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Per il cinema americano il sogno si fa incubo
di Marco Cacioppo
VENEZIA. Di fronte alle decisioni prese in questi ultimi mesi dal presidente Trump in ambito di politica interna ed estera, è lecito affermare come lo slogan che aveva accompagnato la sua corsa alle elezioni – quel Make America Great Again ripetuto come un refrain martellante – sia in realtà diventato l’antitesi del messaggio ottimista che si proponeva di veicolare. La terra dell’abbondanza, un tempo cantrice di valori universali quali speranza, libertà e uguaglianza, non è mai stata così arida, razzista e paranoica. E il sogno americano non è mai parso tanto irraggiungibile. Non sarà un caso, allora, se molti dei film a stelle e strisce che si sono visti durante la 74° edizione della Mostra del Cinema di Venezia siano stati percepiti come la fotografia, puntuale e perfino profetica per i giorni che verranno, di una situazione sempre più instabile e quanto mai imprevedibile. Il cinema, si sa, non mente. È in questo senso che quattro film apparentemente insospettabili e diversi tra loro – un fantasy, una commedia fantascientifica, un noir in costume e un crime movie – ci dicono molto dell’aria che tira in questo momento all’ombra della Casa Bianca, accomunati da una innegabile vena polemica e antitrumpista. Prendiamo The Shape of Water, il nuovo, magnifico film di Guillermo del Toro. Attraverso il linguaggio della favola (romantica ma pur sempre dark) e la love story impossibile tra una donna muta e malinconica e una creatura anfibia antropomorfa, rispolvera le ossessioni cospirazioniste di un Paese che non è mai riuscito a estinguere le tensioni nei confronti dell’arcinemico sovietico. Il film è ambientato negli anni ’60 e si svolge per lo più all’interno di una base di ricerca aerospaziale. I preparativi per la conquista della Luna sono in fermento, filtrati dai piccoli schermi delle tv in bianco e nero dell’epoca. Eppure riesce a essere di un’attualità disarmante, in quanto la guerra di sotterfugi che si fanno Cia e spie russe sullo sfondo della bizzarra storia ha molto in comune con i recenti avvenimenti che hanno fatto esplodere il caso del Russiagate. Per non parlare del dispotico e arrogante personaggio del capo delle operazioni scientifiche e militari interpretato da Michael Shannon, in cui è impossibile non riconoscere lo stesso sprezzante temperamento di The Donald. Se in The Shape of Water l’umanità è in procinto di partire alla scoperta dello spazio profondo, in Downsizing di Alexander Payne assistiamo a uno slancio uguale ma contrario. La traiettoria del viaggio non è rivolta verso l’esterno e ciò che in esso vi è di esplorabile, ma rimane puntata sul nostro pianeta. Qui il problema ha a che fare con il sovrappopolamento, lo sfruttamento delle risorse e le poco rassicuranti derive ambientali, in barba agli accordi di Parigi. La soluzione, allora, non sta più nell’individuazione di altri mondi a misura d’uomo e in grado di ospitare nuovi insediamenti coloniali. Attraverso una rivoluzionaria tecnica di rimpicciolimento messa a punto da un luminare norvegese, è possibile ridurre a dodici centimetri la statura di un uomo ed edificare idilliache comunità urbane sostenibili dove agli abitanti è data, in cambio di un sacrificio lillipuziano, l’opportunità di vivere le vite da nababbi che hanno sempre sognato con le stesse disponibilità economiche di prima. Perché se le proporzioni non sono un’opinione all’interno di questi micro-paradisi artificiali, una reggia delle dimensioni di una casa delle bambole costa meno di un monolocale tradizionale. È il lusso a portata di tutti, la democratizzazione dell’American Dream, l’agiatezza offerta in serie. Il processo di miniaturizzazione che Payne ci propone non è altro che un tuffo nell’era Trump, dove i benefici sono in superficie, ma basta grattare un po’ per accorgersi che i problemi –di razza, appartenenza, accettazione–sono più accentuati di prima, e i diritti che costituiscono una democrazia (incluso quello di voto) sono messi in discussione. Succede così che anche in un mondo ridimensionato le gerarchie persistono e l’uguaglianza ha più un valore retorico che di fatto: i muri al confine con il Messico sono già stati eretti e le minoranze sembrano esistere solo per soffrire. Che l’America grande e perfetta di Trump sia una bufala bella e buona, ce lo dicono anche George Clooney e Martin McDonagh. Il primo con il suo nuovo film da regista, Suburbicon, da una sceneggiatura scritta negli anni ’80 dai fratelli Coen, ma ambientata sul finire degli anni ’50, come a dire ancora una volta che la storia non fa altro che ripetersi. Il secondo con Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, su un caso di stupro insoluto che scoperchia, non senza qualche sorriso grottesco, il vaso di pandora contenente le disfunzioni più tipiche della rozza, bifolca e ottusa provincia americana. Nel caso di Suburbicon il collegamento con Downsizing non è dato solo dalla condivisione dello stesso protagonista, Matt Damon, ormai nuovo volto dell’american citizen qualunque. È l’idea di una società all’apparenza perfetta, che serve a Clooney per mostrarci la deriva xenofoba, violenta e paranoica dell’America di oggi. È l’imposizione della supremazia bianca, nonché la salvaguardia della proprietà privata, valori inattaccabili che giustificano il possesso delle armi e il principio della giustizia fai-da-te, apparentemente unica soluzione anche per i protagonisti di Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, membri di una comunità di redneck dove le forze dell’ordine picchiano i neri e defenestrano gli omosessuali. Insomma, se gli elettori di Trump confidavano in un ritorno in grande stile del loro Paese, è tutto fuorché roseo il futuro che li attende. Visioni | Da The Shape of Water a Suburbicon, i film Usa a Venezia raccontano il declino del Paese nell’era Trump. Che ha trasformato la terra delle opportunità in un cortile paranoico, violento e razzista.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 9 settembre 2017
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Quel libro piacerà, lo dicono i big data
Editoria | Dietro lo sbarco in Italia di HarperCollins e Planeta c’è una strategia
globale per rispondere ad Amazon: la sfida non è più nella produzione e nella
distribuzione, ma negli algoritmi e database per individuare i pubblici e i loro gusti
di Samuele Cafasso e Luigi Cruciani.
In Italia, almeno finora, sono dei nani, ma seduti sopra le spalle di giganti. E potrebbero cambiare il Dna dell’editoria nazionale in nome dei big data, una mutazione genetica già avviata in tutto il mondo da Amazon. Quando fu annunciata la grande operazione di Mondazzoli, da più parti si urlò, un po’ troppo frettolosamente, alla morte del pluralismo editoriale. In realtà, paradossalmente, non c’è mai stato negli ultimi anni un periodo di così grandi stravolgimenti nell’una volta placido stagno dell’editoria italiana. La crescita di Giunti con Bompiani, la nascita di La nave di Teseo, il ritorno di Marsilio e Adelphi come case indipendenti, un rinnovato protagonismo della piccola editoria. E poi due grandi gruppi internazionali che sbarcano da noi: HarperCollins (in proprio) e Planeta (in joint venture con DeAgostini). I nani sulle spalle dei giganti, appunto. Che senso hanno operazioni del genere in un Paese dove i lettori sono solo il43%, un grande player ha il 40% del mercato, la distribuzione e le librerie sono in una situazione di oligopolio? Scenario scoraggiante, ma bisogna tenere conto di due cose. La prima è che oggi, su tutti i mercati culturali, avanzano i grandi brand internazionali: vale per la televisione e si sta iniziando a vedere anche nel giornalismo periodico. Il secondo fattore si chiama big data.
• La parola chiave: profilazione
«Se la concorrenza una volta stava nel controllo della distribuzione e della produzione, domani si giocherà su database, metadati e clienti. Non si può più sparare nel mucchio, serve un approccio mirato», spiega Laura Donnini, direttore generale e publisher di HarperCollins Italia (e presidente della società che edita questo giornale, News3.0) che ha inaugurato i suoi uffici a Milano prima dell’estate. Si parte con 60 titoli l’anno e piccole quote di mercato. Per capire cosa intenda Donnini, già presidente di Rcs Libri, bisogna affidarsi a un numero: 65 mila. Tanti sono i titoli italiani che ogni anno vengono pubblicati nel nostro Paese. Un libro resta sullo scaffale tre settimane, quando va bene; in venti giorni deve trovare i suoi lettori. Come raggiungerli in un mondo dove le recensioni sui giornali sono sempre più scarse –e a volte valgono ancora meno in termini di copie –la pubblicità è troppo costosa e il traino televisivo è solo per pochi? Amazon ha trovato una risposta nei big data: il segreto è profilare al massimo i clienti, sfruttare le correlazioni negli acquisti: “Se hai letto questo, ti piacerà anche...”. È lo stesso meccanismo utilizzato nelle serie televisive da Netflix, o da Facebook nella proposta di contenuti, amici, pagine da seguire. Per fare questo, però, serve una gigantesca mole di dati. Ed è ciò a cui puntano i grandi gruppi editoriali espandendosi su più Paesi.
• Come nasce un nuovo titolo
Una strategia utilizzata pure da Planeta, gruppo già presente in Spagna, Francia, Sud America e giunto in Italia a braccetto con De Agostini.Anche per Gian Luca Pulvirenti, amministratore delegato di DeA Planeta, il futuro dell’editoria si gioca in gran parte nella ricerca dei contenuti da proporre a un potenziale pubblico e delle modalità comunicative con cui intercettarlo. Ecco rispuntare social, big data e database. «La nostra casa editrice parte da lì al momento del lancio di un nuovo titolo, come ci accingiamo a fare adesso per l’uscita autunnale del libro di Cara Delevigne. Chiaramente è un processo in divenire, ma quella è la strada. Essere ora all’interno di un grande gruppo internazionale ci permette di attingere a un bagaglio di esperienza già acquisito», afferma Pulvirenti. Che poi devia verso una considerazione sul re della profilazione attraverso le informazioni personali dei clienti: «Amazon custodisce gelosamente i dati raccolti, anche se questi riguardano gli editori presenti sulla piattaforma. Questo dovrebbe portare a una riflessione, ma dovrebbe anche essere uno stimolo».
• Vendite aumentate fino a sette volte
«Vince chi meglio di altri sa mettere in connessione autori e lettori», spiega Donnini. HarperCollins è presente in 18 Paesi.Il livello base delle sinergie è riproporre in ognuno di essi formule il cui successo è stato sperimentato altrove. Ma c’è molto altro, ad esempio sul fronte degli algoritmi per i motori di ricerca e le librerie digitali: «Abbiamo sviluppato dei modelli di metadatazione che possono aumentare le vendite anche di sette volte: l’utilizzo di determinate parole chiave nelle quarte di copertina aumenta la possibilità di essere agganciati nelle ricerche». Di più: «Facciamo indagini sui nostri lettori tramite il digitale in molti Paesi». Questo può essere utile, ad esempio, nello studio delle correlazioni: a novembre arriverà in Italia un thriller di un’autrice che ha avuto grande successo all’estero, Karin Slaughter. «Esiste tutto un dossier costruito attraverso consumer research: possiamo sapere, ad esempio, quanti dei lettori della Slaughter sono lettori anche di Patricia Cornwell (grande successo in Italia, ndr) e quindi rivolgerci direttamente a loro». La questione dei big data è centrale e ci dice qualcosa, tra l’altro, sulla fine dei mercati editoriali come recinti nazionali, ognuno perimetrato da gusti e sensibilità diversi. Andiamo verso l’uniformazione? «È già così», taglia corto Donnini,«la globalizzazione dei gusti è un dato di fatto. I bestseller sono bestseller ovunque». Spiega Paola Dubini, docente alla Bocconi ed esperta di mercati editoriali, «che l’arrivo dei gruppi stranieri in Italia non è certo una novità, si pensi a Pearson nella scolastica o al caso di Walt Disney con Topolino».Quello che cambia adesso è che«Amazon ha abbattuto le barriere geografiche della distribuzione. Se il mio prodotto, soprattutto inversione digitale, è immediatamente disponibile su tutti i mercati nazionali, diventa sempre più conveniente gestire direttamente i miei autori su scala internazionale».
• La globalizzazione del gusto
Cambiano anche, seguendo i gusti del mercato, i principali settori di focalizzazione dell’offerta. HarperCollin è forte sulla narrativa femminile, gli young adult, i libri legati ai film in uscita, un certo tipo di saggistica lontano dalla politica e dall’accademia. «Forse gli editori internazionali sono un po’ meno puzzoni di quelli nazionali, che hanno la tendenza a considerare i bestseller prodotti di serie B», azzarda Donnini, per poi mettere le mani avanti: «Io non faccio il Calasso (patron di Adelphi, ndr) della situazione perché non ho un catalogo letterario, ma popolare non vuol dire di massa. In gergo direi che siamo commercial upmarket: libri di qualità, ben scritti, ma che non siano rivolto a una micro-nicchia di lettori». «La globalizzazione del gusto non è solo un’imposizione, ma un fenomeno di accelerazione comunicativa che non obbligatoriamente significa livellamento. Bisogna provare a sfruttarne il lato positivo, che potrebbe tradursi in una crescita dei lettori », aggiunge Pulvirenti. Eppure, ovviamente, la questione della qualità della proposta editoriale è un tema ineludibile. Come spiega Paola Dubini, «il rischio della iper-industrializzazione dell’editoria, dove contano i grandi numeri e poco le politiche di autore, non è una questione diAmazon o dei grandi gruppi internazionali contro gli editori italiani. Questi ultimi possono e spesso agiscono sui vari mercati con rispetto e attenzione per le specificità locali e la qualità della proposta. Ma il discorso è un altro: è ovvio che se i gruppi nazionali, per le difficoltà di mercato, tendono a modificare la loro proposta intaccando l’autorevolezza del loro marchio e puntando semplicemente sui numeri, altri soggetti più grandi possono fare questo lavoro meglio di loro». Cinquanta sfumature di grigio, tanto per capirci, è arrivato in Italia con Mondadori che, per altro, nello stesso catalogo ha autori di grandissimo valore. Certo, se Mondadori fosse solo Cinquanta sfumature di grigio, oggi sarebbe un grosso problema. Perché i grandi gruppi sullo stesso campo da gioco sono superiori.
• Un futuro senza editori?
Ma qui stiamo parlando di scenari futuribili, fino alla distopia di una editoria senza editori, sostituita da big data e programmi in grado di individuare la ricetta perfetta del bestseller. Per adesso, è ancora questione di professionalità e persone. E lo sbarco in Italia dei big dell’editoria è fatto anche di questo, con alcuni cambi di casacca importanti e discussi. DeAPlaneta è la nuova casa del responsabiledella narrativa italiana Stefano Izzo e della responsabile della narrativa straniera Francesca Cristoffanini (ex editor Rizzoli), nonché del senior editor di Utet Mattia De Bernardis (un passato nella saggistica Mondadori, Einaudi e Feltrinelli); mentre HarperCollins ha accolto Sabrina Annoni come direttore editoriale e Giovanni Dutto come direttore commerciale, entrambi espatriati da Mondazzoli. Incidenti diplomatici con altri editori italiani? «Ci saranno», assicura Donnini.
Quel libro piacerà, lo dicono i big data
Editoria | Dietro lo sbarco in Italia di HarperCollins e Planeta c’è una strategia
globale per rispondere ad Amazon: la sfida non è più nella produzione e nella
distribuzione, ma negli algoritmi e database per individuare i pubblici e i loro gusti
di Samuele Cafasso e Luigi Cruciani.
In Italia, almeno finora, sono dei nani, ma seduti sopra le spalle di giganti. E potrebbero cambiare il Dna dell’editoria nazionale in nome dei big data, una mutazione genetica già avviata in tutto il mondo da Amazon. Quando fu annunciata la grande operazione di Mondazzoli, da più parti si urlò, un po’ troppo frettolosamente, alla morte del pluralismo editoriale. In realtà, paradossalmente, non c’è mai stato negli ultimi anni un periodo di così grandi stravolgimenti nell’una volta placido stagno dell’editoria italiana. La crescita di Giunti con Bompiani, la nascita di La nave di Teseo, il ritorno di Marsilio e Adelphi come case indipendenti, un rinnovato protagonismo della piccola editoria. E poi due grandi gruppi internazionali che sbarcano da noi: HarperCollins (in proprio) e Planeta (in joint venture con DeAgostini). I nani sulle spalle dei giganti, appunto. Che senso hanno operazioni del genere in un Paese dove i lettori sono solo il43%, un grande player ha il 40% del mercato, la distribuzione e le librerie sono in una situazione di oligopolio? Scenario scoraggiante, ma bisogna tenere conto di due cose. La prima è che oggi, su tutti i mercati culturali, avanzano i grandi brand internazionali: vale per la televisione e si sta iniziando a vedere anche nel giornalismo periodico. Il secondo fattore si chiama big data.
• La parola chiave: profilazione
«Se la concorrenza una volta stava nel controllo della distribuzione e della produzione, domani si giocherà su database, metadati e clienti. Non si può più sparare nel mucchio, serve un approccio mirato», spiega Laura Donnini, direttore generale e publisher di HarperCollins Italia (e presidente della società che edita questo giornale, News3.0) che ha inaugurato i suoi uffici a Milano prima dell’estate. Si parte con 60 titoli l’anno e piccole quote di mercato. Per capire cosa intenda Donnini, già presidente di Rcs Libri, bisogna affidarsi a un numero: 65 mila. Tanti sono i titoli italiani che ogni anno vengono pubblicati nel nostro Paese. Un libro resta sullo scaffale tre settimane, quando va bene; in venti giorni deve trovare i suoi lettori. Come raggiungerli in un mondo dove le recensioni sui giornali sono sempre più scarse –e a volte valgono ancora meno in termini di copie –la pubblicità è troppo costosa e il traino televisivo è solo per pochi? Amazon ha trovato una risposta nei big data: il segreto è profilare al massimo i clienti, sfruttare le correlazioni negli acquisti: “Se hai letto questo, ti piacerà anche...”. È lo stesso meccanismo utilizzato nelle serie televisive da Netflix, o da Facebook nella proposta di contenuti, amici, pagine da seguire. Per fare questo, però, serve una gigantesca mole di dati. Ed è ciò a cui puntano i grandi gruppi editoriali espandendosi su più Paesi.
• Come nasce un nuovo titolo
Una strategia utilizzata pure da Planeta, gruppo già presente in Spagna, Francia, Sud America e giunto in Italia a braccetto con De Agostini.Anche per Gian Luca Pulvirenti, amministratore delegato di DeA Planeta, il futuro dell’editoria si gioca in gran parte nella ricerca dei contenuti da proporre a un potenziale pubblico e delle modalità comunicative con cui intercettarlo. Ecco rispuntare social, big data e database. «La nostra casa editrice parte da lì al momento del lancio di un nuovo titolo, come ci accingiamo a fare adesso per l’uscita autunnale del libro di Cara Delevigne. Chiaramente è un processo in divenire, ma quella è la strada. Essere ora all’interno di un grande gruppo internazionale ci permette di attingere a un bagaglio di esperienza già acquisito», afferma Pulvirenti. Che poi devia verso una considerazione sul re della profilazione attraverso le informazioni personali dei clienti: «Amazon custodisce gelosamente i dati raccolti, anche se questi riguardano gli editori presenti sulla piattaforma. Questo dovrebbe portare a una riflessione, ma dovrebbe anche essere uno stimolo».
• Vendite aumentate fino a sette volte
«Vince chi meglio di altri sa mettere in connessione autori e lettori», spiega Donnini. HarperCollins è presente in 18 Paesi.Il livello base delle sinergie è riproporre in ognuno di essi formule il cui successo è stato sperimentato altrove. Ma c’è molto altro, ad esempio sul fronte degli algoritmi per i motori di ricerca e le librerie digitali: «Abbiamo sviluppato dei modelli di metadatazione che possono aumentare le vendite anche di sette volte: l’utilizzo di determinate parole chiave nelle quarte di copertina aumenta la possibilità di essere agganciati nelle ricerche». Di più: «Facciamo indagini sui nostri lettori tramite il digitale in molti Paesi». Questo può essere utile, ad esempio, nello studio delle correlazioni: a novembre arriverà in Italia un thriller di un’autrice che ha avuto grande successo all’estero, Karin Slaughter. «Esiste tutto un dossier costruito attraverso consumer research: possiamo sapere, ad esempio, quanti dei lettori della Slaughter sono lettori anche di Patricia Cornwell (grande successo in Italia, ndr) e quindi rivolgerci direttamente a loro». La questione dei big data è centrale e ci dice qualcosa, tra l’altro, sulla fine dei mercati editoriali come recinti nazionali, ognuno perimetrato da gusti e sensibilità diversi. Andiamo verso l’uniformazione? «È già così», taglia corto Donnini,«la globalizzazione dei gusti è un dato di fatto. I bestseller sono bestseller ovunque». Spiega Paola Dubini, docente alla Bocconi ed esperta di mercati editoriali, «che l’arrivo dei gruppi stranieri in Italia non è certo una novità, si pensi a Pearson nella scolastica o al caso di Walt Disney con Topolino».Quello che cambia adesso è che«Amazon ha abbattuto le barriere geografiche della distribuzione. Se il mio prodotto, soprattutto inversione digitale, è immediatamente disponibile su tutti i mercati nazionali, diventa sempre più conveniente gestire direttamente i miei autori su scala internazionale».
• La globalizzazione del gusto
Cambiano anche, seguendo i gusti del mercato, i principali settori di focalizzazione dell’offerta. HarperCollin è forte sulla narrativa femminile, gli young adult, i libri legati ai film in uscita, un certo tipo di saggistica lontano dalla politica e dall’accademia. «Forse gli editori internazionali sono un po’ meno puzzoni di quelli nazionali, che hanno la tendenza a considerare i bestseller prodotti di serie B», azzarda Donnini, per poi mettere le mani avanti: «Io non faccio il Calasso (patron di Adelphi, ndr) della situazione perché non ho un catalogo letterario, ma popolare non vuol dire di massa. In gergo direi che siamo commercial upmarket: libri di qualità, ben scritti, ma che non siano rivolto a una micro-nicchia di lettori». «La globalizzazione del gusto non è solo un’imposizione, ma un fenomeno di accelerazione comunicativa che non obbligatoriamente significa livellamento. Bisogna provare a sfruttarne il lato positivo, che potrebbe tradursi in una crescita dei lettori », aggiunge Pulvirenti. Eppure, ovviamente, la questione della qualità della proposta editoriale è un tema ineludibile. Come spiega Paola Dubini, «il rischio della iper-industrializzazione dell’editoria, dove contano i grandi numeri e poco le politiche di autore, non è una questione diAmazon o dei grandi gruppi internazionali contro gli editori italiani. Questi ultimi possono e spesso agiscono sui vari mercati con rispetto e attenzione per le specificità locali e la qualità della proposta. Ma il discorso è un altro: è ovvio che se i gruppi nazionali, per le difficoltà di mercato, tendono a modificare la loro proposta intaccando l’autorevolezza del loro marchio e puntando semplicemente sui numeri, altri soggetti più grandi possono fare questo lavoro meglio di loro». Cinquanta sfumature di grigio, tanto per capirci, è arrivato in Italia con Mondadori che, per altro, nello stesso catalogo ha autori di grandissimo valore. Certo, se Mondadori fosse solo Cinquanta sfumature di grigio, oggi sarebbe un grosso problema. Perché i grandi gruppi sullo stesso campo da gioco sono superiori.
• Un futuro senza editori?
Ma qui stiamo parlando di scenari futuribili, fino alla distopia di una editoria senza editori, sostituita da big data e programmi in grado di individuare la ricetta perfetta del bestseller. Per adesso, è ancora questione di professionalità e persone. E lo sbarco in Italia dei big dell’editoria è fatto anche di questo, con alcuni cambi di casacca importanti e discussi. DeAPlaneta è la nuova casa del responsabiledella narrativa italiana Stefano Izzo e della responsabile della narrativa straniera Francesca Cristoffanini (ex editor Rizzoli), nonché del senior editor di Utet Mattia De Bernardis (un passato nella saggistica Mondadori, Einaudi e Feltrinelli); mentre HarperCollins ha accolto Sabrina Annoni come direttore editoriale e Giovanni Dutto come direttore commerciale, entrambi espatriati da Mondazzoli. Incidenti diplomatici con altri editori italiani? «Ci saranno», assicura Donnini.
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la Cina è un mega schema Ponzi
Crescita | E se la seconda economia mondiale si reggesse su una truffa?
