LIBERATE LA COMPAGNA IANA!
il Fatto 27.12.14
Femen a San Pietro, Vaticano: “Fatto grave, procederemo con rigore”
Cronaca
Durante il messaggio Urbi et Orbi di Papa Francesco nel giorno di Natale, Iana Aleksandrovna Azhdanova a seno nudo ha tentato di rubare il bambino Gesù deposto nel presepe, e ha gridato slogan contro la Chiesa. Dovrà rispondere di "vilipendio, atti osceni in luogo pubblico e furto"
di Francesco Antonio Grana
qui
Corriere 27.12.14
La prima donna reclusa in una cella vaticana
di M. Antonietta Calabrò
Per la prima volta nella storia una donna è detenuta in una cella della Città del Vaticano, arrestata su ordine del Comandante della Gendarmeria, Domenico Giani, per vilipendio, atti osceni in luogo pubblico e furto. È l’ucraina Iana Aleksandrovna Azhdanova delle Femen che a Natale, a seno nudo e con la scritta sul corpo «God is woman», ha preso la statua del Bambinello dal Presepe di piazza San Pietro. «Fatto particolarmente grave per il luogo e le circostanze» ha commentato il portavoce padre Lombardi. Il Papa ieri nell’Angelus ha invitato a pregare per i cristiani perseguitati, e ha detto che le persecuzioni spogliano il Natale «da un falso rivestimento dolciastro».
E così la sopravvivenza di migliaia di esseri umani che dovrebbe essere garantita dallo Stato resta tutta nelle mani delle belve del Vaticano!
il Fatto 27.12.14
Natale di pietra
Con la scusa di Mafia Capitale lasciano i senzatetto al gelo
di Antonio Padellaro
Chi giunge alla stazione Termini di Roma non può non vederli: una lunga fila di giacigli abbandonati sotto i portici dello scalo ferroviario simbolo della Capitale dove, ricoperti di poveri stracci, altrettanti esseri umani affrontano le notti sempre più gelide, sperando di risvegliarsi all’indomani. E come loro, sono circa ottomila sparsi in tutta la città, gli uomini e le donne che hanno perso tutto e che sanno di poter perdere l’ultima cosa che gli resta, se la temperatura dovesse scendere ancora. Ebbene, di fronte a una tragedia permanente, il Comune dice di poter mettere a disposizione poche centinaia di posti negli appositi ricoveri. Di letti al riparo ce ne sarebbero molti di più ma, questa l’incredibile risposta burocratica, appartengono a cooperative e associazioni comprese nella “lista nera” dell’indagine su Mafia Capitale e sono quindi inutilizzabili. È come se un’ambulanza non potesse soccorrere la vittima di un incidente stradale agonizzante sull’asfalto solo perché il conducente non ha la fedina penale pulita. Il sindaco Marino che, come da comunicato, il giorno di Natale distribuiva a Sant’Egidio pasti caldi ai poveri dovrebbe altrettanto lodevolmente trasformare l’atto caritatevole di un giorno nell’emergenza di tutto il tempo necessario, facendo il possibile e l’impossibile per salvare la vita a coloro che i Buzzi e i Carminati trattavano, appunto, come appalti da spolpare. Del resto, a Milano, di clochard al gelo se ne contano addirittura 14 mila, ma chi se ne occupa? Sono, come del resto i naufraghi della Sicilia, i fastidiosi scampoli di un’umanità frantumata dalla crisi economica, dalle guerre e dalla disperazione che nel Natale degli auguri sdolcinati e dal cuore di pietra preferiamo ignorare.
il Fatto 27.12.14
Il numero verde
Il Comune al telefono “Non abbiamo nulla”
Rimane Sant’Egidio
di Si. D’O.
“Pronto, buongiorno. Sono una persona che abita in roulotte. Un mio amico ha vissuto finora nella residenza di Castelverde, ma lo stanno cacciando per l’inchiesta di mafia che ha travolto Roma. Mi sa dire dove può andare? ”. “Per adesso da nessuna parte, signora, i posti a disposizione li abbiamo già finiti, non possiamo piazzare nessun altro”. Roma Capitale, 26 dicembre 2014, numero verde del Campidoglio per l’emergenza freddo. Un’operatrice risponde così a una donna – senza fissa dimora fino a qualche anno fa, quando ha recuperato una roulotte di fortuna e da allora si sposta spesso per non essere cacciata dai vigili urbani – che chiama per avere informazioni sull’emergenza freddo. “Quando, poi, ho chiesto se il mio amico poteva far riferimento alla Comunità di Sant’Egidio o a qualche altra associazione – spiega la signora al Fatto Quotidiano – mi sono sentita rispondere: ‘Faccia lei, io non le posso dire nulla. Non mi posso assumere questa responsabilità. Arrivederci’. Siccome sono preoccupata seriamente per questo mio amico, che tra l’altro soffre di problemi cardiaci, sono anche passata a vedere nello spiazzo che la Protezione civile gestisce di solito sulla Laurentina, ma di container non ce n’è neanche l’ombra. Se, come ci avevano detto, avessero dovuto aprirli dopodomani (domani, ndr), avrebbero già dovuto portarli. Invece ci stanno ancora i rom. Non credo che facciano tutto in 48 ore”.
INUTILE tentare di avere qualche informazione in più chiamando direttamente lo stesso numero verde del Campidoglio: gli operatori non sono autorizzati a dare notizie ai giornalisti, “ci è stata data questa indicazione” rispondono. L’unico riferimento è quello presente sul sito del Comune di Roma, che annuncia – con due date diverse di pubblicazione, 23 e 19 dicembre – come da sabato 20 dicembre sia entrata in funzione la sala operativa. Il numero verde, appunto.
il Fatto 27.12.14
Roma, clochard al freddo
“Senza Buzzi solo 260 posti”
Almeno 8000 persone a rischio
di Silvia D’Onghia
Ottomila persone per 260 posti. Non è un macabro gioco delle sedie quello che si sta consumando in questi giorni a Roma, è l’allucinante conseguenza che si è venuta a creare dopo lo scoppio dell’inchiesta su “Mafia Capitale”. E a pagarne le spese, ancora una volta, sono gli ultimi: i senza fissa dimora, le persone che vivono per strada perché non hanno una casa, un lavoro, una famiglia, un pasto caldo. Ottomila, appunto, secondo l’ultimo censimento dell’Istat datato 2011, forse anche qualcuno in più, considerando la morsa della crisi economica degli ultimi anni. Ottomila senza tetto per 260 posti, quelli che il Campidoglio è riuscito a mettere insieme in fretta e furia.
L’ASSESSORA ai Servizi sociali, Francesca Danese, si è insediata da pochi giorni, da quando la sua predecessora, Rita Cutini, ha deciso di lasciare l’incarico. Della galassia del “mondo di mezzo” di Buzzi e Carminati facevano parte una serie di associazioni che si occupavano anche dell’emergenza freddo: case di accoglienza, strutture ricettive affittate al Comune per accogliere i senza fissa dimora. Con l’inchiesta e il commissariamento della cooperativa 29 Giugno si è fermato tutto. “Ho subito guardato gli enti che erano nella ‘lista nera’ – spiega al Fatto l’assessora Danese –, poi ho trovato altri posti gestiti da associazioni ‘pulite’. Da tre o quattro giorni siamo riusciti a liberare circa 300 posti, altri ne sbloccheremo nelle prossime ore. È la mia priorità, perché sta arrivando un’ondata di freddo”. “I posti garantiti ai senza casa sono complessivamente 260 – recita a conferma uno sterile comunicato sul sito del Comune –. Di questi 24 sono aperti nell’intera giornata per dare assistenza alle persone più in difficoltà, 167 restano aperti per 15 ore e altri 119 sono aperti per 4 ore, per garantire a chi ne ha bisogno i servizi igienici, le docce e la possibilità di un tè caldo e di una colazione”. Seicento avrebbero dovuto essere i posti messi a disposizione da dicembre a marzo per il piano di accoglienza invernale, 1.200 quelli presso i centri convenzionati.
E allora chi si occupa davvero di queste persone – di molte, ma ancora non di tutte – sono gli istituti religiosi e le associazioni di volontariato. I posti disponibili sono circa 1.600. La Comunità di Sant’Egidio, che insieme alla Caritas rappresenta un punto di riferimento per chi non ha nulla, ha stimato che sono 2.500 coloro che non riescono a trovare riparo per la notte, e che quindi rischiano la vita se la temperatura scende al di sotto dello zero. Altre duemila vivono in alloggi di fortuna, baracche costruite con cartoni e vecchi materassi ai bordi della strada o nel tunnel per le auto a due passi dalla stazione Termini. È a loro che i 37 gruppi che svolgono un servizio di strada (in tutta Roma 2.200 volontari) portano la sera un pasto e qualche parola di conforto. Perché, contrariamente a quanto si dice, vivere per strada non è mai una scelta. E durante l’inverno, e in particolare nei giorni di festa, rimanere soli è ancora più duro.
Per questo il giorno di Natale, tutti gli anni, la basilica di Santa Maria in Trastevere si trasforma in un enorme ristorante: l’altro giorno il menù contemplava lasagne al ragù, polpettone, lenticchie, dolci e anche lo spumante. Al centro della chiesa, tra i 500 homeless seduti a tavola, c’era anche il piccolo Egidio, che ha pochi mesi ed è arrivato a Lampedusa quando era ancora nella pancia della sua mamma. È nato dunque in Italia ma non è un italiano, e se non ci fosse la Comunità da cui ha preso il nome probabilmente adesso sarebbe per strada.
SANT’EGIDIO ha aperto anche quest’anno, per il periodo invernale, uno spazio di accoglienza all’interno di Palazzo Leopardi, che va ad aggiungersi ad altre strutture già attive tutto l’anno a Trastevere. Il centro, che dispone di 12 posti letto, accoglie coloro che vivono abitualmente per strada nel quartiere. L’attività della Comunità si è estesa negli ultimi anni alle periferie e ha toccato Comuni limitrofi come Nettuno, Civitavecchia, Anzio e Fiumicino. Perché il problema della fame non conosce nazionalità.
Cosimo, uno degli ospiti del pranzo di Natale, è un operaio di 58 anni, che viene dal sud ma che, dopo aver perso il lavoro, sognava la Norvegia. Alla sua famiglia ha lasciato la sua pensione, e lui si è avventurato per le strade della Capitale. Se non conosci nessuno e non hai un posto dove andare, ti salva solo la mensa di via Dandolo, a Trastevere, dove vengono serviti ogni settimana 3.500 pasti.
il Fatto 27.12.14
In Sicilia
Mare grosso e sbarchi salvati 1300 migranti L’incubo della strage
Quattro barconi recuperati dalla Marina Militare
Un bimbo nasce a bordo ma cinque muoiono in viaggio
di Giuseppe Pipitone
Palermo È nato il giorno di Natale, in mare, dopo un’odissea cominciata 48 ore prima sulle coste della Libia. C’è anche una storia a lieto fine nell’ultima ondata di sbarchi che ha travolto la Sicilia tra la vigilia di Natale e il giorno di Santo Stefano. Una storia che ha un nome: Testimony Salvatore. Si chiama così il neonato dato alla luce da Kate, una ragazza nigeriana di 28 anni, partita il 23 dicembre dalle coste della Libia a bordo di un gommone, e tratta in salvo dalla Marina militare insieme ad altre 1.300 persone a bordo do di quattro imbarcazioni nel Canale di Sicilia.
La giovane nigeriana arriva dall’Algeria, dove ha lasciato il marito e due figli di dieci e sei anni: quando la motonave Etna l’ha recuperata aveva in braccio la figlia più piccola, Destiny, di appena 15 mesi. “Ci ha subito detto che era incinta al nono mese”, spiega la ginecologa Maita Sartori, a bordo dell’imbarcazione. “Quando abbiamo capito che aveva le contrazioni – continua la dottoressa – abbiamo avvertito il comandante e l’equipaggio che si sono messi a disposizione. La signora è stata bravissima e ha condotto lei tutto, noi l’abbiamo solo assistita e monitorato il travaglio comunicando in inglese”. “Ho avuto paura ma tutto per fortuna è andato bene” sono le uniche parole della donna, che è di religione cristiana, ed ha chiesto all’equipaggio di battezzare direttamente sulla nave il bambino appena partorito. Il battesimo è stato officiato dal sacerdote di bordo, don Paolo, mentre il ruolo del padrino è toccato al comandante Fabio Farina, davanti all’intero equipaggio. A scegliere il nome del bambino è stata la stessa Kate, accompagnata nella traversata dalla sorella e da un'amica. Un parto comunicato in diretta, con tanto di foto del bambino appena nato condivisa dal profilo twitter della Marina Militare, che ha seguito ogni fase delle operazioni di salvataggio.
TRA IL 23 E IL 26 DICEMBRE, infatti, sono ripresi a pieno ritmo gli sbarchi sulle coste siciliane di migranti provenienti dal Nord Africa: diversi barconi partiti dalla Libia sono stati localizzati nel canale di Sicilia dalle vedette della Guardia costiera e quindi recuperati dalle navi della Marina Borsini, Driade ed Etna, coadiuvate dai mercantili Cougar e St. Jerneborg. Dopo i recuperi, 865 migranti sono approdati nel porto di Messina, mentre 364 sono sbarcati a Pozzallo, in provincia di Ragusa. E se a bordo dell’Etna il Natale è stato festeggiato con la nascita del piccolo Testimony, è stato un giorno drammatico sul pattugliatore Oriene che tra le 440 persone recuperate ha imbarcato anche cinque cadaveri, deceduti durante le traversata: sono in corso le indagini della polizia di Stato per individuare le cause della morte, ma in almeno un caso pare che si tratti di asfissia dovuta ai fumi emessi dai motori delle imbarcazioni. Sempre sulla motonave Etna è stato individuato un caso di possibile malaria o Tbc: l’uomo è stato messo in isolamento e trasferito a Messina con l’elicottero dell'imbarcazione. E mentre ieri pomeriggio 1300 migranti approdavano a Pozzallo e Messina, un’imbarcazione con 91 persone veniva recuperata al largo di Lampedusa dalla motonave Borsini, intenta in attività di “ricerca e soccorso”.
È il cosiddetto “Sar” previsto da Triton, la nuova missione dell’Unione europea che da quest’anno ha sostituito Mare Nostrum, messa in campo dopo l’arrivo di un barcone con oltre 300 morti a Lampedusa nell'ottobre del 2013.
“Altri mille clandestini sbarcati in Sicilia. Mare Nostrum continua più di prima, confermando che abbiamo dei bugiardi al governo” ha attaccato il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. In realtà le due missioni sono molto diverse: Mare Nostrum costava 9 milioni e mezzo di euro l’anno, Tritum meno di tre milioni per tutto il 2014, finanziati dall’Unione europea.
La differenza fondamentale è però legata all’obbiettivo delle due missioni: Mare Nostrum doveva “garantire la salvaguardia della vita in mare” e “assicurare alla giustizia tutti coloro i quali lucrano sul traffico illegale di migranti”; Triton invece ha come scopo solo “il controllo della frontiera” e non la “ ricerca e il soccorso”.
Una differenza bacchettata dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) e da associazioni come Medici senza frontiere, Amnesty International e Caritas, dato che, non essendo più previsto il pattugliamento delle coste libiche, è logico pensare che le partenze dei barconi aumenteranno e i viaggi saranno ancora più rischiosi. Soprattutto ora che le condizioni meteorologiche peggioreranno e il recupero delle imbarcazioni nel Canale di Sicilia sarà ancora più difficile.
Lo spettro di una nuova strage di Lampedusa, insomma, è tutt’altro che cancellato.
