giornalista-storico molti anni più tardi. Da questa ed altre testimonianze emerge l’isolamento che a Gramsci toccò in sorte durante la prigionia e la crescente distanza che lo separò dagli altri detenuti comunisti, fedeli, per conformismo o disinformazione, alla vulgata staliniana, destinata ad evolversi in verità ufficiale. Ne nasce un’opera in cui l’esattezza storiografica si accompagna al piacere della lettura. L’aderenza alla realtà è il filo conduttore del magistero di Fiori. Ricordo ad esempio i suoi editoriali che andavano in onda, dal ‘76 al ‘79, nel Tg2 delle 13. Essi si distaccavano con nettezza dal politichese ammiccante che dominava nei media italiani dell’epoca, e che neppure oggi accenna ad attenuarsi. Il giornalista di cui parliamo poteva apparire, nei suoi commenti, troppo emotivo o perfino, in qualche caso, brutale. Ma va sottolineato che appunto in questo consisteva la sua forza.
Difficilmente a un ascoltatore di quelle note quotidiane poteva sfuggirne il senso.
Come direttore di Paese Sera dal ‘79 all’81, venne talvolta attaccato, anche da sinistra, in quanto troppo vicino alla linea del segretario del Pci, Enrico Berlinguer, un’altra figura storica di cui ha offerto una narrazione esauriente. Eppure, nell’energia che egli espletava aggredendo la cronaca politica, mi pare si debba riscontrare una derivazione azionistica più che comunista in senso stretto o riduttivo. Si aveva a volte l’impressione che le direttive ufficiali riscuotessero in lui scarsa aderenza. Penso che, nelle biografie che Fiori ha composto, la maggiore affinità tra autore e personaggio si riscontri con Ernesto Rossi.
Giornalista prestato alla politica, non diventò mai un politico di professione, pur avendo cura di neutralizzare nei propri giudizi qualsiasi tentazione di aderire a una “antipolitica” ai suoi tempi allo stato nascente. Si deve a lui, attraverso il libro che dedicò a Berlusconi, la tesi in base alla quale l’ascesa del Cavaliere nelle pubbliche istituzioni fosse del tutto “resistibile”, a patto di non piegarsi a presunte necessità diplomatiche, come il tentativo di ingabbiarne i talenti eversivi in commissioni bicamerali o in soluzioni analoghe. Quell’opera culmina in una serrata denuncia, tipica dello stile di Fiori, della dilagante presenza del leader del centro-destra nei mezzi di comunicazione di massa, attraverso le sue varietà — non solo informative ma anche di evasione e “diletto” — che si rivelino efficaci in linea di proselitismo nel mondo contemporaneo.
So bene che nulla agli occhi di Peppino Fiori sarebbe apparso più sgradevole di una celebrazione rituale. Ma come non augurarsi, a dieci anni dalla sua morte, che molti giornalisti — e anche qualche “storico del presente” — tengano nel debito conto la sua lezione?

IL LIBRO Il coraggio della verità L’Italia civile di Giuseppe Fiori a cura di Jacopo Onnis (Cuec,pagg. 156,euro 14). Fra gli interventi, quello di Ajello pubblicato qui e di Stajano, Brigaglia, Arbore, Colombo, De Luna, Fofi, Laterza, Lizzani, Rodotà e Rossanda

Repubblica 8.6.13
Paul Verlaine e Arthur Rimbaud, amanti dolenti e vagabondi
di Aldo Busi


Giuseppe Marcenaro ricostruisce con lettere e documenti inediti la relazione fra i due grandi scrittori Le donne, Parigi, il carattere impietoso e sfrontato della coppia cui si deve molto della modernità

Tempi duri per un lettore fortissimo come me! Mica è facile trovare un testo in italiano cui tributare riconoscenza perché di sicuro si lascerà leggere fino in fondo: uno di questi è fuor di dubbio Una sconosciuta moralità di Giuseppe Marcenaro (Bompiani, pagg. 400, euro 12) sulla “vita avventurosa di Paul Verlaine e Arthur Rimbaud, poeti maledetti nella Parigi di fine ‘800”. Dico si lascerà, perché l’ho preso in mano tre ore fa e sono soltanto a pag. 145, ma mi fermo un necessario momento per rendere partecipi di questa meraviglia quanti nelle ultime due settimane sono arrivati, come me, a pagina 20 di almeno venti volumi, tra romanzi e saggi in lingua italiana di fresca stampa e tutti di nipotini di Liala a vario titolo, e li hanno impilati sul primo gradino delle scale in attesa del prossimo carico a beneficio del Mato Grosso, delle pesche di beneficenza, perfida, e delle prigioni.
Devo premettere che di Arthur Rimbaud (1854-1891) conosco vita e opere e memorabilia, parenti diretti e acquisiti e amici fresconi d’infanzia e servi africani, cialtronerie romanzate di travet minori, serissime pubblicazioni critiche poco conosciute, tra le quali la più memorabile, prima di questa di Marcenaro, resta quella di Françoise Lalande Madame Rimbaud, 1987, perché, documenti alla mano, ribalta tutto quanto di negativo e spregevole era stato scritto da un secolo in avanti sulla madre di Arthur ovvero la V. Cuif, e V. sta non per Vitalie, suo nome di battesimo, ma per vedova, bianca, una virago per necessità, e solo apparentemente arida e crudele, che sembra uscire da un’opera di Wagner con libretto scritto da Iginio Ugo Tarchetti; il libro di Lalande, temo ancora non tradotto in italiano, contiene anche le lettere, fino ad allora inedite, tra la veuve di forzata vocazione e Verlaine, e quelle di Vitalie hanno un fascino aggiunto, anche formale, che Verlaine nelle sue si sogna, tant’è vero che la figura del bigotto la fa lui, con i suoi sensi di colpa e il suo profondersi in giustificazioni non richieste, non lei, fiera, pragmatica, senza alcuna inclinazione al sentimentalismo, gallica infine, e invero poeticissima e struggente nel suo dolore rappreso, tenuto giù, molla ulteriore in lei per reagire agendo, senza piangersi addosso un solo istante e senza delegare, viva, vitale, un mostro terragno, sì, di abnegazione, di sacrificio di sé, di orgoglio nella rinuncia, di amore che non conosce le parole, no, nemmeno una, ma i fatti d’amore, tutti, muti, sordi, crudeli per sé per prima; e devo ammettere che ho tenuto tra le mie mani autografi di A. Rimbaud di inestimabile valore senza osare non solo rubarli… me ne era stata data facoltà: nessuna telecamera, nessuna guardia in giro, e quando, dopo un paio di ore, ritornò quel direttore di fondo nazionale che non nomino per non mettere nei guai, chiuse la cartella, la rimise nel faldone senza fare alcun controllo e, per la verità, senza neppure chiedermi che facevo per l’ora di cena… ma nemmeno sfiorarli con un polpastrello; e continuerò a premettere che ho visitato quanto resta, poco, delle varie abitazioni di Charleville-Mézières… compresa la cascina di Roche di cui non resta in piedi niente dei muri originali… in cui la madre paesana ripulita continuava di trasloco in trasloco a illudersi di migliorare almeno le apparenze del decoro borghese malgrado i quattro figli interamente a suo carico, figli del Frédéric Rimbaud militare cinque volte incintatore di passaggio e padre e marito assente del tutto e per sempre dopo sette anni di, si fa per dire, vita in famiglia.
Dico tutto questo per una sola ragione: non volevo nemmeno aprirlo il saggio di Marcenaro arrivatomi per corriere, temevo una delusione, temevo il risaputo condito di nostalgici arabeschi per fare foliazione, che poteva mai rivelare di nuovo a me, rimbaldiano di ferro, a parte, e per qualche istante, di avere una cattiva memoria? E invece quante sorprese, quanti soprassalti di stupore e di invidia, che bibliofila maniacalità esemplare quest’uomo! Un segugio dell’inedito impossibile e dato per perso solo dai pigri. E che ritmo, che luminoso, illuminato noir! Qui i documenti, anche di testimonianze di riporto fino al 1968, e i pettegolezzi inventariati dallo storico scivolano in modo naturale… certo, il colore delle facciate più rispettabili non sarà camoscio ma minimo chamois, niente corsivo, per carità, e poi ci sarebbero “i malemmi”… in una narrazione che ha la tempestosa ondosità sottomarina delle acque chete e bonarie in superficie e che ti tira giù in un’apnea di godimento un po’ strangolatore, e reale e subliminale avidità di abissi sempre più profondi. E le donne di Rimbaud e di Verlaine, la moglie, la suocera di quest’ultimo, e le madri di entrambi che affrontano le altre due che hanno attentato all’onorabilità sessuale dei loro rispettivi figli spargendo menzogne?
E la nascita del quadro più famoso della storia della letteratura francese, il ritratto degli otto poeti per mano di Fantin-Latour che dovevano essere nove e uno fu sostituito dal vaso di gerani bianchi? E la cricca dei fuoriusciti francesi in quel di Londra, una metropoli-ciminiera in cui si respira fumo e si espettora catarro e, ndr, non per niente dà il via a pieni polmoni ai sognanti e favolosi afflati dei Preraffaelliti? E i caratteri impietosi, scurrili, sfrontati torniti con una precisone da orafo maudit dei due dolenti amanti vagabondi ai quali si deve gran parte della modernità ben prima di Freud, di de Saussure e di Albert Hofmann, padre dell’LSD, anche se l’assenzio dei due dissoluti bevitori sta all’acido lisergico come la carabina ad aria compressa alla bomba atomica? E che libro chiederà il diciannovenne Arthur non appena riuscirà, falsando la propria data di nascita, a mettere piede alla British Library? Scopritelo da voi, se siete forti. Tanto non glielo daranno nemmeno lì, relegato com’è nell’Enfer… Bene, corro a riprendere la lettura di Una sconosciuta moralità, il mio dovere di lettore grato l’ho fatto.
Come faccio a sapere che lo leggerò fino in fondo? Semplice: sono andato a piluccare
qui e là e ho scoperto che, poche pagine prima della fine, c’è una lettera niente di meno che di Georges, il figlio di Verlaine. Quante volte mi sono chiesto che fine avrà fatto! Chissà se Marcenaro ci dirà qualcosa anche sulla discendenza dei Rimbaud, perché quel gran puttaniere ubriacone del bellissimo Frédéric (1853-1911), il fratello maggiore di un anno di Arthur, due figli in regolare matrimonio li ha poi avuti…

IL DIPINTO Le coin de table, il quadro di Henri Fantin-Latour in cui sono ritratti, a sinistra, Paul Verlaine e Arthur Rimbaud
IL LIBRO Una sconosciuta moralità di Giuseppe Marcenaro (pubblicato da Bompiani pagg. 400, euro 12)

Repubblica 8.6.13
Repubblica prima in edicola leader anche nelle copie digitali
 

La Repubblica conferma il suo primato in edicola. Anche nel mese di aprile il quotidiano guidato da Ezio Mauro risulta in testa alla classifica Ads (l’Accertamento diffusione dati) per quanto riguarda le vendite medie giornaliere: 312 mila 709 rispetto alle 298 mila 510 copie medie del suo più diretto concorrente, il Corriere della Sera. Ma il quotidiano nazionale del gruppo Espresso conferma il primo posto anche passando dal cartaceo al digitale: nel mese di aprile le copie visibili da computer, tablet o smartphone hanno toccato quota 43 mila 224 (contro le 42 mila 591 del Corriere).
Sempre in edicola, quando abbinata al suo storico settimanale, il Venerdì, la Repubblica aumenta le copie vendute fino alla media di 392 mila 243. Guardando poi agli altri quotidiani nazionali di maggiore diffusione, troviamo la Stampa a 184 mila 472 copie medie vendute, il Sole 24 ore a 125 mila 721 e il Messaggero a 127 mila 278. Seguendo invece il riferimento politico, nei giornali vicini alla destra si va dalle 111 mila 236 copie in edicola vendute dal Giornale alle 51mila 494 copie diLibero. A sinistra si passa dalle 54 mila 35 copie del Fatto quotidiano alle 22 mila 432 dell’Unità. Fra i giornali sportivi il primato va alla Gazzetta dello Sport con 186 mila 817 copie che lievitano ad una media di 233 mila 479 del numero in edicola il lunedì. Il secondo posto va al Corriere dello Sport-Stadio con 117 mila 848 copie (152mila 737 il lunedì). Tra i quotidiani locali del gruppo Espresso il Tirreno si conferma al vertici con 57 mila 368 copie, seguito dalla Nuova Sardegna con 44mila 608 copie in edicola, e dal Messaggero Veneto con 43 mila791.
Passando ai settimanali d’informazione, l’Espresso ha aumentato le vendite di edicola rispetto allo scorso mese di marzo passando dalle 88mila 105 alle 90 mila 297 di aprile. I suoi abbonati totalizzano 141 mila 658 copie, cui vanno ulteriormente aggiunte le 5 mila 626 della versione digitale. Il settimanale più venduto in assoluto in edicola resta Sorrisi e canzoni tv: 597 mila 328 copie in edicola.

venerdì 7 giugno 2013

La Stampa 7.6.13
Napolitano, visita dal Papa
Domani in Vaticano: con il Presidente ci sarà anche Emma Bonino
di Andrea Tornielli

qui

non si va mai in visita a mani vuote: così gli portano un regalino, per l’occasione...
il Fatto 7.6.13
Nel 2013 la Chiesa non pagherà l’Imu
L’acconto era previsto per il 17 giugno
ma il Tesoro, con una circolare, rinvia il conguaglio al 2014 perché non è chiaro quanto ci sia da versare
di Marco Palombi


La Chiesa cattolica e gli altri enti non profit, per quest’anno ancora non pagheranno l’Imu. O meglio: la pagheranno come hanno fatto finora e forse anche meno. Come anticipato dal Fatto Quotidiano qualche giorno fa, infatti, il combinato disposto tra il bizantino regolamento di attuazione emanato dal governo Monti a novembre e la mancanza della modulistica (non preparata dal Dipartimento delle Finanze del ministero Tesoro) ha comportato il fallimento della legge con cui Mario Monti ha bloccato la procedura d’infrazione aperta dall’Unione europea per aiuti di Stato (chiusa a dicembre col condono del pregresso). Lo conferma una circolare emanata ieri dal direttore del dipartimento delle Finanze, Fabrizia Lapecorella, che ammette la mancanza e prescrive, sostanzialmente, che il non profit faccia quello che crede: paghi la rata di giugno, se ritiene di dovere, e poi i conti si faranno addirittura nel 2014. Un breve riassunto dell’intricata vicenda. Secondo la legge varata dal governo Monti, da quest’anno gli enti ecclesiastici e tutto il settore non profit sarebbero stati esenti dall’Imu solo per quegli immobili o quelle parti di immobili in cui non si svolgono attività commerciali. Problema: come stabilire cosa si intende per attività non commerciale? Ci ha pensato, per così dire, un regolamento apposito: sostanzialmente sono quei servizi – alberghi, scuole, cliniche, ecc. – che offrono il servizio alla metà del costo medio di mercato nello stesso territorio. Sulla base di questi fumosi principi, gli enti interessati avrebbero dovuto compilare entro l’inizio di febbraio un modulo in cui indicavano quali parti dei loro edifici (e addirittura in quali giorni) erano sede di attività commerciali. Come avevamo anticipato, però, il modulo ancora non esiste e dunque non si sa chi e quanto dovrà pagare.
PER QUESTO ora il ministero Tesoro diffonde la sua circolare che rimanda tutto all’anno prossimo. In sostanza, invece di pagare normalmente, quest’anno ognuno pagherà quello che crede (“secondo la migliore stima possibile”) e poi per l’eventuale conguaglio ci si rivede nel giugno 2014, sperando che il modulo sia pronto. Non solo, par di capire che il Tesoro sia quasi preoccupato di incassare troppo: se qualcuno infatti, scrive Lapecorella, nel 2012 pagava l’Imu su tutto l’immobile. Quest’anno potrebbe dover pagare meno grazie alla divisione in parti e quindi meglio rinviare di 12 mesi.