E se l’economia cinese fosse un gigantesco schema Ponzi destinato a un inevitabile collasso? A lanciare questa provocazione non è il solito liberista statunitense, ma un’editorialista del quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, proprietà di Jack Ma, l’enfant prodige che con il gigante dell’e-commerce Alibaba è diventato uno dei tre uomini più ricchi della Repubblica popolare. Le argomentazioni sono più che condivisibili. L’esempio più calzante è quello della sovrapproduzione. Recentemente s’è fatto un gran parlare del tagliare l’acciaio in eccesso ma poi, poiché ridurlo significava rallentare drasticamente il tasso di crescita della seconda economia mondiale (e una disoccupazione in crescita), si è finito per continuare a finanziarne la produzione. Il capitalismo con caratteristiche cinesi lo permette. Sono aziende di stato sia le acciaierie, sia le banche che gli concedono prestiti. Una maggiore produzione d’acciaio poi, si traduce in nuove navi per trasportarlo e in nuovi ampliamenti dei porti destinati ad accoglierle. Che significa una ancora maggiore domanda di acciaio. Un circolo vizioso che destinato ad autoalimentarsi fino a quando, presto o tardi, non crollerà il sistema che lo ha generato. La ricostruzione non fa una piega, ma non prende in considerazione tutti gli elementi disponibili. Primo tra tutti l’importanza che riveste per il governo cinese la stabilità. Il tacito patto che lega la leadership comunista al suo popolo, è lo stesso che per millenni ha legato gli imperatori ai loro sudditi. Finché le condizioni materiali della popolazione sono stabili o con prospettive di crescita, le decisioni della classe dirigente di turno non vengono messe in discussione. Ma per un popolo che teme il caos più di qualunque disastro naturale, perché questo accada c’è bisogno di smettere di credere ai politici. Ma in uno stato che pensa che lo scopo primario dell’informazione sia quello di servire il Partito a seconda delle sue priorità, questo è molto difficile che accada. E allora l’economia cinese dovrebbe reggere. Perché si sa, l’ingrediente essenziale di qualsiasi schema Ponzi è la fiducia cieca nel fatto che possa continuare a funzionare. (cag)
la Cina è un mega schema Ponzi
Crescita | E se la seconda economia mondiale si reggesse su una truffa?
E se l’economia cinese fosse un gigantesco schema Ponzi destinato a un inevitabile collasso? A lanciare questa provocazione non è il solito liberista statunitense, ma un’editorialista del quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, proprietà di Jack Ma, l’enfant prodige che con il gigante dell’e-commerce Alibaba è diventato uno dei tre uomini più ricchi della Repubblica popolare. Le argomentazioni sono più che condivisibili. L’esempio più calzante è quello della sovrapproduzione. Recentemente s’è fatto un gran parlare del tagliare l’acciaio in eccesso ma poi, poiché ridurlo significava rallentare drasticamente il tasso di crescita della seconda economia mondiale (e una disoccupazione in crescita), si è finito per continuare a finanziarne la produzione. Il capitalismo con caratteristiche cinesi lo permette. Sono aziende di stato sia le acciaierie, sia le banche che gli concedono prestiti. Una maggiore produzione d’acciaio poi, si traduce in nuove navi per trasportarlo e in nuovi ampliamenti dei porti destinati ad accoglierle. Che significa una ancora maggiore domanda di acciaio. Un circolo vizioso che destinato ad autoalimentarsi fino a quando, presto o tardi, non crollerà il sistema che lo ha generato. La ricostruzione non fa una piega, ma non prende in considerazione tutti gli elementi disponibili. Primo tra tutti l’importanza che riveste per il governo cinese la stabilità. Il tacito patto che lega la leadership comunista al suo popolo, è lo stesso che per millenni ha legato gli imperatori ai loro sudditi. Finché le condizioni materiali della popolazione sono stabili o con prospettive di crescita, le decisioni della classe dirigente di turno non vengono messe in discussione. Ma per un popolo che teme il caos più di qualunque disastro naturale, perché questo accada c’è bisogno di smettere di credere ai politici. Ma in uno stato che pensa che lo scopo primario dell’informazione sia quello di servire il Partito a seconda delle sue priorità, questo è molto difficile che accada. E allora l’economia cinese dovrebbe reggere. Perché si sa, l’ingrediente essenziale di qualsiasi schema Ponzi è la fiducia cieca nel fatto che possa continuare a funzionare. (cag)
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La nuova età dei lumi
Un continente sempre più secolarizzato L’Europa è un continente sempre più secolarizzato. Un’indagine del centro di ricerche americano Pew Research, pubblicata alla fine di agosto, mostra come in molti Stati del vecchio continente un numero crescente di cittadini dichiari di non avere affiliazione religiosa e si definisca ateo o agnostico: il 43% dei norvegesi, il 41% degli svedesi e il 37% dei belgi. Ma è l’Olanda la patria dei “senza dio”: la maggioranza relativa dei cittadini, infatti, il 48%, dice di non appartenere ad alcuna chiesa e di non seguire nessun credo. Tra i fedeli, invece, il livello di partecipazione alla vita delle loro comunità religiose si è abbassato così come il livello di osservanza dei precetti stabiliti dalla dottrina. I dati sulla secolarizzazione dell’Europa rientrano in un più ampio studio condotto dal centro americano sull’assottigliarsi delle differenze tra cattolici e protestanti nell’anno in cui ricorrono i 500 anni della riforma protestante. Oggi la «la maggioranza o la maggioranza relativa di entrambi i gruppi sostiene che la fede sia necessaria per accedere al paradiso tanto quanto le buone opere, la posizione tradizionale del cattolicesimo», scrivono gli studiosi. «Meno persone ritengono invece che solo la fede (in Latino, sola fide) conduca alla salvezza, la posizione di Martin Lutero».
La nuova età dei lumi
Un continente sempre più secolarizzato L’Europa è un continente sempre più secolarizzato. Un’indagine del centro di ricerche americano Pew Research, pubblicata alla fine di agosto, mostra come in molti Stati del vecchio continente un numero crescente di cittadini dichiari di non avere affiliazione religiosa e si definisca ateo o agnostico: il 43% dei norvegesi, il 41% degli svedesi e il 37% dei belgi. Ma è l’Olanda la patria dei “senza dio”: la maggioranza relativa dei cittadini, infatti, il 48%, dice di non appartenere ad alcuna chiesa e di non seguire nessun credo. Tra i fedeli, invece, il livello di partecipazione alla vita delle loro comunità religiose si è abbassato così come il livello di osservanza dei precetti stabiliti dalla dottrina. I dati sulla secolarizzazione dell’Europa rientrano in un più ampio studio condotto dal centro americano sull’assottigliarsi delle differenze tra cattolici e protestanti nell’anno in cui ricorrono i 500 anni della riforma protestante. Oggi la «la maggioranza o la maggioranza relativa di entrambi i gruppi sostiene che la fede sia necessaria per accedere al paradiso tanto quanto le buone opere, la posizione tradizionale del cattolicesimo», scrivono gli studiosi. «Meno persone ritengono invece che solo la fede (in Latino, sola fide) conduca alla salvezza, la posizione di Martin Lutero».
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Se non lo nominate l’effetto serra sparirà
Ferisce più la penna che la spada, si dice. E a qualcosa di simile deve aver pensato l’amministrazione Trump quando all’inizio dell’estate il Dipartimento per l’agricoltura ha deciso di combattere la minaccia dei cambiamenti climatici con il linguaggio. La direttrice dell’agenzia Bianca Moebius- Clune ha stilato una lista di termini da evitare e suggerito come sostituirli. Così i «cambiamenti climatici» diventano «fenomeni atmosferici estremi», la «riduzione dei gas serra» e il «confinamento dell’anidride carbonica» vengono semplificati nella necessità della «costruzione della materia organica contenuta nel suolo». Non è la prima volta che la politica statunitense indossa i paraocchi su questi temi. Il Guardian ricorda come nel 2012 il North Carolina votò contro una progettazione urbanistica che contemplasse la prevenzione contro l’innalzamento del livello del mare e qualche anno dopo si trovò impreparato di fronte all’uragano Matthew che fece 4,8 miliardi di dollari di danni. In Florida, la cui amministrazione aveva vietato ai suoi dipendenti l’uso del termine «cambiamenti climatici» già nel 2014, i funzionari rispondevano alle domande sul tema utilizzando la parafrasi «la questione che avete nominato in precedenza ». E non è che questo abbia impedito altri disastri naturali. Più seriamente c’è da sottolineare che Sam Clovis, lo scienziato che Donald Trump ha messo a capo del Dipartimento per l’agricoltura, non ha mai nominato i cambiamenti climatici se non per definirli «spazzatura scientifica». Chissà se questo nuovo approccio porterà risultati. Ce ne sarebbe veramente bisogno soprattutto dopo che un nuovo studio del Mit dimostra come «entro il 2050 i cambiamenti climatici potrebbero portare allo svuotamento dei bacini idrici statunitensi e a ridurre in maniera drastica la portata dei raccolti in molte aree del Paese ». Ma forse Trump ha già capito come evitare questa tragedia: basterà scegliere le parole giuste. (cag)
Se non lo nominate l’effetto serra sparirà
Ferisce più la penna che la spada, si dice. E a qualcosa di simile deve aver pensato l’amministrazione Trump quando all’inizio dell’estate il Dipartimento per l’agricoltura ha deciso di combattere la minaccia dei cambiamenti climatici con il linguaggio. La direttrice dell’agenzia Bianca Moebius- Clune ha stilato una lista di termini da evitare e suggerito come sostituirli. Così i «cambiamenti climatici» diventano «fenomeni atmosferici estremi», la «riduzione dei gas serra» e il «confinamento dell’anidride carbonica» vengono semplificati nella necessità della «costruzione della materia organica contenuta nel suolo». Non è la prima volta che la politica statunitense indossa i paraocchi su questi temi. Il Guardian ricorda come nel 2012 il North Carolina votò contro una progettazione urbanistica che contemplasse la prevenzione contro l’innalzamento del livello del mare e qualche anno dopo si trovò impreparato di fronte all’uragano Matthew che fece 4,8 miliardi di dollari di danni. In Florida, la cui amministrazione aveva vietato ai suoi dipendenti l’uso del termine «cambiamenti climatici» già nel 2014, i funzionari rispondevano alle domande sul tema utilizzando la parafrasi «la questione che avete nominato in precedenza ». E non è che questo abbia impedito altri disastri naturali. Più seriamente c’è da sottolineare che Sam Clovis, lo scienziato che Donald Trump ha messo a capo del Dipartimento per l’agricoltura, non ha mai nominato i cambiamenti climatici se non per definirli «spazzatura scientifica». Chissà se questo nuovo approccio porterà risultati. Ce ne sarebbe veramente bisogno soprattutto dopo che un nuovo studio del Mit dimostra come «entro il 2050 i cambiamenti climatici potrebbero portare allo svuotamento dei bacini idrici statunitensi e a ridurre in maniera drastica la portata dei raccolti in molte aree del Paese ». Ma forse Trump ha già capito come evitare questa tragedia: basterà scegliere le parole giuste. (cag)
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Anche il Papa ha i sovranisti in casa
Dissidi | Famiglia, liturgia, aborto. Dagli Stati Uniti al Vaticano si sono intensificati gli attacchi a Bergoglio, che ha risposto con il pugno di ferro. Ma lo scontro evidenzia in realtà una frizione di fondo nel mondo cattolico. Che il Pontefice ha deciso di affrontare apertamente
di Iacopo Scaramuzzi
Il sisma dell’addio di Steve Bannon è stato registrato immediatamente dai sismografi del Vaticano. Lo stratega in capo di Donald Trump, vicino al mondo della alt-right, è legato al cattolicesimo più ostile a Jorge Mario Bergoglio. Ben prima di entrare alla Casa Bianca, nel 2014, aveva esposto la sua visione del mondo in collegamento Skype con l’istituto ultraconservatore Dignitatis Humanae in Vaticano. L’incompatibilità era così palese che quando Trump ha fatto visita al Papa, a maggio scorso, Bannon ha lasciato il seguito presidenziale prima della tappa romana. E a poche settimane dalle sue dimissioni, sull’onda delle polemiche che ad agosto hanno investito Trump per il revival razzista di Charlottesville, dall’entourage papale era partita un’irrituale bordata. In un articolo di luglio il direttore de La Civiltà cattolica, il gesuita Antonio Spadaro, e il direttore dell’edizione argentina dell’Osservatore Romano, il protestante Marcelo Figueroa, hanno denunciato la strana alleanza tra «fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti». Un «ecumenismo dell’odio» promosso da personalità come Bannon, «sostenitore di una geopolitica apocalittica»: «In fondo, la narrativa del terrore che alimenta l’immaginario degli jihadisti e dei neo-crociati si abbevera a fonti non troppo distanti tra loro».
• Il gelo tra Santa Sede e Washington
L’articolo marca forse il punto più basso nella storia delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Vaticano, sottrae alla Casa Bianca il facile uso del cristianesimo come giustificazione politica, ma investe implicitamente anche i vescovi statunitensi, impegnati da decenni, prima del Papa argentino, in culture wars incentrate su questioni come l’aborto o le nozze gay. Ai nunzi apostolici che a inizio pontificato gli raccomandavano cautela nella nomine dei vescovi e dei cardinali negli Usa, ha ricostruito il New York Times, Francesco avrebbe risposto: «Lo so, è da lì che viene l’opposizione». Di certo la fronda al Pontefice riformista, lungi dall’essere circoscritta agli Stati Uniti, oltreatlantico è particolarmente vocale. È statunitense il cardinale capofila della battaglia contro l’Amoris laetitia, l’esortazione apostolica sulla famiglia nella quale Francesco apre, tra l’altro, alla possibilità che una coppia divorziata possa accedere alla comunione. Raymond Leo Burke –che già si scagliò contro Benedetto XVI quando questi ipotizzò l’uso eccezionale dei preservativi in casi di Aids–è sodale di Steve Bannon. In Italia, più modestamente, ha ricevuto il leader della Lega Matteo Salvini. E da mesi guida con protervia il drappello di quattro cardinali che ha espresso pubblicamente dubbi (dubia, in latino) sulle aperture papali e minaccia una «correzione formale» del Pontefice. I blog conservatori statunitensi rigurgitano critiche: questo Papa non è cattolico, ha deviato dal tradizionale insegnamento morale della Chiesa.
• I nodi del Concilio e dell’aborto
Negli Usa è particolarmente veemente, poi, il malumore quando Jorge Mario Bergoglio esclude l’idea che si possa tornare indietro rispetto alla riforma liturgica del Concilio vaticano II, in direzione della «messa in latino» o della celebrazione spalle al popolo. «A volte penso che Papa Francesco è un regalo per la Chiesa cattolica, specialmente quando dice cose ridicole, goffe o addirittura stupide», ha commentato Michael Brendan Dougherty sul National Review: «Permette ai cattolici seri di prendere il culto papale meno sul serio di quanto hanno fatto per generazioni. Tutto sommato, è una buona cosa», scrive l’editorialista con il tipico argomento utilizzato, fino all’elezione di Bergoglio, dai cattolici conciliaristi. C’è poi il tema dell’aborto. «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi », ha detto Francesco a inizio pontificato alla Civiltà Cattolica. Questioni sulle quali Bergoglio non la pensa in modo significativamente diverso dagli altri Papi, ma che non ritiene debbano essere al centro del magistero, quasi che la fede cattolica fosse riducibile a una ideologia pro life. Il fronte opposto è smarrito. Sul sito Crux Charles C. Camosy ha cautamente chiesto al Pontefice di «fare di più» in materia di aborto. Altri vanno molto oltre. Nick Donnelly, diacono e giornalista schierato con il cardinale Burke, batte e ribatte sui social network con una lista di domande al Papa: «Con oltre un milione di bambini uccisi con l’aborto come fai a dire che “non possiamo insistere solo su questioni relative all’aborto”? Perché elogi pubblicamente noti abortisti come Emma Bonino?». Non succedeva da tempo immemore che un Papa venisse attaccato da destra, non si era mai visto che venisse criticato in modo virulento. Negli Stati Uniti, sicuramente, ma anche in molti altri paesi, dall’Italia all’America Latina, dalla Polonia al Sud Africa. Fin a dentro il Vaticano.
• La misericordia può attendere
E Jorge Mario Bergoglio, che nei primi quattro anni di pontificato ha promosso le sue riforme con pazienza, negli ultimi mesi ha cambiato passo. Risponde alla fronda con maniere forti. Il cardinale Burke, che nel 2014 aveva escluso dalla Curia romana spostandolo al ruolo onorifico di patrono dell’Ordine di Malta, è stato ulteriormente demansionato quando, in primavera, Francesco ha commissariato lo stesso ordine per porre fine a un intricato scontro tra cordate. A inizio estate il Papa ha mandato il cardinale George Pell in Australia a rispondere in tribunale alle accuse di pedofilia e ha pensionato anticipatamente il cardinale tedesco Gerhard Ludwig Mueller, prefetto della congregazione della Dottrina della fede che non ha mai nascosto troppo il suo scetticismo nei confronti del Pontefice. Ha stravolto la composizione di due dicasteri-chiave per temi cari ai suoi avversari, la congregazione responsabile della liturgia e la Pontificia accademia per la vita. L’anno scorso ha fatto processare dal tribunale vaticano due whistleblower che avevano passato ai giornalisti le carte riservate delle finanze vaticane, i cosiddetti Vatileaks, ora fa processare con l’accusa di peculato l’ex manager dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, quel Giuseppe Profiti molto legato al cardinale Tarcisio Bertone. Il Papa della misericordia ultimamente non lesina bastonate.
• Un Pontefice mal tollerato
A ben vedere i singoli argomenti – famiglia, liturgia, aborto per fare solo tre esempi –sono i punti di caduta del più generale fastidio che un pezzo di Chiesa ha istintivamente maturato nei confronti di un Papa che ridisegna il rapporto del cattolicesimo con la società e con la modernità. Quando racconta di aver consultato in gioventù una psicanalista ebrea o parla con Emma Bonnino di immigrazione, quando poco ieraticamente scherza o va da solo a piedi dal dentista del Vaticano, quando cita La strada di Fellini o ricorda il suo rapporto con Jorge Luis Borges, Francesco non fa una simpatica attività di maquillage e marketing, non rompe solo l’etichetta del Vaticano, non si limita a riformare il papato o spingere la Chiesa fuori dalle sagrestie. Torna a quel Concilio vaticano II (1962-1965) un po’ trascurato dai suoi due predecessori. E testimonia un cattolicesimo che non teme il mondo secolarizzato, che non si concepisce principalmente come morale, che non mira primariamente a fare proseliti tra i non credenti, a rimbrottare i fedeli sui loro costumi sessuali, a fare alleanze politiche in difesa dei «valori non negoziabili», se non di disegni bellici. Propone una fede che invece aggiorna il Vangelo per ravvivarlo, che accetta la complessità del mondo non per apostasia ma, al contrario, per penetrarlo più efficacemente. Traducendo il messaggio cristiano nei termini culturali dell’umanità odierna, come i missionari gesuiti del Seicento e del Settecento facevano quando diffondevano il cattolicesimo in America Latina o in Giappone e Cina. • I cattolici divisi L’operazione è di ampio respiro e svela un pericolo. Se la cattolicità finalmente affronta nodi controversi, emergono differenze profonde che hanno covato per decenni sotto traccia. Progressisti e conservatori si scontrano, pastorale e dottrina rischiano la contrapposizione, fautori di una concezione identitaria della fede – le reazioni feroci che si sono registrate negli Stati Uniti all’articolo di Civiltà cattolica sull’ «ecumenismo dell’odio» ne sono una riprova –incrociano le armi polemiche con i promotori di una Chiesa dialogante, quasi in un principio di scisma. Un bubbone che potrebbe scoppiare se venisse dissimulato. «Abbiamo visto», ha invece scandito il Papa a conclusione del doppio Sinodo che ha voluto celebrare sulla famiglia, «che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo –quasi! –per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione». Sono le stesse tensioni che attraversano protestanti, ortodossi, anglicani, per non parlare dei conflitti interni all’ebraismo e all’islam mondiali. Il Papa gesuita ha deciso di affrontarle apertamente, al costo di suscitare fronde e contestazioni virulente. La posta in gioco è troppo alta: le culture, ha spiegato, «sono molto diverse tra loro e ogni principio generale –le questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa – ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato».
Anche il Papa ha i sovranisti in casa
Dissidi | Famiglia, liturgia, aborto. Dagli Stati Uniti al Vaticano si sono intensificati gli attacchi a Bergoglio, che ha risposto con il pugno di ferro. Ma lo scontro evidenzia in realtà una frizione di fondo nel mondo cattolico. Che il Pontefice ha deciso di affrontare apertamente
di Iacopo Scaramuzzi
Il sisma dell’addio di Steve Bannon è stato registrato immediatamente dai sismografi del Vaticano. Lo stratega in capo di Donald Trump, vicino al mondo della alt-right, è legato al cattolicesimo più ostile a Jorge Mario Bergoglio. Ben prima di entrare alla Casa Bianca, nel 2014, aveva esposto la sua visione del mondo in collegamento Skype con l’istituto ultraconservatore Dignitatis Humanae in Vaticano. L’incompatibilità era così palese che quando Trump ha fatto visita al Papa, a maggio scorso, Bannon ha lasciato il seguito presidenziale prima della tappa romana. E a poche settimane dalle sue dimissioni, sull’onda delle polemiche che ad agosto hanno investito Trump per il revival razzista di Charlottesville, dall’entourage papale era partita un’irrituale bordata. In un articolo di luglio il direttore de La Civiltà cattolica, il gesuita Antonio Spadaro, e il direttore dell’edizione argentina dell’Osservatore Romano, il protestante Marcelo Figueroa, hanno denunciato la strana alleanza tra «fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti». Un «ecumenismo dell’odio» promosso da personalità come Bannon, «sostenitore di una geopolitica apocalittica»: «In fondo, la narrativa del terrore che alimenta l’immaginario degli jihadisti e dei neo-crociati si abbevera a fonti non troppo distanti tra loro».
• Il gelo tra Santa Sede e Washington
L’articolo marca forse il punto più basso nella storia delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Vaticano, sottrae alla Casa Bianca il facile uso del cristianesimo come giustificazione politica, ma investe implicitamente anche i vescovi statunitensi, impegnati da decenni, prima del Papa argentino, in culture wars incentrate su questioni come l’aborto o le nozze gay. Ai nunzi apostolici che a inizio pontificato gli raccomandavano cautela nella nomine dei vescovi e dei cardinali negli Usa, ha ricostruito il New York Times, Francesco avrebbe risposto: «Lo so, è da lì che viene l’opposizione». Di certo la fronda al Pontefice riformista, lungi dall’essere circoscritta agli Stati Uniti, oltreatlantico è particolarmente vocale. È statunitense il cardinale capofila della battaglia contro l’Amoris laetitia, l’esortazione apostolica sulla famiglia nella quale Francesco apre, tra l’altro, alla possibilità che una coppia divorziata possa accedere alla comunione. Raymond Leo Burke –che già si scagliò contro Benedetto XVI quando questi ipotizzò l’uso eccezionale dei preservativi in casi di Aids–è sodale di Steve Bannon. In Italia, più modestamente, ha ricevuto il leader della Lega Matteo Salvini. E da mesi guida con protervia il drappello di quattro cardinali che ha espresso pubblicamente dubbi (dubia, in latino) sulle aperture papali e minaccia una «correzione formale» del Pontefice. I blog conservatori statunitensi rigurgitano critiche: questo Papa non è cattolico, ha deviato dal tradizionale insegnamento morale della Chiesa.
• I nodi del Concilio e dell’aborto
Negli Usa è particolarmente veemente, poi, il malumore quando Jorge Mario Bergoglio esclude l’idea che si possa tornare indietro rispetto alla riforma liturgica del Concilio vaticano II, in direzione della «messa in latino» o della celebrazione spalle al popolo. «A volte penso che Papa Francesco è un regalo per la Chiesa cattolica, specialmente quando dice cose ridicole, goffe o addirittura stupide», ha commentato Michael Brendan Dougherty sul National Review: «Permette ai cattolici seri di prendere il culto papale meno sul serio di quanto hanno fatto per generazioni. Tutto sommato, è una buona cosa», scrive l’editorialista con il tipico argomento utilizzato, fino all’elezione di Bergoglio, dai cattolici conciliaristi. C’è poi il tema dell’aborto. «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi », ha detto Francesco a inizio pontificato alla Civiltà Cattolica. Questioni sulle quali Bergoglio non la pensa in modo significativamente diverso dagli altri Papi, ma che non ritiene debbano essere al centro del magistero, quasi che la fede cattolica fosse riducibile a una ideologia pro life. Il fronte opposto è smarrito. Sul sito Crux Charles C. Camosy ha cautamente chiesto al Pontefice di «fare di più» in materia di aborto. Altri vanno molto oltre. Nick Donnelly, diacono e giornalista schierato con il cardinale Burke, batte e ribatte sui social network con una lista di domande al Papa: «Con oltre un milione di bambini uccisi con l’aborto come fai a dire che “non possiamo insistere solo su questioni relative all’aborto”? Perché elogi pubblicamente noti abortisti come Emma Bonino?». Non succedeva da tempo immemore che un Papa venisse attaccato da destra, non si era mai visto che venisse criticato in modo virulento. Negli Stati Uniti, sicuramente, ma anche in molti altri paesi, dall’Italia all’America Latina, dalla Polonia al Sud Africa. Fin a dentro il Vaticano.
