Il Fatto 17.10.15
Sono ebreo, ho perso dieci familiari ad Auschwitz,
ma trovo avvilente che
per affermare una verità debba occorrere una legge
di Roberto Della Seta
Negare “in tutto o in parte” la Shoah e in genere i crimini di genocidio, di guerr a , c o n tr o l’u m a n ità, sta per diventare reato: manca solo il sigillo definitivo del Senato, dopo che martedì la Camera ha approvato in seconda lettura e con minime modifiche un testo “multipartisan" (Pd, sinistra, destra; astenuti i 5Stelle) che sanziona il “negazionismo” come aggravante del reato di istigazione alla violenza e all’odio razziali.
Malgrado il largo consenso r i c e v u t o i n P a r l a m e n t o , l ’i n t r o duzione del reato di negazionismo è un tema controverso, su cui in un recente passato non sono mancate discussioni e polemiche.
IN ITALIA il primo a lanciare l’idea fu nel 2007 l’allora ministro della Giustizia Mastella. Moltissimi approvarono, altri sollevarono dubbi. Stefano Rodotà scrisse che la norma proposta era “una di quelle misure che si rivelano al tempo stesso inefficaci e pericolose”. Alcuni autorevoli storici italiani – da Carlo Ginzburg a Giovanni De Luna, da Sergio Luzzatto a Bruno Bongiovanni – promossero un appello pubblico in cui sostenevano che “ogni verità imposta dall’autorità statale non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale”. Punti di vista analoghi espressero nell’occasione intellettuali europei come Paul Ginsborg e Thimoty Garton Ash. Rispetto alla proposta originaria di Mastella, che sul momento cadde nel vuoto, il disegno di legge appena approvato dalla Camera presenta una differenza: non si colpisce il negazionismo quale reato a sé, ma lo si qualifica come aggravante di reati già esistenti. Il punto però non cambia e io trovo che le obiezioni portate a suo tempo da Rodotà, da Ginzburg, da Luzzatto restino totalmente valide. Lo Stato non può e non deve intervenire in tema di libertà del pensiero, della parola, della ricerca storica; non può e non deve nemmeno di fronte ad affermazioni aberranti come la negazione o la minimizzazione di un fatto – lo sterminio pianificato e sistematico di milioni ebrei da parte del nazismo e dei suoi alleati – che solo persone in malafede o incapaci d’intendere possono mettere in discussione.
Peraltro va anche osservato che nei Paesi europei dove il negazionismo è reato da anni – Francia, Germania, Austria, Liuania, Romania, Slovacchia... – questo non ha impedito il progressivo emergere di forze apertamente xenofobe e in più di un caso esplicitamente antisemite. Così, per esempio, il negazionista sedicente storico David Irving è considerato una grottesca macchietta a casa sua, in Inghilterra, dove il reato di negazionismo non esiste ma dove conta, e conta molto, la reputazione pubblica, mentre in Austria, dove è stato processato e condannato per le sue tesi deliranti, può atteggiarsi a vittima ottenendo larga e gratuita pubblicità.
IO SONO EBREO, la mia famiglia ha lasciato dieci corpi nei forni di Auschwitz. Ebbene io trovo avvilente che per affermare una verità di assoluta evidenza quale è il carattere raccapricciante e "unico" della Shoah, si pensi di dover ricorrere a una norma di legge. L’idea di una verità storica di Stato non solo è di pers é inaccettabile, ma in questo caso rischia di offrire un alibi all'incapacità che abbiamo tutti come corpo sociale – nella scuola, nella famiglia – di contrastare il negazionismo sull’unico terreno appropriato: il terreno dell’educazione, dell'informazione, della cultura, il terreno della conservazione e della trasmissione della memoria della Shoah. Insomma della società.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 17 ottobre 2015
il manifesto 17.10.15
Dietrofront tedesco sui migranti, aumentano le restrizioni
Germania. Kosovo, Albania e Montenegro sono considerati paesi «sicuri», beni e servizi anziché diarie, più tempo nei centri di raccolta
di Jacopo Rosatelli
Da ieri è ufficiale: in Germania entrano in vigore nuove norme sul diritto d’asilo, più restrittive. Il via libera definitivo è arrivato dal Bundesrat, la camera in cui siedono i rappresentanti dei governi regionali. E in cui gli equilibri sono diversi da quelli dell’altro ramo del parlamento, il Bundestag, dove la grosse Koalition fra democristiani (Cdu/Csu) e socialdemocratici (Spd) gode di una schiacciante maggioranza: nella camera dei Länder la coalizione che sostiene il governo di Angela Merkel ha soltanto 24 seggi sui 69 totali. Per raggiungere i numeri necessari, c’era bisogno che dicessero «sì» anche esecutivi regionali in cui sono presenti i Verdi: ed è ciò che ieri è puntualmente accaduto.
Nonostante i malumori interni, e l’astensione dei loro compagni nell’altro ramo del parlamento, i Grünen che amministrano il Baden-Württemberg, lo Schleswig-Holstein e la Renania-Palatinato (con la Spd) e l’Assia (con la Cdu) hanno deciso di sostenere le nuove regole. Gli unici Länder a non approvare l’inasprimento delle condizioni di vita dei profughi sono stati la piccola città-stato di Brema, dove gli ecologisti hanno imposto l’astensione agli alleati socialdemocratici, Brandeburgo e Turingia, dove a impedire il voto favorevole è stata la Linke.
Cosa cambia dunque per i richiedenti asilo? Innanzitutto, non potranno più essere considerati tali quelli che arrivano da Kosovo, Albania e Montenegro, che passano ad essere considerati ufficialmente «Paesi sicuri». Evidentemente, in pochi si sono accorti dei tumulti scoppiati a Pristina nei giorni scorsi, legati ovviamente alle difficili relazioni e alla tensione esistente fra maggioranza albanese e minoranza serba: il fatto che in quella parte di Balcani operi tuttora un contingente di «peace enforcing» della Nato dev’essere un dettaglio trascurabile. Per molti critici, compresa la principale ong che si occupa di profughi, Pro-Asyl, è questo l’aspetto peggiore della nuova normativa.
Ma c’è dell’altro: le procedure di allontanamento vengono semplificate, ai migranti verranno elargiti beni e servizi invece delle diarie, e aumenta il periodo di tempo in cui dovranno stare nei centri di raccolta. Il cosiddetto «bicchiere mezzo pieno», su cui hanno fatto leva i Verdi che ieri hanno detto «sì», consiste nell’aumento dei finanziamenti per le amministrazioni locali che devono affrontare l’«emergenza», e nell’investimento in nuovi programmi di integrazione, a partire dal settore dell’educazione infantile. Il segno complessivo delle nuove regole è comunque regressivo, fondandosi sul dogma della distinzione fra profughi «legittimi», come i siriani, e «illegittimi», come tutti i cosiddetti «migranti economici».
Il clima in Germania non è più quello degli applausi alla stazione di Monaco e dei selfie della cancelliera nei centri di accoglienza: il vento è cambiato e soffia nella direzione gradita al governatore bavarese Horst Seehofer e alle destre di varia natura: dagli ultra-conservatori di Alternative für Deutschland ai «Patrioti contro l’islamizzazione» di Pegida, che organizzano marce molto partecipate.
Merkel deve fare i conti con una crescente fronda nel proprio partito: l’ultimo a farsi sentire, ieri, è stato il democristianissimo governatore della Sassonia, Stanislaw Tillich, che ha dichiarato di «comprendere» chi nutre riserve verso le scelte compiute dalla sua leader. In evidente difficoltà, la cancelliera deve andare incontro agli oppositori: ed è per questo che in un’intervista pubblicata nell’edizione odierna della Frankfurter Allgemeine, ma anticipata già nella serata di ieri, dà l’ok alla proposta di creare nelle zone di confine degli speciali centri di raccolta (Transitzone) riservati ai profughi che vengono dai cosiddetti Paesi sicuri. Un modo, evidentemente, per rendere quasi automatico il loro respingimento, impedendo la «dispersione» nel Paese. Un progetto inquietante, a cui la Spd – per fortuna – si dichiara contraria.
Dietrofront tedesco sui migranti, aumentano le restrizioni
Germania. Kosovo, Albania e Montenegro sono considerati paesi «sicuri», beni e servizi anziché diarie, più tempo nei centri di raccolta
di Jacopo Rosatelli
Da ieri è ufficiale: in Germania entrano in vigore nuove norme sul diritto d’asilo, più restrittive. Il via libera definitivo è arrivato dal Bundesrat, la camera in cui siedono i rappresentanti dei governi regionali. E in cui gli equilibri sono diversi da quelli dell’altro ramo del parlamento, il Bundestag, dove la grosse Koalition fra democristiani (Cdu/Csu) e socialdemocratici (Spd) gode di una schiacciante maggioranza: nella camera dei Länder la coalizione che sostiene il governo di Angela Merkel ha soltanto 24 seggi sui 69 totali. Per raggiungere i numeri necessari, c’era bisogno che dicessero «sì» anche esecutivi regionali in cui sono presenti i Verdi: ed è ciò che ieri è puntualmente accaduto.
Nonostante i malumori interni, e l’astensione dei loro compagni nell’altro ramo del parlamento, i Grünen che amministrano il Baden-Württemberg, lo Schleswig-Holstein e la Renania-Palatinato (con la Spd) e l’Assia (con la Cdu) hanno deciso di sostenere le nuove regole. Gli unici Länder a non approvare l’inasprimento delle condizioni di vita dei profughi sono stati la piccola città-stato di Brema, dove gli ecologisti hanno imposto l’astensione agli alleati socialdemocratici, Brandeburgo e Turingia, dove a impedire il voto favorevole è stata la Linke.
Cosa cambia dunque per i richiedenti asilo? Innanzitutto, non potranno più essere considerati tali quelli che arrivano da Kosovo, Albania e Montenegro, che passano ad essere considerati ufficialmente «Paesi sicuri». Evidentemente, in pochi si sono accorti dei tumulti scoppiati a Pristina nei giorni scorsi, legati ovviamente alle difficili relazioni e alla tensione esistente fra maggioranza albanese e minoranza serba: il fatto che in quella parte di Balcani operi tuttora un contingente di «peace enforcing» della Nato dev’essere un dettaglio trascurabile. Per molti critici, compresa la principale ong che si occupa di profughi, Pro-Asyl, è questo l’aspetto peggiore della nuova normativa.
Ma c’è dell’altro: le procedure di allontanamento vengono semplificate, ai migranti verranno elargiti beni e servizi invece delle diarie, e aumenta il periodo di tempo in cui dovranno stare nei centri di raccolta. Il cosiddetto «bicchiere mezzo pieno», su cui hanno fatto leva i Verdi che ieri hanno detto «sì», consiste nell’aumento dei finanziamenti per le amministrazioni locali che devono affrontare l’«emergenza», e nell’investimento in nuovi programmi di integrazione, a partire dal settore dell’educazione infantile. Il segno complessivo delle nuove regole è comunque regressivo, fondandosi sul dogma della distinzione fra profughi «legittimi», come i siriani, e «illegittimi», come tutti i cosiddetti «migranti economici».
Il clima in Germania non è più quello degli applausi alla stazione di Monaco e dei selfie della cancelliera nei centri di accoglienza: il vento è cambiato e soffia nella direzione gradita al governatore bavarese Horst Seehofer e alle destre di varia natura: dagli ultra-conservatori di Alternative für Deutschland ai «Patrioti contro l’islamizzazione» di Pegida, che organizzano marce molto partecipate.
Merkel deve fare i conti con una crescente fronda nel proprio partito: l’ultimo a farsi sentire, ieri, è stato il democristianissimo governatore della Sassonia, Stanislaw Tillich, che ha dichiarato di «comprendere» chi nutre riserve verso le scelte compiute dalla sua leader. In evidente difficoltà, la cancelliera deve andare incontro agli oppositori: ed è per questo che in un’intervista pubblicata nell’edizione odierna della Frankfurter Allgemeine, ma anticipata già nella serata di ieri, dà l’ok alla proposta di creare nelle zone di confine degli speciali centri di raccolta (Transitzone) riservati ai profughi che vengono dai cosiddetti Paesi sicuri. Un modo, evidentemente, per rendere quasi automatico il loro respingimento, impedendo la «dispersione» nel Paese. Un progetto inquietante, a cui la Spd – per fortuna – si dichiara contraria.
il manifesto 17.10.15
Civati: la mia contro-Leopolda
Sinistra. La ’cosa rossa’ e le alleanze. L’ex Pd: «A Milano lista unitaria, laica e anti-dem». Anche il Prc per la rottura con i democrat in tutte le città. Confronto interno in Sel: fra chi vuole accelerare il soggetto unitario e chi lo considera ’una chimera’. «Ma il vero problema è la cultura politica»
di Daniela Preziosi
L’ora della verità per la ’cosa rossa’ arriva presto, anzi prestissimo. Lunedì prossimo una nuova riunione fra le diverse anime della sinistra-sinistra di casa nostra dovrebbe sciogliere il nodo che sta strozzando in culla il nuovo soggetto venturo. Il nodo cruciale è quello delle alleanze delle amministrative di primavera, lontanissime ma già in grado di far litigare i promessi sposi della sinistra. Ieri sul manifesto Nichi Vendola ha schierato Sel a favore di «coalizioni di progresso che possano mettere in campo una sfida programmatica su elementi dirimenti», senza però escludere a priori la possibilità di accordo con il Pd, innanzitutto a Milano dove «puntiamo sulla continuità del laboratorio straordinario dell’amministrazione Pisapia»; ma anche a Roma dove il dialogo con il Pd post-Marino, per ora congelato, potrebbe riallacciarsi. Questa è la posizione su cui discuterà la prossima assemblea nazionale di Sel, il prossimo 24 ottobre. Discussione delicata, quella sull’autonomia dal Pd: non è un mistero che su questo il gruppo dirigente di Sel non è più compatto. Da una parte chi tira per l’accelerazione della cosa rossa, dall’altra quella di chi frena, e la definisce «chimera rossa», come ieri sull’Huffington Post hanno fatto i senatori Dario Stefano e Luciano Uras, che hanno invitato il proprio partito ritrovare «la prospettiva dell’unità del centrosinistra», che «non è morto, semmai è un terreno ancora da arare e coltivare». A partire «dalle amministrative».
In ogni caso quella di Vendola sulla prossima tornata elettorale non è la posizione di altri compagni di strada. Per Paolo Ferrero, leader di Rifondazione comunista (partito che pure a Milano è tuttora nella maggioranza di Giuliano Pisapia), «la proposta oggi è quella di aprire un processo costituente di un soggetto unitario della sinistra, antiliberista e quindi alternativo al Pd e alla Merkel». E via scendendo nelle città, dove visto che le amministrative «interesseranno oltre 10 milioni di persone, proponiamo di costruire liste unitarie di sinistra alternative al Pd in tutta Italia. Anche a Milano».
Che poi è la stessa idea di Pippo Civati, che propone liste «unitarie, laiche, di sinistra e autonome dal Pd in tutte le città»: anche qui, Milano in testa. Sul nodo delle alleanze la sua associazione Possibile prepara per metà novembre una due-giorni «aperta a tutti», in cui la questione sarà discussa e votata dagli iscritti. Il luogo della convention potrebbe essere Napoli. E il week end potrebbe coincidere con quello della nuova Leopolda renziana. Scelta arditissima dal punto di vista del confronto mediatico. Ma l’ex pd non se ne preoccupa: «Tanto siamo abituati al fatto che i giornali non parlino di noi. Ma saremo in 5mila veri, tutta gente che vuole fare politica a sinistra». Escludendo, sia chiaro, qualsiasi alleanza con il Pd, a qualsiasi latitudine. Intanto Civati è pronto a ricominciare la raccolta delle firme contro l’Italicum: ieri infatti il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha presentato alla Corte di Cassazione due quesiti per altrettanti referendum abrogativi della legge elettorale. Il parlamentare si rimette in moto «senza rancore verso chi non ha voluto firmare i nostri. A chi ci ha dato gli schiaffi porgeremo l’altro quesito».
La strada unitaria passa dunque per le iniziative comuni. Non per un nuovo soggetto comune, almeno per ora, né per nuovi gruppi parlamentari unitari: «In parlamento lavoriamo già insieme su tutte le questioni. Ma è inutile imboccare la strada del partito unico finché non abbiamo chiarito la questione delle alleanze: inutile unirci per ridividerci subito». Problema difficilmente aggirabile. «Il punto è che deve essere chiaro la missione di questo progetto costituente», spiega Massimo Torelli, dell’Altra Europa con Tsipras: «O si lancia un progetto, alternativo, autonomo, che si contrapponga al Pd e alle politiche renziane con grande obiettivo le prossime politiche, oppure sarà un generico forum. Sotto questo grande obiettivo sono importanti i passaggi del 2016: le amministrative, che assumono un carattere di elezioni di medio termine, e referendum. Ma sulle amministrative serve una indicazione generale. Altrimenti tutto diventa incomprensibile».
Civati: la mia contro-Leopolda
Sinistra. La ’cosa rossa’ e le alleanze. L’ex Pd: «A Milano lista unitaria, laica e anti-dem». Anche il Prc per la rottura con i democrat in tutte le città. Confronto interno in Sel: fra chi vuole accelerare il soggetto unitario e chi lo considera ’una chimera’. «Ma il vero problema è la cultura politica»
di Daniela Preziosi
L’ora della verità per la ’cosa rossa’ arriva presto, anzi prestissimo. Lunedì prossimo una nuova riunione fra le diverse anime della sinistra-sinistra di casa nostra dovrebbe sciogliere il nodo che sta strozzando in culla il nuovo soggetto venturo. Il nodo cruciale è quello delle alleanze delle amministrative di primavera, lontanissime ma già in grado di far litigare i promessi sposi della sinistra. Ieri sul manifesto Nichi Vendola ha schierato Sel a favore di «coalizioni di progresso che possano mettere in campo una sfida programmatica su elementi dirimenti», senza però escludere a priori la possibilità di accordo con il Pd, innanzitutto a Milano dove «puntiamo sulla continuità del laboratorio straordinario dell’amministrazione Pisapia»; ma anche a Roma dove il dialogo con il Pd post-Marino, per ora congelato, potrebbe riallacciarsi. Questa è la posizione su cui discuterà la prossima assemblea nazionale di Sel, il prossimo 24 ottobre. Discussione delicata, quella sull’autonomia dal Pd: non è un mistero che su questo il gruppo dirigente di Sel non è più compatto. Da una parte chi tira per l’accelerazione della cosa rossa, dall’altra quella di chi frena, e la definisce «chimera rossa», come ieri sull’Huffington Post hanno fatto i senatori Dario Stefano e Luciano Uras, che hanno invitato il proprio partito ritrovare «la prospettiva dell’unità del centrosinistra», che «non è morto, semmai è un terreno ancora da arare e coltivare». A partire «dalle amministrative».
In ogni caso quella di Vendola sulla prossima tornata elettorale non è la posizione di altri compagni di strada. Per Paolo Ferrero, leader di Rifondazione comunista (partito che pure a Milano è tuttora nella maggioranza di Giuliano Pisapia), «la proposta oggi è quella di aprire un processo costituente di un soggetto unitario della sinistra, antiliberista e quindi alternativo al Pd e alla Merkel». E via scendendo nelle città, dove visto che le amministrative «interesseranno oltre 10 milioni di persone, proponiamo di costruire liste unitarie di sinistra alternative al Pd in tutta Italia. Anche a Milano».
Che poi è la stessa idea di Pippo Civati, che propone liste «unitarie, laiche, di sinistra e autonome dal Pd in tutte le città»: anche qui, Milano in testa. Sul nodo delle alleanze la sua associazione Possibile prepara per metà novembre una due-giorni «aperta a tutti», in cui la questione sarà discussa e votata dagli iscritti. Il luogo della convention potrebbe essere Napoli. E il week end potrebbe coincidere con quello della nuova Leopolda renziana. Scelta arditissima dal punto di vista del confronto mediatico. Ma l’ex pd non se ne preoccupa: «Tanto siamo abituati al fatto che i giornali non parlino di noi. Ma saremo in 5mila veri, tutta gente che vuole fare politica a sinistra». Escludendo, sia chiaro, qualsiasi alleanza con il Pd, a qualsiasi latitudine. Intanto Civati è pronto a ricominciare la raccolta delle firme contro l’Italicum: ieri infatti il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha presentato alla Corte di Cassazione due quesiti per altrettanti referendum abrogativi della legge elettorale. Il parlamentare si rimette in moto «senza rancore verso chi non ha voluto firmare i nostri. A chi ci ha dato gli schiaffi porgeremo l’altro quesito».
La strada unitaria passa dunque per le iniziative comuni. Non per un nuovo soggetto comune, almeno per ora, né per nuovi gruppi parlamentari unitari: «In parlamento lavoriamo già insieme su tutte le questioni. Ma è inutile imboccare la strada del partito unico finché non abbiamo chiarito la questione delle alleanze: inutile unirci per ridividerci subito». Problema difficilmente aggirabile. «Il punto è che deve essere chiaro la missione di questo progetto costituente», spiega Massimo Torelli, dell’Altra Europa con Tsipras: «O si lancia un progetto, alternativo, autonomo, che si contrapponga al Pd e alle politiche renziane con grande obiettivo le prossime politiche, oppure sarà un generico forum. Sotto questo grande obiettivo sono importanti i passaggi del 2016: le amministrative, che assumono un carattere di elezioni di medio termine, e referendum. Ma sulle amministrative serve una indicazione generale. Altrimenti tutto diventa incomprensibile».
il manifesto 17.10.15
8 euro lordi, statali in rivolta
Finanziaria. Sindacati pubblico impiego e scuola compatti: "Una provocazione 8 euro al mese lordi di aumento". il manifesto 17.10.15
Cgil, Cisl, Uil e Cobas critici anche sulla flessibilità in uscita per i futuri pensionati e i mancati fondi per il Mezzogiorno. Bersani: da cambiare tetto contante a 3mila euro e Imu-Tasi tagliata a ville e castelli.
di Riccardo Chiari
ROMA Una «provocazione». Di fronte all’aumento salariale medio di 8 euro lordi al mese, contenuto nel ddl di stabilità, per i 3,2 milioni di addetti nella scuola e negli altri comparti del pubblico impiego, i sindacati confederali di categoria annunciano «mobilitazioni durissime». Mentre i Cobas della scuola confermano per il 13 novembre uno sciopero «che vogliamo unitario come a maggio-giugno e con una manifestazione nazionale». Aspettando risposta almeno sullo sciopero da Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda.
Anche su altri aspetti del ddl di stabilità, come la flessibilità in uscita per i pensionati e gli impegni, in gran parte disattesi, per il Mezzogiorno, le mosse del governo sembrano riunire Cgil e Uil da una parte e Cisl dall’altra.
«L’evasione nel nostro paese è un fenomeno colossale,negli Stati Uniti, se vai a pagare un albergo in contanti chiamano lo sceriffo»
Pierluigi Bersani
Mentre dentro il Pd le critiche maggiori al ddl riguardano il taglio Imu-Tasi anche per i proprietari di ville e castelli, e il tetto dei contanti portato da 1.000 a 3.000 euro: «Questa decisione dobbiamo correggerla — avverte Pierluigi Bersani — perché dà un segnale molto preoccupante. L’evasione nel nostro paese è un fenomeno colossale, non è il caso di aggredirlo con meccanismi terroristici ma con gli strumenti di oggi, a cominciare dalla tracciabilità dei pagamenti. Negli Stati Uniti, se vai a pagare un albergo in contanti chiamano lo sceriffo».
Invitata a Radio anch’io, Susanna Camusso sintetizza così il ddl di stabilità : «Una manovra espansiva solo per alcuni – osserva la segretaria generale della Cgil — e mediamente non con tutta quella parte fondamentale per la crescita del paese che si chiama mondo del lavoro». Il ministro Poletti controbatte: «Io penso che nel merito la manovra dovrebbe essere apprezzata». Ma anche Uil e Cisl appaiono molto fredde su alcuni punti: «Sui tre argomenti principali, mi pare, abbiamo una impostazione unitaria – osserva il numero uno della Uil, Carmelo Barbagallo – e sono il contratto dei dipendenti pubblici, la flessibilità in uscita per i pensionati e il Sud. Vedremo».
Chi non aspetta nemmeno mezza giornata sono le Funzioni pubbliche: «I 300 milioni, che poi diventano 200 a fine serata, della “stabilità” elettorale del governo, non sono un contratto ma una mancia – attaccano Rossana Dettori, Giovanni Faverin, Giovanni Torluccio e Nicola Turco per Fp-Cgil, Cisl-Fp Uil-Fpl e Uilpa — dietro la decisione di non finanziare il rinnovo del contratto di più di 3,2 milioni di lavoratori è nascosta una scelta politica precisa: aumentare il conflitto sociale e professionale, eliminare la motivazione, mortificare la competenza e la dedizione al servizio delle comunità. Noi diciamo no». Con la benedizione della leader cislina Anna Maria Furlan.