Corriere 7.6.13
Lettere da Radio Maria agli ascoltatori anziani:
"Fate testamento in favore dell'emittente"
Sotto forma di questionario, il testo spiega come disporre lasciti e donazioni
"Danno consulenza a domicilio: chissà quanti accettano in cambio di un po' di compagnia"
di Concita De Gregorio


MARCO arriva all’appuntamento con i fogli del questionario e la lettera in mano. Li posa sul tavolino del bar. Tre pagine, e un bollettino di conto corrente postale. Ecco, indica. Sono questi i fogli che ha sfilato con dolcezza dalle mani di sua madre, 92 anni. Adele li aveva compilati meticolosamente, chissà quanto tempo aveva impiegato a leggere tutte le domande, aveva  messo la sua firma in fondo.
AVEVA scritto tutti i suoi dati e indicato che sì, avrebbe parlato volentieri con un gentile operatore per capire meglio come fare quel lascito, il testamento olografo o come si chiama. Che le telefonasse pure, la persona di Radio Maria, per prendere appuntamento. Tanto lei sta sempre a casa.
Doveva solo ripiegare i fogli, Adele, quando Marco ha suonato al campanello ed è salito per il saluto quotidiano. Come va, mamma? Bene devo solo mettere questi fogli in busta non serve il francobollo me la porti tu alla posta per favore? Certo, che lettera è mamma? Mi ha scritto il prete di Radio Maria, guarda c’è la sua foto accanto alla firma, che bel giovane vedi? Dice che hanno bisogno del mio aiuto per far conoscere la parola di Maria in tutto il mondo che basta solo che compili il questionario poi ci pensano loro, se voglio fare una donazione mi aiutano loro a fare quello, come si chiama, leggi un po’, ah ecco sì: il testamento olografo.
La lettera ricevuta da Adele è in realtà finita nella cassetta della posta di migliaia di persone, anziani soprattutto. La gran parte della platea degli ascoltatori (oltre un milione e mezzo al giorno) dell’emittente cattolica diretta da don Livio Fanzaga, la più pervasiva radio privata italiana, quella che conta oltre 850 ripetitori.
Marco, che è l’ultimo dei tanti figli di Adele, dice con gli occhi lucidi di rabbia che lui a sua madre del testamento non aveva parlato mai fino a quel giorno. Per delicatezza, per amore, per non evocare neppure l’ombra del pensiero della sua morte, non con lei. Dice che nemmeno sua madre l’aveva mai fatto con loro, coi figli. Neppure da quando è rimasta vedova, mai. Che poi non è che ci sia chissà che cosa in ballo. Due lire, un pezzetto di terra nell’Agro, il nulla che si è fatta bastare per vivere. È che di queste cose non si parla, che sembra che uno se lo auguri. Non si dice: mamma, e il testamento? Non so come spiegarti — si ostina Marco — ma non si fa, capisci? Dunque si sono trovati a parlarne per la prima volta, lui e Adele, l’altro giorno al tavolo del tinello davanti a quella bella lettera firmata da padre Livio Fanzaga, inviata da Erba. Dice ad Adele, padre Fanzaga, che «milioni di persone come te e come me ogni giorno sperano gioiscono e si consolano ascoltando Radio Maria», vuoi che lo facciano ancora in tanti, vuoi aiutare a portare nelle case la parola di Dio? «Un lascito testamentario, anche piccolo, è un atto d’amore». Allega, il padre, un questionario in sette punti. Punto uno: condividi l’idea che Radio Maria ti informi sui lasciti testamentari? domanda mentre in effetti lo sta già facendo. Punto due, tranquillizzante: non danneggi i tuoi familiari, non temere, a loro spetterà comunque una quota. Punto tre, decisivo: sai che per fare un testamento olografo basta un foglio bianco, scritto di tuo pugno, datato e firmato? E quali dubbi potresti avere rispetto alla decisione di fare testamento in favore di Radio Maria?, si domanda al punto cinque. Segue breve elenco: pensi che costi, non hai un notaio, non hai chi ti aiuti? Allora, punto sei, possiamo inviarti una Guida ai lasciti testamentari, uno snello opuscolo. Oppure, punto sette, una persona di Radio Maria può contattarti direttamente. Dicci a che numero di telefono e a che ora. Lascia i tuoi dati anagrafici, spedisci tutto mettendo questi fogli nella busta allegata e preaffrancata, non costa nulla. Grazie della tua preziosa collaborazione, Adele. Il bollettino di conto corrente è in più, se volessi fare una donazione subito.
Dice Marco, che ha chiesto al suo amico Andrea Satta di raccontare questa storia sul suo blog, che magari è tutto normale. Che non c’è niente di strano e che la Chiesa vive anche di donazioni, certo, lo sa. Ma che inviare un questionario così alle persone molto anziane gli fa pensare a una specie di circonvenzione d’incapace soave. Che sua madre per esempio non ha capito benissimo cosa stesse facendo, e chissà quanti vecchi inviano la busta e poi sono raggiunti dalla persona che li aiuta a fare testamento in loro favore. Dice anche che il punto sette è il più insidioso, perché se sei da solo magari hai anche voglia che una persona gentile ti «contatti direttamente » e passi un po’ di tempo con te. E chissà quanti lo fanno. E chissà se è un problema suo, che a sua madre di quando sarà morta non gli voleva parlare, o se è un problema loro, che vanno a bussare ai vecchi per chiedergli i soldi che hanno messo da parte alle Poste o nel barattolo in cucina. Se poi c’è qualcosa di più, da donare, tanto meglio. Gliene sarà resa gloria nel regno dei cieli. Un foglio bianco, una firma e tranquilli: nessuno fra i parenti se ne avrà a male se avete fatto un’opera buona, se avete fatto testamento a favore della vergine Maria.

l’Unità 7.6.13
Carlo Smuraglia: non stravolgere la Costituzione
Il presidente dell’Anpi: «Il semi-presidenzialismo nega lo spirito della Carta»
di Bruno Gravagnuolo


Concentriamoci sugli aspetti non più sostenibili come il bicameralismo perfetto e il numero dei parlamentari

ROMA «Il semipresidenzialismo fa saltare tutta la nostra Costiuzione. Implica la riscrittura ex novo della Carta e un ritorno all’anno zero..». Allarme preciso quello di Carlo Smuraglia, giurista, ex membro del Csm, senatore Pds e Ds, ex partigiano e oggi presidente dell’Anpi. Con Rodotà e Zagrebelsky ha animatodomenica a Bologna una grande iniziativa sul tema. E ora rilancia in una pospettiva più ampia il filo della sua denuncia. Professore, la convince l’iter di revisione costituzionale con comitato di esperti e commissione dei 42?
«Sono contrario a questa procedura. Perché la Costituzione parla chiaro con l’articolo 138. Esso riguarda singole leggi da cambiare e non un intero processo costituente come quello che si vuole avviare. E per le singole leggi ci sono le apposite commissioni. Il rischio è quello di mettere in mora l’intera Carta, con una deroga all’articolo 138, che prevede ampie maggioranze, referendum e doppia lettura: vera e propria clausola di salvaguardia concepita dai Costituenti. Che va rafforzata prevedendo il referendum anche in caso di maggioranze non dei due terzi».
Si dice: si tratta di mutare solo la seconda parte della Carta, non i principi fondamentali. Il semipresidenzialismo mette a rischio anche i princìpi base?
«Certo, si aprirebbe un cantiere che finirebbe per investire anche la prima parte della Carta, perché tutto si tiene in essa. E una repubblica non più parlamentare mette in questione la lettera e lo spirito di questa Costituzione. Generando così forti incoerenze tra prima e seconda parte di essa. Altro è la giusta manutenzione di aspetti non più sostenibili. Penso al bicameralismo perfetto, da sostituire con la specializzazione dei compiti o con la creazione di un Senato federale. E alla riduzione del numero dei parlamentari».
C’è stata un’ «accelerazione» sul tema semipresidenziale e la destra festeggia... «Accelerazione che non comprendo. Le priorità sono altre a cominciare dalla legge elettorale e dalla grave crisi economica. Il semipresidenzialismo non è il diavolo, ma torno a dire: andrebbe riscritto tutto l’ordinamento costituzionale. Oggi il Presidente in quanto figura di garanzia presiede il Csm ed è l’apice delle forze armate. Con il nuovo sistema dovremmo lasciare queste funzioni a un Presidente di parte eletto solo da una parte? In realtà siamo dinanzi a una sindrome: i torti della politica vengono scaricati sulle istituzioni, con il miraggio di esecutivi forti. Ma è la politica che va riformata. Ciò che è accaduto alle elezioni è dipeso dalla frammentazione e dalla crisi di identità dei partiti, non dalle istituzioni».
Cosa teme con l’elezione diretta di un Presidente che presiede il Consiglio dei Ministri?
«I poteri di un uomo solo al comando. E la diffusione di uno stile di governo che ha già dato cattiva prova con i cosiddetti governatori regionali, talora fonte di sprechi e arbitrii e soprattutto causa di svilimento del ruolo dei Consigli regionali. Inoltre c’è il punto del conflitto di interessi. Non possiamo rischiare di consegnare il Quirinale a qualcuno in posizione dominante nei media o in altri rami dell’economia. E non possiamo rinunciare, nella gravissima crisi che schiaccia il paese, al ruolo di salvaguardia e di controllo del Parlamento».
I partiti possono ancora esercitare un ruolo creativo e di argine?
«Sì, purché si autoriformino. Essi concorrono al bene pubblico ed è giusto finanziarli, in misura adeguata e senza eccessi. È dirimente che abbiano statuti democratici e siano sottoposti a controlli stringenti su regole e bilanci». Torniamo al Presidente eletto. Alle varie obiezioni non si può aggiungere quella di essere un sistema scisso tra due possibili diverse maggioranze, oppure di risultare troppo coeso e con maggioranze totalizzanti?
«Sono problemi innegabili e che andrebbero visti caso per caso e nei singoli contesti storici. In Francia il sistema ha prevalso per la dirompente crisi algerina, che ha spinto la Francia sull’orlo della guerra civile, e per il ruolo carismatico di De Gaulle. Ma non possiamo dire che abbia sempre funzionato e al punto tale da doverlo imitare e trapiantare in Italia. Al contrario, proprio l’indebolimento dei poteri di controllo e delle garanzie potrebbe renderci inermi dinanzi alla criminalità organizzata e alle lobby. Né si può dire che una spinta presidenziale potrebbe migliorare la burocrazia. La macchina pubblica va riformata con semplificazioni e controlli di efficienza. Non con impulsi carismatici dall’alto. Ma a questo punto però faccio io una domanda: che fine ha fatto la legge elettorale? Era stato detto che era quella la priorità. Poi si è fatto il contrario e la si è messa in coda all’agenda».
Lei come spiega questo capovolgimento?
«Forse pensano di allungare la vita al governo e cosi di rafforzarlo. Invece potrebbe essere il contrario. Un’intera riforma Costituzionale, oltre che non corretta per ciò che abbiamo detto rischia di essere una mina in quest’emergenza sociale».
E al Pd, che ha reincluso il semipresidenzialismo nella sua discussione, cosa consiglia?
«Non voglio intromettermi nella vita del Pd. Però la questione è molto seria e la responsabilità dei pericoli che corriamo è un po’ di tutti. Al Pd direi: pensate bene a quel che fate e a quali sono le vere priorità del paese. E soprattutto, cercate di coinvolgere il maggior numero di persone in questa discussione».

l’Unità 7.6.13
Non c’è bisogno del presidenzialismo
di Danilo Barbi

Segretario confederale Cgil

LA CGIL CON IL DOCUMENTO «SEMPLIFICARE PER RAFFORZARE. PROPOSTA PER UNA MODIFICA ORGANICA DELLE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE», approvato dal direttivo, avanza una proposta di riqualificazione delle funzioni pubbliche che rafforzi il ruolo delle istituzioni democratiche nel Paese, portando così a sintesi un lavoro da tempo avviato dall'organizzazione sui temi istituzionali.
La crisi di legittimità che negli ultimi anni ha colpito i partiti e la «politica» in generale si è, infatti, traslata su tutte le istituzioni di cui si percepisce con fatica il senso e l'utilità. In questo quadro ha preso corpo un disegno che mira a smantellare le istituzioni democratiche, svilendo i luoghi della rappresentanza, cancellando i corpi intermedi, ridimensionando le istituzioni locali, riducendo i servizi pubblici a favore di quelli privati.
La Cgil è convinta che per restituire legittimità alle istituzioni sia necessario un disegno opposto che porti alla loro riqualificazione e per questo avanza una proposta di semplificazione che mira al rafforzamento delle istituzioni pubbliche e della loro azione, al potenziamento degli spazi della rappresentanza e della partecipazione.
Per l'analisi svolta dalla Cgil, appare, innanzitutto, improrogabile il completamento del processo di integrazione europea: solo un'Unione politica e sociale più forte, democraticamente legittimata, può dare risposte alle sfide che il XXI secolo pone. La risposta a questa grave crisi politico-istituzionale, a livello comunitario come a livello nazionale è, infatti, da trovare nel rafforzamento delle istituzioni pubbliche, nella maggiore partecipazione dei cittadini e nel potenziamento della rappresentanza democratica.
In questi anni, e ancor più in questi giorni, si discute di riforma della Costituzione, ma non è pensabile rompere l'equilibrio di poteri tra governo e Parlamento, con grandi opere di ingegneria costituzionale, in nome di una maggiore governabilità. La governabilità può essere garantita solo da attori politici consapevoli della loro missione e da un'effettiva rappresentanza politica esercitata nel Parlamento cui va restituita centralità e non da uno stravolgimento dell’ordinamento repubblicano come avverrebbe con l'introduzione del (semi)presidenzialismo.
Il rilancio delle istituzioni può realizzarsi attraverso interventi mirati che portino alla nascita della Camera della Regioni e delle Autonomie locali; alla realizzazione di un disegno organico che possa realizzare quel sistema integrato di livelli istituzionali capace di governare e indirizzare i processi sociali ed economici mettendo al centro la cittadinanza e il territorio; alla promozione della rappresentanza democratica e della partecipazione dei cittadini attraverso una regolamentazione dei partiti politici e una nuova disciplina dell'istituto referendario; e al superamento del finanziamento pubblico diretto sostituibile con la fornitura di servizi gratuiti per l'attività politica, accompagnata da una disciplina adeguata del conflitto di interesse.
In questo quadro, infine, va rovesciato l'approccio fin qui adottato per la riorganizzazione della Pubblica amministrazione: basta tagli lineari che minano la funzione stessa delle istituzioni pubbliche, riducendo drasticamente i servizi alla persona. È necessario potenziare e qualificare l'azione delle amministrazioni pubbliche, partendo dai bisogni dei cittadini e delle imprese, e non da meri calcoli statistici, e stabilire nuove regole per il lavoro pubblico, aprendo una nuova stagione contrattuale che elimini il precariato nella pubblica amministrazione e riapra in modo mirato il problema occupazionale.

