sabato 9 novembre 2013

l’Unità 9.11.13
Tesserati, sì allo stop Civati resta contrario
di Simone Collini


Stop al tesseramento da lunedì, dopodiché ci si potrà continuare ad iscrivere al Pd dal 25 novembre, giorno successivo alla convenzione nazionale del partito in cui si conosceranno i nomi dei candidati segretario più votati dagli iscritti, che poi si sfideranno alle primarie aperte dell’8 dicembre. A ufficializzare la decisione è stata la Direzione del partito con il voto contrario degli esponenti che al congresso sostengono Pippo Civati. In pratica, ai 223 membri del parlamentino democratico è stata mandata una mail contenente la proposta di sospendere il tesseramento dopo le segnalazioni di anomalie e irregolarità nelle iscrizioni, e a rispondere dicendosi contrari sono stati in 12 (e in due si sono astenuti).
Soddisfatto Cuperlo, che per primo l’altra settimana aveva lanciato la proposta di chiudere il tesseramento «per dimostrare che siamo sani», mentre Civati (che ha vinto il congresso del circolo di Parigi) pur denunciando casi di «doping» («ci sono posti dove ci sono più iscritti che elettori») dice che la decisione dello stop è «tardiva e insufficiente, non affronta i veri problemi, non sanziona le irregolarità già attuate, e limita la partecipazione». Interviene sulla questione anche Pier Luigi Bersani, per il quale «hanno sbagliato un po’ tutti» a decidere di lasciare aperta la possibilità di iscriversi fino al momento del voto nei circoli («l’altra volta si chiuse il tesseramento due mesi prima, era ciò che andava fatto»).
Renzi, nella sua «enews», definisce «un bell’esercizio di democrazia» la partecipazione alle votazioni per i segretari di circolo e provinciali da parte di 370 mila iscritti al Pd: «In altri schieramenti decide uno per tutti, quindi non ci lamentiamo». E poi, riferendosi ai «casi vergognosi di tesseramento gonfiati», dice che «una persona che vuole bene alla politica e al Pd non spara nel mucchio: fa i nomi delle singole realtà problematiche e circostanzia le accuse». Il sindaco ricorda poi che l’8 dicembre c’è la «terza fase», ovvero le primarie aperte, «che è in realtà l’unica decisiva e inappellabile».
Lo stop ai tesseramenti non chiude comunque le polemiche sui casi più contestati. E c’è anche chi, come il senatore del Pd Stefano Esposito, ha deciso di autosospendersi dal partito spiegando che questo gesto è «conseguenza dei gravi fatti che hanno macchiato il congresso del Pd di Torino» e delle prime mosse del neosegretario provinciale, il renziano Fabrizio Morri.
Il responsabile Organizzazione del Pd Davide Zoggia spiega che i casi in cui si sono riscontrate reali anomalie si contano sulle dita di una mano. In cima alla lista c’è Rovigo, dove si richiede di eleggere una nuova direzione provinciale, ma già annullati o a rischio annullamento ci sono anche congressi ad Asti, Lecce, Siracusa, Frosinone. Anche a Catanzaro la sfida tra Domenico Giampà e Enzo Bruno scatena polemiche, con i sostenitori del primo che contestano anomalie in congressi svolti in piccoli centri della provincia dove il secondo ha fatto il pieno di voti (il dito è puntato sul boom di iscritti a Pianopoli, o su Cerva e Falerna, dove i congressi sono stati posticipati perché ci si era resi conto dei pochi partecipanti).

Corriere 9.7.13
Pd, stop alle tessere. E il partito si spacca
Blocco da lunedì, no di Civati
Esposito: mi autosospendo, sugli iscritti fatti gravi
di Alessandro Trocino


ROMA — Alla fine, visto che tra i quattro candidati il consenso non era unanime, è stata la direzione del Pd a intervenire per decretare lo stop al tesseramento, a partire da lunedì. Una decisione non indolore, presa con due astenuti e 12 voti contrari, tra i quali quello di Pippo Civati, per nulla convinto da una decisione giudicata «tardiva e insufficiente». Lo stop del partito però non blocca le polemiche e restano da risolvere molti casi di presunte tessere gonfiate, con denunce clamorose, come quella del senatore Stefano Esposito, che si è autosospeso per protesta «per i gravi fatti che hanno macchiato il congresso di Torino». E c’è anche una polemica sui dati dei primi sette circoli, battuti dalle agenzie: vedono in testa Renzi con il 49%, seguito da Cuperlo con il 27. Segue la protesta dei cuperliani: «Non giochiamo sui dati. Basta aggiungere il circolo di Ossi (Sassari) e Cuperlo passa in testa».
Il partito è scosso anche dalle parole di Matteo Renzi, che a «Servizio pubblico» ha attaccato il ministro Anna Maria Cancellieri e il suo partito, che l’ha difesa. Massimo D’Alema critica il sindaco di Firenze: «Capisco la sua osservazione, ma è retroattiva, la questione è chiusa. Dirlo dopo, ha solo un sapore polemico». Ma D’Alema va oltre: «Le conversioni al renzismo si basano su un gigantesco equivoco. È come se noi stessimo facendo le primarie per il candidato premier, ma è solo il candidato alla segreteria del Pd. E non so se sarà in grado di farlo». Renzi, intanto, annuncia che per le primarie, «unica data decisiva e inappellabile», spenderà «meno del tetto previsto di 200 mila euro».
Se il caso Cancellieri è chiuso, rischia di aprirsi seriamente un caso Pd. L’ex segretario Pier Luigi Bersani lancia una bordata: «Il Pd ha fatto un passo indietro e qualche motivo di preoccupazione c’è. S’è fatto un passo in direzione di un partito che perde la consistenza e la sua comunità e si apre in modo pericoloso a influenze esterne». D’Alema non è d’accordo sull’allarme: «Ci sono stati episodi gravi in alcune zone ma non in tutta Italia. C’è una campagna di disinformazione, un attacco politico con menzogne». Diversa l’opinione di Civati: «Ci sono posti con più iscritti che elettori. Questo è doping e l’allarme è stato sottovalutato. Per occuparci di disoccupati, serve un partito di persone perbene, non di cialtroni».
I congressi che saranno annullati, spiega il responsabile dell’organizzazione Davide Zoggia, non saranno più di 3 o 4. Ma alcuni casi sono di difficile soluzione. Ad Asti si parlava di un tesseramento in massa di albanesi, presumendolo prezzolato. Oggi, però, ci sarà una manifestazione di protesta degli stessi albanesi, che negano di avere inquinato il congresso: «Siamo ad Asti dal ‘91, siamo 7000 e abbiamo due candidati tra i dirigenti».
Nella vicenda tessere irrompe anche Stefano Esposito, senatore torinese, cuperliano, che si è autosospeso dal partito e dagli incarichi, dopo i «fatti gravi di Torino» e dopo le affermazioni del neosegretario provinciale Fabrizio Morri su Vincenzo Iatì, eletto segretario a Barriera di Milano (e dimissionario). Spiega Esposito: «Ho visto con i miei occhi casi di tessere vendute. Quando hai gente che investe 20 mila euro per fare 1500 tessere, che fai? L’ho detto un anno e mezzo fa e mi hanno sputato in faccia. È in atto una mutazione genetica».
Esposito si riferisce in particolare al caso di Iatì, segretario di circolo di Barriera di Milano: «È saltato fuori che ha precedenti per furto e per maltrattamenti in famiglia. E c’è una telefonata a un pericoloso boss della ‘ndrangheta. Nulla di penalmente rilevante, ma dico: nella città di Caselli, uno fa il collettore di voti, per il centrodestra e poi per il Pd, avendo rapporti con la ‘ndrangheta, e Morri parla di superficialità? Quei 1500 che ha portato chi sono? Ho diritto di chiederlo? Diamoci una regolata, altrimenti smettiamola di dire che il Pd è antropologicamente migliore. Altrimenti non siamo diversi da Psi e Dc e non abbiamo più il diritto di dire che il Pdl è uno schifo». Morri replica: «Il Pd è l’unico partito degno di questo nome, è sbagliato alimentare l’idea che sia una schifezza».