Dicono no anche i Cobas, che con Piero Bernocchi riepilogano lo stato delle cose: «Dopo sei anni di blocco contrattuale, a fronte di una perdita di almeno il 20% di salario, tra i 250 e i 300 euro, ai lavoratori della scuola e del restante pubblico impiego viene “offerto” un aumento salariale medio di 8 euro lordi al mese. E’ un’offerta grottesca». Non è finita: «Derisoria è anche la proposta che viene fatta ai lavoratori prigionieri della legge Fornero — segnala Bernocchi — non ci sarà alcun anticipo del pensionamento ma, se proprio lo desiderano, dopo i 63 anni potranno auto-dimezzarsi lo stipendio, già misero, lavorando in part-time. In aggiunta, la legge impone il solito, insopportabile taglio alla sanità e quello a strutture, servizi e posti di lavoro nella pubblica amministrazione, quell’impoverimento di altri 7 miliardi di euro celato sotto l’apparentemente tecnica definizione di spending review».
Sul disegno di legge la minoranza Pd farà emendamenti in particolare sul taglio Imu-Tasi, e sul tetto dei contanti portato a 3.000 euro: «Uno che ha 3mila euro per fare un acquisto ha sicuramente la carta di credito in tasca – osserva in proposito Pierluigi Bersani – è che non vuole usarla. Semplificazione? E’ più semplice usare la carta di credito che sfogliare 3mila euro in contanti».
E sulla cancellazione dell’Imu: «Era più giusto fare come il governo Prodi. Dobbiamo esentare le fasce più deboli. Ma perché devo regalare 2mila e 800 euro al padrone di un palazzo, mentre una famiglia che ha un modesto appartamento in periferia ci guadagna solo 150 euro?».
In tarda serata da palazzo Chigi si fa sapere che il testo del ddl deve essere ancora consegnato al parlamento: «Fantasiose bozze e misure riportate dagli organi di stampa sono, perciò, assolutamente lontane dalla realtà». A occhio, il riferimento è a una presunta multa di 500 euro per chi non paga il canone Rai. Che, sempre a occhio, avrà grosse difficoltà ad essere inserito nella bolletta elettrica, così come dice di voler fare il governo.
8 euro lordi, statali in rivolta
Finanziaria. Sindacati pubblico impiego e scuola compatti: "Una provocazione 8 euro al mese lordi di aumento". il manifesto 17.10.15
Cgil, Cisl, Uil e Cobas critici anche sulla flessibilità in uscita per i futuri pensionati e i mancati fondi per il Mezzogiorno. Bersani: da cambiare tetto contante a 3mila euro e Imu-Tasi tagliata a ville e castelli.
di Riccardo Chiari
ROMA Una «provocazione». Di fronte all’aumento salariale medio di 8 euro lordi al mese, contenuto nel ddl di stabilità, per i 3,2 milioni di addetti nella scuola e negli altri comparti del pubblico impiego, i sindacati confederali di categoria annunciano «mobilitazioni durissime». Mentre i Cobas della scuola confermano per il 13 novembre uno sciopero «che vogliamo unitario come a maggio-giugno e con una manifestazione nazionale». Aspettando risposta almeno sullo sciopero da Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda.
Anche su altri aspetti del ddl di stabilità, come la flessibilità in uscita per i pensionati e gli impegni, in gran parte disattesi, per il Mezzogiorno, le mosse del governo sembrano riunire Cgil e Uil da una parte e Cisl dall’altra.
«L’evasione nel nostro paese è un fenomeno colossale,negli Stati Uniti, se vai a pagare un albergo in contanti chiamano lo sceriffo»
Pierluigi Bersani
Mentre dentro il Pd le critiche maggiori al ddl riguardano il taglio Imu-Tasi anche per i proprietari di ville e castelli, e il tetto dei contanti portato da 1.000 a 3.000 euro: «Questa decisione dobbiamo correggerla — avverte Pierluigi Bersani — perché dà un segnale molto preoccupante. L’evasione nel nostro paese è un fenomeno colossale, non è il caso di aggredirlo con meccanismi terroristici ma con gli strumenti di oggi, a cominciare dalla tracciabilità dei pagamenti. Negli Stati Uniti, se vai a pagare un albergo in contanti chiamano lo sceriffo».
Invitata a Radio anch’io, Susanna Camusso sintetizza così il ddl di stabilità : «Una manovra espansiva solo per alcuni – osserva la segretaria generale della Cgil — e mediamente non con tutta quella parte fondamentale per la crescita del paese che si chiama mondo del lavoro». Il ministro Poletti controbatte: «Io penso che nel merito la manovra dovrebbe essere apprezzata». Ma anche Uil e Cisl appaiono molto fredde su alcuni punti: «Sui tre argomenti principali, mi pare, abbiamo una impostazione unitaria – osserva il numero uno della Uil, Carmelo Barbagallo – e sono il contratto dei dipendenti pubblici, la flessibilità in uscita per i pensionati e il Sud. Vedremo».
Chi non aspetta nemmeno mezza giornata sono le Funzioni pubbliche: «I 300 milioni, che poi diventano 200 a fine serata, della “stabilità” elettorale del governo, non sono un contratto ma una mancia – attaccano Rossana Dettori, Giovanni Faverin, Giovanni Torluccio e Nicola Turco per Fp-Cgil, Cisl-Fp Uil-Fpl e Uilpa — dietro la decisione di non finanziare il rinnovo del contratto di più di 3,2 milioni di lavoratori è nascosta una scelta politica precisa: aumentare il conflitto sociale e professionale, eliminare la motivazione, mortificare la competenza e la dedizione al servizio delle comunità. Noi diciamo no». Con la benedizione della leader cislina Anna Maria Furlan.
Dicono no anche i Cobas, che con Piero Bernocchi riepilogano lo stato delle cose: «Dopo sei anni di blocco contrattuale, a fronte di una perdita di almeno il 20% di salario, tra i 250 e i 300 euro, ai lavoratori della scuola e del restante pubblico impiego viene “offerto” un aumento salariale medio di 8 euro lordi al mese. E’ un’offerta grottesca». Non è finita: «Derisoria è anche la proposta che viene fatta ai lavoratori prigionieri della legge Fornero — segnala Bernocchi — non ci sarà alcun anticipo del pensionamento ma, se proprio lo desiderano, dopo i 63 anni potranno auto-dimezzarsi lo stipendio, già misero, lavorando in part-time. In aggiunta, la legge impone il solito, insopportabile taglio alla sanità e quello a strutture, servizi e posti di lavoro nella pubblica amministrazione, quell’impoverimento di altri 7 miliardi di euro celato sotto l’apparentemente tecnica definizione di spending review».
Sul disegno di legge la minoranza Pd farà emendamenti in particolare sul taglio Imu-Tasi, e sul tetto dei contanti portato a 3.000 euro: «Uno che ha 3mila euro per fare un acquisto ha sicuramente la carta di credito in tasca – osserva in proposito Pierluigi Bersani – è che non vuole usarla. Semplificazione? E’ più semplice usare la carta di credito che sfogliare 3mila euro in contanti».
E sulla cancellazione dell’Imu: «Era più giusto fare come il governo Prodi. Dobbiamo esentare le fasce più deboli. Ma perché devo regalare 2mila e 800 euro al padrone di un palazzo, mentre una famiglia che ha un modesto appartamento in periferia ci guadagna solo 150 euro?».
In tarda serata da palazzo Chigi si fa sapere che il testo del ddl deve essere ancora consegnato al parlamento: «Fantasiose bozze e misure riportate dagli organi di stampa sono, perciò, assolutamente lontane dalla realtà». A occhio, il riferimento è a una presunta multa di 500 euro per chi non paga il canone Rai. Che, sempre a occhio, avrà grosse difficoltà ad essere inserito nella bolletta elettrica, così come dice di voler fare il governo.
Repubblica 17.10.15
La Bibbia è un libro sovversivo
Desmond Tutu spiega perché i testi sacri possono essere strumenti per combattere le oppressioni come accaduto in Sudafrica
I missionari hanno messo nelle mani di noi neri un oggetto rivoluzionario
In quelle pagine viene proclamato il valore di ogni essere umano senza distinzioni
di Desmond Tutu
Bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. «Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: “Preghiamo!”. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: “Amen”. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia». La storiella, però, non è corretta nei confronti dei missionari. Qualche volta possono essere stati l’avanguardia che spianava la strada ai loro compatrioti colonizzatori, ma io voglio rendere omaggio
alla maggioranza dei missionari occidentali. Quasi tutti noi che facciamo parte della comunità nera dobbiamo la nostra istruzione a quegli indomiti europei che costruirono eccellenti istituzioni educative come Lovedale, Healdtown e l’Università di Fort Hare nella provincia del Capo orientale, che serviva non solo il Sudafrica ma anche altri paesi del continente africano ed era uno dei pochi atenei che offrivano il livello più alto di istruzione anche ai neri. Nelson Mandela ha compiuto quasi tutto il suo corso di studi in questi istituti.
Senza gli ambulatori e gli ospedali costruiti dai missionari, molti di noi non sarebbero sopravvissuti alle malattie che affliggevano le famiglie povere e analfabete. Non si può calunniare degli esseri umani che sono stati tra i più generosi e altruisti che abbiano mai camminato sulla faccia della terra. Come si giustifica, dunque, lo sdegno evocato dalla storiella? Veramente racconta un cattivo affare? Uno perde la propria terra e tutti gli annessi e connessi in cambio di che cosa? Della Bibbia. Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. [...] Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. È più rivoluzionaria, più sovversiva di qualunque manifesto o ideologia politica. Perché? Perché la Bibbia afferma che ciascuno di noi, senza eccezioni, è creato a immagine di Dio (l’ Imago
Dei ). Che sia ricco o povero, bianco o nero, istruito o analfabeta, maschio o femmina, ciascuno di noi è creato a immagine di Dio e questo è meraviglioso, entusiasmante.
Il nostro valore è intrinseco; lo troviamo, per così dire, già confezionato in noi stessi. Tutte le discriminazioni si basano su qualche attributo: la razza, il genere, l’orientamento sessuale, il grado di istruzione, il livello di reddito. Ma questi attributi sono estrinseci; possono essere variegati e noi restiamo umani; siamo umani con qualunque combinazione dei precedenti attributi. La Bibbia dichiara esplicitamente e con forza che il fatto che ci riempie di valore, di un valore infinito, è uno solo: che siamo creati a immagine di Dio. Il nostro valore ci viene fornito con il nostro stesso essere. È intrinseco e universale. Appartiene a tutti gli esseri umani, indifferentemente.
Nel mondo antico il re, non potendo essere presente nello stesso tempo in tutte le parti del suo territorio, collocava nelle diverse province le sue immagini, che dovevano essere riverite come il monarca in persona. I sudditi del re dovevano inchinarsi o fare una riverenza davanti alla statua come avrebbero fatto dinanzi al sovrano in carne e ossa. Quindi, per la Bibbia, dire che siamo l’immagine di Dio significa fare un’affermazione importante e decisamente sovversiva.
Gran parte dell’ingiustizia nel mondo avviene perché delle persone sono discriminate in base ad attributi estrinseci, spesso considerati di natura biologica. Così è accaduto con la Shoah perpetrata dai nazisti, quando sei milioni di ebrei furono uccisi dagli ariani che si autoproclamavano «superiori», insieme a cinque milioni di altre persone «diverse ». In Sudafrica i neri furono sottoposti all’aberrante sistema dell’apartheid. Noi neri eravamo, sì, considerati umani, ma non quanto i nostri compatrioti bianchi. Era eloquente vedere avvisi pubblici che dichiaravano spudoratamente: «Vietato l’ingresso ai nativi (cioè ai neri) e ai cani». La classe dirigente spesso trattava i suoi cani molto meglio di come trattava i neri. Se credessimo veramente a quello che abbiamo affermato, che ogni essere umano senza alcuna eccezione è creato a immagine di Dio, e quindi è un portatore di Dio, allora qualunque maltrattamento di un altro essere umano ci farebbe inorridire, perché è non solo ingiusto, ma anche oltraggiosamente blasfemo. È davvero come sputare in faccia a Dio.
Ecco dunque ciò che i missionari ci hanno portato: un libro che è più radicale e più rivoluzionario di qualunque manifesto politico. San Paolo dice ai cristiani di Corinto che ciascuno di loro è un tabernacolo, un tempio dello Spirito Santo ( 1Cor 6,19). Nella tradizione anglo-cattolica, ci genuflettiamo per riverire il Santissimo Sacramento, di cui riconosciamo la presenza per mezzo della lampada, bianca o rossa, accesa davanti o sopra al tabernacolo. Se credessimo veramente che ciascuno di noi è un portatore di Dio e un tempio dello Spirito Santo, allora quando ci salutiamo non ci limiteremmo a stringerci la mano, ma ci inchineremmo profondamente come fanno i buddhisti, o ci inginocchieremmo gli uni davanti agli altri: «Il Dio che è in me saluta il Dio che è in te».
Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, fi gli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta. Noi che crediamo di essere creati a immagine di Dio, noi che siamo portatori di Dio, non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore. Noi dobbiamo opporci all’ingiustizia. Non abbiamo scelta. Nelle situazioni di ingiustizia e oppressione, non portate la Bibbia; altrimenti, se viene compresa correttamente, essa sovvertirà quell’ingiustizia e quell’oppressione.
© Desmond M. Tutu 2014 © EMI 2015 Traduzione di Mario Mansuelli
* L’ANTICIPAZIONE Il libro Il mio Dio sovversivo di Desmond Tutu (Emi) In alto, un particolare della Madonna del Magnificat di Botticelli
La Bibbia è un libro sovversivo
Desmond Tutu spiega perché i testi sacri possono essere strumenti per combattere le oppressioni come accaduto in Sudafrica
I missionari hanno messo nelle mani di noi neri un oggetto rivoluzionario
In quelle pagine viene proclamato il valore di ogni essere umano senza distinzioni
di Desmond Tutu
Bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. «Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: “Preghiamo!”. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: “Amen”. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia». La storiella, però, non è corretta nei confronti dei missionari. Qualche volta possono essere stati l’avanguardia che spianava la strada ai loro compatrioti colonizzatori, ma io voglio rendere omaggio
alla maggioranza dei missionari occidentali. Quasi tutti noi che facciamo parte della comunità nera dobbiamo la nostra istruzione a quegli indomiti europei che costruirono eccellenti istituzioni educative come Lovedale, Healdtown e l’Università di Fort Hare nella provincia del Capo orientale, che serviva non solo il Sudafrica ma anche altri paesi del continente africano ed era uno dei pochi atenei che offrivano il livello più alto di istruzione anche ai neri. Nelson Mandela ha compiuto quasi tutto il suo corso di studi in questi istituti.
Senza gli ambulatori e gli ospedali costruiti dai missionari, molti di noi non sarebbero sopravvissuti alle malattie che affliggevano le famiglie povere e analfabete. Non si può calunniare degli esseri umani che sono stati tra i più generosi e altruisti che abbiano mai camminato sulla faccia della terra. Come si giustifica, dunque, lo sdegno evocato dalla storiella? Veramente racconta un cattivo affare? Uno perde la propria terra e tutti gli annessi e connessi in cambio di che cosa? Della Bibbia. Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. [...] Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. È più rivoluzionaria, più sovversiva di qualunque manifesto o ideologia politica. Perché? Perché la Bibbia afferma che ciascuno di noi, senza eccezioni, è creato a immagine di Dio (l’ Imago
Dei ). Che sia ricco o povero, bianco o nero, istruito o analfabeta, maschio o femmina, ciascuno di noi è creato a immagine di Dio e questo è meraviglioso, entusiasmante.
Il nostro valore è intrinseco; lo troviamo, per così dire, già confezionato in noi stessi. Tutte le discriminazioni si basano su qualche attributo: la razza, il genere, l’orientamento sessuale, il grado di istruzione, il livello di reddito. Ma questi attributi sono estrinseci; possono essere variegati e noi restiamo umani; siamo umani con qualunque combinazione dei precedenti attributi. La Bibbia dichiara esplicitamente e con forza che il fatto che ci riempie di valore, di un valore infinito, è uno solo: che siamo creati a immagine di Dio. Il nostro valore ci viene fornito con il nostro stesso essere. È intrinseco e universale. Appartiene a tutti gli esseri umani, indifferentemente.
Nel mondo antico il re, non potendo essere presente nello stesso tempo in tutte le parti del suo territorio, collocava nelle diverse province le sue immagini, che dovevano essere riverite come il monarca in persona. I sudditi del re dovevano inchinarsi o fare una riverenza davanti alla statua come avrebbero fatto dinanzi al sovrano in carne e ossa. Quindi, per la Bibbia, dire che siamo l’immagine di Dio significa fare un’affermazione importante e decisamente sovversiva.
Gran parte dell’ingiustizia nel mondo avviene perché delle persone sono discriminate in base ad attributi estrinseci, spesso considerati di natura biologica. Così è accaduto con la Shoah perpetrata dai nazisti, quando sei milioni di ebrei furono uccisi dagli ariani che si autoproclamavano «superiori», insieme a cinque milioni di altre persone «diverse ». In Sudafrica i neri furono sottoposti all’aberrante sistema dell’apartheid. Noi neri eravamo, sì, considerati umani, ma non quanto i nostri compatrioti bianchi. Era eloquente vedere avvisi pubblici che dichiaravano spudoratamente: «Vietato l’ingresso ai nativi (cioè ai neri) e ai cani». La classe dirigente spesso trattava i suoi cani molto meglio di come trattava i neri. Se credessimo veramente a quello che abbiamo affermato, che ogni essere umano senza alcuna eccezione è creato a immagine di Dio, e quindi è un portatore di Dio, allora qualunque maltrattamento di un altro essere umano ci farebbe inorridire, perché è non solo ingiusto, ma anche oltraggiosamente blasfemo. È davvero come sputare in faccia a Dio.
Ecco dunque ciò che i missionari ci hanno portato: un libro che è più radicale e più rivoluzionario di qualunque manifesto politico. San Paolo dice ai cristiani di Corinto che ciascuno di loro è un tabernacolo, un tempio dello Spirito Santo ( 1Cor 6,19). Nella tradizione anglo-cattolica, ci genuflettiamo per riverire il Santissimo Sacramento, di cui riconosciamo la presenza per mezzo della lampada, bianca o rossa, accesa davanti o sopra al tabernacolo. Se credessimo veramente che ciascuno di noi è un portatore di Dio e un tempio dello Spirito Santo, allora quando ci salutiamo non ci limiteremmo a stringerci la mano, ma ci inchineremmo profondamente come fanno i buddhisti, o ci inginocchieremmo gli uni davanti agli altri: «Il Dio che è in me saluta il Dio che è in te».
Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, fi gli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta. Noi che crediamo di essere creati a immagine di Dio, noi che siamo portatori di Dio, non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore. Noi dobbiamo opporci all’ingiustizia. Non abbiamo scelta. Nelle situazioni di ingiustizia e oppressione, non portate la Bibbia; altrimenti, se viene compresa correttamente, essa sovvertirà quell’ingiustizia e quell’oppressione.
© Desmond M. Tutu 2014 © EMI 2015 Traduzione di Mario Mansuelli
* L’ANTICIPAZIONE Il libro Il mio Dio sovversivo di Desmond Tutu (Emi) In alto, un particolare della Madonna del Magnificat di Botticelli
Repubblica 17.10.15
Se gli intellettuali svoltano a destra per puro marketing
Tanti autori folgorati dal tema dell’identità francese
Scelta politica? No,solo mediatica
Siamo lontani anni luce da un Sartre schierato con gli operai o da un Foucault che denunciava le condizioni carcerarie
di Christian Salmon
Un nuovo «caso» sta scuotendo la Francia: gli “intellettuali” sarebbero ormai schierati a destra, o in altri termini, passati dalla parte del nemico. Tradimento? Eresia? Il caso merita una riflessione, poiché segna una nuova tappa della mutazione iniziata più di trent’anni fa con i “nuovi filosofi”. E’ da allora che la figura dell’intellettuale, nata al tempo dell’”affaire Dreyfus”, si decompone sempre più sotto le bordate della globalizzazione, della rivoluzione neoliberista e della terza rivoluzione industriale. Al centro di questo nuovo caso figurano quattro personaggi che a prima vista non hanno nulla in comune. Houellebecq, romanziere navigato, ha l’abilità di situare le tematiche dei suoi romanzi al centro dei dibattiti in atto nella società.Eric Zemmour è un polemista nostalgico di una Francia senza stranieri. Alain Finkielkraut, autore di saggi declinisti, si scaglia contro un’immigrazione snaturante, una scuola squalificante e l’assuefazione alle nuove tecnologie. Quanto a Michel Onfray, è autore
di successo di una controstoria della filosofia, demolitore di tutte le idolatrie, compresi Freud e la psicanalisi. Sono tutti accusati di deriva a destra, e di fare il gioco del Front National. Siamo lontani da un Sartre schierato con gli operai della Renault in sciopero (francesi e immigrati), da un Foucault che denunciava le condizioni di vita dei carcerati (francesi e immigrati).
Questo gruppo di intellettuali preoccupati per l’identità francese, minacciata dalle ondate di immigrazione, non denuncia più il razzismo ma l’antirazzismo, e si schiera in difesa del “popolino” disprezzato, a tutto vantaggio dei rifugiati, e del “français de souche” (il francese d’origine). Non si può comprendere un simile voltafaccia senza entrare nella logica dell’universo mediatico. In un mondo saturato di informazioni, l’attenzione è la più rara delle risorse: solo un messaggio shock, più clamoroso di quello che l’ha preceduto, può avere qualche probabilità di captare l’attenzione. I comportamenti da adottare nell’universo concorrenziale dei canali tv sono tutti calcolati per ottenere, come scrive George Steiner, «il massimo impatto e un’istantanea obsolescenza». E questa duplice esigenza favorisce il generalizzarsi di comportamenti trasgressivi.
È il caso di Michel Onfray, quando in piena crisi dei profughi denuncia le «messe catodiche » in favore degli immigrati, anteposti al «popolo francese disprezzato». Onfray si fa avvocato di «questo popolo old school», il «nostro popolo », il «mio popolo», non senza precisare che chi parla a questo popolo è Marine Le Pen. Successo garantito. Ma già la breccia era stata aperta da Alain Finkielkraut all’epoca delle rivolte delle banlieue, quando si era scagliato violentemente contro i «neri», gli «arabi» e l’islam. Michel Houellebecq tocca le stesse corde, dichiarando che «la religione più cretina resta comunque l’islam». Quanto a Eric Zemmour, cavaliere dell’Apocalisse identitaria, né romanziere né filosofo ma polemista di professione, dichiara, all’indomani del naufragio costato la vita a varie centinaia di persone, che «i naufraghi di Lampedusa non sono profughi ma invasori».
Analizzando l’irruzione dei nuovi filosofi nel mondo intellettuale, alla fine dei Settanta, Gilles Deleuze si guarda bene dal discutere i contenuti delle loro posizioni, ma mette a nudo le leggi delle loro performance mediatiche, e quella che definisce «la trovata del marketing». E rileva due indizi che strutturano tuttora gli interventi degli intellettuali mediatici. Innanzitutto, procedono per concetti grossolani, tagliati con l’accetta. Ieri c’era la Legge, il Potere, il Gulag. Oggi c’è l’Identità, il Popolo, la Nazione, lo Straniero, la Razza, la Scuola, la Laicità. Secondo indizio: la personalizzazione del pensiero. «Quanto più debole è il contenuto di un pensiero, tanto maggiore è l’importanza che acquista il pensatore ». Anche in questo caso, l’efficacia è garantita dai talk show, che hanno bisogno di personalizzare il pensiero e la politica.
Ma solo in Francia questa farsa è arrivata a livelli così estremi. In quest’autunno 2015 sta assumendo le proporzioni un vero carnevale delle streghe, una notte di Walpurga in cui l’intellettuale mediatico getta alle fiamme ciò che aveva adorato e si assoggetta alla temperie dominante, facendo proprie le icone dell’identità, della nazione e del popolo. Sono anni che i media, con una perseveranza che sconfina nell’ossessione, fanno da palcoscenico all’enfasi identitaria. Gli intellettuali mediatici non sono altro che i loro portavoce, senza neppure il privilegio di essere stati i primi. La deriva a destra degli intellettuali è la forma che assume il loro allineamento alla doxa mediatica, la loro sottomissione al clima dominante, all’aria che tira. Se vanno a destra, non è per una loro inclinazione, ma perché seguono la china delle idee preconcette.