• La misericordia può attendere
E Jorge Mario Bergoglio, che nei primi quattro anni di pontificato ha promosso le sue riforme con pazienza, negli ultimi mesi ha cambiato passo. Risponde alla fronda con maniere forti. Il cardinale Burke, che nel 2014 aveva escluso dalla Curia romana spostandolo al ruolo onorifico di patrono dell’Ordine di Malta, è stato ulteriormente demansionato quando, in primavera, Francesco ha commissariato lo stesso ordine per porre fine a un intricato scontro tra cordate. A inizio estate il Papa ha mandato il cardinale George Pell in Australia a rispondere in tribunale alle accuse di pedofilia e ha pensionato anticipatamente il cardinale tedesco Gerhard Ludwig Mueller, prefetto della congregazione della Dottrina della fede che non ha mai nascosto troppo il suo scetticismo nei confronti del Pontefice. Ha stravolto la composizione di due dicasteri-chiave per temi cari ai suoi avversari, la congregazione responsabile della liturgia e la Pontificia accademia per la vita. L’anno scorso ha fatto processare dal tribunale vaticano due whistleblower che avevano passato ai giornalisti le carte riservate delle finanze vaticane, i cosiddetti Vatileaks, ora fa processare con l’accusa di peculato l’ex manager dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, quel Giuseppe Profiti molto legato al cardinale Tarcisio Bertone. Il Papa della misericordia ultimamente non lesina bastonate.
• Un Pontefice mal tollerato
A ben vedere i singoli argomenti – famiglia, liturgia, aborto per fare solo tre esempi –sono i punti di caduta del più generale fastidio che un pezzo di Chiesa ha istintivamente maturato nei confronti di un Papa che ridisegna il rapporto del cattolicesimo con la società e con la modernità. Quando racconta di aver consultato in gioventù una psicanalista ebrea o parla con Emma Bonnino di immigrazione, quando poco ieraticamente scherza o va da solo a piedi dal dentista del Vaticano, quando cita La strada di Fellini o ricorda il suo rapporto con Jorge Luis Borges, Francesco non fa una simpatica attività di maquillage e marketing, non rompe solo l’etichetta del Vaticano, non si limita a riformare il papato o spingere la Chiesa fuori dalle sagrestie. Torna a quel Concilio vaticano II (1962-1965) un po’ trascurato dai suoi due predecessori. E testimonia un cattolicesimo che non teme il mondo secolarizzato, che non si concepisce principalmente come morale, che non mira primariamente a fare proseliti tra i non credenti, a rimbrottare i fedeli sui loro costumi sessuali, a fare alleanze politiche in difesa dei «valori non negoziabili», se non di disegni bellici. Propone una fede che invece aggiorna il Vangelo per ravvivarlo, che accetta la complessità del mondo non per apostasia ma, al contrario, per penetrarlo più efficacemente. Traducendo il messaggio cristiano nei termini culturali dell’umanità odierna, come i missionari gesuiti del Seicento e del Settecento facevano quando diffondevano il cattolicesimo in America Latina o in Giappone e Cina. • I cattolici divisi L’operazione è di ampio respiro e svela un pericolo. Se la cattolicità finalmente affronta nodi controversi, emergono differenze profonde che hanno covato per decenni sotto traccia. Progressisti e conservatori si scontrano, pastorale e dottrina rischiano la contrapposizione, fautori di una concezione identitaria della fede – le reazioni feroci che si sono registrate negli Stati Uniti all’articolo di Civiltà cattolica sull’ «ecumenismo dell’odio» ne sono una riprova –incrociano le armi polemiche con i promotori di una Chiesa dialogante, quasi in un principio di scisma. Un bubbone che potrebbe scoppiare se venisse dissimulato. «Abbiamo visto», ha invece scandito il Papa a conclusione del doppio Sinodo che ha voluto celebrare sulla famiglia, «che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo –quasi! –per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione». Sono le stesse tensioni che attraversano protestanti, ortodossi, anglicani, per non parlare dei conflitti interni all’ebraismo e all’islam mondiali. Il Papa gesuita ha deciso di affrontarle apertamente, al costo di suscitare fronde e contestazioni virulente. La posta in gioco è troppo alta: le culture, ha spiegato, «sono molto diverse tra loro e ogni principio generale –le questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa – ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato».
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L’Italia è una Repubblica fondata sulle aspirazioni
Occupazione | Cancellata l’etica del lavoro per mancanza di materia prima, i millennials basano la loro identità su hobby e interessi, come volevano i situazionisti.
Storia di un cambio di paradigma e del suo sfruttamento
di Raffaele Alberto Ventura
“Ne travaillez jamais”. Non lavorate mai. Scrivendo queste parole su un muro del quartiere latino di Parigi, Guy Debord compiva nel 1953 il suo primo gesto di rivolta contro la società capitalistica, anni prima di fondare l’Internazionale Situazionista e di pubblicare il suo oracolare saggio La società dello spettacolo. Ma fu vera rivolta, oppure l’annuncio di una trasformazione a venire? La logica culturale del tardo capitalismo tiene proprio nella promessa della Fine del lavoro (perlomeno per la classe media occidentale) dal titolo di un celebre libro di Jeremy Rifkin pubblicato ormai vent’anni fa (Mondadori, 2005). E in effetti il lavoro è letteralmente finito per molti millennials che oggi escono dalle università con un altisonante titolo di studio e nessuna prospettiva d’inserimento professionale.
• Reddito e identità
Per chi si ritrova concretamente senza lavoro, oggi la questione più cocente è senza dubbio quella del reddito. Secondo i teorici dello Universal Basic Income questa si risolve facilmente, cioè ridistribuendo i profitti che generano le macchine. È la tesi (indubbiamente ottimista) di Nick Srnicek e Alex Williams in Inventing the Future, in uscita in italiano a gennaio 2018 per Nero. Ma risolta la questione del reddito resterebbe ancora un problema esistenziale: senza lavoro, come dare un senso alla propria vita? Srnicek e Williams smascherano in questo genere di domande i segni di una “ideologia del lavoro”, quella stessa contro cui si batteva Guy Debord. Il senso alla sua vita lo diedero la scrittura, la creazione artistica, la ricerca intellettuale e la militanza politica —non certo il lavoro salariato. Nella prospettiva dei situazionisti, al mercato si può sostituire un’economia del dono ispirata al rituale del potlatch dei nativi americani. Possiamo scherzare quanto vogliamo sull’ingenuità di queste speculazioni che ignorano (o fingono di ignorare) le condizioni materiali dalle quali tutti dipendiamo, eppure mezzo secolo dopo le ritroviamo in bocca ai guru della sharing economy. Tutto un segmento del terziario, dalle attività creative ai servizi alla persona, sta migrando verso la semi-gratuità anche a causa dell’eccesso di offerta.
• La mutazione
In qualche decennio, l’ideologia si è trasformata per adattarsi alle trasformazioni dell’economia. Nel 1999, un manipolo di marxisti tedeschi noti come Gruppo Krisis pubblicò un Manifesto contro il lavoro che denunciava l’assurdità della vita nel tardo capitalismo: «Mai la società era stata, fino a questo punto, una società del lavoro come in quest’epoca in cui il lavoro è stato reso superfluo». Ma chi crede più, oggigiorno, a questa vecchia etica di matrice protestante, quella che secondo Max Weber definiva lo spirito del capitalismo? Tutt’al contrario siamo entrati da qualche decennio nell’era del Nuovo spirito del capitalismo, dal titolo del poderoso saggio dei sociologi Luc Boltanski e Ève Chiapello uscito in quello stesso anno: un’epoca in cui i valori della controcultura sono diventati i valori della cultura dominante, rovesciando anche la nostra concezione del lavoro. Se fosse vero che il lavoro nobilita l’uomo, la gente non sarebbe continuamente costretta a mentire su ciò che fa davvero per mantenersi. Fateci caso: a prendere sul serio le presentazioni degli altri – «faccio lo scrittore», «il fotografo», «il blogger», «il Ceo presso me stesso»…–viene da chiedersi se siamo rimasti i soli a obbedire alla cruda ragione economica, a svegliarci prima delle otto e a scaldare la sedia in ufficio fino al tramonto. Ma non doveva risolvere tutto l’automazione? Il problema è che lo ha già fatto. La scarsità di beni industriali in Occidente è ormai un vecchio ricordo, almeno dai tempi della Società opulenta di John Kenneth Galbraith (1958, in Italia Edizioni di Comunità), ma resta il problema di come finanziare quei consumi che servono alla nostra realizzazione esistenziale e ci permettono di dirci scrittori, artisti, fotografi. La società del lavoro è diventata una società aspirazionale; da weberiana a debordiana. La verità è che in tempo di crisi è più gratificante definirsi attraverso le proprie ambizioni, seppure non ancora compiutamente realizzate, piuttosto che presentare regolare fattura.
• Sfruttamento di un’idea
L’industria culturale lo ha capito benissimo e infatti ci fornisce oggi una serie di strumenti per coltivare la nostra illusione. Infrastrutture telematiche che facilitano l’incontro tra domanda e offerta, hardware e software semi-professionali, sistemi di monetizzazione… Il potlatch nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Ma abbassando le barriere all’ingresso dei mestieri creativi ha nello stesso tempo reso sempre più difficile fare di questi una solida fonte di reddito. Di fatto, li ha trasformati in qualcosa di più simile a degli hobby. D’altra parte l’eccesso di offerta ha creato una domanda monetizzabile per le piattaforme che forniscono il servizio. È la logica del cosiddetto prosu - ming, consumo travestito da produzione. Lo stesso ora accade a tanti altri mestieri meno creativi: aziende come AirBnb, Foodora, Uber vivono sulla diffusa aspirazione di mettersi in proprio, gestire i propri tempi, liberarsi dalla schiavitù del lavoro salariato o addirittura vivere senza lavorare spremendo una piccola proprietà o un piccolo talento. A lungo termine, è una nuova e più profonda schiavitù quella che offrono. La “malattia dei costi”, per come diagnosticata negli anni Sessanta da William J. Baumol, insegna che al diminuire dei costi dei beni industriali corrisponde un apprezzamento di tutto ciò che non è scalabile né automatizzabile: in particolar modo della cultura, per non parlare di tutto ciò che diventa “posizionale” (gli status symbol) precisamente perché non può essere democratizzato, dalle opere d’arte ai formaggi tradizionali. Nemmeno i progressi dell’automazione ci possono liberare da questi bisogni, che discendono direttamente dalla sete di autorealizzazione tipica del nuovo spirito del capitalismo. L’economista Fred Hirsch parlava per questo, nel suo omonimo libro del 1976, di limiti sociali dello sviluppo. Possiamo pubblicare facilmente un libro su Amazon, ma chi finanzierà i nostri studi, le ricerche, l’editing, la promozione, e soprattutto il tempo che abbiamo speso per scriverlo? Il reddito universale non farà miracoli. Studi molto seri mostrano l’attuabilità di certe forme di Universal Basic Income, ma l’effetto non è sempre quello auspicato dagli utopisti: ad esempio il World Economic Forum considera che un versamento mensile incondizionato sarebbe addirittura un incentivo al lavoro, perché sostituirebbe i sussidi vincolati alla disoccupazione; mentre la scuola di Chicago ha sempre difeso questa misura perché giustificherebbe una totale privatizzazione del welfare. Insomma, se il reddito universale di base non spaventa nessuno è proprio perché, in fin dei conti, non cambia granché. Nelle interpretazioni che stanno prevalendo, si tratta soprattutto di riallocare le stesse risorse secondo una diversa configurazione, proprio come al gioco delle tre carte. Quanto poi al sogno di riuscire a ridistribuire la totalità dei profitti generati dall’automazione, la parte davvero difficile sarà convincere i cinesi a mantenere la classe media occidentale – più di quanto già non facciano. Intanto ce ne restiamo qui, con le nostre grandiose aspirazioni e la bocca asciutta.
• Una società situazionista?
Il vecchio progetto debordiano si è realizzato, ma in maniera deformata. Siamo tutti artisti, tutti piccoli imprenditori, ma dobbiamo pagare per esserlo. Una galassia di aspiranti qualche-cosa che non arrivano a fine mese ma intanto fanno prosperare l’economia delle piattaforme. Lo stesso Debord, quando la sua celebre scritta sul muro venne riprodotta su una cartolina negli anni Sessanta, non ottenne nemmeno un centesimo di royalties. Questa è la bolla in cui viviamo: ospiti di un parco giochi in cui coltivare le nostre illusioni, con buona pace degli utopisti e altri accelerazionisti, continuiamo a dovere finanziare in qualche modo i costumi di scena per la recita della “fine del lavoro”.
L’Italia è una Repubblica fondata sulle aspirazioni
Occupazione | Cancellata l’etica del lavoro per mancanza di materia prima, i millennials basano la loro identità su hobby e interessi, come volevano i situazionisti.
Storia di un cambio di paradigma e del suo sfruttamento
di Raffaele Alberto Ventura
“Ne travaillez jamais”. Non lavorate mai. Scrivendo queste parole su un muro del quartiere latino di Parigi, Guy Debord compiva nel 1953 il suo primo gesto di rivolta contro la società capitalistica, anni prima di fondare l’Internazionale Situazionista e di pubblicare il suo oracolare saggio La società dello spettacolo. Ma fu vera rivolta, oppure l’annuncio di una trasformazione a venire? La logica culturale del tardo capitalismo tiene proprio nella promessa della Fine del lavoro (perlomeno per la classe media occidentale) dal titolo di un celebre libro di Jeremy Rifkin pubblicato ormai vent’anni fa (Mondadori, 2005). E in effetti il lavoro è letteralmente finito per molti millennials che oggi escono dalle università con un altisonante titolo di studio e nessuna prospettiva d’inserimento professionale.
• Reddito e identità
Per chi si ritrova concretamente senza lavoro, oggi la questione più cocente è senza dubbio quella del reddito. Secondo i teorici dello Universal Basic Income questa si risolve facilmente, cioè ridistribuendo i profitti che generano le macchine. È la tesi (indubbiamente ottimista) di Nick Srnicek e Alex Williams in Inventing the Future, in uscita in italiano a gennaio 2018 per Nero. Ma risolta la questione del reddito resterebbe ancora un problema esistenziale: senza lavoro, come dare un senso alla propria vita? Srnicek e Williams smascherano in questo genere di domande i segni di una “ideologia del lavoro”, quella stessa contro cui si batteva Guy Debord. Il senso alla sua vita lo diedero la scrittura, la creazione artistica, la ricerca intellettuale e la militanza politica —non certo il lavoro salariato. Nella prospettiva dei situazionisti, al mercato si può sostituire un’economia del dono ispirata al rituale del potlatch dei nativi americani. Possiamo scherzare quanto vogliamo sull’ingenuità di queste speculazioni che ignorano (o fingono di ignorare) le condizioni materiali dalle quali tutti dipendiamo, eppure mezzo secolo dopo le ritroviamo in bocca ai guru della sharing economy. Tutto un segmento del terziario, dalle attività creative ai servizi alla persona, sta migrando verso la semi-gratuità anche a causa dell’eccesso di offerta.
• La mutazione
In qualche decennio, l’ideologia si è trasformata per adattarsi alle trasformazioni dell’economia. Nel 1999, un manipolo di marxisti tedeschi noti come Gruppo Krisis pubblicò un Manifesto contro il lavoro che denunciava l’assurdità della vita nel tardo capitalismo: «Mai la società era stata, fino a questo punto, una società del lavoro come in quest’epoca in cui il lavoro è stato reso superfluo». Ma chi crede più, oggigiorno, a questa vecchia etica di matrice protestante, quella che secondo Max Weber definiva lo spirito del capitalismo? Tutt’al contrario siamo entrati da qualche decennio nell’era del Nuovo spirito del capitalismo, dal titolo del poderoso saggio dei sociologi Luc Boltanski e Ève Chiapello uscito in quello stesso anno: un’epoca in cui i valori della controcultura sono diventati i valori della cultura dominante, rovesciando anche la nostra concezione del lavoro. Se fosse vero che il lavoro nobilita l’uomo, la gente non sarebbe continuamente costretta a mentire su ciò che fa davvero per mantenersi. Fateci caso: a prendere sul serio le presentazioni degli altri – «faccio lo scrittore», «il fotografo», «il blogger», «il Ceo presso me stesso»…–viene da chiedersi se siamo rimasti i soli a obbedire alla cruda ragione economica, a svegliarci prima delle otto e a scaldare la sedia in ufficio fino al tramonto. Ma non doveva risolvere tutto l’automazione? Il problema è che lo ha già fatto. La scarsità di beni industriali in Occidente è ormai un vecchio ricordo, almeno dai tempi della Società opulenta di John Kenneth Galbraith (1958, in Italia Edizioni di Comunità), ma resta il problema di come finanziare quei consumi che servono alla nostra realizzazione esistenziale e ci permettono di dirci scrittori, artisti, fotografi. La società del lavoro è diventata una società aspirazionale; da weberiana a debordiana. La verità è che in tempo di crisi è più gratificante definirsi attraverso le proprie ambizioni, seppure non ancora compiutamente realizzate, piuttosto che presentare regolare fattura.
• Sfruttamento di un’idea
L’industria culturale lo ha capito benissimo e infatti ci fornisce oggi una serie di strumenti per coltivare la nostra illusione. Infrastrutture telematiche che facilitano l’incontro tra domanda e offerta, hardware e software semi-professionali, sistemi di monetizzazione… Il potlatch nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Ma abbassando le barriere all’ingresso dei mestieri creativi ha nello stesso tempo reso sempre più difficile fare di questi una solida fonte di reddito. Di fatto, li ha trasformati in qualcosa di più simile a degli hobby. D’altra parte l’eccesso di offerta ha creato una domanda monetizzabile per le piattaforme che forniscono il servizio. È la logica del cosiddetto prosu - ming, consumo travestito da produzione. Lo stesso ora accade a tanti altri mestieri meno creativi: aziende come AirBnb, Foodora, Uber vivono sulla diffusa aspirazione di mettersi in proprio, gestire i propri tempi, liberarsi dalla schiavitù del lavoro salariato o addirittura vivere senza lavorare spremendo una piccola proprietà o un piccolo talento. A lungo termine, è una nuova e più profonda schiavitù quella che offrono. La “malattia dei costi”, per come diagnosticata negli anni Sessanta da William J. Baumol, insegna che al diminuire dei costi dei beni industriali corrisponde un apprezzamento di tutto ciò che non è scalabile né automatizzabile: in particolar modo della cultura, per non parlare di tutto ciò che diventa “posizionale” (gli status symbol) precisamente perché non può essere democratizzato, dalle opere d’arte ai formaggi tradizionali. Nemmeno i progressi dell’automazione ci possono liberare da questi bisogni, che discendono direttamente dalla sete di autorealizzazione tipica del nuovo spirito del capitalismo. L’economista Fred Hirsch parlava per questo, nel suo omonimo libro del 1976, di limiti sociali dello sviluppo. Possiamo pubblicare facilmente un libro su Amazon, ma chi finanzierà i nostri studi, le ricerche, l’editing, la promozione, e soprattutto il tempo che abbiamo speso per scriverlo? Il reddito universale non farà miracoli. Studi molto seri mostrano l’attuabilità di certe forme di Universal Basic Income, ma l’effetto non è sempre quello auspicato dagli utopisti: ad esempio il World Economic Forum considera che un versamento mensile incondizionato sarebbe addirittura un incentivo al lavoro, perché sostituirebbe i sussidi vincolati alla disoccupazione; mentre la scuola di Chicago ha sempre difeso questa misura perché giustificherebbe una totale privatizzazione del welfare. Insomma, se il reddito universale di base non spaventa nessuno è proprio perché, in fin dei conti, non cambia granché. Nelle interpretazioni che stanno prevalendo, si tratta soprattutto di riallocare le stesse risorse secondo una diversa configurazione, proprio come al gioco delle tre carte. Quanto poi al sogno di riuscire a ridistribuire la totalità dei profitti generati dall’automazione, la parte davvero difficile sarà convincere i cinesi a mantenere la classe media occidentale – più di quanto già non facciano. Intanto ce ne restiamo qui, con le nostre grandiose aspirazioni e la bocca asciutta.
• Una società situazionista?
Il vecchio progetto debordiano si è realizzato, ma in maniera deformata. Siamo tutti artisti, tutti piccoli imprenditori, ma dobbiamo pagare per esserlo. Una galassia di aspiranti qualche-cosa che non arrivano a fine mese ma intanto fanno prosperare l’economia delle piattaforme. Lo stesso Debord, quando la sua celebre scritta sul muro venne riprodotta su una cartolina negli anni Sessanta, non ottenne nemmeno un centesimo di royalties. Questa è la bolla in cui viviamo: ospiti di un parco giochi in cui coltivare le nostre illusioni, con buona pace degli utopisti e altri accelerazionisti, continuiamo a dovere finanziare in qualche modo i costumi di scena per la recita della “fine del lavoro”.
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L’INTERVISTA A STEFANO MASSINI
«Riempiamo il vuoto con ludopatia e social»
di Giuliana De Vito
E’ la risposta dell’homo erectus all’imperativo naturale, ancestrale, di procacciarsi il cibo. Ma è anche uno strumento di definizione e realizzazione di sé. Il concetto di lavoro ha due facce, fin dall’etimologia della parola, alla quale Stefano Massini, romanziere e drammaturgo, autore di Lehman trilogy – l’ultima regia firmata dal maestro Luca Ronconi–e da sempre sensibile al tema (suo è anche lo spettacolo Sette Minuti, divenuto anche un film per la regia di Michele Placido), ha dedicato il libro La - voro(Il Mulino, 2016). Siccome «le emozioni collegate a una parola ne compromettono il senso stesso», ecco che il termine “lavoro” si è degradato via via che gli cresceva attorno la disillusione. Esaminando la prima delle due facce, il labor, cioè la fatica che implica sofferenza e risponde «alla voce che ordina di procurarci materia prima da convertire in energia», Massini si domanda: fino a quando a una bestia che, nonostante una corsa agile, veda sempre fallire il suo agguato si può chiedere di perseguire nei propri inutili slanci? Per gli uomini la materia prima oggi è il denaro, spiega il drammaturgo a pagina99, e quella «bestia mortificata» è una metafora incarnata da chi il lavoro non lo trova e dai tanti neet, giovani che non hanno un impiego, non lo cercano né investono nelle proprie competenze. «In loro il trauma è particolarmente forte per via del confronto. Veniamo da una fase storica che era esattamente il contrario: i brillanti anni ’80-’90 ci hanno consegnato il ritratto di una società fin troppo fissata con l’obiettivo continuo del fare, del produrre a tutti i costi. Rispetto a quel modello oggi tutto è rimesso in discussione». In un Paese costituzionalmente fondato sul lavoro, ma in cui questo elemento programmatico basilare ha perso ogni concretezza, che rispostadiamo a quell’imperativo di sopravvivenza? Secondo Massini l’abbiamo affidata alla sorte, alla Fortuna: «C’è uno sviluppo esponenziale di slot machine e gratta&vinci. Molti fanno notare che esistevano anche prima.Ma c’è una bella differenza tra giocare al Totocalcio una volta a settimana e stare tre ore al giorno attaccati alla slot machine. L’immagine di gente accalcata a grattare è un’esperienza che chiunque di noi ha avuto, in Italia come all’estero. Ha mai provato a guardare le pattumiere appena fuori dai tabaccai? Il tentativo della fortuna si è sostituito alla “vivanda”, a ciò che mi dà da vivere: non a caso qualche anno fa è stato introdotto il Gratta&vinci con la formula della vittoria sotto forma di stipendio, quantificata in un tot al mese invece della classica grossa vincita una tantum». Ma è forse nell’altra faccia della parola “la - voro”che si percepisce di più la portata del mutamento culturale. La radice sanscrita da cui deriva il labor latino, spiega Massini, vuol dire “conseguire ciò che si desidera”, in un senso che arriva a disegnare una “morfologia sociale”, cioè a definire la posizione di ciascuno nel mondo. Prima che la crisi deflagrasse, alla domanda “Che lavoro fai?” si rispondeva usando il verbo essere (“Sono un medico”, per esempio), «il verbo sommo deputato dell’identità, sinonimo di “esistere”, strumento di affermazione suprema e quindi sintesi politica dell’individuo». Nel momento in cui il lavoro non è più percepito come una “colonna portante dell’edificio esistenziale di ciascuno”, la definizione delle identità di ognuno arriva da un altrove, dal modo in cui riempiamo il nostro tempo libero, spesso specchiandolo nel virtuale. Se l’occupazione (da ob capere) è ciò che riempie il nostro tempo, sottraendolo ad altro, quando questa manca o è precaria il tempo sottratto è poco e quello (cosiddetto) “libero”si dilata: così «aspetti un tempo considerati marginali come un hobby, l’essere tifoso di una squadra di calcio o il seguire appassionatamente una certa serie tv diventano qualificanti. È molto più facile che un architetto cerchi dei propri simili in rete passando dal filtro di uno di questi interessi, percepiti come essenziali, che dal fatto di fare l’architetto», riflette Massini. Un esempio calzante? «Artisti come Jannacci o Vecchioni, che si sono connotati anche per la professione che svolgevano al di là e prima della musica, se fossero emergenti oggi nasconderebbero la professione di cardiologo o insegnante, perché – al contrario di quanto è accaduto nelle loro carriere – non lo considererebbero qualificante né determinante. Ed è chiaro che questo è un effetto del precariato: se faccio un lavoro ma non so se lo avrò ancora tra un mese, faccio fatica a definirmi attraverso esso». Il problema vero, secondo Massini, è stata la rapidità dei cambiamenti: «Era chiaro che l’arrivo delle auto a motore avrebbe determinato la fine del mestiere di cocchiere, ma ciò è avvenuto in modo lento e graduale, quindi non particolarmente traumatico; oggi i mutamenti del lavoro sono velocissimi rispetto alla nostra capacità di capirli e adeguarci: è diventato tutto così baumaniamente liquido che, nella fretta, abbiamo tolto la diga e ci è venuto tutto addosso».