il Fatto 7.6.13
Napolitano contro il Fatto: vietato far domande su di lui
“Mai dato scadenza al governo”
In una nota parla di “ridicolo falso”. Ma l’hanno scritto tutti
Il Capo dello Stato, tre giorni dopo l’annuncio che il governo Letta è a termine (ripreso da tutta la stampa), ci ripensa. Ma, anziché ammettere l’errore, se la prende con il nostro giornale, reo di aver intervistato Barbara Spinelli sull’ennesima forzatura costituzionale
di Eduardo Di Blasi


Non era mai successo che una nota del Quirinale prendesse di mira non una scelta politica eccedente, un’iniziativa legislativa impropria, una richiesta di grazia inopportuna, o un articolo di giornale violento, quanto l’incipit di una domanda contenuta in un’intervista. Nello specifico quella rilasciata a Silvia Truzzi, giornalista de Il Fatto Quotidiano, da Barbara Spinelli, giornalista e scrittrice. La domanda è la seguente: “Il capo dello Stato ha messo una data di scadenza al governo, una cosa mai vista. Grillo ha obiettato: ‘A che titolo dice queste cose? ’. Lei che ne pensa? ”.
IL COLLE, letta la sediziosa comunicazione di buon’ora, replica che ciò non è mai avvenuto. E lo fa in modo duro: “Si continua ad accreditare (da ultimo, da parte della giornalista del Fatto Quotidiano Silvia Truzzi, nella sua intervista a Barbara Spinelli) il ridicolo falso di un termine posto dal Presidente della Repubblica alla durata dell’attuale governo. E ciò nonostante quel che egli aveva già detto in proposito la sera del 2 giugno ai giornalisti presenti in Quirinale e che dal giorno seguente figura sul sito della Presidenza della Repubblica. Sarebbe un fatto di elementare correttezza tenerne conto e non insistere in una polemica chiaramente infondata”. Lo sarebbe, certo, non fosse che dal 3 di giugno in poi l’intera stampa italiana con titoli che aprivano pagine e anche interi giornali sottolineava come Napolitano, nel rispondere alle domande dei giornalisti in occasione dell’apertura al pubblico dei giardini del Quirinale quel 2 giugno, avesse parlato del governo in carica come di “una scelta eccezionale e senza dubbio a termine”. Ce n’era a sufficienza perché Repubblica aprisse la prima pagina con un titolo a sei colonne, tutte quelle di cui dispone: “Napolitano: il governo è a termine” (seguiva all’interno anche una replica del premier Enrico Letta a quelle parole). E che il Corriere della Sera inchiodasse in un catenaccio sotto il proprio titolo di apertura: “Napolitano, esecutivo a termine. 18 mesi per le riforme”. Il Messaggero apriva con un virgolettato a tutta pagina attribuito direttamente al capo dello Stato: “Riforme, governo a termine”. Anche Il Giornale aveva un catenaccio chiaro sulla faccenda. L’Unità citava nel pezzo della propria quirinalista il virgolettato del capo dello Stato (ma senza titolarvi).
Perché tanta sciatteria da parte dell’intera stampa nazionale? E perché nei due giorni seguenti il Colle non corresse “il ridicolo falso”?
Al Quirinale ritengono che l’errore derivi dalla leggerezza di un giornalista dell’agenzia Ansa che aveva fatto un lancio alle sette di sera dal titolo “Napolitano, governo senza dubbio a termine”. Il lancio, poi in parte addolcito nel riepilogo delle 21, avrebbe fatto da guida a tutti i sopra citati giornali inducendoli nel terribile falso. Così, per riparare, il Quirinale (l’avvenimento è citato anche nella nota di rimprovero a noi indirizzata) ha deciso di pubblicare sul proprio sito l’intero dibattito tra Napolitano e i giornalisti quel 2 di giugno. Sia in versione testuale che in video. Il problema è che in entrambe figura la frase di Napolitano sul “governo a termine” e in nessun punto è chiarito che quella comunicazione servisse a smentire titoli e articoli usciti in gran copia in quella medesima giornata.
IN SOSTANZA il Colle vorrebbe tenere separate le due questioni: le riforme hanno un campo di gara lungo 18 mesi (quelli già indicati dal premier Letta nel proprio discorso alle Camere) ; l’alleanza che tiene assieme Pdl, Pd e Scelta Civica è invece “a termine”, ma quel termine non spetta a Napolitano indicarlo. Quindi perché prendersela con quella domanda? Perché quella domanda ha fatto nascere la seguente risposta: “Grillo ha perfettamente ragione: dove sta scritto che il presidente determina in anticipo, ignorando le Camere, la durata dei governi? Perfino a Parigi, dove tale prerogativa esiste - ed è grave che esista - l'Eliseo si guarda da dichiarazioni simili. In Francia il presidente è contemporaneamente presidente del Consiglio dei ministri. La stessa cosa ormai avviene in Italia: il presidenzialismo nei fatti c’è già. Questo governo è un Monti bis, con i politici dentro. E alla presidenza c'è Napolitano. Intendo presidenza del Consiglio, non della Repubblica”.
Questa risposta non poteva essere additata (trattasi di libertà di espressione), meglio prendersela con la domanda.

il Fatto 7.6.13
Spinelli: “Siamo già in una Repubblica presidenziale”


IL CAPO DELLO STATO ha messo una data di scadenza al governo, una cosa mai vista. Grillo ha obiettato: “A che titolo dice queste cose?”. Lei che ne pensa? “Grillo ha perfettamente ragione: dove sta scritto che il presidente determina in anticipo, ignorando le Camere, la durata dei governi? Perfino a Parigi, dove tale prerogativa esiste – ed è grave che esista – l’Eliseo si guarda da dichiarazioni simili . In Francia il presidente è contemporaneamente presidente del Consiglio dei ministri. La stessa cosa ormai avviene in Italia: il presidenzialismo nei fatti c’è già. Questo governo è un Monti bis, con i politici dentro. E alla presidenza c’è Napolitano. Intendo presidenza del Consiglio, non della Repubblica”. Questo il passaggio (domanda della giornalista Silvia Truzzi, risposta di Barbara Spinelli) su cui il Quirinale ieri ha emesso vibrante protesta per mezzo di nota ufficiale. Ma non per quanto dichiarato da Spinelli (l’intervistata) ma per la domanda della giornalista. Diceva ancora Spinelli: “Esiste dunque un potere che ha speciali prerogative e immunità, senza essere controllabile. La democrazia è governo e controllo. Perché Grillo dà fastidio? Perché è sul controllo che insiste”.

il Fatto 7.6.13
Camilleri al Fatto: ”La Costituzione? mandata in vacca”


“LA COSTITUZIONE? Mandata in vacca”. “Dal Colle invasione di campo non da Repubblica parlamentare”. Lo scrittore siciliano Andrea Camilleri, intervistato sempre da Silvia Truzzi il 2 giugno scorso, ha anticipato i temi e gli argomenti poi affrontati anche nell’intervista concessa da Barbara Spinelli che ieri il Quirinale ha dimostrato di non aver gradito. Camilleri ha spiegato che, a suo avviso, la “rielezione di Napolitano non era cosa”. E ha aggiunto: “Da quel momento tutto il fatto costituzionale è andato a vacca. C’è stato un allentamento delle briglie costituzionali, tanto valeva – a lume di logica e di naso e di buon senso – fare un governo del Presidente. È stato più grave l’intervento sui partiti del capo dello Stato. Una sorta d’invasione di campo, un fatto non da Repubblica parlamentare”. Per Camilleri il rispetto della Costituzione è sacro. “Non devo essere io a dirlo - continua - dovrebbe essere il presidente Napolitano. Il secondo mandato non è proibito, ma non è un caso che non sia mai successo. Di solito, poi, uno non arriva a fare il capo dello Stato a 40 anni: due mandati fanno 14 anni e te ne vai a 54. Qui te ne vai a 95”.

Repubblica 7.6.13
Uno strappo alla Carta
di Stefano Rodotà


NEL tempo ingannevole della “pacificazione”, il conflitto giunge nel cuore del sistema e mette in discussione la stessa Costituzione. Una politica debole, da anni incapace di riflettere sulla propria crisi, compie una pericolosa opera di rimozione e imputa tutte le attuali difficoltà al testo costituzionale. Le forze presenti in Parlamento non ce la fanno a sciogliere i nodi tutti politici che hanno reso impossibile una decisione sull’elezione del Presidente della Repubblica? Colpa della Costituzione. “Je suis tombé par terre, c’est la faute à Voltaire”.
Imboccando questa strada, non si dedica la minima attenzione all’esperienza degli anni passati, alle manipolazioni istituzionali che, sbandierate come la soluzione d’ogni male, hanno aggravato i problemi che dicevano di voler risolvere, rendendo così la crisi sempre più aggrovigliata. Ho davanti a me le dichiarazioni di politici e commentatori, i saggi e i libri di politologi che, all’indomani della riforma elettorale del 1993, sostenevano che l’instaurato bipolarismo, con l’alternanza nel governo, avrebbe assicurato assoluta stabilità governativa, cancellato le pessime abitudini della Prima Repubblica con i suoi vertici di maggioranza e giochi di correnti, eliminato la corruzione. E tutto questo avveniva in un clima che svalutava la funzione rappresentativa delle Camere, attribuendo alle elezioni sostanzialmente la funzione di investire un governo e accentuando così la personalizzazione della politica e le inevitabili derive populiste.
Sappiamo come è andata a finire. E gli autori e i fautori di quella riforma oggi si limitano a lamentare il bipolarismo “rissoso” o “conflittuale”, senza un filo non dirò di autocritica, parola impropria, ma neppure di analisi seria e responsabile di quel che è accaduto. Eppure quel rischio era stato segnalato proprio nel momento in cui si imboccava la via referendaria alla riforma, suggerendo altre soluzioni. Ma non si volle riflettere intorno all’ambiente politico e istituzionale in cui quella riforma veniva calata, sulla dissoluzione in corso del vecchio sistema dei partiti e sulla inevitabile conflittualità che sarebbe derivata da una riforma che, invece di accompagnare una transizione difficile, esasperava proprio la logica del conflitto.
Oggi sembra tornare il tempo degli apprendisti stregoni e di una ingegneria costituzionale che, di nuovo, appare ignara del contesto in cui la riforma dovrebbe funzionare. Che cosa diranno gli odierni sostenitori di variegate forme di presidenzialismo quando, in un domani non troppo lontano, il “leaderismo carismatico” renderà palesi le sue conseguenze accentratrici, oligarchiche, autoritarie? Diranno che si trattava di effetti inattesi?
Questo ci porta al modo in cui si è voluto strutturare il processo di riforma. Si è abbandonata la procedura prevista dall’articolo 138 per la revisione costituzionale, norma di garanzia che dovrebbe sempre essere tenuta ferma proprio per evitare che la Costituzione possa essere cambiata per esigenze congiunturali e strumentali. Compaiono nuovi soggetti – una supercommissione parlamentare e una incredibile e pletorica commissione di esperti, con componenti a pieno titolo e “relatori”. Il Parlamento viene ritenuto inidoneo per affrontare il tema della riforma e così, consapevoli o meno, si è imboccata una strada tortuosa che finisce con il configurare una sorta di potere “costituente”, del tutto estraneo alla logica della revisione costituzionale, concepita e regolata come parte del sistema “costituito”. Sono rivelatrici le parole adoperate nella risoluzione parlamentare: “una procedura straordinaria di revisione costituzionale”. L’abbandono della linea indicata dalla Costituzione è dunque dichiarato.
Si entra così in una dimensione di dichiarata “discontinuità”, che apre ulteriori questioni. Quando si incide profondamente sulla forma di governo, come si dichiara di voler fare, si finisce con l’incidere anche sulla forma di Stato, come hanno messo in evidenza molti studiosi del diritto costituzionale. E, di fronte alla modifica della forma di governo e di Stato, si può porre un altro interrogativo. Queste modifiche sono compatibili con l’articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”? Originata dalla volontà di impedire una restaurazione monarchica, questa norma è stata poi letta per definire quali siano gli elementi costitutivi della forma repubblicana così come è stata disegnata dall’insieme del testo costituzionale. Ne conseguirebbe che la modifica o l’eliminazione di uno di questi elementi sarebbe preclusa alla stessa revisione costituzionale. Sono nodi problematici, certamente. Che, tuttavia, non possono essere ignorati nel momento in cui si vuole intervenire sulla Costituzione abbandonando il modello di democrazia rappresentativa intorno al quale è stata costruita.
Ha osservato giustamente Gustavo Zagrebelsky che l’introduzione del presidenzialismo nel nostro paese “si risolverebbe in una misura non democratica, ma oligarchica. L’investitura d’un uomo solo al potere non è precisamente l’idea di una democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione”. Il riferimento al “nostro paese” risponde proprio a quella necessità di valutare ogni riforma costituzionale nel contesto in cui è destinata ad operare. Sì che ha poco senso l’obiezione che il semipresidenzialismo, ad esempio, è adottato in un paese sicuramente democratico come la Francia. Questa obiezione, anzi, obbliga a riflettere sul fatto che la compatibilità di quel sistema con la democrazia è strettamente legata a un dato istituzionale – l’assenza in Francia di gravi fattori distorsivi, come il conflitto d’interessi o il controllo di una parte rilevantissima del sistema dei media; e a un dato politico — il rifiuto di usare il partito di Le Pen come stampella di uno dei due schieramenti in campo, mentre in Italia pure la destra estrema è stata arruolata sotto le bandiere di una coalizione pur di vincere.
Più sostanziale, tuttavia, è la contraddizione con il modello della democrazia partecipativa. Proprio nel momento in cui la necessità di questo modello si manifesta prepotentemente per le richieste dei cittadini e il mutamento continuo dello scenario tecnologico, finisce con l’apparire una pulsione suicida l’allontanarsi da esso, con evidenti effetti di delegittimazione ulteriore delle istituzioni e di conflitti che tutto ciò comporterebbe. Una revisione condotta secondo la logica costituzionale, e non contro di essa, esige proprio la valorizzazione di tutti gli strumenti della democrazia partecipativa già presenti nella Costituzione, tirando un filo che va dai referendum alle petizioni, alle proposte di legge di iniziativa popolare. Le proposte già ci sono, per quelle sull’iniziativa legislativa popolare basta una modifica dei regolamenti parlamentari, e questo aprirebbe canali di comunicazione con i cittadini dai quali la stessa democrazia rappresentativa si gioverebbe grandemente. Altrettanto chiare sono le proposte sulla riduzione del numero dei parlamentari, sul superamento del bicameralismo paritario, su forme ragionevoli di rafforzamento della stabilità del governo attraverso strumenti come la sfiducia costruttiva. Si tratta di proposte largamente condivise, che potrebbero essere rapidamente approvate con benefici per l’efficienza del sistema senza curvature autoritarie. E che potrebbero essere affidate a singoli provvedimenti di riforma, senza ricorrere ad un unico “pacchetto” di riforme, più farraginoso per l’approvazione e che distorcerebbe il referendum popolare al quale la riforma dovrà essere sottoposta, che esige quesiti chiari e omogenei.
Vi è, dunque, un’altra linea di riforma istituzionale, sulla quale varrà la pena di insistere e già raccoglie un consenso vastissimo tra i cittadini, alla quale bisognerà offrire la possibilità di manifestarsi pienamente. Solo così potrà consolidarsi quella cultura costituzionale che oggi manca, ma che è assolutamente indispensabile, “capace di adeguare la Costituzione ma soprattutto di rispettarla”, come ha sottolineato opportunamente Ezio Mauro.