Sono assorbiti dal buco nero dei media, che inghiotte e divora ogni esperienza reale di creazione o di pensiero. Ma l’intellettuale non è il solo a cedere al fascino del lupo che avanza, dissimulato dietro le sembianze della Notorietà. A soccombere sono tutte le figure del potere: quella del politico, dell’intellettuale, del giornalista (il quarto potere). L’uomo politico ha perso la sua capacità di agire, il giornalista la sua indipendenza. L’intellettuale è inoperoso – privato dell’opera. Queste tre figure spogliate del loro potere si fondono per dar vita all’istrione, al polemista, che è la forma terminale dell’intellettuale mediatico – un intellettuale addomesticato.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
Se gli intellettuali svoltano a destra per puro marketing
Tanti autori folgorati dal tema dell’identità francese
Scelta politica? No,solo mediatica
Siamo lontani anni luce da un Sartre schierato con gli operai o da un Foucault che denunciava le condizioni carcerarie
di Christian Salmon
Un nuovo «caso» sta scuotendo la Francia: gli “intellettuali” sarebbero ormai schierati a destra, o in altri termini, passati dalla parte del nemico. Tradimento? Eresia? Il caso merita una riflessione, poiché segna una nuova tappa della mutazione iniziata più di trent’anni fa con i “nuovi filosofi”. E’ da allora che la figura dell’intellettuale, nata al tempo dell’”affaire Dreyfus”, si decompone sempre più sotto le bordate della globalizzazione, della rivoluzione neoliberista e della terza rivoluzione industriale. Al centro di questo nuovo caso figurano quattro personaggi che a prima vista non hanno nulla in comune. Houellebecq, romanziere navigato, ha l’abilità di situare le tematiche dei suoi romanzi al centro dei dibattiti in atto nella società.Eric Zemmour è un polemista nostalgico di una Francia senza stranieri. Alain Finkielkraut, autore di saggi declinisti, si scaglia contro un’immigrazione snaturante, una scuola squalificante e l’assuefazione alle nuove tecnologie. Quanto a Michel Onfray, è autore
di successo di una controstoria della filosofia, demolitore di tutte le idolatrie, compresi Freud e la psicanalisi. Sono tutti accusati di deriva a destra, e di fare il gioco del Front National. Siamo lontani da un Sartre schierato con gli operai della Renault in sciopero (francesi e immigrati), da un Foucault che denunciava le condizioni di vita dei carcerati (francesi e immigrati).
Questo gruppo di intellettuali preoccupati per l’identità francese, minacciata dalle ondate di immigrazione, non denuncia più il razzismo ma l’antirazzismo, e si schiera in difesa del “popolino” disprezzato, a tutto vantaggio dei rifugiati, e del “français de souche” (il francese d’origine). Non si può comprendere un simile voltafaccia senza entrare nella logica dell’universo mediatico. In un mondo saturato di informazioni, l’attenzione è la più rara delle risorse: solo un messaggio shock, più clamoroso di quello che l’ha preceduto, può avere qualche probabilità di captare l’attenzione. I comportamenti da adottare nell’universo concorrenziale dei canali tv sono tutti calcolati per ottenere, come scrive George Steiner, «il massimo impatto e un’istantanea obsolescenza». E questa duplice esigenza favorisce il generalizzarsi di comportamenti trasgressivi.
È il caso di Michel Onfray, quando in piena crisi dei profughi denuncia le «messe catodiche » in favore degli immigrati, anteposti al «popolo francese disprezzato». Onfray si fa avvocato di «questo popolo old school», il «nostro popolo », il «mio popolo», non senza precisare che chi parla a questo popolo è Marine Le Pen. Successo garantito. Ma già la breccia era stata aperta da Alain Finkielkraut all’epoca delle rivolte delle banlieue, quando si era scagliato violentemente contro i «neri», gli «arabi» e l’islam. Michel Houellebecq tocca le stesse corde, dichiarando che «la religione più cretina resta comunque l’islam». Quanto a Eric Zemmour, cavaliere dell’Apocalisse identitaria, né romanziere né filosofo ma polemista di professione, dichiara, all’indomani del naufragio costato la vita a varie centinaia di persone, che «i naufraghi di Lampedusa non sono profughi ma invasori».
Analizzando l’irruzione dei nuovi filosofi nel mondo intellettuale, alla fine dei Settanta, Gilles Deleuze si guarda bene dal discutere i contenuti delle loro posizioni, ma mette a nudo le leggi delle loro performance mediatiche, e quella che definisce «la trovata del marketing». E rileva due indizi che strutturano tuttora gli interventi degli intellettuali mediatici. Innanzitutto, procedono per concetti grossolani, tagliati con l’accetta. Ieri c’era la Legge, il Potere, il Gulag. Oggi c’è l’Identità, il Popolo, la Nazione, lo Straniero, la Razza, la Scuola, la Laicità. Secondo indizio: la personalizzazione del pensiero. «Quanto più debole è il contenuto di un pensiero, tanto maggiore è l’importanza che acquista il pensatore ». Anche in questo caso, l’efficacia è garantita dai talk show, che hanno bisogno di personalizzare il pensiero e la politica.
Ma solo in Francia questa farsa è arrivata a livelli così estremi. In quest’autunno 2015 sta assumendo le proporzioni un vero carnevale delle streghe, una notte di Walpurga in cui l’intellettuale mediatico getta alle fiamme ciò che aveva adorato e si assoggetta alla temperie dominante, facendo proprie le icone dell’identità, della nazione e del popolo. Sono anni che i media, con una perseveranza che sconfina nell’ossessione, fanno da palcoscenico all’enfasi identitaria. Gli intellettuali mediatici non sono altro che i loro portavoce, senza neppure il privilegio di essere stati i primi. La deriva a destra degli intellettuali è la forma che assume il loro allineamento alla doxa mediatica, la loro sottomissione al clima dominante, all’aria che tira. Se vanno a destra, non è per una loro inclinazione, ma perché seguono la china delle idee preconcette.
Sono assorbiti dal buco nero dei media, che inghiotte e divora ogni esperienza reale di creazione o di pensiero. Ma l’intellettuale non è il solo a cedere al fascino del lupo che avanza, dissimulato dietro le sembianze della Notorietà. A soccombere sono tutte le figure del potere: quella del politico, dell’intellettuale, del giornalista (il quarto potere). L’uomo politico ha perso la sua capacità di agire, il giornalista la sua indipendenza. L’intellettuale è inoperoso – privato dell’opera. Queste tre figure spogliate del loro potere si fondono per dar vita all’istrione, al polemista, che è la forma terminale dell’intellettuale mediatico – un intellettuale addomesticato.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
Corriere 17.10.15
Maya e Meryt, gli Underwood dell’antichità
Le statue della potente coppia al servizio dei sovrani. Come Frank e Claire in «House of Cards»
Chi conosce la serie tv «House of Cards» non avrà difficoltà a immaginarseli come il Frank e la Claire Underwood della prima stagione: lui deputato ambizioso al Congresso degli Stati Uniti, lei sacerdotessa del no profit che conta, entrambi innamorati dell’altro appena più che del potere, e comunque inseparabili.
Inseparabili, lo scriba Maya e la cantrice Meryt lo sono da 3.300 anni: vissuti all’alba del Nuovo Regno, tra il regno di Akhenaton (1352-1336 A.C.) e quello di Horemheb (1319-1292 A. C.) e tumulati insieme in una tomba più sontuosa e raffinata di quella di Tutankhamon, sono arrivati ai giorni nostri in forma di statue alte due metri (la dimensione era un segno di deferenza verso il defunto) più una statua doppia, portati nel 1829 dalla missione del console olandese Giovanni Anastasi e da allora patrimonio del Museo di Antichità di Leiden, che oggi li ha prestati al Museo Civico Archeologico di Bologna per la mostra Egitto. Splendore millenario .
Il primo a riferire della loro tomba fu l’archeologo tedesco Karl Lepsius, in missione nelle necropoli vicino a Menfi per conto del re di Prussia Federico Guglielmo IV, nel 1824. Però, nei suoi disegni, la collocò qualche metro più in là di dove realmente era: quando più di un secolo dopo l’egittologo Geoffrey Martins andò a Saqqara a cercarla, si imbatté invece nella tomba di Horemheb, l’ultimo faraone della diciottesima dinastia. Una tomba stupenda, sontuosa; ma mai come quella di Maya e Meryt, che fu ritrovata nel 1986.
E che oggi (con le sue due cappelle, le sei camere sotterranee a fregi gialli e neri e la sua profondità di 22 metri, più una corte esterna e una interna) diremmo faraonica: ma né il tesoriere (e ministro, e funzionario, e sovrintendente dei lavori delle necropoli) Maya né la sua amata Meryt, erano faraoni né parenti. I due, però, erano una vera «power couple»: lui, figlio di un magistrato, iniziò la scalata come maestro cerimoniere ai funerali dei sovrani, per poi diventare esattore capo, portatore del vessillo reale e infine organizzatore delle offerte, carica che ricopriva quando morì; lei, Meryt, non stava certo un passo indietro, essendo una nota «cantrice», cioè una musicista e cantante dalle funzioni para-sacerdotali, nel culto di Amon, e un’influente presenza a corte, come testimoniano i gioielli che adornano la sua statua. Meryt indossa una parrucca di treccine, fissata da una tiara e adornata da un loto sulla nuca; la collana che porta, un «menat», è un tipo di gioiello che personifica la dea della fertilità Hathor, così pesante da dover essere retta da un contrappeso sulle spalle.
E Hathor, dea antichissima del piacere, della gioia, della fertilità — membro del Pantheon che il Nuovo Regno imminente avrebbe poi accantonato, in favore del culto monoteistico del Dio-sole Aton — fece in tempo ad arridere alla coppia di cortigiani. Che ebbero due figlie, Mayamenti e Tjauenmaya, e insieme formarono un sodalizio influente e inossidabile.
Si pensa che Maya fosse una sorta di «eminenza grigia» attraverso più regni: quello di Akhenaton, che vide morire; del figlio Tutankhamon, che salì al trono giovanissimo e da Maya fu avviato, se non educato, agli usi del potere; fino a Horemheb, che spostò il centro di potere da Amarna a Menfi.
E con il potere, la corte: ad Amarna, Maya e Meryt si erano incontrati e sposati, e avevano avviato la loro carriera di coppia di potere; a Menfi, arrivati già ricchi e influenti insieme al nuovo faraone, invecchiarono e morirono (prima lei, si suppone, di lui) per lasciare il posto a nuovi notabili, nuovi potenti. E a una nuova dinastia, la diciannovesima: il successore di Horemheb sarebbe stato Ramesse I, e l’Egitto stava per diventare un impero.
Maya e Meryt, gli Underwood dell’antichità
Le statue della potente coppia al servizio dei sovrani. Come Frank e Claire in «House of Cards»
Chi conosce la serie tv «House of Cards» non avrà difficoltà a immaginarseli come il Frank e la Claire Underwood della prima stagione: lui deputato ambizioso al Congresso degli Stati Uniti, lei sacerdotessa del no profit che conta, entrambi innamorati dell’altro appena più che del potere, e comunque inseparabili.
Inseparabili, lo scriba Maya e la cantrice Meryt lo sono da 3.300 anni: vissuti all’alba del Nuovo Regno, tra il regno di Akhenaton (1352-1336 A.C.) e quello di Horemheb (1319-1292 A. C.) e tumulati insieme in una tomba più sontuosa e raffinata di quella di Tutankhamon, sono arrivati ai giorni nostri in forma di statue alte due metri (la dimensione era un segno di deferenza verso il defunto) più una statua doppia, portati nel 1829 dalla missione del console olandese Giovanni Anastasi e da allora patrimonio del Museo di Antichità di Leiden, che oggi li ha prestati al Museo Civico Archeologico di Bologna per la mostra Egitto. Splendore millenario .
Il primo a riferire della loro tomba fu l’archeologo tedesco Karl Lepsius, in missione nelle necropoli vicino a Menfi per conto del re di Prussia Federico Guglielmo IV, nel 1824. Però, nei suoi disegni, la collocò qualche metro più in là di dove realmente era: quando più di un secolo dopo l’egittologo Geoffrey Martins andò a Saqqara a cercarla, si imbatté invece nella tomba di Horemheb, l’ultimo faraone della diciottesima dinastia. Una tomba stupenda, sontuosa; ma mai come quella di Maya e Meryt, che fu ritrovata nel 1986.
E che oggi (con le sue due cappelle, le sei camere sotterranee a fregi gialli e neri e la sua profondità di 22 metri, più una corte esterna e una interna) diremmo faraonica: ma né il tesoriere (e ministro, e funzionario, e sovrintendente dei lavori delle necropoli) Maya né la sua amata Meryt, erano faraoni né parenti. I due, però, erano una vera «power couple»: lui, figlio di un magistrato, iniziò la scalata come maestro cerimoniere ai funerali dei sovrani, per poi diventare esattore capo, portatore del vessillo reale e infine organizzatore delle offerte, carica che ricopriva quando morì; lei, Meryt, non stava certo un passo indietro, essendo una nota «cantrice», cioè una musicista e cantante dalle funzioni para-sacerdotali, nel culto di Amon, e un’influente presenza a corte, come testimoniano i gioielli che adornano la sua statua. Meryt indossa una parrucca di treccine, fissata da una tiara e adornata da un loto sulla nuca; la collana che porta, un «menat», è un tipo di gioiello che personifica la dea della fertilità Hathor, così pesante da dover essere retta da un contrappeso sulle spalle.
E Hathor, dea antichissima del piacere, della gioia, della fertilità — membro del Pantheon che il Nuovo Regno imminente avrebbe poi accantonato, in favore del culto monoteistico del Dio-sole Aton — fece in tempo ad arridere alla coppia di cortigiani. Che ebbero due figlie, Mayamenti e Tjauenmaya, e insieme formarono un sodalizio influente e inossidabile.
Si pensa che Maya fosse una sorta di «eminenza grigia» attraverso più regni: quello di Akhenaton, che vide morire; del figlio Tutankhamon, che salì al trono giovanissimo e da Maya fu avviato, se non educato, agli usi del potere; fino a Horemheb, che spostò il centro di potere da Amarna a Menfi.
E con il potere, la corte: ad Amarna, Maya e Meryt si erano incontrati e sposati, e avevano avviato la loro carriera di coppia di potere; a Menfi, arrivati già ricchi e influenti insieme al nuovo faraone, invecchiarono e morirono (prima lei, si suppone, di lui) per lasciare il posto a nuovi notabili, nuovi potenti. E a una nuova dinastia, la diciannovesima: il successore di Horemheb sarebbe stato Ramesse I, e l’Egitto stava per diventare un impero.
Corriere 17.10.15
Pitture, rilievi e sarcofagi Il ponte d’arte con l’Olanda La collaborazione Dal periodo predinastico all’epoca romana. L’alleanza tra i due musei evidente nella ricomposizione dei frammenti della tomba di Horemheb
Unite due grandi collezioni con uno spirito comune
di Viviano Demenici
Dopo La ragazza con l’orecchino di perla, un altro «filo» tra arte e storia unisce Bologna ai Paesi Bassi. O, meglio, un «tassello», come quelli che, messi eccezionalmente assieme dal Museo Civico Archeologico bolognese e da quello olandese di Leiden, restituiranno a chi capita sotto le Due Torri il grande puzzle dell’epoca dei faraoni.
Egitto. Splendore millenario mette infatti assieme 500 reperti che vanno dal periodo predinastico all’epoca romana lungo un percorso di quasi 1.700 metri quadri e suddiviso in ben sette sezioni. Ritrovamenti che sono giunti appositamente da Leiden, ma anche dal Museo Egizio di Torino e dall’Archeologico di Firenze. Si potrà ammirare la Stele in calcare di Aku (XII-XIII Dinastia, 1976-1648 a.C.), il «maggiordomo della divina offerta» che illustrava già allora un mondo diviso tra cielo, terra e regno dei morti; oppure le cinture e i pettorali dorati, figurati a fiore di loto (1479-1425 a.C), donati in persona dal faraone Thutmose III al comandante Djehuty, dopo che ebbe conquistato il vicino Oriente con le sue truppe; o un vaso del periodo Naqada che ci restituisce con i suoi dipinti un Egitto rigoglioso.
E poi monili, ami da pesca, coltelli in selce, sarcofaghi, rilievi con prigionieri nubiani, pitture lignee che coprivano il volto delle mummie e addirittura un manico di specchio in legno e avorio, a testimonianza di quanto fosse evoluto il popolo della valle del Nilo. Ma è nella sezione «La necropoli di Saqqara nel Nuovo Regno» che Bologna e Leiden metteranno veramente in comune i loro tasselli: qui verranno ricongiunti i più importanti rilievi di Horemheb, altro generale al servizio di Tutankhamon nonché ultimo sovrano della diciottesima dinastia, i cui esponenti fecero proprio di Menfi, città vicina a Saqqara, il fulcro delle loro guerre d’espansione.
È con questa stanza che si cementa la collaborazione innescata cinque anni fa tra i due musei nell’ambito degli scavi nella necropoli egizia. Per esempio dall’Olanda, per la prima volta, arriveranno le statue di Maya, custode del tesoro reale di Tutankhamon, e Meryt, cantrice di Amon, (XVIII dinastia, 1333-1292 a.C.). «Noi possediamo cinque frammenti parietali e gli olandesi qualcuno in più, uniti ad altri di Firenze vanno a ridisegnare la corte interna della tomba di Horemheb, ricomponendo la percentuale più alta dei ritrovamenti avvenuti in quella spedizione», spiega Daniela Picchi, che con la direttrice dell’ente bolognese Paola Giovetti ha curato la mostra, a sua volta prodotta da Comune di Bologna e Arthemisia Group. Il tandem petroniano-olandese «continuerà in un altro riavvicinamento, quello della scultura del funzionario Hormin, guardiano dell’harem del sovrano Sety I, detenuta da Leiden, con un nostro rilievo proveniente dalla sua tomba e quello del cofanetto portatessuti del dignitario Terpaupi con un suo sgabello conservato in Olanda». «La raccolta olandese è molto in sintonia con quella di Bologna — ricorda Paola Giovetti — sia per la storia della loro formazione, legata al collezionismo ottocentesco, sia per la varietà degli scavi mirati da parte degli stranieri in Egitto».
A guardare la loro origine, i due musei ritrovano un altro denominatore comune. «Sono entrambi collezioni che iniziano tra 1500 e 1600 e che torneranno a toccarsi a fine 800 — sottolinea Picchi — Pelagio Pelagi cedette al museo petroniano i suoi 100 reperti raccolti tra 1824 e 1845. In quegli anni il suo referente era Giuseppe Nizzoli, cancelliere al consolato d’Austria in Egitto: è da lui che lo storico acquistò la sua terza collezione.
Curiosamente un altro diplomatico, Giovanni D’Anastasi, console svedese, vendette la sua terza collezione, la più prestigiosa, proprio al Museo di Leiden nel 1828. Come vede c’era accanita competizione nella ricerca delle antichità». Concorrenza deposta a quasi due secoli di distanza per diventare per nove mesi uno dei maggiori centri dell’archeologia menfita.
Pitture, rilievi e sarcofagi Il ponte d’arte con l’Olanda La collaborazione Dal periodo predinastico all’epoca romana. L’alleanza tra i due musei evidente nella ricomposizione dei frammenti della tomba di Horemheb
Unite due grandi collezioni con uno spirito comune
di Viviano Demenici
Dopo La ragazza con l’orecchino di perla, un altro «filo» tra arte e storia unisce Bologna ai Paesi Bassi. O, meglio, un «tassello», come quelli che, messi eccezionalmente assieme dal Museo Civico Archeologico bolognese e da quello olandese di Leiden, restituiranno a chi capita sotto le Due Torri il grande puzzle dell’epoca dei faraoni.
Egitto. Splendore millenario mette infatti assieme 500 reperti che vanno dal periodo predinastico all’epoca romana lungo un percorso di quasi 1.700 metri quadri e suddiviso in ben sette sezioni. Ritrovamenti che sono giunti appositamente da Leiden, ma anche dal Museo Egizio di Torino e dall’Archeologico di Firenze. Si potrà ammirare la Stele in calcare di Aku (XII-XIII Dinastia, 1976-1648 a.C.), il «maggiordomo della divina offerta» che illustrava già allora un mondo diviso tra cielo, terra e regno dei morti; oppure le cinture e i pettorali dorati, figurati a fiore di loto (1479-1425 a.C), donati in persona dal faraone Thutmose III al comandante Djehuty, dopo che ebbe conquistato il vicino Oriente con le sue truppe; o un vaso del periodo Naqada che ci restituisce con i suoi dipinti un Egitto rigoglioso.
E poi monili, ami da pesca, coltelli in selce, sarcofaghi, rilievi con prigionieri nubiani, pitture lignee che coprivano il volto delle mummie e addirittura un manico di specchio in legno e avorio, a testimonianza di quanto fosse evoluto il popolo della valle del Nilo. Ma è nella sezione «La necropoli di Saqqara nel Nuovo Regno» che Bologna e Leiden metteranno veramente in comune i loro tasselli: qui verranno ricongiunti i più importanti rilievi di Horemheb, altro generale al servizio di Tutankhamon nonché ultimo sovrano della diciottesima dinastia, i cui esponenti fecero proprio di Menfi, città vicina a Saqqara, il fulcro delle loro guerre d’espansione.
È con questa stanza che si cementa la collaborazione innescata cinque anni fa tra i due musei nell’ambito degli scavi nella necropoli egizia. Per esempio dall’Olanda, per la prima volta, arriveranno le statue di Maya, custode del tesoro reale di Tutankhamon, e Meryt, cantrice di Amon, (XVIII dinastia, 1333-1292 a.C.). «Noi possediamo cinque frammenti parietali e gli olandesi qualcuno in più, uniti ad altri di Firenze vanno a ridisegnare la corte interna della tomba di Horemheb, ricomponendo la percentuale più alta dei ritrovamenti avvenuti in quella spedizione», spiega Daniela Picchi, che con la direttrice dell’ente bolognese Paola Giovetti ha curato la mostra, a sua volta prodotta da Comune di Bologna e Arthemisia Group. Il tandem petroniano-olandese «continuerà in un altro riavvicinamento, quello della scultura del funzionario Hormin, guardiano dell’harem del sovrano Sety I, detenuta da Leiden, con un nostro rilievo proveniente dalla sua tomba e quello del cofanetto portatessuti del dignitario Terpaupi con un suo sgabello conservato in Olanda». «La raccolta olandese è molto in sintonia con quella di Bologna — ricorda Paola Giovetti — sia per la storia della loro formazione, legata al collezionismo ottocentesco, sia per la varietà degli scavi mirati da parte degli stranieri in Egitto».
A guardare la loro origine, i due musei ritrovano un altro denominatore comune. «Sono entrambi collezioni che iniziano tra 1500 e 1600 e che torneranno a toccarsi a fine 800 — sottolinea Picchi — Pelagio Pelagi cedette al museo petroniano i suoi 100 reperti raccolti tra 1824 e 1845. In quegli anni il suo referente era Giuseppe Nizzoli, cancelliere al consolato d’Austria in Egitto: è da lui che lo storico acquistò la sua terza collezione.
Curiosamente un altro diplomatico, Giovanni D’Anastasi, console svedese, vendette la sua terza collezione, la più prestigiosa, proprio al Museo di Leiden nel 1828. Come vede c’era accanita competizione nella ricerca delle antichità». Concorrenza deposta a quasi due secoli di distanza per diventare per nove mesi uno dei maggiori centri dell’archeologia menfita.
Corriere 17.10.15
L’impero dell’enigma
Sponsor illustri. L’imperatore Adriano si fece costruire il suo Egitto personale nella villa di Tivoli
Dai romani all’epoca di Napoleone la passione per l’antico Egitto ha unito potere e sapere popolare
Da sempre l’Antico Egitto è perseguitato da un maleficio che cerca di oscurarne le vere meraviglie, ammantandole con un appiccicoso velo di mistero a tutti costi per cui niente è come è, ed esiste solo il mistero; un vecchio trucco da imbonitori sempre spendibile sul mercato dell’irrazionale avido di civiltà superiori, alieni civilizzatori e altri improbabili segreti. In sostanza, cianfrusaglie senza costrutto, ma con padri nobili e una storia tutt’altro che trascurabile che val la pena ripercorrere.
Ufficialmente tutto cominciò con Erodoto. Vengo ora dall’Egitto — scrisse più o meno lo storico — dove ho visto cose che voi greci non potete nemmeno immaginare, e così tante e strane che è impossibile descriverle. Detto questo, raccontò il Paese dei faraoni come un mondo alla rovescia dove gli uomini stavano in casa e le donne andavano in giro, dove le stesse orinavano in piedi mentre maschi lo facevano accovacciati (sic) e così via.