L’INTERVISTA A STEFANO MASSINI
«Riempiamo il vuoto con ludopatia e social»
di Giuliana De Vito
E’ la risposta dell’homo erectus all’imperativo naturale, ancestrale, di procacciarsi il cibo. Ma è anche uno strumento di definizione e realizzazione di sé. Il concetto di lavoro ha due facce, fin dall’etimologia della parola, alla quale Stefano Massini, romanziere e drammaturgo, autore di Lehman trilogy – l’ultima regia firmata dal maestro Luca Ronconi–e da sempre sensibile al tema (suo è anche lo spettacolo Sette Minuti, divenuto anche un film per la regia di Michele Placido), ha dedicato il libro La - voro(Il Mulino, 2016). Siccome «le emozioni collegate a una parola ne compromettono il senso stesso», ecco che il termine “lavoro” si è degradato via via che gli cresceva attorno la disillusione. Esaminando la prima delle due facce, il labor, cioè la fatica che implica sofferenza e risponde «alla voce che ordina di procurarci materia prima da convertire in energia», Massini si domanda: fino a quando a una bestia che, nonostante una corsa agile, veda sempre fallire il suo agguato si può chiedere di perseguire nei propri inutili slanci? Per gli uomini la materia prima oggi è il denaro, spiega il drammaturgo a pagina99, e quella «bestia mortificata» è una metafora incarnata da chi il lavoro non lo trova e dai tanti neet, giovani che non hanno un impiego, non lo cercano né investono nelle proprie competenze. «In loro il trauma è particolarmente forte per via del confronto. Veniamo da una fase storica che era esattamente il contrario: i brillanti anni ’80-’90 ci hanno consegnato il ritratto di una società fin troppo fissata con l’obiettivo continuo del fare, del produrre a tutti i costi. Rispetto a quel modello oggi tutto è rimesso in discussione». In un Paese costituzionalmente fondato sul lavoro, ma in cui questo elemento programmatico basilare ha perso ogni concretezza, che rispostadiamo a quell’imperativo di sopravvivenza? Secondo Massini l’abbiamo affidata alla sorte, alla Fortuna: «C’è uno sviluppo esponenziale di slot machine e gratta&vinci. Molti fanno notare che esistevano anche prima.Ma c’è una bella differenza tra giocare al Totocalcio una volta a settimana e stare tre ore al giorno attaccati alla slot machine. L’immagine di gente accalcata a grattare è un’esperienza che chiunque di noi ha avuto, in Italia come all’estero. Ha mai provato a guardare le pattumiere appena fuori dai tabaccai? Il tentativo della fortuna si è sostituito alla “vivanda”, a ciò che mi dà da vivere: non a caso qualche anno fa è stato introdotto il Gratta&vinci con la formula della vittoria sotto forma di stipendio, quantificata in un tot al mese invece della classica grossa vincita una tantum». Ma è forse nell’altra faccia della parola “la - voro”che si percepisce di più la portata del mutamento culturale. La radice sanscrita da cui deriva il labor latino, spiega Massini, vuol dire “conseguire ciò che si desidera”, in un senso che arriva a disegnare una “morfologia sociale”, cioè a definire la posizione di ciascuno nel mondo. Prima che la crisi deflagrasse, alla domanda “Che lavoro fai?” si rispondeva usando il verbo essere (“Sono un medico”, per esempio), «il verbo sommo deputato dell’identità, sinonimo di “esistere”, strumento di affermazione suprema e quindi sintesi politica dell’individuo». Nel momento in cui il lavoro non è più percepito come una “colonna portante dell’edificio esistenziale di ciascuno”, la definizione delle identità di ognuno arriva da un altrove, dal modo in cui riempiamo il nostro tempo libero, spesso specchiandolo nel virtuale. Se l’occupazione (da ob capere) è ciò che riempie il nostro tempo, sottraendolo ad altro, quando questa manca o è precaria il tempo sottratto è poco e quello (cosiddetto) “libero”si dilata: così «aspetti un tempo considerati marginali come un hobby, l’essere tifoso di una squadra di calcio o il seguire appassionatamente una certa serie tv diventano qualificanti. È molto più facile che un architetto cerchi dei propri simili in rete passando dal filtro di uno di questi interessi, percepiti come essenziali, che dal fatto di fare l’architetto», riflette Massini. Un esempio calzante? «Artisti come Jannacci o Vecchioni, che si sono connotati anche per la professione che svolgevano al di là e prima della musica, se fossero emergenti oggi nasconderebbero la professione di cardiologo o insegnante, perché – al contrario di quanto è accaduto nelle loro carriere – non lo considererebbero qualificante né determinante. Ed è chiaro che questo è un effetto del precariato: se faccio un lavoro ma non so se lo avrò ancora tra un mese, faccio fatica a definirmi attraverso esso». Il problema vero, secondo Massini, è stata la rapidità dei cambiamenti: «Era chiaro che l’arrivo delle auto a motore avrebbe determinato la fine del mestiere di cocchiere, ma ciò è avvenuto in modo lento e graduale, quindi non particolarmente traumatico; oggi i mutamenti del lavoro sono velocissimi rispetto alla nostra capacità di capirli e adeguarci: è diventato tutto così baumaniamente liquido che, nella fretta, abbiamo tolto la diga e ci è venuto tutto addosso».
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Il welfare delle mance, meno servizi, più bonus
Lo Stato sociale è al capolinea
Conti pubblici | Soldi ai diciottenni, alle neo-mamme, agli insegnanti e ai pensionati. Mentre si taglia sulla sanità e nell’istruzione siamo terzultimi in Europa: viaggio nei guasti del welfare italiano
di Samuele Cafasso
In quale momento l’Italia è diventato un Paese dove fare Stato sociale non vuol dire più fornire servizi per tutti ma, semplicemente, mettere soldi in mano ai cittadini attraverso bonus, detrazioni, sgravi, mance a vario titolo, sperando poi che in mezzo alla crisi se la risolvano da soli? I dati Eurostat ci dicono che in Europa l’Italia è il Paese che stanzia meno risorse in percentuale rispetto al Pil per il welfare di servizi (7,1%) e, al contrario, più di tutti per erogazioni in denaro (21,7%), come mostriamo nel grafico pubblicato qui a fianco. I numeri dell’istituto statistico europeo si fermano al 2014. Da allora la situazione è ulteriormente peggiorata, come mostra il secondo grafico (dati Istat) che mostra la spesa sociale in valori assoluti: dagli 80 euro in poi, il governo Renzi prima e quello Gentiloni dopo hanno approvato una sventagliata di misure che, a partire dal lavoro, sono tutte sottese da un’unica ideologia. Tagli ai servizi, mano larga sugli incentivi. Ma funziona? • Lo Stato leggero Mentresul governo piovono da destra come da sinistra le critiche comprensibili di chi vede nella politica delle mance una affannosa campagna elettorale, miete consensi la proposta dell’Istituto Bruno Leoni che porta la firma di un economista come Nicola Rossi, nome ben dentro la storia della sinistra italiana. La flat tax al 25% porta con sé, sebbene se ne sia parlato meno, il “minimo vitale”, un sussidio universale da erogarsi, sotto forma di carta di credito, a chi ha redditi sotto il livello di sussistenza e che cancella ogni bonus, sgravio o detrazione attualmente in vigore. Il minimo vitale piace perché semplifica, nelle parole dello stesso Nicola Rossi, «una serie di misure ognuna delle quali ha una sua specifica giustificazione, di solito generate da necessità del momento (e intendo anche elettorali) che messe insieme generano un risultato poco comprensibile». Verrebbe erogata sotto forma di carta di credito utilizzabile solo per determinati scopi: affitto, utenze, servizi sociali come asili, sanità e altro ancora. Spazza via la politica delle mance, ma è anche la fine dello Stato sociale erogatore di servizi. Come ci spiega lo stesso Rossi, «anziché erogare servizi, viene corrisposta una somma. Noi abbiamo uno Stato che intermedia il 50% delle risorse del Paese e che, lo dicono i dati, si è dimostrato tra i più inefficienti insieme alla Grecia nel mitigare gli effetti della crisi. Limitare lo Stato significa riportarlo a dimensioni più ragionevoli. Ovviamente lo Stato continua a fornire servizi di utilità pubblica, ma a mio modo di vedere dovrebbe farlo in concorrenza con il privato, lasciando la possibilità al cittadino di scegliere». Fumo negli occhi, quello gettato da Rossi, negli occhi di chi crede ancora che lo Stato sociale sia una cosa diversa. «Un welfare di servizi», sostiene Michele Raitano, ricercatore alla Sapienza di Roma, «ha vantaggi enormi in termini di equità di accesso, ricadute macro-economiche, coesione sociale. La filosofia di chi non vuole uno Stato che eroga servizi è la filosofia di chi pensa che va combattuta la povertà estrema, ma che la disuguaglianza non sia un problema. Dove lo Stato si fa da parte, nascono le università riservate alle élite, lo stesso succede per la sanità. Fa specie che questi discorsi facciano breccia anche in un governo di centrosinistra».
• Demolire tutto
Ci sono diversi motivi che spiegano l’eccezione italiana di un welfare tutto di soldi e pochissimo di servizi. Innanzitutto il peso dell’età e quindi delle pensioni. Prendendo come riferimento i dati del 2014 di Italia e Francia, vediamo che il peso delle prestazioni sociali sul Pil è maggiore Oltralpe: 28,8% contro 32,2%. Se guardiamo alle sole prestazioni in denaro, l’Italia invece spende di più in rapporto al prodotto interno lordo: 21,7% contro il 20,5%. Ma è colpa soprattutto delle pensioni che a Roma valgono il 14,1% del Pil e a Parigi il 12,9%. In Germania, le pensioni si mangiano “solo” il 9,1%. Questo porta con sé un altro dato: sull’istruzione il nostro Paese spende il 4% del Pil, terzultimi nel Continente, contro una media europea del 4,9%. Ma non c’è solo il problema delle pensioni. Negli ultimi dieci anno molto ha pesato la sfiducia nell’intervento pubblico. Dieci anni di inchieste giornalistiche mirate a puntare il dito sugli sprechi dello Stato e una politica che risponde a colpi di spending review hanno generato questi numeri: se nel 2005 la spesa sociale in servizi valeva 116 miliardi (prezzi rivalutati al 2015), oggi ne vale poco meno di 113, nonostante negli stessi anni la spesa sociale complessiva sia cresciuta di oltre 40 miliardi. Nessuno nega che gli sprechi non fossero reali, ma i tagli spesso hanno buttato via il bambino insieme all’acqua sporca. «Si è fatto un gran parlare, in questi anni, di spending review come fattore positivo e stabilizzatore dei conti pubblici e i tagli imposti dalla Legge Delrio sono andati proprio in questa direzione», spiega Gabriella Di Girolamo, sindacalista della Funzione Pubblica Cisl, «togliendo però risorse vitali alle Province, un ente di prossimità che, con la mancata approvazione referendaria della riforma costituzionale, si ritrova oggi in un limbo, con risorse insufficienti ma con la funzione costituzionalmente riconosciuta di manutenere le strade, tutelare l’ambiente e l’edilizia scolastica. Sono almeno dieci, ad oggi, gli enti in pre-dissesto finanziario. Un discorso analogo per i Centri per l’Impiego: dovevano essere il perno intorno al quale rilanciare le politiche attive del lavoro, ma oggi i dipendenti degli oltre 550 centri si muovono tra carenze di organico, precariato diffuso e stipendi non erogati». E poi ci sono le storie personali, come quella di Linda Lomeo, trentasei anni, tre figli. I primi due nati, nel 2009 e nel 2013, sono cascati in anni in cui non erano previsti incentivi o agevolazioni di alcun tipo. La terzogenita, classe 2017, le è valsa invece il mitico bonus-bebè, poco meno di 100 euro al mese. Che sono meglio di niente, ma non ci paghi certo l’asilo nido: «Io poi da questo punto di vista sono a posto perché faccio parte di una cooperativa che gestisce anche tre asili. Ma se non fosse così... per la retta, se non c’è posto negli asili comunali, si spende tra i 500 e i 700 euro al mese, mentre di fatto il congedo di paternità non esiste, limitato come è a tre giorni. La logica dei bonus non è sempre negativa: aiuta le famiglie ad attivarsi autonomamente, a consapevolizzarsi. Quello che però constato è la mancanza di un pensiero corrispondente da parte delle istituzioni, come se fornendo un bonus ci si sgravasse da una corresponsabilità, da una coprogettazione. Lo stesso succede nel campo dove lavoro, l’assistenza ai disabili».
• Bonus in cambio di voti
Ad aprile il centro studi della Uil ha fatto il conto di quanto valgono tutti i bonus erogati negli ultimi tre anni prima dal governo Renzi e poi da quello Gentiloni: 50 miliardi di euro. Si va dai famigerati 80 euro in busta paga – atto primo dell’epopea renziana che da solo vale 25 miliardi–al bonus diciottenni, quello per gli insegnanti (anzi due: merito e aggiornamento), bonus bebè, bonus asilo nido, Student Act, 80 euro per i militari, esoneri contributivi per le assunzioni, bonus “Stradivari”, premio alla nascita. È un elenco parziale. Manca nel conteggio della Uil, solo per fare qualche esempio, l’iperammortamento per l’in - dustria 4.0, gli interventi per l’Ape, l’annunciato intervento a favore delle pensioni per i più giovani, il reddito di inclusione per i più poveri, i bonus ristrutturazione e risparmio energetico. È lo Stato dei sussidiati: un po’ di soldi di qui e un po’ di soldi di là per rattoppare un sistema che non riesce a garantire le pensioni, che non genera crescita economica, che non dà servizi all’infanzia e non fa politiche giovanili. Da una parte lo Stato sociale è stato in parte smantellato, dall’altra la crisi economica rende impossibile ad ampie fasce della popolazione fare affidamento ai soli redditi di mercato. Il lavoro è stato, in questo senso, il laboratorio principale. Buttato Keynes nella cassetta dei ferrivecchi inservibili, il governo Renzi ha optato per una politica integralmente basata su riduzioni dei vincoli per le aziende e incentivi. Il piano per gli esoneri contributivi del 2015 che ha portato a un picco di assunzioni a tempo indeterminato è costato 15 miliardi, la riedizione 2016 4,3. Con la fine degli incentivi, dato oramai noto, le assunzioni a tempo indeterminato sono crollate. Ed è ripartito l’assalto alla diligenza: poiché, alla fine dei conti, quelli che dovevano essere i reali beneficiari di questa misura, ovvero gli under 30, hanno beneficiato degli aiuti solo in un terzo dei casi, ora si sta studiando la decontribuzione mirata sui più giovani. Sul piatto questa volta però ci sono solo due miliardi. Confindustria–l’appetito vien mangiando –ne chiede 10. Ma quanto ci è costato creare lavoro tramite gli incentivi? In uno studio realizzato insieme a Fabrizio Patriarca e Marta Fana, l’economista Michele Raitano calcola che ogni posto di lavoro creato con gli incentivi è costato allo Stato tra i 25 e i 50 mila euro, Nella stima più bassa, stiamo comunque parlando del costo annuale di un neo-assunto nella pubblica amministrazione. Secondo Raitano «gli sgravi occupazionali sono inefficaci e iniqui. Inefficaci perché, essendo rivolti a tutti, non concentrano le risorse in quei casi dove è realmente necessario stimolare la domanda di lavoro. Iniqui perché si traducono in un trasferimento di risorse dalla fiscalità generale alle aziende. Ancora una volta, si tolgono soldi al lavoro e si spostano a favore del profitto ». Meglio sarebbe stato investire quei soldi in politiche industriali, «ma i risultati si sarebbero visti solo nel tempo mentre qui si guarda al consenso immediato». La prova, se mai servisse, è nel dibattito di questi mesi: il Pd dilaniato da chi chiede interventi per i pensionati, chi vuole concentrarsi sugli under 30. Sempre con un occhio alle urne. La stagione dei bonus, non è ancora finita. C’è da aspettare, almeno, la fine della campagna elettorale
Il welfare delle mance, meno servizi, più bonus
Lo Stato sociale è al capolinea
Conti pubblici | Soldi ai diciottenni, alle neo-mamme, agli insegnanti e ai pensionati. Mentre si taglia sulla sanità e nell’istruzione siamo terzultimi in Europa: viaggio nei guasti del welfare italiano
di Samuele Cafasso
In quale momento l’Italia è diventato un Paese dove fare Stato sociale non vuol dire più fornire servizi per tutti ma, semplicemente, mettere soldi in mano ai cittadini attraverso bonus, detrazioni, sgravi, mance a vario titolo, sperando poi che in mezzo alla crisi se la risolvano da soli? I dati Eurostat ci dicono che in Europa l’Italia è il Paese che stanzia meno risorse in percentuale rispetto al Pil per il welfare di servizi (7,1%) e, al contrario, più di tutti per erogazioni in denaro (21,7%), come mostriamo nel grafico pubblicato qui a fianco. I numeri dell’istituto statistico europeo si fermano al 2014. Da allora la situazione è ulteriormente peggiorata, come mostra il secondo grafico (dati Istat) che mostra la spesa sociale in valori assoluti: dagli 80 euro in poi, il governo Renzi prima e quello Gentiloni dopo hanno approvato una sventagliata di misure che, a partire dal lavoro, sono tutte sottese da un’unica ideologia. Tagli ai servizi, mano larga sugli incentivi. Ma funziona? • Lo Stato leggero Mentresul governo piovono da destra come da sinistra le critiche comprensibili di chi vede nella politica delle mance una affannosa campagna elettorale, miete consensi la proposta dell’Istituto Bruno Leoni che porta la firma di un economista come Nicola Rossi, nome ben dentro la storia della sinistra italiana. La flat tax al 25% porta con sé, sebbene se ne sia parlato meno, il “minimo vitale”, un sussidio universale da erogarsi, sotto forma di carta di credito, a chi ha redditi sotto il livello di sussistenza e che cancella ogni bonus, sgravio o detrazione attualmente in vigore. Il minimo vitale piace perché semplifica, nelle parole dello stesso Nicola Rossi, «una serie di misure ognuna delle quali ha una sua specifica giustificazione, di solito generate da necessità del momento (e intendo anche elettorali) che messe insieme generano un risultato poco comprensibile». Verrebbe erogata sotto forma di carta di credito utilizzabile solo per determinati scopi: affitto, utenze, servizi sociali come asili, sanità e altro ancora. Spazza via la politica delle mance, ma è anche la fine dello Stato sociale erogatore di servizi. Come ci spiega lo stesso Rossi, «anziché erogare servizi, viene corrisposta una somma. Noi abbiamo uno Stato che intermedia il 50% delle risorse del Paese e che, lo dicono i dati, si è dimostrato tra i più inefficienti insieme alla Grecia nel mitigare gli effetti della crisi. Limitare lo Stato significa riportarlo a dimensioni più ragionevoli. Ovviamente lo Stato continua a fornire servizi di utilità pubblica, ma a mio modo di vedere dovrebbe farlo in concorrenza con il privato, lasciando la possibilità al cittadino di scegliere». Fumo negli occhi, quello gettato da Rossi, negli occhi di chi crede ancora che lo Stato sociale sia una cosa diversa. «Un welfare di servizi», sostiene Michele Raitano, ricercatore alla Sapienza di Roma, «ha vantaggi enormi in termini di equità di accesso, ricadute macro-economiche, coesione sociale. La filosofia di chi non vuole uno Stato che eroga servizi è la filosofia di chi pensa che va combattuta la povertà estrema, ma che la disuguaglianza non sia un problema. Dove lo Stato si fa da parte, nascono le università riservate alle élite, lo stesso succede per la sanità. Fa specie che questi discorsi facciano breccia anche in un governo di centrosinistra».
• Demolire tutto
Ci sono diversi motivi che spiegano l’eccezione italiana di un welfare tutto di soldi e pochissimo di servizi. Innanzitutto il peso dell’età e quindi delle pensioni. Prendendo come riferimento i dati del 2014 di Italia e Francia, vediamo che il peso delle prestazioni sociali sul Pil è maggiore Oltralpe: 28,8% contro 32,2%. Se guardiamo alle sole prestazioni in denaro, l’Italia invece spende di più in rapporto al prodotto interno lordo: 21,7% contro il 20,5%. Ma è colpa soprattutto delle pensioni che a Roma valgono il 14,1% del Pil e a Parigi il 12,9%. In Germania, le pensioni si mangiano “solo” il 9,1%. Questo porta con sé un altro dato: sull’istruzione il nostro Paese spende il 4% del Pil, terzultimi nel Continente, contro una media europea del 4,9%. Ma non c’è solo il problema delle pensioni. Negli ultimi dieci anno molto ha pesato la sfiducia nell’intervento pubblico. Dieci anni di inchieste giornalistiche mirate a puntare il dito sugli sprechi dello Stato e una politica che risponde a colpi di spending review hanno generato questi numeri: se nel 2005 la spesa sociale in servizi valeva 116 miliardi (prezzi rivalutati al 2015), oggi ne vale poco meno di 113, nonostante negli stessi anni la spesa sociale complessiva sia cresciuta di oltre 40 miliardi. Nessuno nega che gli sprechi non fossero reali, ma i tagli spesso hanno buttato via il bambino insieme all’acqua sporca. «Si è fatto un gran parlare, in questi anni, di spending review come fattore positivo e stabilizzatore dei conti pubblici e i tagli imposti dalla Legge Delrio sono andati proprio in questa direzione», spiega Gabriella Di Girolamo, sindacalista della Funzione Pubblica Cisl, «togliendo però risorse vitali alle Province, un ente di prossimità che, con la mancata approvazione referendaria della riforma costituzionale, si ritrova oggi in un limbo, con risorse insufficienti ma con la funzione costituzionalmente riconosciuta di manutenere le strade, tutelare l’ambiente e l’edilizia scolastica. Sono almeno dieci, ad oggi, gli enti in pre-dissesto finanziario. Un discorso analogo per i Centri per l’Impiego: dovevano essere il perno intorno al quale rilanciare le politiche attive del lavoro, ma oggi i dipendenti degli oltre 550 centri si muovono tra carenze di organico, precariato diffuso e stipendi non erogati». E poi ci sono le storie personali, come quella di Linda Lomeo, trentasei anni, tre figli. I primi due nati, nel 2009 e nel 2013, sono cascati in anni in cui non erano previsti incentivi o agevolazioni di alcun tipo. La terzogenita, classe 2017, le è valsa invece il mitico bonus-bebè, poco meno di 100 euro al mese. Che sono meglio di niente, ma non ci paghi certo l’asilo nido: «Io poi da questo punto di vista sono a posto perché faccio parte di una cooperativa che gestisce anche tre asili. Ma se non fosse così... per la retta, se non c’è posto negli asili comunali, si spende tra i 500 e i 700 euro al mese, mentre di fatto il congedo di paternità non esiste, limitato come è a tre giorni. La logica dei bonus non è sempre negativa: aiuta le famiglie ad attivarsi autonomamente, a consapevolizzarsi. Quello che però constato è la mancanza di un pensiero corrispondente da parte delle istituzioni, come se fornendo un bonus ci si sgravasse da una corresponsabilità, da una coprogettazione. Lo stesso succede nel campo dove lavoro, l’assistenza ai disabili».
