sabato 12 settembre 2009

l’Unità 12.9.09
La protesta dilaga come un’«Onda»
Da un capo all’altro del Paese sit-in, presidi e volantinaggi contro i tagli della Gelmini. La Flc-Cgil contesta il decreto: «No alla guerra tra i poveri». Scioperi in arrivo alla riapertura
di Maristella Iervasi


La protesta dei docenti precari sta dilangando come un’Onda. Il provvedimento varato nell’ultimo Consiglio dei ministri per 13mila persone è stato rimandato al mittente dai 25mila insegnanti che sono rimasti senza lavoro e stipendio per via dei pesanti tagli all’Istru-
zione: “No ai contratti di disponibilità. No alla guerra tra poveri”. La Flc-Cgil si è incatenata con chi è “rimasto in mutande” sotto il ministero di viale Trastevere. La Gilda dell’insegnante protesterà con un presidio di due giorni in piazza Venezia. E c’è di più. Da Milano alla Sardegna continuano le occupazioni e i sit-in sotto i provveditorati e i governatori regionali. Il tutto mentre oltre sei milioni di studenti tra lunedì e martedì torneranno a scuola. Un avvio scolastico davvero incandescente. L’Unicobas ha indetto uno sciopero per il 9 ottobre. Il sindacato Flc-Cgil potrebbe proclamarlo in seguito.
Chi è già in entrato in classe non l’ha trovata più la stessa. Ha dovuto fare i conti con una scuola devastata dai pesanti tagli al personale: 42.100 insegnanti in meno da subito. Stessa cosa per 15 mila Ata (di cui 10mila bidelli). Una mannaia sull’istruzione lungua un triennio. Il risparmio complessivo a cui Tremonti tiene come l’osso è di 87mila docenti e 44mila Ata. Nei prossimi due anni la scuola perderà altri 20mila docenti e 15mila Ata. E studenti e famiglie proprio in questi giorni stanno toccando con mano l’aria che tira. Il tempo pieno laddovè è sopravvissuto è stato devastato dallo spezzatino orario. Le classi delle superiori si sono trasformate in pollai: affollattissime come non mai e magari anche con più alunni con disabilità.
Alle elementari sono state spazzate via le compresenze per far posto al maestro unico prevalente della Gelmini che solo l’11% delle famiglie italiane ha accolto con favore. E non consolano di certo gli ultimi annunci della ministra unica dell’Istruzione: “pagelle on line e assenze dei figli comunicati ai genitori per sms”.
Caos Il caos e la confusione la fanno da padrone in tutti gli istituti. E il calendario delle mobilitazioni per difendere la scuola pubblica di qualità si mette in moto. A Bologna l’assemblea di genitori e insegnanti ha optato per la “manifestazione infinita”. Si comincerà lunedì con un corteo fin sotto le finestre dell’Ufficio scolastico regionale. Una protesta no-stop per chiedere di riavere le cattedre e le ore di scuola tagliate. All’indomani, la manifestazione dei docenti “tagliati” vestiti da fantasmi sotto le scuole proprio (per il capoluogo emiliano è martedì il primo giorno di scuola), e così di seguito fino alla Notte Bianca dei precari di venerdì 18. A Sassari blocchi volanti del traffico e volantinaggio. Da Venezia a Salerno, fino alla Sicilia si moltiplicano le proteste e i volantinaggi anti-Gelmini. ❖

l’Unità 12.9.09
Al programma di Santoro rischiano anche i contratti dei telecineoperatori «storici»
Calano le azioni di Enrico Mentana alla guida del Tg3. E Di Bella dice: «Voglio restare»
RaiTre, la manifestazione del 19 «congela» il blitz contro Ruffini
«Un clima del genere non si era mai visto», dicono a Rai3. In attesa del blitz con cui la maggioranza vuole rimuovere Paolo Ruffini, «azioni di disturbo» contro Report e Annozero. Ma il dg rassicura: nessuna censura.
di Andrea Carugati


A Rai3 si stanno ormai preparando i sacchi di sabbia, da mettere davanti alle finestre la settimana prossima, quando, così si dice, la manovra berlusconiana per cambiare volto a Rete e Tg prenderà corpo. Non fino a partorire le nuove nomine nel cda di giovedì 17: il presidente Garimberti ha chiesto e, pare, ottenuto, che alla vigilia della manifestazione di piazza del Popolo per la libertà di stampa del 19 non ci siano forzature. E tuttavia la settimana prossima resta decisiva. Il cda di giovedì affronterà il caso Annozero, con molti contratti ancora da firmare, a partire da quello di Marco Travaglio, gli spot promozionali pronti da giorni e mai andati in onda, persino l’estromissione, denuncia la redazione, dei sei telecine-operatori “storici”. Qui, come a Raitre, il clima è molto teso. «No, una partenza di stagione in un clima del genere non si era mai vista..,», sussurra un dirigente. Anche a Report si descrivono come «color che son sospesi». La questione della copertura legale dei giornalisti è ancora aperta, in luglio il Dg Mauro Masi ha reso esplicita l’intenzione di eliminare questa tutela che il gruppo della Gabanelli si era conquistata dopo anni di battaglie. Qui, come da Santoro, nessuno vuole parlare, nessuno osa scandire a voce alta la parola «boicottaggio». Il di-rettore di Raitre Paolo Ruffini è il bersaglio grosso: a lui vengono imputate tutte le trasmissioni “scomode”. Compreso Glob di Enrico Bertolino, che partirà domani, finora unico sopravvissuto certo. «La satira è un ingrediente essenziale di una tv libera e anche irriverente», dice Ruffini, che si gode questo piccolo risultato.
IL BLITZ A FINE SETTEMBRE?
Su di lui le nubi non si sono ancora diradate. Passata la manifestazione, probabilmente nel cda del 24 settembre, la maggioranza si prepara al colpo di mano in cda, cinque contro quattro. Il nome più gettonato per la guida di Rai3 è sempre quello di Gianni Minoli, professionista di livello e con molte amicizie nel centrosinistra. Che avrebbe però un mandato chiaro: ridimensionare nel più breve tempo possibile Fazio e la Dandini, decurtandone le puntate. Il contratto di «Che tempo che fa» per ora sembra destinato ad andare in porto in tempo utile per il 3 ottobre. Con una previsione iniziale di due puntate a settimana.
Dalla direzione generale provano a buttare acqua sul fuoco. «Tutte le trasmissioni partiranno, il palinsesto dell’autunno è già stato votato dal cda». Su Report, assicurano gli uomini del dg Masi, «non ci sono problemi, avrà le tutele degli altri programmi Rai». Affermazione che però non trova riscontro, finora, né in redazione nè tra i dirigenti della Rete. Gli uomini di Masi provano a ridimensionare anche le vicissitudini di Annozero. «Nessuna censura, stiamo solo facendo approfondimenti». E i ritardi? «È cambiato il direttore di rete, e poi c’erano le ferie...». Ma Travaglio spiega: «Di solito mi chiamavano in agosto per il contratto, quest’anno non ho ancora sentito nessuno». «Continue azioni di disturbo», commenta il consigliere in quota Pd Nino Rizzo Nervo. Nervi tesi anche al Tg3: sembra ormai tramontata l’ipotesi Enrico Mentana, che non avrebbe nè l’ok della redazione, nè l’unanimità dei consiglieri Rai, le due condizioni poste quando ha ricevuto la proposta a metà agosto. Antonio Di Bella non molla: in un’intervista in uscita oggi sul Corriere rivendica i risultati raggiunti e fa capire chiaramente di voler restare al suo posto. Molto difficile che Bianca Berlinguer presti il suo nome a una operazione di normalizzazione. Il rebus resta aperto. Anche perché, nonostante i tentativi di Masi di proporre nomi in grado di spaccare il Pd, il clima pre-manifestazione sembra aver compattato i democratici in difesa dei «gemelli» Ruffini e Di Bella. «Non c’è nessun motivo per sostituirli, e le opposizioni fanno bene a non cadere nella trappola, a respingere ogni trattativa sottobanco», li esorta Beppe Giulietti di Articolo 21.

l’Unità 12.9.09
Donne e uomini «pensanti» per rompere il muro del silenzio
«Sono una snob, preferisco la ricchezza culturale allo scambio tra il corpo e la carriera. In Italia domina la filosofia della differenza sessuale: le donne sono simili tra loro, dolci e sensibili. L’«arma» della consapevolezza
di Nicla Vassallo


Da snob mi consento diverse cose, ormai è «facile» si è snob nel confidare nella ricchezza culturale piuttosto che in quella anti-culturale, e/o nel nutrire disinteresse per lo «scambio tra corpo e carriera», e/o nell’esprimersi contro il cinismo. Mi consento di guardare poca Tv orwelliana, sfogliare quotidiani inglesi, indignarmi: è evidente anche a me che le donne (ma non tutte le donne) stiano impiegando ogni risorsa per esibirsi con fare sguaiato, valorizzare un corpo porno–soft (o hard), concepirsi alla stregua di effettivi oggetti sessuali (in quanto oggetti, si vendono e acquistano a «prezzo di mercato»), vivere la propria sessualità in funzione della gratificazione maschile (non di tutti i maschi), agognare denari e successi facili. Già le donne (ma non tutte le donne) aspirano all’uggiosa omogeneità delle letterine, modelle, troniste, veline e, recentemente, escort. Recentemente? Dai tempi di Eva? Senza trascurare che, banalmente, benché spogliarmi sia un mio diritto (si badi bene: non un mio dovere), rimane vero che vi sono nudità e nudità: alcune belle, pure, non strumentali, altre orribilmente pornografizzate.
Il privato si è trasformato in pubblico e il pubblico in privato. C’è privacy e privacy, pubblico e pubblico. Si promuove la lotta contro la violenza sulle donne, ma si promuovono anche le escort. Il denominatore comune: esternare. Eppure rido con Roberto Begnini a radio Rtl: «Parleremo anche di cose leggere, escort, mignotte e ballerine, tutte cose pubbliche. Non vorrei, Silvio, toccare temi privati come la crisi e la disoccupazione». Rido perché Begnini è un comico, e non un comico riciclato in un politico, né un politico camuffato da comico (le troppe gaffe di George Bush non mi facevano affatto ridere). Un riso amaro perché permane il dubbio che tutto questo si connetta (come?) a un vecchio slogan femminista: il privato è politico, è pubblico. Nella nostra presente società, scurrile e volgare, gli interpreti e le interpreti dello slogan ormai eccedono: non vorrei discettare con loro di Kate Millett (chi era costei?), meglio qualche «gossip» sui modelli femminili assoluti della contemporaneità: Victoria Beckhman, Paris Hilton, e via dicendo, quando va bene.
Perché non reagire? Reagire a cosa? Non reagiamo a noi stesse che sbeffeggiamo la democrazia, astenendoci dal votare per la fecondazione assistita, la diagnosi preimpianto, la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Non reagiamo quando gli intellettuali tessono le lodi dell’irrazionalità, col risultano che la dicotomia femmina/maschio, donna/uomo (dicotomia sessista) viene a rafforzarsi nell’immaginario collettivo, con i maschi/uomini che permangono nell’essere giudicati non solo animali umani razionali, ma anche attivi e oggettivi, in opposizione a donne che risultano non solo animali non umani (in quanto oggetti sessuali) ma anche irrazionali, emotive, passive, soggettive. Non reagiamo di fronte ai sinonimi di «uomo» e di «donna» che troviamo nella versione 2007 di Microsoft Office Word. Sinonimi di «uomo»: «essere umano, persona, individuo, genere umano, il prossimo, umanità, gente, maschio, adulto, addetto, operaio, tecnico, giocatore, atleta, soldato, militare, elemento, unità, un tizio, un tale, uno, qualcuno. Sinonimi di «donna»: «femmina,gentil sesso, bel sesso, sesso debole, signora, signorina, donna di servizio, domestica, cameriera, collaboratrice familiare, colf, governante, dama, regina. Manca «escort»: peccato! Il referendum, il fascino dell’irrazionalità, i sinonimi Microsoft appaiono innocui rispetto a «culi, fighe, peni, tette» sbattuti ovunque, oltre che in prima pagina. Apparentemente innocui. Perché se irrazionali, emotive, passive, soggettive, le donne non riescono a nutrire fiducia nelle proprie capacità intellettive, ad aspirare, per merito comprovato, non per «gnoccheria», a posizioni scientifico-culturali di spicco, ove il corpo non debba venir mercificato.
Per di più, prima di reagire in quanto donne, e non in quanto donne e uomini consapevoli nonché pensanti, occorre sollevare qualche semplice domanda: cosa abbiamo in comune noi donne, oltre il sesso d’appartenenza – sempre che con «sesso» ci si riferisca a qualcosa di univoco?; l’appartenenza a un sesso e/o a un genere è «naturale», nel senso che, se sei femmina (o maschio), donna (o uomo), rimani tale per la tua intera esistenza? Sostenendo che tutte le donne appartengono al medesimo sesso femminile e tutti gli uomini al medesimo sesso maschile non risultiamo ciechi nei confronti delle tante differenze che sussistono tra le stesse femmine/ donne e tra gli stessi maschi/uomini, rischiando di sottolineare e condizionare indebitamente comportamenti e competenze declinate al «maschile» e al «femminile»? Perché ingabbiare le nostre individualità, le nostre singole peculiarità?
In Italia domina la cosiddetta filosofia della differenza sessuale, su un piano anche socio–politico e religioso: le donne sono essenzialmente simili, e da ciò ne deriva, volente o nolente, che tutte le donne sono (o debbono essere?), più o meno, dolci, empatiche, sensibili; adatte a compiti di cura, e non a quelli dirigenziali, intellettuali, militari, politici, scientifici; umili e deferenti; poco assertive; fisicamente e psichicamente deboli. E perché non anche necessariamente provocanti, con una nuova ermeneutica inconsapevole del «questo corpo è mio e me lo gestisco io», o forse solo un’estrosa interpretazione del «my body is my own business»? È l’essenzialismo, non solo gli uomini di potere e le loro escort, a trasmetterci, almeno a livello teorico, la convinzione che ciò che è virtuoso nel femminile è patologico nel maschile, e viceversa. È virtuoso l’uomo con le rughe, che si circonda di escort, mentre è patologica la donna con le rughe che si circonda di escort; è virtuoso l’uomo duro, patologica la donna dura fortuna che le realtà ogni tanto smentiscono le fantasie: per esempio, alla fine le rughe di Hillary Clinton hanno prevalso su quelle di John McCain, mentre a capo degli istruttori dell’US Army vi è il sergente maggiore Teresa King. In verità, apparteniamo in modo fluido al mondo, in quanto donne e uomini in carne e ossa; non possiamo esentarci dalle nostre responsabilità individuali, schermandoci dietro la schematicità delle essenze. Responsabilità che concernono anche la preferenza sessuale: desideri, sogni, fantasie, identità, atti, scelte, riconoscimenti privati e pubblici, non invariabilmente eterosessuali, anzi, nonostante l’imperante eterosessismo e la crescente irragionevole omofobia.
Se il silenzio deve essere violato, non potrà, in fondo, esserlo che da donne e uomini, consapevoli e pensanti. La donna non è che pura apparenza, al pari de l’uomo, uno strumento coercitivo per imporre a singoli individui determinati comportamenti, legittimare determinate pratiche e delegittimarne altre. Ruoli culturali, professionali, sessuali e sociali distinti? Se rispondi in senso negativo, non sei una «vera donna» o un «vero uomo»? La disapprovazione contenuta nel «Tu non sei una vera donna» ci interessa sul serio? Le «vere» donne ormai (escort o madonne, che siano, nella vecchia classificazione, non affatto desueta) non risultano, forse, donne solo a causa di desideri sessuali, che corrispondono a quelli che la donna deve avere, donne che frequentano certi palazzi e certi uomini?
Come reagire? Con una comunicazione, fisico-verbale, ove non susanticonformistica, in cui le donne (almeno alcune) travalicano, anche da tempo, lo stereotipo logorato dell’oggetto da assoggettare, consumare. Donne e uomini, consapevoli e pensanti, possono relazionarsi tra loro da veri e propri individui, rispettarsi, per evidenziare le molteplici differenze che corrono tra donne, al di là di quelle insulse omogeneizzazioni che le desiderano comunque silenti. Pur ricordando che anche il silenzio è una forma di comunicazione, rompiamo il silenzio, sì, insieme agli uomini pensanti, seguendo la stupenda mente androgina di Virginia Woolf (chi era costei?) nelle Tre ghinee: «Ci troviamo qui... per porci delle domande. E sono domande molto importanti; e abbiamo pochissimo tempo per trovare la risposta. Le domande che dobbiamo porci... e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse, la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre... È nostro dovere, ora, continuare a pensare... Pensare, pensare, dobbiamo... Non dobbiamo mai smettere di pensare: che “civiltà” è questa in cui ci troviamo a vivere?». Difficile accusare Virginia Woolf e la sottoscritta di bigottaggine; per quanto mi riguarda, sono solo una vecchia signora posata, di quarantasei anni, che cerca di adempiere al proprio dovere. ❖