La Stampa 9.11.13
Pd, stop alle tessere e guerra sui numeri
Civati protesta: “Decisione tardiva e insufficiente”. Il partito paga il danno d’immagine e cala nei sondaggi
Primi dati: Renzi al 49%, Cuperlo al 27%. No, per i cuperliani è 44% e il sindaco al 43%
di Carlo Bertini


Si vedrà nei prossimi giorni se la toppa è peggiore del buco: con un’inedita procedura telematica, una consultazione via mail dei duecento e passa membri della Direzione (silenzio-assenso del 93%, una quindicina tra contrari e astenuti) il Pd ha bloccato il fatidico tesseramento alla data di lunedì 11, fino al 24 novembre. Cioé per la seconda fase, decisiva nel contorto iter congressuale, quella in cui gli iscritti votano i nomi dei candidati segretari.
Dopo il pressing di Cuperlo, sposato da Epifani, preoccupato per i danni inferti al partito che mettono a rischio la partecipazione ai gazebo, la decisione è stata presa l’altra notte in commissione di Garanzia dai rappresentanti di tutte le tribù. Ma è stata subito contestata ieri mattina da uno dei quattro candidati, Pippo Civati: che insieme ai suoi esponenti in Direzione ha votato contro «una proposta tardiva e insufficiente, che non affronta i veri problemi, non sanziona le irregolarità già attuate, e limita la partecipazione». Non è stato il solo, anche un pezzo forte vicino a Franceschini e dunque a Renzi, il toscano Antonello Giacomelli, ha detto no alla «delibera telematica» che modifica il percorso già deciso, che concorre a una «rappresentazione grottesca e deformata del congresso e che getta fin d’ora un’ombra di sospetto sull’esito della convenzione». Cioé sull’assemblea nazionale che il 24 novembre proclamerà il risultato del voto tra gli iscritti. «Epifani ha sbagliato? Hanno sbagliato, diciamo, un po’ tutti. L’altra volta non si fece così. Si chiuse il tesseramento un mese prima dell’ultimo giorno. Era quello da fare», sentenzia Bersani. E sulla stessa linea è anche D’Alema.
Dunque sarà interessante vedere cosa avverrà in questi ultimi due giorni in cui i circoli resteranno aperti per una corsa al fotofinish delle iscrizioni. Certo è che il danno di immagine c’è stato ormai e i sondaggi lo dimostrano: non solo fotografando un calo di almeno un punto del Pd, ma prevedendo un’affluenza alle primarie non da record, anzi. Un’inchiesta di Demopolis mostra che solo il 16 per cento degli elettori del Pd ha deciso di votare mentre il 73% non ci pensa proprio. E fatte le debite proporzioni, anche se molto a spanne, ciò si tradurrebbe nella metà circa dei tre milioni di elettori che affollarono le primarie di Veltroni e di Bersani-Franceschini. Intanto è stato anche deciso che, causa polemiche e ricorsi, il congresso provinciale di Rovigo viene annullato, quello di Catania sospeso, a Frosinone tutto da rifare in 36 circoli, a Cosenza annullati vari congressi di circolo, Asti, Lecce e Siracusa verranno ascoltate lunedì. Nella città siciliana sono stati proclamati due segretari provinciali in due distinti congressi, come avvenuto già a Trapani. E in Puglia anche il congresso di Gallipoli è stato annullato da giorni, per problemi di tesseramento. In tutto ciò, si inizia a votare nei circoli già ora e scatta la guerra sui numeri. In sette circoli a caso, 290 iscritti, Renzi al 49%, Cuperlo al 27%, battono le agenzie. E no, basta contarne un ottavo nel sassarese, dicono i cuperliani e siamo in testa noi col 44% e Renzi è al 43%...

La Stampa 9.11.13
Esposito: partito omertoso
Torino, un segretario al telefono col boss. E un senatore lascia
di Andrea Rossi


TORINO Dopo aver perso quasi 60 mila voti in cinque anni, circa un quarto degli iscritti in pochi mesi stima per difetto, perché di mezzo ci sono i nuovi tesserati mobilitati dal congresso il Pd a Torino ieri ha perso anche un senatore: Stefano Esposito, vice presidente della commissione Trasporti, in prima linea su molti fronti a cominciare dal Tav, di cui è un acceso sostenitore. Esposito si è sospeso dal partito e da tutti gli incarichi: «Il congresso che stiamo svolgendo a Torino è stato macchiato da episodi gravissimi», spiega in una lettera indirizzata al segretario Epifani, al presidente della commissione di garanzia Berlinguer e a una mezza dozzina di dirigenti nazionali e locali.
Quindicimila tessere in bianco inviate (per sbaglio) da Roma; storici militanti in fuga, in parte compensati non senza sospetti da forze fresche; persone pagate per votare ai seggi; circoli in cui, nel giro di pochi giorni, i tesserati sono raddoppiati se non triplicati. Ad Asti, per motivazioni simili, i congressi sono stati sospesi. A Torino no: Fabrizio Morri, in corsa per la segreteria provinciale sotto le insegne del ticket Fassino-Renzi, ha conquistato più della metà dei voti e dei delegati, e da ieri sera è in sella. Eppure la battaglia non è finita: pendono ricorsi, scorrono veleni. L’ultimo è di un paio di giorni fa e sta alla base del gesto di Esposito: «Di fronte a certi episodi il Pd non può far finta di niente».
Nella città dell’inchiesta Minotauro 73 imputati alla sbarra, accusati di essere i tentacoli della ’ndrangheta in Piemonte accade che il circolo di Barriera di Milano, storica periferia operaia, elegga segretario tal Vincenzo Iatì, 48 anni, un passato in alcune liste civiche di centrodestra, ma soprattutto una serie di vecchie condanne per furti e ricettazione ormai estinte e perciò nascoste a tutti. La fedina penale oggi è pulita ma, come se non bastasse, spuntano alcune telefonate di quattro anni fa, agli atti di Minotauro: Iatì chiede voti per le elezioni comunali di Borgaro, un comune dell’hinterland, a Benvenuto Praticò, per il quale la procura ha chiesto 16 anni di carcere.
Iatì nel frattempo è passato al Pd. L’altro ieri ha rimesso il mandato di segretario del circolo, dove era l’unico candidato, forte del sostegno dei grandi collettori di voti del quartiere, tutti schierati con Morri. Il quale si dissocia, ma timidamente: «Ha sbagliato a nascondere il suo passato. Non lo conosco, ma il suo è un gesto di responsabilità che apprezzo». E le telefonate con i boss? «Non avevano rilevanza penale. Avrà commesso una leggerezza».
Morri se la prende con chi «ha cercato di distruggere le persone. Hanno passato il segno: così si fa male al partito». Esposito corrisponde in pieno all’identikit. E reagisce: «A me non l’ha ordinato il dottore di fare il senatore. E credo che abbia ragione il procuratore Caselli quando invita le forze politiche a svolgere una funzione di controllo su dirigenti e militanti senza aspettare che sia la magistratura a intervenire». Un’esagerazione, secondo il segretario regionale Morgando. Esposito si è preso un po’ di tempo per sorvegliare le prossime mosse, ha incassato la fiducia del capogruppo al Senato Zanda e di Gianni Cuperlo, il candidato che appoggiava. «Vediamo che cosa succede: di sicuro non posso accettare di continuare a stare in un partito che non vede, non sente e non parla, e trasmette all’esterno un atteggiamento omertoso e ponziopilatesco».

il Fatto 9.11.13
Stefano Esposito Parlamentare auto-sospeso
“Tessere, reati e boss: mi vergogno. E mi fermo”
intervista di Fd’e


Stefano Esposito stava nel Partito, con la P maiuscola, da quando aveva 16 anni. Oggi ne ha 44 e ha deciso di autosospendersi dal partito, con la minuscola. Esposito, senatore del Pd, ha scritto una lettera a Guglielmo Epifani. A Torino, per votare il neosegretario provinciale Fabrizio Morri, ex ds riciclatosi renziano sotto l’ombrello del sindaco Fassino, è successo di tutto. L’apice è stata l’elezione a segretario di circolo di un ex carcerato, Vincenzo Iatì. Reati come furto e ricettazione. Uno che, qualche anno fa, chiedeva voti per il centrodestra in un comune piemontese vantando relazioni con un boss della ‘ndrangheta.
Morri e Morgando, il segretario regionale, dicono che lei sta esagerando.
Fanno come quelli che decenni fa sostenevano che a parlare di mafia si danneggiava la Sicilia.
Sono paragoni pesantissimi.
Ho visto cose che non avrei mai immaginato di vedere. E non mi impressiono facilmente. In tanti anni, ho perso e vinto congressi, ma ora basta, qui siamo alla mutazione genetica del partito, con questa degenerazione ci facciamo male sul serio.
Lei sta con Cuperlo, Morri con Renzi.
Mi creda, qui non c’entrano Cuperlo o Renzi o Civati o Pittella. Il problema sono quelli che sono saliti sul carro del vincitore e si sono scatenati a fare tessere.
È come la differenza tra Marx e i marxisti.
Esatto.
Cosa ha visto?
Al mio circolo ben 111 iscritti in più. Gente che investe soldi. Quindici euro a tessera, se la cavano con 1.600, 1.700 euro. Quindicimila euro per mille tessere, il doppio per duemila. Non abbiamo più anticorpi.
La diversità perduta.
Ci sono compagni come me che hanno detto basta, anziani che ogni giorno alzano la saracinesca della sezione.
I signori delle tessere.
Sono vecchi socialisti come questo Gallo, che ha fatto eleggere Iatì nella città di Gian Carlo Caselli e dell’operazione Minotauro. Morri ha detto che Iatì è stato riabilitato. Questo dimostra che non ha nemmeno la libertà di fare una cosa. Se toglie un mattoncino crolla tutto l’edificio, del resto ha vinto con poco più del 50 per cento.
E la telefonata al boss?
Per Morri è una leggerezza, capisce? E chi denuncia è un calunniatore. Se le così stanno così non possiamo dire più agli altri che fanno schifo. Non è solo una questione penale, ma di opportunità. Ho sentito cose ridicole.
Pure.
Hanno detto che il risveglio del tesseramento ci deve riempire d’orgoglio. Ma quale orgoglio, io mi vergogno. Quando ho votato nel mio circolo, davanti a me, in coda, c’erano due vecchietti.
Che hanno fatto?
Si erano dimenticati per chi votare e mi hanno chiesto: “La manda il presidente? Non ci ricordiamo i nomi? ”.
Chi è il “presidente”?
Quello che si è fatto rimborsare pure il tagliaerbe coi soldi pubblici: Andrea Stara, consigliere regionale e presidente di circoscrizione. Si era autosospeso, adesso è tornato direttamente con le tessere.
I vecchietti hanno votato?
Hanno scoperto che bisognava pagare.
Quindi?
Sono usciti fuori e si sono fatti dare 30 euro da un tizio. Li ho seguiti. Siamo alla truffa.