Repubblica 27.12.14
Il processo
Corte dei Conti, Renzi a giudizio respinta la richiesta di stop
FIRENZE Andrà avanti il processo contabile a carico di Matteo Renzi, a giudizio davanti alla Corte dei Conti insieme ad altre sette persone per un presunto danno erariale legato al conferimento di incarichi di direttore generale realizzato quando era presidente della Provincia di Firenze, tra il 2006 e il 2009. Sul caso la sezione giurisdizionale della Toscana ha emesso una «sentenza non definitiva con contestuale ordinanza». Alberto Bianchi, avvocato del premier, aveva chiesto di non accettare l’atto di citazione con cui nel marzo scorso la Corte, nonostante la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura, aveva disposto il giudizio contabile. Invece secondo i giudici anche Renzi deve presentarsi all’udienza fissata per il 15 luglio 2015.
Il Sole 27.12.14
Intervista a Giuseppe Pignatone, Procuratore a Roma
«Mafia Capitale non ha incontrato barriere nel “Mondo di sopra”»
«Dopo l’azione repressiva, tocca alle forze della società civile»
di Lionello Mancini
«Procuratore, cosa pensa di aver scoperto, di Roma, che già non si sapesse? La corruzione? Gli affari e il malaffare? La criminalità che spezza i pollici ai debitori?». Giuseppe Pignatone, 65 anni, il magistrato che il 2 dicembre ha ordinato la retata di mafia Capitale, è uomo riservato e profondamente siciliano, perciò spiazzante per cultura e consuetudine: un suo cipiglio severo può introdurre un mot d’esprit, un sorriso ironico precedere una verità pungente. «Cosa abbiamo scoperto? Magari niente di tanto nuovo e di così misterioso – sorride – infatti al mio arrivo diversi tasselli di questa inchiesta esistevano già, sparsi in fascicoli vari. Molti altri abbiamo potuto acquisirli grazie all’eccezionale professionalità dei colleghi della Procura e dei Carabinieri del Ros. Che ringrazio sinceramente, come anche Polizia e Guardia di finanza. Dunque le indagini su Carminati sono iniziate prima del mio arrivo (Pignatone si è insediato nel marzo 2012, dopo aver a lungo guidato la Dda di Palermo e retto dal 2008 la Procura di Reggio Calabria) ma grazie a un nuovo impulso e a un più efficace coordinamento, è venuta l’ora di tirare le prime conclusioni».
«Abbiamo ritenuto di poter contestare reati di associazione di tipo mafioso, corruzione e turbativa d’asta. Il Gip ha adottato questo impianto e, nella sostanza, abbiamo avuto la conferma del Tribunale del Riesame. Possiamo dire che ora esiste un punto fermo dal quale procedere: nella Capitale opera da tempo un’associazione a delinquere di stampo mafioso, che muove leve e si insinua in interessi consistenti, con contatti con la politica e la pubblica amministrazione».
«Non sarà molto – sorride di nuovo – ma direi che c’è abbondante materiale su cui riflettere e, per la Procura, ulteriori elementi da sviluppare. Lo stiamo già facendo. L’indagine continua».
Procuratore, qualcuno ha sostenuto che il suo ufficio abbia esagerato accostando alla Capitale il termine mafia.
L’Italia è un Paese libero, ogni opinione è legittima. Ho colto, specie i primi giorni, qualche scetticismo sulla reale pericolosità del cosiddetto ‘mondo di mezzo’, ho anche letto qualcosa a proposito di schemi penali adatti a certe aree del Paese, ma non a comprendere la realtà romana. Per noi contano solo le decisioni dei giudici, ma forse è bene dissipare qualche equivoco. Nessuno ha paragonato la pericolosità dell’associazione guidata da Carminati, peraltro oggi al 41 bis, a quella di Cosa nostra o della ‘ndrangheta. Però, per il nostro Codice l’associazione di tipo mafioso non è solo quella con centinaia di affiliati, che controlla militarmente il territorio e ricorre in ogni occasione all’esplosivo o alla lupara. L’elemento decisivo è il metodo mafioso, la forza di intimidazione del vincolo associativo, il sapere che un soggetto è pronto a usare la violenza e che ciò condizioni la volontà, determini le scelte di chi entra in contatto con lui. È quanto riteniamo stesse avvenendo a Roma, da anni. Tanto per essere ancora più chiari, il nostro lavoro di magistrati non potrà che deludere le aspettative di due opposti estremismi: quelli che, pregiudizialmente, coltivano un approccio “mitizzante”, per cui le mafie dominerebbero su Roma e quelli, invece, altrettanto pregiudizialmente impegnati a sostenere un modello “riduzionista”, per ridimensionare o addirittura banalizzare quanto fin qui emerso.
Altri lamentano il danno di immagine per la città icona del Paese.
Comprendo e condivido l’amarezza, ma sono convinto che conoscere la realtà in cui viviamo, inclusa quella criminale, sia sempre un fatto positivo. E comunque ripeto da tempo che, sotto il profilo criminale, non è la mafia la prima emergenza di Roma, una metropoli peraltro così estesa che nessuna mafia sarebbe in grado di controllare da sola; che esistono poi legami tra bande autoctone e le cosche siciliane, calabresi, il sistema campano ecc.; che a Roma la mafia non spara, fa affari e investe. Ma da cittadino, sarei altrettanto allarmato dal fatto che corruzione, criminalità economica ed evasione fiscale sono a livelli di guardia: solo pochi giorni fa abbiamo scoperto un gigantesco riciclaggio che in due anni ha trasferito in Cina oltre un miliardo di euro, completamente nascosti al Fisco. Certo, se poi questi fenomeni si intrecciano con quello mafioso, il pericolo aumenta in modo esponenziale. Questi profili di analisi, offerti da me e da altri colleghi in diversi confronti pubblici, acquistano infine un peso ben diverso dal momento in cui sono contenuti nei provvedimenti dei giudici.
A proposito di confronti pubblici: perché ha accettato di parlare al convegno del Pd romano, solo tre giorni prima di metterne sotto accusa un pezzo? Conosceva già molto bene le carte...
Ho accettato l’invito che un partito protagonista della vita cittadina aveva rivolto al Procuratore di Roma. Il tema – la criminalità nella Capitale – l’ho trattato altre volte su invito di sindacati, Università, associazioni private, perché penso sia naturale interloquire con le realtà in cui si opera. Il punto non è se partecipare, ma ciò che si va a dire. Anche al seminario del 29 novembre ho ripetuto l’analisi appena ricordata e i concetti di sempre: la Procura indaga a 360 gradi, senza alcun pregiudizio, ma l’azione della magistratura ha limiti precisi, posti dalla legge. Esiste una vasta area di comportamenti che non costituiscono reato e di cui la magistratura non si deve occupare, ma che non per questo sono legittimi, rispettano i criteri di buona gestione o sono eticamente apprezzabili. Si tratta di comportamenti che dovrebbero essere sanzionati prima e fuori dal tribunale. Chi amministra sa benissimo a cosa mi riferisco.
Per completare la gamma di critiche e perplessità: l’avvocatura penale ha pubblicamente parlato di forzature mediatiche da parte della Procura.
Non entro nel merito della polemica. Mi limito a osservare che, al di là dell’utilizzo fatto dai media, nessun nostro documento è diventato pubblico se non dopo essere stato messo a disposizione delle parti, cioè una volta venuto meno il segreto investigativo.
Lei conosce la brutalità di Cosa nostra e ‘ndrangheta. La mafia Capitale ha potuto contare più su occhi chiusi o sulla paura che incuteva?
Come dicevo poco fa, il ricorso a metodi violenti era sempre possibile e di ciò gli interlocutori erano pienamente consapevoli. Ma il vero collante è costituito – come sempre, peraltro – dalla convenienza reciproca: la possibilità di entrare nei luoghi decisionali della pubblica amministrazione e il denaro. Denaro in grande quantità, la possibilità di averne sempre di più, di mantenere i rubinetti sempre aperti. Infatti il gruppo non si accontenta della Capitale, dimostra interessi che toccano anche altre regioni.
Ci sono differenze significative tra quanto emerge dalla vostra inchiesta e il modello di radicamento della ‘ndrangheta in alcune aree del nord Italia?
È presto per parlarne, anche se una prima differenza pare evidente: i meccanismi di insediamento scoperti dai colleghi del Nord, dalla Dda di Milano in particolare, narrano una immigrazione che si radica in Lombardia e riproduce le strutture associative proprie della ‘ndrangheta calabrese, i cosiddetti “locali”, fortemente legati ai luoghi di origine, ma in grado di instaurare le relazioni tipiche dei contesti altamente sviluppati, cioè crescenti rapporti con la borghesia locale, una enorme disponibilità di denaro e anche prestiti usurari, attentati incendiari, intimidazioni. Infatti chi, per ingordigia o necessità, ha pensato di mettersi in affari con le cosche, spesso ha finito per subire minacce e cedere ad azioni tipicamente mafiose. ‘Mafia Capitale', invece, non è una ramificazione delle mafie tradizionali e non sembra aver incontrato particolari barriere allo scambio con il “mondo di sopra”, ben dotato di denaro (non suo, peraltro, ma pubblico, cioè nostro) e, in alcuni suoi esponenti, disponibile a spalancare le porte al “mondo di sotto” per moltiplicare i profitti. Ma ripeto: l’analisi è complessa e in questa prima fase appartiene soprattutto all’accusa. Aspettiamo le conferme nel processo.
In cosa il “mondo di mezzo” è diverso – se lo è – dalla contiguità espressa dall’“area grigia” che affianca le mafie storiche?
Trent’anni di processi dicono che l’area grigia serve le mafie prestando nomi puliti, fedine immacolate, saperi professionali, gestione finanziaria di capitali e beni illeciti. Il mafioso traffica in droga, il professionista che ne mette in sicurezza il bottino riceve in cambio ricchezza e potere; l’imprenditore pensa di risolvere i propri problemi cedendo la sua rete di relazioni e così via. Nella Capitale, le premesse sembrano identiche: vedremo quali ulteriori elementi di conoscenza ci offriranno le indagini e le decisioni dei giudici. Intanto possiamo dire che sembra accentuata un’interazione – direi paritaria – tra ambiti profondamente diversi, che però realizzano una sofisticata convergenza di fini. E con un ruolo di primo piano di esponenti dell’amministrazione cittadina che si sono adoperati per deviare fondi pubblici a favore dell’associazione mafiosa, da questa ripagati in denaro per l’accesso al network politico-burocratico di cui erano al centro. Parrebbe, la loro, un’adesione inedita e volontaria, con la piena consapevolezza – almeno per alcuni - del ruolo centrale di Carminati e dei suoi accoliti. Nella nostra inchiesta tutto si mescola: il mafioso parla da manager e da burocrate, il funzionario si presta a operazioni corruttive di impatto economico a volte minimo a volte significativo, pronto a ripeterle qualunque sia la postazione che la politica sceglie per lui; l’imprenditore accetta o addirittura cerca la protezione del mafioso, mentre delicati incarichi amministrativi di nomina politica vengono affidati a persone indicate da Carminati. Altra caratteristica, è l’assoluta trasversalità dei rapporti con il mondo politico e della corruzione che ne consegue.
Denaro pubblico usato per scambiare entrature, influenze, favori. Sembrerebbe eliminata, o quanto meno molto ridotta, la fase tipica dell’accumulazione illecita da narcotraffico o estorsione.
Sembrerebbe di sì, ma ricordo che le nostre indagini sono durate appena due anni. Sta di fatto che, un simile fenomeno criminale determina ricchezze significative, come dimostrano i sequestri eseguiti finora (oltre 300 milioni), mentre l’aggiudicazione di appalti milionari alle società di Buzzi e Carminati è stata bloccata in extremis dagli arresti. La sottrazione di risorse rilevanti aumenta la capacità corruttiva della delinquenza e intanto riduce la qualità di vita della comunità, specie a danno dei più deboli: servizi ridotti ai minimi termini, costi esorbitanti, esclusione sociale. Una precisa raffigurazione di quanto ha denunciato a giugno papa Francesco: “La corruzione viene pagata dai poveri. Pagano gli ospedali senza medicine, gli ammalati che non hanno cura, i bambini senza educazione …”.
Procuratore, non le pare che l’analisi stia scivolando nel campo della politica? La magistratura dovrebbe svolgere compiti diversi.
Quale sia il nostro compito è chiaro: noi facciamo indagini, accertiamo dei fatti, processiamo i responsabili togliendo a chi delinque una certa idea di impunità, oggi purtroppo assai diffusa. Ed è quanto stiamo cercando di fare, spesso con norme, risorse e strutture inadeguate. Qui si aprirebbe un capitolo diverso, anche se pertinente, poiché ci si chiedono – giustamente – risultati sempre più sofisticati e in tempi accettabili, mentre si aggrava a vista d’occhio la carenza di risorse, specie di personale amministrativo e di sistemi informatici. Ma torniamo all’indagine. Un effetto indotto dall’azione repressiva dovrebbe essere quello di creare spazi di libertà (politica, economica, imprenditoriale) e nuove opportunità di iniziativa per le forze della società civile che vogliano impegnarsi, ma che trovano l’ostacolo della criminalità. Come del resto è accaduto qualche anno fa in Sicilia.
Cioè, voi arate il campo, ma qualcuno deve difendere il solco. E pure seminarlo, altrimenti la ripulitura del terreno è vanificata.
Al di là di citazioni non so quanto appropriate, più o meno è così. È chiaro che fenomeni di questo tipo non possono essere debellati solo con gli strumenti del processo penale. C’è in primo luogo un problema di etica, di valori e della loro percezione sociale. Allora cadono le braccia a terra pensando alle vicende milanesi e veneziane con il ritorno sulla scena, dopo vent’anni, di uomini e imprese già condannati durante la stagione di Tangentopoli. In altri termini: le buone regole sono importanti, ma in ultima analisi sono sempre le persone, non soltanto le regole, a fare la differenza. Come ha detto il presidente Napolitano “la legalità frana se non c’è la moralità”. Fatta questa premessa, è certo che vadano cambiate anche alcune regole.
Dunque il rilancio dell’Autorità anticorruzione, le sue prescrizioni e il suo impiego sui fronti più delicati, vanno nella direzione giusta.
Senza dubbio. E con il presidente Cantone è già iniziata, nel rispetto delle reciproche competenze, una positiva collaborazione. Così come sono positive l’introduzione del reato di autoriciclaggio e la previsione dell’archiviazione per lieve entità del fatto che, speriamo, attenui l’attuale ingolfamento degli uffici giudiziari con una miriade di questioni bagatellari.
Proprio a seguito della sua inchiesta, il Governo ha annunciato un intervento legislativo in tema di corruzione. E due ministri “pesanti” – alla Giustizia e dell’Interno – si sono espressi per un sistema premiale.
Siamo ancora in una fase preliminare, aspettiamo un testo definitivo. Ciò non toglie che sia di fondamentale importanza introdurre un meccanismo che contrapponga corrotto e corruttore, favorendo la collaborazione spontanea di chi paga ai danni di chi si fa corrompere.
Ed è altrettanto auspicabile, secondo la sua esperienza, l’inasprimento delle pene per il reato di corruzione, pure annunciato dal Governo?