Stravaganze di un popolo che scriveva allineando enigmatiche figurine, costruiva tombe alte come montagne accumulando macigni per farne piramidi, e parlava di origini talmente lontane da sconcertare tanti creduloni; ma non lo storico Diodoro siculo, a cui i sacerdoti egizi — veri specialisti del marketing del mistero — dissero che la loro civiltà era iniziata 23 mila anni prima. Lui non ci credette, ma riportò l’informazione e l’Egitto divenne rapidamente la terra senza tempo dove misteri e oscure maledizioni erano di casa.
A quel punto gli ingredienti dell’egittomania c’erano già tutti e la sua marcia alla conquista del mondo poteva cominciare. I primi a esserne travolti furono i romani, che piantarono una quantità di obelischi nelle più belle piazze dell’Urbe e costruirono facsimili di piramidi per tutti quelli che volevano andare all’altro mondo all’egiziana; ma poi le smantellarono per ricavarne pietre — il grande Raffaello protestò inutilmente —, come capitò alle due che avevano costruito dove ora sono le chiese gemelle in piazza del Popolo. Oggi solo quella di Caio Cestio è rimasta a testimonianza di tanti entusiasmi, quando Iside faceva proseliti e persino Giove s’adeguò ai tempi indossando le corna d’ariete del suo corrispettivo egiziano Amon; così fu adorato come Giove Ammone.
Tra i grandi sponsor l’egittomania ebbe l’imperatore Adriano, che si fece costruire il suo Egitto personale nella villa di Tivoli e mise il gonnellino all’egiziana anche alle statue del suo amante Antinoo, travestendolo così da dio egizio. Dal canto loro i patrizi decorarono le loro magioni con mosaici a soggetto nilotico con ippopotami e coccodrilli a bagno tra i papiri; la plebe invece s’accontentava di scarabei magici e altrettanti inutili amuleti che sedicenti maghi spacciavano a prezzi di saldo. Il Medioevo portò in Europa reliquie di tutti i tipi e la polvere di mummie egizie, carica di miracolose quanto misteriose virtù terapeutiche, divenne la panacea per tutti i mali. All’affacciarsi del Rinascimento, un oscuro manoscritto ellenistico attribuito a un certo Ermete Trismegisto, sapiente egiziano mai esistito, convinse tanti che l’Egitto era il deposito di tutti i misteri e la fonte della saggezza universale.
Così i dotti si misero a studiare ermetismi e simboli producendo interpretazioni dei geroglifici di rara fantasia e totale inutilità. Più concretamente, prìncipi e papi continuarono a collezionare statue egizie e obelischi per abbellire Roma, tanto che Sisto V ne fece alzare uno proprio in piazza San Pietro, dov’è tutt’ora, concedendo laute indulgenze a chi recitava un Pater Noster e un’Ave Maria davanti a quell’aguglia egizia e pagana.
Ma il grande territorio di conquista dell’egittomania fu il Settecento, che affastellò piramidi e simboli egizi nelle logge massoniche frequentate da personaggi come il conte Cagliostro, Giacomo Casanova e il grande Mozart, mentre tutto l’Illuminismo celebrava il culto del dio egizio Osiride come simbolo della Ragione Universale; nella Francia rivoluzionaria una statua della dea Iside fu sistemata come simbolo della Rigenerazione proprio in piazza della Bastiglia. Poi intervennero i savants di Napoleone e riscoprirono l’antico Egitto (quello vero) che, travisato alla paesana, s’arrampicò sulle facciate dei palazzi, modellò mobili e soprammobili, e raccolse trionfi col Nabucco e l’ Aida . Oggi i misteri d’Egitto sopravvivono nell’occhiuta piramide stampata sul dollaro americano e — a casa nostra — in certe inguardabili trasmissioni televisive. Vere maledizioni dei faraoni.
L’impero dell’enigma
Sponsor illustri. L’imperatore Adriano si fece costruire il suo Egitto personale nella villa di Tivoli
Dai romani all’epoca di Napoleone la passione per l’antico Egitto ha unito potere e sapere popolare
Da sempre l’Antico Egitto è perseguitato da un maleficio che cerca di oscurarne le vere meraviglie, ammantandole con un appiccicoso velo di mistero a tutti costi per cui niente è come è, ed esiste solo il mistero; un vecchio trucco da imbonitori sempre spendibile sul mercato dell’irrazionale avido di civiltà superiori, alieni civilizzatori e altri improbabili segreti. In sostanza, cianfrusaglie senza costrutto, ma con padri nobili e una storia tutt’altro che trascurabile che val la pena ripercorrere.
Ufficialmente tutto cominciò con Erodoto. Vengo ora dall’Egitto — scrisse più o meno lo storico — dove ho visto cose che voi greci non potete nemmeno immaginare, e così tante e strane che è impossibile descriverle. Detto questo, raccontò il Paese dei faraoni come un mondo alla rovescia dove gli uomini stavano in casa e le donne andavano in giro, dove le stesse orinavano in piedi mentre maschi lo facevano accovacciati (sic) e così via.
Stravaganze di un popolo che scriveva allineando enigmatiche figurine, costruiva tombe alte come montagne accumulando macigni per farne piramidi, e parlava di origini talmente lontane da sconcertare tanti creduloni; ma non lo storico Diodoro siculo, a cui i sacerdoti egizi — veri specialisti del marketing del mistero — dissero che la loro civiltà era iniziata 23 mila anni prima. Lui non ci credette, ma riportò l’informazione e l’Egitto divenne rapidamente la terra senza tempo dove misteri e oscure maledizioni erano di casa.
A quel punto gli ingredienti dell’egittomania c’erano già tutti e la sua marcia alla conquista del mondo poteva cominciare. I primi a esserne travolti furono i romani, che piantarono una quantità di obelischi nelle più belle piazze dell’Urbe e costruirono facsimili di piramidi per tutti quelli che volevano andare all’altro mondo all’egiziana; ma poi le smantellarono per ricavarne pietre — il grande Raffaello protestò inutilmente —, come capitò alle due che avevano costruito dove ora sono le chiese gemelle in piazza del Popolo. Oggi solo quella di Caio Cestio è rimasta a testimonianza di tanti entusiasmi, quando Iside faceva proseliti e persino Giove s’adeguò ai tempi indossando le corna d’ariete del suo corrispettivo egiziano Amon; così fu adorato come Giove Ammone.
Tra i grandi sponsor l’egittomania ebbe l’imperatore Adriano, che si fece costruire il suo Egitto personale nella villa di Tivoli e mise il gonnellino all’egiziana anche alle statue del suo amante Antinoo, travestendolo così da dio egizio. Dal canto loro i patrizi decorarono le loro magioni con mosaici a soggetto nilotico con ippopotami e coccodrilli a bagno tra i papiri; la plebe invece s’accontentava di scarabei magici e altrettanti inutili amuleti che sedicenti maghi spacciavano a prezzi di saldo. Il Medioevo portò in Europa reliquie di tutti i tipi e la polvere di mummie egizie, carica di miracolose quanto misteriose virtù terapeutiche, divenne la panacea per tutti i mali. All’affacciarsi del Rinascimento, un oscuro manoscritto ellenistico attribuito a un certo Ermete Trismegisto, sapiente egiziano mai esistito, convinse tanti che l’Egitto era il deposito di tutti i misteri e la fonte della saggezza universale.
Così i dotti si misero a studiare ermetismi e simboli producendo interpretazioni dei geroglifici di rara fantasia e totale inutilità. Più concretamente, prìncipi e papi continuarono a collezionare statue egizie e obelischi per abbellire Roma, tanto che Sisto V ne fece alzare uno proprio in piazza San Pietro, dov’è tutt’ora, concedendo laute indulgenze a chi recitava un Pater Noster e un’Ave Maria davanti a quell’aguglia egizia e pagana.
Ma il grande territorio di conquista dell’egittomania fu il Settecento, che affastellò piramidi e simboli egizi nelle logge massoniche frequentate da personaggi come il conte Cagliostro, Giacomo Casanova e il grande Mozart, mentre tutto l’Illuminismo celebrava il culto del dio egizio Osiride come simbolo della Ragione Universale; nella Francia rivoluzionaria una statua della dea Iside fu sistemata come simbolo della Rigenerazione proprio in piazza della Bastiglia. Poi intervennero i savants di Napoleone e riscoprirono l’antico Egitto (quello vero) che, travisato alla paesana, s’arrampicò sulle facciate dei palazzi, modellò mobili e soprammobili, e raccolse trionfi col Nabucco e l’ Aida . Oggi i misteri d’Egitto sopravvivono nell’occhiuta piramide stampata sul dollaro americano e — a casa nostra — in certe inguardabili trasmissioni televisive. Vere maledizioni dei faraoni.
Corriere 17.10.15
Hitler, la mediocrità del male
Megalomania architettonica «La nuova Cancelleria del Reich va costruita in tali dimensioni che al confronto San Pietro e la sua piazza sembrino giocattoli!»
Le conversazioni del Führer: sproloqui, insolenze, vanità, un gran disprezzo per le donne
di Gian Antonio Stella
«Con simili collaboratori posso permettermi di fare giravolte a centottanta gradi, come è avvenuto, senza che nessuno muova un muscolo». Era soddisfattissimo, Adolf Hitler, dopo l’attacco alla Russia del 22 giugno 1941. L’«operazione Barbarossa» violava l’accordo con Stalin che solo pochi giorni prima la Tass considerava blindato? Il popolo non se ne sarebbe manco accorto: a plasmarlo ci avrebbero pensato i giornali, la radio, la propaganda… « Uno Stato che dispone di una stampa ispirata e ha in pugno i giornalisti dispone del più grande potere che si possa immaginare».
E aveva ragione, nella sua infame insolenza. Lo conferma il libro Così parlò Hitler , scritto dal nostro Fabrizio Dragosei (Mursia). Che grazie agli anni a Mosca ha potuto raccogliere non solo una quantità di insulti, sfoghi, deliri raccontati nei decenni dagli storici dei Paesi del Patto di Varsavia, ma una copiosa collezione di virgolettati, spesso inediti, sepolti a lungo negli archivi moscoviti.
«Hitler parlava molto e ci teneva a non esser equivocato. La sera, durante le cene che spesso avevano luogo a tardissima ora, lui teneva banco. Dopo aver mangiato, continuava a intrattenere i suoi interlocutori per ore. E il fedele segretario Martin Bormann aveva messo in piedi un servizio di stenografi che registravano ogni parola del Führer». Ne esce un ritratto che, al di là dei crimini e degli orrori («Se gli ebrei rifiutano di andarsene volontariamente, non vedo altra soluzione che lo sterminio»), conferma in pieno la tesi di Hannah Arendt sulla banalità del male.
Dà le vertigini dirlo, ma ciò che più colpisce nel diluvio di parole (a Bamberg nel 1926 sbrodolò per cinque ore!) è la mediocrità. Il pressapochismo. Le spiritosaggini da caserma. Lo sproloquio da ubriacone: «Sono sicuro che Nerone non ha mai incendiato Roma; furono i cristiani-bolscevichi a farlo…».
Promesse da ciarlatano: «Costruiremo un milione di abitazioni ogni anno per cinque anni, per mettere fine alla crisi degli alloggi. Il tempo necessario per costruire una casa non deve superare i tre mesi». Sfoghi contro «la mafia dei cuochi: questi re delle padelle sono tutti degli idioti ridicoli… Dove è finito il vecchio pasto fatto di un piatto solo?». Scaramanzie partenopee: «Qualche imbecille tirò fuori che Napoleone, come noi, aveva iniziato la campagna di Russia il 22 giugno. Grazie a Dio sono stato in grado di respingere quest’idea citando storici affermati secondo i quali la campagna di Napoleone non iniziò che il 23».
E poi i bla-bla da birreria: «Il fatto di parlare parecchie lingue non è un segno di intelligenza. Si incontrano spesso bambini che parlano tre o quattro lingue per la semplice ragione che hanno governanti straniere. Le spagnole, anche se parlano parecchie lingue, sono pur sempre delle oche. La moglie di Franco, ad esempio, va ogni giorno in chiesa!». Non mancano i borbottii misogini: «Nel piacere che una donna prova a farsi bella, entra sempre un elemento torbido, qualcosa di perfido…». Sposarne una, poi! «Sarei costretto a vedermi sempre di fronte un viso afflitto e crucciato, oppure dovrei trascurare i miei doveri! (…) Molto meglio avere un’amante. Così si aboliscono gli oneri e tutto diventa un regalo. Naturalmente ciò vale soltanto per gli uomini di eccezione».
E poi vanità, per dirla con Gassman, «sc-sc-scientifiche»: «Ho dato istruzioni perché si studiasse la possibilità della propulsione di un battello a mezzo di eliche laterali, allo stesso modo che i pesci hanno delle pinne». Ambizioni pontificie: «In occasione dell’elezione di un Papa, il popolo ignora ciò che avviene dietro le quinte. (…) Un principio da rispettare per l’elezione del Führer; ogni conversazione è proibita tra gli elettori finché durano le operazioni».
Vagheggiava di rifare Berlino: «Chi entrerà nella Cancelleria del Reich dovrà avere la sensazione di entrare nella casa del padrone del mondo». Voleva tutto enorme: «Dobbiamo costruire in tali dimensioni che al confronto San Pietro e la sua piazza sembrino giocattoli!». Titillava l’idea di un parco di autoblu: «La nuova Cancelleria dovrà disporre in permanenza di duecento automobili tra le più belle (…) e gli autisti potranno fungere anche da valletti». Aveva in orrore duchi, prìncipi e marchesi: «Per il bestiame si fanno sforzi continui per migliorare la razza, ma nel caso dell’aristocrazia si ottiene il contrario».
E via via che leggi ti chiedi: ma come fecero i tedeschi a invaghirsi di uno così? Liquidava Winston Churchill come «il tipo del giornalista corrotto: non c’è una prostituta peggiore in politica». Disprezzava Franklin D. Roosevelt: «Si comporta come un azzeccagarbugli giudeo e recentemente si è direttamente vantato di avere “nobile” sangue ebreo nelle vene. E l’aspetto completamente negroide della moglie è una chiara indicazione che anche lei è una mezzo-sangue». Stravedeva (inizialmente) per Benito Mussolini («Ho avuto modo di paragonare il suo profilo con quello dei busti romani e ho compreso che egli era uno dei Cesari») e per l’arte d’Italia («Il più modesto palazzo di Firenze o di Roma vale più che tutto il castello di Windsor»), ma non per gli italiani: «Su di loro non si può fare affidamento». In compenso, a riprova che tra simili ci si piglia, ammirava Stalin: «È una delle figure più straordinarie della storia. (…) Una personalità eccezionale, un asceta che ha stretto nel suo pugno di ferro quel gigantesco Paese».
Tutto era facile, tutto già fatto. La conquista di Mosca, da affogare aprendo le chiuse della Moscova: «Deve scomparire dalla faccia della Terra». La presa del Vaticano: «Poi in un secondo momento ci scuseremo». Lo sfruttamento delle risorse nelle «colonie slave» e nelle altre terre conquistate: «Forniremo cereali a tutta l’Europa; la Crimea ci darà il caucciù, il cotone e i frutti del Sud; le paludi del Pripët ci forniranno le canne; agli ucraini faremo avere fazzoletti di seta, chincaglieria e tutto ciò che piace ai popoli coloniali...». L’Ucraina? Tedeschizzata, «sarà uno dei più bei giardini del mondo». La Norvegia? «Sarà la centrale elettrica per l’Europa settentrionale». La Svizzera? Ma per carità! Gli svizzeri «potremo, tutt’al più, utilizzarli come albergatori…». I sudtirolesi? «La Crimea sarà ideale per loro sia da un punto di vista climatico che geografico e a paragone dei loro attuali luoghi di residenza si rivelerà una vera terra di latte e miele. Il loro trasferimento in Crimea non presenta alcun problema fisico o psicologico. Tutto quello che dovranno fare è navigare giù per un fiume germanico, il Danubio, e saranno arrivati…».
E torniamo alla domanda: come fecero, i tedeschi, a prendere quella sbandata terrificante per un ciarlatano criminale di tal fatta?
Hitler, la mediocrità del male
Megalomania architettonica «La nuova Cancelleria del Reich va costruita in tali dimensioni che al confronto San Pietro e la sua piazza sembrino giocattoli!»
Le conversazioni del Führer: sproloqui, insolenze, vanità, un gran disprezzo per le donne
di Gian Antonio Stella
«Con simili collaboratori posso permettermi di fare giravolte a centottanta gradi, come è avvenuto, senza che nessuno muova un muscolo». Era soddisfattissimo, Adolf Hitler, dopo l’attacco alla Russia del 22 giugno 1941. L’«operazione Barbarossa» violava l’accordo con Stalin che solo pochi giorni prima la Tass considerava blindato? Il popolo non se ne sarebbe manco accorto: a plasmarlo ci avrebbero pensato i giornali, la radio, la propaganda… « Uno Stato che dispone di una stampa ispirata e ha in pugno i giornalisti dispone del più grande potere che si possa immaginare».
E aveva ragione, nella sua infame insolenza. Lo conferma il libro Così parlò Hitler , scritto dal nostro Fabrizio Dragosei (Mursia). Che grazie agli anni a Mosca ha potuto raccogliere non solo una quantità di insulti, sfoghi, deliri raccontati nei decenni dagli storici dei Paesi del Patto di Varsavia, ma una copiosa collezione di virgolettati, spesso inediti, sepolti a lungo negli archivi moscoviti.
«Hitler parlava molto e ci teneva a non esser equivocato. La sera, durante le cene che spesso avevano luogo a tardissima ora, lui teneva banco. Dopo aver mangiato, continuava a intrattenere i suoi interlocutori per ore. E il fedele segretario Martin Bormann aveva messo in piedi un servizio di stenografi che registravano ogni parola del Führer». Ne esce un ritratto che, al di là dei crimini e degli orrori («Se gli ebrei rifiutano di andarsene volontariamente, non vedo altra soluzione che lo sterminio»), conferma in pieno la tesi di Hannah Arendt sulla banalità del male.
Dà le vertigini dirlo, ma ciò che più colpisce nel diluvio di parole (a Bamberg nel 1926 sbrodolò per cinque ore!) è la mediocrità. Il pressapochismo. Le spiritosaggini da caserma. Lo sproloquio da ubriacone: «Sono sicuro che Nerone non ha mai incendiato Roma; furono i cristiani-bolscevichi a farlo…».
Promesse da ciarlatano: «Costruiremo un milione di abitazioni ogni anno per cinque anni, per mettere fine alla crisi degli alloggi. Il tempo necessario per costruire una casa non deve superare i tre mesi». Sfoghi contro «la mafia dei cuochi: questi re delle padelle sono tutti degli idioti ridicoli… Dove è finito il vecchio pasto fatto di un piatto solo?». Scaramanzie partenopee: «Qualche imbecille tirò fuori che Napoleone, come noi, aveva iniziato la campagna di Russia il 22 giugno. Grazie a Dio sono stato in grado di respingere quest’idea citando storici affermati secondo i quali la campagna di Napoleone non iniziò che il 23».
E poi i bla-bla da birreria: «Il fatto di parlare parecchie lingue non è un segno di intelligenza. Si incontrano spesso bambini che parlano tre o quattro lingue per la semplice ragione che hanno governanti straniere. Le spagnole, anche se parlano parecchie lingue, sono pur sempre delle oche. La moglie di Franco, ad esempio, va ogni giorno in chiesa!». Non mancano i borbottii misogini: «Nel piacere che una donna prova a farsi bella, entra sempre un elemento torbido, qualcosa di perfido…». Sposarne una, poi! «Sarei costretto a vedermi sempre di fronte un viso afflitto e crucciato, oppure dovrei trascurare i miei doveri! (…) Molto meglio avere un’amante. Così si aboliscono gli oneri e tutto diventa un regalo. Naturalmente ciò vale soltanto per gli uomini di eccezione».
E poi vanità, per dirla con Gassman, «sc-sc-scientifiche»: «Ho dato istruzioni perché si studiasse la possibilità della propulsione di un battello a mezzo di eliche laterali, allo stesso modo che i pesci hanno delle pinne». Ambizioni pontificie: «In occasione dell’elezione di un Papa, il popolo ignora ciò che avviene dietro le quinte. (…) Un principio da rispettare per l’elezione del Führer; ogni conversazione è proibita tra gli elettori finché durano le operazioni».
Vagheggiava di rifare Berlino: «Chi entrerà nella Cancelleria del Reich dovrà avere la sensazione di entrare nella casa del padrone del mondo». Voleva tutto enorme: «Dobbiamo costruire in tali dimensioni che al confronto San Pietro e la sua piazza sembrino giocattoli!». Titillava l’idea di un parco di autoblu: «La nuova Cancelleria dovrà disporre in permanenza di duecento automobili tra le più belle (…) e gli autisti potranno fungere anche da valletti». Aveva in orrore duchi, prìncipi e marchesi: «Per il bestiame si fanno sforzi continui per migliorare la razza, ma nel caso dell’aristocrazia si ottiene il contrario».
E via via che leggi ti chiedi: ma come fecero i tedeschi a invaghirsi di uno così? Liquidava Winston Churchill come «il tipo del giornalista corrotto: non c’è una prostituta peggiore in politica». Disprezzava Franklin D. Roosevelt: «Si comporta come un azzeccagarbugli giudeo e recentemente si è direttamente vantato di avere “nobile” sangue ebreo nelle vene. E l’aspetto completamente negroide della moglie è una chiara indicazione che anche lei è una mezzo-sangue». Stravedeva (inizialmente) per Benito Mussolini («Ho avuto modo di paragonare il suo profilo con quello dei busti romani e ho compreso che egli era uno dei Cesari») e per l’arte d’Italia («Il più modesto palazzo di Firenze o di Roma vale più che tutto il castello di Windsor»), ma non per gli italiani: «Su di loro non si può fare affidamento». In compenso, a riprova che tra simili ci si piglia, ammirava Stalin: «È una delle figure più straordinarie della storia. (…) Una personalità eccezionale, un asceta che ha stretto nel suo pugno di ferro quel gigantesco Paese».
Tutto era facile, tutto già fatto. La conquista di Mosca, da affogare aprendo le chiuse della Moscova: «Deve scomparire dalla faccia della Terra». La presa del Vaticano: «Poi in un secondo momento ci scuseremo». Lo sfruttamento delle risorse nelle «colonie slave» e nelle altre terre conquistate: «Forniremo cereali a tutta l’Europa; la Crimea ci darà il caucciù, il cotone e i frutti del Sud; le paludi del Pripët ci forniranno le canne; agli ucraini faremo avere fazzoletti di seta, chincaglieria e tutto ciò che piace ai popoli coloniali...». L’Ucraina? Tedeschizzata, «sarà uno dei più bei giardini del mondo». La Norvegia? «Sarà la centrale elettrica per l’Europa settentrionale». La Svizzera? Ma per carità! Gli svizzeri «potremo, tutt’al più, utilizzarli come albergatori…». I sudtirolesi? «La Crimea sarà ideale per loro sia da un punto di vista climatico che geografico e a paragone dei loro attuali luoghi di residenza si rivelerà una vera terra di latte e miele. Il loro trasferimento in Crimea non presenta alcun problema fisico o psicologico. Tutto quello che dovranno fare è navigare giù per un fiume germanico, il Danubio, e saranno arrivati…».
E torniamo alla domanda: come fecero, i tedeschi, a prendere quella sbandata terrificante per un ciarlatano criminale di tal fatta?
Corriere 17.10.15
Pillole per capire ?
35,5 l’aumento in percentuale degli americani nella fascia di età 4-64 anni che almeno una volta si è fatto prescrivere sostanze per il deficit di attenzione
di Maria Egizia Franchetti
«Qualcuno che ci venda metilfenidato\destroamfetamina? È una cosa seria». La richiesta di farmaci stimolanti, definiti cognitive enhancer nel mondo anglosassone, appare su un gruppo Facebook di studenti dell’Università Bocconi. Le reazioni sono per lo più sospettose. Prudenti. «Senza ricetta è illegale», ammonisce qualcuno. «Cosa non si fa per eccellere», commenta qualcun altro. Il punto è proprio questo: l’ansia da prestazione che, dalle élite accademiche ai lupi di Wall Street, sta cambiando l’approccio all’assunzione di sostanze. Sintomo di una visione iper positivista. Schiacciata dall’idea che nulla sia impossibile, come teorizzava il filosofo Byung-Chul Han nel libro «La società della stanchezza» (Nottetempo, 2012). Dai lotofagi di Erodoto alla nuova «Summer of love» di fine anni Ottanta, l’uso di principi attivi, naturali o di sintesi, è sempre stato un modo per aprire le porte della percezione. Le stesse pastiglie da rave party, che promettevano di ballare fino a dodici ore di fila senza avvertire la stanchezza, facevano parte di un rito collettivo: divertimento all’ennesima potenza, sballo, adrenalina. Come si è passati dagli aiutini «plug out», per staccare la spina, a quelli «plug in», per il massimo della concentrazione? Dal «bamboccionismo» alla sindrome da super lavoro?