l’Unità 12.9.09
Immagini sul regime rubate col telefono
Lo scioccante film denuncia di Hana Makhmalbaf mostra la repressione e le torture dellla dittatura di Ahmadinejad
di Ga. G.


Le donne in Iran sono come le molle: più le costringi e più salteranno in alto». Col capo coperto dal velo, ma verde, colore della protesta iraniana, è arrivata ieri alla Mostra Hana Makhmalbaf, la più giovane della celebre famiglia di cineasti «capeggiata» dal papà Mohsen. Fuori concorso ha presentato Green Day, scioccante documentario sulla repressione del regime di Teheran all’indomani del golpe che ha riportato al potere Ahmadinejad, nonostante i voti schiaccianti in favore del suo oppositore Mousavi. Girato in «clandestinità» e con molti video «rubati» col telefonino, il film ci porta attraverso l’entusiasmo della campagna elettorale le strade ingorgate di auto, come da noi dopo le partite, con i sostenitori di Mousavi e poi attraverso l’orrore della repressione. Il corpo di Neda sanguinante, le bastonate dei poliziotti, le torture. «Sono 11mila le persone imprigionate e violentate nelle carceri del mio paese», denuncia Hana. Gli stupri sono l’aspetto meno noto all’Occidente della violenza del regime. «Negli ultimi 4 anni prosegue la regista ventenne la vita di tutti noi è peggiorata. Siamo costretti ai sotterranei: l’arte, il cinema, la musica, tutto è sotterraneo perché la censura non permette più nulla. Il mio popolo è in ostaggio. Io sono in ostaggio». Eppure, proprio come l’altro giorno ha testimoniato Shirin Neshat, la voglia di lottare degli iraniani è inarrestabile. Come dimostra la massiccia presenza di registi iraniani a questa Mostra. Ultimi, un gruppo di giovanissimi filmaker di Teheran che hanno presentato i loro corti di denuncia alle Giornate degli autori.
«Ogni uomo è un esercito, ognuno di noi è ambasciatore spiega la combattiva Hana -. Ed io col mio cinema sono testimone. Io sono lo specchio del mio paese che non smette di lottare. Così com’è stato per Hitler e Saddam, il destino di ogni fascismo è segnato, non durerà in eterno». E anche per le donne sarà lo stesso. «Noi abbiamo subito tanto, il doppio degli uomini ed è per questo che oggi la protesta è donna. Col nostro manifestare vogliamo portare pace e democrazia». Per questo, conclude, «vogliamo che l’Occidente non appoggi Ahmadinejad. Al resto pensiamo noi: il nostro destino è nelle nostre mani, siamo un popolo che combatte da 30 anni per la libertà».❖

il Riformista 12.9.09
I "Green Days" di Hana
Nuova onda verde al Lido Fuori Concorso. Applausi per la figlia più giovane della factory del regista Makhmalbaf. Un "documento audiovisivo" girato in digitale, in pochi giorni, dal valore politico importante. "Per la causa" questa e altre iniziative.
di Anna Maria Pasetti



«L'ottanta per cento degli iraniani vuole cambiare. E a tutti i costi. Per questo il Movimento Verde sta rafforzandosi come linfa vitale per portare libertà e democrazia nel nostro Paese. Abbiamo bisogno della costante attenzione da parte di tutto il mondo. Ben vengano i social network e ogni mezzo possibile». Siba Shakib, scrittrice e attivista iraniana che vive tra New York, Italia e Dubai, poliglotta, possiede la calma di una che sa perfettamente di cosa sta parlando. «Non è un'utopia, ma il cambiamento può realmente avvenire. E avverrà».
Lei è al Lido in qualità di migliore amica della regista Shirin Neshat, qui in corsa con Donne senza uomini, ma anche per cercare coproduttori al suo film d'esordio. «È tratto - spiega - dal mio ultimo libro Samira & Samir (uscito in Italia per Piemme, La bambina che non esiste, ndr). Per ora abbiamo ricevuto i fondi per la sceneggiatura, trovato le location in Marocco, dove ha girato anche Shirin non potendo girare a Teheran, e il produttore principale, la società tedesca Gemini».
La signora Shakib, incontro fortunato durante gli ultimi giorni della Mostra, rappresenta un'ulteriore conferma di quanto l'Onda Verde abbia utilmente invaso la 66ma edizione.
Accanto a Donne senza uomini, diversi i film iraniani in cartellone: Tehroun di Takmil Homayoun Nader, Chaleh di Alim Karim - entrambi in Settimana della Critica -, Sokoote beine do fekr (Silenzio tra due pensieri) di Babak Payami inserito nel palinsesto di cinema e diritti umani ma soprattutto, applauditissimo ieri fuori concorso, il nuovo lavoro di Hana Makhmalbaf, Green Days. La più giovane della prodigiosa factory di papà Mohsen (è del 1988 e ha girato il suo primo film a soli 9 anni) non poteva scegliere titolo più pertinente per il suo appassionato racconto.
Girato in agile digitale e pochi giorni, è più un documento audiovisivo che un reportage, facendosi portavoce di un evento che raccolse allo stadio della capitale decine di migliaia di persone durante le ultime settimane di campagna elettorale per Mir-Hussein Moussavi. Hana, mostra la sua protagonista alterego Ava in tre situazioni che alterna durante l'intero film: nella veste di intervistatrice presso la folla mentre si reca a o ritorna dall'evento, nel ruolo di regista teatrale in cui dirige tre ragazze avvolte di nero e con la bocca sigillata da nastro adesivo, e infine nella rappresentazione di un sé solitario in preda alla depressione e alla delusione. La sua voce, narrante, è di dolore e si volge alla città come se fosse un amante: «Teheran tu sei le mie lacrime. Teheran tu eri la mia speranza, oggi tu sei sofferenza. Teheran però io ti amo».
La Makhmalbaf si chiede in continuazione se e fino a che punto anche il voto a Moussavi - prima dello scandalo elettorale perpetrato da Ahmadinejad - può cambiare la situazione del suo Paese. E lo chiede a giovani dipinti e abbigliati di verde, tifo da stadio, volti illuminati. «Lui ci cambierà, Ahmadinejad è un assassino», rispondono alcuni. Ma altri, meno fiduciosi di lei, temono che «alla fine si tratta solo di votare il meno peggio. Perché è sempre un regime che ci fa relativamente scegliere, non in maniera assoluta». Non di grandissimo valore artistico, il filmato di Hana esprime il dovere e il sentire di una giovane iraniana costretta a vivere fuori confine (a Londra) come tutti gli artisti iraniani, «criminali» secondo il regime.
E «per la causa» - come amano chiamarla qui al Lido - oltre ai film numerose sono state le iniziative organizzate. L'Ente dello Spettacolo, per volontà del presidente Dario E. Viganò, insieme all'Ass. Interfilm e all'Ass. Protestante Cinema di Roberto Sbaffi hanno dato vita al focus sull'Iran Storie di dignità umana e cinema, presenti alcuni registi qui in Mostra. Presso lo spazio delle Giornate degli Autori si è tenuta una serata dedicata ai corti iraniani intitolata Where is my vote? voluta dal giornalista Camillo De Marco. Cinque i cortometraggi presentati: brevi ma sostanziali contributi cinematografici contro chi vuole mettere gli artisti a tacere. E ieri sera, per chiudere in bellezza, lo splendido concerto di Mohsen Namjoo Echoes of Iran ideato da Fabrica e Cinecittà Luce. Applausi per una speranza che resistendo si fa sempre più azione.