Sul punto, come pure per altre situazioni che in un certo momento destano particolare allarme sociale (penso ai reati ambientali o al cosiddetto omicidio stradale), mi limiterei a richiamare l’attenzione sulla necessità della coerenza per non creare attese, destinate magari ad andare deluse. Provo a spiegarmi: è in fase avanzatissima di discussione un disegno di legge che limita il ricorso alle misure cautelari. Così, mentre da un lato si intende procedere per ridurre i casi di carcerazione preventiva, dall’altro si dichiara la volontà di innalzare le pene anche allo scopo di ottenere il risultato opposto. Ovviamente il Parlamento è sovrano e certamente terrà conto anche di questa esigenza di coerenza delle norme.
il Fatto 27.12.14
Articolo 18 e Jobs Act
Meno diritti per tutti
La Cgil: “È un via libera alle imprese, potranno cacciare singoli o gruppi”
LE NUOVE misure danno "il via libera alle imprese a licenziare in maniera discrezionale lavoratori singoli e gruppi di lavoratori”. Così la Cgil sul Jobs act (Susanna Ca-musso, il 24 aveva twittato un ironico “Buon Natale” accompagnato dalla foto di un gufo). "Più che di rivoluzione copernicana, siamo a una delega in bianco alle imprese a cui viene appaltata la crescita”. E aggiunge: “Queste misure ledono diritti collettivi ed individuali”. “Il governo oltretutto, con la Legge di Stabilità, ha elargito alle imprese un contributo di 8.060 euro per ciascun lavoratore assunto con il nuovo contratto, senza alcun vincolo che garantisca la stabilità delle assunzioni”, afferma ancora il sindacato di Corso d’Italia. “L'impresa prenderà comunque l’incentivo anche se a fine anno licenzierà quel lavoratore”. Nel dettaglio, per la Cgil, “punti discutibili riguardano l'opzione di conciliazione che viene posta al lavoratore in alternativa al ricorso giudiziario e per la quale si dimezza il massimo dell’indennità percepibile in relazione all’anno di anzianità specificando che è sottratta alla tassazione Irpef e previdenziale ma comunque la metà di quanto previsto in via ordinaria e certificabile”. Soprattutto, secondo il sindacato per i licenziamenti cosiddetti disciplinari si utilizza “una formulazione che sostanzialmente rende possibile licenziare per motivi disciplinari anche se il licenziamento per motivi soggettivi prevedeva una sanzione inferiore o anche se il fatto imputabile al lavoratore non è giuridicamente rilevante”. Il segretario della Uil, Carmelo Barbagallo, chiede alla Cgil “iniziative comuni”. Diversa l’analisi della Cisl per la quale "il testo è ancora migliorabile, in particolare per quanto riguarda le norme sui licenziamenti collettivi".
Repubblica 27.12.14
L’ira della Camusso: "Siamo pronti a nuovi scioperi e a ricorrere all'Europa"
"Questo contratto a tutele crescenti è un grande bluff. Si tratta solo di una monetizzazione crescente. La questione è come riappropriarsi del governo dell’economia. Il governo ha scelto di delegare le imprese"
di Roberto Mania
qui
Repubblica 27.12.14
Sinistra Pd e sindacati all'attacco su licenziamenti collettivi
Cgil: imprese libere di licenziare in maniera discrezionale lavoratori singoli e gruppi
qui
Corriere 27.12.14
Jobs Act, il colloquio col senatore
Ichino: «I licenziamenti? Le nuove regole valide anche per gli statali»
«Madia? Qualche volta anche i ministri sbagliano, concorso non significa inamovibilità». E su Poletti: «Mosse incoerenti»
intervista di Lorenzo Salvia
qui
La Stampa 27.12.14
Carmelo Barbagallo, Segretario della Uil
“Quello che Berlusconi non era riuscito a fare lo ha fatto il premier Pd”
intervista di Roberto Giovannini
«Ogni anno più di un milione di persone cambia posto di lavoro. Nel giro di pochi anni l’articolo 18 non si applicherà più a nessuno. Quello che non è riuscito a Berlusconi l’ha fatto il governo Renzi».
Segretario Carmelo Barbagallo (Uil), ma il nuovo contratto non creerà occupazione?
«Ha solo monetizzato i licenziamenti. Se vuole vedere come si fa a creare lavoro, vada a fare uno stage negli Usa».
E le correzioni dell’ultimo minuto?
«Non so se è merito nostro o perché hanno capito che sarebbero stati incostituzionali. Va bene non aver dato alle imprese il diritto di monetizzare anche l’eventuale reintegro da licenziamenti disciplinari, e il caso dello “scarso rendimento”. È pericolosa invece la scelta di equiparare i licenziamenti individuali a quelli collettivi».
Per quale ragione?
«Perché così un’azienda in crisi, invece di discutere, può licenziare i dipendenti monetizzando. Comunque, per finanziare la decontribuzione delle nuove assunzioni hanno tolto 3,5 miliardi che erano riservati allo sviluppo del Mezzogiorno. In pratica, con i soldi per lo sviluppo si paga la monetizzazione dei licenziamenti individuali e collettivi. Se qualcuno mi spiega come questo può migliorare la situazione del mercato del lavoro... ho l’impressione che i giovani a cui pensava il presidente del Consiglio quando diceva che voleva dar loro “tutele crescenti” erano sono i giovani imprenditori».
Sui giornali c’è chi dice che le nuove regole sui licenziamenti vanno estese a tutti.
«Ancora? Il premier Renzi aveva detto che non voleva togliere le tutele a chi ce l’aveva, ma darne di nuove ai giovani. Una promessa bugiarda: si toglie gradualmente a tutti l’articolo 18, e ai giovani non si da nulla. A meno che la “tutela crescente” sia considerata ricevere un paio di mesi in più sul bonus con cui vieni licenziato».
Ormai i decreti ormai sono fatti. La vostra protesta a che serve?
«Primo, ancora ci sono le commissioni parlamentari che possono intervenire. Secondo, spero sempre che il governo si renda conto di aver fatto solo un favore alle imprese. Terzo, con le imprese noi dovremo discutere i contratti: alcune cose che il governo ci ha tolto cercheremo di recuperarle nel rapporto contrattuale. E ci batteremo per contrastare i tentativi di questo governo di togliere le conquiste di sessant’anni di attività sindacale e di lotte e dei lavoratori. Se fosse veramente per il bene del paese, per creare lavoro, me ne farei una ragione pure io. Ma la verità è che occupazione per decreto non se ne fa».
Repubblica 27.12.14
I piccoli lavoratori
Secondo i dati Inail nel 2013 63.828 minori di 14 anni hanno subito un infortunio
Una cifra pari al 9.19% del totale degli incidenti di quell’anno
di Chiara Saraceno
È APPREZZABILE che nella legge di Stabilità vi siano misure di sostegno al reddito, a complemento di quelle destinate a chi perde il lavoro. Mentre, tuttavia, per quanto riguarda queste ultime il Jobs Act delinea un opportuno processo di generalizzazione in prospettiva universalistica, con una prestazione — l’Aspi — uguale a chi si trova in condizioni simili, le misure di sostegno a redditi modesti e a chi si trova in povertà continuano a seguire la logica della frammentazione più o meno casuale e categoriale. Anche per questo, lasciano fuori una parte rilevante di poveri, inclusi minori poveri.
La prima misura è la conferma degli ottanta euro mensili di detrazione fiscale destinati ai lavoratori dipendenti a basso reddito (individuale). Viene confermata la tripla esclusione dei lavoratori autonomi a basso reddito e dei lavoratori dipendenti con reddito così basso da essere incapienti, quindi da non poter fruire di nessuna detrazione, e dei pensionati, sempre a basso reddito.
La seconda misura è una novità: il cosiddetto bonus bebé, 80 euro mensili per tre anni per ogni nuovo figlio che entri, per nascita o per adozione, in una famiglia a basso reddito Isee (25mila euro annui). Nel caso di famiglie in povertà assoluta (fino a 7mila euro annui) l’importo è raddoppiato. Argomentata come incentivo alla natalità, questa misura è più propriamente un sostegno temporaneo al costo di un nuovo figlio per chi ha redditi molto bassi. Ma i bisogni dei figli minorenni nelle famiglie povere — più di un milione e quattrocentomila in povertà assoluta — continuano a rimanere fuori dall’agenda, a meno, appunto, che non nascano, o vengano adottati, nel 2015 e solo per tre anni, oppure se hanno almeno altri due fratelli/sorelle tutti minorenni. In quest’ultimo caso, i loro genitori potrebbero fruire dell’assegno per il terzo figlio. Gli ottanta euro per i nuovi nati, infatti, si aggiungono all’assegno per i terzo figlio destinato alle famiglie a basso reddito con almeno tre figli tutti minori e all’assegno al nucleo famigliare desti- nato alle famiglie di lavoratori dipendenti a basso reddito. Si tratta, quindi, di tre istituti diversamente categoriali, scoordinati persino nei tetti di reddito, che in un modo o nell’altro lasciano appunto fuori gran parte dei bambini e ragazzi in situazione di povertà e i loro genitori.
Per evitare che troppi rimangano scoperti e per garantire continuità, sarebbe stato più opportuno utilizzare i fondi reperiti per il bonus bebé per procedere ad una riforma del sistema, inefficiente e frammentato, di sostegno al costo dei figli, anche solo limitatamente alle famiglie a basso reddito.
Vale la pena di contrastare questa perdurante distrazione nei confronti dei bambini e ragazzi sopra i tre anni con il dato, non sufficientemente pubblicizzato, del lavoro di minori sotto i 14 anni. Secondo i dati Inail, nel 2013, 63.828 minori di 14 anni hanno subito un infortunio sul lavoro, il 9.19% di tutti gli infortuni di quell’anno: un numero pressoché stabile nell’ultimo triennio (ma aumentato rispetto al 2009), a fronte di una diminuzione in tutte le altre fasce di età. Si tratta della punta di un iceberg, dato che questi bambini non avrebbero dovuto neppure lavorare, a norma di legge. Piccole vittime di una guerra di sopravvivenza quotidiana. Ce ne saranno stati molti di più che hanno lavorato e lavorano senza subire infortuni o, peggio, senza che il loro infortunio sul lavoro sia stato denunciato come tale. Bambini e ragazzi che non solo non hanno risorse adeguate per una crescita rispettosa dei loro bisogni, ma devono farsi carico precocemente della responsabilità di procacciare un reddito qualsiasi per la propria famiglia.
A fronte dell’aumento della povertà — dei minori, ma anche degli adulti — la legge di Stabilità sembra aver accantonato del tutto il progetto di messa a regime e ridefinizione della nuova social card, attualmente sperimentata in 12 grandi comuni e destinata a famiglie in condizione di povertà grave (3000 euro di Isee) con almeno un figlio minore e tantomeno l’introduzione di una vera misura di sostegno al reddito di chi si trova in povertà, a prescindere che abbia figli minori e dalla sua storia lavorativa. Si è invece preferito, da un lato, aumentare di un poco il finanziamento della vecchia social card da 40 euro mensili, quella destinata agli anziani ultrasessantacinquenni e, di nuovo, ai bambini sotto i tre anni, dall’altro istituire un nuovo fondo di 45 milioni di euro per «buoni per l’acquisto di beni e servizi a favore dei nuclei familiari con un numero di figli minori pari o superiore a quattro in possesso di una situazione economica corrispondente a un valore dell’Isee... non superiore a 8.500 euro annui». Non è chiaro, peraltro, se si tratti di una nuova social card categoriale e chi e come l’amministrerà.
Proprio quando sarebbe necessario razionalizzare le risorse per renderne più efficiente ed efficace l’uso, nel settore del contrasto alla povertà si continua con la politica dei frammenti incomunicanti, nonostante la retorica delle riforme e dell’innovazione.
Repubblica 27.12.14
Tariffe pubbliche, su acqua e rifiuti l'aumento è record
Negli ultimi 10 anni il costo è aumentato del 79,5 e del 70%: nel primo caso i prezzi restano tra i più bassi d'Europa, ma per la spazzatura l'incremento - secondo la Cgia - "è del tutto ingiustificato"
Codacons: "Nel 2004, stangata da 324 euro a famiglia"
qui
il Fatto 27.12.14
Nemici - amici
Inps, Renzi sceglie come presidente l’anti-renziano Boeri
Via il commissario Tiziano Treu, arriva il professore della Bocconi e della Voce.info, critico dell’esecutivo
di Stefano Feltri
Tito Boeri non se l’aspettava: era nel mezzo di un anno sabbatico concesso dalla Bocconi, diviso tra l’ateneo parigino di Sciences Po e la London School of Economics. E neppure nel mondo Inps se l’aspettavano: Tiziano Treu sembrava più di un commissario temporaneo, da super-esperto di previdenza si stava muovendo come un capo con pieni poteri e molte manovre discrete avevano lasciato intendere che ci fosse un lavorio per aggirare il vincolo di legge che impediva al 75enne professore universitario, in quanto pensionato, di passare da commissario a presidente. E invece la vigilia di Natale Matteo Renzi ha sorpreso tutti con una nomina uscita dal Consiglio dei ministri che per impatto simbolico equivale a quella del giudice Raffaele Cantone all’Autorità anticorruzione: Tito Boeri sarà il nuovo presidente dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, lo snodo principale del Welfare all’italiana, che si occupa di previdenza (con le pensioni) e di assistenza (con gli assegni di accompagnamento e le pensioni sociali, cioè quelle destinate anche a chi non ha versato contributi).
TITO MICHELE BOERI, 56 anni, è uno degli economisti italiani più noti: è professore alla Bocconi, dove è anche prorettore per la ricerca. Il suo campo di ricerca non è la previdenza, di cui molto ha scritto ma soltanto come opinionista, bensì l’economia del lavoro: con il collega Pietro Garibaldi è stato il teorico del modello del contratto unico a tutele crescenti nella versione soft (Pietro Ichino, invece, ha sempre avuto idee più drastiche, cioè di togliere protezioni anche a chi già lavora invece che solo ai neoassunti). Ma Boeri è anche il terminale di molte filiere intellettuali che, con la sua nomina a presidente dell’Inps, si troveranno un po’ acefale. Pur non avendo una carica formale di direttore, è da sempre l’animatore del sito lavoce.info: tutti gli articoli che gli economisti (di area bocconiana ma non solo) che escono sul sito vengono vistati da lui. Questa posizione lo ha reso il frontman di un mondo economico che in questi anni ha avuto un forte peso nel dibattito pubblico: gli economisti, liberisti ma non troppo, progressisti ma non proprio di sinistra de la-voce.info sono i più ascoltati. Negli anni del berlusconismo erano l’opposizione intellettuale, oggi sono di governo: Boeri all’Inps, Roberto Perotti e Tommaso Nannicini nella squadra dei consulenti di Palazzo Chigi, Giuseppe Pisauro all’Ufficio parlamentare di bilancio. Dall’intersezione tra lavoce.info e la casa editrice Laterza è nato il festival dell’Economia a Trento, dove Boeri è direttore scientifico (Renzi è stato applaudito ospite nell’ultima edizione). E almeno fino a giugno, per l’edizione del decennale, Boeri conserverà la carica. L’unica a cui non rinuncia perchè “l’Inps sarà un impegno a tempo pieno”, dice. Difficile infatti che possa continuare a scrivere su Repubblica, quotidiano di cui è diventato editorialista importante, molto stimato dall’editore, Carlo De Benedetti, che gli ha affidato anche la direzione scientifica della fondazione intitolata al padre Rodolfo. Convegni, dibattiti, ricerche, un think tank di alto livello.
Nel suo cinismo tattico Renzi sa che con Boeri ottiene un doppio risultato: fare una nomina di prestigio, con un nome famoso e incontestabile, ma anche silenziare uno dei critici più fastidiosi del governo, di quelli che poi danno la linea a chi cerca argomenti autorevoli contro l’esecutivo (“Anche Boeri ha scritto.. ” dicono spesso gli anti-renziani nei talk di prima serata).
PER L’ECONOMISTA bocconiano la sfida è notevole: Boeri ha sempre avuto rapporti con la politica, ma come esperto, mai con mansioni operative. E l’Inps è uno dei pezzi dello Stato più complesso da gestire, un mastodonte che eroga ogni anno assegni per 400 miliardi e ha un deficit annuale di 12-13 miliardi, un patrimonio positivo per 21 miliardi e una lista infinita di problemi. Va riscritta la governance, cioè bisogna decidere chi comanda: negli anni del berlusconismo venne cancellato il consiglio di amministrazione, regnava da solo Antonio Mastrapasqua che si è dimesso in modo traumatico poco prima dell’arrivo di Renzi, perché indagato dalla Procura di Roma. Poi bisogna smaltire il lungo strascico dell’incorporazione nell’Inps di istituti di previdenza dei dipendenti pubblici, dall’Inpdap all’Ipost che, semplificando, avevano buchi da tappare con le risorse Inps. E c’è il patrimonio immobiliare da gestire (e Mastrapasqua è stato molto criticato per le sue scelte, soprattutto con il fondo Idea Fimit di cui l’Inps è azionista di minoranza). E poi ci sono gli esodati, i precari che aspettano la famosa “busta arancione” che dovrebbe fare una stima di come sarà la loro magra pensione e così via.