Il business dei nootropi
Secondo uno studio condotto da Expert Scripts (società privata che promuove campagne di sensibilizzazione per un uso più sicuro e accessibile dei farmaci) su un campione di 15 milioni di pazienti, sono aumentati del 35,5 per cento gli americani nella fascia 4-64 anni che, tra il 2008 e il 2012, si sono fatti prescrivere almeno una volta una sostanza per il deficit di attenzione e l’iperattività. Il picco è stato rilevato proprio nel target 26-34 anni: se nel 2008 era l’1,5 per cento, cinque anni dopo è quasi raddoppiato (2,8 per cento). Non solo. Tra il 2005 e il 2011, in base a uno studio della Substance Abuse and Mental Health Services Administration, il numero di visite nei pronto soccorso associate all’uso non medico di stimolanti tra i giovani adulti è triplicato. E nel Regno Unito la destroamfetamina, sostanza per la cura della narcolessia, è il secondo farmaco più prescritto dai medici privati. Ricercatori del King’s College di Londra e della London School of Economics hanno scoperto che il 9 per cento degli studenti è ricorso a farmaci di questo tipo almeno una volta nei periodi di maggiore tensione. Acquistati spesso su siti offshore — i cognitive enhancer, assieme a cannabis e ansiolitici, sono i più venduti sul dark web — o da amici\conoscenti. Negli States c’è anche chi, come Michael Brandt — 26 anni, ex dipendente di Google — si è reinventato startupper: a San Francisco, con il socio Geoffrey Woo ha fondato la società Nootrobox. Il prodotto di punta, Rise, è un multivitaminico a base di caffeina, L-teanina (un aminoacido che si trova nel tè verde) e bacopa monnieri, un’erba che dovrebbe potenziare le capacità mnemoniche. L’integratore viene distribuito esclusivamente online e avrebbe già trovato investitori nella Silicon Valley. «Abbiamo solo 24 ore al giorno e cerchiamo di utilizzare il tempo nel modo migliore — sottolinea Brandt — . È questo il tratto che accomuna Google, Uber, Nootrobox e P90X (acronimo di Power 90 days extreme, programma di home fitness estremo, ndr )».
Test insufficienti sui sani
Perplesso sui sondaggi d’Oltreoceano, Gian Maria Galeazzi, docente di Psichiatria alla facoltà di Medicina dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ritiene che il trend angloamericano sia sovrastimato. Posizione, la sua, condivisa da buona parte della comunità scientifica. Vero, però, che l’ambiente accademico si fa sempre più competitivo. Da Cambridge all’Ivy League, l’ossessione è il ranking, l’accreditamento. In Italia, dove la pressione è meno esasperata, i cognitive enhancer sono un fenomeno di nicchia. Non ancora censito. Secondo un’indagine svolta da Galeazzi su 363 studenti di Medicina della facoltà romagnola, oltre il 70 per cento ritiene rischioso l’uso di stimolanti. E però, il 60,3 per cento sarebbe propenso ad assumerli, se fossero sicuri. «Disporre di dati è molto difficile — concorda Agnes Allansdottir, ricercatrice a Toscana Life Sciences e responsabile del progetto Nerri (Neuro enhancement research innovation), finanziato dalla Comunità europea — . L’uso appare ancora limitato, sebbene sul web si possa acquistare di tutto». Simona Pichini, ricercatrice dell’Osservatorio Fumo, Alcol e Droga dell’Istituto Superiore di Sanità, ritiene che in Italia, in mancanza di rilevazioni ufficiali, il problema riguardi poche migliaia di persone: «Universitari bene con istruzione medio-alta, ricercatori di punta, professionisti...». Gli effetti collaterali? «Una possibile alterazione del ciclo sonno-veglia e del senso di fame — spiega l’esperta — . Se non dormi per cinque giorni, è normale sentirne le conseguenze». Non solo. «Mentre sui malati questi farmaci sono stati ampiamente testati, non sappiamo come possano agire sui sani». Tra i rischi di un uso prolungato dipendenza, allucinazioni, paranoie e depressione. Senza trascurare un altro inconveniente: si incamerano più informazioni, ma l’effetto non è duraturo. Tradotto: con gli stimolanti cognitivi non si diventa più intelligenti e non si acquista una memoria elefantiaca.
Pillole per capire ?
35,5 l’aumento in percentuale degli americani nella fascia di età 4-64 anni che almeno una volta si è fatto prescrivere sostanze per il deficit di attenzione
di Maria Egizia Franchetti
«Qualcuno che ci venda metilfenidato\destroamfetamina? È una cosa seria». La richiesta di farmaci stimolanti, definiti cognitive enhancer nel mondo anglosassone, appare su un gruppo Facebook di studenti dell’Università Bocconi. Le reazioni sono per lo più sospettose. Prudenti. «Senza ricetta è illegale», ammonisce qualcuno. «Cosa non si fa per eccellere», commenta qualcun altro. Il punto è proprio questo: l’ansia da prestazione che, dalle élite accademiche ai lupi di Wall Street, sta cambiando l’approccio all’assunzione di sostanze. Sintomo di una visione iper positivista. Schiacciata dall’idea che nulla sia impossibile, come teorizzava il filosofo Byung-Chul Han nel libro «La società della stanchezza» (Nottetempo, 2012). Dai lotofagi di Erodoto alla nuova «Summer of love» di fine anni Ottanta, l’uso di principi attivi, naturali o di sintesi, è sempre stato un modo per aprire le porte della percezione. Le stesse pastiglie da rave party, che promettevano di ballare fino a dodici ore di fila senza avvertire la stanchezza, facevano parte di un rito collettivo: divertimento all’ennesima potenza, sballo, adrenalina. Come si è passati dagli aiutini «plug out», per staccare la spina, a quelli «plug in», per il massimo della concentrazione? Dal «bamboccionismo» alla sindrome da super lavoro?
Il business dei nootropi
Secondo uno studio condotto da Expert Scripts (società privata che promuove campagne di sensibilizzazione per un uso più sicuro e accessibile dei farmaci) su un campione di 15 milioni di pazienti, sono aumentati del 35,5 per cento gli americani nella fascia 4-64 anni che, tra il 2008 e il 2012, si sono fatti prescrivere almeno una volta una sostanza per il deficit di attenzione e l’iperattività. Il picco è stato rilevato proprio nel target 26-34 anni: se nel 2008 era l’1,5 per cento, cinque anni dopo è quasi raddoppiato (2,8 per cento). Non solo. Tra il 2005 e il 2011, in base a uno studio della Substance Abuse and Mental Health Services Administration, il numero di visite nei pronto soccorso associate all’uso non medico di stimolanti tra i giovani adulti è triplicato. E nel Regno Unito la destroamfetamina, sostanza per la cura della narcolessia, è il secondo farmaco più prescritto dai medici privati. Ricercatori del King’s College di Londra e della London School of Economics hanno scoperto che il 9 per cento degli studenti è ricorso a farmaci di questo tipo almeno una volta nei periodi di maggiore tensione. Acquistati spesso su siti offshore — i cognitive enhancer, assieme a cannabis e ansiolitici, sono i più venduti sul dark web — o da amici\conoscenti. Negli States c’è anche chi, come Michael Brandt — 26 anni, ex dipendente di Google — si è reinventato startupper: a San Francisco, con il socio Geoffrey Woo ha fondato la società Nootrobox. Il prodotto di punta, Rise, è un multivitaminico a base di caffeina, L-teanina (un aminoacido che si trova nel tè verde) e bacopa monnieri, un’erba che dovrebbe potenziare le capacità mnemoniche. L’integratore viene distribuito esclusivamente online e avrebbe già trovato investitori nella Silicon Valley. «Abbiamo solo 24 ore al giorno e cerchiamo di utilizzare il tempo nel modo migliore — sottolinea Brandt — . È questo il tratto che accomuna Google, Uber, Nootrobox e P90X (acronimo di Power 90 days extreme, programma di home fitness estremo, ndr )».
Test insufficienti sui sani
Perplesso sui sondaggi d’Oltreoceano, Gian Maria Galeazzi, docente di Psichiatria alla facoltà di Medicina dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ritiene che il trend angloamericano sia sovrastimato. Posizione, la sua, condivisa da buona parte della comunità scientifica. Vero, però, che l’ambiente accademico si fa sempre più competitivo. Da Cambridge all’Ivy League, l’ossessione è il ranking, l’accreditamento. In Italia, dove la pressione è meno esasperata, i cognitive enhancer sono un fenomeno di nicchia. Non ancora censito. Secondo un’indagine svolta da Galeazzi su 363 studenti di Medicina della facoltà romagnola, oltre il 70 per cento ritiene rischioso l’uso di stimolanti. E però, il 60,3 per cento sarebbe propenso ad assumerli, se fossero sicuri. «Disporre di dati è molto difficile — concorda Agnes Allansdottir, ricercatrice a Toscana Life Sciences e responsabile del progetto Nerri (Neuro enhancement research innovation), finanziato dalla Comunità europea — . L’uso appare ancora limitato, sebbene sul web si possa acquistare di tutto». Simona Pichini, ricercatrice dell’Osservatorio Fumo, Alcol e Droga dell’Istituto Superiore di Sanità, ritiene che in Italia, in mancanza di rilevazioni ufficiali, il problema riguardi poche migliaia di persone: «Universitari bene con istruzione medio-alta, ricercatori di punta, professionisti...». Gli effetti collaterali? «Una possibile alterazione del ciclo sonno-veglia e del senso di fame — spiega l’esperta — . Se non dormi per cinque giorni, è normale sentirne le conseguenze». Non solo. «Mentre sui malati questi farmaci sono stati ampiamente testati, non sappiamo come possano agire sui sani». Tra i rischi di un uso prolungato dipendenza, allucinazioni, paranoie e depressione. Senza trascurare un altro inconveniente: si incamerano più informazioni, ma l’effetto non è duraturo. Tradotto: con gli stimolanti cognitivi non si diventa più intelligenti e non si acquista una memoria elefantiaca.
Repubblica 17.10.15
Perché l’America sta sbagliando con la Cina
di Timotjy Garton Ash
QUAL è la sfida più grande con la quale dovrà cimentarsi il prossimo presidente degli Stati Uniti? Capire come comportarsi con la Cina. Il più importante problema geopolitico dei nostri tempi è il rapporto tra la superpotenza emergente e la superpotenza che resiste. Se Washington e Pechino non faranno la scelta giusta, a un certo punto entro il prossimo decennio probabilmente da qualche parte scoppierà una guerra in Asia. Al confronto, la Russia neoimperialista di Putin e la ferocia dello Stato Islamico sono sfide regionali di media entità. Il cambiamento del clima e l’economia mondiale non potranno essere affrontati e gestiti senza una stretta collaborazione sino-americana. Tutto ciò impone quindi una grandiosa strategia bipartisan americana per i prossimi vent’anni.
Nel Mar Cinese meridionale, con imponenti operazioni, Pechino ha trasformato alcuni scogliere sommerse dai nomi ispirati ai romanzi di Joseph Conrad — Mischief Reef, Fiery Cross Reef — in isole artificiali, e su Fiery Cross sta ultimando una pista di decollo di tre chilometri. Di recente il presidente cinese Xi Jinping ha presieduto una grandiosa parata militare in stile Cremlino. E accanto a lui, ospite d’onore, sedeva Vladimir Putin.
A sostegno delle sue rivendicazioni su una vasta area del Mar Cinese meridionale all’interno della sua “nine-dash-line“ (“linea dei nove punti”, reliquia del nazionalismo cinese del primo Novecento,
ndt ), la Cina ha speronato alcuni pescherecci filippini e ha sorvolato su un aereo spia statunitense. Gli Usa adesso stanno facendo sapere ai loro alleati in Asia che faranno navigare le loro ronde di pattuglia per la “libertà di navigazione” al di là delle isole contese. È interessante notare che il mese scorso, quando alcune navi militari cinesi hanno attraversato le acque territoriali statunitensi intorno alle Isole Aleutine, le forze armate americane hanno reagito con distacco, dicendo che erano passate “come prevedono le leggi internazionali”. Il termine tecnico per indicare questo tipo di navigazione è “passaggio innocente”. Vedremo adesso quale sarà, quindi, la reazione di Pechino al “passaggio innocente” delle navi militari statunitensi nelle acque di Fiery Cross o di Mischief Reef. Navi da guerra che passano con atteggiamento di sfida intorno a isole contese: ma di quale secolo stiamo parlando?
Tutto ciò ribolle mentre il presidente Xi è molto saldo in Cina, senza nessuna crisi interna immediata. Il Partito Comunista cinese, tuttavia, deve far fronte a una crisi di legittimazione sul lungo periodo. Per decenni l’ha attinta da un’impressionante crescita economica, che però adesso sta rallentando. Da un paio d’anni ormai sostengo che Xi stia tentando un pesante gioco d’azzardo leninista, che il riaffermato potere monopartitico sia in grado di gestire gli sviluppi di un’economia complessa e in via di maturazione, e di soddisfare così le sempre più grandi aspettative di una società più colta, civile e informata. Il grossolano tentativo delle autorità cinesi di imporre il rialzo dei mercati azionari cinesi all’inizio di quest’anno non è promettente.
Quasi sicuramente riusciranno a tenere tutto sotto controllo per parecchi anni ancora ma, come sempre accade quando si rimanda una riforma essenziale, alla fine la crisi esploderà. A quel punto, per la leadership del Partito Comunista la tentazione di giocare la carta del nazionalismo — alla quale si accompagnerà forse una vera e propria operazione militare — sarà molto forte. Probabilmente, non si tratterà di uno scontro diretto con un alleato ufficiale degli Stati Uniti, e nondimeno i rischi di un errore di calcolo o di un’escalation saranno elevati. Con un’opinione pubblica arrabbiata e nazionalista in entrambi i paesi, né il leader cinese né quello americano potranno dare l’impressione di essere in procinto di perdere, ed entrambi i paesi posseggono armi nucleari. Il mio non è sterile allarmismo: è qualcosa su cui le forze armate, l’intelligence e i think tank degli Stati Uniti riflettono di continuo per scongiurarlo.
Proprio perché il comportamento futuro della Cina dipenderà prevalentemente dalle forze al suo interno — fuori dal controllo di Washington — gli Stati Uniti hanno bisogno di dispiegare tutti gli strumenti a loro disposizione in modo saggio, coerente, strategico. Ho in mente qualcosa che dovrebbe assomigliare almeno in parte alla cosiddetta strategia del “doppio binario” adottata dall’Occidente negli ultimi vent’anni della Guerra Fredda (senza aspettarsi, ovviamente, che le cose vadano a finire nello stesso modo). Da una parte, nella testa dei cinesi, non dovrebbe sussistere margine di dubbio al riguardo di quello che gli Usa sarebbero disposti ad accettare dal punto di vista militare. La politica degli Stati Uniti dovrebbe essere l’esatto contrario di ciò che Barack Obama ha fatto nel caso della Siria, dichiarando l’esistenza di una “linea rossa” e poi lasciando che Bashar al Assad la varcasse impunemente. In questo caso, gli Stati Uniti non dovrebbero dichiarare nulla del genere a livello ufficiale, ma comunicare in via riservata che una “linea rossa” in verità esiste. Dovrebbero farlo capire con i fatti, che dicono molto più delle parole, ed essere quanto mai chiari al riguardo.
Al tempo stesso, d’altra parte, Washington dovrebbe moltiplicare i suoi sforzi nei confronti di un ingaggio costruttivo. Ci dovrebbero essere vigorosi tentativi di trovare un terreno comune di intesa al riguardo del cambiamento del clima, dei problemi legati all’economia mondiale e alla geopolitica, dalla Corea del Nord alla Siria. Gli intensi rapporti d’affari che già esistono dovrebbero dare slancio particolare a questo tipo di relazione. Esiste già un rapporto straordinario tra popolo e popolo, che coinvolge svariati milioni di cinesi benestanti che hanno studiato, lavorato e vissuto in Occidente. Questa strategia dovrebbe essere coordinata con i più importanti alleati statunitensi che hanno a loro volta vitali rapporti con la Cina, per esempio Australia, Germania e Gran Bretagna — che nelle prossime ore accoglierà il presidente Xi in visita di stato. Orville Schell, esperto sinologo, suggerisce al prossimo presidente degli Stati Uniti di nominare un inviato speciale di alto grado in Cina. Egli sostiene, in maniera sottilmente ironica, che la presidente Hillary Clinton avrebbe in Bill Clinton il candidato perfetto, dotato del prestigio legato al fatto di essere un ex presidente, di avere l’esperienza necessaria e concrete capacità di negoziare. Se invece diventasse presidente il repubblicano Marco Rubio potrebbe offrire questo incarico a Jeb Bush, il padre del quale è stato inviato degli Stati Uniti a Pechino nel 1974-75 mentre il fratello, George W., ha intrattenuto buoni rapporti con la Cina.
Al momento, questi sono soltanto castelli in aria. I candidati repubblicani alla presidenza fanno qualche peregrino accenno alla Cina, solo di rado. Il candidato Ben Carson ha twittato la foto di una portaerei americana scrivendo “Così si compete con la Cina”. Con un misto insuperabile di ignoranza e spacconeria, Donal Trump lascia invece intendere che il problema è dovuto al fatto che le autorità cinesi non rispettano il presidente Obama, e insinua che se soltanto Xi si sedesse per un paio di birrette in sua compagnia, tutto andrebbe per il meglio. E che dire di Hillary Clinton, unica candidata alla presidenza ad avere una seria esperienza politica della Cina? Questa settimana, la candidata ha spudoratamente cambiato posizione riguardo al Partenariato Transpacifico, l’accordo commerciale con l’Asia più importante che lei stessa ha patrocinato per molti anni, e che quando era Segretario di Stato aveva definito «un esempio per gli accordi commerciali ». Il suo dietrofront è dovuto a palesi motivi di opportunismo, finalizzato a raccogliere i consensi e i voti dei sindacati dei lavoratori democratici e protezionisti che al momento vanno a Bernie Sanders, il quale promette di cassare lo «svantaggioso accordo commerciale ». Ecco la tragedia di una politica dalla quale dipendono così tante cose per tutti noi. Gli Stati Uniti hanno una raffinata comunità politica, capace di dar vita a una grandiosa strategia bipartisan e multilaterale nei confronti della Cina, come sarebbe necessario. Purtroppo, però, gli Usa hanno sviluppato un modo di fare politica che rende impossibile sostenere tale strategia. Volendo adattare a questa situazione una ben nota osservazione fatta dal possibile inviato speciale in Cina, Bill Clinton, potremmo dire che è la politica a essere stupida.
Traduzione di Anna Bissanti
Perché l’America sta sbagliando con la Cina
di Timotjy Garton Ash
QUAL è la sfida più grande con la quale dovrà cimentarsi il prossimo presidente degli Stati Uniti? Capire come comportarsi con la Cina. Il più importante problema geopolitico dei nostri tempi è il rapporto tra la superpotenza emergente e la superpotenza che resiste. Se Washington e Pechino non faranno la scelta giusta, a un certo punto entro il prossimo decennio probabilmente da qualche parte scoppierà una guerra in Asia. Al confronto, la Russia neoimperialista di Putin e la ferocia dello Stato Islamico sono sfide regionali di media entità. Il cambiamento del clima e l’economia mondiale non potranno essere affrontati e gestiti senza una stretta collaborazione sino-americana. Tutto ciò impone quindi una grandiosa strategia bipartisan americana per i prossimi vent’anni.
Nel Mar Cinese meridionale, con imponenti operazioni, Pechino ha trasformato alcuni scogliere sommerse dai nomi ispirati ai romanzi di Joseph Conrad — Mischief Reef, Fiery Cross Reef — in isole artificiali, e su Fiery Cross sta ultimando una pista di decollo di tre chilometri. Di recente il presidente cinese Xi Jinping ha presieduto una grandiosa parata militare in stile Cremlino. E accanto a lui, ospite d’onore, sedeva Vladimir Putin.
A sostegno delle sue rivendicazioni su una vasta area del Mar Cinese meridionale all’interno della sua “nine-dash-line“ (“linea dei nove punti”, reliquia del nazionalismo cinese del primo Novecento,
ndt ), la Cina ha speronato alcuni pescherecci filippini e ha sorvolato su un aereo spia statunitense. Gli Usa adesso stanno facendo sapere ai loro alleati in Asia che faranno navigare le loro ronde di pattuglia per la “libertà di navigazione” al di là delle isole contese. È interessante notare che il mese scorso, quando alcune navi militari cinesi hanno attraversato le acque territoriali statunitensi intorno alle Isole Aleutine, le forze armate americane hanno reagito con distacco, dicendo che erano passate “come prevedono le leggi internazionali”. Il termine tecnico per indicare questo tipo di navigazione è “passaggio innocente”. Vedremo adesso quale sarà, quindi, la reazione di Pechino al “passaggio innocente” delle navi militari statunitensi nelle acque di Fiery Cross o di Mischief Reef. Navi da guerra che passano con atteggiamento di sfida intorno a isole contese: ma di quale secolo stiamo parlando?
Tutto ciò ribolle mentre il presidente Xi è molto saldo in Cina, senza nessuna crisi interna immediata. Il Partito Comunista cinese, tuttavia, deve far fronte a una crisi di legittimazione sul lungo periodo. Per decenni l’ha attinta da un’impressionante crescita economica, che però adesso sta rallentando. Da un paio d’anni ormai sostengo che Xi stia tentando un pesante gioco d’azzardo leninista, che il riaffermato potere monopartitico sia in grado di gestire gli sviluppi di un’economia complessa e in via di maturazione, e di soddisfare così le sempre più grandi aspettative di una società più colta, civile e informata. Il grossolano tentativo delle autorità cinesi di imporre il rialzo dei mercati azionari cinesi all’inizio di quest’anno non è promettente.
Quasi sicuramente riusciranno a tenere tutto sotto controllo per parecchi anni ancora ma, come sempre accade quando si rimanda una riforma essenziale, alla fine la crisi esploderà. A quel punto, per la leadership del Partito Comunista la tentazione di giocare la carta del nazionalismo — alla quale si accompagnerà forse una vera e propria operazione militare — sarà molto forte. Probabilmente, non si tratterà di uno scontro diretto con un alleato ufficiale degli Stati Uniti, e nondimeno i rischi di un errore di calcolo o di un’escalation saranno elevati. Con un’opinione pubblica arrabbiata e nazionalista in entrambi i paesi, né il leader cinese né quello americano potranno dare l’impressione di essere in procinto di perdere, ed entrambi i paesi posseggono armi nucleari. Il mio non è sterile allarmismo: è qualcosa su cui le forze armate, l’intelligence e i think tank degli Stati Uniti riflettono di continuo per scongiurarlo.
Proprio perché il comportamento futuro della Cina dipenderà prevalentemente dalle forze al suo interno — fuori dal controllo di Washington — gli Stati Uniti hanno bisogno di dispiegare tutti gli strumenti a loro disposizione in modo saggio, coerente, strategico. Ho in mente qualcosa che dovrebbe assomigliare almeno in parte alla cosiddetta strategia del “doppio binario” adottata dall’Occidente negli ultimi vent’anni della Guerra Fredda (senza aspettarsi, ovviamente, che le cose vadano a finire nello stesso modo). Da una parte, nella testa dei cinesi, non dovrebbe sussistere margine di dubbio al riguardo di quello che gli Usa sarebbero disposti ad accettare dal punto di vista militare. La politica degli Stati Uniti dovrebbe essere l’esatto contrario di ciò che Barack Obama ha fatto nel caso della Siria, dichiarando l’esistenza di una “linea rossa” e poi lasciando che Bashar al Assad la varcasse impunemente. In questo caso, gli Stati Uniti non dovrebbero dichiarare nulla del genere a livello ufficiale, ma comunicare in via riservata che una “linea rossa” in verità esiste. Dovrebbero farlo capire con i fatti, che dicono molto più delle parole, ed essere quanto mai chiari al riguardo.
Al tempo stesso, d’altra parte, Washington dovrebbe moltiplicare i suoi sforzi nei confronti di un ingaggio costruttivo. Ci dovrebbero essere vigorosi tentativi di trovare un terreno comune di intesa al riguardo del cambiamento del clima, dei problemi legati all’economia mondiale e alla geopolitica, dalla Corea del Nord alla Siria. Gli intensi rapporti d’affari che già esistono dovrebbero dare slancio particolare a questo tipo di relazione. Esiste già un rapporto straordinario tra popolo e popolo, che coinvolge svariati milioni di cinesi benestanti che hanno studiato, lavorato e vissuto in Occidente. Questa strategia dovrebbe essere coordinata con i più importanti alleati statunitensi che hanno a loro volta vitali rapporti con la Cina, per esempio Australia, Germania e Gran Bretagna — che nelle prossime ore accoglierà il presidente Xi in visita di stato. Orville Schell, esperto sinologo, suggerisce al prossimo presidente degli Stati Uniti di nominare un inviato speciale di alto grado in Cina. Egli sostiene, in maniera sottilmente ironica, che la presidente Hillary Clinton avrebbe in Bill Clinton il candidato perfetto, dotato del prestigio legato al fatto di essere un ex presidente, di avere l’esperienza necessaria e concrete capacità di negoziare. Se invece diventasse presidente il repubblicano Marco Rubio potrebbe offrire questo incarico a Jeb Bush, il padre del quale è stato inviato degli Stati Uniti a Pechino nel 1974-75 mentre il fratello, George W., ha intrattenuto buoni rapporti con la Cina.