Repubblica 12.9.09
Le dieci nenzogne
di Giuseppe D’Avanzo


Dice che solo in tv l´informazione è buona. Però è stato proprio a "Porta a Porta" che è iniziato il suo rosario di bugie e contraddizioni

Dice l´Egoarca che è stufo e replicherà «colpo su colpo». Dice, e sembra una sfida: «Venitemi a dire che non rispondo alle domande, siano quelle di Repubblica o di El Paìs». Più che rispondere, Silvio Berlusconi sfoggia – non è una novità, è la magia che gli riesce meglio – una sapienza stupefacente nell´uso della menzogna che manovra in ogni direzione. Ora nasconde la verità, ora la inventa di sana pianta, ora la nega contro ogni evidenza, ora la deforma secondo convenienza. Se si analizzano i nove minuti della perfomance autistica e autocelebrativa della Maddalena, dinanzi uno Zapatero sgomento, salta fuori un catalogo di dieci menzogne (e una sorprendente verità che gli sfugge inconsapevolmente).
1. La prima menzogna. L´Egoarca non risponde alle domande di Repubblica. Ne dimentica alcune. Due soprattutto suggerite dall´allarme della donna che lo conosce meglio, la moglie. Veronica Lario dice che Berlusconi «frequenta minorenni» e «non sta bene». Il capo del governo si tiene lontano da terreni che devono apparirgli minati. È stato documentato che ha frequentato due minorenni (Noemi e Roberta), invitate a Villa Certosa, senza i genitori nei giorni di Capodanno 2009.
Noemi Letizia, minorenne, lo ha accompagnato a una cena del governo. C´è altro? Silenzio. Berlusconi non osa affrontare la questione della sempre più evidente sexual addiction che lo costringe a una vita sconveniente e pericolosa.
2. Berlusconi nega che nelle sue residenze ci siano «feste e festini». Dice che, come leader del suo partito, «fa una serie di incontri con i rappresentanti e le rappresentanti di organizzazioni politiche, come i circoli "Meno male che Silvio c´è"». È una bugia. Da quel che è stato documentato dall´indagine di Bari, dalle testimonianze di Tarantini e di alcune "ospiti" retribuite, gli appuntamenti notturni del premier non prevedono né discussione politiche (si parla soltanto dei successi dell´Egoarca, se ne ammirano gli interventi in giro per il mondo, si ride della sue barzellette) né la partecipazione di comitati di fans. Un cerchio stretto di ruffiani e ruffiane invita a Palazzo o in Villa ragazze ambiziose o professioniste del sesso che accettano di passare la notte con il presidente.
3. Dice l´Egoarca: «Non è vero che ho candidato "veline". Abbiamo fatto un corso per giovani laureate che volevano diventare assistenti di eurodeputati e ne abbiamo individuate tre con grandi capacità». È una menzogna. Il "corso" è stato organizzato per preparare candidati e candidate al Parlamento di Strasburgo, come hanno confermato nel tempo i ministri che vi hanno preso parte come docenti. È stato un corso di formazione dove la presenza di "veline" era così appariscente da essere raccontata con molti particolari dai giornali (ohibò!) della destra. Il primo quotidiano che dà conto della candidatura di una "velina" alle elezioni europee è il Giornale della famiglia Berlusconi. Il 31 marzo, a pagina 12 si legge che «Barbara Matera punta a un seggio europeo». «Soubrette, già "Letterata" del Chiambretti c´è, poi "Letteronza" della Gialappa´s, quindi annunciatrice Rai e attrice della fiction Carabinieri», la Matera, scrive il Giornale, «ha voluto smentire i luoghi comuni sui giovani che non si applicano e non si impegnano. "Dicono che i ragazzi perdino tempo. Non è vero: io per esempio studio molto"». «E si vede», commenta il giornale di casa Berlusconi. Il secondo giornale che svela «la carta segreta che il Cavaliere è pronto a giocare» è Libero, il 22 aprile. A pagina 12, le rivelazioni: «Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore» è il titolo. «Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl» è il sommario. I nomi della candidate che si leggono nella cronaca di Libero sono: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e «una misteriosa signorina» lituana, Giada Martirosianaite. Sono questi nomi, questi metodi a sollevare le critiche della fondazione Farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini. La politologa Silvia Ventura avverte che «il "velinismo" non serve: assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto da fare. Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole». «Ciarpame senza pudore», aggiunge Veronica Lario.
4. Dice l´Egoarca: «[Con Patrizia D´Addario] mi sono comportato come si deve comportare secondo me ogni padrone di casa». Quel che si sa del primo incontro di Berlusconi smentisce la correttezza di un padrone di casa consapevole di avere accanto una prostituta. «Che Patrizia fosse una escort, quella sera, lo sapevano tutti», dice Barbara Montereale, anche lei ingaggiata dal ruffiano del presidente, Gianpaolo Tarantini. C´è una traccia della consapevolezza del presidente. L´Egoarca "stropiccia" subito Patrizia D´Addario seduta accanto a lui sul divano, dinanzi agli uomini della sua scorta. Nel primo incontro, le propone di visitare la camera da letto in compagnia di altre due ragazze. La sollecita a entrare nel «lettone di Putin». La D´Addario rifiuta.
5. Dice l´Egoarca: «Nella patria di Casanova e dei playboy, la gioia più bella è la conquista. Se tu paghi che gioia ci potrebbe essere?». È una menzogna. Come Barbara Montereale, la D´Addario è stata ricompensata con una candidatura politica (doveva entrare nelle liste Europee, ottenne poi uno spazio per le elezioni comunali di Bari). Alla D´Addario Berlusconi promise anche un intervento politico per sistemare un affare edilizio. Corrispettivi dello scambio sesso-potere. Quando si alleggeriranno le pressioni corruttive e le intimidazioni sulle ragazze, anche straniere, ospiti di Villa Certosa (e immortalate dalle immagini di Zappadu) si potrà forse riferire quello che alcune testimoni hanno raccontato: e cioè come Berlusconi distribuisse egli stesso alle falene le buste con il denaro. Si potrà dire della regola imposta come assoluta di non parlare «mai, mai» con le altre ragazze del denaro ricevuto perché in quelle buste il numero delle banconote non era sempre uguale, duemila, cinquemila, diecimila euro. Il "sultano" premiava la performance, a quanto pare.
6. Dice Berlusconi: «Un imprenditore di Bari, Tarantino o Tarantini, era venuto ad alcune cene facendosi accompagnare da belle donne. Erano ragazze che questo signore portava come amiche sue, come sue conoscenti». È stupefacente che il capo del governo finga di non ricordare il nome del suo ruffiano e banalizzi ora un´intensa amicizia. Le intercettazioni delle loro conversazioni – e soprattutto la loro frequenza – contraddicono le sue parole. Tarantini e Berlusconi si sentivano anche dieci volte al giorno e nei brogliacci della procura della Repubblica ci sono decine e decine di telefonate. Nessun reato, dice ora il procuratore di Bari. In ogni caso, lo scambio tra il presidente del consiglio e il suo ruffiano è chiaro: l´Egoarca chiede «belle donne», Tarantini (pagandole) gliele procura. In cambio, il ruffiano conta sull´influenza del premier per concludere affari. Forse non c´è reato, ma il baratto può dirsi limpido per la rispettabilità delle istituzioni e neutro per la gestione della cosa pubblica?
7. La settima menzogna custodisce una singolare verità. Dice Berlusconi: «Io sono stato vittima di un attacco di una persona [la D´Addario] che ha voluto creare artatamente uno scandalo». L´Egoarca non si rende conto di confermare una delle questioni più rilevanti di questo caso: la sua vulnerabilità. Una vita disordinata e sconveniente per il decoro e l´onore della responsabilità pubblica che ricopre lo ha reso fragile, ricattabile. È falso che la D´Addario lo abbia ricattato (ha solo risposto a un pubblico ministero che la interrogava offrendo documenti sonori che da sempre maniacalmente raccoglie in ogni occasione). È vero che Berlusconi sia ricattabile. Quante sono le ragazze che possono minacciarlo? Il via vai di prostitute a Palazzo Grazioli, le cene, le feste, il sesso, le orge, le sue abitudini di vita e il veleno della satiriasi espongono con tutta evidenza Silvio Berlusconi a pressioni e tensioni che nessuno è in grado oggi di immaginare.
8. Dice l´Egoarca: «L´informazione buona è la tv». L´informazione televisiva, controllata direttamente o indirettamente dal capo del governo, è stata pessima. Si è trasformata in una "macchina del silenzio" che ha negato a sette italiani su dieci le notizie più elementari e comprensibili di un "caso" che ha screditato e scredita in tutto il mondo il presidente del consiglio e, con lui, il nostro Paese. E tuttavia è stata proprio la televisione a fargli lo scherzo più maligno. A maggio l´Egoarca va a Porta a porta per spiegare "veline" e Noemi. Infila un rosario di bugie e contraddizioni che, dopo mesi, ancora lo soffocano. Quando si accorge dell´errore, ritorna davanti alla telecamere per dire un´altra bubbola strabiliante: «Non ho detto niente».
9. Berlusconi dice: «Non c´è alcuno scontro con la Chiesa». La menzogna è contraddetta dall´impossibilità oggi per Berlusconi di incontrare il Papa, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, il presidente dei vescovi italiani Angelo Bagnasco. Una difficoltà acutizzata dal character assassination del direttore dell´Avvenire, Dino Boffo (accusato dal giornale del premier di omosessualità con un falso documento giudiziario). Le parole più severe contro Berlusconi sono state pronunciate dal segretario generale della Cei, il vescovo Mariano Crociata: «Assistiamo a un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati. Soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio». Buoni rapporti?
10. Dice Berlusconi: «Credo di essere di gran lunga il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni». Bè, questa è davvero la menzogna più grossa.

Repubblica 12.9.09
La prova del danno
di Massimo Giannini


Silvio Berlusconi, con l´incredibile show della Maddalena, è incappato nel primo, serio incidente internazionale del suo «premierato da combattimento». L´evocazione dei fantasmi che lo ossessionano -le escort, le inchieste giornalistiche e le indagini giudiziarie- gli costa la «sanzione» politica di un governo europeo.
Quella mezz´ora di soliloquio forsennato durante la conferenza stampa con il premier spagnolo - fuori da tutti gli schemi, le regole, le convenzioni, il buon senso e il decoro istituzionale - segna un punto di svolta non solo nel già deteriorato discorso pubblico italiano. Ma anche sul piano più delicato delle relazioni diplomatiche internazionali. Di fronte alle intemerate del Cavaliere – tra «il fascino della conquista» e le prestazioni sessuali mai pagate, tra l´autoelogio sul più grande statista degli ultimi 150 anni e l´attacco frontale non più solo a Repubblica e all´Unità ma stavolta anche al Pais – l´attonito Zapatero ha taciuto. Ha taciuto nel durante, e ha taciuto anche nelle ore successive. È evidente che quel silenzio imbarazzato, soprattutto al cospetto di una minaccia inaudita nei confronti di un grande giornale spagnolo, ha destato indignazione e malumore anche a Madrid.
Questo spiega perché, il giorno dopo, il primo ministro spagnolo ha sentito il bisogno di tornare sul caso, anche per ragioni di convenienza interna: «coprirsi» dalle critiche della sua opinione pubblica, della sua comunità politica e di tutta la libera stampa del suo Paese. Ma le parole di Zapatero, ponderate e pesate fino alla virgola e pronunciate davanti al «collega» francese Sarkozy, gravano come macigni sulla coscienza (o sull´incoscienza) del premier italiano. Proviamo a rileggerle: «Se mantengo il silenzio è per un segno di rispetto e di cortesia istituzionale che mi impone una certa prudenza. Tutti conoscono la mia opinione sull´uguaglianza tra uomo e donna, ma tra governi abbiamo buone relazioni, abbiamo progetti comuni. Sono incontri istituzionali e dunque io rispetto sempre questi incontri e il ruolo che dobbiamo mantenere»,
L´esegesi del testo è inequivoca. Zapatero, implicitamente, opera una distinzione netta nella valutazione su Berlusconi come capo di governo e sul Paese che il Cavaliere rappresenta. Ciò che pensa il premier spagnolo su quello italiano è chiarissimo: «Tutti conoscono la mia opinione sull´uguaglianza tra uomo e donna». Come dire: la sexual addiction del nostro presidente del Consiglio, e le logiche di scambio politico che la regolano, sono esecrabili e intollerabili. Ma Zapatero preferisce non parlarne pubblicamente, come preferisce non commentare gli anatemi contro il Pais, solo perché – in virtù di quella «scissione» nel giudizio - rispetta l´Italia che è partner della Spagna, come degli altri Paesi europei, in diversi «progetti comuni».
Il filo di questo ragionamento porta irrimediabilmente a una doppia, semplicissima conclusione, che conferma ciò che Repubblica sostiene da tempo. Primo: il premier è ormai drammaticamente «vulnerabile», e sistematicamente esposto al rischio di queste performance, poiché dovunque vada e con chiunque si incontri, anche oltre confine, inciampa in domande ineludibili (ancorché prive di risposte credibili) sui suoi scandali pubblico-privati. Secondo: per continuare a rispettare l´immagine del nostro Paese, le altre cancellerie d´Europa si sentono doverosamente e responsabilmente obbligate a differenziarla da quella dell´uomo che lo governa. È la prova che Berlusconi è ormai palesemente un «danno» per l´Italia. All´estero lo hanno capito quasi tutti. Prima o poi, probabilmente, lo capiranno anche gli italiani.
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 12.9.09
Barzellette a mezzo stampa
di Giovanni Valentini


La megalomania dei giornalisti è quasi sopportabile nella sua ingenuità.
(da "È la stampa, bellezza!" di Giorgio Bocca – Feltrinelli, 2008 – pag. 75 )