PER ORA BOERI non si pronuncia, non vuole fare annunci, aspetta. Ma in questi anni di previdenza ha scritto parecchio. E chissà se, ora che passa dalla teoria alla pratica, applicherà le sue idee. Come quella per riportare maggiore equità previdenziale: per le pensioni maturare col sistema retributivo (assegno legato agli ultimi stipendi) un prelievo crescente per la parte non coperta dai contributi versati. Boeri, in un articolo sulla voce.info firmato con Fabrizio e Stefano Patriarca, ipotizza una aliquota del 20 per cento sullo “squilibrio” negli assegni tra 2 e 3mila euro, che sale al 30 per cento tra 3 e 5mila e al 50 sopra il 5 mila. Quanto alla trasparenza, a fine 2013 scriveva Boeri con Luigi Guiso: “L’Inps ha tutti gli strumenti per fornire ai lavoratori italiani una stima precisa della loro futura pensione. Ma ministero e istituto di previdenza mantengono un silenzio colpevole, penalizzando così i cittadini che più hanno bisogno di quelle informazioni”. Ora ha la possibilità di rimediare.
Corriere 27.12.14
Il presidente dell’Inps
Tutti gli orfani di Tito Boeri
di Daniele Manca
qui
Repubblica 27.12.14
Inps, Boeri: "Il mio sarà un impegno gravoso"
Il nuovo presidente dell'ente previdenziale commenta la sua nomina: "E' un'istituzione fondamentale per il Paese soprattutto alla luce degli squilibri del mercato del lavoro". Sui "trattamenti d'oro": "Credo profondamente in tutte le cose che ho scritto"
qui
Il Sole 27.12.14
Inps, a sorpresa arriva Boeri
L’economista: «Impegno gravoso - Sanare gli squilibri a carico dei giovani»
di Davide Colombo
ROMA Con la nomina dell’economista Tito Boeri (classe 1958, ordinario alla Bocconi di Milano) la governance Inps torna alla casella di fine gennaio scorso, quando le dimissioni di Antonio Mastrapasqua imposero al Governo Letta la via del commissario straordinario. Un presidente con incarico quadriennale responsabile dell’indirizzo politico e della gestione,un direttore generale responsabile della funzionalità e della tecnostruttura, un Comitato di indirizzo e vigilanza espressione delle parti sociali e un collegio sindacale. In pratica l’assetto uscito dal dl 78 del 2010, anno di apertura del lungo processo di razionalizzazione degli enti previdenziali che ha portato all’attuale Nuovo Inps e alla Nuova Inail, come struttura nazionale unica, quest’ultima, del polo sicurezza e salute sul lavoro. Ma dietro la mossa di Natale del Governo c’è un disegno che dovrebbe portare molto rapidamente l’Istituto a quella nuova struttura di vertice che era stata esplicitamente evocata dallo stesso commissario straordinario uscente, Tiziano Treu, nominato lo scorso ottobre dopo gli otto mesi di gestione retta da Vittorio Conti. Ovvero: un presidente, un consiglio di amministrazione di tre elementi (uno dei quali è lo stesso presidente), un direttore generale con funzioni di gestione rafforzate, un Comitato di indirizzo e vigilanza e un collegio sindacale alleggeriti nel numero dei componenti.
Fonti governative hanno parlato di una soluzione entro gennaio e il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, per il momento non commenta. Ma che sull’Inps a palazzo Chigi si era deciso di intervenire s’era capito già nelle scorse settimane, quando addirittura era circolata l’ipotesi di varare la nuova governance con il maxi-emendamento alla legge di Stabilità. Ora con la scelta di Boeri bisognerà chiudere il cerchio in tempi stretti, almeno entro i termini della procedura di nomina, che prevede i pareri della commissioni parlamentari competenti e un’intesa (nel caso ormai ex post) con il Comitato di indirizzo e vigilanza. La nuova governance dell’Inps (e dell’Inail, che dovrebbe esserne speculare visto che i due istituti sono considerati gemelli e poli complementari del Welfare nazionale dopo le incorporazioni degli ultimi quattro anni) verrà adottata nel pieno dell’attuazione dei piani industriali in corso, e che vede in particolare l’Istituto di previdenza ancora alle prese con l’assorbimento dell’Inpdap. Il contesto, insomma, è estremamente delicato e reso ancor più complicato dagli interventi di spending review che hanno imposto ai due istituti una gestione quasi al limite sul fronte delle dotazioni organiche. Non bastasse, la nuova governance dovrà arrivare anche con la nomina (o la conferma) dei due attuali direttori generali di Inps e Inail, Mauro Nori e Giuseppe Lucibello, entrambi con un mandato in scadenza a fine mese.
A guidare l’Inps in questi passaggi il governo non ha scelto un manager (profilo previsto nello stesso dl 78/2010) ma un economista. Tito Boeri, Ph. D. in Economia alla New York University, per dieci anni è stato senior economist all’Ocse, e consulente del Fmi, della Banca Mondiale, della Commissione Ue e dell’Ufficio Internazionale del Lavoro. «Un impegno gravoso e una grande responsabilità - ha detto ieri Boeri commentando il nuovo incarico - l’Inps è un’istituzione fondamentale per il Paese, soprattutto alla luce dell’andamento demografico, degli squilibri e dei grandi interrogativi che presenta il mercato del lavoro, in relazione ai giovani».
Economista del welfare, Boeri ha ideato con il collega Pietro Garibaldi una prima versione del contratto a tutele crescenti (loro lo avrebbero voluto unico) ed è tra i sostenitori di una misura nazionale di contrasto alla povertà, che all’Italia ancora manca.
La Stampa 27.12.14
La forza e la debolezza di Renzi
di Luca Ricolfi
qui
Corriere 27.12.14
Quel segnale di Renzi alla minoranza
La scelta di tutelare la compattezza interna in vista del voto per il Quirinale anche a scapito di Ncd
di Maria Teresa Meli
ROMA L’avevano dipinta come la tassa che Matteo Renzi doveva pagare all’Europa. Poi avevano spiegato che era l’osso che doveva mollare al Nuovo centrodestra per una pacifica coesistenza dentro il governo. Alla fine, non si è rivelata vera né l’una né l’altra versione dei fatti, e il premier si è mostrato come il deus ex machina che non si fa imporre la linea dall’Europa o dall’alleato minore.
Di più, dopo aver sconfitto l’oltranzismo della Cgil, che era ciò che più gli premeva, il presidente del Consiglio è andato incontro alle richieste della parte dialogante della «sua» minoranza interna, di quella minoranza, cioè, su cui fa affidamento quando, nel segreto dell’urna, si tratterà di votare il capo della Stato. Insomma, dicendo di «sì» al capogruppo Roberto Speranza e al presidente della Commissione Lavoro di Montecitorio Cesare Damiano, che gli chiedevano di abbandonare la linea dura di Sacconi e degli altri Ncd, Renzi ha scavato un altro profondo solco nella minoranza del Partito democratico, isolando ulteriormente i Fassina e i Cuperlo, ossia coloro i quali — il premier ne è convinto — gli daranno comunque del filo da torcere nelle votazioni presidenziali. Di più: ha allargato il divario già esistente tra la Cisl, che ha lavorato a favore della soluzione finale raggiunta sui decreti del Jobs Act e la Cgil, che con Camusso, per dirla con le parole del premier, «ha deciso di adottare una linea di opposizione politica a questo governo».
Ma giungere a questo risultato non è stato semplice. Il 23 dicembre, fino a tarda notte, sul campo da gioco, Renzi si è presentato, come sempre in questi casi, con due posizioni. Quella più «oltranzista» di Filippo Taddei e quella più aperturista del ministro Poletti. Questo per vedere fin dove si poteva tirare la corda. Nell’altra metà campo, in tandem, Damiano e Speranza. Il primo a spiegare a Taddei e Poletti, prima, e al ministro Boschi, poi, che mettere nei decreti l’ opting out e la possibilità di licenziamento per scarso rendimento sarebbe stato «un eccesso di delega non rispettoso del Parlamento».
La partita è arrivata ai supplementari il 24 dicembre mattina. Sul campo da gioco Speranza non si è risparmiato. Ha spiegato al premier quello che avrebbe significato mettere l’ opting out nei decreti, come chiedeva il Nuovo centrodestra: «Vorrebbe dire negare l’accordo raggiunto nella Direzione del Pd e anche quello votato dal Parlamento. Così sarebbe come infliggere uno schiaffo a quelli del partito che sono rimasti nell’aula di Montecitorio votando quell’intesa e dare ragione a chi invece è uscito dall’aula». Tanto per intendersi, ai vari Cuperlo, Fassina, etc.
È un ragionamento, questo, che ha lasciato tutt’altro che insensibile un politico abile come Renzi. Il quale, poi, si è maggiormente convinto di quella posizione, quando ha visto che nelle ultime ore anche la Cisl premeva in quella stessa direzione. Non solo, pure il più alto Colle, sempre attento al rispetto delle decisioni del Parlamento, era stato coinvolto. E l’eco del discorso fatto sia da Damiano che da Speranza sull’«eccesso di delega» era giunto sino al Quirinale.
Il premier è noto per la rapidità delle decisioni che, alle volte, sorprendono anche i suoi più stretti collaboratori. Questa volta hanno sorpreso gli alleati del Ncd. «Si arrabbieranno, ma una crisi di governo, minacce a parte, non è all’ordine del giorno», ha rassicurato il premier spiegando ai fedelissimi la decisione di lasciare Alfano e il suo partito a bocca asciutta. Anzi, le critiche di Sacconi e De Girolamo ai decreti riveduti e corretti gli hanno fatto gioco: «A me vanno anche bene queste polemiche».
Perché, ancora una volta dimostrano, che, alla fine della festa, è il premier a dire l’ultima parola sui provvedimenti varati dal Consiglio dei ministri. Tanto il Nuovo centrodestra, sostengono i renziani, per paura delle elezioni, non giocherà mai brutti scherzi. Nemmeno al momento di eleggere il successore di Napolitano .
«c’è chi dice, paradossalmente, che, forse, non andremo più a votare
se, oltre che furbo, fosse anche intelligente, avremmo un altro duce, minore, ma pur sempre un duce»
Corriere 27.12.14
Quegli slogan di sinistra che esasperano la destra
di Piero Ostellino
Matteo Renzi sta esautorando il Parlamento, conferendo poteri impropri al Governo a dispetto della divisione e separazione dei poteri e di una Costituzione che tutti invocano e nessuno mostra di voler rispettare. Temo di aver visto bene quando ho scritto che il presidente del Consiglio aveva le stimmate dell’autoritario e che se, oltre che furbo, fosse anche intelligente, avremmo un altro duce, minore, ma pur sempre un duce.
Dopo che Napolitano, nel 2011, ha mostrato di non volere elezioni anticipate, c’è chi dice, paradossalmente, che, forse, non andremo più a votare. Il Partito democratico è saldamente al potere nel governo nazionale, così come nelle amministrazioni locali. Perché dovrebbe andare ad elezioni col rischio di perderle? È un interrogativo, e un calcolo, che ogni forza politica farebbe e che il Pd fa a parziale conferma che, anche se il comunismo è morto, i comunisti sono ben vivi. Non ci stiamo incamminando verso soluzioni di socialismo reale. Ma è anche un fatto che qualcuno ci crede, attrezzandosi per farvi fronte, come dimostrano le cronache di questi giorni sulla (re)insorgenza di movimenti neofascisti. Sembra che si stia concretizzando una regola che, agli inizi del Novecento, in Italia e in Germania, aveva assunto una qualche legittimazione.
Ogni volta che la sinistra esagera, spingendo l’acceleratore per soluzioni collettiviste e totalitarie, spunta la destra estrema che si propone come la soluzione del problema con metodi non democratici.
E qui occorre aggiungere qualcosa d’altro. Dopo che il segretario della Lega, Matteo Salvini, se ne era uscito indicando me, Feltri e Bernardo Caprotti come candidati preferiti per il Quirinale, a sinistra, c’è stato subito chi ci ha bollati «di destra» solo per il fatto di non essere di sinistra: ma così la sinistra mostra di non avere ancora capito che ragionando in tal modo ottiene soltanto di favorire la destra antidemocratica. Il fascismo è arrivato in Italia, cavalcando la reazione provocata nei ceti medi moderati, da certe violenze, verbali e di fatto, della sinistra dopo la fine della Prima guerra mondiale. Il nazismo è prevalso in Germania sulla Repubblica di Weimar per le stesse ragioni. Chi pensa di combattere la sinistra ricorrendo a slogan e comportamenti dell’estrema destra è non meno stupido di chi pensa di combattere la sinistra da destra. Forse è il caso che chiunque abbia a cuore la nostra democrazia malandata ci rifletta.
il Fatto 27.12.14
Spese militari, nel 2015 niente tagli alla Difesa
E 5 miliardi per nuovi armamenti
di Enrico Piovesana
qui
La Stampa 27.12.14
Uccide il figlio tredicenne
“Sono felice: non lo perdo più”
di Fabio Albanese
Papà Enrico ora non si dà pace: «Veglia su di me e proteggimi, meglio di quanto io abbia saputo fare x te», ha scritto su Facebook. Non ha saputo proteggere il suo Simone, 13 anni, ucciso a coltellate dalla mamma la sera della vigilia di Natale. Lei si chiama Debora Calamai, 38 anni. «Un episodio grave e incomprensibile», lo definiscono i difensori della donna, Simona Tacchi e Mario Cavallaro. La pensano diversamente nel palazzo di via Zampa dove il delitto è avvenuto, che parlano di «tragedia annunciata» perché la signora era molto depressa e, probabilmente, la pensa diversamente lo stesso papà di Simone che aveva chiesto al tribunale per i minori l’affido esclusivo del bambino. La donna dal 2007 era in cura nel Centro di igiene mentale dell’ospedale di Macerata e tra un mese avrebbe dovuto sottoporsi a una consulenza tecnica di parte, in tribunale, proprio per verificare se fosse stata ancora in condizione di tenere il bambino in affido condiviso.
Non c’è stato più tempo. A papà Enrico, 43 anni, sarebbero bastati appena pochi minuti per salvare il suo bambino che per due volte, mentre intorno alle 21 di mercoledì era dalla mamma per la cena di Natale, lo aveva chiamato al telefono con una scusa, chiedendogli di andare a prendere. Quando l’uomo è arrivato, la tragedia si era appena consumata: Simone era riverso sul pianerottolo di casa, ormai privo di vita, in corpo 9 coltellate, una al cuore.
Mamma Debora è stata subito arrestata, era sotto casa quando sono arrivati i carabinieri. Il movente è probabilmente già in quella frase che avrebbe pronunciato davanti ai militari, quando era ancora con il coltello insanguinato in mano: «Volevano portarmelo via».
Se ci sia stato un episodio scatenante, questo lo si potrà sapere solo nei prossimi giorni. Si sa però che quella stessa mattina c’era stato un diverbio tra gli ex coniugi, proprio per l’affidamento di Simone, sedato poi dai nonni paterni del bambino. La calma riportata tra i due aveva consentito che Simone potesse andare dalla mamma per la cena di Natale. La donna ha regalato al figlio una confezione di costruzioni ma poco dopo è accaduto qualcosa che ha fatto scattare la sua furia omicida: ha inseguito Simone per tutta la casa con il coltello in mano. Il bambino è riuscito a raggiungere il pianerottolo dove però la madre gli ha piantato sulla schiena la prima coltellata. «Sono contenta di averlo fatto», ha poi detto: il timore di perdere l’affidamento del figlio che annienta ogni coscienza e perfino l’amore di mamma.