il Fatto 9.11.13
Pd, caos sulle regole Livia Turco: “Pronta ad andarmene”
Norme cambiate in corsa: ci si può iscrivere solo fino a domenica sera
Ma tanti congressi sono da rifare
di Luca De Carolis


Il vicolo semi-cieco in cui si è infilato il Pd lo raccontano poche e burocratiche righe, inviate giovedì sera via email dal partito ai 223 membri della Direzione. Le parole della marcia indietro: “In deroga agli art. 4 comma 2 e art. 13 comma 2 del regolamento per l’elezione del segretario e dell’Assemblea nazionale, la Direzione approva una modifica del Regolamento: ‘Dall’11 novembre fino al giorno della Convenzione nazionale (24 novembre) sono sospese le operazioni di nuove iscrizioni al Pd”. Ieri, oltre il 90 per cento dei dirigenti ha approvato lo stop al tesseramento a partire da lunedì, con i circoli che rimarranno aperti oggi e domani. Solo 12 i no, 2 gli astenuti. Ma anche modi e tempi imposti di risposta la dicono lunga.
   SI POTEVA REPLICARE alla email solo fino alle 12 di ieri. Altrimenti, “la proposta sarà considerata approvata qualora non si raggiunga una maggioranza contraria entro il termine” spiegava il messaggio a firma di Marina Sereni e Ivan Scalfarotto, vicepresidenti dell’assemblea dem. Imbarazzati, tanto da scusarsi “per il brevissimo preavviso”. Solo un pugno di ore, per cambiare in corsa quelle regole su cui il Pd è scivolato, facendosi male. Quanto, dovrà stabilirlo la commissione per il Congresso. “I congressi provinciali annullati saranno non più di 3 o 4” sostiene il responsabile organizzazione, Davide Zoggia. Ma la commissione ha già annullato il congresso di Rovigo e 36 nella provincia di Frosinone (capoluogo compreso), dove andrà come osservatore la deputata Anna Margherita Miotto. Sotto esame soprattutto Grosseto, Caserta, Cosenza e Asti: la città dei tanti neo-dem albanesi, che per oggi annunciano un presidio di protesta. Sul tavolo anche i casi di Catania (anche lì voto annullato), Lecce, Piacenza (di lieve entità) e Siracusa, dove hanno eletto due segretari. Lunedì la commissione ascolterà i ricorrenti e le commissioni di Asti, Lecce e Siracusa. E cercherà di mettere un po’ di ordine, in un quadro che sta lasciando scorie pesanti. Lo conferma lo sfogo della dalemiana Livia Turco, ieri mattina a L’aria che tira: “La politica che ho imparato io è quella che risolve i problemi, quella della militanza che non è una zavorra. Se non la ritroverò più me ne andrò dal Pd. Renzi? Spero che non viva la mia storia come una zavorra. In questo caso, sarò felice di rimanere”. Mostra tutto il dolore per “gli episodi molto gravi”, la Turco che si dice pronta a chiudere una storia politica “che viene dal Pci”, come ha detto ieri commossa. Di fatto è il primo nome di peso nazionale (“ma io sono una militante”) a minacciare l’addio dopo la bufera. Il suo discorso riecheggia il malessere della base, quasi stordita dallo scandalo delle tessere gonfiate. Ma sono nervosi anche i candidati. Primo tra tutti Giuseppe Ci-vati, contrarissimo allo stop al tesseramento: “È una proposta tardiva e insufficiente, che non affronta i veri problemi, non sanziona le irregolarità e limita la partecipazione”. In più, Civati teme “l’assalto dei signori delle tessere” ai circoli nel fine settimana. Sino a ieri era contrario anche Gianni Pittella. Adesso vira per attaccare: “Questa proposta è equa, piuttosto sul tesseramento Civati ha compiuto un’azione da doppiogiochista: Il suo rappresentante in commissione di Garanzia aveva detto sì allo stop”. Controreplica civatiana: “È Pittella che ha cambiato idea”. Schermaglie in fondo comprensibili. Alle primarie per la segreteria nazionale dell’8 dicembre accederanno tre candidati su quattro (dopo il voto dei circoli), e la terza piazza se la giocano Ci-vati e Pittella. Ieri 7 circoli hanno votato proprio sui candidati nazionali: fonti Pd danno Renzi al 49 per cento, Cuperlo al 26, Ci-vati all’11 e Pittella all’1. Si parla di appena 260 voti, ma è significativo che i dati siano filtrati. Il comitato Cuperlo protesta: “Non giochiamo con i numeri”. La civatiana Laura Puppato sospira: “Non lo ricorda nessuno, ma regolamento e statuto vietano ai segretari provinciali di esprimere la preferenza per questo o quel candidato nazionale. E invece trapela di tutto, con i comitati di questo o di quell’altro candidato che reclamano la vittoria nei congressi locali”. Puppato ha votato contro lo stop alle iscrizioni: “Piuttosto, cacciamo a calci i disonesti”. Con lei, dissidenti trasversali, come il franceschiniano Antonello Giacomelli e la renziana Simonetta Rubinato.
MASSIMO D’ALEMA invece se la prende come sempre con la stampa: “Sul tesseramento ci sono stati episodi gravi, ma non in tutta Italia. Sul tema c’è una campagna di disinformazione, portata avanti con menzogne”. Certo, “potersi iscrivere sino al momento del voto era sbagliato”, ma è “una regola che ci è stata imposta dagli stessi giornali che ora ci accusano”. D’Alema ne ha pure per Renzi: “Come segretario è una totale incognita, come candidato premier è un aspirante e bisognerà vedere se reggerà gli anni di attesa che potrebbero essere logoranti”. In serata parla proprio Renzi: “Ci sono stati dei casi vergognosi di tesseramenti gonfiati. Ma chi vuole bene al Pd non spara nel mucchio”. E comunque, “l’ultima fase del congresso, quella del voto dell’8 dicembre, è l’unica decisiva e inappellabile”.

il Fatto 9.11.13
Renzi usa la nonna contro le pensioni di reversibilità
La nuova idea del rottamatore per risparmiare sulla previdenza
La Cgil insorge “E’ una vergogna, è ossessionato. Sono assegni da fame”
di Salvatore Cannavò