Per il nostro beneamato presidente del Consiglio, dunque, è una "barzelletta" che la libertà di stampa sia a rischio in Italia. E per di più, una barzelletta di marca "cattocomunista". Ma visto che Silvio Berlusconi si ostina a non rispondere alle domande che, insieme a Repubblica, gli rivolge ormai la gran parte della stampa internazionale, proviamo a raccontarla noi qualche barzelletta di marca liberal-populista sullo stato dell´informazione nel nostro Paese.
La sapete quella del capo di governo che, caso unico al mondo, si rilascia e si rinnova da solo le concessioni televisive; si assenta dal Consiglio dei ministri al momento della decisione formale, per andare a prendere un caffè o a far pipì; stabilisce il relativo canone da corrispondere all´erario e così paga appena l´1% del fatturato della sua azienda, cioè un obolo di 24 milioni di euro all´anno, due al mese, per realizzare in totale un maxi-incasso annuale di 2,4 miliardi?
E la sapete quella del premier-tycoon, azionista di riferimento di Mediaset, che con tre reti tv registra il 40,5% degli ascolti contro il 41,8 della Rai, ma raccoglie e trasmette quasi il doppio di pubblicità, vale a dire il 55,2% contro il 28,9?
E quell´altra del presidente del Consiglio che, attraverso la sua maggioranza parlamentare, nomina la maggioranza del consiglio di amministrazione della Rai; attraverso il suo ministro del Tesoro, nomina direttore generale l´ex segretario generale di palazzo Chigi; e attraverso di loro, nomina di fatto i direttori di rete e di testata?
O quell´altra ancora del capo di governo che, per contrastare la concorrenza della pay-tv, prima raddoppia l´Iva sugli abbonamenti a Sky e poi impone ai telespettatori italiani un nuovo decoder satellitare da cento euro al pezzo?
E infine, barzelletta per barzelletta, la sapete quella del duopolio televisivo Rai-Mediaset che – sotto l´egida dello stesso presidente del Consiglio - detiene un´audience complessiva pari all´83,9%, rastrellando in questo modo più risorse pubblicitarie di tutta la carta stampata, al contrario di quello che avviene nel resto dell´Occidente, dall´Europa fino agli Stati Uniti d´America?
Se non vi siete ancora sbellicati abbastanza, provate a indovinare chi accusa Repubblica di essere un "super-partito". Ma perbacco: sono proprio gli esimi colleghi che lavorano nei quotidiani, nei settimanali e nelle televisioni che appartengono allo stesso leader del partito-azienda o alla sua famiglia. Tra cui, in prima linea, quelli del giornale-fratello che Berlusconi Silvio fu costretto a cedere – si fa per dire - a Berlusconi Paolo, in forza della normativa anti-trust contenuta nella legge Mammì, giornale da cui oggi il presidente del Consiglio sente il bisogno di dissociarsi o prendere le distanze un giorno sì e l´altro pure.
E di fronte a tutto questo, il premier-editore ha l´improntitudine di proclamare che, testualmente, il 90% della stampa italiana è in mano ai comunisti e ai cattocomunisti: a parte il nostro, quindi, anche giornali come il Corriere della Sera che è del Gruppo Rizzoli, controllato oggi da una finanziaria di cui fanno parte Gemina (famiglia Agnelli) e Mediobanca; Il Sole 24 Ore (Confindustria); La Stampa (Fiat); Il Messaggero, Il Mattino e Il Gazzettino (Gruppo Caltagirone); Il Giorno, Il Resto del Carlino e La Nazione (Gruppo Riffeser), senza citare qui tutte le testate regionali e locali che fanno capo ad altri imprenditori, né comunisti né cattocomunisti.
Se l´informazione dunque è a rischio oggi in Italia, non è soltanto per le querele o le citazioni civili per diffamazione a mezzo stampa, annunciate a scopo dimostrativo e intimidatorio dai legali di Berlusconi; per l´attacco mediatico che ha provocato le traumatiche dimissioni di Dino Boffo dalla direzione dell´Avvenire, il cattoquotidiano della Conferenza episcopale; o per l´assalto finale alla "riserva indiana" di Rai Tre. Tutte ragioni serie e rispettabili, più che sufficienti per giustificare la manifestazione di protesta indetta dal sindacato dei giornalisti per il 19 settembre a Roma.
Ma la libertà di stampa era già a rischio da tempo in Italia e per cause strutturali, croniche, per così dire ambientali. Cioè per ragioni di fondo che attengono propriamente al mercato, al pluralismo e alla libera concorrenza: a cominciare dal fatto che, secondo il Censis, il 70% della popolazione e oltre dipende dalla tv. In realtà, è l´intero sistema dell´informazione a rischio, per effetto della concentrazione televisiva e pubblicitaria; del mostruoso conflitto d´interessi che grava sul presidente del Consiglio; della crisi congiunturale e quindi della precarietà degli stessi assetti proprietari e degli organici redazionali. E si tratta di un´emergenza nazionale da cui dipendono in larga misura la formazione dell´opinione pubblica, l´aggregazione e la raccolta del consenso politico, la salute della nostra democrazia economica, il grado di benessere sociale, il confronto e la convivenza civile.
Queste, purtroppo, non sono barzellette. E comunque, non fanno ridere.
(sabatorepubblica.it)

il Riformista 12.9.09
Ma il Pdl può permettersi uno come Fini?
Il contagio che può dissolvere il Pdl
di Peppino Caldarola


Rischi. La mappa del potere interno al partito racconta di divisioni profonde, ma la sua struttura non prevede uno scontro politico come quello in corso. La leadership assoluta può accettare il dissenso, la fronda, persino la congiura, non può però sopportare l'alternativa culturale.

Il Pd è stato logorato da una leadership eccessiva che voleva abolire le sezioni, i militanti e i congressi. Il PdL rischia di farsi male per la ragione opposta, perché il partito accetta solo una leadership esagerata e mal sopporta il dualismo. Il problema Fini è tutto qui. E ha un nome preciso, molto in voga di questi tempi: "contagio". Se il metodo Fini dilagasse che cosa resterebbe in piedi del Pdl? Ovvero il Pdl può permettersi il lusso di riconoscere ad un suo leader lo statuto di oppositore permanente?
Lo sconcerto che accompagna ogni esternazione del presidente della Camera rimanda a questa paura di fondo: se si mette in discussione la leadership si indebolisce il progetto politico.
Berlusconi ha abituato il suo mondo a vivere in un fortino assediato. In verità è ben più che un fortino, è un vero castello operoso in cui vive molta gente, con una variegata divisione dei compiti, con una gerarchia riconosciuta, i suoi sacerdoti, un apparato culturale e uno militare (penso, in entrambi i casi, ai giornali e alla tv) e un popolo disposto a combattere all'ultimo sangue ogni volta che sente l'aria della battaglia finale. È un partito moderno che ha riciclato tutta la plastica delle origini. Nel castello ogni dignitario ha una sua corte di seguaci. C'è l'algido Tremonti, odiato e temuto guardiano della cassaforte, ci sono i ministri laici e quelli che cercano sponde nella Cei, la massoneria sta come a casa propria, ci sono i nuovi capi (anche di sesso femminile) selezionati avventurosamente e uno per uno dal grande leader che si stanno mettendo in proprio, ci sono quelli che in periferia prendono i voti. C'è tutta quanta la destra italiana.
È un mondo immenso che ha preso coraggio, che combatte nella società, che spera di far fortuna grazie ai nuovi potenti, che sogna ricchezza e successo, che odia la sinistra, che esibisce i suoi giornali di combattimento come i militanti del Pci esibivano l'Unità. È un mondo di interessi e di passioni. È un mondo vero. Questo mondo fa capo a Silvio Berlusconi. Mentre tutti noi, iene dattilografe, ci esercitiamo sul dopo-Berlusconi, lui riceve il tributo quotidiano da questo suo mondo di fedeli. All'improvviso spunta Fini. È un politico di razza che ha tirato fuori dalle catacombe la destra storica e che adesso vuole dargli un nuovo profilo culturale. Dice cose ragionevoli di destra che eccitano la sinistra e deprimono i suoi compagni di partito. Perché lo fa è oggetto di discussione. Se ha ambizioni fa bene ad averle, se vuole trovare un nuova visibilità ripercorre altre carriere. Tuttavia lo fa, con tenacia e con cattiveria. L'invincibile armata mediatica del Cavaliere lo sottopone ad un massacro pressocchè quotidiano, i militanti si interrogano su quale sia il suo disegno, i suoi ex compagni di partito si sono dati alla fuga, in tanti gli chiedono di fermarsi o di sparire via ma lui va avanti imperterrito.
Molti si chiedono se questo Fini sia ancora un leader della destra o se non stia pensando ad altre avventure politiche. La mia idea, che ho già raccontato su queste colonne, è che Fini è di destra ma che stia costruendo il profilo di una leadership diversa pronta per il giorno della successione. È lui l'uomo pubblico più popolare dopo Berlusconi, ha mostrato di avere la schiena dritta, si è tolto la cattiva fama del politico pigro e scarsamente combattivo. Quando Berlusconi cederà il passo, Fini avrà tutti i titoli per fare un passo avanti. I malumori che accolgono oggi le sue intemerate saranno altrettanti titoli di merito.
Ma, è questa la domanda, il Pdl può permettersi uno come Fini? Il problema non è il partito plebiscitario che ha un capo solo e mal sopporta dualismi. Il problema è che il Pdl è il primo tentativo vero di trasformare in un partito l'enorme e moderno aggregato elettorale della destra. Questa trasformazione si regge su un allargamento senza precedenti dei confini (nel Pdl l'assemblaggio di culture diverse andrebbe indagato perché è una cosa seria e profonda), su un forte radicamento sociale, su una classe dirigente locale diffusa che da un quindicennio fa l'esperienza di governo, su un ceto dirigente nazionale accuratamente selezionato.
Fini contesta la leadership nelle sue scelte, ma soprattutto lo fa con parole spesso sprezzanti alludendo ad un'altra visione del mondo. In un partito tradizionale la questione si risolverebbe in un congresso. Il Pdl non può farlo. La lenta costruzione di questa formazione politica di massa non prevede la democrazia. Ovvero non prevede la democrazia classica, quella delle maggioranze e delle minoranze. In verità non la prevede neppure Fini che si guarda bene dal chiedere verifiche congressuali e si accontenta di fare l'oppositore solitario. Ma se il contagio Fini dilagasse, l'intero Pdl rischierebbe di esplodere.
Quanti casi Fini potrebbe tollerare la periferia del partito? La mappa del potere interno al Pdl racconta di divisioni profonde - appena poche settimane fa si è parlato addirittura della minaccia di un partito del Sud - ma la struttura del partito non prevede uno scontro politico fondato su alternative culturali. Tutto va dentro il cappello del berlusconismo. Se qualcuno vuole metterci un altro cappello, il progetto va per aria. La leadership assoluta può accettare il dissenso, la fronda, persino la congiura, non può sopportare l'alternativa culturale. Se la "sindrome Fini" diventa una pandemia, non c'è vaccino per il Pdl.


Repubblica 12.9.09
"La vita ai tempi del comunismo", le testimonianze raccolte da Peter Molloy
Come si viveva all’ombra del Muro
di Vanna Vannuccini


Vent’anni fa cadeva il Muro e milioni di persone che avevano vissuto dietro una cortina di ferro da un giorno all'altro cambiarono radicalmente vita. Cos'era stata la vita nei paesi del blocco sovietico nessuno lo ricorda ve ramente più, un po' perché ognuno ha bisogno di continuità, un po' perché i ricordi non riguardano la sfera politica ma la vita normale, quella "vita giusta in un sistema sbagliato" che oggi tutti rivendicano. Tanto più che la libertà, arrivando insieme alla disoccupazione e al crollo economico, ha obbligato anche i critici del socialismo a scoprire che nemmeno il capitalismo era un sistema perfetto.
Sebbene non siano lontani, gli anni sono stati ormai inghiottiti dalla storia. Peter Molloy ha fatto un magnifico lavoro raccogliendo storie di vita in tre paesi del blocco comunista molto diversi tra loro: la Ddr, la Romania e la Cecoslovacchia. La grande varietà di testimonianze ci dà una panoramica ampia e dettagliata della vita ai tempi del comunismo. Ci sono le testimonianze di politici come Günter Schabowski, che racconta i disperati tentativi della leadership di Berlino est di salvare la Ddr dopo lo smantellamento della frontiera tra Ungheria e Austria e il no di Gorbaciov a richiamare all'ordine il governo ungherese. Quelle di uomini di chiesa come il pastore Rainer Eppelmann, figlio di un ufficiale delle SS che aveva lavorato nel campo di Buchenwald e per questa ragione aveva rifiutato di prestare giuramento militare nella Ddr, che organizzava concerti blues nella sua parrocchia a Berlino frequentata da giovani di tutto il paese che lì discutevano di problemi dell'ambiente e di diritti umani. Dopo la caduta del Muro Eppelman scoprì che sei delle sette persone che avevano partecipato alla riunione nel suo studio per decidere della prima messa blues erano collaboratori della Stasi.
Molloy ha ritrovato persone la cui vita era stata sconvolta da un semplice gesto imprudente di critica al regime; giovani idealisti convinti per il bene del Paese a lavorare per la polizia segreta fino a commettere omicidi. Oppure il generale Jon Pacepa, capo della residenza presidenziale di Ceaucescu che nel 1978 organizzò le visite del leader rumeno (allora molto apprezzato in Occidente perché prendeva le distanze dall'Unione Sovietica) a Buckingham Palace e alla Casa Bianca. E poi scappò in America, dove la Cia passò tre anni a interrogarlo. C'è anche un capitolo sul sesso nel mondo socialista, con un'interessante intervista a Kurt Starke, il più noto sessuologo della Germania est. Contrariamente al rigore puritano di altri paesi comunisti, la Ddr incoraggiava un atteggiamento libero nei confronti del sesso e dell'emancipazione sessuale femminile, e nelle scuole veniva proiettato un documentario del Museo dell'Igiene di Dresda sul come incrementare il piacere sessuale nella donna. «Allora la gente aveva voglia di sesso e di erotismo» racconta Heidi Wittwer, la prima spogliarellista a Lipsia. «Adesso quel desiderio si è affievolito, gli spogliarelli sono diventati roba di tutti i giorni».