• Bonus in cambio di voti
Ad aprile il centro studi della Uil ha fatto il conto di quanto valgono tutti i bonus erogati negli ultimi tre anni prima dal governo Renzi e poi da quello Gentiloni: 50 miliardi di euro. Si va dai famigerati 80 euro in busta paga – atto primo dell’epopea renziana che da solo vale 25 miliardi–al bonus diciottenni, quello per gli insegnanti (anzi due: merito e aggiornamento), bonus bebè, bonus asilo nido, Student Act, 80 euro per i militari, esoneri contributivi per le assunzioni, bonus “Stradivari”, premio alla nascita. È un elenco parziale. Manca nel conteggio della Uil, solo per fare qualche esempio, l’iperammortamento per l’in - dustria 4.0, gli interventi per l’Ape, l’annunciato intervento a favore delle pensioni per i più giovani, il reddito di inclusione per i più poveri, i bonus ristrutturazione e risparmio energetico. È lo Stato dei sussidiati: un po’ di soldi di qui e un po’ di soldi di là per rattoppare un sistema che non riesce a garantire le pensioni, che non genera crescita economica, che non dà servizi all’infanzia e non fa politiche giovanili. Da una parte lo Stato sociale è stato in parte smantellato, dall’altra la crisi economica rende impossibile ad ampie fasce della popolazione fare affidamento ai soli redditi di mercato. Il lavoro è stato, in questo senso, il laboratorio principale. Buttato Keynes nella cassetta dei ferrivecchi inservibili, il governo Renzi ha optato per una politica integralmente basata su riduzioni dei vincoli per le aziende e incentivi. Il piano per gli esoneri contributivi del 2015 che ha portato a un picco di assunzioni a tempo indeterminato è costato 15 miliardi, la riedizione 2016 4,3. Con la fine degli incentivi, dato oramai noto, le assunzioni a tempo indeterminato sono crollate. Ed è ripartito l’assalto alla diligenza: poiché, alla fine dei conti, quelli che dovevano essere i reali beneficiari di questa misura, ovvero gli under 30, hanno beneficiato degli aiuti solo in un terzo dei casi, ora si sta studiando la decontribuzione mirata sui più giovani. Sul piatto questa volta però ci sono solo due miliardi. Confindustria–l’appetito vien mangiando –ne chiede 10. Ma quanto ci è costato creare lavoro tramite gli incentivi? In uno studio realizzato insieme a Fabrizio Patriarca e Marta Fana, l’economista Michele Raitano calcola che ogni posto di lavoro creato con gli incentivi è costato allo Stato tra i 25 e i 50 mila euro, Nella stima più bassa, stiamo comunque parlando del costo annuale di un neo-assunto nella pubblica amministrazione. Secondo Raitano «gli sgravi occupazionali sono inefficaci e iniqui. Inefficaci perché, essendo rivolti a tutti, non concentrano le risorse in quei casi dove è realmente necessario stimolare la domanda di lavoro. Iniqui perché si traducono in un trasferimento di risorse dalla fiscalità generale alle aziende. Ancora una volta, si tolgono soldi al lavoro e si spostano a favore del profitto ». Meglio sarebbe stato investire quei soldi in politiche industriali, «ma i risultati si sarebbero visti solo nel tempo mentre qui si guarda al consenso immediato». La prova, se mai servisse, è nel dibattito di questi mesi: il Pd dilaniato da chi chiede interventi per i pensionati, chi vuole concentrarsi sugli under 30. Sempre con un occhio alle urne. La stagione dei bonus, non è ancora finita. C’è da aspettare, almeno, la fine della campagna elettorale
Repubblica 9.9.17
Su La7 parte “Skroll”, la striscia quotidiana del vignettista della banda di Zoro
Il blob di Makkox senza politica “Con la nostra satira si ride troppo poco”
di Silvia Fumarola
ROMA POETICO, quando dedica a Paolo Villaggio una vignetta in cui Fantozzi arriva in Paradiso e chiede a “sua Eccellenza” di avere anche lui una nuvoletta. Che puntuale arriva, ma non soffice sotto i suoi piedi, nera e carica di pioggia, sulla sua testa. Ma sempre caustico con i politici, da Alfano a Renzi. Marco D’Ambrosio, in arte Makkox, chioma a cespuglio il disegnatore della banda di Gazebo («Lo scriva» dice con aria sorniona «che devo tutto a Zoro») da lunedì debutta su La7 alle 19.30 con Skroll. Sarà un Blob con immagini prese del web montate in una striscia quotidiana. «Non è facilissimo, lo so» dice subito «perché c’è tanta roba».
Makkox, cosa sceglierà?
«Le cose divertenti.Oggi viene tutto dalla rete e dai social. Instagram mi piace particolarmente perché è più visuale, più pop, più frivolo. Twitter è un social impegnato, Facebook è molto litigioso, Tumblr. è troppo raffinato. Instagram è il più giusto».
“Blob” segue un filo conduttore, lei come si regolerà?
«Segui Trump mentre sotto sbuca un gatto rosso che gli somiglia tantissimo: sublime. Leghi soluzioni umoristiche o satiriche, contrappunti nel flusso. Fare Skroll non vuol dire prendere cose della rete e e buttarle in tv chiave umoristica».
Non ci sarà la politica?
«No, in nessun modo. Twitter ormai è anche uno strumento politico. Quando voglio respirare e rendermi conto che il mondo è fatto di folli e scemenze, allora faccio scrollare Instagram. Sarà un filmato chiuso, ci diamo un orario se no non riusciamo ad andare in onda se parto dalle notizie del giorno».
Si possono creare link su tutto?
«Quando è morto Gastone Moschin ho reso omaggio ad Amici miei, subito dopo ho montato Bobo Vieri con i suoi amici di calcetto. Si somigliano tutti se li vedi in maniera satirica, con un senso malinconico. Poi le prove le mando al direttore Andrea Salerno».
Che consigli le ha dato?
«Mi ha detto solo: “Divertiti”. Spero che siano idee che divertono me e gli spettatori, vado a cercare cose che non hanno senso».
Un po’ strano visto che lei viene dalla satira politica: che è successo?
«Non ce la faccio più a sentire discorsi politici ridotti a litigi, piccole furberie retoriche. Sembra Il processo del lunedì sempre, dicono cose imbarazzanti. Ti viene da dire: ora basta».
Che pensa della satira di sinistra nei confronti della sinistra?
«È l’unica che puoi fare. Devi conoscere bene la materia, ci deve essere empatia. Più la conosci e più riesci a essere efficace. Fare satira militante è un po’ come fare il chirurgo, che conosce il corpo. Quando rido dei nerd protagonisti della serie Big bang theory, capisco che tra chi scrive qualcuno è come loro».
Per fare satira sulla destra vale lo stesso principio?
«Ho un nonno finanziere, conosco anche la destra. I miei genitori hanno votato Berlusconi e le litigate che abbiamo fatto non si contano. Ci vedevamo solo alle feste, non abitano più in Italia. Non li vedo ma gli voglio bene. La destra, per così dire, mi è familiare».
Il politico che le piace di più disegnare?
«Berlusconi.Per me Silvio è come Topolino, gli faccio fare qualunque cosa. Infatti spesso mi dicono: “Quando lo disegni lo fai diventare simpatico”. Ma che ci posso fare? A me ricorda mio zio, un po’ spavaldo, un po’ intrallazzone. Da quel mix esce il meglio, dipingere l’avversario in maniera odiosa è una roba fascia. Gasparri non l’bo mai disegnato, Alfano si è arrabbiato ma l’ho reso bello armonico... Sarà stato consigliato male, io lo so che in fondo ci vuole bene ».
C’è un limite alla cattiveria?
«Puoi essere impietoso ma crudele è un’altra cosa. Charlie Hebdo è cattivo, ed è solo un registro.Non sbeffeggia i morti, si fa sberleffo della morte. Qui in uno spot cade il meteorite che colpisce la mamma e fa scandalo. Abbiamo paura di ridere, manca l’educazione alla satira».
Dal 27 settembre riparte con Diego Bianchi e iI nuovo “Gazebo”su La7: come s’intitolerà?
«Quello è un segreto».
Su La7 parte “Skroll”, la striscia quotidiana del vignettista della banda di Zoro
Il blob di Makkox senza politica “Con la nostra satira si ride troppo poco”
di Silvia Fumarola
ROMA POETICO, quando dedica a Paolo Villaggio una vignetta in cui Fantozzi arriva in Paradiso e chiede a “sua Eccellenza” di avere anche lui una nuvoletta. Che puntuale arriva, ma non soffice sotto i suoi piedi, nera e carica di pioggia, sulla sua testa. Ma sempre caustico con i politici, da Alfano a Renzi. Marco D’Ambrosio, in arte Makkox, chioma a cespuglio il disegnatore della banda di Gazebo («Lo scriva» dice con aria sorniona «che devo tutto a Zoro») da lunedì debutta su La7 alle 19.30 con Skroll. Sarà un Blob con immagini prese del web montate in una striscia quotidiana. «Non è facilissimo, lo so» dice subito «perché c’è tanta roba».
Makkox, cosa sceglierà?
«Le cose divertenti.Oggi viene tutto dalla rete e dai social. Instagram mi piace particolarmente perché è più visuale, più pop, più frivolo. Twitter è un social impegnato, Facebook è molto litigioso, Tumblr. è troppo raffinato. Instagram è il più giusto».
“Blob” segue un filo conduttore, lei come si regolerà?
«Segui Trump mentre sotto sbuca un gatto rosso che gli somiglia tantissimo: sublime. Leghi soluzioni umoristiche o satiriche, contrappunti nel flusso. Fare Skroll non vuol dire prendere cose della rete e e buttarle in tv chiave umoristica».
Non ci sarà la politica?
«No, in nessun modo. Twitter ormai è anche uno strumento politico. Quando voglio respirare e rendermi conto che il mondo è fatto di folli e scemenze, allora faccio scrollare Instagram. Sarà un filmato chiuso, ci diamo un orario se no non riusciamo ad andare in onda se parto dalle notizie del giorno».
Si possono creare link su tutto?
«Quando è morto Gastone Moschin ho reso omaggio ad Amici miei, subito dopo ho montato Bobo Vieri con i suoi amici di calcetto. Si somigliano tutti se li vedi in maniera satirica, con un senso malinconico. Poi le prove le mando al direttore Andrea Salerno».
Che consigli le ha dato?
«Mi ha detto solo: “Divertiti”. Spero che siano idee che divertono me e gli spettatori, vado a cercare cose che non hanno senso».
Un po’ strano visto che lei viene dalla satira politica: che è successo?
«Non ce la faccio più a sentire discorsi politici ridotti a litigi, piccole furberie retoriche. Sembra Il processo del lunedì sempre, dicono cose imbarazzanti. Ti viene da dire: ora basta».
Che pensa della satira di sinistra nei confronti della sinistra?
«È l’unica che puoi fare. Devi conoscere bene la materia, ci deve essere empatia. Più la conosci e più riesci a essere efficace. Fare satira militante è un po’ come fare il chirurgo, che conosce il corpo. Quando rido dei nerd protagonisti della serie Big bang theory, capisco che tra chi scrive qualcuno è come loro».
Per fare satira sulla destra vale lo stesso principio?
«Ho un nonno finanziere, conosco anche la destra. I miei genitori hanno votato Berlusconi e le litigate che abbiamo fatto non si contano. Ci vedevamo solo alle feste, non abitano più in Italia. Non li vedo ma gli voglio bene. La destra, per così dire, mi è familiare».
Il politico che le piace di più disegnare?
«Berlusconi.Per me Silvio è come Topolino, gli faccio fare qualunque cosa. Infatti spesso mi dicono: “Quando lo disegni lo fai diventare simpatico”. Ma che ci posso fare? A me ricorda mio zio, un po’ spavaldo, un po’ intrallazzone. Da quel mix esce il meglio, dipingere l’avversario in maniera odiosa è una roba fascia. Gasparri non l’bo mai disegnato, Alfano si è arrabbiato ma l’ho reso bello armonico... Sarà stato consigliato male, io lo so che in fondo ci vuole bene ».
C’è un limite alla cattiveria?
«Puoi essere impietoso ma crudele è un’altra cosa. Charlie Hebdo è cattivo, ed è solo un registro.Non sbeffeggia i morti, si fa sberleffo della morte. Qui in uno spot cade il meteorite che colpisce la mamma e fa scandalo. Abbiamo paura di ridere, manca l’educazione alla satira».
Dal 27 settembre riparte con Diego Bianchi e iI nuovo “Gazebo”su La7: come s’intitolerà?
«Quello è un segreto».
Corriere 9.9.17
Libero sul web il Dizionario della Crusca
Il Grande Dizionario della Lingua Italiana Utet — più conosciuto come «il Battaglia» — approderà sul web e potrà essere consultato gratuitamente grazie a un accordo che sarà siglato tra la casa editrice Utet Grandi opere e l’Accademia della Crusca. Sarà la Crusca a farlo diventare elettronico, e se ne servirà per allestire anche il Vocabolario dinamico dell’italiano moderno (VoDIM). L’accordo sarà presentato martedì 12 a Firenze da Armando Torno e firmato da Marco Castelluzzo, presidente e amministratore delegato di Utet, e da Claudio Marazzini, presi-dente della Crusca.
Libero sul web il Dizionario della Crusca
Il Grande Dizionario della Lingua Italiana Utet — più conosciuto come «il Battaglia» — approderà sul web e potrà essere consultato gratuitamente grazie a un accordo che sarà siglato tra la casa editrice Utet Grandi opere e l’Accademia della Crusca. Sarà la Crusca a farlo diventare elettronico, e se ne servirà per allestire anche il Vocabolario dinamico dell’italiano moderno (VoDIM). L’accordo sarà presentato martedì 12 a Firenze da Armando Torno e firmato da Marco Castelluzzo, presidente e amministratore delegato di Utet, e da Claudio Marazzini, presi-dente della Crusca.
Repubblica 9.9.17
Dal “fascismo che torna” al nuovo libro, parla John Le Carré: “Spie del passato come me, Fleming e Graham Greene avevano degli ideali: ora non c’è più nulla”
“Meglio la guerra fredda di questi nuovi Muri”
di Enrico Franceschini
LONDRA «Uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro di un nuovo fascismo », ammonisce John Le Carré. Per comprendere la Gran Bretagna, afferma l’Economist di questa settimana, bisogna leggere i romanzi di spionaggio britannici. Ma il riconosciuto maestro della spy story, lui stesso ex spia, ha una visione che travalica i confini nazionali: forse i suoi libri vanno letti non solo come thriller, bensì come strumenti per interpretare una minacciosa realtà. L’ultimo, “A legacy of spies” (in Italia lo pubblicherà Mondadori a inizio 2018 con il titolo “Un passato da
spia”), appena uscito a Londra, segnala il ritorno di George Smiley, protagonista de La talpa e altri bestseller del grande scrittore inglese. La critica lo ha accolto trionfalmente. Giovedì sera il pubblico ha riempito un teatro sul Tamigi e decine di sale cinematografiche in tutto il paese per sentire parlare il suo autore. E il messaggio non potrebbe essere più politico. «Quando comincio a scrivere ho chiaro in mente cosa vorrei che provasse il lettore arrivato alla fine”, dice l’85enne David Cornwell (il vero nome di Le Carré) al tavolo di un gastro-pub di Hampstead, il quartiere londinese in cui abita quando non è nella sua fattoria affacciata al mare in Cornovaglia, «e in questo caso avevo l’intenzione sovversiva di promuovere l’Europa». Ovvero di attaccare la Brexit. Ma nel suo mirino, in due ore di conversazione, ci sono anche Trump, Putin, Theresa May, l’Occidente.
In una delle ultime pagine, Smiley si domanda: “Per cosa abbiamo combattuto la guerra fredda?” E si risponde: “Per l’Europa”. Cosa vuole dire?
«Che lui, io nel mio piccolo finché ho fatto il suo stesso mestiere e i miei colleghi di allora, avevamo un idealismo di fondo: far cadere i muri attraverso il continente, ricreare un’Europa libera ed unita. Ci tenevo a sottolinearlo, nel momento in cui i muri vengono rialzati».
E in cui si allarga il canale della Manica. È anche un libro contro la Brexit?
«Era impossibile ignorare l’attualità mentre lo scrivevo. La Brexit mi ha fatto provare sgomento e vergogna. Uscire dal più grande mercato economico del pianeta è un errore che rimpiangeremo amaramente».
Perché è successo?
«Per quella che definisco “la maledizione dei vittoriosi”: lo sciovinismo derivato dal convincimento di avere vinto la seconda guerra mondiale. Mentre la verità è che noi britannici siamo soltanto sopravvissuti alla guerra, a vincerla sono stati gli americani e i russi. E poi la Brexit ha altre ragioni. Capisco il voto di protesta da parte dei dimenticati, gli operai o ex-operai della provincia inglese deindustrializzata.
Ma non capisco perché nessuno in Inghilterra ha parlato dei meriti dell’Europa unita al di fuori dei vantaggi economici».
Nel libro Smiley usa l’espressione “Citizen of nowhere”: è una citazione del controverso discorso di Theresa May, che dopo il referendum sulla Ue disse “o sei cittadino in un paese o non sei cittadino di niente”?
«Assolutamente sì. Parole sbagliate e riprovevoli. Ma a esprimerle è una classe di politicanti di serie B. Aspettiamo qualcuno che faccia rinsavire la nostra nazione».
Il laburista Jeremy Corbyn?
«Lo rispetto per i suoi principi, ma Corbyn è un leader delle proteste, non di governo».
Se Smiley vedesse il mondo di oggi, penserebbe che è migliore di quello della guerra fredda?
«Non ne sarebbe sicuro. Non saprebbe cosa pensare. La fine della guerra fredda è stata una grande occasione clamorosamente fallita dall’Occidente e adesso ne stiamo pagando il prezzo. Non c’è stato alcun Piano Marshall per la Russia, che anzi è stata umiliata. E il risultato è una Russia stalinista e autocratica, una cleptocrazia».
E cosa direbbe il suo alter ego letterario dell’America di Trump?
«Che è un paese sceso in guerra contro la verità. Che semina odio. Che minaccia di riscrivere la Costituzione. Il prossimo passo potrebbe essere dare alle fiamme i libri. È lo spettro di un nuovo fascismo, contagioso come un virus: non a caso se ne vedono già gli effetti, in Polonia, in Ungheria, perfino nella Birmania di Aung San Suu Kyi. Nel mondo sta accadendo qualcosa di estremamente preoccupante. A me ricorda l’atmosfera che portò all’ascesa del fascismo in Germania, Italia, Spagna, Giappone ».
Da ex spia e autore di spionaggio, crede che la Russia abbia davvero cercato di interferire sulle presidenziali americane?
«Non ne ho le prove, ma suppongo di sì. E trovo comico che proprio l’America gridi allo scandalo: se c’è un paese che ha interferito per mezzo secolo nelle elezioni degli altri sono gli Stati Uniti. Comunque Trump e Putin si somigliano, hanno lo stesso disprezzo per la democrazia liberale: perciò si piacciono».
La novità è la potenza dello spionaggio cibernetico.
«“Quello che ha rivelato Snowden è solo la punta dell’iceberg. Stiamo andando verso l’impossibilità di avere segreti. Per questo tanto varrebbe integrare lo spionaggio con il corpo diplomatico. Ma dubito che i potenti della terra mi daranno retta. Le spie esisteranno sempre».
L’Economist suggerisce di leggere Ian Fleming, Graham Greene e lei per capire la Gran Bretagna odierna: è d’accordo?
«Abbiamo fatto tutti e tre le spie. E le spie conoscono, o credono di conoscere, l’essenza della realtà».
Le secca che i critici chiudano i romanzi di spionaggio in una categoria minore rispetto alla narrativa letteraria?
«Ho smesso da tempo di leggere i critici. Le recensioni negative ti inducono al suicidio. Le positive ti fanno credere un dio. Un tale a un party mi ha detto: mi scusi, io non leggo i suoi libri perché non leggo i romanzi di spionaggio. Avrei voluto rispondergli: non legge neanche Conrad, perché non legge romanzi di mare?».
Dal “fascismo che torna” al nuovo libro, parla John Le Carré: “Spie del passato come me, Fleming e Graham Greene avevano degli ideali: ora non c’è più nulla”
“Meglio la guerra fredda di questi nuovi Muri”
di Enrico Franceschini
LONDRA «Uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro di un nuovo fascismo », ammonisce John Le Carré. Per comprendere la Gran Bretagna, afferma l’Economist di questa settimana, bisogna leggere i romanzi di spionaggio britannici. Ma il riconosciuto maestro della spy story, lui stesso ex spia, ha una visione che travalica i confini nazionali: forse i suoi libri vanno letti non solo come thriller, bensì come strumenti per interpretare una minacciosa realtà. L’ultimo, “A legacy of spies” (in Italia lo pubblicherà Mondadori a inizio 2018 con il titolo “Un passato da
spia”), appena uscito a Londra, segnala il ritorno di George Smiley, protagonista de La talpa e altri bestseller del grande scrittore inglese. La critica lo ha accolto trionfalmente. Giovedì sera il pubblico ha riempito un teatro sul Tamigi e decine di sale cinematografiche in tutto il paese per sentire parlare il suo autore. E il messaggio non potrebbe essere più politico. «Quando comincio a scrivere ho chiaro in mente cosa vorrei che provasse il lettore arrivato alla fine”, dice l’85enne David Cornwell (il vero nome di Le Carré) al tavolo di un gastro-pub di Hampstead, il quartiere londinese in cui abita quando non è nella sua fattoria affacciata al mare in Cornovaglia, «e in questo caso avevo l’intenzione sovversiva di promuovere l’Europa». Ovvero di attaccare la Brexit. Ma nel suo mirino, in due ore di conversazione, ci sono anche Trump, Putin, Theresa May, l’Occidente.
In una delle ultime pagine, Smiley si domanda: “Per cosa abbiamo combattuto la guerra fredda?” E si risponde: “Per l’Europa”. Cosa vuole dire?
«Che lui, io nel mio piccolo finché ho fatto il suo stesso mestiere e i miei colleghi di allora, avevamo un idealismo di fondo: far cadere i muri attraverso il continente, ricreare un’Europa libera ed unita. Ci tenevo a sottolinearlo, nel momento in cui i muri vengono rialzati».
E in cui si allarga il canale della Manica. È anche un libro contro la Brexit?
«Era impossibile ignorare l’attualità mentre lo scrivevo. La Brexit mi ha fatto provare sgomento e vergogna. Uscire dal più grande mercato economico del pianeta è un errore che rimpiangeremo amaramente».
Perché è successo?
«Per quella che definisco “la maledizione dei vittoriosi”: lo sciovinismo derivato dal convincimento di avere vinto la seconda guerra mondiale. Mentre la verità è che noi britannici siamo soltanto sopravvissuti alla guerra, a vincerla sono stati gli americani e i russi. E poi la Brexit ha altre ragioni. Capisco il voto di protesta da parte dei dimenticati, gli operai o ex-operai della provincia inglese deindustrializzata.
Ma non capisco perché nessuno in Inghilterra ha parlato dei meriti dell’Europa unita al di fuori dei vantaggi economici».
Nel libro Smiley usa l’espressione “Citizen of nowhere”: è una citazione del controverso discorso di Theresa May, che dopo il referendum sulla Ue disse “o sei cittadino in un paese o non sei cittadino di niente”?
«Assolutamente sì. Parole sbagliate e riprovevoli. Ma a esprimerle è una classe di politicanti di serie B. Aspettiamo qualcuno che faccia rinsavire la nostra nazione».
Il laburista Jeremy Corbyn?
«Lo rispetto per i suoi principi, ma Corbyn è un leader delle proteste, non di governo».
Se Smiley vedesse il mondo di oggi, penserebbe che è migliore di quello della guerra fredda?
«Non ne sarebbe sicuro. Non saprebbe cosa pensare. La fine della guerra fredda è stata una grande occasione clamorosamente fallita dall’Occidente e adesso ne stiamo pagando il prezzo. Non c’è stato alcun Piano Marshall per la Russia, che anzi è stata umiliata. E il risultato è una Russia stalinista e autocratica, una cleptocrazia».
E cosa direbbe il suo alter ego letterario dell’America di Trump?