Si profilano tempi duri per le nonne d’Italia. Se passa l’idea di Matteo Renzi di rivedere la pensione di reversibilità, quella percepita in caso di decesso del coniuge, milioni di pensionati, in prevalenza donne, potrebbero passare dei guai. Non a caso, su questo punto, il sindaco deve registrare la prima obiezione sindacale da quando è di nuovo sceso in pista. “Sembra ossessionato dalle pensioni” manda a dire Carla Cantone, segretario dello Spi-Cgil, organizzazione di oltre 2,5 milioni di iscritti.
RENZI HA SPIEGATO le proprie idee l’altra sera a Servizio Pubblico. Fedele al ruolo di affabulatore ha voluto porre il tema parlando di sua nonna, Maria Bovoli, tenace vecchina di 93 anni. “Chi l’ammazza! - ha detto il sindaco di Firenze – mia nonna ha avuto la pensione di reversibilità quando aveva sei figli. È stato giusto ma continua a percepirla ancora, 3.000 euro al mese, nonostante i figli siano piuttosto grandi”. Renzi non ha detto altro, ma l’intenzione di voler intervenire sulle pensioni di reversibilità è chiara. Ce la conferma il “suo” deputato più ferrato in questioni economiche, Yoram Gutgeld: “La reversibilità in Italia è molto alta, circa il 30-40% in più del resto d’Europa. Non abbiamo presentato proposte ma ci stiamo lavorando. Ci sono margini per ridurre qualcosa, certo non le pensioni basse”.
Il problema è che proprio di pensioni basse stiamo parlando. Nel bilancio dell’Inps, la spesa per pensioni ai superstiti
– questo è il termine tecnico della reversibilità – è di 28 miliardi per 3,8 milioni di pensioni erogate. Importo medio: 565 euro. Come sempre, si tratta della “media del pollo”, ci sono assegni più alti e altri più bassi. Ma con quella media è difficile andare a pescare privilegi corposi, non stiamo parlando di pensioni d’oro.
“Renzi fa i conti con tasche che non sono le sue, fa vergogna” spiega al Fatto Antonio Pellegrino, tecnico previdenziale dello Spi Cgil, perché parliamo di redditi in genere bassi e comunque già regolati”. Alla morte di un titolare di pensione, questa è dovuta al coniuge, ai suoi figli ma anche ai genitori o ai fratelli. In proporzioni ridotte e con alcuni limiti di reddito oltre i quali scattano le riduzioni (vedi scheda). “Si tratta di una delle condizioni di vita più difficili e dolorose” aggiunge Pellegrino. Un settore in cui i 3.000 euro della “nonna renziana” costituiscono una chimera.
L’idea, però, potrebbe trovare cittadinanza all’interno del-l’Inps dove si fa notare che la spesa reale, in realtà, è più alta, 39 miliardi. Alle pensioni erogate a chi non ha altri redditi vanno aggiunte quelle di chi possiede altre entrate. In tal caso la media è più alta, 856 euro al mese: ancora anni luce dalla nonna di Renzi.
CARLA CANTONE, segretario dello Spi-Cgil, replica con nettezza, più di quanto fatto finora dalla Cgil nei confronti del futuro segretario Pd: “Matteo Renzi - dice al Fatto, il segretario Spi-Cgil - è proprio ossessionato dai pensionati e ancora di più da quelli che liberamente e democraticamente hanno deciso di iscriversi al sindacato. I pensionati non sono mica tutti come sua nonna che prende 3.000 euro al mese”. Cantone dice di comprendere le necessità della “campagna elettorale” ma, aggiunge, “Renzi sbaglia bersaglio e non fa il bene del paese continuando ad aizzare le folle contro chi è andato in pensione dopo una vita di lavoro”. Nello stesso tempo, il Pd ha deciso di presentare diversi emendamenti alla legge di Stabilità tra cui quelli sulle pensioni: recupero della deindicizzazione del quarto, quinto e sesto scaglione pensionistico (da 2.000 a 3.000 euro), e allargamento della platea degli “esodati” da salvaguardare. A pagare dovrebbero essere le “pensioni d’oro” con la riduzione da 150 a 90mila euro della soglia oltre la quale versare il contributo di solidarietà del 5% e oltre. Infine, c’è la proposta di permettere ai lavoratori licenziati oltre i 62 anni di andare in pensione con le vecchie regole.

Repubblica 9.11.13
Pd, stop al tesseramento da lunedì Renzi: “Le primarie il voto decisivo” E ora lancia la sfida al sindacato
“Se non cambia è morto, lo dice pure Landini e io concordo”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Il nostro congresso è diviso in tre parti (come la Gallia di Cesare ai tempi delle versioni di latino)... è la terza fase quella decisiva e inappellabile, quando tutti i cittadini che lo vorranno potranno recarsi ai seggi per scegliere il proprio leader, lì si decide chi vince». Matteo Renzi punta sulle primarie, come si sa, e sta preparando l’offensiva. Il timore infatti è uno sboom ai gazebo l’8 dicembre. Lo dicono i sondaggi: la disaffezione del popolo del centrosinistra è grande, potrebbero andare questa volta in pochi a votare per il nuovo segretario democratico. E le tessere gonfiate, i brogli degli iscritti gettano discredito. Lo sa bene Epifani, il segretario, che ha ottenuto l’ok della direzione del partito (e di tre dei quattro sfidanti: Pippo Civati ha detto no), per bloccare i tesseramenti. Da lunedì stop tessere nel Pd e, sempre lunedì, la commissione per il congresso potrebbe decidere di annullare tutto a Asti, Rovigo, Frosinone, Siracusa, Lecce: qui salterebbero i segretari, mentre alcuni altri “casi” sono ancora aperti, ma considerati meno gravi. Scoppia un’altra grana a Torino: qui, si autosospende dal Pd il senatore Stefano Esposito, perché in un circolo torinese è stato eletto un segretario con precedenti penali. Renzi, da neo segretario in pectore, difende il partito: «Ci sono stati casi vergognosi di tesseramento gonfiati. Ma una persona che vuole bene alla politica e al Pd non spara nel mucchio: fa i nomi delle singole realtà problematiche e circostanzia le accuse. In ogni caso, questa fase è andata, buon lavoro ai segretari locali», scrive nella sua Enews. Dove torna anche a parlare del sindacato, ricordando lo scontro un anno fa con Susanna Camusso, segretario della Cgil. E si dice d’accordo con Landini, il leader della Fiom, che in un’intervista a Repubblica aveva affermato: «Il sindacato è morto se non cambierà...». Ragiona il “rottamatore”: «Se queste sono le parole del segretario dell’ala sinistra del sindacato, non sarà arrivato il momento di discutere seriamente dei sindacati, dei loro bilanci, del loro ruolo?». Assicura poi, lealtà al governo: «Non voglio creare tensioni, anzi voglio dare una mano perché il 2014 sia l’anno della verità».
Il clima pre-congressuale è arroventato.Ci sono le polemiche sui dati di chi ha vinto e chi ha perso. I renziani fanno sapere che, dai primi scrutini nei circoli, sono in vantaggio, con il 47%. Il comitato per Cuperlo diffonde cifre opposte: «Non giochiamo sui dati, non alimentiamo confusione». La tensione è alimentata dal botta e risposta tra i candidati. Gianni Pittella attacca Cuperlo e Civati: «C’è stata un’azione doppiogiochista di Civati, ma è stucchevole e incoerente da parte di Cuperlo fare l’anima bella e la partedi colui che si sveglia una mattina dopo che i suoi sostenitori avevano fatto man bassa di tesseramenti ». Civati replica con durezza: «È Pittella che ha cambiato idea, io sono stato coerente», e poi si sfoga: «In certi posti ci sono stati più iscritti che elettori». Entra a gamba tesa Massimo D’Alema: «Non so se Renzi sarà in grado di fare il segretario», è l’affondo dell’ex premier, supporter di Gianni Cuperlo. «Le conversioni al renzismo si basano su un gigantesco equivoco — avverte D’Alema — è come se noi stessimo facendo le primarie per il candidato alle elezioni politiche, ma non è così». Mancano 29 giorni alle primarie e — ragiona Epifani — il confronto si farà anche aspro, però sta nella competizione. Stefano Bonaccini, il coordinatore del comitato renziano, invita l’antagonista Patrizio Mecacci, a capo della macchina delle primarie di Cuperlo, a darsi una calmata.

La Stampa 9.11.13
La strada per il sindaco non è proprio in discesa
di Marcello Sorgi


Chissà se i famosi at- tributi d’acciaio del premier (che ieri tuttavia ha chiarito che s’è trattato di un equivoco su una traduzione) basteranno, di fronte a una situazione diventa ogni giorno più difficile. Ieri il governo ha disinnescato la mina dell’Imu, riaperta con le dichiarazioni del ministro dell’Economia Saccomanni, confermando che il governo sta mettendo a punto la copertura della cancellazione anche della seconda rata della tassa. E su imput europeo ha approvato anche una nuova norma sulla responsabilità civile dei giudici. Due decisioni che dovrebbero servire a dare una mano ai governativi del Pdl, sempre più in difficoltà man mano che la scadenza del 16, data del consiglio nazionale, si avvicina.
In una vigilia sempre più tesa, è in corso una guerra dei numeri. I governativi sostengono di aver raccolto un numero sufficiente di firme per bloccare la decisione di sciogliere il Pdl e tornare a Forza Italia, che per statuto deve essere assunta con due terzi dei componenti del parlamentino del partito. Ma i lealisti cantano già vittoria, e sfidano gli alfaniani a ritirare il loro documento e a firmare quello proposto da Berlusconi, che prevede la crisi di governo se non si troverà il modo di evitare la decadenza da senatore del Cavaliere.
Dietro il peggioramento del confronto interno, che ieri sembrava avviato verso un difficile compromesso, pare ci sia l’esito negativo dell’incontro tra Berlusconi e Alfano nella notte tra giovedì e ieri. Il Cavaliere non è disposto ad accettare o forse non può, pena la rottura con i lealisti che al vertice della rinata Forza Italia, accanto a lui, arrivino due commissari in rappresentanza delle due maggiori componenti del Pdl. E Alfano in mancanza di questo non vuol tornare sui suoi passi. Il muro contro muro è destinato a durare fino al giorno prima del consiglio nazionale, con Berlusconi che oscilla tra una soluzione d’impeto mirata a mettere fuori quelli che i lealisti chiamano “traditori” e l’eterno tentativo di seduzione dei dissidenti, a cominciare, ovviamente, dal vicepresidente del consiglio Alfano, con il quale tuttavia un filo di comunicazione ancora resta.
Una partita altrettanto dura si sta giocando nel Pd, in cui, dopo gli scandali, si è scelto di sospendere il tesseramento. Decisione molto pesante, ma inevitabile, che incide anche su quelle federazioni che avevano proceduto ai rinnovi delle iscrizioni in modo regolare. La strada che porta al congresso, soprattutto per Renzi, non è proprio in discesa.