Repubblica 12.9.09
L´iniziativa/ "Il Caffè Filosofico"
La filosofia dei Maestri
di Dario Pappalardo


I classici del pensiero, da Platone a Derrida, raccontati in una serie di conversazioni in dvd dagli studiosi di oggi
Incompresa a scuola, riscoperta nelle università, ora riaccende l´interesse del pubblico

O la si ama o la si teme. La filosofia non conosce mezze misure. Incompresa a scuola, riscoperta nelle università, oggi riaccende l´interesse delle folle nei festival, svetta nelle classifiche grazie a libri che condensano o semplificano il pensiero dei grandi, viene ospitata in tv. Da più di 2.600 anni, tenta di dare risposte alle eterne domande. Ma, soprattutto, permette di fermarsi un attimo a pensare. La nuova iniziativa di Repubblica e L´espresso, "Il Caffè Filosofico - La filosofia raccontata dai filosofi", mira ad essere proprio questo: un´occasione di riflessione. Lo spunto è offerto dai sedici dvd della collana. Sedici videoconversazioni con altrettanti esperti del pensiero, che ripercorrono la storia della filosofia: dai presocatrici a Derrida, passando per Platone, Aristotele, Sant´Agostino, San Tommaso d´Aquino, Kant, Nietzsche e Freud. Tutti citati spesso e volentieri, ma non necessariamente conosciuti.
«Mi rivolgo a chi non sa nulla della filosofia», è la premessa di Remo Bodei che, nel primo dvd della raccolta, affronta i presocratici e la nascita della filosofia. Nel secondo, poi, Maurizio Ferraris passa in rassegna Socrate, Platone e la scuola di Atene, partendo proprio dall´affresco di Raffaello delle Stanze Vaticane. Dove Platone è ritratto nell´atto di indicare il cielo con un dito, mentre Aristotele, al contrario, volge il palmo della mano verso terra. Con loro il mondo delle idee e quello della natura diventano gli oggetti di ricerca di tutto il pensiero occidentale che seguirà. Un sistema che troverà la sua sintesi in chiave teologica con Agostino d´Ippona, Tommaso d´Aquino e la scolastica medievale, raccontati da Roberta De Monticelli nella terza uscita. Per essere poi messo in discussione dai furori di Giordano Bruno - protagonista del quarto dvd a cura di Michele Ciliberto -, che concludono per sempre la stagione filosofica rinascimentale. La rivoluzione scientifica di Isaac Newton, analizzata da Paolo Rossi nella quinta uscita, segnerà poi il definitivo ingresso della scienza moderna nei sistemi filosofici. Da questo momento, la figura dello scienziato finirà pian piano per sovrapporsi a quella del filosofo. Ancora Maurizio Ferraris spiega il passaggio fondamentale rappresentato dalla filosofia di Immanuel Kant, lo stesso teorico che il "collega" Arthur Schopenhauer definirà come «il cervello più originale che sia mai stato prodotto dalla natura». Le "teste" che guidano il diciannovesimo secolo sono: Hegel, illustrato da Remo Bodei nel settimo dvd, Marx, raccontato con la sua "rivoluzione" da Umberto Curi, e ovviamente Nietzsche: il pensiero del filosofo della volontà di potenza è ripercorso da Maurizio Ferraris.
Con Freud e Jung (decimo dvd), Umberto Galimberti affronta la nascita della psicoanalisi, che dà un´impronta decisiva a tutto il Novecento. Einstein e la relatività sono il tema della videoconversazione di Piergiorgio Odifreddi, che illustra anche il pensiero di Russell. La "filosofia della crisi", che con Heidegger pone fine alla metafisica, è raccontata da Gianni Vattimo. Popper è al centro della quattordicesima uscita in cui la conversazione è affidata a Giulio Giorello. Chiudono Stefano Rodotà con Foucault e Maurizio Ferraris con Derrida. I temi di quest´ultimo, il "perdono" e l´"ospitalità", parlano alla cronaca di oggi.

Corriere della Sera 12.9.09
L’intervento Il celebre pensatore francese riflette sul tema della comunità, al centro della rassegna di Modena, Carpi e Sassuolo
Io e gli altri
Il «senso d’essere» nascosto in un piccolo grande «con»
di Jean-Luc Nancy



Se pronuncio le parole «co­munità », «comunismo», «comunione», «compassio­ne », «commemorazione», per limitarmi a questo breve elen­co, pronuncio tutte parole impor­tanti, piene di valori e di connota­zioni, cariche di storia e di pensie­ro. Nessuno presta attenzione al pre­fisso che queste parole hanno in co­mune, a quel com che per l’appunto è talmente comune che non c’è mo­tivo di soffermarvisi...
Eppure, non dovrebbe richiama­re subito la nostra attenzione il fat­to che «comune» può caricarsi di due significati così differenti, indi­cando sia un raggruppamento sia qualcosa di ordinario, sia una riu­nione di persone sia qualcosa di ba­nale?
Non mi soffermerò oggi sull’intri­gante connubio di questi due aspet­ti del «comune». Per farlo, infatti, è necessario anzitutto avere prestato la giusta attenzione al «com» stes­so. Su questo cum che il latino ci ha lasciato in eredità, dopo il syn greco che pure ritroviamo all’inizio di pa­role importanti come «sintesi», «simpatia», «simbolo».
«Con» è una categoria molto po­vera nella storia del nostro pensie­ro. In realtà, solo un filosofo — se non mi sbaglio — ne ha tratteggia­to la valenza specifica: si tratta di Heidegger quando ha parlato del Mitsein (con-essere) e del Mitda­sein (con-esserci). Heidegger, nel paragrafo 26 di «Essere e tempo», inaugura una prospettiva fino a quel momento inedita: egli non so­lo afferma che l’esistente è necessa­riamente, ontologicamente un co-esistente («mit» vuol dire «con», «cum»). Per dare a questa te­si tutto il suo rilievo, afferma anche che il «con» costitutivo dell’esisten­te deve essere inteso «non in modo categoriale, bensì esistenziale». Ciò significa che occorre trattarlo non come una semplice determinazione estrinseca, ma come una condizio­ne intrinseca della possibilità stessa dell’ek-sistenza, ossia niente meno che come la messa in gioco del sen­so stesso dell’essere o del senso d’essere.
In quanto semplice categoria, «con» è collegato a «anche» e si tro­va per noi relegato per lo più nel­l’ambito dell’esteriorità e dell’acci­dentalità: io sono con voi in questa sala, per effetto di svariate circostan­ze, come delle automobili sono le une insieme alle altre in un parcheg­gio. Si può parlare a questo riguar­do di giustapposizione, di prossimi­tà spaziale, tutt’al più di correlazio­ne.
Le cose vanno diversamente quando, in francese, diciamo che «X è con Y», perché intendiamo di­re che essi formano una coppia, che condividono la loro vita.
E tuttavia, siamo pronti a dichia­rare che la nostra presenza insieme in questa sala non si risolve in una semplice giustapposizione. Non sia­mo — ci verrebbe da dire — una fol­la al binario di una stazione. Abbia­mo delle ragioni comuni per trovar­ci qui riuniti. Ora, anche una folla ha delle ragioni per fare folla; se poi — quando si forma — subisce degli eventi particolari (uno sciopero dei treni), avvengono dei comporta­menti, nascono dei rapporti, anche fugaci, che eccedono la semplice giustapposizione inanimata.
E possiamo dire di più, anzi dob­biamo: siamo al mondo con le mon­tagne, gli alberi, i pesci, i lupi, così pure con le macchine, le costruzio­ni, le istituzioni che abbiamo crea­to. Questo «con» più generale, la co-presenza di tutti gli enti, deve es­sere intesa come semplicemente «categoriale»? Ma allora che cosa vuol dire il «mondo», se questa pa­rola deve designare una possibilità di senso (questa, all’incirca, la defi­nizione che ne dà Heidegger)?
È proprio vero dunque che biso­gna pensare il «con» come «esisten­ziale » e non come «categoriale». Il problema è che Heidegger non ha del tutto sviluppato questa necessi­tà. O, meglio, lo ha fatto facendo pas­sare per forma «autentica» o «pro­pria » del «mit» quella della comuni­tà di un popolo (molto più avanti nel­la stessa opera). E il suo smarrimen­to politico ha tratto origine da lì.
La posta in gioco è allora notevo­le: pensare il «con» ad altezza «esi­stenziale » significa allo stesso tem­po pensare due cose: la possibilità del senso — ovvero di ciò che in ef­fetti Heidegger chiama il «senso del­l’essere », ma che sarebbe meglio di­re, se lo si comprende a fondo, «sen­so d’essere» (il senso che c’è ancora da essere, da essere al mondo e da essere un mondo) — e la necessità di una politica non dominatrice (una «democrazia», se si vuole, ma questo termine richiederebbe altre considerazioni). 

Traduzione dal francese di Gianluca Valle © Consorzio per il festivalfilosofia Questo testo è un’anticipazione della lezione magistrale intitolata «Avec (con)» che Jean-Luc Nancy terrà a Sassuolo, domenica 20 settembre, nell’ambito del festivalfilosofia 2009, sul tema della comunità

Corriere della Sera 12.9.09
L’intervista. Il filosofo, sindaco di Venezia, analizza il rapporto tra identità e alterità
«Diverso e il più possibile lontano Ecco chi è oggi il nostro prossimo»
Cacciari: «Ma l’accoglienza senza regole è un errore madornale»
di Fabio Cutri


L’incontro con lo straniero desta fatalmente paura, angoscia e anche repulsione. Ma bisogna affrontarlo per imparare a conoscersi