«Che è un paese sceso in guerra contro la verità. Che semina odio. Che minaccia di riscrivere la Costituzione. Il prossimo passo potrebbe essere dare alle fiamme i libri. È lo spettro di un nuovo fascismo, contagioso come un virus: non a caso se ne vedono già gli effetti, in Polonia, in Ungheria, perfino nella Birmania di Aung San Suu Kyi. Nel mondo sta accadendo qualcosa di estremamente preoccupante. A me ricorda l’atmosfera che portò all’ascesa del fascismo in Germania, Italia, Spagna, Giappone ».
Da ex spia e autore di spionaggio, crede che la Russia abbia davvero cercato di interferire sulle presidenziali americane?
«Non ne ho le prove, ma suppongo di sì. E trovo comico che proprio l’America gridi allo scandalo: se c’è un paese che ha interferito per mezzo secolo nelle elezioni degli altri sono gli Stati Uniti. Comunque Trump e Putin si somigliano, hanno lo stesso disprezzo per la democrazia liberale: perciò si piacciono».
La novità è la potenza dello spionaggio cibernetico.
«“Quello che ha rivelato Snowden è solo la punta dell’iceberg. Stiamo andando verso l’impossibilità di avere segreti. Per questo tanto varrebbe integrare lo spionaggio con il corpo diplomatico. Ma dubito che i potenti della terra mi daranno retta. Le spie esisteranno sempre».
L’Economist suggerisce di leggere Ian Fleming, Graham Greene e lei per capire la Gran Bretagna odierna: è d’accordo?
«Abbiamo fatto tutti e tre le spie. E le spie conoscono, o credono di conoscere, l’essenza della realtà».
Le secca che i critici chiudano i romanzi di spionaggio in una categoria minore rispetto alla narrativa letteraria?
«Ho smesso da tempo di leggere i critici. Le recensioni negative ti inducono al suicidio. Le positive ti fanno credere un dio. Un tale a un party mi ha detto: mi scusi, io non leggo i suoi libri perché non leggo i romanzi di spionaggio. Avrei voluto rispondergli: non legge neanche Conrad, perché non legge romanzi di mare?».
Corriere 9.9.17
L’«asticella» dei requisiti e gli uomini sempre più soli
C’è un gruppo sempre più ampio di uomini che si sente escluso «a priori» dalle scelte femminili come potenziale compagno. Queste donne, sostengono gli emarginati, preferiscono restare single piuttosto che abbassare l’«asticella», cioè i requisiti minimi in base ai quali misurano i potenziali compagni. All’accusa di essere così selettive, le signore rispondono che non è possibile farsi piacere chiunque. E che esiste anche un’asticella maschile, che magari si manifesta quando l’età sale, e taglia fuori la popolazione femminile dai 45 in su. Esistono davvero questi mercati destinati a non incontrarsi mai? E con quali effetti sulla società?
Già, perché questo problema riguarda essenzialmente le nostre comunità, in cui le donne hanno raggiunto un livello culturale e economico tale da renderle più esigenti. Tanto risulta da studi effettuati negli Usa, dove la questione femminile si è imposta con risultati sorprendenti nell’ultimo decennio. Il numero delle single è aumentato in modo esponenziale, creando la prima generazione che non ha messo al centro della propria realizzazione la famiglia.
In Asia, e in particolare in Cina, India e nei Paesi circostanti, si sta verificando un fenomeno simile. Per altre cause. Lì il controllo severo delle nascite adottato in passato, con la selezione del figlio maschio sta producendo in questi anni effetti devastanti: esiste un numero di maschi superiore a quello delle femmine, che si ritrovano maggiore possibilità di scelta. Molti uomini sono destinati a restare soli. Il fenomeno, raccontano gli studiosi, ha effetti evidenti sull’aumento della violenza, specie di gruppo, e sullo svilupparsi della prostituzione, che sta evolvendo nel virtuale, sostenuta dalle tecnologie.
Non possiamo ora dilungarci sul flusso di giovani uomini che si muovono sulle tragiche rotte dell’immigrazione e che non troveranno nei Paesi di accoglienza una sistemazione familiare. Situazioni profondamente diverse, è chiaro, che descrivono però un mondo dove gli uomini non sono mai stati così soli.
L’«asticella» dei requisiti e gli uomini sempre più soli
C’è un gruppo sempre più ampio di uomini che si sente escluso «a priori» dalle scelte femminili come potenziale compagno. Queste donne, sostengono gli emarginati, preferiscono restare single piuttosto che abbassare l’«asticella», cioè i requisiti minimi in base ai quali misurano i potenziali compagni. All’accusa di essere così selettive, le signore rispondono che non è possibile farsi piacere chiunque. E che esiste anche un’asticella maschile, che magari si manifesta quando l’età sale, e taglia fuori la popolazione femminile dai 45 in su. Esistono davvero questi mercati destinati a non incontrarsi mai? E con quali effetti sulla società?
Già, perché questo problema riguarda essenzialmente le nostre comunità, in cui le donne hanno raggiunto un livello culturale e economico tale da renderle più esigenti. Tanto risulta da studi effettuati negli Usa, dove la questione femminile si è imposta con risultati sorprendenti nell’ultimo decennio. Il numero delle single è aumentato in modo esponenziale, creando la prima generazione che non ha messo al centro della propria realizzazione la famiglia.
In Asia, e in particolare in Cina, India e nei Paesi circostanti, si sta verificando un fenomeno simile. Per altre cause. Lì il controllo severo delle nascite adottato in passato, con la selezione del figlio maschio sta producendo in questi anni effetti devastanti: esiste un numero di maschi superiore a quello delle femmine, che si ritrovano maggiore possibilità di scelta. Molti uomini sono destinati a restare soli. Il fenomeno, raccontano gli studiosi, ha effetti evidenti sull’aumento della violenza, specie di gruppo, e sullo svilupparsi della prostituzione, che sta evolvendo nel virtuale, sostenuta dalle tecnologie.
Non possiamo ora dilungarci sul flusso di giovani uomini che si muovono sulle tragiche rotte dell’immigrazione e che non troveranno nei Paesi di accoglienza una sistemazione familiare. Situazioni profondamente diverse, è chiaro, che descrivono però un mondo dove gli uomini non sono mai stati così soli.
La Stampa 9.9.17
Sui monti, nel nome di Dolcino spiriti ribelli e liberi pensatori
Nel Biellese il mito del frate eretico rivive a distanza di 710 anni
di Paola Guabello
E’ un rito che si ripete puntuale da 43 anni ma che affonda le sue radici agli albori del Secolo Breve, quando 10 mila persone, come le cronache dell’epoca raccontano, nel 1907 si radunarono attorno a un cippo alto 12 metri (con 4 metri di base) che si vedeva a distanza perfino nella bassa Biellese. Anche quest’anno, sul monte Rubello, il luogo dove 710 anni fa Fra Dolcino fu catturato e ucciso nel 1307, tornano a salire gli «spiriti ribelli», un gruppo di irriducibili che ogni anno attende i primi giorni di settembre per riaccendere i suoi ideali. Anarchici, vecchi socialisti, operai, studiosi e perfino qualche ormai raro partigiano. E poi curiosi e simpatizzanti che arriveranno da tutto il Nord Ovest, pronti a sfidare nuvole e nebbia, se il tempo li tradisce, o a godere degli ultimi tepori estivi e di una vista spettacolare, per salire al cippo nel cuore della Panoramica Zegna.
Nel punto esatto dello sterminio, e dove a forza di pietre e fatica era stato eretto il primo monumento, oggi c’è il santuario di San Bernardo che gli abitanti del Biellese e della Valsesia vollero edificare «in lode al Signore per la sconfitta del frate ribelle». Ma di fronte, a poca distanza, c’è il luogo in cui una delle figure-simbolo e indimenticate della storia e della cultura piemontese, Gustavo Buratti, fece erigere il nuovo cippo nel 1974.
I ribelli riscoperti
Così Dolcino e Margherita, rivivono sulle Alpi biellesi che incorniciano Trivero, nella selvaggia Valsessera; così le loro ultime ore di spiriti liberi, mentre si trovavano arroccati su quel monte a combattere contro il freddo e la fame, piegati dalle truppe vescovili, non saranno mai più dimenticate.
«Fu alla fine della II Guerra Mondiale che Dolcino venne riscoperto - spiega il presidente del Centro Studi Dolciniani Aldo Fappani -. Già a fine 800, dopo secoli di oblio, la figura del frate eretico venne riabilitata. Erano stati i nobili, i valdesi, gli anarchici e chi mal sopportava i condizionamenti, a far del personaggio un vessillo del libero pensiero. Nel ’900, gli esponenti biellesi di quella corrente acquistarono un piccolo terreno in cui si ritrovarono davvero in tanti e festeggiarono attorno alla torre alta 12 metri. Poi il fascismo mise tutto a tacere: il cippo, nell’agosto del 1927, fu abbattuto a colpi di cannonate. ma finita la guerra gli abitanti di Mosso e chi era emigrato per salvarsi, tornarono sul monte Rubello. Con la biacca, sul rudere scrissero “queste pietre sono sacre”, scavarono e ritrovarono i cimeli della gloriosa giornata. Fu poi Buratti, che decise di ricostruire il cippo e di ripetere il rito. Così dal 1974 ci ritroviamo e saliamo in quota».
Il predicatore apostolico, ostile a Roma e a papa Bonifacio VIII, che aveva assistito al rogo di Margherita e del suo luogotenente Longino da Bergamo prima di passare per le armi, continua dunque a vivere. «Lo citò anche Dante, - prosegue Fappani -. Dolcino era considerato apostolo del “Gesù socialista”, un martire del libero pensiero. Un pacifista che suo malgrado non ha abbassato il capo ma ha imbracciato la spada contro i crociati pur di difendere le sue idee. Per questo resta un simbolo per i tanti che ogni anno affrontano la passeggiata per sentirsi parte della giornata dolciniana».
Sui monti, nel nome di Dolcino spiriti ribelli e liberi pensatori
Nel Biellese il mito del frate eretico rivive a distanza di 710 anni
di Paola Guabello
E’ un rito che si ripete puntuale da 43 anni ma che affonda le sue radici agli albori del Secolo Breve, quando 10 mila persone, come le cronache dell’epoca raccontano, nel 1907 si radunarono attorno a un cippo alto 12 metri (con 4 metri di base) che si vedeva a distanza perfino nella bassa Biellese. Anche quest’anno, sul monte Rubello, il luogo dove 710 anni fa Fra Dolcino fu catturato e ucciso nel 1307, tornano a salire gli «spiriti ribelli», un gruppo di irriducibili che ogni anno attende i primi giorni di settembre per riaccendere i suoi ideali. Anarchici, vecchi socialisti, operai, studiosi e perfino qualche ormai raro partigiano. E poi curiosi e simpatizzanti che arriveranno da tutto il Nord Ovest, pronti a sfidare nuvole e nebbia, se il tempo li tradisce, o a godere degli ultimi tepori estivi e di una vista spettacolare, per salire al cippo nel cuore della Panoramica Zegna.
Nel punto esatto dello sterminio, e dove a forza di pietre e fatica era stato eretto il primo monumento, oggi c’è il santuario di San Bernardo che gli abitanti del Biellese e della Valsesia vollero edificare «in lode al Signore per la sconfitta del frate ribelle». Ma di fronte, a poca distanza, c’è il luogo in cui una delle figure-simbolo e indimenticate della storia e della cultura piemontese, Gustavo Buratti, fece erigere il nuovo cippo nel 1974.
I ribelli riscoperti
Così Dolcino e Margherita, rivivono sulle Alpi biellesi che incorniciano Trivero, nella selvaggia Valsessera; così le loro ultime ore di spiriti liberi, mentre si trovavano arroccati su quel monte a combattere contro il freddo e la fame, piegati dalle truppe vescovili, non saranno mai più dimenticate.
«Fu alla fine della II Guerra Mondiale che Dolcino venne riscoperto - spiega il presidente del Centro Studi Dolciniani Aldo Fappani -. Già a fine 800, dopo secoli di oblio, la figura del frate eretico venne riabilitata. Erano stati i nobili, i valdesi, gli anarchici e chi mal sopportava i condizionamenti, a far del personaggio un vessillo del libero pensiero. Nel ’900, gli esponenti biellesi di quella corrente acquistarono un piccolo terreno in cui si ritrovarono davvero in tanti e festeggiarono attorno alla torre alta 12 metri. Poi il fascismo mise tutto a tacere: il cippo, nell’agosto del 1927, fu abbattuto a colpi di cannonate. ma finita la guerra gli abitanti di Mosso e chi era emigrato per salvarsi, tornarono sul monte Rubello. Con la biacca, sul rudere scrissero “queste pietre sono sacre”, scavarono e ritrovarono i cimeli della gloriosa giornata. Fu poi Buratti, che decise di ricostruire il cippo e di ripetere il rito. Così dal 1974 ci ritroviamo e saliamo in quota».
Il predicatore apostolico, ostile a Roma e a papa Bonifacio VIII, che aveva assistito al rogo di Margherita e del suo luogotenente Longino da Bergamo prima di passare per le armi, continua dunque a vivere. «Lo citò anche Dante, - prosegue Fappani -. Dolcino era considerato apostolo del “Gesù socialista”, un martire del libero pensiero. Un pacifista che suo malgrado non ha abbassato il capo ma ha imbracciato la spada contro i crociati pur di difendere le sue idee. Per questo resta un simbolo per i tanti che ogni anno affrontano la passeggiata per sentirsi parte della giornata dolciniana».
Corriere 9.9.17
In cammino con la cultura ebraica
In Italia coinvolti 81 centri. Incontri nelle sinagoghe, cibi kasher, studiosi e scrittori
di Severino Colombo e Carlotta De Leo
«La Diaspora. Identità e dialogo». Attorno a questo tema si sviluppa la XVIII Giornata europea della cultura ebraica che si tiene domani in trentacinque Paesi. In Italia sono coinvolte quindici regioni e ottantuno località, sette in più dello scorso anno a testimoniare una presenza sempre più significativa e ampia sul territorio. Toccate grandi città (Roma, Milano) e piccoli centri. Un filo rosso, quello della diaspora, che vuole essere — nelle parole di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei), realtà che coordina e promuove le iniziative nel nostro Paese — «lo spunto per scoprire la storia dell’esilio del popolo ebraico, durato quasi due millenni, a seguito delle due diaspore dalla terra d’Israele occorse nell’antichità». Quella degli Assiri nell’VIII secolo a.C. e la «cattività babilonese» del VI secolo a. C.. A queste due maggiori seguirono ulteriori dispersioni degli ebrei nei periodi successivi della storia a causa di altre vicende.
Dialoghi tra fedi a Milano
Per la Giornata europea, l’invito a scoprire la storia, ma anche i luoghi e le tradizioni degli ebrei si traduce nel capoluogo lombardo in una serie di attività — incontri, conferenze e visite guidate — alla Sinagoga di via Guastalla 19 (dalle 11) con gli interventi di rav Alfonso Arbib, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana e Rabbino capo di Milano, e di Cyril Aslanov, linguista e docente alla Aix-Marseille Université e membro dell’Accademia della Lingua ebraica. Prende, poi, la parola il ministro dell’Interno Marco Minniti. Nel pomeriggio (alle 15) sul tema forte e incisivo della diaspora terrà una lezione il biblista e studioso del pensiero ebraico Haim Baharier, già allievo di due maestri del pensiero contemporaneo quali i filosofi Emmanuel Lévinas e Léon Askenazi. Oltre che un’occasione di apertura e di conoscenza del mondo ebraico, l’iniziativa vuole essere anche un momento per fare sentire la pluralità di voci e di culture che caratterizzano la società in cui viviamo. Così, dopo l’intervento di Baharier, la Sinagoga milanese ospita l’incontro armeno-ebraico-musulmano In cammino per il mondo , con la scrittrice Antonia Arslan in rappresentanza della comunità armena, la docente di Antropologia dell’immigrazione Maryan Ismail per quella musulmana, e la regista Andrée Ruth Shammah per quella ebraica.
La «Cabbalà» a Roma
Scoperta per caso nel 1961 durante gli scavi per l’autostrada, la Sinagoga di Ostia Antica è una delle più antiche testimonianze archeologiche dell’ebraismo della diaspora. La visita al sito risalente al I secolo, che testimonia la vita della comunità sotto l’Impero romano, è uno degli eventi più attesi della Giornata europea della cultura ebraica (ore 12.30). Nella Capitale però il programma della Giornata si intreccia con il decimo Festival internazionale di letteratura e cultura ebraica (www.festivaletteraturaebraica.it), che prende avvio proprio stasera con una festa e l’apertura straordinaria della Grande Sinagoga. È la Notte della Cabbalà , maratona di musica, teatro e incontri letterari che animano la zona intorno al Portico d’Ottavia. Il festival, che andrà avanti fino mercoledì, quest’anno è dedicato alla «Terra» nelle sue diverse accezioni, fisiche e metafisiche. E propone dialoghi come quello di stasera incentrato sulla memoria tra la regista Cristina Comencini e Déborah Levy-Bertherat, la quale dopo una vita da docente all’École normale supérieure ha pubblicato il suo primo romanzo, I viaggi di Daniel Ascher (Einaudi). Il racconto dei segreti di una famiglia ambientato tra le vie di Parigi. Nei Giardini del Tempio, sempre stasera, parlerà di migranti e della doppia coscienza della nostra società Ayelet Gundar-Goshen, giovane talento della letteratura israeliana che con il suo Svegliare i leoni (Giuntina), tradotto in quindici lingue, ha già venduto un milione di copie (l’autrice domani sarà alla Sinagoga di Firenze). Tra gli ospiti più attesi del festival anche la filosofa ungherese Agnes Heller, classe 1929, sopravvissuta all’Olocausto e una delle massime esponenti delle Scuola di Budapest, e la scrittrice Simonetta Agnello Hornby, chiamata a parlare degli ebrei nel Meridione insieme con Pierpaolo Pinhas Punturello. A chiudere la manifestazione mercoledì 13 settembre, il tributo al grande musicista scomparso Herbert Pagani, con la regia di Ketty Di Porto.
L’Inquisizione a Palermo
Un sapore del tutto speciale e dalla marcata valenza simbolica avranno gli eventi in Sicilia, a cinque secoli alla cacciata degli ebrei dal Sud Italia avvenuta durante la dominazione spagnola. A Palermo è particolare il luogo che ospita le attività: Palazzo Steri, in piazza Marina, edificio che per secoli è stato sede dell’Inquisizione in Sicilia, luogo dove molte persone furono accusate e condannate per «crimini contro la fede», che oggi ospita il rettorato dell’Università. A Catania, dove le Biblioteche riunite «Civica e A. Ursino Recupero», ospitano la mostra Sicilia Judaica (fino al 24 settembre), che esplora quasi duemila anni di storia, mentre a Palazzo degli Elefanti un convegno ripercorre (domani, dalle 17.30) la storia della presenza ebraica in Sicilia; tra i relatori Nicolò Bucaria, Nadia Zeldes dell’Università Ebraica di Gerusalemme, e Myriam Silvera.
Venezia, Firenze, Modena
La Giornata europea è un momento di conoscenza che attraversa la cultura ebraica nelle sue molteplici forme con percorsi guidati, attività nei musei, tour nei quartieri ebraici, spettacoli, musica klezmer, degustazioni kasher e letture. Tra gli eventi: a Venezia, in Campo di Gheto novo, un recital di Ottavia Piccolo; una mostra di codici miniati ebraici alla Biblioteca Estense di Modena; a Bologna, al Museo ebraico, la proiezione del film muto Der Golem (192o) di Paul Wegener, sonorizzato dal vivo; a Firenze, la mostra Kadima , che racconta il viaggio verso la terra d’Israele di ottocento sopravvissuti alla Shoah.
In cammino con la cultura ebraica
In Italia coinvolti 81 centri. Incontri nelle sinagoghe, cibi kasher, studiosi e scrittori
di Severino Colombo e Carlotta De Leo
«La Diaspora. Identità e dialogo». Attorno a questo tema si sviluppa la XVIII Giornata europea della cultura ebraica che si tiene domani in trentacinque Paesi. In Italia sono coinvolte quindici regioni e ottantuno località, sette in più dello scorso anno a testimoniare una presenza sempre più significativa e ampia sul territorio. Toccate grandi città (Roma, Milano) e piccoli centri. Un filo rosso, quello della diaspora, che vuole essere — nelle parole di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei), realtà che coordina e promuove le iniziative nel nostro Paese — «lo spunto per scoprire la storia dell’esilio del popolo ebraico, durato quasi due millenni, a seguito delle due diaspore dalla terra d’Israele occorse nell’antichità». Quella degli Assiri nell’VIII secolo a.C. e la «cattività babilonese» del VI secolo a. C.. A queste due maggiori seguirono ulteriori dispersioni degli ebrei nei periodi successivi della storia a causa di altre vicende.
Dialoghi tra fedi a Milano
Per la Giornata europea, l’invito a scoprire la storia, ma anche i luoghi e le tradizioni degli ebrei si traduce nel capoluogo lombardo in una serie di attività — incontri, conferenze e visite guidate — alla Sinagoga di via Guastalla 19 (dalle 11) con gli interventi di rav Alfonso Arbib, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana e Rabbino capo di Milano, e di Cyril Aslanov, linguista e docente alla Aix-Marseille Université e membro dell’Accademia della Lingua ebraica. Prende, poi, la parola il ministro dell’Interno Marco Minniti. Nel pomeriggio (alle 15) sul tema forte e incisivo della diaspora terrà una lezione il biblista e studioso del pensiero ebraico Haim Baharier, già allievo di due maestri del pensiero contemporaneo quali i filosofi Emmanuel Lévinas e Léon Askenazi. Oltre che un’occasione di apertura e di conoscenza del mondo ebraico, l’iniziativa vuole essere anche un momento per fare sentire la pluralità di voci e di culture che caratterizzano la società in cui viviamo. Così, dopo l’intervento di Baharier, la Sinagoga milanese ospita l’incontro armeno-ebraico-musulmano In cammino per il mondo , con la scrittrice Antonia Arslan in rappresentanza della comunità armena, la docente di Antropologia dell’immigrazione Maryan Ismail per quella musulmana, e la regista Andrée Ruth Shammah per quella ebraica.
La «Cabbalà» a Roma
Scoperta per caso nel 1961 durante gli scavi per l’autostrada, la Sinagoga di Ostia Antica è una delle più antiche testimonianze archeologiche dell’ebraismo della diaspora. La visita al sito risalente al I secolo, che testimonia la vita della comunità sotto l’Impero romano, è uno degli eventi più attesi della Giornata europea della cultura ebraica (ore 12.30). Nella Capitale però il programma della Giornata si intreccia con il decimo Festival internazionale di letteratura e cultura ebraica (www.festivaletteraturaebraica.it), che prende avvio proprio stasera con una festa e l’apertura straordinaria della Grande Sinagoga. È la Notte della Cabbalà , maratona di musica, teatro e incontri letterari che animano la zona intorno al Portico d’Ottavia. Il festival, che andrà avanti fino mercoledì, quest’anno è dedicato alla «Terra» nelle sue diverse accezioni, fisiche e metafisiche. E propone dialoghi come quello di stasera incentrato sulla memoria tra la regista Cristina Comencini e Déborah Levy-Bertherat, la quale dopo una vita da docente all’École normale supérieure ha pubblicato il suo primo romanzo, I viaggi di Daniel Ascher (Einaudi). Il racconto dei segreti di una famiglia ambientato tra le vie di Parigi. Nei Giardini del Tempio, sempre stasera, parlerà di migranti e della doppia coscienza della nostra società Ayelet Gundar-Goshen, giovane talento della letteratura israeliana che con il suo Svegliare i leoni (Giuntina), tradotto in quindici lingue, ha già venduto un milione di copie (l’autrice domani sarà alla Sinagoga di Firenze). Tra gli ospiti più attesi del festival anche la filosofa ungherese Agnes Heller, classe 1929, sopravvissuta all’Olocausto e una delle massime esponenti delle Scuola di Budapest, e la scrittrice Simonetta Agnello Hornby, chiamata a parlare degli ebrei nel Meridione insieme con Pierpaolo Pinhas Punturello. A chiudere la manifestazione mercoledì 13 settembre, il tributo al grande musicista scomparso Herbert Pagani, con la regia di Ketty Di Porto.