Corriere 9.11.13
Ora i sostenitori di Renzi temono il flop delle primarie
di Maria Teresa Meli


ROMA — Sono due le date che mettono in agitazione il Pd. Due appuntamenti che non si possono rinviare in nessun modo. Il primo, non in ordine di tempo ma di importanza, è quello dell’otto dicembre: le primarie.
Su quella ricorrenza pende un sondaggio che terrorizza i renziani e rinfranca i bersaniani, i quali puntano a tramutare le votazioni sul segretario in un flop del partito pur di delegittimare il sindaco di Firenze. Secondo queste rilevazioni appena il 16 per cento degli elettori del Pd pensa di andare a votare alle primarie. L’undici per cento dichiara di non avere ancora deciso e il 73 per cento — dicasi il 73 per cento — esclude di andare ai gazebo per scegliere il nuovo segretario.
Certo, si tratta solo di un sondaggio. Certo, manca ancora un mese all’appuntamento con le urne delle primarie, ma il dato è indubbiamente inquietante. Lui, il sindaco, anche se è preoccupato, fa mostra di non esserlo più di tanto: «Vi prego, io non voglio proprio entrare nelle liti interne, non voglio sentire o dire sciocchezze. Noi dobbiamo pensare a costruire un programma per l’Italia non a indugiare in beghe di poco conto». Sarà anche così. Ma una parte dei renziani è preoccupata. Dopo l’offensiva di Gianni Cuperlo e dei suoi sul tesseramento e sulle primarie (all’insegna di «il primo che passa vota»), si teme la delegittimazione e, soprattutto, la disinformazione: gran parte dell’elettorato non ha ancora capito bene che questa volta si tratterà di primarie veramente aperte, con un turno unico, primarie alle quali potrà partecipare chiunque, come è sempre stato finora.
Ed è per questo che lo slogan del responsabile Comunicazione, Antonio Funiciello, «primarie aperte» è stato bocciato: non perché, come contestano ufficialmente i cuperliani, alluda all’elezione di un candidato premier, ma perché rappresenta un invito a votare a tutti. Esattamente ciò che i nemici di Renzi non vogliono. Nemici che, nel frattempo, si sono moltiplicati, come spiega con ironia e sagacia Paolo Gentiloni: «Finché pensavano di stare sul carro del vincitore era tutto un osanna a Matteo, appena hanno capito che lui non fa compromessi, e non accetta mediazioni al ribasso, lo stanno ridipingendo come il “corpo estraneo”, il “fascistoide”, lo “sfasciacarrozze”. È uno schema vecchio e collaudato». Uno schema «comunista», suggerisce un amico del sindaco di Firenze. Comunque uno schema teso a tentare di tarpare le ali al vincitore annunciato e scontato.
Ma si parlava di due date. Già, perché ce n’è un’altra che, inevitabilmente, influirà sul destino del Pd. È quella del 16 novembre. Precede l’otto dicembre, non è una data che riguarda direttamente il Partito democratico, ma è destinata per forza di cose a influire sulle sue sorti. È quella del consiglio nazionale del Pdl. Ciò che accadrà lì avrà un peso enorme sulle future scelte del Pd. Un autorevole esponente del Partito democratico che ha avuto modo di parlare di recente con Berlusconi si è sentito riversare addosso questo ragionamento: «Io non ho problemi con i miei dissidenti: decidano loro che fare. Se vogliono scomparire si accomodino e se ne vadano, per me se vogliono fare un partitino del 3 per cento sono affari loro. Se vogliono rimanere avranno un posto alle Europee. Altro non avranno, mi sembra chiaro».
Un discorso, quello del Cavaliere, che ha messo in allarme lo stato maggiore del Pd: «Come facciamo ad andare avanti se Berlusconi costringe i dissidenti ad andarsene? È un’illusione pensare che in questo modo il governo sarà più stabile». Già, era quello che si era sempre detto. Lo aveva dichiarato Letta, lo aveva confermato Franceschini, lo aveva ribadito Epifani. Pensavano che pur di non andare alle elezioni e di non misurarsi con numeri che non hanno Alfano e i suoi avrebbero retto il governo il più a lungo possibile. Adesso al Pd cominciano a pensarla diversamente: «Con Grillo e Berlusconi all’opposizione di un esecutivo che, purtroppo, non ingrana, noi che facciamo? Ci prendiamo l’onere delle piccole intese, ci mettiamo la faccia e perdiamo i voti?». Bell’interrogativo. Il Partito democratico non sa ancora dargli una risposta.

l’Unità 9.11.13
Reddito di cittadinanza, Fassina sbugiarda Grillo
Il M5S vuole dare 600 euro al mese a 9 milioni di persone con 19 miliardi di costi previsti
La replica: ne servono 30, le loro coperture arrivano a 4
di Andrea Carugati


Il M5S lancia la proposta sul reddito di cittadinanza, uno dei punti chiave della vittoriosa campagna elettorale di febbraio. Con l’occasione i grillini mettono alla prova anche l’applicazione on line per consentire agli iscritticirca 90mila persone di discutere e correggere il testo di legge. Si tratta della’ormai famosa piattaforma a lungo invocata da molti parlamentari, per mettere al voto le decisioni più calde, come quella sull’immigrazione, e sciogliere il nodo della “linea” nei casi in cui la truppa parlamentare si trova ad avere opinioni diverse da Grillo-Casaleggio.
Su questo fronte però nulla ancora si muove. Dopo la visita di Grillo a Roma, finita con pacche sulle spalle ai dissidenti, la piattaforma non è mai stata utilizzata per un referendum in cui dare davvero la parola agli iscritti. Torna però utile adesso, per consultare la base sul reddito di cittadinanza, e coi toni delle grandi occasioni. «Sarà la prima legge al Mondo che approderà in un Parlamento dopo essere stata discussa in Rete da migliaia di cittadini», scrivono i parlamentari grillini. Il testo dunque sarà depositato alle Camera solo al termine della consultazione. Nel dettaglio, la bozza prevede un reddito di 600 euro netti al mese, 7200 all’anno, per tutti i maggiorenni che vivono sotto la soglia di povertà (che beneficiario forniscano immediata disponibilità al lavoro presso i centri per l’impiego), compresi i pensionati che non raggiungono i 600 euro mensili (che avrebbero un aumento della pensione fino a quella cifra). Mentre per i nuclei familiari la soglia cresce fino a mille euro (due persone), per arrivare a 2400 per una famiglia di 7 persone. Il reddito di cittadinanza può riguardare anche i lavoratori autonomi sulla base del reddito netto percepito nell'anno precedente a quello della richiesta di sostegno. La misura può essere estesa ai cittadini stranieri che abbiano lavorato in Italia in regola per almeno 2 anni e per almeno 1000 ore nel nostro paese. Nel complesso, i grillini si rivolgono a una platea di 9 milioni di persone in difficoltà.
Il M5S stima in 19 miliardi l’anno il costo del provvedimento. In un video diffuso in rete, i tre parlamentari che hanno curato la proposta, Daniele Pesco, Marco Baldassarre e Nunzia Catalfo, spiegano che le coperture vanno ricercate nei tagli alla Difesa, l’Imu per la Chiesa, le pensioni d’oro da tagliare e una stretta sul gioco d’azzardo. Nel dettaglio, 2,7 miliardi dovrebbero arrivare dal settore giochi, 2,5 dalla Difesa e 2 dai tagli ai ministeri. Inoltre, viene previsto un contributo di solidarietà dalle pensioni, che arriva fino al 32% per chi supera di 50 volte la “minima”. Per chi dunque supera i 20mila euro di pensione mensile la stretta sarebbe molto forte. I grillini propongono una patrimoniale. Si tratta di un prelievo sui patrimoni mobiliari e immobiliari sopra 1,5 milioni (comprese auto e barche), con un’aliquota che parte dallo 0,50% e arriva al 3% per i patrimoni sopra i 15 milioni (circa 450mila euro per chi ha un patrimonio di 15 milioni). Infine, è previsto un aumento al 18 per mille dell’imposta di bollo sui beni scudati e un prelievo dall’8 per mille.
La proposta grillina incuriosisce il leader di Sel Nichi Vendola, che ne ha presentata una sullo stesso tema nelle settimane scorse. «In Parlamento c’è la nostra e anche una del Pd. Dunque una maggioranza è possibile», dice Vendola.
Ma è solo una boutade. Stefano Fassina boccia senza appello la proposta del M5S, conti alla mano. «Il livello di demagogia nella discussione pubblica di proposte economiche è sempre più alto. Grillo supera tutti, impresa non facile dati i competitor in campo», dice il viceministro dell’Economia, che stima in almeno 30 miliardi annui il costo dell’operazione e sostiene che col taglio delle pensioni d’oro (superiori a 3500 euro), l’azzeramento delle spese militari e l’Imu per la Chiesa si potrebbero raccogliere al massimo 3,5 -4 miliardi l’anno. «Circa un decimo di una prudente previsione di spesa per il reddito di cittadinanza», chiosa Fassina. «Le balle di Grillo sono sempre più grosse».
I grillini, scoperti, reagiscono attaccando Fassina: «È lo stesso che era stato tenuto all'oscuro della legge di stabilità. Non c’è altro da aggiungere: ha perso ogni credibilità», dice Alessio Villarosa.