«Ma chi è il mio prossi­mo? », do­manda ma­lizioso il dottore della Legge. Il Maestro risponde con un rac­conto. Sulla via che da Gerusa­lemme porta a Gerico giace un uomo. Dei briganti lo hanno de­rubato e bastonato, abbando­nandolo in fin di vita. Per di là passa un sacerdote, vede lo sventurato a terra ma volta lo sguardo e continua il suo cam­mino. Un altro giudeo, un levi­ta del Tempio, incontra il feri­to: anch’egli lo scansa e prose­gue oltre. Il terzo viaggiatore è uno straniero, viene dalla Sa­maria. Quando si imbatte nel­l’uomo ne ha compassione. Ver­sa olio e vino sulle sue ferite, poi lo porta con sé in una locan­da. Il giorno seguente, prima di ripartire, consegna due mone­te d’argento al padrone dell’al­bergo dicendogli di prendersi cura di lui: se fosse stato neces­sario altro denaro, lo avrebbe rimborsato al suo ritorno. È una delle parabole evangeliche più celebri, più citate e, oggi co­me non mai, più urgenti da pensare in tutta la sua profondi­tà. «Perché — spiega Massimo Cacciari — con questo raccon­to il Cristo ci porta dritti al cuo­re di una questione filosofica fondamentale: il rapporto tra identità e alterità».
Professore, chi è il prossi­mo secondo il Messia?
«Non quello che intende l’opinione comune, ovvero co­lui che mi è vicino in quanto le­gato a me da vincoli e relazioni constatabili, come la consan­guineità, la comunanza etnica, l’appartenenza religiosa. Nella parabola il prossimo è invece colui che ci è massimamente di­stante: per la mentalità giudai­ca il samaritano era infatti l’ere­tico per antonomasia e rappre­sentava il più lontano dalle tra­dizioni e dai costumi ebraici. Ecco, il samaritano di cui parla Gesù è colui che riconosce nel più lontano il suo prossimo».
Questo è un ribaltamento del significato classico di prossimo?
«Fino a un certo punto, per­ché anche se è vero che nella cultura greca non abbiamo un termine equivalente all’evange­lico plesion — che ha la stessa radice di pianeta, qualcuno che ti sta appunto lontano — in xe­nos , che noi traduciamo con straniero, risuona qualcosa che è molto affine a philos , amico. 
Ta xenia sono i doni di ospitali­tà, per non parlare di Zeus xe­nios , il dio sommo che accoglie e accudisce gli ospiti. Insom­ma, vi è l’ hospes e non l ’hostis in xenos , c’è sì stranezza ma non estraneità nemica». 
In cosa allora il senso evan­gelico si differenzia?
«Il concetto di prossimo per­de ogni carattere di consangui­neità. La prossimità non è più uno stato determinato da un’af­finità già costituita, ma un mo­vimento: il prossimo è colui al quale tu ti approssimi, viene sottolineata l’azione che devi compiere per riconoscere il prossimo. Il Cristo rovescia la domanda: non devi più chie­derti chi sia il tuo prossimo, ma che cosa fai tu per il prossi­mo » .
Questa prospettiva cambia anche il modo di concepire il soggetto?
«Certo, perché se il mio io è un risultato che ogni volta sarà messo in discussione dal mio rapportarmi agli altri, allora non posso più considerare l’identità come qualcosa di da­to una volta per tutte a cui poi si aggiunge la relazione con l’al­tro. La relazione è necessaria in quanto costitutiva del sogget­to. L’incontro con il prossimo è infatti un’approssimazione co­stante innanzitutto verso se stessi. Ma non solo questo, at­tenzione, perché io stesso sono molti».
In che senso? 
«È la stessa espe­rienza quotidiana a dir­ci che il nostro io è un campo di relazioni, di lotta, tra istanze e desi­deri diversi. In questo senso il prossimo è pri­ma di tutto l’altro che è già in me. Dunque l’approssimarsi all’al­tro 'fuori' di me, è anche l’espe­rire la presenza dell’inattingibi­le che è in me, l’eternità che è dentro ognuno di noi».
La Bibbia dice «Ama il Si­gnore e il tuo prossimo come te stesso». È possibile amare il prossimo senza amare Dio?
«Questa dialettica della pros­simità non ha bisogno di alcun presupposto di ordine religio­so. La consapevolezza che l’identità sia in sé contradditto­ria può avvenire sulla base de­gli insegnamenti del Cristo, dei precetti di tante religioni orien­tali o in termini puramente lo­gico- filosofici » .
Nei confronti dello stranie­ro bisogna perciò disporsi in un atteggiamento evangelico di pura accoglienza?
«Così come è una stupidaggi­ne il credere che l’identità di una cultura, di un linguaggio o di un individuo si possa difen­dere arroccandosi in una loro presunta purezza, allo stesso modo è un errore madornale quello di parlare astrattamente di accoglienza, di abbracci, di essere tutti buoni come Gesù Cristo. L’avvicinarsi al ferito da parte del samaritano va condot­to con regole e norme realisti­che. Il prossimo mi viene in­contro, mi si fa addosso, con i volti più diversi e imprevedibi­li. Che questo incontro con lo straniero desti angoscia, paura e anche repulsione, soprattutto in una fase drammatica come quella che viviamo oggi, non va assolutamente sottovaluta­to. È un momento fondamenta­le nella costruzione del mio io, altrimenti ci troviamo in pre­senza di un organismo debole che si fa solo fagocitare».
E come si evita il rischio del conflitto che può appunto fa­gocitare?
«Non si evita, va affrontato e basta. Il racconto di quello che ha curato il ferito ha forse un lieto fine? Il samaritano diven­ta giudeo? Nient’affatto: lo cu­ra, lascia i soldi all’oste e se ne va. La parabola non dice che il loro conflitto religioso sia venu­to meno. Però è accaduta una cosa straordinaria: hanno sco­perto che possono compararsi, hanno imparato a conoscersi. Questo è il tema fondamentale della nostra epoca: un proble­ma di traduzione tra linguaggi diversi. E ogni traduzione non è altro che approssimazione». 


Corriere della Sera 12.9.09
Uno studio italiano dimostra la prevalenza dell’emozione sulla razionalità delle scelte
Il rimpianto ci rende altruisti
Il nostro cervello condivide la sorte di chi ha perso un’occasione
di Massimo Piattelli Palmarini


Come reagiamo agli stimoli «complessi»
Il rimpianto e, nel caso opposto, il sollievo sono emozioni «complesse» che si distinguono dalle emozioni di base (paura, rabbia, disgusto) per la loro origina di natura «cognitiva», in quanto nascono da un processo di ragionamento, per quanto inconscio. Si tratta per così dire di emozioni di «ordine superiore», più «intelligenti» in quanto mediate da un processo cognitivo, seppure non deliberato
La conferma: si attivano gli stessi centri cerebrali se una persona vede un’altra persona incappare in una situazione di rimpianto. E l’effetto è più intenso nelle donne

L’esperimento appena pubbli­cato sull’ultimo numero della ri­vista internazionale Plos da una nutrita équipe di neuropsicologi dell’Università San Raffaele e del­l’Università di Parma intreccia in modo inedito tre filoni centrali di ricerca. Il primo, capitanato da Giacomo Rizzolatti, co-autore di questa ricerca, lo possiamo defi­nire empatia corporea, cioè la partecipazione attiva, nell’osser­vare l’azione o le sensazioni di qualcun altro, degli stessi centri cerebrali che si attiverebbero se ne fossimo noi stessi i protagoni­sti. La scoperta dei «neuroni spec­chio » è l’emblema di questo tran­sfert inter-individuale di azioni, sensazioni e perfino emozioni nelle profondità del nostro cer­vello.
Il secondo filone è quello della psicologia del rimpianto e ha avu­to molti capitani e pionieri, lun­go il corso degli anni, da Graham Loomes e Richard Sugden (Uni­versity of East Anglia) a Thomas Gilovich e Victoria Medvec (Cor­nell University), a Terry Connolly (Università dell’Arizona) e Mar­cel Zeelenberg (Università di Til­burg). Il nocciolo è che il valore squisitamente soggettivo di un evento, poniamo una vincita o una perdita di denaro, o l’ottene­re la medaglia di bronzo all’ Olim­piade, non dipende solo dall’am­montare reale della cifra, dalla graduatoria ufficiale, ma anche da ciò che avremmo potuto fare per evitare la perdita o per ottene­re la medaglia d’argento o d’oro, ma non abbiamo fatto. Una sensa­zione, quella del rimpianto, che può rovinare un’esistenza. Venia­mo ora al terzo filone, che l’espe­rimento di Nicola Canessa, Mat­teo Motterlini, Cinzia di Dio, Da­niela Perani, Paola Scifo e Stefa­no Cappa intreccia intimamente con i due precedenti. Si tratta, niente di meno, che di un’antica ossessione dei filosofi, quella dei cosiddetti «controfattuali» o «mondi possibili».
Ovvero l’indugiare, nella no­stra mente, spesso senza vero co­strutto, in ciò che non è succes­so, ma poteva benissimo succede­re. Alcuni di questi possibili sce­nari o mondi possibili li vediamo vicinissimi e ci turbano, altri so­no lontani e poco ce ne curiamo. Un tassista milanese, affranto, mi mostrò il biglietto di una gros­sa lotteria. Il suo terminava con un 5 e non aveva vinto, ma il bi­glietto vincitore terminava con un 6 e aveva vinto una fortuna. Altri amici mi dissero poi di aver preso lo stesso tassì e anche a lo­ro il poveretto aveva ripetuto la sua lagnanza. Il mondo possibile in cui quella vincita sarebbe stata sua gli sembrava talmente vicino (un 6 invece di un 5) da renderlo inconsolabile. Ebbene, rimpian­to e vicinanza di un mondo possi­bile si legano intimamente, dram­maticamente.
Combiniamo ora, infine, tutti e tre questi filoni. Mi viene data la scelta libera tra gio­care su due ruote della fortuna. Scelgo la prima e non vinco, pa­zienza. Ma se, dico se, vedo che avrei vinto scegliendo invece la seconda, blip, blip, si accende il rimpianto e centri cerebrali co­me la corteccia pre-frontale ven­tro- mediale, la cingolata anterio­re e l’ippocampo si attivano. Gli autori di questa ricerca avevano il sospetto, ora rivelatosi fonda­tissimo, che proprio gli stessi centri cerebrali si attivino se un soggetto vede un altro soggetto incappare in questa situazione di rimpianto. Anche confermato è il sospetto che l’effetto è più inten­so nelle donne che non negli uo­mini.
Lascio a Matteo Motterlini, uno dei principali autori di que­sto lavoro, il compito di riassu­mere la lezione che possiamo trarne nella vita quotidiana. «Questo risultato mostra quanto sia speciale e complesso il parti­colare filo che ci lega agli altri, mediante il continuo rispecchiar­si delle loro esperienze nella no­stra mente. Non siamo, forse, poi così interessati alle vincite o alle perdite di uno sconosciuto, ma ci rispecchiamo in quelle loro emo­zioni come fossero le nostre. Non c’è niente di più irragionevo­le di questo, ma le nostre emozio­ni ci guidano verso scelte che so­no così affettivamente dolorose e anche così sottilmente uma­ne ».
Sarebbe stato interessante met­termi anche io, come i soggetti di questo studio, in un apparato di risonanza magnetica funzionale quando quel tassista mi racconta­va del suo immenso rimpianto.

l’Unità 12.9.09
Racconto
Fermarsi un attimo prima che un lampo arrivi a spegnerci

di Paolo Izzo
, scrittore

Non so niente. So soltanto giocare con le parole. E allora può sembrare che io sappia. Ma non so niente. Ha ragione un amico, che mi dice «tu vuoi fare lo scrittore prima ancora di esserlo».
Fare lo scrittore, prima di esserlo. Apparenza, prima che sostanza. Infatti non so niente.
Ma scrivo tantissimo, mentre mia moglie, di là, cerca di fare piano per non disturbarmi. Gioco a sembrare che so. Che poi nemmeno serve, sapere. Qui serve sembrare. E vendere questa sembianza. Correre. E spacciare la corsa per una lentezza. O per una riflessione.
L’ho giurato sempre a me stesso: da questa frenesia non mi farò prendere. Non mi fagociteranno le loro aspettative, le loro domande su tutto, le loro richieste di saggezza. Me ne sto chiuso nello studio. Di là mia moglie che non dice niente, per non disturbarmi. Che non sa se dormo o scrivo. Se piango o se mi faccio una sega.
Invece o infatti è piombata sulla mia testa la pioggia acida di questa frenesia di essere nel mondo, col feroce retrogusto di vivere sapendo che tanto, troppo sarà un inutile affannarsi. Dire che un colpo di fucile non è bello o che la fame di un bambino non è bella; e vedere tanti, troppi che fanno sì con la testa. Vogliono fare intendere che ho ragione. E intanto pensano: però è uno scrittore, quindi non sa niente della realtà; gioca con le parole e sembra che sappia.
Invece o infatti mi affanno anch’io, in questo uragano che mi avvolge, per dire a tutti di fermarsi un momento. Prima che un lampo arrivi a spegnerci: bell’ossimoro, no? Ma è lampo o paraurti di macchina o quel colpo di fucile o la fame del bambino. Incontri uno di questi e fine delle questioni.
Allora non mi affanno più, mi immagino solitario ma onnipresente, infinitamente caotico ma ordinatamente puntato all’unica risposta. Essere presto, prima di non essere o non essere presto ed essere per sempre? Ma questa era la domanda.