Al momento, questi sono soltanto castelli in aria. I candidati repubblicani alla presidenza fanno qualche peregrino accenno alla Cina, solo di rado. Il candidato Ben Carson ha twittato la foto di una portaerei americana scrivendo “Così si compete con la Cina”. Con un misto insuperabile di ignoranza e spacconeria, Donal Trump lascia invece intendere che il problema è dovuto al fatto che le autorità cinesi non rispettano il presidente Obama, e insinua che se soltanto Xi si sedesse per un paio di birrette in sua compagnia, tutto andrebbe per il meglio. E che dire di Hillary Clinton, unica candidata alla presidenza ad avere una seria esperienza politica della Cina? Questa settimana, la candidata ha spudoratamente cambiato posizione riguardo al Partenariato Transpacifico, l’accordo commerciale con l’Asia più importante che lei stessa ha patrocinato per molti anni, e che quando era Segretario di Stato aveva definito «un esempio per gli accordi commerciali ». Il suo dietrofront è dovuto a palesi motivi di opportunismo, finalizzato a raccogliere i consensi e i voti dei sindacati dei lavoratori democratici e protezionisti che al momento vanno a Bernie Sanders, il quale promette di cassare lo «svantaggioso accordo commerciale ». Ecco la tragedia di una politica dalla quale dipendono così tante cose per tutti noi. Gli Stati Uniti hanno una raffinata comunità politica, capace di dar vita a una grandiosa strategia bipartisan e multilaterale nei confronti della Cina, come sarebbe necessario. Purtroppo, però, gli Usa hanno sviluppato un modo di fare politica che rende impossibile sostenere tale strategia. Volendo adattare a questa situazione una ben nota osservazione fatta dal possibile inviato speciale in Cina, Bill Clinton, potremmo dire che è la politica a essere stupida.
Traduzione di Anna Bissanti
La Stampa 17.10.1
Un’altra talpa sfida Washington
La “Wikileaks dei droni”
rivela il flop degli omicidi mirati
di Paolo Mastrolilli
C’è un nuovo Snowden, e sta rivelando i segreti del programma americano per usare i droni contro il terrorismo. Informazioni imbarazzanti, come quella secondo cui l’intelligence usata per individuare gli obiettivi è scarsa, al punto che quasi il 90% delle vittime degli attacchi lanciati nella zona nord orientale dell’Afghanistan fra il 2012 e il 2013 non erano i target prescelti. Errori, in altre parole.
I documenti sono stati pubblicati dal sito Intercept, fondato da Glenn Greenwald, cioé l’ex giornalista del Guardian che aveva raccolto le confidenze di Edward Snowden. L’ex agente della National Security Agency, però, è in esilio a Mosca, e non sarebbe la misteriosa fonte anonima di queste nuove rivelazioni. I «leaks» arriverebbero invece da un altro membro della comunità dell’intelligence, che giudica sbagliato il programma dei droni e ritiene necessario farlo conoscere al pubblico.
Le carte di Intercept, fra cui lo studio condotto nel 2013 dall’Intelligence, Surveillance and Reconnaissance Task Force, sono molto dettagliate. Rivelano la catena di comando; le regioni delle operazioni, in cui è coinvolta anche l’Italia; i meccanismi per l’individuazione degli obietti e gli attacchi; i risultati.
Il programma è diviso fra Cia e Pentagono, e questo provoca frequenti attriti. Gli obiettivi vengono individuati dall’intelligence, che raccoglie le informazioni su schede come le figurine del baseball. Questi target poi finiscono sulla scrivania dal presidente Obama, che impiega in media 58 giorni per autorizzarli o negarli. Se la sua riposta è positiva, gli operatori dei droni hanno 60 giorni per colpire gli obiettivi.
I target vengono cercati soprattutto attraverso la «sigint», cioé l’intelligence raccolta con la sorveglianza elettronica di telefoni e computer. Questo processo si chiama «find, fix, finish». Le SIM card dei terroristi vengono collegate con dei codici ai droni, che da quel momento in poi li seguono passo passo, come è successo col cittadino britannico Bilal el-Berjawi, ucciso in Somalia dopo aver chiamato la moglie che aveva appena partorito. «I target - ha detto la fonte a Intercept - sono considerate persone senza umanità e senza diritti».
Gli attacchi in Africa e nello Yemen, gestiti dalla task force TF 48-4, partono dalle navi e da tre basi, una a Gibuti, una in Etiopia ad Arba Minch, e una in Kenya. Quelli in Afghanistan invece decollano dalle basi locali. Una cartina pubblicata da Intercept mostra anche il raggio d’azione per il transito dalle basi Nato/Usa, e si vede Sigonella, da dove partono le missioni per la sorveglianza su Libia, Algeria e Tunisia.
Tra il 2011 e il 2015 in Somalia e Yemen sono avvenuti 178 attacchi, di cui 56 nel biennio 2011-2012 che hanno fatto 293 morti. La contabilità in Afghanistan è più alta. Durante l’operazione Haymaker, lanciata fra il gennaio del 2012 e il febbraio del 2013, i raid hanno ucciso oltre 200 persone, ma solo 35 erano i terroristi davvero presi di mira.
Un’altra talpa sfida Washington
La “Wikileaks dei droni”
rivela il flop degli omicidi mirati
di Paolo Mastrolilli
C’è un nuovo Snowden, e sta rivelando i segreti del programma americano per usare i droni contro il terrorismo. Informazioni imbarazzanti, come quella secondo cui l’intelligence usata per individuare gli obiettivi è scarsa, al punto che quasi il 90% delle vittime degli attacchi lanciati nella zona nord orientale dell’Afghanistan fra il 2012 e il 2013 non erano i target prescelti. Errori, in altre parole.
I documenti sono stati pubblicati dal sito Intercept, fondato da Glenn Greenwald, cioé l’ex giornalista del Guardian che aveva raccolto le confidenze di Edward Snowden. L’ex agente della National Security Agency, però, è in esilio a Mosca, e non sarebbe la misteriosa fonte anonima di queste nuove rivelazioni. I «leaks» arriverebbero invece da un altro membro della comunità dell’intelligence, che giudica sbagliato il programma dei droni e ritiene necessario farlo conoscere al pubblico.
Le carte di Intercept, fra cui lo studio condotto nel 2013 dall’Intelligence, Surveillance and Reconnaissance Task Force, sono molto dettagliate. Rivelano la catena di comando; le regioni delle operazioni, in cui è coinvolta anche l’Italia; i meccanismi per l’individuazione degli obietti e gli attacchi; i risultati.
Il programma è diviso fra Cia e Pentagono, e questo provoca frequenti attriti. Gli obiettivi vengono individuati dall’intelligence, che raccoglie le informazioni su schede come le figurine del baseball. Questi target poi finiscono sulla scrivania dal presidente Obama, che impiega in media 58 giorni per autorizzarli o negarli. Se la sua riposta è positiva, gli operatori dei droni hanno 60 giorni per colpire gli obiettivi.
I target vengono cercati soprattutto attraverso la «sigint», cioé l’intelligence raccolta con la sorveglianza elettronica di telefoni e computer. Questo processo si chiama «find, fix, finish». Le SIM card dei terroristi vengono collegate con dei codici ai droni, che da quel momento in poi li seguono passo passo, come è successo col cittadino britannico Bilal el-Berjawi, ucciso in Somalia dopo aver chiamato la moglie che aveva appena partorito. «I target - ha detto la fonte a Intercept - sono considerate persone senza umanità e senza diritti».
Gli attacchi in Africa e nello Yemen, gestiti dalla task force TF 48-4, partono dalle navi e da tre basi, una a Gibuti, una in Etiopia ad Arba Minch, e una in Kenya. Quelli in Afghanistan invece decollano dalle basi locali. Una cartina pubblicata da Intercept mostra anche il raggio d’azione per il transito dalle basi Nato/Usa, e si vede Sigonella, da dove partono le missioni per la sorveglianza su Libia, Algeria e Tunisia.
Tra il 2011 e il 2015 in Somalia e Yemen sono avvenuti 178 attacchi, di cui 56 nel biennio 2011-2012 che hanno fatto 293 morti. La contabilità in Afghanistan è più alta. Durante l’operazione Haymaker, lanciata fra il gennaio del 2012 e il febbraio del 2013, i raid hanno ucciso oltre 200 persone, ma solo 35 erano i terroristi davvero presi di mira.
Repubblica 17.10.15
Pattuglie e istruttori ecco i compiti dei nostri 750 soldati
di Giampaolo Cadalanu
CONTRORDINE, non si parte più. L’amministrazione Obama ha pronunciato ad alta voce le parole che tutti sussurravano, chiarendo che l’Afghanistan è tutt’altro che pacificato. E l’Italia si avvia a fare la sua parte, sia pure a velocità ridotta rispetto ai momenti di grande impegno. Fra Camp Arena a Herat e il quartier generale occidentale a Kabul, i militari italiani sono circa 750, e tanti resteranno nel 2016. Sembra da escludere ogni possibilità di aumentare questo livello. Sarà dunque un contingente ridotto, con compiti limitati, anche perché gli “assetti” preziosi, dai caccia Amx ai droni da sorveglianza Predator, sono già rientrati in Italia. Resta qualche elicottero, e aerei da trasporto. Un esperto sintetizza: la presenza italiana avrà soprattutto un ruolo simbolico, anche perché è difficile immaginare che ai soldati rimasti siano affidati compiti diversi da qualche pattugliamento. Rimarranno in Afghanistan soprattutto uomini dell’Esercito e Carabinieri, e probabilmente un contingente di truppe speciali, in particolare uomini della Task Force 45.
Agli Stati maggiori rassicurano: la permanenza in Afghanistan per un altro anno sarà un peso per le tasche del contribuente, ma gran parte della spesa andrà in stipendi e indennità di missione, e quindi ritornerà in patria. Quanto all’ipotesi di “over-stretching”, cioè di eccessivo sfruttamento delle risorse umane, la Difesa è sicura: le forze italiane hanno visto impegni molto più gravosi.
La risposta all’appello della Casa Bianca non dovrebbe nemmeno compromettere il ruolo italiano nella missione europea in Libia, per ora nella fase 2. La fase 3 di Eunavfor Med (la missione prenderà presto il nome di Sophia, dalla bambina partorita a bordo di una nave tedesca da una madre migrante), che prevede l’arrivo in acque libiche e la possibilità di sbarchi sulla terraferma, non sembra vicina: serve una risoluzione del Consiglio di Sicurezza o un invito delle autorità libiche, e il disaccordo diplomatico fra Russia e Usa per la missione in Siria potrebbe ritardare un’intesa sulla Libia in sede Onu. Anche la possibilità di una richiesta di Tripoli per ora non appare prossima, nonostante i primi passi avanti verso un governo di unità nazionale. Se il “via libera” per la fase 3 si fa attendere, al momento lo sforzo fondamentale italiano è limitato alla Marina, che poco risente di nuovi impegni in Afghanistan. Fra quartier generale di Centocelle e nave Cavour, schiera 680 uomini.
Fuori dai confini, il contingente più robusto è in Libano (1100, fra campo di Shama e quartier generale Unifil a Naqura), oltre a una ventina di addestratori delle forze libiche della missione Milib. In Kosovo ne sono rimasti 550. Significativa è invece la presenza in Iraq: 220 istruttori sono in Kurdistan per addestrare i peshmerga, a Bagdad ci sono 30 uomini e altri 270 sono a disposizione dell’Aeronautica in Kuwait. Contingenti più ridotti sono schierati a Mogadiscio (100 uomini), a Gibuti (altrettanti), sulla nave Libeccio in pattugliamento antipirateria nelle acque somale (220). Il contributo alla missione Active Endeavour nel Mediterraneo impegna 170 persone sulla nave Aliseo, 750 sono imbarcati su 4 navi di “Mare sicuro”, altri contingenti molto ridotti sono a Cipro, nel Mali, a Sharm el-Sheikh e nei territori palestinesi. Ma il compito fondamentale è quello sul territorio nazionale: 6500 militari sono schierati in “Strade sicure”, cornice che comprende anche l’impegno di garantire la sicurezza dell’Expo e quello per impedire contaminazioni nella “Terra dei fuochi”.
Pattuglie e istruttori ecco i compiti dei nostri 750 soldati
di Giampaolo Cadalanu
CONTRORDINE, non si parte più. L’amministrazione Obama ha pronunciato ad alta voce le parole che tutti sussurravano, chiarendo che l’Afghanistan è tutt’altro che pacificato. E l’Italia si avvia a fare la sua parte, sia pure a velocità ridotta rispetto ai momenti di grande impegno. Fra Camp Arena a Herat e il quartier generale occidentale a Kabul, i militari italiani sono circa 750, e tanti resteranno nel 2016. Sembra da escludere ogni possibilità di aumentare questo livello. Sarà dunque un contingente ridotto, con compiti limitati, anche perché gli “assetti” preziosi, dai caccia Amx ai droni da sorveglianza Predator, sono già rientrati in Italia. Resta qualche elicottero, e aerei da trasporto. Un esperto sintetizza: la presenza italiana avrà soprattutto un ruolo simbolico, anche perché è difficile immaginare che ai soldati rimasti siano affidati compiti diversi da qualche pattugliamento. Rimarranno in Afghanistan soprattutto uomini dell’Esercito e Carabinieri, e probabilmente un contingente di truppe speciali, in particolare uomini della Task Force 45.
Agli Stati maggiori rassicurano: la permanenza in Afghanistan per un altro anno sarà un peso per le tasche del contribuente, ma gran parte della spesa andrà in stipendi e indennità di missione, e quindi ritornerà in patria. Quanto all’ipotesi di “over-stretching”, cioè di eccessivo sfruttamento delle risorse umane, la Difesa è sicura: le forze italiane hanno visto impegni molto più gravosi.
La risposta all’appello della Casa Bianca non dovrebbe nemmeno compromettere il ruolo italiano nella missione europea in Libia, per ora nella fase 2. La fase 3 di Eunavfor Med (la missione prenderà presto il nome di Sophia, dalla bambina partorita a bordo di una nave tedesca da una madre migrante), che prevede l’arrivo in acque libiche e la possibilità di sbarchi sulla terraferma, non sembra vicina: serve una risoluzione del Consiglio di Sicurezza o un invito delle autorità libiche, e il disaccordo diplomatico fra Russia e Usa per la missione in Siria potrebbe ritardare un’intesa sulla Libia in sede Onu. Anche la possibilità di una richiesta di Tripoli per ora non appare prossima, nonostante i primi passi avanti verso un governo di unità nazionale. Se il “via libera” per la fase 3 si fa attendere, al momento lo sforzo fondamentale italiano è limitato alla Marina, che poco risente di nuovi impegni in Afghanistan. Fra quartier generale di Centocelle e nave Cavour, schiera 680 uomini.
Fuori dai confini, il contingente più robusto è in Libano (1100, fra campo di Shama e quartier generale Unifil a Naqura), oltre a una ventina di addestratori delle forze libiche della missione Milib. In Kosovo ne sono rimasti 550. Significativa è invece la presenza in Iraq: 220 istruttori sono in Kurdistan per addestrare i peshmerga, a Bagdad ci sono 30 uomini e altri 270 sono a disposizione dell’Aeronautica in Kuwait. Contingenti più ridotti sono schierati a Mogadiscio (100 uomini), a Gibuti (altrettanti), sulla nave Libeccio in pattugliamento antipirateria nelle acque somale (220). Il contributo alla missione Active Endeavour nel Mediterraneo impegna 170 persone sulla nave Aliseo, 750 sono imbarcati su 4 navi di “Mare sicuro”, altri contingenti molto ridotti sono a Cipro, nel Mali, a Sharm el-Sheikh e nei territori palestinesi. Ma il compito fondamentale è quello sul territorio nazionale: 6500 militari sono schierati in “Strade sicure”, cornice che comprende anche l’impegno di garantire la sicurezza dell’Expo e quello per impedire contaminazioni nella “Terra dei fuochi”.
La Stampa 17.10.15
Afghanistan, i soldati italiani resteranno un altro anno
Renzi dice sì al “pressing” di Obama: ma nel 2017 tutti a casa
La permanenza dei nostri militari costerà 150 milioni di euro
di Francesco Grignetti
Il governo conferma: a differenza di quanto previsto, i nostri soldati resteranno in Afghanistan anche nel 2016 come ci chiedono pressantemente l’Alleanza atlantica e l’Amministrazione Usa. Non se ne parla, invece, d’impegnarsi per il 2017. Dentro l’Esecutivo, peraltro, c’era chi frenava e avrebbe voluto concedere soltanto sei mesi. Ma tant’è. La risposta di Roma probabilmente deluderà Washington.
È Matteo Renzi in persona ad annunciare, in un passaggio del suo discorso all’Università di Venezia, che l’Italia sta «decidendo in queste ore» quale posizione tenere in Afghanistan. «Avete sentito tutti cosa ha detto il presidente Obama», dice il premier. Già, tutti hanno saputo che Obama, di malavoglia, ha dovuto confermare la presenza dei marines per il 2016 e il 2017. Rispetto alle richieste dei suoi generali, ha dimezzato le presenze, ma l’annunciato ritiro totale degli americani non ci sarà. Con l’occasione, Obama ha anche detto che conta sulla presenza in Afghanistan degli alleati.
Italiani e tedeschi
Sono una quarantina i Paesi presenti con proprie truppe in Afghanistan, eppure l’appello è rivolto essenzialmente agli italiani e ai tedeschi. Si consideri infatti che i francesi sono già rientrati in patria da un paio di anni, gli spagnoli stanno smobilitando, gli inglesi hanno mollato la posizione di Helmand e c’è soltanto un contingente di circa 200 soldati a Kabul.
Il pressing è per gli italiani, insomma, perché i nostri militari sono molto apprezzati per il lavoro che svolgono sul terreno, ma soprattutto per una questione politica e simbolica: gli americani temono di restare soli in quel pantano. Perciò è nato questo riferimento afghano, con sottolineatura di come vanno davvero le cose, nel discorso di Renzi a Venezia. «Stiamo valutando in queste ore se prolungare di un altro anno la nostra presenza in Afghanistan, come ci è stato chiesto dall’amministrazione americana».
Un altro anno a Herat, allora? A questo punto è scontato. La Difesa, però, è in affanno. La missione costa 150 milioni di euro all’anno, altri 120 milioni (come da impegni presi nel summit Nato Chicago 2012: ma a quel tempo eravamo sicuri di rientrare nel 2014) li versiamo per pagare gli stipendi dell’esercito afghano, e Roma vorrebbe concentrare quei soldi sul Mediterraneo, che è la nostra vera priorità. Se mai partisse la missione di «peace keeping» in Libia, poi, uomini e mezzi sarebbero chiamati a un nuovo impegno gravoso.
Le difese della Russia
È un fatto, comunque, che la Nato ritiene molto pericolosa la situazione in Afghanistan. Un ritiro completo degli occidentali, mancando oltretutto il supporto aereo, potrebbe spingere l’esercito regolare di Kabul al collasso. E non solo l’Alleanza atlantica vede una realtà pericolante. Putin ha deciso ieri di mandare truppe alla frontiera tra Afghanistan e Tagikistan. «Terroristi di varia natura - ha spiegato il presidente russo - stanno guadagnando sempre maggior influenza e non nascondono i loro piani per una ulteriore espansione. Uno dei loro obiettivi è quello di irrompere in Asia centrale. Dobbiamo essere pronti a reagire».
Afghanistan, i soldati italiani resteranno un altro anno
Renzi dice sì al “pressing” di Obama: ma nel 2017 tutti a casa
La permanenza dei nostri militari costerà 150 milioni di euro
di Francesco Grignetti
Il governo conferma: a differenza di quanto previsto, i nostri soldati resteranno in Afghanistan anche nel 2016 come ci chiedono pressantemente l’Alleanza atlantica e l’Amministrazione Usa. Non se ne parla, invece, d’impegnarsi per il 2017. Dentro l’Esecutivo, peraltro, c’era chi frenava e avrebbe voluto concedere soltanto sei mesi. Ma tant’è. La risposta di Roma probabilmente deluderà Washington.
È Matteo Renzi in persona ad annunciare, in un passaggio del suo discorso all’Università di Venezia, che l’Italia sta «decidendo in queste ore» quale posizione tenere in Afghanistan. «Avete sentito tutti cosa ha detto il presidente Obama», dice il premier. Già, tutti hanno saputo che Obama, di malavoglia, ha dovuto confermare la presenza dei marines per il 2016 e il 2017. Rispetto alle richieste dei suoi generali, ha dimezzato le presenze, ma l’annunciato ritiro totale degli americani non ci sarà. Con l’occasione, Obama ha anche detto che conta sulla presenza in Afghanistan degli alleati.
Italiani e tedeschi
Sono una quarantina i Paesi presenti con proprie truppe in Afghanistan, eppure l’appello è rivolto essenzialmente agli italiani e ai tedeschi. Si consideri infatti che i francesi sono già rientrati in patria da un paio di anni, gli spagnoli stanno smobilitando, gli inglesi hanno mollato la posizione di Helmand e c’è soltanto un contingente di circa 200 soldati a Kabul.
Il pressing è per gli italiani, insomma, perché i nostri militari sono molto apprezzati per il lavoro che svolgono sul terreno, ma soprattutto per una questione politica e simbolica: gli americani temono di restare soli in quel pantano. Perciò è nato questo riferimento afghano, con sottolineatura di come vanno davvero le cose, nel discorso di Renzi a Venezia. «Stiamo valutando in queste ore se prolungare di un altro anno la nostra presenza in Afghanistan, come ci è stato chiesto dall’amministrazione americana».
Un altro anno a Herat, allora? A questo punto è scontato. La Difesa, però, è in affanno. La missione costa 150 milioni di euro all’anno, altri 120 milioni (come da impegni presi nel summit Nato Chicago 2012: ma a quel tempo eravamo sicuri di rientrare nel 2014) li versiamo per pagare gli stipendi dell’esercito afghano, e Roma vorrebbe concentrare quei soldi sul Mediterraneo, che è la nostra vera priorità. Se mai partisse la missione di «peace keeping» in Libia, poi, uomini e mezzi sarebbero chiamati a un nuovo impegno gravoso.
Le difese della Russia
È un fatto, comunque, che la Nato ritiene molto pericolosa la situazione in Afghanistan. Un ritiro completo degli occidentali, mancando oltretutto il supporto aereo, potrebbe spingere l’esercito regolare di Kabul al collasso. E non solo l’Alleanza atlantica vede una realtà pericolante. Putin ha deciso ieri di mandare truppe alla frontiera tra Afghanistan e Tagikistan. «Terroristi di varia natura - ha spiegato il presidente russo - stanno guadagnando sempre maggior influenza e non nascondono i loro piani per una ulteriore espansione. Uno dei loro obiettivi è quello di irrompere in Asia centrale. Dobbiamo essere pronti a reagire».
Corriere 17.10.15
Fiera alla Sapienza Anche gli studenti pagano l’ingresso
Contestavano la chiusura dell’università La Sapienza di Roma per la Maker Faire , la Fiera dell’Innovazione europea (che si chiude domani), e l’obbligo di pagare il biglietto — anche se ridotto — per gli studenti. Per questo ieri pomeriggio in 70 hanno cercato di forzare il blocco della polizia ma sono stati respinti con i manganelli e anche con l’uso degli idranti. Quattro ragazzi arrestati, un altro denunciato, 5 i feriti. Oggi nuovo presidio fuori dall’ateneo.
Fiera alla Sapienza Anche gli studenti pagano l’ingresso
Contestavano la chiusura dell’università La Sapienza di Roma per la Maker Faire , la Fiera dell’Innovazione europea (che si chiude domani), e l’obbligo di pagare il biglietto — anche se ridotto — per gli studenti. Per questo ieri pomeriggio in 70 hanno cercato di forzare il blocco della polizia ma sono stati respinti con i manganelli e anche con l’uso degli idranti. Quattro ragazzi arrestati, un altro denunciato, 5 i feriti. Oggi nuovo presidio fuori dall’ateneo.