il Fatto 7.6.13
Il monarca capriccioso
di Antonio Padellaro


Il vero problema di Giorgio Napolitano sono i giornali. Quelli (quasi tutti) che lo incensano da mane a sera, sempre pronti a mettere il violino automatico qualsiasi banalità scaturisca dalle auguste meningi, ma così abbagliati dal verbo del Colle da non vedere l’enormità di certe affermazioni dell’anziano presidente bis. Lunedì 3 giugno infatti (quasi) tutta la stampa italiana ha scolpito sulle prime pagine la frase sul “governo a termine” pronunciata dal supremo monitore nei giardini del Quirinale. Si trattava evidentemente di uno sconfinamento del tutto arbitrario del capo dello Stato dalle sue funzioni, ma (quasi) nessuno obiettò qualcosa, poiché - grazie ai giureconsulti di palazzo che tutto ingoiano in cambio di un gettone di presenza in qualche commissione - la Costituzione, come dice Camilleri, è bella che andata in vacca. Tra le forze parlamentari ha reagito soltanto Grillo, chiedendo a che titolo Napolitano possa fissare un limite temporale al governo Letta, trattato come uno yogurt, ma la cosa è stata liquidata come la solita mattana dell’ex comico. Il Fatto, però, non è stato zitto e ha chiesto il parere autorevole di Barbara Spinelli che, alla domanda di Silvia Truzzi sulla data di scadenza del governo (“una cosa mai vista”), ha risposto che Napolitano ha “forzato” la Carta e che ormai “il presidenzialismo c’è già”. A questo punto, tre giorni dopo i titoli dei quotidiani mai smentiti, si sveglia il Quirinale, dice che si continua ad “accreditare il ridicolo falso di un termine posto dal Presidente alla durata dell’attuale governo” e, udite udite, se la prende con la domanda della giornalista del Fatto, non avendo neppure il coraggio di contestare la risposta della Spinelli. C’è poco da aggiungere. Che Napolitano si comporti come un monarca capriccioso non può sorprendere, visto che il governo delle larghe intese lo ha inventato lui miracolando Pd e Pdl che alle ultime elezioni hanno perso insieme dieci milioni di voti. Idem per (quasi) tutta la stampa italiana che, a furia di sviolinate ai potenti, in cinque anni ha perso un milione di copie e svariati milioni di lettori e ora, col cappello in mano, elemosina nuovi contributi e incentivi.
P.S. Titolo di ieri sul sito del Corriere della Sera (che lunedì come gli altri aveva annunciato il governo a termine): “Il Quirinale smentisce il Fatto”. Più chiaro di così.

Repubblica 7.6.13
Ecco la Convenzione per le riforme la nuova Costituzione pronta entro il 2014
Tempi più stretti per le modifiche e poi il referendum confermativo
di Alberto D’Argenio


ROMA — Il Consiglio dei ministri impiega solo mezz’ora per approvare il disegno di legge che lancia le riforme costituzionali. Dunque il premier accelera, lancia il testo che istituisce il Comitato chiamato a scrivere le riforme e i detta tempi. Il termine per cambiare la Costituzione è di 18 mesi. Dopo ci potrà essere un referendum confermativo. Presentando il ddl Gaetano Quagliariello, ministro delle Riforme, risponde così a chi gli chiede di fare un pronostico sulla possibilità che alla fine la Carta venga realmente modificata: «Oltre alla virtù ci vuole fortuna, e lo potrei dire in maniera più prosaica». Beppe Grillo invece affonda l’intero processo: «Il giorno in cui i mercati torneranno a preoccuparsi per l’Italia dovremo spiegare perché al posto della crisi si discetta di riforme affidate ad una classe politica delegittimata che con questo iter spera solo di tenere in vita il governo». Intanto una nota del Quirinale smentisce che il presidente Napolitano abbia dato un termine alla vita dell’esecutivo: «È ridicolo e falso».
I SAGGI
Il testo del governo modifica la Costituzione e quindi dovrà essere approvato dalle Camere con doppia lettura. Per questo il Comitato dei 40 - la bicamerale formata da 20 deputati e 20 senatori chiamata a scrivere le riforme da votare poi in aula - sarà costituito solo a ottobre. E per questo Letta nei giorni scorsi ha istituito la Commissione per le riforme, volgarmente detto comitato dei saggi, formato da 35 esperti di diritto (professori e politici) che rispecchiano tutte le anime della maggioranza. I saggi (che non riceveranno alcun compenso) lavoreranno da qui a ottobre come consulenti del governo, approfondiranno tutti i temi sul tavolo (forma di governo, assetti istituzionali, legge elettorale, bicameralismo etc.) e le ricadute di ogni scenario. Quindi consegneranno una relazione al governo e usciranno di scena appena si insedierà il Comitato dei 40. Ieri i saggi sono stati ricevuti al Colle da Napolitano che li ha invitati «a non diffondere pessimismo basandosi sul fallimento delle esperienze precedenti » (così risulta da un Tweet del “saggio” Stefano Ceccanti) e ha sottolineato che «modifiche e
adeguamenti dell’ordinamento rappresentano un inconfutabile e ineludibile bisogno». Ma intorno ai 35 esperti è già polemica. Il capogruppo del Pdl Renato Brunetta dice che «le riforme non le fanno i saggi, ma gli eletti dal popolo ». Anche Rosi Bindi spara sui professori: «Nessuno si illuda di precostituire con il lavoro degli esperti quello del Parlamento». Quagliariello smorza i toni dicendo che «il Comitato dei 40 sarà operativo in autunno, ecco perché questi mesi saranno occupati dagli esperti senza sovrapposizioni o perdite di tempo, si tratta di una semplice staffetta».
TEMPI CERTI
Il ddl detta quello che Quagliariello chiama «cronoprogramma» per centrare l’obiettivo dei 18 mesi. Contando che il Comitato si insedierà a ottobre, avrà 4 mesi per scrivere i testi delle riforme (poi emendabili dai singoli parlamentari) e consegnarli alle Camere nel febbraio 2014. Camera e Senato avranno a quel punto tre mesi a testa per la prima lettura, dunque il primo ramo del Parlamento che si pronuncerà lo farà entro il prossimo maggio. Tra una lettura e l’altra viene tagliato il termine minimo previsto per le modifiche della Carta: da tre mesi a uno soltanto. Si cerca così di chiudere l’iter parlamentare con l’approvazione definitiva delle riforme per l’ottobre del 2014. Il Comitato dei 40 non sarà composto solo in base alla ripartizione dei seggi parlamentari: per sterilizzare il robusto premio di maggioranza incassato dal Pd alla Camera rispecchierà anche «il numero di voti conseguiti alle elezioni». In questo modo la rappresentanza tra Pd, Pdl e M5S sarà più equilibrata. La Bicamerale, ha spiegato ieri Quagliariello, non affronterà lo spinoso tema del conflitto di interessi che, specialmente se passasse il presidenzialismo, potrebbe diventare rovente al punto da mandare tutto per aria (leggi il ruolo di Berlusconi). «È una preoccupazione del Parlamento e va fatta dal Parlamento», spiega il ministro.
REFERENDUM
Vista la delicatezza e la portata, almeno nelle ambizioni, delle riforme costituzionali, il governo modifica ulteriormente la Carta prevedendo la possibilità di indire un referendum confermativo in qualsiasi caso, anche se il pacchetto venisse approvato con il voto dei due terzi in entrambe le Camere.

il Fatto 7.6.13
Venerabile plauso
Gelli esulta: “La Repubblica presidenziale arriverà grazie al Colle e ai Letta”
Presidenzialismo un’idea mia Napolitano e Letta vinceranno
Il capo P2 rivendica la riforma: “Il Presidente iniziò con Monti, ora asse vincente Gianni-Enrico”
di Marco Dolcetta


Ho scritto lo Schema di massima per un risanamento generale del Paese, detto anche Schema R nell’agosto 1975 insieme a Randolfo Pacciardi. Il piano di Rinascita, invece, lo abbiamo elaborato insieme nell’inverno del 1976”.
Chi parla è Licio Gelli ricordando come l'allora presidente Giovanni Leone gli avesse personalmente commissionato questo piano che prevedeva fra le varie voci un abbozzo di repubblica presidenziale molto simile a quello che, in questi giorni, sembrerebbe prendere forma in Italia.
“Già nel 1975 da certe carte che ho visto anni fa, Napolitano insieme a Arrigo Boldrini e ad altri, preparò un piano insurrezionale di stampo comunista che aveva poco a che fare con il sistema democratico che suscitò l'allora presidente Giovanni Leone, che ne era a conoscenza. Al piano di insurrezione, venne da me creato un contro piano, per opporsi al desiderio di insurrezione che maturò in Italia. Nel 1971 Leone ebbe una mano da parte della P2 che fu da me nobilitata a livello di elettori per eleggerlo, in tutti i partiti e divenne così presidente della Repubblica. Ebbe inizialmente una forma di riconoscenza nei mie confronti, poi dopo avergli presentato, come da sua richiesta il Piano R, ebbe un ripensamento e non volle più ricevermi”.
Risulta che subito dopo questo avvenimento Camilla Cederna fu spesso vista a Villa Wanda e sappiamo dopo cosa accadde a Leone e alla sua famiglia...
“Il Piano R consiste, fra l’altro, nella revisione della Costituzione del '48 per trasformare l'Italia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale; si prevede quindi la proclamazione di uno stato di “armistizio sociale” per un periodo non inferiore ai due anni”.
È esattamente quello che dice oggi Berlusconi quando lui parla di fine di guerra civile fra i partiti e di necessaria militarizzazione delle periferie urbane. Gelli: “Nomina e insediamento di un ‘Comitato di coordinamento’ composto da non più di 11 membri, che dovrà avere pieni poteri per poter procedere al riesame di tutta la legislazione in vigore”.
Come non ricordare il Comitato dei saggi di Napolitano e quello nuovo del primo Ministro Enrico Letta.
CONTINUA: “Fra le altre cose da fare il ripristino dell’autorità del prefetto. Il ripristino del fermo di polizia, revisione e restrizione dei poteri della Corte costituzionale, l’impiego dell'esercito in operazioni di ordine pubblico, limitazione generalizzata del diritto di sciopero, riduzione del numero di quotidiani, settimanali e periodici, cosa che avviene anche per la crisi della pubblicità, fra l'altro, si prevede anche l'abolizione della prostituzione nei luoghi pubblici”.
Forse quest'ultimo provvedimento sarà di più difficile applicazione. Gelli procede dicendo, che “è necessaria più che mai oggi, procedere nella suddivisione dei poteri della giustizia, dividendo le pertinenze fra Gip e Pm e insite anche nel dover annualmente ed obbligatoriamente sottoporre anche a perizia psichica, così come si fa oggi per i piloti di aerei, così da prevenire casi di schizofrenia che secondo lui sono frequenti con ingenti danni per il cittadino inerme che cade in situazioni non controllabili e non bilanciate, visto che la suddivisione dei poteri giudiziari oggi non esiste”.
Gelli termina così: “Già dai tempi di Craxi, in cui fra Craxi e Napolitano esisteva un concreto asse di solidarietà, si tendeva in maniera mascherata a creare i presupposti di una repubblica presidenziale. Napolitano ci ha riprovato con Monti nei tempi dell'imposizione dell'incauto tecnocrate alla presidenza del Consiglio, dopo averlo fatto senatore a vita in pochi minuti e dopo averlo in parte sponsorizzato nella suicida campagna elettorale dello scorso inverno. Oggi l'asse che pare vincente ha un solo cognome: Letta, magnificamente trasversale”.

il Fatto 7.6.13
Strabismi
Sardo, l’Unità e chi fa soldi con la politica

Claudio Sardo, direttore della fu Unità, è uno di quei giornalisti che, oltre a non saper scrivere, non sanno neppure leggere. L’altroieri abbiamo scritto che, prima di accusare Grillo di “guadagnare soldi dalla politica” per la pubblicità sul suo blog, Sardo potrebbe parlarci di quanti ne prende dallo Stato e dalla pubblicità l’Unità (sito compreso), i cui vecchi debiti sono garantiti dallo Stato, e quanti ne prende dallo Stato il Pd. Ieri Sardo ci ha accusati di lanciare “insulti”, “falsi” e “balle”, tra cui “la più ingiuriosa è che lo Stato pagherà i debiti dell’Unità. E Travaglio ha mentito sapendo di mentire”. In realtà mi sono limitato a ricordare quanto dichiarò al Fatto il tesoriere Ugo Sposetti il 17 febbraio scorso a proposito del buco di 200 milioni creato dai debiti dei Ds e del loro giornale: “E che problema c’è? Pagherà lo Stato”. Il tutto grazie a una norma del governo D’Alema. Forza Sardo, sguinzaglia i tuoi segugi e denuncia chi guadagna soldi pubblici dalla politica: ce la puoi fare anche tu.