Repubblica 9.11.13
L’amaca
di Michele Serra


Tagliare i fondi per la Difesa e le pensioni d’oro, tassare i beni immobili della Chiesa e dal gruzzolo ricavare un reddito di cittadinanza di 400/600 euro per tutti. È una proposta del Movimento 5 Stelle pubblicata sul blog di Grillo. Ha un merito non comune di questi tempi: parla di politica. Si può essere, ovviamente, a favore o contro, ma per farlo si è costretti a misurarsi – appunto – con la politica. Nella speranza (forse nella vana attesa) che lo facciano i leader di partito, ho avuto la pessima idea di leggermi le reazioni in rete, per la serie “vediamo, intanto, cosa ne pensano i cittadini”. Ho letto una sequela, a suo modo esilarante, di giudizi sommari, bestialità insensate, insulti (il più blando, rivolto a Grillo, era “ragioniere del menga”), minacce reciproche, sospetti infamanti. Un campionario di bassezze (pro e contro) che, come mi spiegano pazienti i miei amici internettari, non rappresenta che una parte minima, e la più perturbata, di quella vastissima agorà. Rimane il fatto che nero su bianco, sul video del mio computer, la proposta di Grillo è seguita da un rosario di bassezze, isterismi, zero analisi, zero ascolto, zero intelligenza. Forse c’è un nesso tra l’afasia della politica e le urla inarticolate della piazza. Come se la perdita di autorevolezza dei governanti, per contagio, facesse perdere di autorevolezza anche i governati.

l’Unità 9.11.13
Violenze e stupri prima dello sbarco»
di Vincenzo Ricciarelli


AGRIGENTO Si avvalora la tesi che aggiunge dolore alla strage del mare del 3 ottobre scorso, quando 366 persone morirono a poche centinaia di metri dalla Spiaggia dei Conigli di Lampedusa.
Un somalo di 24 anni, Mouhamud Elmi Muhidin, è stato arrestato a Lampedusa con l'accusa di aver partecipato all'organizzazione della traversata di migranti. L’uomo era appartenente ad un gruppo di miliziani armati, ed è accusato di diversi reati: dal sequestro di persona a scopo di estorsione, all'associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, dalla tratta di persone alla violenza sessuale. Gli investigatori si sono avvalsi dei racconti dei superstiti del naufragio, che sono stati ascoltati dopo un episodio del 25 ottobre quando il somalo è stato vittima di un tentativo di linciaggio all'interno del Cie di contrada Imbriacola. Dopo l'episodio, i magistrati e gli investigatori dello Sco e delle Squadre Mobili di Palermo e Agrigento, sono volati a Lampedusa, per comprendere le ragioni che avevano portato all'assalto contro Mouhamud Elmi Muhidin. E scoprono così, dal racconto di diversi immigrati, che Muhidin era «stato individuato da un gruppo di eritrei sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre quale il capo di un gruppo di soggetti armati, probabilmente miliziani somali, che si era reso responsabile del loro sequestro nello scorso mese di luglio, mentre si trovavano in viaggio nel deserto dall' Eritrea alla Libia, in una zona tra il Sudan e la Libia stessa».
L'indagine, coordinata dalla Dda di Palermo, è una delle prime in cui gli investigatori sono riusciti a risalire alla identità di uno dei capi dell'organizzazione criminale transnazionale che gestisce, tra il corno d'Africa, il Sahara e la Libia, gli imponenti flussi migratori illegali dal Nord-Africa verso la Sicilia occidentale. Per restare a quello sfortunato gruppo del 3 ottobre, prima di raggiungere l'Italia, i migranti vennero sequestrati da un gruppo armato che li bloccò nel deserto tra il Sudan e la Libia, e una volta rinchiusi in un campo di concentramento li sottopose a torture fisiche e a violenze sessuali. A descrivere il «viaggio dell'orrore» è stato il procuratore aggiunto di Palermo Maurizio Scalia, nel corso della conferenza stampa sull'arresto a Lampedusa del somalo. «I fermi ci hanno permesso di individuare il metodo attraverso cui il gruppo, di somali e libici, sequestrava i migranti nel deserto tra il Sudan e la Libia e li portava in un centro di raccolta che era più un campo di concentramento prece quello che accadeva in quei centri evoca eventi penosi ed antichi ha detto Scalia -. Venivano sottoposti a torture, derubati, tutte le donne erano violentate a turno da sudanesi e libici». Per compiere il viaggio della speranza, ogni migrante era costretto a pagare 5mila dollari a questa organizzazione che non ha una struttura verticistica, hanno detto gli inquirenti, ma dev’essere intesa «a compartimenti modulari» in cui più soggetti ricoprivano ruoli di comando. «Erano gruppi armati ha proseguito Scalia che agivano con pic-up dotati di mitragliatrice. Violentavano le donne e le offrivano in dono ai miliziani lungo il viaggio».

il Fatto 9.11.13
“Noi, deportate e violentate prima del naufragio”
di Giuseppe Lo Bianco


UN SOMALO E UN PALESTINESE SONO STATI ARRESTATI DALLA DDA DI PALERMO. BENZINA NEGLI OCCHI, SCOSSE ELETTRICHE E INCAPRETTAMENTI NEL CENTRO DI TORTURA IN LIBIA

Sequestrate, deportate nel centro di tortura di Sheba, in Libia e lì violentate dagli uomini dei gruppi paramilitari nordafricani che gestiscono il traffico di immigrati tra le due sponde del Mediterraneo: il racconto delle giovani vittime (una ha solo 18 anni e adesso ha il terrore di essere rimasta incinta) ha consentito agli investigatori dello Sco e delle squadre Mobili di Palermo e Agrigento di alzare il velo sui viaggi dell’orrore dei migranti attraverso il Sahara per raggiungere la costa libica arrestando per la prima volta uno dei capi dell’organizzazione criminale: Mouhamud Elmi Muhidin, 34 anni, somalo appartenente a un gruppo di miliziani armati, accusato di sequestro di persona, tratta di esseri umani, associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza sessuale. Con lui è finito in cella il palestinese Attour Abdalmenem, 47 anni, scafista di una delle imbarcazioni approdate lo scorso ottobre a Lampedusa.
FINITI ENTRAMBI al centro di accoglienza dell’isola rispettivamente il 25 ottobre e il 3 novembre scorsi, sono stati riconosciuti dagli immigrati ospitati che hanno tentato di linciarli. Da quell’episodio è partita un’indagine riservata della Dda di Palermo condotta a Lampedusa dal pm Geri Ferrara e sfociata nell’arresto dei due uomini, uno dei quali è accusato di avere violentato circa 20 donne insieme con alcuni miliziani libici, e di avere torturato decine di migranti con scosse elettriche, percosse e persino legandoli con il sistema mafioso dell’incaprettamento, e cioè piedi e collo: al minimo movimento sarebbero morti strangolati. “Quest’uomo mi ha violentato insieme ai suoi complici – ha detto Alina (il nome è di fantasia) – una sera dopo essere stata allontanata dal mio gruppo sono stata costretta con la forza dal somalo e da due suoi uomini ad andare fuori, gli stessi dopo avermi buttata a terra e successivamente bloccata alle braccia e alla bocca mi hanno buttato in testa della benzina provocandomi un forte bruciore al cuoio capelluto, alla pelle del viso e infine agli occhi, successivamente, non contenti i tre a turno hanno abusato di me”. “Preciso – ha aggiunto – che tutte e 20 le ragazze che sono state sequestrate sono state oggetto di violenza sessuale e che nel compiere l’atto i miei stupratori non hanno fatto uso di protezione noncuranti neanche della mia giovane età, in quanto ancora vergine”. È solo l’approdo dell’odissea dei migranti partiti dal Corno d’Africa e intercettati in mezzo al deserto dalle bande di trafficanti di esseri umani che li hanno sequestrati portandoli nel centro libico di Sheva; lì venivano tolti i cellulari con i quali i miliziani chiamavano le famiglie chiedendo un riscatto. E lì veniva fissato anche il prezzo del viaggio della speranza verso l’Europa: 5.000 dollari. “Eravamo costretti a stare in piedi per tutta la giornata – ha raccontato Alina – ci obbligavano a vedere i nostri compagni mentre venivano torturati con vari mezzi, tra cui manganelli, scariche elettriche alle piante dei piedi e nel peggiore dei casi per chi si ribellava gli stessi venivano legati con una corda collegata gli arti inferiori e il collo, in modo che anche un minimo movimento creava un principio di soffocamento”. Intanto a Lampedusa il centro continua a ospitare 440 migranti contro una capienza massima di 220 persone, “che da oltre un mese vivono all’aperto, sotto la pioggia e al freddo” come ha scritto il sindaco Giusy Nicolini al ministro del-l’Interno Angelino Alfano.