Corriere 17.10.15
Riforma Madia
Restano alti i costi dei dirigenti
Efficienza e costi. È noto da tempo che la Pubblica amministrazione ha bisogno di intervenire su entrambe le voci. La cosiddetta riforma Madia dovrà portare efficienza nella Pa, ma restano aperte altre partite. Per esempio il fattore che riguarda i costi. Analizzando i numeri della dirigenza si notano le incongruenze più vistose. Da una ricerca effettuata da Forum Pa infatti emerge che nella pubblica amministrazione italiana ci sono 65.666 dirigenti con 8 contratti diversi. Una sorta di caos disorganizzato che non è neanche la falla più evidente del sistema. Basta analizzare i costi della dirigenza pubblica: lo squilibrio emerge in tutta la su abbagliante chiarezza quando si rileva che gli stipendi di prima fascia vanno da un massimo, nelle agenzie fiscali, di 221.775 euro a un minimo, negli enti di ricerca, di 151.176 euro lordi complessivi. Troppo? Per avere un parametro si possono confrontare le loro retribuzioni con quelle dei pari grado europei. I dirigenti apicali italiani guadagnano 12,6 volte il reddito medio pro capite di un qualsiasi lavoratore italiano. In Francia invece il rapporto è 6,44, nel Regno Unito è 8,48, in Germania 4,97. Nell’ambito del progetto Coordination for Cohesion in the Public Sector of the future è stata effettuata un’indagine di ampia scala su opinioni e percezioni dei manager della Pa in 10 Paesi europei riguardo le riforme del settore pubblico in atto. Ne viene fuori che i dirigenti italiani hanno poca fiducia nella riforma in corso, ancor meno ne hanno i cittadini nei confronti della politica e dei dirigenti pubblici. La maggioranza dell’opinione pubblica ritiene che il posto e lo stipendio della classe dirigente di questo Paese (politici compresi) debba dipendere dai risultati percepibili dai cittadini. In poche parole da come va l’azienda Italia. E senza un reciproco clima di fiducia neanche la migliore riforma possibile può essere efficace.
Riforma Madia
Restano alti i costi dei dirigenti
Efficienza e costi. È noto da tempo che la Pubblica amministrazione ha bisogno di intervenire su entrambe le voci. La cosiddetta riforma Madia dovrà portare efficienza nella Pa, ma restano aperte altre partite. Per esempio il fattore che riguarda i costi. Analizzando i numeri della dirigenza si notano le incongruenze più vistose. Da una ricerca effettuata da Forum Pa infatti emerge che nella pubblica amministrazione italiana ci sono 65.666 dirigenti con 8 contratti diversi. Una sorta di caos disorganizzato che non è neanche la falla più evidente del sistema. Basta analizzare i costi della dirigenza pubblica: lo squilibrio emerge in tutta la su abbagliante chiarezza quando si rileva che gli stipendi di prima fascia vanno da un massimo, nelle agenzie fiscali, di 221.775 euro a un minimo, negli enti di ricerca, di 151.176 euro lordi complessivi. Troppo? Per avere un parametro si possono confrontare le loro retribuzioni con quelle dei pari grado europei. I dirigenti apicali italiani guadagnano 12,6 volte il reddito medio pro capite di un qualsiasi lavoratore italiano. In Francia invece il rapporto è 6,44, nel Regno Unito è 8,48, in Germania 4,97. Nell’ambito del progetto Coordination for Cohesion in the Public Sector of the future è stata effettuata un’indagine di ampia scala su opinioni e percezioni dei manager della Pa in 10 Paesi europei riguardo le riforme del settore pubblico in atto. Ne viene fuori che i dirigenti italiani hanno poca fiducia nella riforma in corso, ancor meno ne hanno i cittadini nei confronti della politica e dei dirigenti pubblici. La maggioranza dell’opinione pubblica ritiene che il posto e lo stipendio della classe dirigente di questo Paese (politici compresi) debba dipendere dai risultati percepibili dai cittadini. In poche parole da come va l’azienda Italia. E senza un reciproco clima di fiducia neanche la migliore riforma possibile può essere efficace.
Repubblica 17.10.15
La denuncia del presidente Ama
“Per anni caos anche nell’azienda dei rifiuti appalti senza gara in otto casi su dieci”
di Ce. Gen.
ROMA Appalti per 240 milioni assegnati senza gara nel 2013. La denuncia è del presidente di Ama Daniele Fortini. «Dal 2006 al 2013 — racconta — l’azienda dei rifiuti ha dato in appalto non meno di 700 milioni di euro con procedure negoziali, proroghe e affidamento diretto. Le percentuali degli appalti senza gara sono andate crescendo: dal 50% nel 2006 al culmine dell’80% nel 2013». Per queste anomalie e altre situazioni ritenute inquietanti l’Ama ha presentato 11 esposti alla procura e all’Anac. «Abbiamo denunciato, per esempio — racconta ancora Fortini — un appalto quinquennale per 28mila cassonetti in noleggio per una spesa di 50mila euro. Noi abbiamo indetto una gara per acquistare 47mila cassonetti ad una cifra di 36 milioni di euro, quasi il doppio dei cassonetti per poco più della metà della spesa precedente». «Nel 2015 — conclude il presidente — abbiamo attivato le procedure di gara per il 97% degli appalti».
(ce. gen.)
La denuncia del presidente Ama
“Per anni caos anche nell’azienda dei rifiuti appalti senza gara in otto casi su dieci”
di Ce. Gen.
ROMA Appalti per 240 milioni assegnati senza gara nel 2013. La denuncia è del presidente di Ama Daniele Fortini. «Dal 2006 al 2013 — racconta — l’azienda dei rifiuti ha dato in appalto non meno di 700 milioni di euro con procedure negoziali, proroghe e affidamento diretto. Le percentuali degli appalti senza gara sono andate crescendo: dal 50% nel 2006 al culmine dell’80% nel 2013». Per queste anomalie e altre situazioni ritenute inquietanti l’Ama ha presentato 11 esposti alla procura e all’Anac. «Abbiamo denunciato, per esempio — racconta ancora Fortini — un appalto quinquennale per 28mila cassonetti in noleggio per una spesa di 50mila euro. Noi abbiamo indetto una gara per acquistare 47mila cassonetti ad una cifra di 36 milioni di euro, quasi il doppio dei cassonetti per poco più della metà della spesa precedente». «Nel 2015 — conclude il presidente — abbiamo attivato le procedure di gara per il 97% degli appalti».
(ce. gen.)
Repubblica 17.10.15
Lo scandalo
L’Atac di Roma è al centro delle indagini di Rafafele Cantone.
S’indaga su cinque anni di affidamenti di appalti senza gareCosì ti trucco il bus i costi senza regole nel bestiario Atac
Affidamenti diretti , consulenze per milioni E forniture frazionate per aggirare i vincoli
di Daniele Autieri e Carlo Bonini
ROMA Come è stato possibile che Atac, la municipalizzata per la mobilità di Roma, abbia affidato senza gara il 90 per cento dei 2 miliardi e 200 milioni di appalti chiusi tra il 2011 e il 2015? L’inchiesta dell’Autorità Nazionale Anticorruzione – che per altro si prepara a trasmettere i documenti e i dati raccolti alla Corte dei Conti e alla Procura, dove sta per essere chiusa l’indagine per peculato a carico di sette ex manager dell’Azienda, tra cui l’ex ad Gioacchino Gabbuti accusato di aver trasferito contanti a San Marino – precipita quel che resta della dirigenza dell’Azienda nel panico e costringe i suoi uffici a provare a mettere insieme una prima risposta pubblica. Che così viene argomentata in un lungo comunicato: «Il 23 settembre scorso, Atac ha chiaramente riferito all’azionista (il Comune di Roma e la Giunta Marino ndr.) i fatti salienti della gestione 2013-2015, informando che l’azienda effettua ogni anno circa 2.500 procedure di gara, oltre il 95% delle quali online, attraverso il ricorso alla piattaforma acquisti, con conseguente completa tracciabilità dei processi in ogni fase. Tale piattaforma assicura un alto livello di trasparenza ed economicità, allargando la platea dei fornitori e quindi incoraggiando la concorrenza». E ancora: «Tra luglio 2013 e agosto 2015 sono state pubblicate 5.327 gare per un valore pari a euro 536.042.000, con aggiudicazione ad un ribasso medio di circa il 26 %. Inoltre emerge che il dato medio degli affidamenti diretti è minore dell’1%. Nello specifico delle forniture nell’anno 2014, le procedure con evidenza pubblica (aperta) ammontano a oltre il 90%».
Detto altrimenti, l’Anac avrebbe preso un colossale granchio, il Comune (leggi l’ex assessore ai trasporti Stefano Esposito) non può fingere di essere stato ingannato e dell’Azienda non c’è che da essere fieri. Peccato che una verifica con fonti qualificate di Anac documenti l’opposto. «I dati relativi al 90% di affidamenti diretti – spiega uno dei funzionari al lavoro sul dossier – sono né più e né meno che le informazioni che la stessa Atac ha inserito nella nostra banca dati. È Atac che ha indicato quali appalti sono stati chiusi con affidamento diretto e quali con gara. E il dato è che il 90% sono stati con procedura negoziata». E quel «95 per cento di “gare online”» allora? «La procedura telematica – prosegue la fonte - è uno strumento che non definisce l’iter. Atac definisce “gare” quelli che sono in realtà affidamenti diretti».
IL GIOCO DELLO SPEZZETTAMENTO
C’è di più. E per certi versi di peggio. Dai tabulati estrapolati da Anac che documentano il dettaglio di ciascun appalto affidato da Atac con procedura negoziata emerge il frequente “frazionamento” delle forniture o dei servizi sotto la soglia dei 40mila euro (oltre la quale scatta l’obbligo di gara). Il che dimostrerebbe la consapevolezza dell’Azienda di dover aggirare l’ostacolo della trasparenza con un trucco formale.
Come del resto, in almeno un’occasione, è stato documentato. Quando nell’aprile del 2014 gli ispettori del ministero dell’Economia scoprono che Atac svolge annualmente oltre 2.000 procedure al di sotto dei 40mila euro. E altre, sopra soglia, sempre con affidamento diretto. Tra queste, una valanga di consulenze, affidate soprattutto dal settore legale. Una procedura di cui beneficiano anche le più note società di consulenza: Kpmg ottiene due affidamenti diretti, uno da 132mila e l’altro da 121mila euro; Bain & Company ne prende almeno tre (due da 99mila e uno da 115mila euro); nel 2013 Banca Finnat ne ottiene addirittura uno da 710mila euro. Gli studi di avvocati non sono da meno. Tra il 2011 e il 2013 lo studio Leone supporta l’ufficio acquisti in modo sistematico: 151 consulenze in tre anni, dai 3 ai 40mila euro. Una prassi che negli ultimi due anni è stata dismessa.
IL GASOLIO SCALDATO
Tra i bandi più costosi c’è la fornitura di carburante per i mezzi. Un appalto da svariate decine di milioni di euro che solo poco tempo fa è stato riassegnato. Prima dell’ultima razionalizzazione, una commissione interna di Atac scoprì che prima dei rifornimenti il gasolio veniva scaldato. Serviva a far aumentare il volume del combustibile e permetteva al fornitore di addebitare all’azienda una quantità di gasolio maggiore di quella effettivamente rifornita.
LA STAMPA DEI BIGLIETTI
Né va meglio anche quando le gare vengono indette. È del 2012 il bando per la stampa dei biglietti. La commessa vale 8,9 milioni. La scoperta stupefacente, al momento della lettura del capitolato, è l’inserimento di una condizione ineludibile per l’aggiudicazione: l’azienda che stamperà i biglietti deve avere il suo stabilimento nella regione Lazio. E alla gara, di società “laziali”, ne partecipa una sola, che naturalmente vince. Sarà un ricorso al Tar dei concorrenti francesi che annullerà l’assegnazione.
LE PULIZIE D’ORO
Per non parlare dei servizi di pulizia di autobus e metropolitane per il periodo 2011-2014. Una commessa da 95 milioni. L’associazione di imprese che si aggiudica l’appalto vince con un ribasso minimo del 3% rispetto alla base d’asta. Peccato avesse vinto una gara identica per un’azienda del gruppo FS con un ribasso del 17%. Ma Atac è come il marchese del Grillo. Non chiede sconti. O paga o non paga.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Lo scandalo
L’Atac di Roma è al centro delle indagini di Rafafele Cantone.
S’indaga su cinque anni di affidamenti di appalti senza gareCosì ti trucco il bus i costi senza regole nel bestiario Atac
Affidamenti diretti , consulenze per milioni E forniture frazionate per aggirare i vincoli
di Daniele Autieri e Carlo Bonini
ROMA Come è stato possibile che Atac, la municipalizzata per la mobilità di Roma, abbia affidato senza gara il 90 per cento dei 2 miliardi e 200 milioni di appalti chiusi tra il 2011 e il 2015? L’inchiesta dell’Autorità Nazionale Anticorruzione – che per altro si prepara a trasmettere i documenti e i dati raccolti alla Corte dei Conti e alla Procura, dove sta per essere chiusa l’indagine per peculato a carico di sette ex manager dell’Azienda, tra cui l’ex ad Gioacchino Gabbuti accusato di aver trasferito contanti a San Marino – precipita quel che resta della dirigenza dell’Azienda nel panico e costringe i suoi uffici a provare a mettere insieme una prima risposta pubblica. Che così viene argomentata in un lungo comunicato: «Il 23 settembre scorso, Atac ha chiaramente riferito all’azionista (il Comune di Roma e la Giunta Marino ndr.) i fatti salienti della gestione 2013-2015, informando che l’azienda effettua ogni anno circa 2.500 procedure di gara, oltre il 95% delle quali online, attraverso il ricorso alla piattaforma acquisti, con conseguente completa tracciabilità dei processi in ogni fase. Tale piattaforma assicura un alto livello di trasparenza ed economicità, allargando la platea dei fornitori e quindi incoraggiando la concorrenza». E ancora: «Tra luglio 2013 e agosto 2015 sono state pubblicate 5.327 gare per un valore pari a euro 536.042.000, con aggiudicazione ad un ribasso medio di circa il 26 %. Inoltre emerge che il dato medio degli affidamenti diretti è minore dell’1%. Nello specifico delle forniture nell’anno 2014, le procedure con evidenza pubblica (aperta) ammontano a oltre il 90%».
Detto altrimenti, l’Anac avrebbe preso un colossale granchio, il Comune (leggi l’ex assessore ai trasporti Stefano Esposito) non può fingere di essere stato ingannato e dell’Azienda non c’è che da essere fieri. Peccato che una verifica con fonti qualificate di Anac documenti l’opposto. «I dati relativi al 90% di affidamenti diretti – spiega uno dei funzionari al lavoro sul dossier – sono né più e né meno che le informazioni che la stessa Atac ha inserito nella nostra banca dati. È Atac che ha indicato quali appalti sono stati chiusi con affidamento diretto e quali con gara. E il dato è che il 90% sono stati con procedura negoziata». E quel «95 per cento di “gare online”» allora? «La procedura telematica – prosegue la fonte - è uno strumento che non definisce l’iter. Atac definisce “gare” quelli che sono in realtà affidamenti diretti».
IL GIOCO DELLO SPEZZETTAMENTO
C’è di più. E per certi versi di peggio. Dai tabulati estrapolati da Anac che documentano il dettaglio di ciascun appalto affidato da Atac con procedura negoziata emerge il frequente “frazionamento” delle forniture o dei servizi sotto la soglia dei 40mila euro (oltre la quale scatta l’obbligo di gara). Il che dimostrerebbe la consapevolezza dell’Azienda di dover aggirare l’ostacolo della trasparenza con un trucco formale.
Come del resto, in almeno un’occasione, è stato documentato. Quando nell’aprile del 2014 gli ispettori del ministero dell’Economia scoprono che Atac svolge annualmente oltre 2.000 procedure al di sotto dei 40mila euro. E altre, sopra soglia, sempre con affidamento diretto. Tra queste, una valanga di consulenze, affidate soprattutto dal settore legale. Una procedura di cui beneficiano anche le più note società di consulenza: Kpmg ottiene due affidamenti diretti, uno da 132mila e l’altro da 121mila euro; Bain & Company ne prende almeno tre (due da 99mila e uno da 115mila euro); nel 2013 Banca Finnat ne ottiene addirittura uno da 710mila euro. Gli studi di avvocati non sono da meno. Tra il 2011 e il 2013 lo studio Leone supporta l’ufficio acquisti in modo sistematico: 151 consulenze in tre anni, dai 3 ai 40mila euro. Una prassi che negli ultimi due anni è stata dismessa.
IL GASOLIO SCALDATO
Tra i bandi più costosi c’è la fornitura di carburante per i mezzi. Un appalto da svariate decine di milioni di euro che solo poco tempo fa è stato riassegnato. Prima dell’ultima razionalizzazione, una commissione interna di Atac scoprì che prima dei rifornimenti il gasolio veniva scaldato. Serviva a far aumentare il volume del combustibile e permetteva al fornitore di addebitare all’azienda una quantità di gasolio maggiore di quella effettivamente rifornita.
LA STAMPA DEI BIGLIETTI
Né va meglio anche quando le gare vengono indette. È del 2012 il bando per la stampa dei biglietti. La commessa vale 8,9 milioni. La scoperta stupefacente, al momento della lettura del capitolato, è l’inserimento di una condizione ineludibile per l’aggiudicazione: l’azienda che stamperà i biglietti deve avere il suo stabilimento nella regione Lazio. E alla gara, di società “laziali”, ne partecipa una sola, che naturalmente vince. Sarà un ricorso al Tar dei concorrenti francesi che annullerà l’assegnazione.
LE PULIZIE D’ORO
Per non parlare dei servizi di pulizia di autobus e metropolitane per il periodo 2011-2014. Una commessa da 95 milioni. L’associazione di imprese che si aggiudica l’appalto vince con un ribasso minimo del 3% rispetto alla base d’asta. Peccato avesse vinto una gara identica per un’azienda del gruppo FS con un ribasso del 17%. Ma Atac è come il marchese del Grillo. Non chiede sconti. O paga o non paga.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Corriere 17.10.15
Dai bagni alle fotocopiatrici Tutte le spese folli dell’Atac
In 13 mila pagine i contratti contestati: così sono lievitati i prezzi
di Fiorenza Sarzanini
ROMA «Servizio di vigilanza armata, portierato e ronda presso tutti i siti dal 16 febbraio 2015 al 30 settembre 2015 per 15 milioni e 460 mila euro: procedura negoziata senza previa pubblicazione».
«Fornitura ricambi autobus per 58 mila e 873 euro nel 2013: procedura negoziata senza previa pubblicazione».
«Potenziamento alimentazione elettrica depositi di Garbatella e Osteria del Curato per 208 mila euro nel 2013».
«Servizio relativo alla gestione degli asili nido aziendali nei siti Magliana, Tor Sapienza e Prenestina per un periodo di tre anni dal 2015 al 2018 per un milione e 872mila euro: procedura negoziata senza previa pubblicazione».
Eccolo il dossier dell’Anticorruzione sull’Atac, l’azienda dei trasporti di Roma, sugli appalti affidati negli ultimi cinque anni per oltre due miliardi di euro. Migliaia di contratti per servizi di fornitura e manutenzione che nella maggior parte dei casi sono stati siglati con trattativa privata e dunque violando il codice che regola i lavori pubblici. In tutto sono oltre 13 mila pagine che il presidente Raffaele Cantone sta analizzando e trasmetterà poi alla Procura e alla Corte dei Conti. Perché è vero che l’azienda ha trenta giorni per presentare le proprie controdeduzioni, ma le prime verifiche hanno già dimostrato come la scelta di procedere senza pubblicazione dei bandi di gara abbia fatto alzare in maniera vertiginosa i prezzi. Provocando un danno economico a una società con il bilancio già disastrato.
I frazionamenti per stare «sottosoglia»
È stato l’assessore Stefano Esposito a chiedere la verifica per il periodo compreso tra il 2011 e il 2015 «parliamo di cifre pazzesche, gli affidamenti a Buzzi e Carminati sono briciole a confronto e qualcuno si dovrà porre il problema del perché sono dovuto arrivare io per porre questo tema». E i sospetti dell’autorità Anticorruzione sono pesantissimi. Uno su tutti: per restare sotto la soglia potrebbero essere stati frazionati alcuni appalti. E in effetti a scorrere l’elenco dei lavori, soprattutto quelli affidati tra il 2011 e il 2012, ci sono alcune cifre che appaiono addirittura troppo basse rispetto alla media. E proprio questo ha alimentato il dubbio che si fosse deciso di dividere gli importi proprio per aggirare i controlli.
Si va dai 10 mila e 900 euro per la «sistemazione dei pali sulla linea Roma-Viterbo» ai 3 mila e 900 per la «fornitura del materiale informatico», ma anche ai 120 mila euro per la «fornitura di traverse e legnami per scambi in azobè». E poi ci sono gli oltre 10 mila euro per la «fornitura di acqua potabile nei siti aziendali» oppure le parcelle per prestazioni legali che oscillano tra i mille e i 41 mila euro. Sempre rigorosamente affidati con procedura negoziata.
Bagni, auto elettriche e fotocopie
Gli affidamenti che appaiono più interessanti per verificare la regolarità delle procedure avvengono nel 2015. Per oltre 162 mila euro si è deciso di attivare il «servizio di locazione con facoltà di acquisto di cinque veicoli elettrici per il progetto «Christmas Shopping». Ben 1 milione e 182 mila euro sono stati invece spesi per il «servizio di noleggio operativo full service di 460 macchine fotocopiatrici digitali multifunzionali a colori e in bianco e nero collegato alla rete aziendale di Atac in configurazione base con opzioni per la durata di 50 mesi». A conti fatti ogni macchina costa all’azienda 2 mila 570 euro. Per un milioni e 600 mila euro è stata invece aperta la procedura per «l’affidamento triennale dei servizi e lavori per la gestione, conduzione e manutenzione programmata di 91 servizi igienici automatizzati installati presso le stazioni della metropolitana» mentre le «toilette automatizzate» costano quasi 206 mila euro. E poi ci sono svariati appalti concessi per il «noleggio dei veicoli senza conducente», addirittura 4 mila euro spesi per effettuare «test e analisi sui tessuti per la gara per il rinnovo delle divise».
La vigilanza armata e il portierato
Capitolo a parte riguarda i servizi di «vigilanza armata, portierato e ronda presso tutti i siti Atac».
A scorrere il dossier confezionato dallo staff di Cantone si scopre infatti che nel 2015 sono stati aperti diversi lotti, tutti con procedura negoziata per importi che vanno dai 67 milioni di euro ai 15 milioni di euro, ma poi si è deciso di affidare ulteriori incarichi della stessa natura e dunque dovranno essere i vertici aziendali a spiegare il criterio seguito nell’affidamento delle commesse.
Ieri con una nota Atac ha dichiarato che «con le gare on line ci sono stati ribassi del 26 per cento e affidamenti diretti sotto l’1 per cento del totale». Magistrati e Anticorruzione verificheranno se sia vero.
Dai bagni alle fotocopiatrici Tutte le spese folli dell’Atac
In 13 mila pagine i contratti contestati: così sono lievitati i prezzi
di Fiorenza Sarzanini
ROMA «Servizio di vigilanza armata, portierato e ronda presso tutti i siti dal 16 febbraio 2015 al 30 settembre 2015 per 15 milioni e 460 mila euro: procedura negoziata senza previa pubblicazione».
«Fornitura ricambi autobus per 58 mila e 873 euro nel 2013: procedura negoziata senza previa pubblicazione».
«Potenziamento alimentazione elettrica depositi di Garbatella e Osteria del Curato per 208 mila euro nel 2013».
«Servizio relativo alla gestione degli asili nido aziendali nei siti Magliana, Tor Sapienza e Prenestina per un periodo di tre anni dal 2015 al 2018 per un milione e 872mila euro: procedura negoziata senza previa pubblicazione».
Eccolo il dossier dell’Anticorruzione sull’Atac, l’azienda dei trasporti di Roma, sugli appalti affidati negli ultimi cinque anni per oltre due miliardi di euro. Migliaia di contratti per servizi di fornitura e manutenzione che nella maggior parte dei casi sono stati siglati con trattativa privata e dunque violando il codice che regola i lavori pubblici. In tutto sono oltre 13 mila pagine che il presidente Raffaele Cantone sta analizzando e trasmetterà poi alla Procura e alla Corte dei Conti. Perché è vero che l’azienda ha trenta giorni per presentare le proprie controdeduzioni, ma le prime verifiche hanno già dimostrato come la scelta di procedere senza pubblicazione dei bandi di gara abbia fatto alzare in maniera vertiginosa i prezzi. Provocando un danno economico a una società con il bilancio già disastrato.