La Stampa 7.6.13
Civati: Matteo teme Letta e di restare in mezzo al guado
“Era contrario ai doppi incarichi, ma spesso cambia idea”
«Io sono radicalmente alternativo al centrodestra, così voglio il nostro futuro»
di A. Mala.


Transatlantico, divanetto rosso, Pippo Civati è circondato da un po’ di colleghi. Discutono della pancia agitata dello strano condominio di centrosinistra in cui si trovano. Lui, Civati, è appena tornato da un incontro con Stefano Rodotà. Si sentono spesso col Professore. Idee comuni. Immaginano un partito che stia più vicino agli elettori. Soprattutto che stia più a sinistra. «Rispetto a questo è facile no? ». Gioca. Ma neanche troppo. E diventa immediatamente serio quando il discorso scivola su Matteo Renzi, che una volta era suo amico - parlavano lo stesso linguaggio rottamatorio e che oggi è diventato concorrenza diretta. Chi lo guida il partito domani? Il rivale è strafavorito. Eppure.
Civati, Renzi vuole fare il segretario.
«Due settimane fa era pieno di dubbi. Non sapeva come muoversi. Adesso dice che la carica non sarebbe incompatibile con quella di sindaco di Firenze. Sostiene spesso cose molto diverse tra loro. Un tempo, ad esempio, era molto preoccupato dall’idea dei doppi incarichi».
Perché oggi non lo è più?
«Pensa alla premiership. E ha paura che Letta allunghi il passo. In questo caso la sua corsa diventerebbe più complicata. Era la grande speranza, adesso ha paura di rimanere in mezzo al guado».
Come sarebbe il partito di Renzi?
«Boh. A me interessa immaginare come sarebbe il partito di Civati».
Dica.
«Alternativo al centrodestra. Ma in modo netto. E’ uno dei motivi per cui oggi io ho qualche problema nel Pd. Un partito di cui Renzi non sembrava volersi occupare. E’ anche per questo che ci allontanammo».
Il presidente della Regione Lazio, Zingaretti, sostiene che Epifani non avrebbe potuto scegliere diversamente il nuovo gruppo dirigente, ma che è arrivato il momento di finirla con le conventicole.
«Benvenuto tra di noi. E’ bello che se ne accorga adesso. Le scelte che fa Epifani sono esattamente in linea con quelle che ha fatto il partito negli ultimi due mesi. Il problema politico è sul tappeto da un pezzo».
Vero. Ma il problema politico riguarda anche lei. Perché sulla proposta Giachetti di riforma elettorale prima ha detto sì e poi si è adeguato alle direttive del gruppo?
«Per mostrare anche plasticamente le contraddizioni quasi irrisolvibili che ci sono al nostro interno. Una situazione che si è cristallizzata dopo l’intervento del Capo dello Stato alla Camera».
Anche lei èconvinto che Napolitano faccia il capo del governo oltre che il Presidente della Repubblica?
«Mi pare che nessuno possa negare l’influenza fortissima che il Presidente esercita sul governo e sul Parlamento».
Le riesce la fusione a freddo con un pezzo di M5S?
«Non ho mai fatto scouting. Non comincerò ora. La parte dialogante del Movimento è piena di ingenuità. E la parte più aggressiva del gruppo, a cominciare da Grillo, attaccando tutti finisce poi per non attaccare nessuno. Hanno avuto un’occasione storica. E l’hanno sprecata».

La Stampa 7.6.13
Il bocciato Fava (Sel)
“Il Pd non mi voleva al Copasir, troppo indipendente”
«Finora c’è stata troppa continuità con il governo Non han voluto cambiare»
di Fra. Gri.


Claudio Fava non è divenuto presidente del Comitato di controllo sui servizi segreti. Il suo partito ci è rimasto molto male perché Fava passa per essere un esperto del ramo, avendo guidato severamente una inchiesta sulle “renditions” della Cia, i rapimenti segreti. E lei, Fava, quanto ci è rimasto male?
«Nessuno stupore. Anzi, un po’, perché non ho capito come mai il Pd si sia fatto portavoce di certe preoccupazioni che riguardavano la mia persona. Un atteggiamento che mi addolora».
Quanto pensa che abbia pesato la sua inchiesta sui servizi segreti nell’escluderla?
«Non credo che ci sia stato nessun signore mascherato che abbia bussato alla porta del Parlamento per mettere un veto su di me a nome dei servizi segreti».
E allora?
«Registro un clima diffuso... Sono usciti articoli che raccontavano di me, e riferivano di quando, sette anni fa, ho reso dichiarazioni ufficiali al Congresso degli Stati Uniti. Oppure di quanto, cinque anni fa, ho testimoniato al processo di Milano sul caso Abu Omar. Cose che io stesso avrei difficoltà a ricostruire. Si vede che qualcuno conserva memoria».
E se ne meraviglia? Lei, Fava, ha messo spalle al muro le segrete intese tra la Cia e i servizi segreti di tutt’Europa, con molti governi che negavano pure l’evidenza.
«Si vede che qualcuno ritiene che io mi sia comportato in modo troppo indipendente nel giudicare le attività distorsive delle agenzie di intelligence. Ora, questa mia indipendenza di giudizio penso dovesse essere considerata un merito e non un demerito. Ma così va l’Italia... Fino a oggi il Copasir ha marciato con spirito di sinergia verso le scelte dei governi».
Con lei sarebbe cambiata musica?
«Se avessero dato al sottoscritto la presidenza, non dico che ci saremmo impegnati a mettere bastoni tra le ruote, ma almeno una corretta vigilanza, quella sì. Finora non è accaduto. Semmai c’è stata una sostanziale continuità, fino al punto che esponenti di governo, dismessa la carica di ministri, divenivano presidenti del Comitato di controllo attraverso il quale potevano “vigilare” sull’operato dei servizi segreti che dirigevano fino al giorno prima. Ma è la democrazia stessa, non soltanto il senatore Fava, che dovrebbe essere preoccupata se ci sono azioni distorsive da parte dei servizi segreti. Io ho segnalato quello che ritenevo un comportamento patologico. Ciò ha determinato veti sul mio nome? Ne sono onorato. Significa che ho lavorato bene, non il contrario».

Repubblica 7.6.13
Giarrusso punta il dito contro Crimi: mesi a fare casino per dichiarare ineleggibile il Cavaliere, e lui non si presenta al voto
“Nel Movimento infiltrati pro-Silvio”
intervista di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Quando risponde al telefono il senatore Mario Giarrusso è furibondo. Ha appena mandato un’email ai colleghi in cui dice di volersi autosospendere dal gruppo dei 5 stelle a Palazzo Madama. Ce l’ha con Vito Crimi, il capogruppo che non lo ha votato perché è arrivato tardi. «Sento il bisogno di un confronto con il gruppo e con i gruppi siciliani scrive - per comprendere il senso della mia presenza in Senato».
Senatore, si è autosospeso? Come mai?
«Io? Chi lo dice? Le sto dicendo che mi sono sospeso?».
Ha mandato una e mail ai suoi colleghi. Qualcosa dev’essere successo.
«È successo che la partitocrazia ha mostrato il suo lato migliore e più forte. Sono tutti d’accordo per salvare Berlusconi, ci hanno emarginati con questo preciso scopo».
Il problema è quel che è successo in giunta?
«Hanno eletto una specie di democristiano che non si sa come è finito a Sel. Uno che ha quel compito: salvare Berlusconi. Si sono messi tutti d’accordo».
Anche i 5 stelle?
«Gli infiltrati sono ovunque. I filoberlusconiani stanno dappertutto. Se la Puppato dice che nel Pd ce ne sono 101, è fisiologico che ci siano anche da noi. Mica abbiamo un vaccino che tiene lontano chi strizza l’occhio a Berlusconi».
Sta dicendo che nel suo Movimento qualcuno ha voluto favorire il Cavaliere?
«Dico che c’è qualcuno che va segnalato a Beppe per mandarlo affanculo come merita. Provvederemo a cacciare i berlusconiani dal Movimento».
Ce l’ha con Vito Crimi?
«Abbiamo passato quattro mesi a fare casino per l'ineleggibilità di Berlusconi, e abbiamo un capogruppo che non si presenta al voto per il presidente della Giunta. Ognuno tragga le conclusioni»
La presidenza della Vigilanza Rai non è un successo?
«La giornata di oggi per noi è una Caporetto. L’opposizione è stata emarginata e messa alla porta e c’è una responsabilità interna per questo, che non è la “stupidaggine”, non è casuale. Non credo nel caso. La Rai ha un valore simbolico, la presidenza diventerà il parafulmine di ogni cosa, non potrà fare niente. Era il Copasir, che contava».
Quindi che farà?
«Esaminerò la situazione col Movimento in Sicilia, sto andando lì per i ballottaggi. E chiedo che intervenga Napolitano: la maggioranza si è scelta l’opposizione che più le fa comodo mandando a pezzi la democrazia. Richiamiamo il capo dello Stato al suo dovere di garante».

Repubblica 7.6.13
Ineleggibilità, la sfida dei grillini, il caso Berlusconi arriva al Senato
Il Pd: “Dopo le sentenze Mediaset e Unipol cambia tutto”
di Liana Milella


ROMA — Questione di pochi giorni. Ormai basta attendere la prossima settimana. E il Senato diventerà protagonista della partita più importante della legislatura. Quella che ne determinerà le sorti. Che farà vivere o morire il governo Letta. Parliamo dell’ineleggibilità del Cavaliere, ovviamente. Annunciata dal partito di Grillo, presentata come la sfida contro l’inciucio dilagante, adesso sta per materializzarsi. La richiesta di aprire la procedura per mettere Berlusconi fuori dal Parlamento per il lapalissiano conflitto d’interesse che cammina sulle sue gambe dal lontano 1994 sarà depositata presso la segreteria della giunta per le elezioni e le autorizzazioni del Senato. Cosa ci sarà dentro? Il grillino Francesco Giarrusso risponde come se fosse un fatto scontato: «Ma lo sapete bene, non avete forse letto l’appello di Micromega?».
Quella è la falsa riga. Il testo che a marzo scorso la rivista ha lanciato raccogliendo oltre 200mila firme in poche settimane. Una questione semplice, tant’è che Micromega la
declinava così: «Berlusconi non era e non è eleggibile. Lo stabilisce la legge 361 del 1957, che è stata sistematicamente violata dalla giunta delle elezioni della Camera
dei deputati». Cinque legislature — 1994, 1996, 2001, 2006, 2008 — e altrettanti sì al suo diritto di stare seduto a Montecitorio. Ma adesso la faccenda cambia. Lo rivela il dem Felice Casson: «Ora c’è un fatto nuovo, c’è il tassello che mancava e che sta nelle recenti sentenze Merdiaset e Unipol, dalle quali si evince che Berlusconi, pur formalmente fuori dalle sue aziende, è sempre rimasto il dominus incontrastato delle decisioni più importanti».
In quelle due sentenze - 8 maggio e 4 giugno — è scritto che nella regia dei fondi neri, le aziende affidate a Confalonieri, e nella gestione dei media, il Giornale del fratello Paolo, egli ha sempre agito da «dominus» incontrastato. Per questo Berlusconi è visibilmente preoccupato: «Non bastavano i pm, i giudici e i processi, adesso vogliono togliermi in anticipo il mio diritto di stare in Parlamento. Ma sia chiaro che io faccio saltare tutto e si va a votare».
È un ex premier furioso quello che vede saldarsi due minacce, per un caso concentrate negli stessi mesi, spalmate tra l’estate di quest’anno e l’inverno del prossimo. Partite destinate a influenzarsi. Da una parte il complicato caso dell’ineleggibilità a palazzo Madama, dall’altra l’approssimarsi della sentenza definitiva su Mediaset in Cassazione. La prima potrebbe chiudersi con un’aula che, a scrutinio segreto, lo mette fuori dal Parlamento prim’ancora che la Suprema corte decida se confermare o respingere la condanna a 4 anni per frode fiscale e a 5 di interdizione dai pubblici uffici.
Intendiamoci bene. Il casus belli dell’ineleggibilità può essere un rompicapo tecnico, ma soprattutto politico per via delle divisioni nel Pd, lacerato tra falchi e colombe, e tra chi vuole salvare a tutti i costi il governo e chi invece mette al primo posto il rigore nell’applicare la legge. Il caso ha per protagonista la vecchia e contestata legge 361 del 1957 sul conflitto d’interesse, che tuttora divide i giuristi e la politica. L’articolo 10 comma 1 — come ribadiranno i grillini — stabilisce che non sono eleggibili «coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica». Pare il ritratto di Berlusconi. Eppure, da 19 anni, lui la spunta perché — sostiene — non gestisce più “in proprio” le sue aziende, né le concessioni.
La sfida è qui. Grillo lo vuole fuori. Il Pdl fa muro, tant’è che ha messo un suo uomo forte — l’ex magistrato ed ex sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo — come vice presidente della giunta, a contrastare il neo presidente di Sel Dario Stefàno e l’altra vice, la battagliera dem Stefania Pezzopane. Stefàno fa per forza il diplomatico: «La questione è seria, e naturalmente la affronteremo con la serietà che merita». Casson ritiene di aver già vinto la prima battaglia, «non avere un leghista al vertice della giunta». Però vede un cammino difficile. A carte arrivate si formerà un sottocomitato che potrebbe presiedere Pezzopane in quanto vice più votata. Lei non anticipa nulla: «Non dobbiamo far altro che interpretare e applicare le leggi, nella logica che i cittadini sono uguali davanti alla legge». Il voto palese potrebbe spingere il Pd, pur diviso anche in giunta, a “condannare” Berlusconi. Ma illudersi che pure l’aula, lì a scrutinio segreto, segua la stessa via potrebbe rivelarsi una scommessa persa in partenza.