Repubblica 27.12.14
Irlanda, la Corte Suprema: "Morte cerebrale per una donna incinta, si può staccare la spina"
La causa della decisione: il feto, di 18 settimane, non potrà sopravvivere. E nel Paese si riaccende la polemica
qui
La Stampa 27.12.14
Il governo indiano
“Dialoghiamo sui marò, ma i nostri giudici sono liberi”
di Francesca Paci
Nuova Delhi tiene il punto: sui due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, insiste il portavoce del ministero degli esteri Syad Akbaruddin, l’ultima parola sul caso spetta ai giudici che sono «liberi, trasparenti e imparziali».
Il governo di Modi torna in queste ore sulla vicenda dei fucilieri italiani rei di aver ucciso due pescatori al largo delle coste del Kerala e gela con poche parole l’auspicio espresso del premier Matteo Renzi e del presidente Giorgio Napolitano alla «soluzione diplomatica condivisa». Una brusca frenata che arriva a pochi giorni dalle indiscrezioni su una presunta trattativa intergovernativa e a tre anni dall’incidente degenerato in una grave crisi diplomatica. Le posizioni restano dunque ancora distanti.
«Non si tratta soltanto di una discussione tra due esecutivi, ma è un tema all’esame della magistratura indiana che deve esprimersi affinché si possa andare avanti», fa sapere Delhi. Nessun riferimento ai tempi previsti per trovare una soluzione. E anche l’emotività che nel nostro Paese accompagna le tappe di questa storia infinita sembra turbare poco gli indiani. Il messaggio è chiaro, nessun margine a interpretazioni: «Mentre il governo può avere un punto di vista e considerare varie opzioni questa questione è in mano alla giustizia e dovrà seguire un percorso legale». A mo’ di esempio valga il parere negativo della Corte Suprema sull’estensione della permanenza in Italia di Latorre, richiesta da Roma e, pare, non osteggiata da Delhi. In pratica, in assenza di arbitrato internazionale, l’unica chance rimasta a Roma è aspettare.
Diverse erano le aspettative dei protagonisti, riaccesesi quando il 19 dicembre l’India, ammorbidendo il veto della Corte Suprema, aveva preso in considerazione «una proposta dell’Italia per una soluzione consensuale». La mattina di Natale Massimiliano Latorre, il marò rientrato a settembre per curarsi, ha inviato un augurio ai connazionali ringraziandoli per l’«affetto e la vicinanza» indispensabili per resistere. Latorre, già colpito da un ictus, ha ricordato anche il collega Salvatore Girone che il 24 sera da Delhi aveva augurato Buon Natale «a chi aiuta il prossimo in difficoltà».
Nuova Delhi tiene il punto: sui due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, insiste il portavoce del ministero degli esteri Syad Akbaruddin, l’ultima parola sul caso spetta ai giudici che sono «liberi, trasparenti e imparziali».
Il governo di Modi torna in queste ore sulla vicenda dei fucilieri italiani rei di aver ucciso due pescatori al largo delle coste del Kerala e gela con poche parole l’auspicio espresso del premier Matteo Renzi e del presidente Giorgio Napolitano alla «soluzione diplomatica condivisa». Una brusca frenata che arriva a pochi giorni dalle indiscrezioni su una presunta trattativa intergovernativa e a tre anni dall’incidente degenerato in una grave crisi diplomatica. Le posizioni restano dunque ancora distanti.
«Non si tratta soltanto di una discussione tra due esecutivi, ma è un tema all’esame della magistratura indiana che deve esprimersi affinché si possa andare avanti», fa sapere Delhi. Nessun riferimento ai tempi previsti per trovare una soluzione. E anche l’emotività che nel nostro Paese accompagna le tappe di questa storia infinita sembra turbare poco gli indiani. Il messaggio è chiaro, nessun margine a interpretazioni: «Mentre il governo può avere un punto di vista e considerare varie opzioni questa questione è in mano alla giustizia e dovrà seguire un percorso legale». A mo’ di esempio valga il parere negativo della Corte Suprema sull’estensione della permanenza in Italia di Latorre, richiesta da Roma e, pare, non osteggiata da Delhi. In pratica, in assenza di arbitrato internazionale, l’unica chance rimasta a Roma è aspettare.
Diverse erano le aspettative dei protagonisti, riaccesesi quando il 19 dicembre l’India, ammorbidendo il veto della Corte Suprema, aveva preso in considerazione «una proposta dell’Italia per una soluzione consensuale». La mattina di Natale Massimiliano Latorre, il marò rientrato a settembre per curarsi, ha inviato un augurio ai connazionali ringraziandoli per l’«affetto e la vicinanza» indispensabili per resistere. Latorre, già colpito da un ictus, ha ricordato anche il collega Salvatore Girone che il 24 sera da Delhi aveva augurato Buon Natale «a chi aiuta il prossimo in difficoltà».
il Fatto 27.12.14
Gaza: 5 mesi dopo la fine del conflitto la gente dorme ancora sotto i teloni di plastica
qui
il Fatto 27.12.14
Gerusalemme. I babbi natale dispersi con i lacrimogeni
Israeliani e palestinesi, niente tregua
Attacco ai coloni con le moloto
Bambina sfigurata, scontri al corteo dei Santa Klaus anti insediamenti
di Roberta Zunini
Anche se sopravviverà, Ayala Shapira non avrà più il volto che in questi suoi scarsi 11 anni di vita ha visto riflesso allo specchio. I medici hanno confermato che è stato devastato dalle fiamme sprigionate da una bottiglia molotov quando si è infranta contro il finestrino dell'auto su cui la ragazzina ebrea viaggiava assieme al padre, un colono che risiede con la famiglia in un insediamento nei pressi della città palestinese di Nablus. “Nelle arterie della Cisgiordania i palestinesi sono impegnati in una guerriglia con lanci di molotov e di pietre, ma l'esercito si limita ad operazioni di semplice gendarmeria”, ha polemicamente affermato alla radio militare israeliana Avner Shapira. L'uomo però non si è posto minimamente il problema delle colonie ebraiche nei territori palestinesi, bollate come illegali dal diritto internazionale e dunque dall'Onu. La tensione nei Territori e a Gerusalemme Est (che dovrebbe diventare la capitale dello stato palestinese se mai nascerà) è tornata altissima dopo l'attacco dell'altro ieri e l'accoltellamento di due poliziotti israeliani per mano di palestinesi ancora sconosciuti. Il giorno di Natale un gruppo di palestinesi cristiani e musulmani vestiti da Santa Klaus, scesi in strada per manifestare contro le colonie, è stato bloccato con gas lacrimogeni e granate stordenti dalle forze di sicurezza israeliane che mantengono il controllo di buona parte dei Territori dove sorge anche la chiesa della Natività di Betlemme.
IL PERIODO NATALIZIO, che in genere richiama molti fedeli cristiani da ogni parte del mondo, quest'anno non è stato rispettato né dagli israeliani né dai palestinesi in “guerra aperta” dall'estate scorsa quando furono rapiti e uccisi da sostenitori di Hamas tre giovani coloni. Un episodio tragico che ha scatenato un effetto domino con l'assassinio da parte di ultras ebrei di un ragazzino palestinese bruciato vivo e quindi il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza sul territorio israeliano e la sanguinosissima guerra di 40 giorni che ha lasciato sul terreno centinaia di bambini innocenti della Striscia. I bambini e gli adolescenti si affermano dunque come le vittime principali di questo 2014 di odio e violenza tra Israele e Palestina. Ayala, affermano i medici, ha riportato ustioni su quasi il 50 per cento del corpo, in particolare alla testa e al collo. Se non morirà dovrà sottoporsi a cure lunghe e dolorose.
La Stampa 27.12.14
Svezia, così la scia di attentati anti-Islam fa tremare il Paese della tolleranza
L’ultimo attacco contro una moschea di Eskilstuna, cinque feriti
La comunità musulmana: odio crescente verso gli immigrati
di Monica Perosino
qui
il Fatto 27.12.14
Le vite bruciate nella neve di Lugansk
Città e villaggi della repubblica separatista nell’est ucraino sistematicamente colpiti dall’esercito di Kiev
Ospedali, scuole, centrali elettriche in macerie
I pochi che non sono fuggiti in Russia sopravvivono con la morte nel cuore
di Vauro Senesi
Pervomaisk (est Ucraina) Ai bordi della strada chiazze di neve gelata, sporche, si contendono spazio con i crateri anneriti delle esplosioni. “Pervomaisk”, Primo Maggio, è scritto sul cartello, anche quello crivellato di schegge d'obice, all'ingresso di questa città a pochi chilometri da Lugansk, capitale della autoproclamata Repubblica popolare nella regione russofona del Donbass. Ci fermiamo in uno spiazzo circondato da palazzi di edilizia popolare, 7 o 8 piani, squadrati, di stile sovietico. La loro geometria monotona è interrotta, stravolta da squarci nelle mura che paiono eruttare colate di macerie fossilizzate. Uno degli squarci è così grande da attraversare la struttura lasciando intravedere dal’altra parte uno spicchio di cielo grigio. “Lì viveva una madre con 3 bambini... ”. Si sono avvicinate quattro donne di mezz'età imbacuccate per il freddo “... non è rimasto nulla di lei e dei figli. L'esplosione li ha disintegrati”, dice Irina indicando la voragine. Racconta senza che dalla sua espressione trapeli emozione. Dolore, commozione, paura, forse tutte le emozioni sono bruciate, ridotte in macerie come la città in cui continua a vivere. Prima della guerra contava 25.000 abitanti, adesso ne sono restati meno di 8.000, la maggior parte ha cercato rifugio in Russia. Non c'è più elettricità, né acqua corrente. Centrale elettrica, acquedotto, tutto distrutto dai bombardamenti. “Perchè non ve ne andate, non fuggite? ”. Irina scuote la testa rassegnata ed ostinata. “Questa è la nostra terra”. “ Ma come fate a sopravvivere così? ”. “I cosacchi ci portano cibo, se ne privano per noi”. Tutta quest’area è difesa dalla Guardia nazionale cosacca della Grande armata del Don. “Solo loro pensano a noi. L'Europa arma l'esercito ucraino che ci bombarda. Perchè? Anche noi eravamo ucraini”.
LO SCOPPIETTIO di un motore interrompe lo sfogo. Un vecchio e scassato camioncino entra nel cortile. Come attratti da un richiamo altri gruppi di donne escono dalle palazzine semi-distrutte con in mano sporte di bottiglie e tanichette di plastica. Il camioncino si ferma. Sullo sportello, dipinti a mano, una stella rossa e il simbolo della pace. Sul capo del conducente una consunta bustina dell'armata rossa della Seconda guerra mondiale. Saluta le donne e le aiuta a riempire bottiglie e taniche di acqua potabile dalla cisterna di plastica sul cassone. La prima linea del fronte si trova poco al di là di queste palazzine. Una donna che spinge un passeggino con un bambino attraversa la strada spezzata a una cinquantina di metri da una trincea protetta da tronchi d'albero, sacchetti di sabbia e da una garitta di travi di legno dalla quale spunta la canna di una mitragliatrice pesante. È questo l'avamposto più avanzato della difesa di Pervomaisk presidiato dall'armata cosacca. Riparato dietro le mura di una casa distrutta c'è un gazebo di plastica. Sotto, in un barile arrugginito, brucia un po' di legna. È il turno di Roman di scaldarsi. Stende le mani intirizzite sul braciere di fortuna godendosi un po’ di tepore. “Tre giorni che c'è silenzio... ”, dice abbozzando un sorriso tra la barba rada e biondiccia... “Dopo 32 giorni incessantemente sotto il fuoco dell'artiglieria”, Roman ha 28 anni. Ne dimostra meno, nonostante le occhiaie, la mimetica e il kalashnikov a tracolla. Non sa per quanto ancora ci sarà silenzio e non sa quanto ancora durerà questa guerra. “Vogliamo la pace ma sul nostro pezzo di terra. Riunirsi all'Ucraina non è più possibile. L'esercito di Kiev ha sparato sul proprio popolo. Non ci resta che resistere fino in fondo”. Ed è proprio della Resistenza che parla Roman. “Contro i nazisti di là... ”. Indica con il braccio la linea del fronte “... Di là c'è anche il battaglione Azov della Guardia nazionale ucraina. Hanno la svastica sulla uniforme. Come è possibile che l'Europa li sostenga? ”.
Azov, Aidar, Donbass-Dnepr, Dnepr uno, Dnepr due, sono i battaglioni composti da volontari di estrema destra integrati nelle forze regolari ucraine e finanziati, al pari del gruppo neofascista Pravij Sektor, dall'oligarca Igor Kolomoisky, Il ricchissimo e potente governatore della regione di Dnepropetrovsk che oltre a quello ucraino ha anche passaporto cipriota e israeliano. Sorride di nuovo Roman mentre ci saluta alzando il pugno. “ No pasaran! ”. Il saluto dei repubblicani della guerra di Spagna qui tra i cosacchi ha trovato nuova vita e purtroppo riacquistato senso ed è divenuto comune. “No pasaran! ” ripete Roman come volesse rassicurare anche noi.
“LIUDJ” scritta a grandi caratteri con la vernice bianca, questa parola che in russo significa “Persone”, si ripete a tratti dipinta su abitazioni e scuole. Un segnale che lì ci sono civili, non combattenti. Un tentativo di protezione dal fuoco dei bombardamenti. La vediamo anche sul muro di una casa bruciata mentre lasciamo Pervomaisk per continuare questo viaggio nella distruzione verso Novosvietlavka, sulla via che conduce al vecchio areoporto. “LIUDJ”, persone. È propriocontro le persone che questa guerra pare accanirsi. Siamo partiti da Lugansk, Abbiamo attraversato Stakanov, Pervomaisk e ovunque abbiamo visto scuole, ospedali, fabbriche, centrali elettriche e idriche distrutte. Sistematicamente vengono colpite tutte le strutture vitali per la popolazione delle città e dei villaggi. Non è possibile non scorgere un disegno pianificato di pulizia etnica. La volontà di costringere le “Persone” ad abbandonare quest'area e rifugiarsi in Russia, come molti sono già stati costretti a fare, facendo terra bruciata.
Terra bruciata è il villaggio di Novosvietlavka. Bruciate quasi tutte le semplici isbe che lo compongono. Distrutto l'acquedotto, la casa della cultura, la chiesa, la scuola. Sulle macerie di quest'ultima, vicino alla carcassa di uno scuola-bus giallo crivellato di colpi, è rimasto in piedi un grande cartello con ritratti ragazzi e ragazze felici sotto la scritta “Quelli della scuola sono gli anni più belli”.
Anche l'ospedale è in macerie. Il viceprimario Vladimir Nikolaj Svarjevsky cerca di darsi un contegno, poi cede e gli occhi si riempiono di lacrime, la bocca di parole di un racconto dell'orrore che sembra non volersi interrompere più. “Sono arrivati i miliziani del battaglione Aidar... ”. Saccheggi, fucilazioni, fosse comuni, cadaveri profanati per sfregio... Pochi sono gli abitanti rimasti a Novosvietlavka. Un gruppo di ragazzini che aspetta, vicino alla carcassa di un carrarmato bruciato, un bus che li porterà a una scuola a dieci chilometri da qui. “La nostra era più bella, più grande... ”, dice uno di loro. E branchi di cani. “Sono molto pericolosi, attenti... ”, il vecchio ci mette in guardia. “... La fame. Lo shock delle esplosioni li hanno riportati allo stato selvatico. Sono diventati come belve. Aggrediscono gli uomini”. Belve.
il Fatto 27.12.14
“No pasaran”
I cosacchi del Don ”Resistiamo al fascismo”
Per la comunità di combattenti gli assalti di oggi non sono che la prosecuzione della Guerra Patriottica di 70 anni fa
di V. S.