il Riformista Lettere 12.9.09
Il modello berlusconiano

Caro direttore, l'esempio macroscopico, berlusconiano è in tutte le prime pagine e le tv, ma il contagio si diffonde rapidamente, pervadendo la penisola: dalla Puglia di Vendola alla Venezia di Placido. Questa nuova influenza ci dice che non si può esprimere una critica, né porre domande scomode, né tanto meno avviare indagini su presunte azioni illecite. Perché il soggetto interessato reagirà con estrema violenza e la sua violenza diventerà il nuovo oggetto dell'attenzione, fino a ribaltare l'intera dinamica probabilmente a suo favore. In questo giochetto italico, cadono perfino quanti hanno avviato con coraggio un lecito atto di accusa: anche per loro, il nuovo tema e strumento sarà la violenza. Intanto, nel chiasso della destra e nel silenzio della sinistra, i poveracci vengono respinti o lasciati morire, le donne sono ancora violentate e uccise dentro e fuori casa, i bambini - anestetizzati da tv e videogiochi - soffrono per una scuola dove niente più conta se non l'ora di religione. E a nessuno di loro viene concessa la voce per esprimere un briciolo (legittimo) di quella rabbia che invece è il nuovo stile del potere, ma esclusivo del potere. Ora verrete a dirmi che sto con i nonviolenti. Non ci provate: vi denuncio tutti!
Paolo Izzo

venerdì 11 settembre 2009

Repubblica 11.9.09
Le menzogne del funambolo
di Edmondo Berselli

Non è stata una conferenza stampa. È stato uno choc. Alla Maddalena, dopo l´incontro con il premier spagnolo Zapatero, Silvio Berlusconi ha realizzato uno dei suoi exploit più sfrontati, anzi, la sua prova suprema di improntitudine pubblica. Ma anche una dimostrazione di completo autismo, in cui ha alternato sorrisi e minacce, menzogne e autoesaltazione, in un crescendo al termine del quale, automaticamente, si era indotti a porsi due domande.
La prima: dov´è in questo momento Silvio Berlusconi, dov´è la sua psicologia politica, il suo codice di comportamento? E la seconda: dov´è adesso l´Italia, e almeno dov´è quella parte di paese ancora in grado di non farsi fagocitare dal cerchio stregato del consenso coatto, da quel «68,4 per cento di ammirazione» che il capo del governo si attribuisce?
È stato sufficiente l´intervento di un giornalista del País per spezzare l´incantesimo di un paese ipnotizzato dalle tv e dai media di regime. Prima, si erano sentite amenità da Tg1 minzoliniano, tipo «Presidente, quali sono le nuove regole per non ricadere nel vecchio sistema?». Il professionista del País, Miguel Mora, ha posto a Berlusconi sostanzialmente un doppio e in apparenza elementare quesito: non crede il premier italiano che il giro di prostituzione e di veline alle sue feste abbia danneggiato l´immagine internazionale dell´Italia? E sulla scia delle polemiche sorte da questo scandalo, non ha mai pensato di dimettersi?
Siamo disabituati alla semplicità essenziale di domande di questo genere. E probabilmente non siamo ancora abituati neppure all´atteggiamento spudorato con cui Berlusconi attua la sua strategia rispetto al caos che ha suscitato e in cui è precipitato. Ragion per cui non riesce facile descrivere dove sia in questo momento il Cavaliere. È nello stesso tempo fuori e dentro. Fuori da tutto, fuori della politica, anche intesa nel senso più populista e anti-istituzionale, fuori dagli stili di azione e comunicazione dei leader europei, fuori dalla dignità istituzionale dell´uomo di governo, fuori da ogni circuito di moralità civile; ed è dentro, dentro se stesso, calato integralmente in una sindrome di cui è la causa e la vittima, il gestore e il prigioniero.
Fuori, dentro, dentro, fuori. Nel giro di pochi minuti, Berlusconi ha praticato volteggi che si potrebbero definire funambolici se non fossero le acrobazie di un presunto uomo di Stato che parla di se stesso, all´Europa, negando di «avere mai pagato un euro per ottenere prestazioni sessuali». Le notizie, anzi la «disinformazione» sulla prostituzione di regime sono «calunnie», dovute all´«attacco di una persona che ha voluto artatamente creare uno scandalo» e che nelle profezie di Berlusconi rischia diciotto anni «di detenzione»; le cene nelle sue residenze sono pura articolazione quotidiana della politica, un naturale sistema di relazioni con i circoli del Pdl «intitolati "Meno male che Silvio c´è"»; gli harem di escort sono le corti di amiche di «un imprenditore di Bari, Tarantini, o Tarantino» (quest´ultima, praticamente una gag alla Emilio Fede).
Non si finirebbe mai di citare, fino a rischiare la saturazione se non fosse che queste espressioni sono state pronunciate nel clima di un appuntamento europeo; e nel contesto di una minacciosità verso la stampa non allineata che questa volta si è indirizzata anche verso una realtà editoriale prestigiosa in Spagna e all´estero come il País, ventilando sarcasticamente la sua probabile rovina economica come conseguenza di una «caduta di credibilità, copie, lettori e pubblicità: in questo caso si va al fallimento e credo che il País ne sappia qualcosa».
Silvio c´è, quindi, ma è fuori da ogni convenzione, norma, consuetudine. E contemporaneamente è asserragliato dentro il castello di bugie che ha usato come catastrofico sistema di giustificazioni a partire dalla festa per il diciottesimo compleanno di Noemi Letizia, e chiuso nell´atteggiamento di autoelogio, compulsivamente esercitato oltre il grottesco, che usa come schermo a propria difesa. Non c´è altro modo per definire il giudizio che si è attribuito come uomo di governo, dopo avere ricordato di avere appena battuto «i 2497 giorni di governo di De Gasperi», e quindi di essere un «recordman»: autoironie apparenti (con storielle in dialetto meneghino sulla zia che specchiandosi vantava da sola la propria bellezza), per poi tuttavia ribadire la convinzione di essere «di gran lunga» il migliore capo del governo che l´Italia unita abbia avuto in 150 anni di storia.
Scoraggiante? Non certo per un´opinione pubblica condotta passo passo, per condizionamento televisivo, a una specie di truce «consenso organizzato» di stampo brezneviano. Ma per trovare una risposta alla seconda domanda, su dove sia l´Italia non ottenebrata da un processo di omologazione totale e silenziosa, che ha coinvolto e travolto anche la quasi totalità del Pdl, occorreva cercarla nello sguardo di Zapatero. Nella sua espressione attonita, nello stupore muto di chi doveva assistere a uno spettacolo mai osservato, di chi sentiva l´interlocutore istituzionale impartire una lezione non richiesta sulla situazione politica in Spagna, «dove il governo è minoranza e deve trattare caso per caso», e infine dibattersi nelle sue difese e nei suoi attacchi. L´Italia che si sottrae ai sondaggi sull´«ammirazione» per il recordman Berlusconi è in quello sbalordimento che il 68,4 per cento vantato dal premier non avverte più, essendo mitridatizzato da mesi, e prima da anni, di veleni che sembravano dolci e alla lunga sono diventati letali.
Berlusconi ha parlato della disinformazione da lui attribuita alla carta stampata, nella «povera Italia» funestata dai giornali e dalle loro falsificazioni, come di «un brutto incubo». Per l´Italia che ancora sfugge al condizionamento pavloviano del consenso obbligatorio, la conferenza della Maddalena è la prova che a essere diventato un incubo è invece il «sogno» a cui molti cittadini hanno creduto e su cui il capo della destra ha costruito, dentro e fuori la politica, nell´antipolitica e oltre, le sue fortune.

l’Unità 11.9.09
Il 58,6% ha scelto le 30 ore ed è anche aumentata la richiesta per il tempo pieno
Continua la protesta dei precari sotto al ministero e la Gelmini parla a Palazzo Chigi
Flop del maestro unico: chiesto solo dall’11% delle famiglie
In conferenza stampa a Palazzo Chigi dove si è «rifugiata» per non guardare i docenti precari e la Flc-Cgil incatenati sotto le finestre del suo dicastero a viale Trastevere, Mariastella Gelmini ha dato i numeri sulla scuola.
di Maristella Iervasi

La Corte dei Conti: «Il ministero non può imporre l’insegnante singolo»

Riaprono le scuole e il flop del maestro unico della Gelmini diventa manifesto. Basta fare un giro negli istituti che hanno già cominciato le lezioni per accorgersene. Il maestro unico è stato scelto solo dall’11% delle famiglie italiane. Ma Mariastella Gelimini, ministro del-
l’Istruzione, alla vigilia del nuovo anno scolastico «gira» i numeri a suo favore: «Il 69,6% ha preferito il maestro unico di riferimento» ha detto candidamente in conferenza stampa a Palazzo Chigi dove si è «rifugiata» per non guardare i docenti precari e la Flc-Cgil incatenati sotto le finestre del suo dicastero a viale Trastevere.
QUESTIONE DI NUMERI
Circondata dai dirigenti ministeriali, Gelmini confonde il tempo scuola che le famiglie potevano scegliere all’atto dell’iscrizione dei figli alle prime classi delle elementari, con il maestro unico. Poi prosegue con la distorsione nella comunicazione: «Il 58,6% delle famiglie ha scelto le 30 ore;l’11%le24ele27ore»-haprecisato. E il flop salta agli occhi. Quell’11% rappresenta nient’altro che una conferma che le famiglie oltre al maestro unico hanno bocciato la politica dei tagli del governo sulla scuola. Infatti proprio le 27 ore sono state garantite in termini di posti-docenti per le prime classi di questo anno. Di conseguenza, i genitori hanno scartato la rincorsa per l’insegnante pressoché unico. Le scuole, forti dell’autonomia, hanno organizzato le risorse mantendo almeno la presenza di due o più insegnanti nelle classi, anche nelle prime. E la Corte dei Conti quest’estate ha fatto il resto, spiegando che «il modello del maestro unico introdotto dalla norma 169 del 2008, non può essere obbligatorio per le scuole ma una opzione in più per le famiglie».
Beata Ignoranza. La Gelmini emanerà al più presto l’atto di indirizzo sul primo ciclo. Ma il ministero nell’indicare l’organizzazione della didattica dall’infanzia alle medie non potrà imporre il maestro unico di riferimento. Mascherata la prima bugia, eccone un’altra: il tempo pieno. «Cinquantamila bambini in più avranno il tempo pieno, con un incremento dell’8% rispetto all’anno precedente. Nella scuola elementare si legge nella cartella stampa sono state attivate 2191 classi di tempo pieno in più rispetto all’anno precedente. 1505 solo in prima elementare, grazie all’introduzione del maestro unico e all’eliminazione delle compresenze». E la Gelmini subito sentenzia: «Gli scenari catastrofici alimentati dalla sinistra sono stati ampiamente smentiti dai fatti: con il maestro unico il tempo pieno è aumentato». Non è vero. La richiesta del tempo pieno è aumentata grazie al movimento anti-Gelmini che dalla Lombardia alla Sardegna ha tenuto il governo sotto scacco fin dall’autunno scorso. Il ministero ha solo dovuto mantenere l’impegno preso in campagna elettorale: «Il tempo pieno non sarà cancellato, anzi verrà aumentato». E così è. Non senza imbarazzo per la Gelmini. Basta andare a rileggersi l’audizione al Senato del 21 aprile scorso per carpirne l’irritazione. La Gelmini manifesta stupore per il notevole incremento della domanda di tempo pieno del 20-30%, dando la colpa a «informazioni strumentali, volutamente distore e spesso condizionate da posizioni ideologiche».

Corriere Fiorentino 11.9.09
Scuola. Soluzione tampone: sempre a fine o inizio mattinata (così i ragazzi esentati andrebbero a casa): ma c’è il no della Chiesa
No religione? Il rompicapo dei presidi
Mancano i prof per coprire l’ora alternativa. E i dirigenti aspettano istruzioni dall’alto
di Matteo Leoni

Altro che piazzare l’ora di reli­gione nelle ore centrali invece che all’ultima o alla prima per non spingere gli alunni a chiede­re l’esonero uscendo prima da scuola o entrando dopo, come vorrebbe la Chiesa. Nelle scuole medie i tagli introdotti dalla rifor­ma Gelmini rischiano di lasciare l’ora di attività alternativa alla re­ligione scoperta, senza professo­ri, complicando non poco la vita ai dirigenti scolastici in questo av­vio d’anno già faticoso. L’insegna­mento alternativo è previsto per legge per chi non sceglie l’ora di religione. Ma come garantirlo? «Il problema — spiega Doriano Bizzarri, preside della Montagno­la- Gramsci — tocca in particola­re la Toscana, dove sono molti gli alunni che non fanno religione». Ieri i presidi di tutte le scuole medie della provincia di Firenze si sono riuniti in assemblea e han­no inviato una lettera al direttore regionale Cesare Angotti chieden­do un incontro. Fino all’anno scorso il servizio era assicurato grazie alle ore libere dei docenti che, pur avendo un contratto di diciotto ore a settimana, erano impegnati nelle classi solo per quindici. La compattazione di tut­te le cattedre a diciotto ore, previ­sta dalla riforma, ha eliminato queste ore a disposizione, crean­do indirettamente una carenza di organico per l’attività alternativa: «Il ministero — accusano i presi­di — ha agito senza pensare a questo».
Nelle scuole stanno studiando le possibili vie d’uscita, ma per at­tuarle aspettano il sì dell’Ufficio Scolastico Regionale. Esempio: i professori possono fare, su base volontaria, delle ore in più rispet­to al loro orario; sono ore che pos­sono essere considerate come «aggiuntive», e quindi pagate dal ministero, o come «eccedenti», e quindi pagate dalle scuole stesse. In alternativa alcuni presidi pro­pongono di rispolverare delle cir­colari degli anni ’80 che attribui­vano ai dirigenti la facoltà di no­minare direttamente dei supplen­ti esterni una volta esaurito il per­sonale a disposizione. Una moda­lità che però potrebbe presentare degli intoppi: «Il problema — spiega Bizzarri — è che l’ora di al­ternativa non è 'in organico', co­sì ufficialmente le ore che dobbia­mo coprire non esistono».
La motivazione della lettera ad Angotti la fornisce Giovanni Con­dorelli, preside del I Comprensi­vo di Scandicci: «Il servizio lo ga­rantiremo, ma dobbiamo capire a quale normativa riferirci per no­minare gli insegnanti dell’ora al­ternativa. È necessario capire qua­li ore possiamo utilizzare». In at­tesa di istruzioni operative dalla direzione regionale, ogni scuola si arrangerà come può. Una solu­zione temporanea potrebbe esse­re quella di concentrare le ore di religione all’inizio e alla fine della mattinata, in modo da far entrare dopo, o uscire prima, chi non se ne avvale. Proprio quello che la Chiesa non vuole. Un bel ginepra­io: «Chi sceglie l’alternativa — di­ce Carlo Testi, preside della Paolo Uccello — dovrebbe avere il dirit­to di poterla fare». Ora si attende una risposta del direttore regiona­le Angotti. Raggiunto al telefono, lui però già dice di non condivi­dere affatto l’allarme dei dirigen­ti: «Il nuovo ordinamento del pri­mo ciclo (che include le scuole medie, ndr ) è organizzato in mo­do da non lasciare vuoti di que­sto genere». Chi ha ragione?