l’Unità 7.6.13
Il rilancio del pubblico dopo il voto di Bologna
di Luca Baccelli

Professore di Filosofia del diritto

ACQUISITI I RISULTATI, VALE LA PENA DI RITORNARE UN MOMENTO SUL REFERENDUM DI BOLOGNA RELATIVO AI FINANZIAMENTI comunali alle scuole paritarie private. Su questo giornale Chiara Carrozza ha impostato il suo intervento in modo impeccabile: ha assunto il punto di vista dei bambini, insieme il soggetto più debole e il primo destinatario dell’istruzione, e riaffermato la centralità della scuola pubblica. E nelle stesse ore ha posto una condizione necessaria per la sua permanenza al ministero: non basta bloccare i tagli all’istruzione pubblica (e, aggiungerei, alla ricerca, e alla ricerca di base), per liberare la scuola dalla povertà occorre tornare a investire. È su questa base che Carrozza difende le scelte operate dal comune di Bologna nel finanziamento del sistema integrato pubblico-privato e, più in generale, la legge «Berlinguer» (62/2000) sulla parità scolastica.
Si possono avere opinioni differenti sull’opportunità di investire risorse pubbliche nel finanziamento delle materne confessionali. In giro non c’è solo il modello lombardo dei voucher, giustamente contrapposto da Francesca Puglisi al sistema bolognese, e ci si dovrebbe chiedere perché le scuole paritarie costano meno. In ogni caso, come ha fatto notare Nadia Urbinati, alle argomentazioni sull’economicità di questa soluzione si possono contrapporre quelle sulla non sostituibilità della scuola pubblica come comunità educativa aperta, laica, pluralista. Dell’art. 33 della Costituzione e del suo perentorio «senza oneri per lo Stato» si possono dare interpretazioni meno flessibili. E se autorevoli esponenti della «teoria dei beni comuni», come Sapelli e Zamagni, la considerano compatibile con il sistema integrato altri teorici almeno altrettanto autorevoli, a cominciare da Rodotà, vedono le cose in modo differente.
Può darsi che del referendum di Bologna non si debba fare un caso nazionale. Ma l’idea della scuola come bene comune non può non evocare tre altri referendum, che impongono la ri-pubblicizzazione dell’acqua. Di qui si arriva al tema dei temi: valori, programmi e politiche di una sinistra riformatrice, capace di assumersi responsabilità di governo.
Nato negli anni novanta del secolo scorso, contemporaneo di Bill Clinton e di Tony Balir, l’Ulivo ha fatto proprio il paradigma della «Terza via». Detto all’ingrosso, l’assunzione di alcuni dei principi dell’ortodossia economica dominante – dalla riduzione della presenza pubblica nell’economia alle liberalizzazioni nel commercio internazionale, alla sussidiarietà, alla flessibilità del lavoro, al pareggio di bilancio fin nelle costituzioni – visti come condizione necessaria per lo sviluppo economico, con l’obiettivo di mantenere una rete di servizi sociali e di garantire i diritti essenziali. Al governo, in questo Paese, la sinistra c’è stata ben poco, e anche in Italia è stata combattuta quella che Luciano Gallino chiama la lotta della «classe capitalistica internazionale» contro la «classe dei perdenti». I risultati sono noti: la diffusione della povertà, l’aumento delle disuguaglianze, lo spostamento della pressione fiscale sul lavoro e del reddito verso le rendite, la disoccupazione e la precarietà. Rispetto a tutto questo il paradigma della Terza via si è dimostrato subalterno e le sinistre europee incapaci di guardare a differenti modelli. Il Pd è nato proprio quando è scoppiata una crisi globale tanto grave da convincere anche i dubbiosi, ma ha ereditato questo paradigma cercando, nello «spirito del Lingotto» di fondare su di esso una grande forza politica che teneva insieme falchi di Federmeccanica e vittime della Thyssen-Krupp, industrialisti ed ecologisti, laici e fondamentaliste religiose.
Pierluigi Bersani ha cercato di raddrizzare la barra, di dare al Pd un profilo più marcatamente riformatore, fondato sulla centralità del lavoro, sulla riaffermazione dell’eguaglianza e sulla garanzia dei diritti. Fra il 2011 e il 2012 referendum ed elezioni amministrative hanno espresso una grande domanda di cambiamento ed hanno premiato figure ed istanze apparentemente fin troppo radicali. Le elezioni di febbraio dimostrano che lo sforzo di Bersani è stato insufficiente: da un lato il suo messaggio non è stato abbastanza forte in termini di cambiamento, dall’altro la frammentazione del partito si è dimostrata gravissima, fino al dramma delle elezioni presidenziali.
Con il governo Letta tutto è molto complicato, ma il congresso del Pd non può eludere la questione: per ricostruire un programma di riforme, ridefinire la base elettorale e gli interlocutori sociali, ritrovare un’identità comune occorre un nuovo paradigma. Non si tratta di ritornare allo statalismo e al welfare rigido del Novecento, né si tratta di assumere le istanze dei movimenti come assoluti ideologici. Non siamo nel vuoto: la Costituzione delinea un quadro di riferimento in cui le persone, il lavoro, le formazioni sociali, l’ambiente prevalgono sul mercato, la proprietà privata e l’impresa. Ma per ripartire da lì bisogna accettare di rimettere in questione i modelli acquisiti, le comode certezze, a cominciare appunto dal modo in cui il centrosinistra ha impostato il grande tema del rapporto pubblico-privato.

Corriere 7.6.13
Roma decaduta, specchio d'Italia
di Giorgio Montefoschi


La grande bellezza di Paolo Sorrentino è un film notevole, che merita di esser visto. Perché — oltre a essere molto ben girato e recitato (particolarmente nei due cammei della Ferilli e di Verdone) — pone domande e suscita riflessioni: che riguardano Roma (fotografata strepitosamente, quale non l'avevamo mai vista), ma non soltanto Roma.
La prima domanda che lo spettatore si pone è la seguente: La grande bellezza è un film ambientato a Roma come altri ambientati a Roma, o è un film su Roma? Se l'immagine iniziale è quella dello sparo, a mezzogiorno, del cannone sul Gianicolo; se la terrazza dell'improbabile casa del protagonista — lo scrittore napoletano di un solo romanzo, Jep Gambardella, forse ricco di famiglia — propone ossessivamente lo sfondo del Colosseo; se Roma è onnipresente con i suoi palazzi rinascimentali, le sue chiese, le sue rovine, bisognerebbe rispondere che La grande bellezza è un film su Roma. La seconda domanda (da cui altre discendono) è questa: «quelli» (vale a dire, i grotteschi personaggi che ruotano attorno a Gambardella, e comprendono ricchi e meno ricchi, nobili in carica e in affitto, scrittrici radical chic e poeti mantenuti, venditori di giocattoli e illusionisti, cardinali ghiotti e esibizionisti in coppia), esistono? Sì, esistono. I volti, siliconati al punto da farle sembrare uccelli impagliati, delle donne mature e giovani che partecipano alle cene di Gambardella, ai picnic nei parchi, alle feste in discoteca, sono come li mostra Sorrentino, o Sorrentino esagera? No, sono così: Sorrentino non esagera. Quelle feste sono eleganti? Dipende: talvolta lo sono; molto più spesso sono feste cafone, anche se vorrebbero essere eleganti. E è vero che in queste feste eleganti e cafone, oltre al grande consumo dell'alcol, si tira se va bene la cocaina? Capita; e nessuno si stupisce. Ed è vero che in quei ricevimenti la conversazione non è come nel salotto proustiano di Madame Verdurin, langue invece, è stanca, si nutre di pettegolezzi e di ovvietà politicamente e culturalmente corrette, riflette soddisfazioni ottuse, ambizioni deluse o sopite? Sì, è abbastanza vero.
Allora: questa è Roma? Ebbene, sì, anche questa è Roma: dal momento che Roma, città custode per eccellenza del tempo e cimiteriale, ospita e, se vogliamo, protegge questi sopravvissuti che ancora si imbellettano per nascondere le rughe, e il nulla. Ma la mondanità viziosa incarnata da costoro, alla fine, non è tanto diversa da quella che Truman Capote descrisse a metà degli Anni Settanta nel racconto La Cote Basque, con nomi e cognomi, facendo infuriare parecchi a New York; o da quella che Kubrick immortalò in Eyes wide shut, mutuandola addirittura da un romanzo viennese, quello di Schnitzler, fra Ottocento e Novecento. Dunque, la verità più profonda è che, qui come lì, siamo di fronte a relitti (motivo per cui è abbastanza comprensibile che Jep Gambardella una volta sussurri: «Siamo tutti disperati», un'altra volta implori un suo amico mago di farlo sparire, come ha fatto sparire una giraffa) che non sono solo romani; di fronte a un teatro torvo di marionette in cui si rappresenta una decadenza che abbraccia anni più lunghi, va oltre i confini cittadini.
Il guaio è che anche l'altra Roma, quella che non si vede nel film di Sorrentino, non sta bene affatto. La Roma che non va a votare e diserta le piazze; la Roma dei senza lavoro e degli studenti smarriti; la Roma delle periferie dure e delle violenze in pieno Centro; quella delle bische e quella dei «Cerco Oro»; quella che non ha aggregazioni sociali e valori; quella che ha paura per il suo futuro, è sgomenta e — in questo senso — è davvero tanto simile a tanta parte dell'Occidente: anche quella sta malissimo, anche quella soffoca sotto una cappa pesante. Tant'è che, a Roma, per respirare un soffio d'aria pura, bisogna farsi catacombali. E affacciarsi in quei luoghi che non sono segreti, e invece esistono — non solo a Roma — nei quali pattuglie di silenziosi continuano a dar da mangiare a chi ha fame e a curare gli infermi. Oppure, bisogna aspettare che arrivi una santa.

Repubblica 7.6.13
Incontro con Rossana Rossanda.
"Io, eterna madre della sinistra uccisa dai figli"
L'allontanamento dal "Manifesto". Il conflitto fra generazioni. Le nuove disuguaglianze. Colloquio con la "ragazza del Novecento"
di Simonetta Fiori

qui

Repubblica 7.6.13
Il padrone in tuta blu
di Luciano Gallino


E se i padroni, dopotutto, non fossero necessari? Naturalmente è un sogno, ma con la disoccupazione che morde anche i sogni aiutano a cercar soluzioni per continuare ad avere un lavoro e non arrendersi alla prospettiva di una vita da cassintegrati, o da pensionati con dieci anni di anticipo. L’hanno trovata, una soluzione, alcune migliaia di lavoratori che in varie regioni d’Italia hanno reagito al fallimento della loro impresa, alla delocalizzazione, ai dirigenti di una corporation che dalla Finlandia o dall’Alabama decidono di chiudere un impianto in Italia perché rende meno di uno della Corea del Sud. Hanno detto ai padroni, ma anche a se stessi, «se voi ve ne andate, noi restiamo qui, e proveremo a mandare avanti l’azienda con il nostro lavoro». Alcune delle imprese che han continuato ad operare nonostante la fuoruscita dei capi o dei padroni hanno preso forma di cooperative; altre si sono date una veste giuridica diversa. Sia questa l’una o l’altra, adesso l’impresa la mandano avanti loro, operai e tecnici, dirigenti e impiegati.
In Argentina le chiamano fabricas o empresas recuperadas. Sono nate dal 2001 e si sono moltiplicate. Considerato quel che sta avvenendo in Italia, la loro storia è di speciale interesse, perché in essa si ritrovano varie situazioni che hanno con il nostro paese diversi elementi comuni. Nel 2001 l’Argentina stava attraversando, come noi oggi, una disastrosa crisi economica. Centinaia di imprese dichiaravano fallimento, e i dipendenti, con una età media sopra i quaranta, erano quasi certi che mai più avrebbero trovato un lavoro. Una ondata dissennata di privatizzazioni di aziende pubbliche aveva contribuito a disastrare il mercato del lavoro; il resto lo avevano fatto gli “aggiustamenti strutturali” imposti dalla Banca Mondiale e dal Fmi — simili a quelli che oggi arrivano a noi da Bruxelles o da Francoforte — da cui il drastico ridimensionamento dei sistemi di protezione sociale.
Non vi fu allora, in Argentina, alcuna particolare spinta di ordine politico a indurre i lavoratori a impegnarsi per gestire loro l’impresa, una circostanza che pare evidente anche nel caso italiano. Molti aspetti positivi maturarono dopo, e paiono emergere ora nel nostro paese giusto come avvenne laggiù. I lavoratori scoprirono, tra mille difficoltà, che riuscivano a mandare avanti la fabbrica o l’impresa non meno bene del padrone che era fallito o di fronte alla crisi era scappato all’estero. Stabilirono reti di relazione efficaci con le comunità locali e con altre imprese “recuperate”. Approfondirono il tema dell’autogestione, quello che negli anni 70 del Novecento era stato un tema importante per il movimento operaio, non privo di applicazioni positive, specie in Jugoslavia. Risultato: nel 2001 le empresas recuperadas erano alcune decine. Al presente si stima siano 350, che occupano circa 25.000 lavoratori in diversi settori produttivi.
Le imprese italiane autogestite, siano cooperative o altro, meritano quindi attenzione da parte del governo, dei sindacati, e delle tantissime imprese che un padrone ancora ce l’hanno. Da un lato perché a fronte di una crisi che è ormai certo durerà un altro decennio è essenziale esplorare ogni possibile strada per evitare che le imprese, a cominciare dalle Pmi, continuino a chiudere. Dall’altro perché queste fabbriche o aziende di servizio mostrano che se i lavoratori sono trattati come persone, piuttosto che come robot i quali debbono attenersi rigorosamente alla metrica tayloristica del lavoro imposta dall’alto, tirano fuori una intelligenza, una capacità professionale, una competenza nel costruire e gestire un’organizzazione, che quella metrica al tempo stessa nega e spreca. Con un danno grave sia per i lavoratori, sia per la stessa impresa. Ciò di cui i padroni, pur restando al loro posto, dovrebbero prendere nota. Qualche decennio fa si parlava molto, da noi come in altri paesi, della necessità di sollecitare la creatività e lo spirito di iniziativa dei dipendenti. Le imprese hanno preferito adottare modelli di organizzazione del lavoro che soffocavano di proposito l’una e l’altro. La crisi ha tra le sue cause anche quei modelli. Le “imprese recuperate” attestano che converrebbe cominciare a battere altre strade.