I frazionamenti per stare «sottosoglia»
È stato l’assessore Stefano Esposito a chiedere la verifica per il periodo compreso tra il 2011 e il 2015 «parliamo di cifre pazzesche, gli affidamenti a Buzzi e Carminati sono briciole a confronto e qualcuno si dovrà porre il problema del perché sono dovuto arrivare io per porre questo tema». E i sospetti dell’autorità Anticorruzione sono pesantissimi. Uno su tutti: per restare sotto la soglia potrebbero essere stati frazionati alcuni appalti. E in effetti a scorrere l’elenco dei lavori, soprattutto quelli affidati tra il 2011 e il 2012, ci sono alcune cifre che appaiono addirittura troppo basse rispetto alla media. E proprio questo ha alimentato il dubbio che si fosse deciso di dividere gli importi proprio per aggirare i controlli.
Si va dai 10 mila e 900 euro per la «sistemazione dei pali sulla linea Roma-Viterbo» ai 3 mila e 900 per la «fornitura del materiale informatico», ma anche ai 120 mila euro per la «fornitura di traverse e legnami per scambi in azobè». E poi ci sono gli oltre 10 mila euro per la «fornitura di acqua potabile nei siti aziendali» oppure le parcelle per prestazioni legali che oscillano tra i mille e i 41 mila euro. Sempre rigorosamente affidati con procedura negoziata.
Bagni, auto elettriche e fotocopie
Gli affidamenti che appaiono più interessanti per verificare la regolarità delle procedure avvengono nel 2015. Per oltre 162 mila euro si è deciso di attivare il «servizio di locazione con facoltà di acquisto di cinque veicoli elettrici per il progetto «Christmas Shopping». Ben 1 milione e 182 mila euro sono stati invece spesi per il «servizio di noleggio operativo full service di 460 macchine fotocopiatrici digitali multifunzionali a colori e in bianco e nero collegato alla rete aziendale di Atac in configurazione base con opzioni per la durata di 50 mesi». A conti fatti ogni macchina costa all’azienda 2 mila 570 euro. Per un milioni e 600 mila euro è stata invece aperta la procedura per «l’affidamento triennale dei servizi e lavori per la gestione, conduzione e manutenzione programmata di 91 servizi igienici automatizzati installati presso le stazioni della metropolitana» mentre le «toilette automatizzate» costano quasi 206 mila euro. E poi ci sono svariati appalti concessi per il «noleggio dei veicoli senza conducente», addirittura 4 mila euro spesi per effettuare «test e analisi sui tessuti per la gara per il rinnovo delle divise».
La vigilanza armata e il portierato
Capitolo a parte riguarda i servizi di «vigilanza armata, portierato e ronda presso tutti i siti Atac».
A scorrere il dossier confezionato dallo staff di Cantone si scopre infatti che nel 2015 sono stati aperti diversi lotti, tutti con procedura negoziata per importi che vanno dai 67 milioni di euro ai 15 milioni di euro, ma poi si è deciso di affidare ulteriori incarichi della stessa natura e dunque dovranno essere i vertici aziendali a spiegare il criterio seguito nell’affidamento delle commesse.
Ieri con una nota Atac ha dichiarato che «con le gare on line ci sono stati ribassi del 26 per cento e affidamenti diretti sotto l’1 per cento del totale». Magistrati e Anticorruzione verificheranno se sia vero.
La Stampa 17.10.15
Compromesso sul nuovo Senato
A gennaio il voto alla Camera, nell’autunno 2016 referendum
Il Pd voleva accelerare, lite e poi intesa con le opposizioni
di Carlo Bertini
Ci son voluti due round sul ring della capigruppo di Montecitorio per sfornare il compromesso, ma alla fine c’è una data entro cui la riforma costituzionale sarà votata dalla Camera, anzi due: il 4 dicembre finiranno i voti in aula sugli emendamenti (che avranno inizio il 20 novembre) e poi l’11 gennaio il voto finale. Ciò significa che dopo gli altri due passaggi definitivi a Palazzo Madama e a Montecitorio, (che se tutto va bene si concluderanno a metà aprile), il referendum con cui i cittadini potranno dire sì o no all’abolizione del Senato si terrà nell’autunno 2016: senza quindi poter essere accorpato con l’Election Day delle comunali di maggio. Obiettivo questo che ormai pare accantonato, perché i tecnici del governo hanno valutato che sarebbe assai arduo riuscire a rispettare la tempistica prevista dalla legge sulle consultazioni popolari. Ma la voglia del Pd di anticipare a novembre il voto alla Camera per accelerare ha fatto nascere il sospetto nelle opposizioni: in ogni caso la Boschi ha indicato l’autunno come sbocco più probabile per il referendum.
Scenari e congresso Pd
Ora che la riforma clou della legislatura va in discesa verso l’approdo, in Transatlantico già si tracciano scenari futuri, assai prematuri, perfino oltre la consultazione popolare sulla riforma del Senato dell’autunno 2016: nei timori dei peones del Pd il referendum potrebbe essere usato come trampolino di lancio di una lunga campagna elettorale per andare alle politiche nel giugno 2017. Magari anticipando pure le primarie nazionali per il congresso del partito - previsto in autunno - alla primavera 2017. Suggestioni che aleggiano nel Pd malgrado il premier continui a ripetere che la legislatura proseguirà fino al 2018: ma che non sono fuori dell’orizzonte dei quadri alti e intermedi. «Sì, ne ho sentito parlare, ma vedremo», ammette in un Transatlantico deserto il segretario regionale del Pd siciliano, Fausto Raciti. Renzi però fissa ben altro orizzonte: «l’Italia è arrivata all’ultimo miglio di questa fase di transizione delle riforme e ora inizia il bello, pensare all’Italia dei prossimi 20 anni».
La corrida a Montecitorio
In ogni caso, a parte le tribolazioni del Pd e quelle di Ncd, lo scenario più realistico e immediato prevede per la riforma costituzionale un’altra corrida a Montecitorio con le opposizioni, analoga a quella vissuta dal Senato. E c’è voluta una mediazione della Boldrini per convincere tutti i contendenti a convergere su una data certa per il varo.
La paura dei vertici Pd era la Lega e un’altra valanga di emendamenti, ma il Carroccio si è impegnato, così come Forza Italia e Sel, a chiudere l’11 gennaio. Dunque tranne che con i 5Stelle - «dispiace che si tirino sempre fuori», dice la Boschi, «il loro obiettivo è rinviare sine die» - con gli altri si è raggiunto un accordo sul metodo: che al Pd va bene perché alla Camera il regolamento non consente né “canguri” per saltare emendamenti, né “tagliole” varie, quindi bisognerà vedersela con i grillini: che però al Senato non hanno inondato l’aula di richieste di modifica. E quanto all’obbligo di tenere il referendum in autunno e non insieme alle comunali, nel Pd si valutano i pro e i contro: pur ammettendo che l’Election Day fa risparmiare e porta sempre più gente a votare, costituire i comitati per il sì al referendum contro quelli del no promossi da Sel, con cui in molti Comuni si andrà a braccetto, potrebbe creare non pochi problemi nei territori.
Compromesso sul nuovo Senato
A gennaio il voto alla Camera, nell’autunno 2016 referendum
Il Pd voleva accelerare, lite e poi intesa con le opposizioni
di Carlo Bertini
Ci son voluti due round sul ring della capigruppo di Montecitorio per sfornare il compromesso, ma alla fine c’è una data entro cui la riforma costituzionale sarà votata dalla Camera, anzi due: il 4 dicembre finiranno i voti in aula sugli emendamenti (che avranno inizio il 20 novembre) e poi l’11 gennaio il voto finale. Ciò significa che dopo gli altri due passaggi definitivi a Palazzo Madama e a Montecitorio, (che se tutto va bene si concluderanno a metà aprile), il referendum con cui i cittadini potranno dire sì o no all’abolizione del Senato si terrà nell’autunno 2016: senza quindi poter essere accorpato con l’Election Day delle comunali di maggio. Obiettivo questo che ormai pare accantonato, perché i tecnici del governo hanno valutato che sarebbe assai arduo riuscire a rispettare la tempistica prevista dalla legge sulle consultazioni popolari. Ma la voglia del Pd di anticipare a novembre il voto alla Camera per accelerare ha fatto nascere il sospetto nelle opposizioni: in ogni caso la Boschi ha indicato l’autunno come sbocco più probabile per il referendum.
Scenari e congresso Pd
Ora che la riforma clou della legislatura va in discesa verso l’approdo, in Transatlantico già si tracciano scenari futuri, assai prematuri, perfino oltre la consultazione popolare sulla riforma del Senato dell’autunno 2016: nei timori dei peones del Pd il referendum potrebbe essere usato come trampolino di lancio di una lunga campagna elettorale per andare alle politiche nel giugno 2017. Magari anticipando pure le primarie nazionali per il congresso del partito - previsto in autunno - alla primavera 2017. Suggestioni che aleggiano nel Pd malgrado il premier continui a ripetere che la legislatura proseguirà fino al 2018: ma che non sono fuori dell’orizzonte dei quadri alti e intermedi. «Sì, ne ho sentito parlare, ma vedremo», ammette in un Transatlantico deserto il segretario regionale del Pd siciliano, Fausto Raciti. Renzi però fissa ben altro orizzonte: «l’Italia è arrivata all’ultimo miglio di questa fase di transizione delle riforme e ora inizia il bello, pensare all’Italia dei prossimi 20 anni».
La corrida a Montecitorio
In ogni caso, a parte le tribolazioni del Pd e quelle di Ncd, lo scenario più realistico e immediato prevede per la riforma costituzionale un’altra corrida a Montecitorio con le opposizioni, analoga a quella vissuta dal Senato. E c’è voluta una mediazione della Boldrini per convincere tutti i contendenti a convergere su una data certa per il varo.
La paura dei vertici Pd era la Lega e un’altra valanga di emendamenti, ma il Carroccio si è impegnato, così come Forza Italia e Sel, a chiudere l’11 gennaio. Dunque tranne che con i 5Stelle - «dispiace che si tirino sempre fuori», dice la Boschi, «il loro obiettivo è rinviare sine die» - con gli altri si è raggiunto un accordo sul metodo: che al Pd va bene perché alla Camera il regolamento non consente né “canguri” per saltare emendamenti, né “tagliole” varie, quindi bisognerà vedersela con i grillini: che però al Senato non hanno inondato l’aula di richieste di modifica. E quanto all’obbligo di tenere il referendum in autunno e non insieme alle comunali, nel Pd si valutano i pro e i contro: pur ammettendo che l’Election Day fa risparmiare e porta sempre più gente a votare, costituire i comitati per il sì al referendum contro quelli del no promossi da Sel, con cui in molti Comuni si andrà a braccetto, potrebbe creare non pochi problemi nei territori.
La Stampa 17.10.15
Manovra di destra o di sinistra?
In realtà guarda alle amministrative
di Marcello Sorgi
All’indomani della pirotecnica presentazione della legge di stabilità da parte di Renzi, una curiosa disputa s’è aperta nella politica italiana: la manovra di quest’anno è di destra o di sinistra? Berlusconi, tornato in scena, è arrivato a dire che Renzi, sul taglio delle tasse sulla casa, lo ha copiato, mentre la minoranza Pd, appena uscita dalla battaglia sulla riforma del Senato, già affila le armi per l’esame parlamentare delle tabelle del testo della manovra.
Che il premier, oltre a cercare di consolidare la ripresa economica in atto, abbia progettato l’impianto delle misure di fine anno con l’occhio alle prossime elezioni amministrative di primavera, è fuor di dubbio, e in qualche modo è normale. E che, a parte il taglio dell’Imu sulla prima casa, che si rivolge indistintamente alla stragrande maggioranza degli italiani (82 per cento) proprietari di casa, ed ha pertanto sollevato riserve degli oppositori interni del Pd, gli altri interventi occhieggino al cosiddetto ceto medio moderato che potrebbe abbandonare il centrodestra, è altrettanto certo. Vedi l’innalzamento dell’uso di contante da mille a tremila euro, vedi l’estensione delle agevolazioni per il lavoro anche alla piccola imprenditoria e al popolo della partita Iva. Vedi anche la soddisfazione di Alfano e di Ncd, che dicono che sono stati realizzati punti qualificanti del loro programma.
Ma che questo possa bastare, a Renzi, ad affrontare a cuore più leggero l’appuntamento delle amministrative, sarà da vedere. Il grosso della partita infatti si gioca nelle grandi città. E il novanta per cento del risultato dipenderà da Milano e da Roma. Ma mentre per il capoluogo lombardo comincia a delinearsi una strategia che, sommata ai buoni risultati della giunta Pisapia, e con l’ipotesi di candidare il responsabile dell’Expo Sala, potrebbe funzionare, sulla Capitale manca ancora un progetto in grado di portare il Pd fuori dalle secche in cui è finito con il caso Marino. Di candidature ancora non si parla e l’ex-numero due di Veltroni Goffredo Bettini, padre, ma non unico, della scelta del sindaco oggi dimissionario, s’è fatto vivo con una lettera al Foglio in cui ricorda che alla scelta di Marino il Pd nel 2013 arrivò un po’ per convinzione è un po’ per disperazione, dato che nei cinque anni di Alemanno il partito non era stato in grado di riprendersi dalla sconfitta del 2008 e si era ridotto a un vassallaggio consociativo dell’amministrazione di centrodestra. Da cui, come adesso si sa, originò lo scandalo di Mafia capitale, il cui processo sta per cominciare e accompagnerà buona parte della campagna elettorale romana.
Manovra di destra o di sinistra?
In realtà guarda alle amministrative
di Marcello Sorgi
All’indomani della pirotecnica presentazione della legge di stabilità da parte di Renzi, una curiosa disputa s’è aperta nella politica italiana: la manovra di quest’anno è di destra o di sinistra? Berlusconi, tornato in scena, è arrivato a dire che Renzi, sul taglio delle tasse sulla casa, lo ha copiato, mentre la minoranza Pd, appena uscita dalla battaglia sulla riforma del Senato, già affila le armi per l’esame parlamentare delle tabelle del testo della manovra.
Che il premier, oltre a cercare di consolidare la ripresa economica in atto, abbia progettato l’impianto delle misure di fine anno con l’occhio alle prossime elezioni amministrative di primavera, è fuor di dubbio, e in qualche modo è normale. E che, a parte il taglio dell’Imu sulla prima casa, che si rivolge indistintamente alla stragrande maggioranza degli italiani (82 per cento) proprietari di casa, ed ha pertanto sollevato riserve degli oppositori interni del Pd, gli altri interventi occhieggino al cosiddetto ceto medio moderato che potrebbe abbandonare il centrodestra, è altrettanto certo. Vedi l’innalzamento dell’uso di contante da mille a tremila euro, vedi l’estensione delle agevolazioni per il lavoro anche alla piccola imprenditoria e al popolo della partita Iva. Vedi anche la soddisfazione di Alfano e di Ncd, che dicono che sono stati realizzati punti qualificanti del loro programma.
Ma che questo possa bastare, a Renzi, ad affrontare a cuore più leggero l’appuntamento delle amministrative, sarà da vedere. Il grosso della partita infatti si gioca nelle grandi città. E il novanta per cento del risultato dipenderà da Milano e da Roma. Ma mentre per il capoluogo lombardo comincia a delinearsi una strategia che, sommata ai buoni risultati della giunta Pisapia, e con l’ipotesi di candidare il responsabile dell’Expo Sala, potrebbe funzionare, sulla Capitale manca ancora un progetto in grado di portare il Pd fuori dalle secche in cui è finito con il caso Marino. Di candidature ancora non si parla e l’ex-numero due di Veltroni Goffredo Bettini, padre, ma non unico, della scelta del sindaco oggi dimissionario, s’è fatto vivo con una lettera al Foglio in cui ricorda che alla scelta di Marino il Pd nel 2013 arrivò un po’ per convinzione è un po’ per disperazione, dato che nei cinque anni di Alemanno il partito non era stato in grado di riprendersi dalla sconfitta del 2008 e si era ridotto a un vassallaggio consociativo dell’amministrazione di centrodestra. Da cui, come adesso si sa, originò lo scandalo di Mafia capitale, il cui processo sta per cominciare e accompagnerà buona parte della campagna elettorale romana.
Corriere 17.10.15
La strategia del premier pigliatutto
di Pierluigi Battista
Matteo Renzi che scatena la guerra preventiva contro l’euroburocrazia di Bruxelles, che sbandiera l’orgoglio nazionale rivendicando una manovra che abbassa le tasse in conto deficit e non con uno spietato taglio delle spese come vorrebbe l’Europa, si intesta una battaglia che piace molto all’elettorato leghista eurofobico. È l’ultima fetta di quello che un tempo fu il centrodestra italiano che il presidente del Consiglio potrebbe inglobare e fare sua. Renzi pigliatutto piglia soprattutto alla sua destra. Berlusconi dice che è un «copione». Ma è una reazione speculare alle lamentazioni di chi, nella sinistra residuale, lamenta che Renzi sia un clone della destra. Renzi piglia infatti alla sua destra dove non c’è più resistenza, trincea, argine politico e culturale. Anche l’euroscetticismo diventa suo. Un tempo la sinistra era eurodogmatica e la destra aveva campo libero nell’area degli euromalpancismi. Ora lo schema si è rovesciato. L’ennesimo. Renzi pigliatutto tende a scardinare il bipolarismo che ha contrassegnato l’intera stagione della Seconda Repubblica. Resta l’antagonismo del Movimento 5 Stelle che, dato frettolosamente in via di estinzione dopo le elezioni europee del 2014, ha dimostrato una forza attrattiva ancora molto attiva. La battaglia «antipolitica» miete ancora consensi e la presenza del «nuovo» Renzi non ne ha disinnescato la potenza magnetica.
Certi scivoloni come la fulminea approvazione in Senato delle norme che mettono nella cassaforte dei partiti una somma cospicua di finanziamento pubblico (che si proclamava addirittura «abolito» nelle dichiarazioni renziane) esasperano l’elettorato 5 Stelle e annullano l’effetto simbolico di quel poco di risparmi legato alla riforma del Senato. La triste vicenda di Roma, inoltre, apre al movimento di Grillo insperati orizzonti nell’evidente difficoltà del Pd. Ma se si eccettua l’anomalia grillina, tutto il resto del sistema politico sembra oscurato da una presenza renziana che incorpora i temi degli avversari, li assimila in un nuovo linguaggio, spunta le ali nemiche, devitalizza la vis polemica di chi potrebbe farle ombra.
L’euroscetticismo leghista viene declinato in senso renziano e anche la campagna di Salvini sull’immigrazione appare un po’ sbiadita dopo che l’emergenza si è spostata da Lampedusa alle frontiere europee del Nordest: come si potrà dire che sia colpa dell’imbelle governo italiano l’invasione degli immigrati? Con l’abolizione della Tasi e dell’Imu, il vessillo per eccellenza della destra berlusconiana, la detassazione della prima casa come bene di tutti gli italiani che la possiedono e che sono la stragrande maggioranza, viene afferrato da quello che Berlusconi chiama il «copione».
Come potrebbe ora il centrodestra opporsi alla misura-simbolo di un’intera fase politica? Come faranno i vari Renato Brunetta a contestare una misura che è tipicamente del centrodestra? Del resto, persino i super-polemici giornali della destra sono sembrati molto meno aggressivi del previsto con la legge di Stabilità di Renzi.
Il Nuovo centrodestra di Alfano appare oramai compiutamente fagocitato, non più solo satellizzato, nell’orbita renziana. Rimane al Ncd la bandiera dell’opposizione sulle unioni civili delle coppie dello stesso sesso, ma Renzi gestisce con abilità la tempistica, prima accelerando, poi frenando, tenendo in apprensione gli alleati di governo, ma ritardando strategicamente il momento in cui dovranno cedere anche su quest’ultima trincea. In Parlamento, poi, lo stillicidio di tradimenti nelle file di Forza Italia tentate dalla sirena di Renzi non sembra aver fine. Non è ben chiaro se questo inglobamento pigliatutto sia esattamente lo schema di un ipotetico «Partito della nazione» che dovrebbe superare il Pd. Certo, la disfatta durissima della sinistra interna ed esterna al Pd sulla riforma del Senato lascia campo libero a Renzi. Che oramai sembra che dovrà vedersela con un Movimento 5 Stelle vigoroso ma con un centrodestra che, se non correrà con urgenza ai ripari, rischia la marginalità politica e anche un clamoroso autogol a Milano e a Roma mentre i vertici si dilaniano sulle candidature.Un nuovo e inedito bipolarismo che il bulimico Renzi pigliatutto sta costruendo ogni giorno. Accelerando.
La strategia del premier pigliatutto
di Pierluigi Battista
Matteo Renzi che scatena la guerra preventiva contro l’euroburocrazia di Bruxelles, che sbandiera l’orgoglio nazionale rivendicando una manovra che abbassa le tasse in conto deficit e non con uno spietato taglio delle spese come vorrebbe l’Europa, si intesta una battaglia che piace molto all’elettorato leghista eurofobico. È l’ultima fetta di quello che un tempo fu il centrodestra italiano che il presidente del Consiglio potrebbe inglobare e fare sua. Renzi pigliatutto piglia soprattutto alla sua destra. Berlusconi dice che è un «copione». Ma è una reazione speculare alle lamentazioni di chi, nella sinistra residuale, lamenta che Renzi sia un clone della destra. Renzi piglia infatti alla sua destra dove non c’è più resistenza, trincea, argine politico e culturale. Anche l’euroscetticismo diventa suo. Un tempo la sinistra era eurodogmatica e la destra aveva campo libero nell’area degli euromalpancismi. Ora lo schema si è rovesciato. L’ennesimo. Renzi pigliatutto tende a scardinare il bipolarismo che ha contrassegnato l’intera stagione della Seconda Repubblica. Resta l’antagonismo del Movimento 5 Stelle che, dato frettolosamente in via di estinzione dopo le elezioni europee del 2014, ha dimostrato una forza attrattiva ancora molto attiva. La battaglia «antipolitica» miete ancora consensi e la presenza del «nuovo» Renzi non ne ha disinnescato la potenza magnetica.
Certi scivoloni come la fulminea approvazione in Senato delle norme che mettono nella cassaforte dei partiti una somma cospicua di finanziamento pubblico (che si proclamava addirittura «abolito» nelle dichiarazioni renziane) esasperano l’elettorato 5 Stelle e annullano l’effetto simbolico di quel poco di risparmi legato alla riforma del Senato. La triste vicenda di Roma, inoltre, apre al movimento di Grillo insperati orizzonti nell’evidente difficoltà del Pd. Ma se si eccettua l’anomalia grillina, tutto il resto del sistema politico sembra oscurato da una presenza renziana che incorpora i temi degli avversari, li assimila in un nuovo linguaggio, spunta le ali nemiche, devitalizza la vis polemica di chi potrebbe farle ombra.
L’euroscetticismo leghista viene declinato in senso renziano e anche la campagna di Salvini sull’immigrazione appare un po’ sbiadita dopo che l’emergenza si è spostata da Lampedusa alle frontiere europee del Nordest: come si potrà dire che sia colpa dell’imbelle governo italiano l’invasione degli immigrati? Con l’abolizione della Tasi e dell’Imu, il vessillo per eccellenza della destra berlusconiana, la detassazione della prima casa come bene di tutti gli italiani che la possiedono e che sono la stragrande maggioranza, viene afferrato da quello che Berlusconi chiama il «copione».
Come potrebbe ora il centrodestra opporsi alla misura-simbolo di un’intera fase politica? Come faranno i vari Renato Brunetta a contestare una misura che è tipicamente del centrodestra? Del resto, persino i super-polemici giornali della destra sono sembrati molto meno aggressivi del previsto con la legge di Stabilità di Renzi.
Il Nuovo centrodestra di Alfano appare oramai compiutamente fagocitato, non più solo satellizzato, nell’orbita renziana. Rimane al Ncd la bandiera dell’opposizione sulle unioni civili delle coppie dello stesso sesso, ma Renzi gestisce con abilità la tempistica, prima accelerando, poi frenando, tenendo in apprensione gli alleati di governo, ma ritardando strategicamente il momento in cui dovranno cedere anche su quest’ultima trincea. In Parlamento, poi, lo stillicidio di tradimenti nelle file di Forza Italia tentate dalla sirena di Renzi non sembra aver fine. Non è ben chiaro se questo inglobamento pigliatutto sia esattamente lo schema di un ipotetico «Partito della nazione» che dovrebbe superare il Pd. Certo, la disfatta durissima della sinistra interna ed esterna al Pd sulla riforma del Senato lascia campo libero a Renzi. Che oramai sembra che dovrà vedersela con un Movimento 5 Stelle vigoroso ma con un centrodestra che, se non correrà con urgenza ai ripari, rischia la marginalità politica e anche un clamoroso autogol a Milano e a Roma mentre i vertici si dilaniano sulle candidature.Un nuovo e inedito bipolarismo che il bulimico Renzi pigliatutto sta costruendo ogni giorno. Accelerando.