L’Inquisizione a Palermo
Un sapore del tutto speciale e dalla marcata valenza simbolica avranno gli eventi in Sicilia, a cinque secoli alla cacciata degli ebrei dal Sud Italia avvenuta durante la dominazione spagnola. A Palermo è particolare il luogo che ospita le attività: Palazzo Steri, in piazza Marina, edificio che per secoli è stato sede dell’Inquisizione in Sicilia, luogo dove molte persone furono accusate e condannate per «crimini contro la fede», che oggi ospita il rettorato dell’Università. A Catania, dove le Biblioteche riunite «Civica e A. Ursino Recupero», ospitano la mostra Sicilia Judaica (fino al 24 settembre), che esplora quasi duemila anni di storia, mentre a Palazzo degli Elefanti un convegno ripercorre (domani, dalle 17.30) la storia della presenza ebraica in Sicilia; tra i relatori Nicolò Bucaria, Nadia Zeldes dell’Università Ebraica di Gerusalemme, e Myriam Silvera.
Venezia, Firenze, Modena
La Giornata europea è un momento di conoscenza che attraversa la cultura ebraica nelle sue molteplici forme con percorsi guidati, attività nei musei, tour nei quartieri ebraici, spettacoli, musica klezmer, degustazioni kasher e letture. Tra gli eventi: a Venezia, in Campo di Gheto novo, un recital di Ottavia Piccolo; una mostra di codici miniati ebraici alla Biblioteca Estense di Modena; a Bologna, al Museo ebraico, la proiezione del film muto Der Golem (192o) di Paul Wegener, sonorizzato dal vivo; a Firenze, la mostra Kadima , che racconta il viaggio verso la terra d’Israele di ottocento sopravvissuti alla Shoah.
Il Fatto 9.9.17
L’incomprensibile enigma del dittatore coreano
di Furio Colombo
Caro Furio Colombo, finora abbiamo visto come uno scherzo il giovane e strambo Kim Jong-un. Ma adesso?
Giuseppe
Credo che la misteriosa leadership nord-coreana sia stata sempre guardata con disagio dal resto del mondo, compresi i vari tipi di rivoluzionari, guerriglieri e terroristi, che non hanno mai, che si sappia, voluto incontri o legami o ricevuto inviti. Con tutta la pretesa che la maggior parte dei grandi Paesi occidentali esibiscono, non sembra che uno solo (compresi i grandissimi) ne sappia di più. Per esempio dove, in quello strano gruppo di esseri umani, risiede davvero il Potere (che invece potrebbe essere nascosto, usando marionette) e quale dei grandi del mondo potrebbe essere tutore di una simile forza o minaccia di forza? Qualcuno o qualcosa ha generato o gestisce lo spettacolo che per metà è di follia e per metà gioco, con un immenso pericolo, che può sempre sfuggire di mano. Ma, esattamente, quale mano?
Ci sono pochissimi candidati al costo di una simile operazione. Ma non è strano che non sia mai trapelato niente? Non ci sono più spie al mondo, comprese quelle che muoiono, ma rivelano? Una riflessione è importante: non c’è mai stato un caso Kim Jong-un, prima d’ora, nel mondo. Mai un potere, che appare enorme, pur nelle modeste dimensioni di un Paese secondario, ha potuto nascondere in modo così perfetto come nasce, da dove viene e dove vuole andare, chi lo tiene in pugno, visto che non potrebbe controllare la parte di mondo che vuole distruggere. Il vero problema non è la diplomazia. Con la Corea del Nord, anche prima di Kim, è fatuo dire, di tanto in tanto, frasi tipo: “Basta, in queste condizioni un dialogo non è più possibile”. Non c’è mai stato neppure l’abbozzo di un dialogo. La Corea del Nord dunque non parlava e non parla, non annunciava e non annuncia, non aveva un sia pur limitato numero di amici o alleati, che anche adesso non ha. Qui la vera battaglia è la notizia. Chi forma la classe dirigente coreana, come la forma e che cosa vuole davvero per non distruggere? Questo non significa credere che possa distruggere e che abbia davvero la forza e le armi che pretende di avere, come in una fiaba cattiva. Però, per follia o per errore, qualcosa di spaventoso potrebbe accadere. Ma sarebbe ancora più spaventoso se avvenisse mentre non sappiano per opera di chi e perché.
L’incomprensibile enigma del dittatore coreano
di Furio Colombo
Caro Furio Colombo, finora abbiamo visto come uno scherzo il giovane e strambo Kim Jong-un. Ma adesso?
Giuseppe
Credo che la misteriosa leadership nord-coreana sia stata sempre guardata con disagio dal resto del mondo, compresi i vari tipi di rivoluzionari, guerriglieri e terroristi, che non hanno mai, che si sappia, voluto incontri o legami o ricevuto inviti. Con tutta la pretesa che la maggior parte dei grandi Paesi occidentali esibiscono, non sembra che uno solo (compresi i grandissimi) ne sappia di più. Per esempio dove, in quello strano gruppo di esseri umani, risiede davvero il Potere (che invece potrebbe essere nascosto, usando marionette) e quale dei grandi del mondo potrebbe essere tutore di una simile forza o minaccia di forza? Qualcuno o qualcosa ha generato o gestisce lo spettacolo che per metà è di follia e per metà gioco, con un immenso pericolo, che può sempre sfuggire di mano. Ma, esattamente, quale mano?
Ci sono pochissimi candidati al costo di una simile operazione. Ma non è strano che non sia mai trapelato niente? Non ci sono più spie al mondo, comprese quelle che muoiono, ma rivelano? Una riflessione è importante: non c’è mai stato un caso Kim Jong-un, prima d’ora, nel mondo. Mai un potere, che appare enorme, pur nelle modeste dimensioni di un Paese secondario, ha potuto nascondere in modo così perfetto come nasce, da dove viene e dove vuole andare, chi lo tiene in pugno, visto che non potrebbe controllare la parte di mondo che vuole distruggere. Il vero problema non è la diplomazia. Con la Corea del Nord, anche prima di Kim, è fatuo dire, di tanto in tanto, frasi tipo: “Basta, in queste condizioni un dialogo non è più possibile”. Non c’è mai stato neppure l’abbozzo di un dialogo. La Corea del Nord dunque non parlava e non parla, non annunciava e non annuncia, non aveva un sia pur limitato numero di amici o alleati, che anche adesso non ha. Qui la vera battaglia è la notizia. Chi forma la classe dirigente coreana, come la forma e che cosa vuole davvero per non distruggere? Questo non significa credere che possa distruggere e che abbia davvero la forza e le armi che pretende di avere, come in una fiaba cattiva. Però, per follia o per errore, qualcosa di spaventoso potrebbe accadere. Ma sarebbe ancora più spaventoso se avvenisse mentre non sappiano per opera di chi e perché.
Corriere 9.9.17
Londra-Tokyo in 10 giorni Mosca rilancia il ponte che unirà Europa e Giappone
di Fabrizio Dragosei
Così la Transiberiana arriverebbe a 12 mila chilometri di ferrovia
MOSCA È uno dei grandiosi progetti che la Russia sogna da anni e che, in buona parte, giacciono nei cassetti dei ministeri. Ma adesso sembra che Vladimir Putin e Shinzo Abe vogliano veramente mettere mano all’ambiziosa idea di unire Russia e Giappone con un tunnel o con un ponte, trasformando la ferrovia Transiberiana in un infinito collegamento via terra di oltre dodicimila chilometri che congiungerebbe il Paese del Sol Levante con l’Europa. Poco più di dieci giorni per percorrere in treno la distanza tra Milano, Parigi o Londra e Tokyo.
Un sogno? I tecnici coinvolti nell’idea assicurano che sia fattibile e i politici sembrano convinti. «Stiamo seriamente offrendo ai nostri partner giapponesi di costruire assieme il collegamento stradale e ferroviario», ha detto tre giorni fa il vicepremier Igor Shuvalov, che accompagnava il presidente russo a Vladivostok dove c’è stato un incontro con il primo ministro giapponese. Ma le incertezze sono tante, legate sia alle difficoltà economiche che a quelle politiche, visto che Russia e Giappone sono ancora divise dalla disputa sulle isole Kurili occupate da Stalin alla fine della Seconda guerra mondiale e mai restituite (non hanno ancora firmato un trattato di pace).
Il piano, almeno in parte, risale addirittura al dittatore sovietico che negli anni Quaranta diede il via libera allo studio per unire l’isola di Sakhalin alla terraferma. Già, perché i tunnel o ponti dovrebbero essere due. «E noi stiamo per iniziare la nostra parte dell’opera», ha aggiunto Shuvalov. Dunque un traforo sottomarino di 11 km nello stretto di Nevelskoj, nel punto in cui l’isola si avvicina maggiormente alla costa. A quel punto la Transiberiana proseguirebbe lungo Sakhalin per 600 km. C’è già una vecchia linea giapponese ma, tra l’altro, ha uno scartamento diverso da quello standard russo. Poi, arrivati a capo Crillon, si dovrebbe attraversare il mare per 45 km, fino a capo Soya in Giappone. Di lì la ferrovia si congiungerebbe con la velocissima rete degli Shinkansen che sfrecciano a 300 km orari lungo l’isola di Hokkaido e percorrono il tunnel sottomarino di Seikan per arrivare nella maggiore isola giapponese, sulla quale si trovano Tokyo e le altre grandi città.
Ai giapponesi l’idea interessa soprattutto in vista dello sfruttamento delle risorse di Sakhalin, petrolio e gas in primo luogo. Oltre al collegamento ferroviario, pensano infatti a un gasdotto per far arrivare nelle loro isole il metano russo di cui hanno grande bisogno ora che i progetti nucleari sono stati rivisti drasticamente a seguito dell’incidente del 2011 alla centrale di Fukushima.
I russi continuano a riproporre piani imponenti, in buona parte pensati già nei decenni passati. Oltre all’idea di usare il passaggio a Nord-Est per far raggiungere l’Estremo Oriente alle navi europee (per ora non pratico dal punto di vista commerciale), vorrebbero estendere fino a Seul la Transiberiana che già arriva in Corea del Nord. Ma la situazione politica è tutt’altro che favorevole. Stesso discorso per l’unione tra la Chukotka e l’Alaska, con ponte o tunnel, per raggiungere Canada e Stati Uniti. L’unico dei grandi progetti di un tempo che si sta realizzando è quello del ponte fra la terraferma russa e la Crimea: procede a tappe forzate da quando l’Ucraina ha interrotto il traffico dopo l’annessione della penisola da parte della Russia.
Per fortuna, invece, non sono mai andati in porto i piani del leader sovietico Krusciov che nei primi anni Sessanta voleva irrigare l’Asia Centrale invertendo il corso dei grandi fiumi siberiani (che scorrono verso l’Artico). L’idea dei tecnici era di realizzare il progetto a colpi di bombe atomiche.
Londra-Tokyo in 10 giorni Mosca rilancia il ponte che unirà Europa e Giappone
di Fabrizio Dragosei
Così la Transiberiana arriverebbe a 12 mila chilometri di ferrovia
MOSCA È uno dei grandiosi progetti che la Russia sogna da anni e che, in buona parte, giacciono nei cassetti dei ministeri. Ma adesso sembra che Vladimir Putin e Shinzo Abe vogliano veramente mettere mano all’ambiziosa idea di unire Russia e Giappone con un tunnel o con un ponte, trasformando la ferrovia Transiberiana in un infinito collegamento via terra di oltre dodicimila chilometri che congiungerebbe il Paese del Sol Levante con l’Europa. Poco più di dieci giorni per percorrere in treno la distanza tra Milano, Parigi o Londra e Tokyo.
Un sogno? I tecnici coinvolti nell’idea assicurano che sia fattibile e i politici sembrano convinti. «Stiamo seriamente offrendo ai nostri partner giapponesi di costruire assieme il collegamento stradale e ferroviario», ha detto tre giorni fa il vicepremier Igor Shuvalov, che accompagnava il presidente russo a Vladivostok dove c’è stato un incontro con il primo ministro giapponese. Ma le incertezze sono tante, legate sia alle difficoltà economiche che a quelle politiche, visto che Russia e Giappone sono ancora divise dalla disputa sulle isole Kurili occupate da Stalin alla fine della Seconda guerra mondiale e mai restituite (non hanno ancora firmato un trattato di pace).
Il piano, almeno in parte, risale addirittura al dittatore sovietico che negli anni Quaranta diede il via libera allo studio per unire l’isola di Sakhalin alla terraferma. Già, perché i tunnel o ponti dovrebbero essere due. «E noi stiamo per iniziare la nostra parte dell’opera», ha aggiunto Shuvalov. Dunque un traforo sottomarino di 11 km nello stretto di Nevelskoj, nel punto in cui l’isola si avvicina maggiormente alla costa. A quel punto la Transiberiana proseguirebbe lungo Sakhalin per 600 km. C’è già una vecchia linea giapponese ma, tra l’altro, ha uno scartamento diverso da quello standard russo. Poi, arrivati a capo Crillon, si dovrebbe attraversare il mare per 45 km, fino a capo Soya in Giappone. Di lì la ferrovia si congiungerebbe con la velocissima rete degli Shinkansen che sfrecciano a 300 km orari lungo l’isola di Hokkaido e percorrono il tunnel sottomarino di Seikan per arrivare nella maggiore isola giapponese, sulla quale si trovano Tokyo e le altre grandi città.
Ai giapponesi l’idea interessa soprattutto in vista dello sfruttamento delle risorse di Sakhalin, petrolio e gas in primo luogo. Oltre al collegamento ferroviario, pensano infatti a un gasdotto per far arrivare nelle loro isole il metano russo di cui hanno grande bisogno ora che i progetti nucleari sono stati rivisti drasticamente a seguito dell’incidente del 2011 alla centrale di Fukushima.
I russi continuano a riproporre piani imponenti, in buona parte pensati già nei decenni passati. Oltre all’idea di usare il passaggio a Nord-Est per far raggiungere l’Estremo Oriente alle navi europee (per ora non pratico dal punto di vista commerciale), vorrebbero estendere fino a Seul la Transiberiana che già arriva in Corea del Nord. Ma la situazione politica è tutt’altro che favorevole. Stesso discorso per l’unione tra la Chukotka e l’Alaska, con ponte o tunnel, per raggiungere Canada e Stati Uniti. L’unico dei grandi progetti di un tempo che si sta realizzando è quello del ponte fra la terraferma russa e la Crimea: procede a tappe forzate da quando l’Ucraina ha interrotto il traffico dopo l’annessione della penisola da parte della Russia.
Per fortuna, invece, non sono mai andati in porto i piani del leader sovietico Krusciov che nei primi anni Sessanta voleva irrigare l’Asia Centrale invertendo il corso dei grandi fiumi siberiani (che scorrono verso l’Artico). L’idea dei tecnici era di realizzare il progetto a colpi di bombe atomiche.
il manifesto 9.9.17
L’America ostaggio delle milizie
Hate groups. All’origine dei gruppi armati di estrema destra che oggi infestano le piazze statunitensi proclamando la necessità di prepararsi allo «scontro finale» con il governo federale
Antinazisti a Charlottesville: «Non ci posso credere, sto ancora protestando contro i nazisti»
di Fabrizio Tonello
È stato arrestato l’uomo che aveva sparato sulla folla a Charlottesville nel corso della manifestazione dell’estrema destra lo scorso 12 agosto, fortunatamente senza conseguenze: si tratta di un membro del rinato Ku Klux Klan, Richard Preston. La marcia Unite the Right si era conclusa con un morto, una ragazza che protestava contro l’invasione del campus dell’università della Virginia, Heather Heyer, investita dall’auto di un neonazista dell’Ohio.
LA GALASSIA di organizzazioni e gruppuscoli che si era data convegno quasi un mese fa è fortemente eterogenea ma il suo nucleo duro sono le cosiddette milizie, gruppi armati che proclamano la necessità di prepararsi allo «scontro finale» con il governo federale, considerato illegittimo e tirannico. Alcune decine di membri di questi gruppi, vestiti in tuta mimetica e con i loro fucili mitragliatori bene in vista erano presenti a Charlottesville, riuscendo a intimidire la stessa polizia, che è stata molto criticata per non aver impedito il contatto fra i neonazisti e gli studenti che protestavano contro la loro presenza.
Secondo il Southern Poverty Law Center, un centro studi di Montgomery, in Alabama, che monitora le attività delle organizzazioni razziste e antisemite, ci sono circa 917 hate groups attivi negli Stati Uniti oggi e, di questi, circa 165 sono milizie armate, che nascono sulla scia di due incidenti degli anni Novanta, uno a Waco in Texas e uno a Ruby Ridge, in Idaho, due episodi che fecero da catalizzatore a sentimenti di estraneità e diffidenza nei confronti del governo federale abbastanza diffusi nel West. Quest’ultimo caso, avvenuto nell’agosto di 25 anni fa, merita una ricostruzione più dettagliata perché la morte di una giovane madre ad opera di un tiratore scelto dell’Fbi diede al “movimento” i suoi primi martiri.
RANDY WEAVER E SUA MOGLIE Vicki lasciarono l’Iowa nel 1983 per stabilirsi nella parte più settentrionale dell’Idaho, in mezzo alle montagne a pochi chilometri dal confine canadese. Weaver era un ex berretto verde legato a un movimento fondamentalista chiamato Christian Identity. Nel dicembre 1990, Weaver viene messo sotto accusa per possesso, fabbricazione e vendita illegale di armi da fuoco. Il suo processo deve iniziare il 20 febbraio 1991 ma per un errore Weaver non si presenta all’udienza e il 14 marzo un procuratore federale lo incrimina per non essere comparso in aula.
GLI AGENTI FEDERALI, sapendo che Weaver è in contatto con Christian Identity, lo vedono come un pericoloso criminale, un Rambo capace di sopravvivere nei boschi e di eliminare un intero battaglione mandato alla sua ricerca, mentre Weaver a sua volta si autoconvince che ci sia un complotto del governo contro di lui e si autosequestra in una capanna nei boschi a Ruby Ridge, insieme alla famiglia.
Per un anno e mezzo, Weaver e le autorità giocano al gatto e al topo: l’uno sempre più convinto che le forze del male siano in agguato, gli altri sempre più sicuri che un’operazione paramilitare su larga scala sia necessaria per effettuare l’arresto, visto che l’intera famiglia è armata. Nella solitudine della casetta, Vicki Weaver dà alla luce un quarto figlio, Elishaba.
Il momento della verità arriva il 21 agosto 1992 quando Sam Weaver, il figlio quattordicenne di Randy, e Kevin Harris, un ventiquattrenne che vive con la famiglia, vengono sorpresi da sei sceriffi federali a poca distanza dalla casa. Ne segue uno scontro a fuoco in cui muoiono Sam e uno degli agenti, William Degan. Gli sceriffi federali si ritirano solo quando ricevono rinforzi, dopo nove ore di battaglia in piena regola. Un’unità speciale dell’Fbi chiamata Hostage Rescue Team viene fatta arrivare sul posto, l’assedio comincia.
UNDICI TIRATORI SCELTI prendono posizione attorno alla casa, dove ci sono adesso tre bambini, i coniugi Weaver e Kevin Harris. È il comandante della squadra speciale, Richard Rogers, a decidere che qualunque maschio adulto della famiglia Weaver (quindi Randy Weaver e Kevin Harris) sarà considerato un obiettivo legittimo per i tiratori dell’Fbi senza che ci sia bisogno di atti ostili da parte sua. Si spara a vista. Queste regole per aprire il fuoco diventeranno poi il cuore dello scandalo: tradizionalmente gli agenti federali sono autorizzati ad aprire il fuoco soltanto se c’è un immediato pericolo di vita per se stessi o per dei civili.
Il giorno dopo, sabato 22 agosto, Randy Weaver e Harris escono dalla capanna e immediatamente gli agenti fanno fuoco: Weaver viene ferito alla spalla, Harris si precipita verso la porta e un cecchino, Lon Horiuchi, spara anche su di lui. Il colpo lo manca ma uccide Vicki Weaver, che aveva in braccio la piccola Elishaba.
I vicini di casa di Weaver e gli abitanti della contea, intanto, manifestano la loro ostilità contro il governo federale e le sue «truppe di occupazione» innalzando cartelli come: «Lasciate in pace la famiglia, andatevene a casa», «Cristiani contro la tirannia», «Basta con questi abusi della nostra libertà», «Il governo mente, un patriota muore».
LO SCONTRO SI CONCLUDE grazie alla mediazione di James “Bo” Gritz, un ex comandante dei berretti verdi in Vietnam che aveva avuto Weaver nel suo reparto 13 anni prima. Harris e Weaver vengono rinviati a giudizio per l’omicidio dello sceriffo e per una infinita serie di reati, ma nel corso del processo il vero imputato diventa l’Fbi, che aveva deciso di sparare per uccidere e non solo per rispondere al fuoco.
L’immagine di una madre americana uccisa sulla porta di casa con una neonata in braccio sembrava fatta apposta per commuovere i giurati.
NEL LUGLIO 1993 Weaver viene assolto da tutti i capi d’imputazione, tranne quella di detenzione d’arma illegale, per la quale viene condannato a 18 mesi di prigione, che finisce di scontare poco prima del Natale 1993. La morte di Vicky Weaver diventa una cause celèbre non solo per gli estremisti di destra ma anche per i repubblicani alla Camera e al Senato. In fondo si trattava di una donna, bianca, madre di una bimba di pochi mesi, uccisa sulla porta di casa da una pallottola della polizia: una martire fatta su misura per chi volesse mettere sotto accusa l’operato dell’amministrazione Clinton.
Quando il governo eccede nell’uso della forza essere bianchi, cristiani e di destra aiuta molto: la pressione della maggioranza politica repubblicana è tale che nel 1995 il dipartimento della Giustizia preferisce chiudere il caso Weaver con una mezza ammissione di colpa: in base a un accordo firmato nell’agosto le tre figlie di Randy ricevono un milione di dollari ciascuna per compensarle del «dolore» e della «sofferenza» causate dalla morte della loro madre.
DA ALLORA, GLI WEAVER diventano icone dell’estrema destra, simboli da imitare, come faranno Ammon Bundy e i suoi amici, che nel gennaio 2016 occupano un piccolo edificio, il Malheur Wildlife Refuge, in Oregon per protestare contro la “prepotenza” del governo federale. Dopo 40 giorni di assedio e uno scontro a fuoco in cui muore uno dei miliziani il gruppo si arrende ma, anche in questo caso, la giuria popolare manifesta la sua simpatia per i ribelli assolvendoli dalla maggior parte delle accuse.
Quando Donald Trump rifiuta di condannare esplicitamente i suprematisti bianchi che hanno invaso Charlottesville in realtà parla a questa parte di America profonda.
L’America ostaggio delle milizie
Hate groups. All’origine dei gruppi armati di estrema destra che oggi infestano le piazze statunitensi proclamando la necessità di prepararsi allo «scontro finale» con il governo federale
Antinazisti a Charlottesville: «Non ci posso credere, sto ancora protestando contro i nazisti»
di Fabrizio Tonello
È stato arrestato l’uomo che aveva sparato sulla folla a Charlottesville nel corso della manifestazione dell’estrema destra lo scorso 12 agosto, fortunatamente senza conseguenze: si tratta di un membro del rinato Ku Klux Klan, Richard Preston. La marcia Unite the Right si era conclusa con un morto, una ragazza che protestava contro l’invasione del campus dell’università della Virginia, Heather Heyer, investita dall’auto di un neonazista dell’Ohio.
LA GALASSIA di organizzazioni e gruppuscoli che si era data convegno quasi un mese fa è fortemente eterogenea ma il suo nucleo duro sono le cosiddette milizie, gruppi armati che proclamano la necessità di prepararsi allo «scontro finale» con il governo federale, considerato illegittimo e tirannico. Alcune decine di membri di questi gruppi, vestiti in tuta mimetica e con i loro fucili mitragliatori bene in vista erano presenti a Charlottesville, riuscendo a intimidire la stessa polizia, che è stata molto criticata per non aver impedito il contatto fra i neonazisti e gli studenti che protestavano contro la loro presenza.
Secondo il Southern Poverty Law Center, un centro studi di Montgomery, in Alabama, che monitora le attività delle organizzazioni razziste e antisemite, ci sono circa 917 hate groups attivi negli Stati Uniti oggi e, di questi, circa 165 sono milizie armate, che nascono sulla scia di due incidenti degli anni Novanta, uno a Waco in Texas e uno a Ruby Ridge, in Idaho, due episodi che fecero da catalizzatore a sentimenti di estraneità e diffidenza nei confronti del governo federale abbastanza diffusi nel West. Quest’ultimo caso, avvenuto nell’agosto di 25 anni fa, merita una ricostruzione più dettagliata perché la morte di una giovane madre ad opera di un tiratore scelto dell’Fbi diede al “movimento” i suoi primi martiri.
RANDY WEAVER E SUA MOGLIE Vicki lasciarono l’Iowa nel 1983 per stabilirsi nella parte più settentrionale dell’Idaho, in mezzo alle montagne a pochi chilometri dal confine canadese. Weaver era un ex berretto verde legato a un movimento fondamentalista chiamato Christian Identity. Nel dicembre 1990, Weaver viene messo sotto accusa per possesso, fabbricazione e vendita illegale di armi da fuoco. Il suo processo deve iniziare il 20 febbraio 1991 ma per un errore Weaver non si presenta all’udienza e il 14 marzo un procuratore federale lo incrimina per non essere comparso in aula.