La Stampa 7.6.13
Orrore nel quartiere dell’Opéra
Militante di sinistra ucciso dai naziskin Parigi sotto choc
Studente 18enne massacrato in pieno centro Il premier: faremo a pezzi le cellule eversive
di Alberto Mattioli


Un militante di sinistra linciato da quelli di destra in mezzo alla strada. Per gli italiani, sono scene degli Anni Settanta più tragici. Per i francesi, piuttosto del decennio seguente quando, nella Parigi di Mitterrand, gli scontri fra skinheads di gauche e di droite erano frequenti. Ma sono passati trent’anni e ormai si credeva che questi episodi fossero consegnati all’archivio del peggior Novecento. Invece no. È stato massacrato un ragazzo di 18 anni, e questa è la tragedia. Il problema politico è che nella società francese cresce la tensione, le posizioni politiche si radicalizzano e aumenta il numero di chi pensa che il modo migliore per esprimerle sia picchiare.
Tutto è successo mercoledì intorno alle 18 e non nelle periferie violente, ma in rue Caumartin, nel centralissimo nono arrondissement di Parigi, a due passi dall’Opéra e dai grandi magazzini affollati di turisti. Clément Méric aveva 18 anni, era arrivato da Brest per studiare a Sciences-Po e faceva parte dell’Action antifasciste Paris-banlieue. Era andato con un amico in un appartamento per una vendita privata di magliette Fred Perry, la griffe che piace agli skins di entrambi gli schieramenti. I due hanno riconosciuto un gruppo di estremisti di destra per il loro look inconfondibile. La sicurezza ha buttato fuori tutti. Una volta in strada, non è chiaro chi abbia attaccato briga per primo. Sta di fatto che Clément è stato colpito con un tirapugni, ha battuto la testa sul selciato, è stato raccolto mentre il sangue gli usciva dalle orecchie ed è arrivato all’ospedale in stato di morte cerebrale. È spirato ieri, alla stessa ora in cui era stato pestato.
La polizia non ha fatto troppa fatica a trovare i colpevoli, tutta gente che gira con la svastica tatuata sulla sua testa rasata fuori e vuota dentro. Gli arrestati sono in tutto sette, fra loro c’è anche una ragazza. Sono, pare, militanti delle Jnr, «Jeunesses nationalistes révolutionnaires», uno dei pianetini della nebulosa dell’estrema destra. Le Jnr, ovviamente, nega. Uno dei sette ha in pratica confessato: «Non volevo ucciderlo», bontà sua.
Fin qui la cronaca. L’emozione è enorme, la condanna generale e bipartisan, ma la polemica rovente su almeno tre fronti. Il primo è quello della sicurezza. Molte voci, anche dalla destra moderata, chiedono lo scioglimento dei gruppuscoli fascisti. François Hollande, dal Giappone, chiede di «reprimere» e denuncia un «clima pesante»; il suo primo ministro Jean-Marc Ayrault annuncia che, nel rispetto delle regole democratiche, «farà a pezzi» l’eversione.
Secondo Fronte, quello Nazionale. La sinistra lo accusa di contiguità o, peggio, di complicità. Marine Le Pen ribatte che questi estremisti sono i suoi peggiori nemici. In effetti, è proprio la sua politica moderata che, sdoganando e «ripulendo» il Fn, ha «liberato» sulla sua destra dei picchiatori che in precedenza, bene o male, erano più sotto controllo.
Terzo fronte: la «manif pour tous», il movimento contro il matrimonio gay. Pierre Bergé, il «vedovo» di Yves Saint-Laurent, la accusa via Twitter di aver «preparato il terreno» al dramma. La risposta è indignata. Però Frigide Barjot, ex egeria e volto della «manif», ammette di averla abbandonata appunto perché ci si sono infiltrati «casseurs» estremisti e violenti.
Intanto, ieri i compagni di studi di Clément si sono riuniti davanti a Sciences-Po e, in un silenzio tragico e surreale, hanno intonato il Canto dei partigiani. La gauche dei partiti e dei sindacati è scesa in piazza scandendo «Pas de facho dans nos quartiers, pas de quartier pour les fachos! ». Nathalie Kosciusko-Morizet, candidata della destra moderata al Comune di Parigi, che andava a rendere omaggio alla vittima, è stata fischiata e insultata. In Francia tira davvero una bruttissima aria.

La Stampa 7.6.13
Usa, la confessione del pilota di droni “Ho ucciso troppo
» 
«Ho eliminato da lontano 1626 persone»
 «Come fai a capire chi è un contadino e chi è un taleban?»
di Francesco Semprini

Ha visto una delle sue vittime morire dissanguata dopo l’esplosione del missile fatale, una delle oltre 1.600 che eliminate mentre era con la «cloche» fra le mani. Quella utilizzata per pilotare, in chirurgiche missioni a distanza, decine e decine di droni, gli aerei senza pilota utilizzanti nella lotta al terrorismo e nelle guerre non convenzionali dall’amministrazione americana. Si chiama Brandon Bryant, 27enne ma già assai navigato membro dell’Air Force degli Stati Uniti, dal 2006 al 2011 pilota di «unmanned vehicle» che ha fatto volare sui cieli di Afghanistan e Iraq in missioni da cecchino dei cieli.
Come quella in cui, con la sua squadra, ha preso di mira su tre uomini che camminavano su una strada di un villaggio afghano. Dopo averli centrati in pieno, ne ha osservati gli ultimi istanti di agonia, grazie ai dispositivi di rilevazione di calore piazzati sul drone, un fiume di sangue in piena fino all’esalazione dell’ultimo respiro. «All’uomo che stava camminando avanti è stata trinciata una gamba, ho visto che perdeva sangue, il sangue è caldo e quindi viene rilevato dai sensori». Quando è morto il corpo è diventato freddo sino ad assumere sullo schermo di Brendon lo stesso colore «termico» del terreno intorno a lui. «Ogni volta che chiudo gli occhi posso rivedere ogni singola istantanea», racconta Bryant alla rete Nbc, a lui è stato diagnosticato il «post traumatic stress disorder», ovvero la patologia da stress psico-fisico che colpisce sempre più reduci.
Il suo è un curriculum importante, 19enne lascia il piccolo paese nativo del Montana per arruolarsi nell’Aeronautica militare. È il 2005, grazie alle sue doti viene scelto e addestrato per guidare i droni, la prima missione arriva l’anno successivo, dalla base Nellis Air Force vola sui cieli dell’Iraq. All’inizio le missioni sono di supporto logistico e copertura alle truppe di terra, ma col passare del tempo «Reaper» e «Predator» entrano in azione per eliminare i rivoltosi che piazzano gli «Ied» sul ciglio della strada. Gli ordigni rudimentali sono i nemici giurati delle truppe alleate, vengono nascosti sottoterra da jihadisti o taleban e fatti saltare in aria al passaggio dei convogli.
Bryant ha partecipato a centinaia di missioni di questo tipo, 1.626 le persone lasciate sul selciato prive di vita. «Non senti il rombo dei motori e la scia del missile, hai davanti un computer, ma il risultato è lo stesso», spiega alla tv tradendo emozione. Il dipartimento dei veterani ha certificato la sua «patologia bellica»: rabbia, insonnia, ansia e blackout mentale da alcolici. Tenta di spiegare che lui e si suoi uomini hanno sempre cercato di evitare vittime civili. «Ma come si fa a riconoscere un talebano da un innocente che impugna un Ak-47, in un Paese dove circolare armati è la norma? O come si fa a distinguere un uomo con la vanga in mano da un potenziale fiancheggiatore pronto a piazzare uno Ied?». Effetti perversi, e sempre meno collaterali, che rendono le guerre nuove convenzionali conflitti senza fine.

La Stampa 7.6.13
Bilancio della politica della repubblica popolare. Gli analisti: troppe diseguaglianze
La Cina di Xi, 100 giorni di delusioni
Il presidente tra riforme impossibili e economia che rallenta. Oggi il vertice con Obama
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 7.6.13
Un antenato di 55 milioni di anni fa cambia la nostra idea di evoluzione
Scoperto in Cina, anticipa la divisione tra uomini e scimmie
di Giovanni Caprara


Pesava appena 20-30 grammi e la taglia era quella di un topolino. Ma sono occorsi dieci anni per capire che si trattava del più antico di tutti primati scoperti, e di sette milioni di anni. Finora il record era legato al ritrovamento in Germania del Darwinius masillae.
Il fossile di 55 milioni di anni fa è stato rinvenuto sul fondo di un lago nella provincia di Hubei, nella Cina centrale, vicino all'attuale corso del fiume Yangtze. Il gruppo internazionale di paleontologi formato da scienziati cinesi, americani ed europei lo ha battezzato Archicebus achilles e sono state soprattutto caviglia e tallone a stabilire il grande valore del risultato. Le loro caratteristiche, infatti, dimostrano che nell'albero dell'evoluzione si trova molto vicino alla ramificazione che ha generato da una parte la famiglia del tarsio e dall'altra gli antropoidi, incluso l'uomo.
«È la prima volta che abbiamo una ragionevole immagine completa di un primate così vicino alla divergenza — spiega sulla rivista Nature Xijun Ni dell'Accademia delle scienze di Pechino e alla guida del team —. Questo ci aiuta a compiere un grande passo verso la decifrazione delle prime fasi dell'evoluzione dei primati e dell'uomo». Ciò aggiunge, inoltre, una prova a favore sulle origini degli stessi primati avvenuta in Asia invece che in Africa dopo l'estinzione dei dinosauri 65 milioni di anni fa.
Finora non sono mai stati trovati fossili di primati così antichi in Africa e l'ipotesi è che dall'Asia sia partita un'evoluzione giunta poi a colonizzare il territorio africano nel quale 200 mila anni fa nasceva l'Homo sapiens. Ma sul luogo d'origine le idee sono ancora ben contrapposte.
Un tassello importante è, dunque, emerso del remoto passato della vita sulla Terra che all'epoca in cui esisteva Archicebus achilles (nella scelta del nome ha prevalso un riferimento alla cultura occidentale: Achille proprio per il tallone) i continenti erano più vicini all'Equatore e l'Europa era unita al Nordamerica e a una parte dell'Africa. La posizione favoriva un clima caldo, piogge abbondanti, un verde rigoglioso e diffuso sino ad arrivare, palme comprese, a quella che oggi è l'Alaska. L'Asia era invece separata e c'è l'evidenza che, 38 milioni di anni fa, alcuni primati abbiano affrontato le acque aperte arrivando in Africa.
Sugli alberi e al suolo saltellava e si arrampicava il minuscolo primate lungo neanche dieci centimetri e con una lunga coda. L'esame del suo scheletro lo faceva sembrare molto simile al tarsio ma in realtà appariva come un ibrido con i piedi di un piccolo primate non antropomorfo e braccia, gambe e denti di un primate primitivo. Sorprendentemente era però dotato di piccole cavità oculari al contrario del tarsio che le ha invece molto grandi.
Una creatura tanto minuscola con un metabolismo molto attivo — notano i paleontologi — doveva muoversi freneticamente di giorno al contrario del notturno tarsio da cui discende e che ancora vive nelle foreste del Sudest asiatico. Agilmente si arrampicava sugli alberi saltellando al suolo nell'aria umida e tropicale.
Un contributo importante per decifrare l'identità di Archicebus achilles lo hanno dato gli scienziati dell'European synchrotron radiation facility (Esrf) di Grenoble, in Francia. Il suo scheletro quando è passato da questo laboratorio europeo è «risuscitato» grazie a un'operazione di scannerizzazione e digitalizzazione che ha permesso di capire aspetti prima impossibili. Ciò grazie a immagini tridimensionali a elevata risoluzione attraverso le quali è stato anche possibile ricostruire elementi mancanti. «E, virtualmente parlando, — dice Paul Tafforeau che ha sviluppato il metodo applicato al centro europeo — lo abbiamo rimesso in piedi».
«Il fossile di Hubei è una magnifica scoperta — commenta il paleontologo Benedetto Sala dell'Università di Ferrara — ma credo che sia necessario approfondire numerosi aspetti di questo animale per comprendere se sia un tarsio che dà origine ai primati e se sia arrivato in Africa prima di essere un primate».
Intanto un altro prezioso anello mancante ha arricchito la catena delle prime e complicate tappe dell'affascinante storia dell'evoluzione.

l’Unità 7.6.13
Il cacciatore di pianeti
Dimitar Sasselov: «Il mio obiettivo? Cercare forme di vita fuori dal sistema solare»
«Gli oggetti cosmici simili alla Terra sono moltissimi. Abbiamo i telescopi, dunque un’ottima possibilità di trovare la vita»
di Pietro Greco