Lugansk (est Ucraina) I finestrini del vecchio furgone sono appannati del nostro respiro. Al di là dei vetri scorre sfocato un paesaggio di ghiaccio. Nella notte i deboli riflessi dei fari accesi lo illuminano a momenti. Il resto è solo buio. Abbiamo appena attraversato la frontiera russa e ci troviamo nel Donbass o “Novo Rossija” come è stata ribattezzata questa regione dopo l'autoproclamata indipendenza dal'Ucraina. Il furgone è guidato da Igor, tuta mimetica e maglietta a righe bianche e azzurre, sul capo la kubanka, il tradizionale colbacco rotondo di astrakan nero dei cosacchi. Igor è un cosacco della Grande Armata del Don. Alto, grosso come un orso, gioviale, dalle risate grasse e gutturali. “Sniper, sniper”, cecchini. Ride e accelera al massimo sulla strada ghiacciata e costellata di crateri di bombe. Non sappiamo se stia scherzando o se davvero nell'oscurità si annidi la minaccia dei cecchini.
Anche Andrej è un cosacco. Ma al contrario di Igor è piuttosto basso, asciutto al limite della magrezza e ha un'espressione mite, malinconica. Superiamo una colonna di carrarmati che viaggiano a fari spenti. Le loro sagome scure e massicce ricordano animali preistorici estinti e poi misteriosamente tornati da un tempo antico. Davvero dentro l'abitacolo del furgone par di essere in una navicella spazio-temporale che viaggia indietro nella storia. Igor mette in continuazione vecchie e struggenti canzoni della resistenza sovietica della Seconda guerra mondiale. “Ancora, come i nostri padri, combattiamo contro i nazisti”, dice Andrej mentre con una mano snocciola i grani di un rosario di legno. “... Dono di un monaco di Kiev”. Quello che Andrej mostra della sua appartenenza ai cosacchi è un orgoglio pacato ma profondo. “Non siamo un'etnia. Siamo una comunità unita dalla fede. Da secoli difendiamo le frontiere russe. Il nostro nome ha origini antiche, viene dalla parola turco-tartara Qazaq che significa Uomo Libero”. A tratti le note elettriche di musica rock si intervallano con quelle melodiche delle canzoni partigiane creando uno strano contrasto. Lo stesso che si potrebbe avvertire nelle parole con le quali Andrej spiega la sua “Fede” cosacca. Certo c'è quella religiosa, ortodossa, “Pravoslava”.
MA C'È ANCHE UNA “FEDE” nella comunità umana la cui libertà si fonda sui diritti fondamentali di ciascun individuo. È qui che la religiosità di Andrej si intreccia paradossalmente con idee socialiste fino al rimpianto dell'Unione Sovietica. “Istruzione, salute, lavoro erano garantiti a tutti. Io figlio di povera gente sono potuto diventare ingegnere agronomo grazie a questo”. Parla della rivolta di Maidan con inaspettata simpatia. “La protesta era iniziata per rivendicazioni giuste. Contro la corruzione, per la protezione sociale, per affermare i diritti della gente comune che venivano calpestati. Sono state le oligarchie filo occidentali a strumentalizzarla trasformandola in scontro xenofobo e fascista”. L'antifascismo è un altra tessera fondamentale che compone il puzzle dell'animo cosacco, nonostante durante il secondo conflitto mondiale ci siano state anche formazioni cosacche alleate coi tedeschi. In qualche modo comunque Andrej e gli altri cosacchi che incontreremo vivono questa guerra come la prosecuzione della “Grande guerra Patriottica” come qui definiscono l'ultima guerra mondiale. Gli unici colori che spiccano su nastri fissati alle spalline delle loro mimetiche sono l'arancione striato di nero, quelli della medaglia per la vittoria sulla Germania che deriva dall'antico Ordine di San Giorgio. Non ci sono gradi sulle loro uniformi. La loro organizzazione militare pare più simile a quella guerrigliera che a quella di un vero e proprio esercito. Una conferma di questa sensazione ci arriva da Pavel Driumov, comandante generale dei cosacchi del Don, che incontriamo nella hall dell'albergo deserto dove ha accettato di raggiungerci. Driumov è alto, magro, il viso scavato sotto l'immancabile kubanka. “Dicono che sono russo, che sono i russi a guidare la nostra lotta – esordisce – ma guardate questo. È il mio passaporto” e ci mostra il passaporto ucraino, dove, dalla foto in bianco e nero, pare fissarci un Driumov molto più giovane. Senza ancora i segni della guerra impressi sul volto. Ci parla addirittura di Guevarismo, aggiungendo un'altra tessera al difficile incastro del quadro della “Fede” cosacca che tentiamo di farci. Si entusiasma quando spiega che il compito che si sentono chiamati a svolgere non è soltanto quello di combattere ma anche e soprattutto di ricostruire le basi di una società equa non basata soltanto sul denaro “... Come lo è quella degli oligarchi che ha portato questa guerra. Dobbiamo ricominciare a ricostruire scuole, ospedali gratuiti. Da subito, non dopo”, sottolinea con enfasi. Driumov ci ha portato in regalo una bottiglia di Vodka. Quando se ne va è ancora lì, tappata. Andrej propone tre brindisi. “tre e il terzo è il più importante”. Quando per la terza volta alza il bicchiere spiega il perchè. “Il terzo brindisi è a tutti quelli che sono morti. Tutti, senza distinzione di parte. Perchè la pietà umana non conosce differenze”.
La Stampa 27.12.14
Nel deserto con i soldati Saharawi: “Noi, argine contro al Qaeda”
I miliziani del Fronte Polisario: siamo nella morsa di Marocco e islamisti
di Tommaso CLavarino
Il pick-up corre veloce, la luna illumina la notte e segna la via. Le stelle aiutano a orientarsi in questo deserto dove anche un piccolo arbusto diventa un punto di riferimento
Pattuglie nel deserto
Hamdi non ha esitazioni alla guida. Sterza, inchioda, segue dei fari in lontananza, ascolta le urla di Ahmed che, in piedi sul cassone posteriore, mitragliatore in mano, gli suggerisce la direzione da seguire. Lui, soldato da trent’anni nell’Esercito di Liberazione Popolare Saharawi (Elps), questa landa desolata la conosce come le sue tasche. La percorre in lungo e in largo tutte le notti insieme ai suoi compagni per provare a dare una sembianza di controllo e legalità a una regione che, tra frontiere porose e immense distese di sabbia, è praticamente incontrollabile. La Mauritania è lì, ad un passo. Il confine, come spesso succede in questa parte di Africa, non si vede. Solo sabbia, rocce, e il buio. Ed è in questo buio che, oltre alle vecchie macchine dell’Elps, si muovono rapidamente contrabbandieri, trafficanti di droga e terroristi.
Il contagio islamista
Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), il Movimento per l’unicità della Jihad nell’Africa dell’Ovest (Mujao), Ansar Eddine, sono solo alcune delle sigle che negli ultimi anni, con attentati e rapimenti, hanno incendiato questa fascia di Africa. Sfruttano queste distese di sabbia, queste terre di nessuno, per spostarsi lungo quella fascia sahariana che è diventata negli ultimi anni una delle regioni più instabili del pianeta.
Ed è a loro che Hamdi, Mustafa, Brahim, e gli altri soldati di stanza a Bir Lehlu, in questa parte di Sahara Occidentale controllata dal Fronte Polisario, il braccio politico della popolazione Saharawi in esilio da 40 anni in campi profughi nel Sud dell’Algeria in seguito ad una guerra ventennale con il Marocco, provano a dare la caccia. Pattugliano di giorno e di notte queste piste che scompaiono al primo alito di vento, fermano le poche macchine che riescono a incontrare.
«Prima del rapimento di tre cooperanti, tra i quali l’italiana Rossella Urru, dal campo di Rabouni nell’ottobre del 2011, pensavamo che il fenomeno del terrorismo islamico non ci avrebbe toccato - racconta il comandante della quinta regione militare Sidi Augal - Abbiamo sempre avuto un solo nemico: il Marocco. Ma ora dobbiamo combattere su due fronti: per riprenderci la nostra terra illegalmente occupata da Rabat e per fermare la minaccia rappresentata dai terroristi».
Il rischio di infiltrazioni
Il Fronte Polisario e l’Esercito di Liberazione Popolare Saharawi sanno che quella terrorista è una minaccia non solo per l’intera regione ma anche per la stabilità di una comunità che vive in estrema difficoltà da quattro decenni, in tende e case fatte di mattoni di sabbia, dipendente in tutto e per tutto dagli aiuti umanitari (crollati negli ultimi quattro anni del 70%), e in perenne tensione sia per una situazione politica che non si sblocca sia per un referendum per l’indipendenza del Sahara Occidentale promesso dall’Onu nel 1991 ma ancora non realizzato. «Il rischio è che i gruppi terroristi si infiltrino nei campi, nelle moschee, e facciano proselitismo, soprattutto tra i giovani, sempre più disillusi, che si chiedono quale possa essere il loro futuro, lontano dalla loro Terra e lontano da parenti e amici che vivono nei territori occupati dal Marocco (circa 400mila persone ndr) - spiega Brahim Ahmed Mahmoud, sottosegretario alla Sicurezza del Fronte Polisario - I Saharawi si trovano in mezzo a un vortice, in un’area esplosiva, e sono le uniche vittime di questa situazione. Facciamo del nostro meglio, con i mezzi a nostra disposizione, per controllare l’area e garantire la sicurezza, ma finché non potremmo riavere la nostra Patria, abbattere il muro marocchino che divide il Sahara Occidentale e riabbracciare i nostri fratelli che soffrono la repressione da parte delle forze di sicurezza di Rabat, tutto rimarrà più difficile».
Il doppio fronte
Due fronti, due nemici, due sfide. Se quella contro il terrorismo pare essere appena iniziata, quella contro il vicino Marocco, potrebbe riesplodere presto. Lo si percepisce parlando con la gente che vive nei campi attorno alla città algerina di Tindouf, con i militari, con i membri del governo della Repubblica Araba Democratica Saharawi (Rasd). Quarant’anni di esilio hanno lasciato il segno, sia su quelli che la guerra contro il Marocco l’hanno già combattuta sia sulle nuove generazioni costrette a vivere in terra straniera senza prospettive. La missione Onu Minurso, che in 23 anni non è stata in grado di organizzare un referendum, ha palesemente fallito e per molti saharawi l’unica opzione per uscire da un’impasse come quella attuale è la ripresa del conflitto. «La via diplomatica non ha funzionato, il Fronte Polisario ha accettato il cessate il fuoco del 1991, ha acconsentito ad aprire un dialogo con la comunità internazionale e il Marocco per risolvere la questione del Sahara Occidentale, ma da parte di Rabat e del re Mohammed VI, ci sono stati solamente gesti di chiusura e di sfida nei nostri confronti» dice Mohammed Lamin Elbouhali, ministro della Difesa.
Così nel deserto del Sud dell’Algeria e nei territori liberati del Sahara Occidentale, quelli al di qua del muro di terra e filo spinato di oltre duemila chilometri costruito dai marocchini, si susseguono parate militari, esercitazioni e ispezioni dell’arsenale bellico da parte dei vertici dell’esercito. «La guerra non è mai una scelta facile, ma non è nemmeno facile continuare a vivere nei campi dopo tutto questo tempo, sapendo che i nostri fratelli dall’altra parte del muro devono subire violenze quotidiane - continua Mohammed Lamin Elbouhali -. Vogliamo che si arrivi a una soluzione il prima possibile, la comunità internazionale si deve prendere le proprie responsabilità e realizzare il referendum promesso. Non dovesse succedere ciò noi siamo pronti a imbracciare di nuovo i fucili per riprenderci la nostra terra. Non possiamo né vogliamo più aspettare. Il tempo a disposizione sta per scadere».
La Stampa 27.12.14
Un popolo in lotta per l’indipendenza
I berberi del deserto che da quarant’anni sono costretti a vivere nelle tendopoli algerine
Sono circa 200 mila e da quarant’anni la maggior parte di loro è costretta a vivere in una striscia di deserto, in campi di tende e case fatte con i mattoni di sabbia. ll popolo saharawi, cioè «sahariano» è costituito dai gruppi tribali arabo-berberi tradizionalmente residenti nelle zone del Sahara Occidentale fin dalla fine del VII secolo. Il 14 dicembre 1960 l’Onu ha votato una risoluzione con la quale si riconosce il diritto all’indipendenza per le popolazioni dei Paesi colonizzati e nel 1966 ratifica l’atto di autodeterminazione del popolo saharawi. Ma il Marocco non sembra intenzionato a lasciare una zona così ricca di fosfati pronti a essere estratti. Il 10 maggio 1973 il Polisario (Frente Popular de Liberación de Saguia el Hamra y Río de Oro) organizza il suo primo congresso di fondazione. Nel 1975 però, il re del Marocco Hassan II si oppone all’Indipendenza e invade i territori. La Spagna stringe un accordo con Marocco e Mauritania per la spartizione del Paese conteso in cui le forze sahrawi iniziano un’azione di resistenza armata. La resistenza dà vita, nel 1976, alla Repubblica Democratica Araba dei Saharawi. Dal 1991 vige il cessate il fuoco, ma i processi di pace non fanno passi
Corriere 27.12.14
Missione Unamid
Sudan, l’Onu verso una riduzione dei caschi blu in Darfur
Bandiera bianca anche della Corte Penale Internazionale che sospende il processo per genocidio al presidente Bashir
In tre anni sono morte 300 mila persone
qui
Corriere 27.12.14
Un’ inedita vecchiaia Così la scienza ha raddoppiato la vita
E l’Italia è fra i Paesi più anziani
di Giangiacomo Schiavi e Carlo Vergani
La scienza ci regala una fuga dal tempo e dalla morte come non si era mai verificato nella storia, scrive Martin Wolf sul Financial Times : ogni anno guadagniamo tre mesi di vita. Ma gli effetti positivi della rivoluzione che ha cambiato la curva della sopravvivenza sembrano oscurati da uno strabismo di fondo: più che ai vantaggi di una grande conquista guardiamo ai problemi. Eppure, soltanto un secolo fa, la durata media di vita era 43 anni mentre oggi è di 79 anni per gli uomini e di 83 per le donne. In più, l’aspettativa di vita, dopo i 65 anni, è di 18 anni per gli uomini e di 22 per le donne. Un salto di qualità nella salute pubblica che meriterebbe degna celebrazione, scrive Wolf, perché la riduzione della mortalità infantile, l’uso delle vaccinazioni e degli antibiotici, i risultati prodotti dall’igiene e dalla medicina, l’aumento delle calorie nella dieta, i nuovi farmaci contro il cancro e l’ipertensione, sono una svolta epocale di cui dovremmo essere più consapevoli.
Negli ultimi cinquant’anni i progressi della scienza sono stati strepitosi. Siamo riusciti a modificare il codice della vita e a cronicizzare malattie un tempo mortali, sono stati definiti i meccanismi che caratterizzano l’invecchiamento a livello molecolare e cellulare, si sono evidenziati i pesi del fattore genico e di quello ambientale, si è preso atto dell’importanza della prevenzione, sono cambiati in meglio certi stili di vita: la lotta al fumo e quella all’inquinamento danno i primi risultati; la medicina interventistica ha fatto passi da gigante; stiamo sperimentando le staminali e le nanotecnologie. «Godiamoci questo allungamento della vita media e cerchiamo di restare il più a lungo in buona salute», dice Wolf.
La questione di fondo, davanti all’innegabile dato di fatto che azzera tante diseguaglianze e offre al mondo un’occasione per riflettere, è proprio questa. Restare in buona salute, ridurre l’incidenza e i costi delle cronicità e garantire una longevità attiva a chi oggi può beneficiare dei progressi della scienza. Una società che invecchia è una società senza futuro, si dice, perché non ha rincalzi generazionali.
Ma è una società senza passato se trascura le sue radici. Un discorso che vale soprattutto per l’Italia, con il Giappone il Paese che invecchia di più al mondo. All’inizio del secolo scorso gli ultrasessantacinquenni da noi rappresentavano il 6 per cento della popolazione: oggi sono il 21 per cento. Nel 2050 diventeranno il 30. C’è da ripensare il sistema sociosanitario, da rivedere il welfare e le politiche del lavoro. Ed è difficile conciliare la legge Fornero che innalza l’età lavorativa con l’immissione di giovani nel mercato produttivo. Ma al tempo stesso è assurdo privarsi della competenza e dell’efficienza di un sessantenne lasciandolo in panchina a carico dello Stato.