Corriere della Sera 11.9.09
Edoardo Boncinelli esplora le basi della biologia moderna. Un legame diretto tra le spugne e la mente umana
Darwin, la natura non ha progetti
L’evoluzione è un sistema aperto, per questo è difficile da accettare
di Sandro Modeo

Oggi — a 150 anni dall’ Origine delle specie di Charles Darwin — più della scimmia scandalizza la spu­gna. Più che dall’avere in comune con un gorilla il 99 per cento del corredo ge­nico, molti esemplari di Homo sapiens posso­no sentirsi feriti dal fatto — appurato di re­cente — che le proteine adibite all’adesione cellulare in certe colonie di spugne sono le stesse che regolano le connessio­ni dei nostri neuroni, e quindi il nostro pensiero. Eppure, non c’è esempio migliore per riassumere la discendenza dei viventi da un comune progenitore unicellulare, cioè uno dei cardini della teoria evoluzionistica.
Del resto, con la sua prosaicità, l’esempio condensa bene l’insoffe­renza in toto verso la teoria stes­sa, vista per un verso (è la posizio­ne di tanti credenti) come una pe­ricolosa alternativa al Dogma, con l’uomo detronizzato e privato del suo pedigree divino; per un altro (è la posizio­ne di tanti scienziati sociali, specie di sini­stra) come un insieme di spiegazioni interne alla biologia, utili per capire il collo della gi­raffa, ma totalmente impotenti o rozzamente limitative davanti alle grandi domande psico­logico- filosofiche e alla complessità della Sto­ria.
Il nuovo, foltissimo libro di Edoardo Bonci­nelli Perché non possiamo non dirci darwini­sti (Rizzoli), in cui lo scienziato riprende e in­tegra gli argomenti di un saggio già classico come Le forme della vita (Einaudi), è la mi­gliore smentita a queste visioni pregiudiziali: anche perché il rigore dell’esposizione (la di­stinzione tra le acquisizioni sicure, quelle controverse e i limiti costitutivi della teoria) è resa incalzante dalla felicità degli esempi e delle metafore e da una trasparenza sintatti­co- concettuale «ad alta definizione». Unica condizione richiesta: essere disposti a riparti­re da zero, affrontando un doppio paradosso. Il primo paradosso è che per capire le im­plicazioni filosofiche dell’evoluzionismo — la sua innovativa «visione del mondo» — non bisogna trattarlo come una teoria filoso­fica, ma come una teoria strettamente scienti­fica. Con ferrea progressività, Boncinelli stabi­lisce così il dominio delle dinamiche evoluti­ve a partire da 3 miliardi e 800 milioni di an­ni fa, cioè dal momento in cui — 700 milioni di anni dopo lo stabilizzarsi della Terra lungo la propria orbita — appaiono le cellule e l’in­formazione replicabile, prima nell’Rna e poi nel Dna. Infatti, anche se una sorta di evolu­zione chimica ha preparato il terreno — con gli amminoacidi tesi ad aggregarsi, per prove ed errori, in proteine organizzate — è solo da quel momento che comincia a operare la «selezione naturale» in quanto processo-gui­da dell’evoluzione com’è intesa da Darwin.
È il punto centrale, su cui non si insisterà mai abbastanza. Gli or­ganismi, per Darwin, non «reagi­scono » agli stimoli dell’ambiente (suolo e acqua, aria e luce), ma vi si affacciano con un incessante brulichio di variazioni (o mutazio­ni) scremate in base a un idoneità biologica leggibile solo «a poste­riori ». Non di «risposte» si tratta, ma sem­mai di un ventaglio di «proposte» destinate a essere appunto selezionate in rapporto alla lo­ro efficacia adattativa, e poi trasmesse dai ge­ni alla discendenza. Non solo: perché l’evolu­zione non si arresti, le mutazioni devono con­tinuare senza sosta attraverso errori di repli­cazione del Dna, al punto che, pur operando sul fenotipo (l’organismo) la selezione elegge il suo interlocutore vero nel genotipo (il patri­monio genetico), di cui il fenotipo è l’espres­sione.
Dai batteri alla raffinata struttura del corpo umano, l’evoluzione è dunque un sistema aperto, un processo in cui convivono conser­vazione e cambiamento, stabilità e alta flessi­bilità, spreco immane (i tanti tentativi inido­nei) e spietato opportunismo (vedi certi pe­sci di caverna che perdono l’apparato ocula­re). E soprattutto — per riprendere Jacques Monod — caso e necessità: il caso nell’origi­ne della vita (che nell’universo conosciuto è un accidente raro se non unico) e nelle muta­zioni; la necessità nei vincoli fisici e chimici della materia, organica e inorganica, e nella replicazione genetica. L’insieme può trasmet­tere l’idea di un cosmo insensato e tirannico, che terrorizza — diceva Stanley Kubrick — non per la sua «ostilità», ma per la sua «indif­ferenza».
E qui si incunea il secondo paradosso. La visione del mondo implicata dall’evoluzione — che spiega molto in termini di «adatta­mento » — è meno adattativa di tante altre. E questo — come dimostra Boncinelli — per­ché l’evoluzione è priva di cause e scopi, men­tre il nostro cervello cerca ovunque spiegazio­ni causali e disegni finalistici: il bambino sco­pre a pochi mesi la causalità nel movimento, e a 3-4 anni il finalismo attraverso la pianifica­zione. In quest’ottica, anche la religiosità è spiccatamente adattativa, perché riesce a su­turare la paura della morte, la sofferenza per un lutto, il «nonsenso» dell’esistente.
A differenza di altri biologi o genetisti, Boncinelli non vede però un’incompatibilità tra scienza e fede, e tantomeno irride i cre­denti, atteggiamento che produce — dati alla mano — più acquisti di Bibbie di ogni altro: esorta solo a non confondere concetti e cate­gorie, a non creare indebite mescolanze. E in­vita, semmai, ad andare fino in fondo alla pro­spettiva filosofica naturalistica implicata dal darwinismo, ricordandoci che «la biologia si può trascendere ma non ignorare», cioè che anche le più vertiginose elaborazioni metafi­siche sono comunque vincolate e indirizzate dai nostri limiti neurofisiologici.
Nel finale potente e toccante dell’ Origine delle specie Darwin vede «qualcosa di gran­dioso » nel fatto che «da un inizio tanto sem­plice, così tante forme di vita si siano evolute e stiano evolvendo, tutte straordinariamente belle e degne della più grande ammirazio­ne ». È legittimo vedervi un innesco divino (Darwin stesso parla di vita «infusa»); ma è legittimo anche emozionarsi al pensiero che l’esito più alto e più tragico del processo evo­lutivo (la nostra consapevolezza e il nostro in­terrogarci sull’universo) condivida certi tratti con quelli di una semplice spugna.

Corriere della Sera 11.9.09
Beni culturali Il ministero nomina sette donne soprintendenti, quattro sono al posto di uomini
La rivoluzione «rosa» nell’arte
Dietro la prevalenza femminile, merito ma anche ragioni economiche
di Pierluigi Panza

Secondo uno studio di Sandra Pinto, la femminilizzazione del ruolo è legata agli scarsi guadagni

Dopo il rosso-Rubens e il rosa-Tiepolo, la tavoloz­za dell’arte si arricchi­sce del «rosa ministe­ro ». Non è un colore, bensì l’esito di una salutare tendenza, una cui ragione, però, è da tenere sotto os­servazione.
Rosa è la rivoluzione estiva in corso al Ministero per i Beni e le attività culturali, perché in quattro soprintendenze, al posto di quat­tro storici funzionari maschi, sono state indicate quattro donne. Al Po­lo museale di Napoli Lorenza Mo­chi Onori (già soprintendente per i beni storici e artistici delle Mar­che) succede a Nicola Spinosa, che va in pensione; al polo museale di Roma va Rossella Vodret (prima soprintendente per i beni storici e artistici del Lazio), che succede a Claudio Strinati (andrà al ministe­ro); al Polo di Napoli e Pompei va Maria Rosaria Salvatore (prima di­rettrice dell’Istituto centrale per il catalogo), che succede a Pietro Gio­vanni Guzzo (andrà in pensione), infine, alla soprintendenza per i beni architettonici, paesaggistici, storici, artistici del Palazzo Reale di Caserta va Raffaella David, che succede a Enrico Guglielmo. E non è tutto, perché tre donne ne sosti­tuiscono altrettante in ulteriori in­carichi: al polo museale di Venezia va Caterina Bon Valsassina (prima direttrice dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro); al suo posto in questo istituto va Gisella Capponi e come soprinten­dente per i beni storici e artistici del Lazio (al posto della Vodret) va Anna Maria Imponente. A Firenze, infine, resta Cristina Acidini.
Fortunatamente non si tratta di «quote rosa» stabilite per legge, ma di nomine per meriti. Che coro­nano una tendenza. Dando uno sguardo complessivo a tutte le so­printendenze, archivi e direzioni periferiche del Ministero notiamo infatti una raggiunta parità tra i sessi, con leggera prevalenza delle donne dopo queste nomine: pri­ma si era circa una cinquantina per parte (alcuni incarichi sono ad interim e alcuni doppi e ciò rende difficile il computo esatto). Con punte di sbilanciamento: nel Lazio ci sono 8 donne e 3 uomini. E con punte di predilezione «rosa» nelle principali sovrintendenze ai Beni artistici.
Da molti decenni la storia dell’ar­te sta diventando un «feudo» fem­minile. Basti pensare a studiose co­me l’appena scomparsa Maria Lui­sa Gatti Perer, Mina Gregori, Rossa­na Bossaglia e alle moltissime altre oggi in cattedra o alle direttrici di musei (come Paola Marini a Castel­vecchio di Verona, Anna Coliva alla Borghese di Roma...) e di collezio­ni private d’arte contemporanea (come Maria Vittoria Marini Carelli al Gnam, Gabriella Belli al Mart, Ida Gianelli a Rivoli...) o alle titolari di collezioni (come Patrizia San­dretto Re Rebaudengo a Torino) o alle organizzatrici di mostre (Beatri­ce Buscaroli per la Biennale di Ve­nezia, Silvana Annicchiarico per la Triennale di Milano, Chiara Bertola per l’Hangar Bicocca di Milano...) o alle numerose galleriste. Anche i vi­sitatori di musei sono, in prevalen­za, donne e il Ministero dei Beni culturali è stato retto da donne (Bo­no Parrino, Melandri).
La considerazione più immedia­ta che si può trarre da questa ten­denza è che le soprintendenze sia­no già riuscite ad attuare due aspet­tative della politica contempora­nea: un radicamento — si direbbe oggi federalista — sul territorio e una raggiunta, e superata, «pari­tà » tra i sessi. Ma proprio dalle considerazioni di una storica del­l’arte si può partire per innescare anche una riflessione di segno pro­blematico sulle ragioni che hanno portato a questo significativo tra­guardo. Nel 2006 Sandra Pinto, già direttrice della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, raccolse (con Matteo Lanfranconi) in un li­bro una quarantina d’interviste a storici dell’arte (docenti, critici, funzionari) che diagnosticavano un «morbo» della disciplina ( Gli storici dell’arte e la peste , Electa). Questo morbo era la progressiva cancellazione della storia dell’arte nel nostro Paese, «la perdita di pe­so, autorevolezza e potere necessa­ri ad affermare i fini della discipli­na ». E tra i segnali di questa «per­dita di peso» e dello «svuotamen­to » si segnalavano sia la «progres­siva proletarizzazione» del ruolo sia la (conseguente?) «progressiva femminilizzazione della discipli­na ». E si aggiungeva: «L’evoluzio­ne del sistema sociale rende in ef­fetti oggi la condizione economica media di uno storico dell’arte... tal­mente precaria da farlo precipitare appena le entrate del malcapitato siano da considerarsi l’unica sua fonte di reddito».
In effetti, mentre da noi il diret­tore degli Uffizi guadagna poco più di 20 mila euro all’anno, il di­rettore del MoMa ne guadagna 460 mila più benefit e quello del British quasi 200. Non sarà anche questa condizione a determinare la «valanga rosa»? In sostanza, il lunghissimo precariato non paga­to o sottopagato e l’insoddisfazio­ne remunerativa una volta raggiun­ti (dopo decenni) cattedre o ruoli direzionali spingerebbe gli uomi­ni, per scelta o costrizione, verso altri lidi prima delle «più resisten­ti » donne. Ovviamente le condizio­ni contestuali hanno sempre deter­minato lo sviluppo di una società.