QUALCUNO LO HA DEFINITO UN «CACCIATORE DI PIANETI». LI CERCA FUORI DAL SISTEMA SOLARE, NATURALMENTE. Ha battuto anche un record: nel 2002 ha scovato il pianeta che allora era il più lontano mai rilevato da essere umano. Nato in Bulgaria, lavora alla Harvard University, negli Stati Uniti, dove dirige la Harvard Origins of Life Initiative, un progetto di ricerca sull’origine della vita. Si chiama Dimitar Sasselov e il suo più grande obiettivo è cercare forme di vita sui pianeti extrasolari. Ha appena pubblicato per Codice il libro: Un’altra Terra. La scoperta della vita come fenomeno planetario. E pochi giorni fa è stato al Wired Next Fest di Milano dove ha tenuto una conferenza dal titolo: «Alla ricerca dei nuovi mondi. Un viaggio tra astrofisica e biologia». Lo abbiamo intervistato.
Nel chiudere il suo libro su «Il caso e la necessità», il grande biologo francese Jacques Monod, ha scritto: «ora sappiamo di essere soli, nell’immensità indifferente del cosmo». Professor Sasselov, lei invece scruta il cosmo nella convinzione che la vita sia piuttosto diffusa. Su cosa fonda questa sua convinzione?
«Sono un ottimista. Io ci credo! Penso che non ci sentiremmo soli in un Universo dove più di un pianeta ospita forme di vita, anche quella vita dovesse essere microbica, con esseri viventi formati da una sola cellula. Sento che le probabilità sono a favore della presenza di esseri viventi su altri pianeti abitabili. Ma, naturalmente, finché non ne avremo una solida prova empirica, tutto quello che ho affermato è una mera questione di ottimismo».
Negli anni ’40 del secolo scorso un grande fisico teorico, Erwin Schödringer, scrisse un libro seminale dal titolo «Che cos’è la vita». Schrödringer si riferiva, evidentemente, alla vita presente sul pianeta Terra. Noi oggi abbiamo un’idea abbastanza precisa di cosa sia la vita e di come evolve nel tempo. Ma ci riferiamo sempre all’unico esempio conosciuto. Pensa che queste nostre conoscenze siano generalizzabili? Ovvero che dobbiamo cercare nell’universo forme sostanzialmente simili alla vita terrestre? Questo non vincola troppo la nostra ricerca?
«Il libro si Schrödringer è un classico, ma la risposta alla domanda “cos’è la vita” in fondo resta ancora elusiva. Noi davvero non sappiamo cos’è la vita, di conseguenza è più sicuro assumere che la prospettiva centrata sulla Terra potrebbe essere troppo limitata quando cerchiamo segni di vita nell’universo. Penso che in questa ricerca è cruciale procedure con una mente aperta».
«Professor Sasselov c’è un’analogia tra la nostra conoscenza della vita e la nostra conoscenza dell’universo. In entrambi i casi abbiamo solide teorie scientifiche sulla loro evoluzione – la teoria neodarwiniana per quanto riguarda la vita e il modello standard della cosmologia per quanto riguarda l’universo – ma non abbiamo ancora una teoria scientifica solida né sull’origine della vita né sull’origine dell’universo. Secondo lei perché? «Le questioni delle origini sono sempre molto diffìcile. In parte, perché sono questioni storiche ed è difficile studiare le precise condizioni del passato. In parte, perché sono questioni che riguardano l’emergenza di strutture e di ordine secondo regole che potrebbero essere state differenti dalle regole che determinano la loro evoluzione successiva e contemporanea. A rendere la faccenda ancora più difficile da districare c’è che in entrambi i casi, l’origine dell’universo e l’origine dell’universo, siamo limitati dal fatto siamo costretti a studia un caso singolo. Un caso unico».
Nel suo libro lei sostiene che la vita è un fenomeno planetario. Negli ultimi anni abbiamo scoperto molti pianeti extrasolari, alcuni dei quali sono simili alla Terra. Possiamo dedurne che nell’universo pianeti simili alla Terra sono molto diffusi. Ce ne sono miliardi e miliardi. Ma abbiamo concrete possibilità di verificare se c’è vita su questi pianeti? «Le scoperte di molti nuovi pianeti (chiamati esopianeti, perché orbitano intorno ad altre stelle) negli anni scorsi ha dimostrato che oggetti cosmici con temperatura, clima e altre caratteristiche simili a quelle della Terra sono molto più comuni di quanto noi potessimo persino sperare solo pochi anni fa. Questi pianeti sono potenzialmente abitabili, sebbene noi sappiamo così poco sull’origine della vita, né che abbiamo la minima idea se qualcuno di loro sia effettivamente abitato. Ma il fatto che questi pianeti siano oggetti comuni nell’universo è una grande notizia, perché significa che molti esopianeti abitabili orbitano intorno alle stelle a noi più vicine. E noi abbiamo i telescopi e le tecnologie per cercare la vita su di loro da lontano. Cosicché abbiamo un’ottima possibilità di trovarla!» Ma la vita, magari diversa da quella presente sulla Terra, potrebbe essere un fenomeno non solo planetario. In quali altre condizioni cosmiche potrebbe presentarsi?
«La superficie dei pianeti deve avere un intervallo di temperatura tale da consentire la presenza di acqua, o di un solvente simile, che sia allo stato liquido, almeno a volte. Generalmente ciò richiede la presenza di un’atmosfera. Quindi un grosso pianeta roccioso – come la Terra o anche più grande – è meglio. Ecco la situazione migliore è quella di una super-Terra. Oltre queste condizioni fondamentali, noi davvero non sappiamo altro. Ecco, ora questo è un nuovo settore di ricerca scientifica».
L’italiano Enrico Fermi era scettico sulla possibilità che esista una vita intelligente fuori dalla Terra. E ha espresso questa convinzione con una famosa domanda: «E allora, perché non sono qui?». In effetti da almeno mezzo secolo il progetto SETI (Search for extraterrestrial intelligence) sta scrutando il cielo alla ricerca di tracce di vita intelligente. Finora senza apparenti risultati. Lei pensa che esistano altre forme di vita intelligente nell’universo? E se sì, perché non l’abbiamo intercettata?
«Il problema posta da Enrico Fermi, e il paradosso che ha proposto, sono davvero affascinanti. Sono anche tra quelli più difficili che l’umanità abbia mai preso in considerazione, insieme ai due problemi dell’origine: quello della vita e quello della coscienza (e dell’intelligenza tecnologica). La combinazione può indurti allo scetticismo! Potrebbe essere che la vita è relativamente comune, ma che le forme di vita intelligente ha bisogno di miliardi di anni per svilupparsi. Sulla Terra sono stati necessari 4.000 milioni di anni: noi non sappiamo, tuttavia, se questo tempo è una media o se è un tempo breve. Ciò non toglie che si tratta di un tempo profondo, lungo. La nostra galassia, con tutte le sue stelle, ha un’età inferiore a 13.000 milioni di anni: le stelle che hanno accumulato abbastanza elementi pesanti da generare pianeti rocciosi sono anche più giovani. Cosicché penso che il paradosso di Fermi e il mancato incontro con di ETI, della vita intelligente, potrebbe essere solo una questione di tempo: noi potremmo essere la Generazione I».
Trovare vita fuori dalla Terra sarebbe una delle più grandi scoperte mai realizzate dall’uomo, se non la più grande in assoluto. Sarebbe la riprova di una sorta di principio copernicano perfetto. Sapremmo di essere un esperimento qualsiasi in un punto qualsiasi dello spazio e del tempo. Come pensa reagirebbe l’opinione pubblica dopo millenni in cui ci siamo consolati credendo di essere il centro dell’universo?
«Potrebbe essere la scoperta più importante, perché è fondamentale sia per la scienza e la comprensione del mondo, così come per definire chi siamo noi. Quest’ultimo aspetto è una percezione profondamente personale poiché è relativa al nostro quadro di riferimento. Qualcuno potrebbe avvertire come una sensazione di perdita».

l’Unità 7.6.13
Heidegger e Arent sul grande schermo
Memoria e oblio: il romanzo di Martino Gozzi ci racconta l’impresa folle di uno sceneggiatore che vuole girare un film sulla storia d’amore tra due grandi personaggi
di Paolo Di Paolo


IL PASSATO È OSTILE: SI OPPONE ALLA NOSTRA VOLONTÀ DI COMPRENDERLO, DI RICOMPORLO. Ci s’immerge in esso se è remoto armati degli strumenti più sottili e ottimistici, ma non basta. Anche il più attrezzato degli storici deve arrendersi all’idea che la sua indagine sarà tutto sommato un fallimento.
Lo spessore dell’oblio, l’opacità dei gesti, dei pensieri tutto è infinitamente ostile alla luce che proviamo, da qui, a gettare su un evento lontano. Così lo sceneggiatore Ernesto Lizza, nel tentativo di mettere in piedi un film sull’amore fra Hannah Arendt e Martin Heidegger, scopre nonostante la quantità di fonti che ha a disposizione di non sapere nulla. Di non poter capire nulla. «Sentiva che i veri problemi della sceneggiatura erano radicati molto più in profondità», «non erano di sintassi e neppure di struttura». È come se il passato quella specifica zona del passato si rifiutasse alla sua volontà di comprensione. «Perché Hannah Arendt aveva teso la mano a Martin Heidegger?»: perché, in sostanza, la geniale intellettuale ebrea, dopo anni di lontananza dovuti alle persecuzioni antisemite, si riavvicina al grande filosofo che aveva aderito al nazismo? «Che cosa mancava?» si chiede Lizza riflettendo sulla sceneggiatura. «La storia che aveva raccontato era in bianco e nero: prima c’era la passione, poi la rottura e infine il riavvicinamento, dopo quasi vent’anni di silenzio. Ma nessun sentimento era puro come l’alcol (...). La rabbia era sempre mescolata all’affetto. L’amore alla paura. Il rancore all’attaccamento. La delusione al rimpianto. I sentimenti erano grumi di materie impure e impossibili da separare».
Ernesto Lizza arriva a tale constatazione per una via personale, intima. Il confronto con un nonno novantenne, Ettore un confronto imprevisto e acceso che riguarda una figura misteriosa, Mario Barcellona: ex partigiano e militante politico, coetaneo di Ettore e più tardi amico di suo figlio Ferruccio, che nel frattempo è morto di tumore. Ernesto chiede lumi a suo nonno, e scopre che fu la presenza di Mario a scavare per ragioni di militanza politica un fossato fra Ettore e Ferruccio. Così come ha investigato il rapporto fra Arendt e Heidegger, adesso Ernesto vuole investigare questo oscuro passato familiare. È altrettanto difficile: intraprende un viaggio verso la Germania sulle tracce dei protagonisti della sceneggiatura, ma in realtà cerca Mario Barcellona, che da decenni è emigrato. Si trova davanti un uomo vecchio dalla memoria ormai molto fragile, quasi polverizzata, inattendibile. Questo viaggio e il confronto con il nonno fanno deflagrare le poche certezze che Ernesto ha sul proprio lavoro: comincia perfino a chiedersi se abbia senso, raccontare quella storia d’amore lontana. In una lettera di Arendt al suo maestro Heidegger, aveva letto questa frase: «Mi presento a te con l’antico senso di sicurezza e l’antica richiesta: non dimenticarmi».
Così Martino Gozzi, con Mille volte mi ha portato sulle spalle, ha scritto un romanzo sul rapporto fra memoria e oblio, che non è mai assoluto questo Ernesto è costretto a verificare, anche con dolore ma sempre «relativo» alla nostra capacità di dimenticare, all’ostinazione di non dimenticare; all’oblio dei singoli e delle collettività, che cancella o imprevedibilmente salva; alla memoria, alla somma dei ricordi nostri e del mondo, sempre così malcerta, fragile, esposta al nostro stesso tradirla. Con tono lieve, il trentenne Gozzi si confronta con temi radicali del Novecento: lo fa da dopo, da un presente (privato e pubblico) grigio e smorto, in cui il passato sembra la cosa più viva, perfino la più vitale.
Mille volte mi hai portato sulle spalle, di Martino Gozzi,  pagine 157 euro Feltrinelli

Repubblica 7.6.13
Se per trovare dio bisogna rinnegarlo
“Oltre il cristianesimo”, il saggio sulla mistica di Marco Vannini
di Roberto Esposito


Come i pittori di talento dipingono sempre lo stesso quadro, allo stesso modo i veri autori scrivono sempre lo stesso libro, arricchito di nuovi riferimenti e argomentazioni. Ma raccolto comunque intorno al cuore del problema da cui lo scrittore trae ispirazione ed energia creativa. È quanto si può dire accada a Marco Vannini, di cui Bompiani ha appena pubblicato Oltre il cristianesimo. Da Eckhart a Le Saux.
In esso egli riprende il tema di fondo dei libri precedenti — l’opposizione tra mistica e teologia — spingendolo a un grado di profondità e di radicalità ancora maggiore. Quello che in essi era una direzione possibile, diventa qui l’esito di un percorso compiuto. Il suo sguardo, da tempo volto alle grandi questioni della mistica, nella loro tensione con l’orizzonte cristiano, si sposta adesso oltre di questo. E anzi oltre il linguaggio dei tre monoteismi, in un viaggio senza argini verso la concezione induista e buddista.
Ad accompagnare l’autore in questo esodo verso Oriente è il monaco benedettino francese Henri Le Saux che, arrivato in India, non ne è mai tornato, penetrando nell’anima profonda della spiritualità hindu, senza smettere di sentirsi cristiano. Come risulta dal suo Diario, il suo incontro con il saggio Ramana Maharshi lo ha segnato in maniera indelebile, convincendolo della superiorità spirituale delle Upanishad e della Bhagavadgita rispetto ai testi della tradizione ebraico-cristiana. Ma ciò non in contrasto con l’originario messaggio evangelico — almeno prima che fosse “normalizzato” nella dottrina elaborata da San Paolo — bensì in continuità con esso. Come aveva sostenuto Simone Weil, sia la Sinagoga che la Chiesa hanno tradito il senso più riposto della parola di Cristo, ingabbiandola nel canone teologico, cui Vannini contrappone la dimensione mistica. Per fissare il punto in cui quest’ultima confluisce nel doppio alveo induista e buddista, Vannini ripercorre originalmente la via tracciata da Ananda K. Coomaraswamy nel suo libro Induismo e buddismo (Rusconi). La porta d’ingresso, per entrambi, è costituita dall’opera del grande mistico medioevale Meister Eckhart, situato all’origine di una tradizione che comprende non soltanto autori di ispirazione spirituale quali Margherita Porete, Giovanni della Croce o Fénelon, ma anche filosofi irreligiosi e perfino atei come Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche. Cosa è che li collega, per nella assoluta distanza? Qual è il punto di raccordo, e certo di tensione, tra mistica e ateismo nel comune contrasto con il lessico teologico-politico del pensiero cristiano? La figura decisiva di questo problematico nesso, intorno alla quale ruota l’intera ricerca di Vannini, è rappresentata dal distacco. Solo distaccandosi da se stesso, l’uomo può aprire lo spazio vuoto entro il quale accogliere Dio, fino a fare tutt’uno con lui. Naturalmente ciò prevede una doppia decostruzione della metafisica, insieme greca ed ebraico-cristiana: da un lato la rinuncia all’amor proprio, coincidente con il primato della volontà personale sull’intelletto universale, dall’altro il rifiuto della concezione mitica di Dio come soggetto creatore. In tal modo si rompe la macchina teologica, ma anche politica, del dualismo che fa di Dio null’altro che la proiezione oggettiva di quel che l’uomo presume di sé e si rende possibile il riconoscimento estatico dell’unità del Tutto. Ogni tipo di beatitudine, pensata in Occidente come in Oriente, riproduce, in forma varia, questo passaggio che identifica soggetto e sostanza, avere ed essere, umanità e divinità. Da Giovanni Taulero a Niccolò Cusano, da Sebastian Franck ad Angelus Silesius, la mistica occidentale perviene a toccare i confini del discorso teologico, eccedendolo nel suo spazio esterno. Se Bruno e Spinoza già rompono il linguaggio della persona a favore di un universo integrato in cui ogni individuo è parte di un tutto che lo comprende, è Nietzsche a compiere il passo ultimo: abbandonare quanto ha di più prezioso, per l’uomo, significa abbandonare anche la sua idea di Dio — «Perciò — conclude Eckhart — prego Dio che mi liberi da Dio». Solo nella sua assenza Dio può mostrarsi senza indossare la maschera dell’idolo. E solo così il fondo dell’anima può identificarsi con il fondo di Dio. È il punto estremo in cui l’assoluta trascendenza viene a coincidere con l’assoluta immanenza — l’essere, umano e divino, non è altro da una vita infinita che non conosce soglie, disuguaglianze, gerarchie. Pura luce in cui la conoscenza non è diversa dal tutto che conosce e in cui la parola, non potendo definire nulla di delimitato, sfuma nel silenzio. Da qui il passaggio, per Vannini possibile e necessario, dal nucleo inespresso del Cristianesimo all’Induismo e al Buddismo, a loro volta collegati nel distacco dal proprium e nel ricongiungimento con l’unità divina. Naturalmente è possibile criticare la posizione di Vannini come sincretistica, gnostica e contraddittoria. La massima religiosità appare, in essa, pericolosamente vicina alla massima bestemmia. Ma la sua forza sta proprio nell’assumere e far propria questa contraddizione. Sostenerla in tutta la sua asperità è, per l’autore, l’unico modo di essere religiosi nell’era postreligiosa. O di essere cristiani oltre il cristianesimo.

IL LIBRO Oltre il cristianesimo di Marco Vannini (Bompiani pagg. 320 euro 14)

Repubblica 7.6.13
A Venezia
Una task force Italia/Usa per analizzare Pollock


VENEZIA — Undici opere di Jackson Pollock, conservate alla Collezione Peggy Guggenheim, saranno sottoposte ad approfondite indagini scientifiche. E’ la prima volta al mondo che un numero così nutrito di opere di Pollock diventa oggetto di una ricerca fatta apposta per capirne lo “stato di salute”, così da stabilire un eventuale intervento conservativo. Dalla settimana prossima infatti un team internazionale di esperti sarà a Venezia per partecipare al progetto di ricerca coordinato da Luciano Pensabene Buemi, conservatore della Collezione Guggenheim, e da Carol Stringari, conservatore capo del Guggenheim Museum di New York. Tra i partecipanti alla ricerca ci sono tra gli altri l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e il Cnr. Al lavoro anche i tecnici del laboratorio mobile Molab e del laboratorio di diagnostica di Spoleto.