Così si procede per inerzia, scaricando sugli ospedali i costi dell’allungamento della vita e sulla previdenza gli oneri dell’avvicendamento sociale. Sono troppi gli anziani che entrano ed escono dalle porte girevoli dei pronto soccorso; e sono pochi i posti di lavoro per i giovani, che ingrossano le file dei disoccupati.
La rapidità con la quale cresce la durata della vita impone la stessa riflessione di Martin Wolf: come garantire un futuro attivo ai longevi che la scienza e la medicina hanno spinto avanti con gli anni e come evitare il collasso del sistema per i troppi costi da sostenere. La svolta, recentemente annunciata dalla Regione Lombardia, che annuncia una legge per rivedere le politiche su ospedali e territorio, è un segnale che va nella giusta direzione: più medicina sull’uscio di casa e meno cure e farmaci (spesso inutili) a carico dell’ospedale.
Fermarsi a ringraziare la scienza per aver raddoppiato la durata della vita in poco più di un secolo, come invita a fare l’economista del Financial Times , è un atto giusto e doveroso. Chi nasce oggi avrà la possibilità di vivere fino a cent’anni, ha ricordato nei giorni scorsi sul Corriere Edoardo Boncinelli.
L’Italia è messa bene, anzi male, a seconda dei punti di vista: è uno dei Paesi tra i più anziani, pigri e sovrappeso d’Europa, con tre milioni di ultraottantenni destinati a triplicare nel 2050, con 16 milioni di pensionati e un esercito di ultrasessantacinquenni pronti a raggiungere, fra trent’anni, quota 20 milioni.
Davanti a una transizione demografica di questa portata ci si deve preparare per tempo, evitando squilibri che presto presenteranno il conto, come avverte l’agenda 2015 dell’Onu che ha messo come obiettivo la riduzione delle cronicità degli anziani. Anziani sui quali pesano le patologie rese curabili dalla moderna medicina: ipertensione, depressione, ictus, infarto, Parkinson, demenza.
Servirà ancora l’aiuto della scienza, ma molto potrà fare una nuova organizzazione sociale e del lavoro, con un sistema in grado di garantire un patto fra generazioni, tra i giovani e gli «anziani inediti» con un valore prezioso: il capitale relazionale.
Il Sole 27.12.14
Libia, spaccata in due e alla deriva
di Alberto Negri
Davanti alla Libia è come se ci fosse da oltre tre anni uno schermo fatto di ipocrisia, indifferenza e proclami velleitari che la rende invisibile alla comunità internazionale. Se dalla sponda Sud nelle ultime 24 ore non fossero arrivati sulle nostre coste oltre 1.200 profughi, salvati dalla Marina Militare, forse si sarebbe persino perduta all’orizzonte la collocazione geografica dell’ex colonia che sta affondando nella guerra civile. C’è da chiedersi se la Libia stessa valga ancora qualche cosa, visto il crollo delle quotazioni del petrolio sui mercati. Non è da escludere neppure questo cinico e miope calcolo di costi e benefici per giustificare un’apparente mancanza di iniziative e di strategia.
Eppure a rendere esplosivo il conflitto libico è proprio questa miscela di interessi energetici e islamismo. L’ultima notizia è che i depositi di carburante di Es Sider, vicino a Ras Lanuf, in Cirenaica, sono in fiamme per gli scontri tra le milizie del governo autoproclamato di Tripoli e quelle del governo “legittimo” di Tobruk. Ma di legittimo in questo Paese non c’è nulla. È in corso una lotta a coltello per il controllo di gas e petrolio e la spartizione di profitti. Il governo di Tobruk, appoggiato dagli stati del Golfo e dall’Egitto, che lo tiene in pugno con le milizie del generale Khalifa Heftar, sta mettendo in piedi un circuito alternativo per gestire i ricavi energetici con lo scopo di tagliare fuori i rivali. L’altro governo, quello di Tripoli, sostenuto dagli islamici di Alba Libica e dalle milizie di Misurata, sta replicando con attacchi ai due grandi porti dell’export, Es Sider e Ras Lanuf, in Cirenaica.
La Libia, dove a Ovest c’è il terminal Eni del gas a Mellita, è diventato ormai un produttore secondario: da 1,6 milioni di barili dei tempi della dittatura la produzione è crollata a 350mila. Non si sa neppure di preciso dove scorre l’oro nero libico, venduto sul mercato anche dagli islamisti di Derna, che hanno dichiarato la loro fedeltà al Califfato. Mentre gli egiziani del generale Al Sisi sostengono il generale Heftar con la speranza di mettere anche loro le mani sulle ricchezze della Cirenaica e collocare la manodopera in eccesso.
La realtà è che questa Libia, sempre più spaccata, rischia di finire vittima degli appetiti interni ed esterni. L’indifferenza internazionale è apparente: intorno all’ex colonia c’è un gran movimento di attori che perseguono interessi propri, non quello della stabilizzazione del Paese. I tunisini, che la loro transizione dalla dittatura di Ben Alì l’hanno appena perfezionata con l’elezione del nuovo presidente, temono la presenza al confine di campi di addestramento dell’organizzazione terroristica Ansar el Sharia mentre nelle scorse settimane sono state segnalati movimenti di forze francesi e africane in avanzata dal Ciad verso il sud della Libia.
Per frenare la disgregazione forse una soluzione è possibile: togliere alle milizie il controllo del petrolio e delle risorse finanziarie. Il problema è come: con un altro intervento internazionale oppure intensificando sforzi diplomatici che l’Onu non riesce a far decollare? La caduta di Gheddafi è stata causata da un intervento militare voluto dai francesi: forse aspetteremo ancora una volta l’iniziativa di Parigi per fare ordine, o disordine, nel cortile di casa.
Repubblica 27.12.14
Il razzismo e le armi insanguinano la mia America ma ecco perché spero
“Molti poliziotti temono i neri e allo stesso tempo li vedono come un facile bersaglio”
scrive la scrittrice afro-americana premio Nobel per la letteratura nel ’93
“Le nuove generazioni però sono diverse. Le proteste diffuse lo dimostrano”
Le cose sono aggravate dai media che amano le storie di violenza, soprattutto se si tratta di persone di colore
Nei cortei ci sono tantissimi giovani: black, bianchi, ispanici. Il futuro può essere diverso
di Toni Morrison
NEW YORK VIVIAMO tempi non facili. Quindi cercherò di darvi semplicemente il mio punto di vista su quello che è lo stato delle cose, oggi, qui negli Stati Uniti. E voglio partire da questo: l’America è un paese inondato di armi. Dove bambini di appena 9 anni vengono portati nei parchi giochi a sparare con armi vere per divertimento; dove le cosiddette leggi “ stand your ground for selfdefense ” (che consentono a una persona armata di sparare a un presunto aggressore in base alla mera percezione di pericolo per la sua incolumità) permettono a chiunque di uccidere chi si trovi nella sua proprietà; dove le leggi dette “ open carry” permettono ai cittadini in molti Stati di portare armi nei locali pubblici: ristoranti, teatri, perfino campus universitari. Senza dimenticare poi che la National Rifle Association e i produttori di armi sostengono economicamente molti politici. In una cultura delle armi e del grilletto facile come questa, quindi, il razzismo violento è un’ovvia conseguenza.
Al razzismo si associa la paura: molti poliziotti (non la maggioranza, ma molti) hanno paura. Temono i neri e allo stesso tempo li vedono quindi come un facile bersaglio, sia per mancanza di formazione professionale sia perché sono profondamente razzisti.
La situazione è aggravata dalle scelte di certi media che qui in America amano le storie di violenza, soprattutto quando si tratta di persone di colore. A riprova di questo voglio fare un esempio, ricordando che non vi fu alcuna levata di scudi quando qualche mese fa alcuni bianchi minacciarono di uccidere la polizia al Bundy Ranch. Cliven Bundy, il proprietario del ranch, era un bianco che rifiutava di pagare le tasse e aveva sollevato una protesta armata, minacciando la secessione e la rivolta contro gli Stati Uniti. Fino a quando il governo, che in questa occasione non sparò neanche un lacrimogeno, si ritirò dal terreno conteso. In quell’occasione chi aveva sparato contro la polizia non è stato nemmeno arrestato. E potrei fare un numero impressionante di esempi discriminatori di questo tipo.
Il vero nodo di tutta la questione rimane sempre lo stesso: il facile profitto che si trae dal razzismo. È stato una fonte di guadagno fin dalle sue origini: con lo sfruttamento gratuito e permanente degli schiavi; con le leggi sul “vagabondaggio”, che permettevano la cattura di qualsiasi persona di colore fuori dalla sua casa per costringerla ai lavori forzati; riempiendo a proprio vantaggio le prigioni a gestione privata incarcerando giovani neri per reati per i quali nessun bianco andrebbe mai in galera; con la repressione degli elettori nelle comunità dove i neri sono in maggioranza. Senza dimenticare il deliberato incitamento al razzismo da parte dei ricchi, così che i bianchi poveri si possano sentire superiori agli altri e non pensino a rivolgere la loro rabbia contro la classe che li sfrutta e li inganna.
In questi tempi cattivi, alcuni vorrebbero che il presidente Obama facesse di più. Ma io non credo che il presidente avrebbe dovuto “fare di più”. Che cosa poi? Barack Obama è il presidente di tutti, non il presidente dei neri. Non dimentichiamo che sua madre e chi lo ha cresciuto erano bianchi. Spesso i giudizi e le reazioni politiche, sono il frutto della piaggeria e del desiderio di apparire in tv, per mostrare quanto “si conta”: è il caso dell’ex sindaco Giuliani, che ora si mostra come il protettore dei poliziotti, ma che a suo tempo è stato odiato da loro come tutti i sindaci di New York, compreso l’attuale sindaco de Blasio, che oggi i sindacati di polizia accusano, a torto, di avere «le mani sporche di sangue».
Nonostante tutto, comunque, la mia speranza è più forte che mai, grazie alle nuove generazioni. Ho assistito a grandi cambiamenti negli anni in cui ho insegnato a Princeton: ho visto adolescenti e ventenni, sconvolti e disgustati dal razzismo sfacciato. Vedo che nelle manifestazioni che si svolgono spontaneamente in tutto il paese ci sono tantissimi giovani: neri, bianchi, ispanici. Non bisogna credere ai media che mostrano proteste violente; la maggior parte di esse non lo è; i manifestanti sono pacifici, sono le loro richieste a essere forti e decise. Naturalmente, ci sono gli outsider che si insinuano nelle manifestazioni e accendono focolai di violenza; ma questo è sempre successo. Dall’altra parte vediamo proteste diverse: come quella di medici, infermieri e tirocinanti che in diversi ospedali d’America si sono sdraiati in massa per terra nei loro camici bianchi per quello che viene chiamato un “die-in”, una protesta pacifica dove ci si finge morti per denunciare il fatto che la polizia non viene mai chiamata a prendersi la responsabilità delle proprie azioni. È questo il tenore della maggior parte delle manifestazioni: ma la stampa tende a ignorarlo.
Davanti a tanta partecipazione, quella di migliaia di americani ovunque e senza distinzioni di classe, sono fiduciosa e ottimista. E nutro l’incrollabile speranza che le cose cambieranno in meglio, con il tempo e con le generazioni che verranno. Ne sono sicura. (Testo raccolto da Anna Lombardi. Traduzione di Anna Pastore)
Repubblica 27.12.14
Una settimana nell’assedio di Kobane
Sono rimasti solo 7mila civili, tra cui mille bambini
La popolazione è convinta di poter respingere gli integralisti dell’Is
Grazie al coraggio delle donne, sempre più protagoniste dei combattimenti
di Ivan Campasso
con un commento di Alberto Stabile
qui
Repubblica 27.12.14
Intervista al filosofo Tzvetan Todorov
“Democrazia significa resistenza”
I valori in pericolo, i paesi occidentali “paesi della paura”, la Cia e le torture la necessità di credere nell’Europa.
“L’economia è la volpe libera nel pollaio che priva della libertà le galline”
“La disuguaglianza è aumentata e un individuo povero è un individuo debole”
di Berna Gonzalez Harbour
NEL 2003, Tzvetan Todorov stilò un inventario dei valori, una lista di buone intenzioni che l’Europa ha tentato di esportare nel mondo con la stessa risolutezza con cui ha esportato automobili, ortaggi o tecnologia dell’alta velocità. Non è che inventasse nulla, era tutto già più o meno scritto nelle nostre carte dei diritti, nelle nostre costituzioni: la libertà individuale, la razionalità, la laicità, la giustizia. Sembrava ovvio. Oggi, tuttavia, Todorov vede allontanarsi quei valori come quel punto all’orizzonte che sembrava raggiungibile e invece riappare di nuovo lontano. «Quando diciamo valore, non significa che tutti lo rispettino, è più un ideale che una realtà, un orizzonte verso il quale siamo diretti», dice. «In questo momento, tuttavia, questi valori sono minacciati».
Il filosofo bulgaro naturalizzato francese, Premio Principe delle Asturie per le Scienze Sociali nel 2008 e una delle voci più influenti del continente, colloca il punto di svolta, la curva in cui tutto è svanito, non nella crisi scoppiata nel 2008, ma nella caduta del Muro di Berlino e nella rottura, a partire da quel momento, dell’equilibrio tra le due forze che devono convivere in una democrazia: l’individuo e la comunità.
Vale ancora il suo inventario dei valori? La libertà dell’individuo, per esempio?
«La nostra democrazia liberale ha lasciato che l’economia non dipenda da alcun potere, che sia diretta solo dalle leggi del mercato, senza alcuna restrizione delle azioni degli individui e per questo la comunità soffre. L’economia è diventata indipendente e ribelle a qualsiasi potere politico, e la libertà che acquisiscono i più potenti è diventata la mancanza di libertà dei meno potenti. Il bene comune non è più difeso né tutelato, né se ne pretende il livello minimo indispensabile per la comunità. E la volpe libera nel pollaio priva della libertà le galline».
Oggi, quindi, l’individuo è più debole. Quale libertà gli rimane, allora?
«Paradossalmente è più debole, sì, perché i più potenti hanno di più, ma sono un piccolo gruppo, mentre la popolazione si impoverisce e la disuguaglianza è aumentata vertiginosamente. E gli individui poveri non sono liberi. Quando non è possibile trovare il modo di curare la tua malattia, quando non puoi vivere nella casa che avevi, perché non la puoi pagare, non sei più libero. Non puoi esercitare la libertà se non hai potere, e allora diventa solo una parola scritta sulla carta».
Eppure, l’uguaglianza è un valore fondativo delle nostre democrazie. Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale?
«Se non si può rispettare, un contratto sociale non è una gran cosa. L’idea di uguaglianza è ancora presente alla base delle nostre leggi, ma non sempre viene rispettata. Il tuo voto conta quanto il mio ma l’obiettivo della democrazia non è il livellamento, quanto piuttosto offrire lo stesso punto di partenza a tutti in quanto uguali davanti alla legge, perché i soldi non comprano la legge. Ma questo principio non si rispetta. Guardate quello che hanno appena approvato i legislatori degli Stati Uniti: hanno moltiplicato per dieci i soldi che possono spendere per una campagna elettorale. Chi non ha soldi non potrà godere della libertà supplementare di spendere riservata a quelli che ce li hanno. È questo pericolo di una libertà eccessiva di pochi che impedisce l’uguaglianza di tutti».
Quando i diritti diventano
una realtà formale, che cosa ci rimane?