GLI AGENTI FEDERALI, sapendo che Weaver è in contatto con Christian Identity, lo vedono come un pericoloso criminale, un Rambo capace di sopravvivere nei boschi e di eliminare un intero battaglione mandato alla sua ricerca, mentre Weaver a sua volta si autoconvince che ci sia un complotto del governo contro di lui e si autosequestra in una capanna nei boschi a Ruby Ridge, insieme alla famiglia.
Per un anno e mezzo, Weaver e le autorità giocano al gatto e al topo: l’uno sempre più convinto che le forze del male siano in agguato, gli altri sempre più sicuri che un’operazione paramilitare su larga scala sia necessaria per effettuare l’arresto, visto che l’intera famiglia è armata. Nella solitudine della casetta, Vicki Weaver dà alla luce un quarto figlio, Elishaba.
Il momento della verità arriva il 21 agosto 1992 quando Sam Weaver, il figlio quattordicenne di Randy, e Kevin Harris, un ventiquattrenne che vive con la famiglia, vengono sorpresi da sei sceriffi federali a poca distanza dalla casa. Ne segue uno scontro a fuoco in cui muoiono Sam e uno degli agenti, William Degan. Gli sceriffi federali si ritirano solo quando ricevono rinforzi, dopo nove ore di battaglia in piena regola. Un’unità speciale dell’Fbi chiamata Hostage Rescue Team viene fatta arrivare sul posto, l’assedio comincia.
UNDICI TIRATORI SCELTI prendono posizione attorno alla casa, dove ci sono adesso tre bambini, i coniugi Weaver e Kevin Harris. È il comandante della squadra speciale, Richard Rogers, a decidere che qualunque maschio adulto della famiglia Weaver (quindi Randy Weaver e Kevin Harris) sarà considerato un obiettivo legittimo per i tiratori dell’Fbi senza che ci sia bisogno di atti ostili da parte sua. Si spara a vista. Queste regole per aprire il fuoco diventeranno poi il cuore dello scandalo: tradizionalmente gli agenti federali sono autorizzati ad aprire il fuoco soltanto se c’è un immediato pericolo di vita per se stessi o per dei civili.
Il giorno dopo, sabato 22 agosto, Randy Weaver e Harris escono dalla capanna e immediatamente gli agenti fanno fuoco: Weaver viene ferito alla spalla, Harris si precipita verso la porta e un cecchino, Lon Horiuchi, spara anche su di lui. Il colpo lo manca ma uccide Vicki Weaver, che aveva in braccio la piccola Elishaba.
I vicini di casa di Weaver e gli abitanti della contea, intanto, manifestano la loro ostilità contro il governo federale e le sue «truppe di occupazione» innalzando cartelli come: «Lasciate in pace la famiglia, andatevene a casa», «Cristiani contro la tirannia», «Basta con questi abusi della nostra libertà», «Il governo mente, un patriota muore».
LO SCONTRO SI CONCLUDE grazie alla mediazione di James “Bo” Gritz, un ex comandante dei berretti verdi in Vietnam che aveva avuto Weaver nel suo reparto 13 anni prima. Harris e Weaver vengono rinviati a giudizio per l’omicidio dello sceriffo e per una infinita serie di reati, ma nel corso del processo il vero imputato diventa l’Fbi, che aveva deciso di sparare per uccidere e non solo per rispondere al fuoco.
L’immagine di una madre americana uccisa sulla porta di casa con una neonata in braccio sembrava fatta apposta per commuovere i giurati.
NEL LUGLIO 1993 Weaver viene assolto da tutti i capi d’imputazione, tranne quella di detenzione d’arma illegale, per la quale viene condannato a 18 mesi di prigione, che finisce di scontare poco prima del Natale 1993. La morte di Vicky Weaver diventa una cause celèbre non solo per gli estremisti di destra ma anche per i repubblicani alla Camera e al Senato. In fondo si trattava di una donna, bianca, madre di una bimba di pochi mesi, uccisa sulla porta di casa da una pallottola della polizia: una martire fatta su misura per chi volesse mettere sotto accusa l’operato dell’amministrazione Clinton.
Quando il governo eccede nell’uso della forza essere bianchi, cristiani e di destra aiuta molto: la pressione della maggioranza politica repubblicana è tale che nel 1995 il dipartimento della Giustizia preferisce chiudere il caso Weaver con una mezza ammissione di colpa: in base a un accordo firmato nell’agosto le tre figlie di Randy ricevono un milione di dollari ciascuna per compensarle del «dolore» e della «sofferenza» causate dalla morte della loro madre.
DA ALLORA, GLI WEAVER diventano icone dell’estrema destra, simboli da imitare, come faranno Ammon Bundy e i suoi amici, che nel gennaio 2016 occupano un piccolo edificio, il Malheur Wildlife Refuge, in Oregon per protestare contro la “prepotenza” del governo federale. Dopo 40 giorni di assedio e uno scontro a fuoco in cui muore uno dei miliziani il gruppo si arrende ma, anche in questo caso, la giuria popolare manifesta la sua simpatia per i ribelli assolvendoli dalla maggior parte delle accuse.
Quando Donald Trump rifiuta di condannare esplicitamente i suprematisti bianchi che hanno invaso Charlottesville in realtà parla a questa parte di America profonda.
La Stampa 9.9.17
il referendum catalano sfida anche l’Ue
di Stefano Stefanini
Abbiamo fatto il callo ai referendum e alle spinte secessioniste. Gli uni non si contano. Delle altre non ce ne preoccupiamo più di tanto. Siamo convinti di poter limitare i danni. Queste comode sicurezze saranno presto messe alla prova. Il referendum sull’indipendenza che la Catalogna ha proclamato per il 1° ottobre rischia di precipitare la Spagna in una crisi costituzionale e politica e di aprire una ferita nel cuore dell’Europa.
Gli indipendentisti catalani sono in buona compagnia secessionista: le anime gemelle abbondano fra baschi, fiamminghi belgi e scozzesi. Il problema non è tanto quello che essi vogliono quanto il modo con cui lo perseguono: cercando, via referendum, una legittimazione politica che travalichi lo Stato di diritto. Nel giro di 48 ore, con una risicata maggioranza (72 voti su 135), il Parlament de Catalunya ha approvato la legge che convoca il referendum il 1° ottobre e la legge «di transitorietà». La seconda prevede, in caso di vittoria del «Sì» nel referendum, l’avvio automatico della transizione allo Stato catalano indipendente. Per Madrid, e soprattutto per la Consulta spagnola, sono incostituzionali, e quindi illegali l’una e l’altra. Il braccio di ferro è appena iniziato; l’esito incerto.
Il referendum catalano è una sfida alla Spagna ma anche all’Unione europea. La «legalità» costituzionale è un valore fondante delle democrazie occidentali. Per impedire che sia scavalcata dal barometro variabile degli umori politici gli Stati Uniti hanno praticamente blindato la loro Costituzione. Questo il motivo per cui la democrazia ha retto per oltre due secoli e mezzo, compresa anche una sanguinosa guerra di secessione. Le guide di Mount Rushmore spiegano che il volto di Lincoln è scolpito nella roccia «perché ha tenuto insieme l’Unione, non per l’abolizione della schiavitù».
Non ci sarà guerra per l’indipendenza della Catalogna, ma il referendum sta conducendo a un confronto senza esclusione di colpi istituzionali e giuridici fra Madrid e Barcellona. All’accusa d’incostituzionalità gli indipendentisti catalani rispondono facendo appello all’autodeterminazione dei popoli. Ma la loro sarebbe un’autodeterminazione ai minimi termini, e neppure maggioritaria. Per il referendum non è richiesto alcun quorum. Le previsioni (indipendentiste) sono di una maggioranza di circa il 60% su un’affluenza intorno al 70%: questo significherebbe che un terzo o poco più degli aventi diritto deciderebbe il futuro della Catalogna. Difficile immaginare che Madrid possa accettarlo.
Correndo alle urne per scegliere fra rimanere Spagna o dar vita a una Repubblica della Catalogna, Barcellona sta compiendo un forcing di brutalità politica senza precedenti in un Paese dell’Unione europea. La poca attenzione che la questione catalana ha finora ricevuto fuori Spagna è dovuta anche al desiderio di Madrid di non dargli rilevanza europea e internazionale. Le capitali lo rispettano. L’Ue ha già abbastanza problemi da non cercarne altri. Quest’indifferenza ha tuttavia i giorni contati. Volente o nolente, l’Ue dovrà fare i conti con le ricadute del referendum del 1° ottobre.
L’Europa può gestire le spinte secessioniste e di rigetto dell’integrazione sovranazionale finché restano in un solco di legalità istituzionale. Il referendum catalano si svolgerà (se si svolgerà) in un quadro giuridico d’illegalità e di aspro scontro politico col governo nazionale, che non ne riconoscerà né la tenuta né l’esito. Questo ne rende i seguiti imprevedibili e dirompenti. Non era assolutamente così nei precedenti canadesi, sull’indipendenza del Québec nel 1980 e nel 1995, e scozzese nel 2015.
Ingestibile è soprattutto il metodo referendario quando mette nelle mani di un elettorato sommariamente informato scelte complesse, talvolta vitali talvolta marginali, facendo leva su sentimenti ed emozioni anziché sulla ragione. Sarà così in Catalogna, com’è stato in Olanda lo scorso aprile (accordo di associazione Ue-Ucraina), nel Regno Unito lo scorso giugno (Brexit) o in Italia lo scorso dicembre (riforma costituzionale per l’abolizione del Senato).
Non è un caso che la Costituzione italiana circoscriva, saggiamente, il ricorso al referendum. Senza limiti, in nome di un’apparente democrazia, il referendum si traduce troppo spesso in un’abdicazione alle responsabilità di governo e in un trionfo delle emotività nazionali sull’interesse nazionale. Lo rischia la Catalogna il 1° ottobre; lo rischia l’Europa.
il referendum catalano sfida anche l’Ue
di Stefano Stefanini
Abbiamo fatto il callo ai referendum e alle spinte secessioniste. Gli uni non si contano. Delle altre non ce ne preoccupiamo più di tanto. Siamo convinti di poter limitare i danni. Queste comode sicurezze saranno presto messe alla prova. Il referendum sull’indipendenza che la Catalogna ha proclamato per il 1° ottobre rischia di precipitare la Spagna in una crisi costituzionale e politica e di aprire una ferita nel cuore dell’Europa.
Gli indipendentisti catalani sono in buona compagnia secessionista: le anime gemelle abbondano fra baschi, fiamminghi belgi e scozzesi. Il problema non è tanto quello che essi vogliono quanto il modo con cui lo perseguono: cercando, via referendum, una legittimazione politica che travalichi lo Stato di diritto. Nel giro di 48 ore, con una risicata maggioranza (72 voti su 135), il Parlament de Catalunya ha approvato la legge che convoca il referendum il 1° ottobre e la legge «di transitorietà». La seconda prevede, in caso di vittoria del «Sì» nel referendum, l’avvio automatico della transizione allo Stato catalano indipendente. Per Madrid, e soprattutto per la Consulta spagnola, sono incostituzionali, e quindi illegali l’una e l’altra. Il braccio di ferro è appena iniziato; l’esito incerto.
Il referendum catalano è una sfida alla Spagna ma anche all’Unione europea. La «legalità» costituzionale è un valore fondante delle democrazie occidentali. Per impedire che sia scavalcata dal barometro variabile degli umori politici gli Stati Uniti hanno praticamente blindato la loro Costituzione. Questo il motivo per cui la democrazia ha retto per oltre due secoli e mezzo, compresa anche una sanguinosa guerra di secessione. Le guide di Mount Rushmore spiegano che il volto di Lincoln è scolpito nella roccia «perché ha tenuto insieme l’Unione, non per l’abolizione della schiavitù».
Non ci sarà guerra per l’indipendenza della Catalogna, ma il referendum sta conducendo a un confronto senza esclusione di colpi istituzionali e giuridici fra Madrid e Barcellona. All’accusa d’incostituzionalità gli indipendentisti catalani rispondono facendo appello all’autodeterminazione dei popoli. Ma la loro sarebbe un’autodeterminazione ai minimi termini, e neppure maggioritaria. Per il referendum non è richiesto alcun quorum. Le previsioni (indipendentiste) sono di una maggioranza di circa il 60% su un’affluenza intorno al 70%: questo significherebbe che un terzo o poco più degli aventi diritto deciderebbe il futuro della Catalogna. Difficile immaginare che Madrid possa accettarlo.
Correndo alle urne per scegliere fra rimanere Spagna o dar vita a una Repubblica della Catalogna, Barcellona sta compiendo un forcing di brutalità politica senza precedenti in un Paese dell’Unione europea. La poca attenzione che la questione catalana ha finora ricevuto fuori Spagna è dovuta anche al desiderio di Madrid di non dargli rilevanza europea e internazionale. Le capitali lo rispettano. L’Ue ha già abbastanza problemi da non cercarne altri. Quest’indifferenza ha tuttavia i giorni contati. Volente o nolente, l’Ue dovrà fare i conti con le ricadute del referendum del 1° ottobre.
L’Europa può gestire le spinte secessioniste e di rigetto dell’integrazione sovranazionale finché restano in un solco di legalità istituzionale. Il referendum catalano si svolgerà (se si svolgerà) in un quadro giuridico d’illegalità e di aspro scontro politico col governo nazionale, che non ne riconoscerà né la tenuta né l’esito. Questo ne rende i seguiti imprevedibili e dirompenti. Non era assolutamente così nei precedenti canadesi, sull’indipendenza del Québec nel 1980 e nel 1995, e scozzese nel 2015.
Ingestibile è soprattutto il metodo referendario quando mette nelle mani di un elettorato sommariamente informato scelte complesse, talvolta vitali talvolta marginali, facendo leva su sentimenti ed emozioni anziché sulla ragione. Sarà così in Catalogna, com’è stato in Olanda lo scorso aprile (accordo di associazione Ue-Ucraina), nel Regno Unito lo scorso giugno (Brexit) o in Italia lo scorso dicembre (riforma costituzionale per l’abolizione del Senato).
Non è un caso che la Costituzione italiana circoscriva, saggiamente, il ricorso al referendum. Senza limiti, in nome di un’apparente democrazia, il referendum si traduce troppo spesso in un’abdicazione alle responsabilità di governo e in un trionfo delle emotività nazionali sull’interesse nazionale. Lo rischia la Catalogna il 1° ottobre; lo rischia l’Europa.
Repubblica 9.9.17
Il guardasigilli: “Quella è una bozza, dovevo pur dare un punto di partenza. E c’è tempo fino al 3 novembre per trovare l’intesa”
La retromarcia del ministro “Discuteremo e cambieremo via il divieto di frasi integrali”
di Liana Milella
ROMA. «Di una cosa sono sicuro, non sarà questo il testo finale della riforma delle intercettazioni». Parola di Andrea Orlando che da New York, dove si trova per una breve vacanza, legge
Repubblica, e piglia le distanze dal decreto che pure, tra lunedì e martedì, resterà la base di discussione tra lui stesso, i capi delle maggiori procure italiane (Greco, Spataro, Creazzo, Pignatone, Melillo, Lo Voi), le Camere penali, la Fnsi (se alla fine accetterà di esserci), e noti giuristi. Un testo sottoscritto dall’ufficio legislativo di via Arenula, inviato ufficialmente ai protagonisti dei prossimi incontri, ma di cui il ministro della Giustizia dice: «Voglio essere chiaro su questo punto, questo è un testo di cui non riconosco la paternità». Anche se la lettera di accompagnamento portava in calce proprio la sua firma, Orlando – raggiunto per tutta la giornata dagli echi delle polemiche – la spiega così: «Da un punto di partenza dovevo pur cominciare, ma alla fine la riforma delle intercettazioni non sarà quella contenuta in quelle pagine». Neppure la disposizione più contestata e allarmante sia per il diritto di cronaca che per il lavoro stesso delle toghe, l’obbligo di non citare letteralmente e tra virgolette le intercettazioni, ma riportandone solo «il contenuto »? Anche su questo Orlando fa retromarcia rispetto alla bozza: «È un punto che sicuramente potrà cambiare».
Sono le 18, le 12 a N.Y, quando la voce di Orlando risuona conoscibilissima al telefono. Pronto a spiegare, chiarire, evitare una polemica sulle intercettazioni, di certo la legge più sensibile per il comparto della giustizia. Prima del governo Gentiloni, sulla riforma degli ascolti, si sono arenati Prodi e Berlusconi, si sono dovuti arrendere ministri pur politicamente e/o tecnicamente agguerriti come Flick, Castelli, Mastella, Alfano. Una presidente della commissione Giustizia come Giulia Bongiorno ha fatto da baluardo all’aggressione distruttiva dell’ex Cavaliere. Ma Orlando invece non vuole perdere l’occasione di cambiare le regole.
È proprio convinto, ministro, di voler portare a casa la riforma? Lui ci prova, incurante degli attacchi e delle polemiche di M5S che già gli piovono addosso: «La legge sul processo penale (che contiene la delega al governo per cambiare le intercettazioni, ndr.) mi dà tempo fino al 3 novembre. Entro quella data io devo presentare il testo in consiglio dei ministri. Poi, certo, sarà Gentiloni a decidere». Una sfida dunque, come quella sullo stesso processo penale approvato il 23 giugno ed entrato in vigore il 4 agosto, che contiene norme contestate come la prescrizione.
Ora tocca alle intercettazioni e all’annosa battaglia tra privacy e verità processuale, ai Trojan horse, captatori informatici che trasformano uno smart phone in una microspia, al carcere fino a 4 anni per chi registra fraudolentemente un colloquio tra privati.
Orlando si dichiara pronto alla battaglia. E vuole scansare la prima mina, quella bozza che già gli ha messo contro magistrati – molti agitano già lo spauracchio dell’incostituzionalità sull’obbligo del riassunto – e giornalisti. Nel corso della telefonata ripete più volte: «Alla fine il testo non sarà quello della formulazione iniziale, ma da un punto dovevo pur partire. Nel presentarlo durante le audizioni sarò chiaro nel dire che le opzioni sono tutte aperte perché quello che si apre è un confronto serio e vero, né finto, né fittizio ». Il Guardasigilli poi si rivolge ai magistrati: «Vorrei che anche le procure si assumessero la paternità del testo finale».
Sicuramente una questione da superare è quel riassunto che già allarma più di una toga. Ma Orlando lo considera superabile e vede come più impegnativi altri nodi. «In quel testo ci sono problemi molto più seri, in primo luogo l’udienza stralcio. Perché, se la si rende obbligatoria, la procedura rallenta inevitabilmente l’inchiesta. Ma se non si fa, si attribuisce solo al giudice la delicata incombenza di decidere quali intercettazioni sono rilevanti e quali no». Il ministro intravvede una soluzione: «Si potrebbe non renderla obbligatoria, ma farla solo su richiesta delle parti». Delicato anche il punto dell’archivio riservato, la futura cassaforte di tutte le intercettazioni che nessuno potrà né conoscere né pubblicare: «Qui bisogna avere delle certezze, e una può essere quella di affidare al capo della procura l’obbligo della vigilanza».
Nodi antichi e intricati. Non pensa, ministro, che sarebbe stato meglio fare una commissione? Orlando è scettico e chiude così il colloquio con Repubblica: «Ero pronto a farla, ma i tempi si sarebbero dilatati rispetto alla scadenza del 3 novembre. E poi non sono affatto certo che le polemiche non sarebbero state anche maggiori…».
Il guardasigilli: “Quella è una bozza, dovevo pur dare un punto di partenza. E c’è tempo fino al 3 novembre per trovare l’intesa”
La retromarcia del ministro “Discuteremo e cambieremo via il divieto di frasi integrali”
di Liana Milella
ROMA. «Di una cosa sono sicuro, non sarà questo il testo finale della riforma delle intercettazioni». Parola di Andrea Orlando che da New York, dove si trova per una breve vacanza, legge
Repubblica, e piglia le distanze dal decreto che pure, tra lunedì e martedì, resterà la base di discussione tra lui stesso, i capi delle maggiori procure italiane (Greco, Spataro, Creazzo, Pignatone, Melillo, Lo Voi), le Camere penali, la Fnsi (se alla fine accetterà di esserci), e noti giuristi. Un testo sottoscritto dall’ufficio legislativo di via Arenula, inviato ufficialmente ai protagonisti dei prossimi incontri, ma di cui il ministro della Giustizia dice: «Voglio essere chiaro su questo punto, questo è un testo di cui non riconosco la paternità». Anche se la lettera di accompagnamento portava in calce proprio la sua firma, Orlando – raggiunto per tutta la giornata dagli echi delle polemiche – la spiega così: «Da un punto di partenza dovevo pur cominciare, ma alla fine la riforma delle intercettazioni non sarà quella contenuta in quelle pagine». Neppure la disposizione più contestata e allarmante sia per il diritto di cronaca che per il lavoro stesso delle toghe, l’obbligo di non citare letteralmente e tra virgolette le intercettazioni, ma riportandone solo «il contenuto »? Anche su questo Orlando fa retromarcia rispetto alla bozza: «È un punto che sicuramente potrà cambiare».
Sono le 18, le 12 a N.Y, quando la voce di Orlando risuona conoscibilissima al telefono. Pronto a spiegare, chiarire, evitare una polemica sulle intercettazioni, di certo la legge più sensibile per il comparto della giustizia. Prima del governo Gentiloni, sulla riforma degli ascolti, si sono arenati Prodi e Berlusconi, si sono dovuti arrendere ministri pur politicamente e/o tecnicamente agguerriti come Flick, Castelli, Mastella, Alfano. Una presidente della commissione Giustizia come Giulia Bongiorno ha fatto da baluardo all’aggressione distruttiva dell’ex Cavaliere. Ma Orlando invece non vuole perdere l’occasione di cambiare le regole.
È proprio convinto, ministro, di voler portare a casa la riforma? Lui ci prova, incurante degli attacchi e delle polemiche di M5S che già gli piovono addosso: «La legge sul processo penale (che contiene la delega al governo per cambiare le intercettazioni, ndr.) mi dà tempo fino al 3 novembre. Entro quella data io devo presentare il testo in consiglio dei ministri. Poi, certo, sarà Gentiloni a decidere». Una sfida dunque, come quella sullo stesso processo penale approvato il 23 giugno ed entrato in vigore il 4 agosto, che contiene norme contestate come la prescrizione.
Ora tocca alle intercettazioni e all’annosa battaglia tra privacy e verità processuale, ai Trojan horse, captatori informatici che trasformano uno smart phone in una microspia, al carcere fino a 4 anni per chi registra fraudolentemente un colloquio tra privati.
Orlando si dichiara pronto alla battaglia. E vuole scansare la prima mina, quella bozza che già gli ha messo contro magistrati – molti agitano già lo spauracchio dell’incostituzionalità sull’obbligo del riassunto – e giornalisti. Nel corso della telefonata ripete più volte: «Alla fine il testo non sarà quello della formulazione iniziale, ma da un punto dovevo pur partire. Nel presentarlo durante le audizioni sarò chiaro nel dire che le opzioni sono tutte aperte perché quello che si apre è un confronto serio e vero, né finto, né fittizio ». Il Guardasigilli poi si rivolge ai magistrati: «Vorrei che anche le procure si assumessero la paternità del testo finale».
Sicuramente una questione da superare è quel riassunto che già allarma più di una toga. Ma Orlando lo considera superabile e vede come più impegnativi altri nodi. «In quel testo ci sono problemi molto più seri, in primo luogo l’udienza stralcio. Perché, se la si rende obbligatoria, la procedura rallenta inevitabilmente l’inchiesta. Ma se non si fa, si attribuisce solo al giudice la delicata incombenza di decidere quali intercettazioni sono rilevanti e quali no». Il ministro intravvede una soluzione: «Si potrebbe non renderla obbligatoria, ma farla solo su richiesta delle parti». Delicato anche il punto dell’archivio riservato, la futura cassaforte di tutte le intercettazioni che nessuno potrà né conoscere né pubblicare: «Qui bisogna avere delle certezze, e una può essere quella di affidare al capo della procura l’obbligo della vigilanza».
Nodi antichi e intricati. Non pensa, ministro, che sarebbe stato meglio fare una commissione? Orlando è scettico e chiude così il colloquio con Repubblica: «Ero pronto a farla, ma i tempi si sarebbero dilatati rispetto alla scadenza del 3 novembre. E poi non sono affatto certo che le polemiche non sarebbero state anche maggiori…».