«Ci rimane la possibilità di protestare, di rivolgerci alla giustizia. Non bisogna cambiare i principi, perché sono già scritti, ma abbiamo visto che ci sono molti modi per schivarli ed è necessario che il potere politico non capitoli di fronte alla potenza di quegli individui che infrangono il contratto sociale a loro favore. L’idea di resistenza mi sembra fondamentale nella vita democratica. Bisogna essere vigilanti, la stampa deve svolgere un ruolo sempre più importante nel denunciare le violazioni dei partiti, bisogna che la gente possa intervenire, ma so che questo richiede di essere sufficientemente vigilanti, coraggiosi e attivi».
Lei parla della gente, ma il potere non deve cambiare? Che cosa possiamo aspettarci da poteri molto locali di fronte a una realtà globalizzata?
«Dobbiamo rafforzare le istanze europee, perché l’economia è globalizzata. L’Unione Europea è il più grande mercato del mondo, con 500 milioni di cittadini attivi e di consumatori con una grande tradizione nell’equilibrio tra difesa del bene comune e libertà individuale. Se facciamo vivere questa tradizione europea, se permettiamo che esistano organi più efficaci e attivi nell’Unione, potremo affrontare l’evasione fiscale, i paradisi fiscali e anche decisioni fondamentali come quelle sull’approvvigionamento energetico».
Ha fiducia nella sua leadership? In leader capaci di offrire l’impunità fiscale per attirare gli evasori nel loro territorio, come ha fatto Juncker in Lussemburgo?
«Se non ci fidiamo di loro devono prendersi le loro responsabilità. Il Parlamento, così come li ha eletti, dovrebbe poterli destituire».
Nel 2008, definì i paesi occidentali come i «paesi della paura» rispetto ai paesi dell’appetito, del risentimento o dell’indecisione. Non siamo vittime di tutto questo?
«Le devastazioni causate dalla paura sono state immense, come abbiamo visto nel rapporto del Senato degli Stati Uniti sulle torture della Cia o nel caso Snowden, che ha rivelato che l’America controllava il telefono di Angela Merkel, come se lei potesse rappresentare una minaccia. L’idea che si possa legalizzare la tortura è uno shock per chi crede nel valore della democrazia e gli europei l’hanno accettata docilmente. Le rivelazioni di Snowden sono molto inquietanti per il principio che c’è dietro, il principio di uno Stato quasi totalitario che raccoglie tutte le informazioni possibili sui suoi cittadini, come facevano il Kgb o la Stasi in paesi totalitari come l’Urss o la Germania dell’Est. Allora si usava un sistema di delazioni anonime oggi divenuto arcaico, perché la tecnologia rende più facile raccogliere informazioni, ma in tutto questo le libertà individuali si riducono a una chimera».
Quale sarà l’Europa dopo la crisi?
«Non so se la crisi finirà, sappiamo che le economie non obbediscono a spinte razionali, ci sono spinte di passione o di follia, spinte che sfidano tutti i pronostici, forse scomparirà nel 2015, o forse mai, o potremmo restarci dentro per altri dieci anni».
Traduzione di Luis E. Moriones © 2-014 Berna González Harbour ( Ediciones El País, Sl)
Corriere 27.12.14
Usate (tutto) il cervello. Il ritorno dell’ipnosi
Freud la rinnegò ma poi continuò ad usarla. Ora si torna a praticarla
Lo scopo? Fare meglio quello che già sapete fare
di Luisa Pronzato
Un cavallo che raglia e una torta volante. Disubbidiente pure in trance. No, dice poi l’ipnotista: «Tu stemperi le difficoltà con la leggerezza». «Sei calma e tranquilla...», ripete la sua voce nei primi minuti della mia seduta. Idee e urgenze si aggrovigliano. Quel «calma e tranquilla» fa a botte con la mia nevrosi. Vorrei ridere, non lo faccio. «Percepisci ogni sensazione ed emozione», dice ancora la voce. E il respiro diventa punto di concentrazione. Nei primi minuti con riluttanza.Via via che l’induzione alla trance prosegue, aspetto la successiva indicazione. Quasi subito prende nitidezza l’immagine mentale del mio antico fallimento. Due anni fa avevo deciso di iniziare a scrivere un romanzo. Senza riuscirci, paralizzata dall’ansia della perfezione. Uno stato d’animo che spesso blocca me e non solo. Rivedo quei fogli, rivedo le sottolineature arancioni sui focus e marroni sugli snodi. Mi vedo. Sento il battito veloce, la mandibola irrigidita. La sensazione è fisica: proprio quella di allora. Ed è a questo punto che arriva il cavallo “ragliante”. L’ipnotista tamburella sulle mie ginocchia e con la voce mi accompagna a ridimensionare l’ansia per proseguire il viaggio interiore. Nessun colpo di scena. Nessun ordine che mi abbia fatto cascare lessa. L’ipnosi, nonostante Freud l’avesse rinnegata, non è mai stata accantonata. «Lui continuò a usarla, negandolo per ragioni di marketing», sostiene Felice Perussia, docente di Psicoteniche all’Università di Torino. Ne è cambiata la visione. Quella in cui le indicazioni suonano come imperativi è rimasta nelle trance da spettacolo. Dalle fasi magico-religiosa di primo ‘700 a quella magneto-fluidica di Mesmer e Charcot a quella Psicologica di Forel e Freud, in qualche secolo ha preso campo la voce che accompagna. «Nello stato di trance puoi lasciare che la tua mente inconscia passi in rassegna il vasto deposito di cose che hai appreso nel corso della tua vita», scriveva, Milton Erickson uno dei maestri di inizio ‘900. «Molte cose imparate senza saperlo, molte conoscenze che non ritenevi importanti a livello conscio sono scivolate nell’inconscio». La credibilità scientifica è arrivata con le tecniche di neuroimaging che ne rilevano e misurano il funzionamento anatomico e fisiologico. Diverse sono le applicazioni: per recuperare sonno: pochi minuti valgono ore, come cura complementare, recuperando in stato di trance i globuli bianchi distrutti dalle chemio. Oppure per affrontare fobie, lutti, crescita personale.
Ti fidi? Abbandonare la volontà? Le reazioni all’annuncio che avrei fatto una seduta di ipnosi grondano di diffidenza. Qualcuno, invece, ammette: l’ho fatta. Chi ha affrontato la paura di volare, chi le dipendenze, un’amica, allergica alle anestesie, sulla sedia del dentista. «L’ipnotista è un allenatore che accompagna ad attingere alle proprie capacità», dice Felice Perussia. «L’ipnosi è metrica». È quel ritmo monotonale che induce dalla veglia alla trance, con parole chiave che si ripetono con una certa ridondanza. Le accogli, sei vigile, anche se i 10 minuti in cui sei stata a occhi chiusi sono mezzora. Il tempo è uno dei test della trance, come l’allucinazione (la mia è stata un colpetto alla spalla, quella che si inclinava sui fogli che mi agitavano). «Fisiologicamente è uno stato di coscienza amplificato», dice Giuseppe Vercelli, psicoterapeuta. Perché entrarci? Per lavorare sulle proprie parti migliori. O chiamarle a rapporto quando servono. «Un’atleta può amplificare qualsiasi cosa sappia fare bene», dice Vercelli che ha partecipato alle Olimpiadi di Torino, Pechino, Vancouver e Londra come psicologo del Coni. «I canoisti italiani a Pechino, temevano di perdere resistenza. In trance abbiamo trasformato la fatica in energia supplementare. È lo stimolo fisico a tirarla fuori. Alcuni secondi. Quelli che servono». L’estrema attenzione al risultato può essere fuorviante come l’ambiente di una gara. «In trance si riporta il focus su di sé», dice Vercelli che ha lavorato con Giorgio Rocca e segue Nadia Franchini. «Nel lavoro con l’ipnotista si scelgono impercettibili gesti rituali, si sviluppano in studio, e si attivano quando si vuole».
Corriere 27.12.12
I numerosi nemici del multiculturalismo
risponde Sergio Romano
Il 4 agosto 2013 Putin ha pronunciato un discorso alla Duma a proposito delle tensioni con le minoranze di qualsiasi origine e presenti nel suo Paese. A proposito dei musulmani, ha detto: «In Russia si vive come i russi. Qualsiasi minoranza, dovunque essa provenga, se vuole vivere in Russia, lavorare e mangiare in Russia, deve parlare il russo e rispettare le leggi russe. Qualora preferisse la legge della Sharia e vivere come musulmani, noi gli consigliamo di andare in quei Paesi, dove la Sharia è legge di Stato». Non dice no ai musulmani, ma dice sì, a certe condizioni, che sembrerebbero ovvie. Credo che i suoi lettori apprezzerebbero un commento.
Paola Balestroni
Cara Signora Balestroni,
Nelle parole di Putin alla Duma vi sono almeno due elementi. Vi è anzitutto il ritorno allo «slavofilia», un movimento culturale dell’Ottocento che si contrappose per molti decenni alle correnti modernizzatrici e filo-occidentali della società russa. Non credo che il presidente Putin ne condivida gli aspetti più conservatori, fra cui l’esaltazione della civiltà contadina, ma non può ignorare che la scomparsa dell’Unione Sovietica ha risvegliato i pregiudizi etnici e religiosi diffusi nella Russia zarista. Il comunismo ha avuto molte colpe, ma la sua ideologia universale gli aveva permesso di condannare queste forme di razzismo, oggi libere di esprimersi soprattutto contro i musulmani e le popolazioni caucasiche. Essere «slavofilo», per un uomo politico russo, può essere oggi politicamente redditizio.
Il secondo elemento, più contemporaneo, è la denuncia del multiculturalismo, vale a dire dell’ideologia che aveva ispirato molte società occidentali sino al considerevole aumento dell’immigrazione dal «Terzo mondo» verso la fine del secolo scorso. In questo campo Putin è in buona compagnia. La denuncia dell’immigrazione come inammissibile attentato alla identità nazionale appartiene ormai all’arsenale ideologico di molti partiti e leader politici. Ha ispirato la nuova legge fondamentale dello Stato ungherese, approvata durante il governo di Viktor Orban. Potrebbe ispirare, anche se per motivi diversi, due possibili leggi israeliane sulla natura ebraica dello Stato e sul declassamento dell’arabo da lingua ufficiale a lingua tollerata. È la principale causa del successo elettorale di molti movimenti di destra, dal Fronte nazionale di Marine Le Pen al partito per l’indipendenza del Regno Unito di Nigel Farage, dai Demokraten svedesi al Partito olandese per la Libertà di Geert Wilders.
Persino in Germania, dove ogni forma di razzismo risveglia orribili memorie e suscita reazioni immediate, abbiamo assistito a manifestazioni di nazionalismo identitario. Qualcuno ha suggerito che agli immigrati venga insegnata la «leit-kultur» (cultura dominante) e venga prescritto di parlare tedesco anche in famiglia. Thilo Sarrazin, uomo politico social-democratico e ex banchiere centrale, ha scritto un libro ispirato agli stessi concetti ( La Germania si auto-elimina ) che ha venduto un milione e centomila copie. Concetti simili traspaiono dal programma di un partito («Alternative für Deutschland») che ha riscosso qualche successo nelle elezioni regionali e, in misura ancora più pronunciata, nelle recenti manifestazioni, soprattutto in Sassonia, di un gruppo denominato Pegida, acronimo tedesco di «Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente».
Le parole di Putin sono inquietanti, ma non bisogna dimenticare che la Russia continua a essere, nonostante tutto, un Paese multiculturale, capace d’integrare popoli diversi. Quanto all’Europa, cara Signora, la politica dell’Ue in materia di diritto d’asilo è ancora, nonostante i malumori di una parte delle sue società, complessivamente esemplare.
Corriere 27.12.14
Segnalibro
di Antonio Carioti
Un tempo tra i giovani missini si evocavano le immaginarie «camicie di ghiaccio» islandesi per canzonare gli appassionati di fascismi minori. Eppure in Islanda un piccolo gruppo che s’ispirava al Terzo Reich, agitando il martello Thor, è esistito sul serio. Ne parla Marco Fraquelli nel libro Altri duci (Mursia, pp. 627, e 26), una rassegna varia e minuziosa dei movimenti fascisti che spazia dall’Albania alla Svizzera, con prefazione di Giorgio Galli.
È una lunga galleria di ritratti, interviste e delitti il saggio Anime nere di Massimiliano Griner (Sperling & Kupfer, pp. 396, e 18), che investiga con grande competenza sui fatti e gli ambienti dell’eversione neofascista negli anni di piombo. Di particolare interesse il capitolo sulla strage di Peteano, in cui l’autore ipotizza che la versione fornita dal reo confesso Vincenzo Vinciguerra non sia attendibile.
La Stampa 27.12.14
Quando Freud e Dio parlano del mondo
L’improbabile incontro avviene in epoca nazista Perfetti nei ruoli Alessio Boni e Alessandro Haber
Vienna 1938. Benché vessato dai nazisti che si sono annessi l’Austria, il vecchio Sigmund Freud non vuole cedere loro riparando all’estero, convinto di essere protetto dalla sua fama internazionale; e non vuole fruire di privilegi negati ai suoi compatrioti di etnia ebraica. Ma così facendo, e ignorando sia le esortazioni di sua figlia Anna sia la tracotanza dell’ufficiale che lo ha preso di mira, scherza col fuoco. Ad aprirgli gli occhi è un misterioso giovane che gli piomba in casa come fosse un fuggiasco dalla polizia e che prima lo impegna in una discussione parafilosofica, poi gli dà impressionanti manifestazioni della propria preveggenza, infine lo convince ad approfittare del momento e a partire con Anna per Londra. Chi è costui? Secondo Eric-Emmanuel Schmitt, autore de Il visitatore, nientemeno che Dio: Dio che per rivelarsi all’illustre positivista ha assunto un’altra volta una personalità umana, di un bel giovane attore, giacché c’era; e adesso il comprensibile sgomento suscitato nel suo interlocutore lo diverte.
Trovate questa situazione un po’ difficile da mandar giù? Io, francamente, sì. Ma da cronista mi corre l’obbligo di riferire che gli spettatori invece sembrano accettarla senza la minima esitazione; e da critico, quello di domandarmi come ciò sia possibile. Il fascino degli interrogativi suscitati nel dialogo è dubbio, gli argomenti sono banalotti e trattati in modo superficiale; a un certo punto Freud arriva banalmente a chiedere a Dio, per convincersi, di fargli un miracolo. Però teatralmente la tensione della situazione prende, la minaccia del nazista è inquietante, e così la reazione dell’appassionata Anna Freud. Più di tutto però è notevole la squisita esecuzione diretta da Valerio Binasco in una semplice, plausibile scenografia di Carlo De Marino, con tempi impeccabili (sono 100’ filati) e eccellenti prestazioni dei comprimari Nicoletta Robello Bracciforti e Alessandro Tedeschi, così come dei principali: un Alessio Boni adeguatamente sornione come Dio, e soprattutto un Alessandro Haber impagabile negli smarrimenti del suo psicologo.
La Stampa 27.12.14
Respinto l’ultimo ricorso
Il regista Polanski non potrà tornare negli Usa
Per Roman Polanski l’America resta un sogno irraggiungibile. Alla vigilia di Natale si è consumato l’ennesimo capitolo di una vicenda giudiziaria lunga 37 anni e che vede il regista di Rosemary Baby accusato di stupro ai danni di una minorenne. Ancora una volta un giudice della Corte Superiore di Los Angeles ha respinto la richiesta del team legale del regista di concedere l’archiviazione del caso, che risale al 1977, e che vede Polanski accusato di violenza sessuale con l’ausilio di sostanze stupefacenti ai danni di una ragazzina di tredici anni, Samantha Geimer. L’archiviazione consentirebbe all’artista, premio Oscar per la regia del Pianista nel 2003, di poter fare ritorno negli Usa, paese dal quale fuggì nel 1978. Dal 1975 possiede la cittadinanza francese e non può essere estradato.
Nel 2011 Polanski chiese pubblicamente scusa a Samantha Geimer, oggi cinquantenne, che ha detto di non avere risentimenti e di volere che il caso sia chiuso senza ulteriori condanne. Ancora una volta però la richiesta dei legali di Polanski è stata respinta. [S. N.]