Corriere 9.11.13
«Torturati con le scariche elettriche» Minacce e stupri prima del naufragio
Arrestato il predatore di migranti che ha rischiato il linciaggio
di Giovanni Bianconi


PALERMO — A ventiquattro anni d’età, il somalo Elmi Mouhamud Muhidin faceva il predatore di migranti. Lui e il suo gruppo criminale, che ha ramificazioni dalla Libia al cuore dell’Africa, hanno sequestrato due volte i disperati che dall’Eritrea cercavano futuro in Europa, naufragati nella strage di Lampedusa di un mese fa; rapiti in Sudan durante la traversata verso la costa e poi segregati in Libia, fino alla partenza per l’Italia. In entrambi i casi i profughi hanno dovuto pagare, attraverso i parenti all’estero: 3.300 dollari la prima volta, 1.600 la seconda.
I superstiti non hanno dimenticato il volto di Muhidin. Qualcuno se l’era stampato nella mente quando lo vedeva torturate gli uomini e violentare le donne: «Ho pregato Dio giorno e notte affinché mi facesse rincontrare in vita questo soggetto per fargliela pagare» ha confessato agli investigatori Alay Bahta, trentacinque anni, uno degli scampati alla strage, oggi testimone d’accusa. E l’avrebbe linciato volentieri, insieme agli altri ospiti del centro di accoglienza di Lampedusa, se i poliziotti non gliel’avessero tolto dalle mani. Il somalo aveva le chiavi della casa in cui i migranti furono rinchiusi dopo essere stati rapiti nel deserto, al confine tra Sudan e Libia, in attesa del pagamento del primo riscatto. «Era lui che contattava personalmente i nostri familiari — ha raccontato Bahta — e che, armato di pistola, ci ha minacciato più volte facendoci colpire con dei manganelli; un giorno dopo averci bagnati con dei secchi d’acqua e allagato il pavimento hanno preso dei fili elettrici e dopo averli appoggiati a terra ci hanno fatto prendere una scarica elettrica... Ci prendevano in giro e ridendo ci dicevano che se morivamo loro erano contenti perché noi eravamo solo dei cristiani, esseri inferiori a loro musulmani».
Secondo le testimonianze raccolte dai poliziotti delle squadre mobili di Agrigento e Palermo, insieme a quelli del Servizio centrale operativo, tutte le donne sono state stuprate. «Quelle del nostro gruppo hanno subito violenze sessuali, tra le quali anche mia sorella — aggiunge Bahta —; tra gli autori di tali violenze vi era anche il soggetto somalo di cui ho riferito». Sua sorella è morta nella strage, qualcun’altra è scampata e ha potuto raccontare l’inferno vissuto nelle mani dei contrabbandieri di profughi. Fanos Okba ha compiuto 18 anni il 1° gennaio scorso, a ottobre s’era messa in viaggio dall’Eritrea quando è incappata nella banda guidata dal «somalo», poi riconosciuto in Elmi Muhidin: «Sono stata oggetto di sequestro e di violenza sessuale da parte di quest’uomo che era a capo di altri somali... Una sera dopo essere stata allontanata dal mio gruppo sono stata costretta con la forza dal somalo e due suoi uomini ad andare fuori. Dopo avermi buttata a terra e bloccata alle braccia ed alla bocca mi hanno buttato in testa della benzina provocandomi un forte bruciore al cuoio capelluto, alla pelle del viso ed infine agli occhi. Non contenti, i tre a turno hanno abusato di me...Tutte le venti ragazze che sono state sequestrate sono state oggetto di violenza sessuale». Tra loro Wegahta Kiflay, poi vittima della strage; suo fratello Merhawi s’è salvato e adesso accusa Muhidin. «Per me e mia sorella hanno ricevuto da mio padre 6.600 dollari» dice , per lasciare la prigione in Sudan, più 3.200 per essere imbarcati verso la Sicilia, tramite «miei parenti in Israele» contattati dai genitori.
«Ci hanno trattenuti fino a quando i soldi venivano accreditati sui conti bancari sudanesi di Aman Express — ha raccontato Natnael Haile, 25 anni — intestati a tale Sedik o Mahdhi, che loro stessi fornivano ai nostri familiari». Tra gli oggetti sequestrati al palestinese Abdalmenem Hattour, considerato un complice di Muhidin e arrestato ieri insieme al somalo su ordine della Procura di Palermo, oltre a tre telefonini, due passaporti e altrettante carte di soggiorno c’erano pure due schede bancarie della Aman Bank.
I testimoni hanno pure riferito che una sera Muhidin e altri predatori hanno portato fuori dalla casa due ragazze, ma una sola è rientrata. Si chiamava Sara. Ha raccontato che mentre le violentavano lei e l’amica hanno provato a fuggire, ma sono state riprese; lei subito, l’altra un po’ più avanti, e non è più tornata. «L’avranno uccisa» ha detto Sara agli altri profughi. Si chiamava Youhana. Sara è morta al largo di Lampedusa.
Tra torture e violenze, «l’unico a non essere stato toccato è un bambino di circa 4 anni» ha dichiarato Tiamea Desta, ventitreenne scampato alle torture e al naufragio. Il bambino si chiamava Lameck ed era stato stipato nel barcone, infilato a forza tra un corpo e l’altro, come gli altri minorenni, «perché occupassero il minimo ingombro, affinché potesse salire il maggior numero di persone possibile».
Lameck è una delle 336 vittime di Lampedusa.

Repubblica 9.11.13
“Stupri di gruppo e scosse elettriche così ci hanno torturato nel deserto prima della traversata della morte”
Lampedusa, i racconti dei sopravvissuti incastrano l’aguzzino
di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti


PALERMO — Okba, almeno, è arrivata. E il suo orribile calvario di violenze e torture, è riuscito a raccontarlo. Sara, invece, è finita in fondo al mare e Youhana il mare non è neanche riuscita a vederlo, uccisa nel deserto dai suoi aguzzini dai quali, dopo l’ennesimo stupro, aveva provato a fuggire. «Una sera, dopo essere stata allontanata dal mio gruppo, sono stata costretta con la forza dal somalo e da due suoi uomini ad andare fuori, mi hanno buttato per terra e bloccata, mi hanno rovesciato in testa della benzina provocandomi un forte bruciore al cuoio capelluto, alla pelle del viso ed agli occhi, poi a turno, hanno abusato di me».
Il somalo, Mouhamud Elmi Muhidin, 24 anni, Okba se l’è ritrovato accanto un mese dopo nel centro di accoglienza di Lampedusa. Riconosciuto da lei come da altre delle sue vittime, il “comandante” ha rischiato il linciaggio, poi è finito in manette su ordine del procuratore aggiunto della Dda di Palermo Maurizio Scalia e del sostituto Geri Ferrara. Sarebbe lui uno degli organizzatori del drammatico viaggio conclusosi il 3 ottobre a mezzo miglio da Lampedusa con il naufragio del barcone sul quale erano stipati più di 500 eritrei che nelle settimane precedenti erano stati sottoposti ad ogni genere di violenza, stupri continui per le donne, torture per gli uomini, per estorcere alle famiglie altri 5.000 dollari pur di far arrivare i loro cari oltre il Canale di Sicilia. Mouhamud Muhidin non era salito a bordo del barcone che ha fatto 366 vittime, ma a Lampedusa è approdato tre settimane dopo, il 25 ottobre, con un altro viaggio. E la rabbiosa reazione delle sue vittime ha portato gli uomini delle squadre mobili di Palermo e Agrigento a scoprire i drammatici retroscena della più grande tragedia del mare degli ultimi anni.
LE RAGAZZE VIOLENTATE
Okba Fanos, 18 anni, eritrea, una dei 157 superstiti del naufragio, è una delle 20 donne che per settimane, nel lunghissimo viaggio tra il deserto del Sudan e la Libia, è stata più volte stuprata. «Anch’io sono stata oggetto di violenza sessuale da parte di quest’uomo e dei suoi complici. E i miei stupratori non hanno fatto uso di protezione non curanti neanche della mia giovane età, in quanto ancora vergine. Due ragazzi minorenni, mie connazionali sono state portate via dalla casa e anch’esse violentate. Dopo circa un’ora abbiamo visto rientrare nella stanza solo una delle due ragazze, Sara, 16 anni, in compagnia dei tre uomini. Ci ha raccontato che era stata violentata dal somalo e da altri due, avevano provato a fuggire ma lei era stata bloccata, l’altra ragazza, Youhana, invece, era stata uccisa. Anche Sara non ce l’ha fatta,è morta annegata».
IL VIAGGIO ALL’INFERNO
Un viaggio nell’inferno, picchiati, seviziati, tenuti prigionieri in una fattoria di Sheba dove mangiavano pane e acqua una volta al giorno. Racconta Desta Tiamea, 23 anni eritreo: «Ho visto per la prima volta il somalo nel deserto tra Chad e Libia mentre io e altri 130 connazionali ci dirigevamo a piedi verso la Libia per poterci imbarcare per l’Europa. Insieme ad una cinquantina di miliziani somali, minacciandoci con delle mitragliette, ci hanno obbligati a salire su alcunifurgoni e ci hanno condotti in una casa alla periferia di Sehba in Libia dopo 6 giorni di viaggio. Lì senza motivo hanno cominciato a picchiarci con dei bastoni».
LA RICHIESTA DI RISCATTO
È ancora Desta che racconta: «Il somalo ci ha derubati e costretti a chiamare i nostri familiari per pagare un riscatto di 3.300 dollari minacciando di ucciderci». Poi la cessione ad un’altra banda e il viaggio verso la Libia: «Quando siamo arrivati a Tripoli abbiamo contattato telefonicamente un tale Ermias che ci ha inviato un automezzo per trasportarci presso la sua residenza. Per il trasporto in Sicilia, Ermias ha voluto 1.600 dollari. Poi sono rimasto un altro mese e mezzo prima di imbarcarmi per la Sicilia».
LE SEVIZIE AGLI UOMINI
Il racconto di Bahta Alay, 35 anni, è agghiacciante: «Il somalo che è arrivato a Lampedusa è colui che era in possesso di tutte le chiavi di quella casa, comprese quelle degli armadi che custodivano le armi. Era lui che contattava personalmente i nostri familiari per la richiesta del riscatto e che, armato di pistola, ci ha minacciato più volte facendoci colpire con dei manganelli. Addirittura un giorno, dopo averci bagnati con dei secchi d’acqua e allagato il pavimento hanno preso dei fili elettrici e dopo averli appoggiati a terra ci hanno fatto prendere una scarica elettrica che è durata solo pochi secondi solo grazie al conseguente corto circuito della rete della casa. Ridendo ci dicevano che se morivamo loro erano contenti perché noi eravamo solo dei cristiani, esseri inferiori a loro musulmani».
IL LINCIAGGIO MANCATO
Bahta Alay avrebbe preferito farsi giustizia con le sue mani. «Ho pregato Dio giorno e notte affinché mi facesse incontrare di nuovo in vita questo soggetto per fargliela pagare. Mi hanno detto che altri miei connazionali avevano provato ad ucciderlo ma la polizia lo ha preso prima».

il Fatto 9.11.13
Viale Mazini
La tv pubblica di Comunione e Liberazione
di Carlo Tecce


Ci sono eventi che accadono soltanto a Rimini, l’estate non sta ancora finendo, ma i politici e i potenti sono in ciabatte e in ciabatte fanno passerella: ossequi al pianeta di Comunione di Liberazione, pacchi di votanti e rapporti in platea. Al Meeting ci vanno sempre, tutti. Ora la Rai va in soccorso e offre 700.000 euro: un abbraccio mediatico a quel mondo cattolico che per decenni ha manovrato le istituzioni italiane.
Funziona così. I ragazzi con cappellini e magliette, che pare si precipitino da 150 paesi diversi, assistono a eventi che accadono soltanto a Rimini: ovazione per Roberto Formigoni, promesse di Enrico Letta (“Via subito il porcellum”), codazzi attorno a Maurizio Lupi. Per i prossimi tre anni, e in mezzo c'è una faticosa trattativa, l’abbonato Rai potrà gustarsi il Meeting in diretta, anzi in esclusiva. Roba che il canone lo paghi due volte, volentieri. E forse lo guardi anche due volte perché i telegiornali si contendono i brandelli di un Meeting che ascendeva mentre Giulio Andreotti, gran protettore, s’incurvava.
Viale Mazzini ha offerto 700.000 euro spalmati per un triennio agli organizzatori di Rimini per avere libero accesso (interviste, notizie...) e non gratuita pubblicità. Che sia interessante o respingente per il pubblico, lo dirà l'Auditel. Di sicuro il dg Luigi Gubitosi non ha mai sottovalutato gli eventi che accadono soltanto a Rimini e dove i cattolici dettano, o dettavano la linea a palazzo Chigi. Anche da amministratore delegato di Wind sponsorizzava la settimana di Rimini; la compagnia telefonica è ancora tra i reduci che pagano centinaia di migliaia di euro a Comunione e Liberazione. Un paio di edizioni fa, il Meeting si trascinava una cassa di oltre 8 milioni di euro.
Quest’anno il bilancio s’è fermato a 7,25 milioni, quasi 5 da servizi di comunicazione, cioè le Regioni – con la Lombardia in testa – che puntualmente staccano l’obolo formato assegno. Ovviamente con l’amato Formigoni le cifre erano maggiori.
Le multinazionali Finmeccanica e Enel non mancano mai e nemmeno Fiat e Banca Intesa: ora non dite che occorre avere buone relazioni con i politici di Cielle per contare qualcosa. Sennò potreste definire strani i contribuiti di Trenord (Ferrovie lombarde), Apt Basilicata (promozione del territorio), Autorità portuale di Trieste e persino la Repubblica di San Marino.
In attesa (pare impossibile) di un intervento di papa Francesco e magari con il ritorno (pare probabile) di Roberto Formigoni, la Rai dà una mano al Meeting di Ciel-le. Chissà se al pubblico piacerà. Ma un adagio dice che il ciellino è meglio fartelo amico che nemico. Forse non sarà vero. Però è una di quelle cose che accadono soltanto a Rimini, d’agosto, in ciabatte.

l’Unità 9.11.13
Atac, Marino: «Parte civile sui ticket falsi» E riceve la pasionaria


«Andremo avanti con tutta la determinazione possibile e abbiamo già chiesto all'avvocatura capitolina di assisterci nella costituzione di parte civile». È quanto annunciato dal sindaco di Roma, Ignazio Marino, in merito al sistema di clonazione dei biglietti Atac i cui introiti avrebbero finanziato la politica romana. «Se qualcuno stampa moneta falsa e distribuisce biglietti falsi in un sistema in cui qualcun'altro non ha controllato ha aggiunto Marino io parlo di criminalità organizzata, di un sistema grave come la mafia». Il sindaco poi ha riferito alle amministrazioni precedenti alla sua la genesi e lo sviluppo del sistema, che il nuovo corso di Atac (impersonato dall’Ad Danilo Broggi) mentre l’assessore ai trasporti ha rivelato l’esistenza di quattro inchieste interne sulla vicenda e altrettanti provvedimenti nel corso degli ultimi 4 anni. La conferenza dei presidenti dei gruppi capitolini ieri riunita ha intanto deciso all’unanimità di convocare per martedì prossimo una seduta straordinaria dell’Assemblea sulla vicenda, e nella stessa riunione è stata anche accolta la proposta di costituire una commissione d’indagine consiliare composta da tutti i capigruppo che, sulla base dei poteri di verifica e controllo attribuiti all’assemblea, possa intraprendere le necessarie e opportune analisi relative alla presunta emissione di titoli di viaggio falsi.
Ma l’Atac non è solo una spina nel fianco per quanto riguarda il bilancio e le indagini della magistratura: c’è la vertenza con i tranvieri, che ha trovato molte adesioni e molte simpatie in questa settimana di “rinuncia” al turno straordinario, per rivendicare qualche diritto rimasto al capolinea, per chiedere conto di alcuni impegni, anche economici, non mantenuti. E il sindaco ha deciso d’incontrare le sigle sindacali, sempre martedì prossimo. Oltre ai sindacati maggiori potrebbe essere ricevuta nelle stanze del Campidoglio anche Micaela Quintavalle, la leader degli autisti “auto-organizzati”, voce e volto della protesta.

Repubblica 9.11.13
Per la Melandri arriva lo stipendio delle polemiche
Maxxi, all’ex ministro 90mila euro lordi all’anno
di Dario Pappalardo


Dal Maxxi per ora non arriva nessuna conferma. Ma mercoledì scorso un consiglio di amministrazione, non ancora reso ufficiale, ha ridisegnato le sorti del Museo delle Arti del XXI secolo di Roma. Al presidente Giovanna Melandri vengono riconosciuti per la prima volta un onorario e il ruolo di amministratore delegato: avrà la responsabilità di gestire i 10-11 milioni di euro di budget annuale (5 milioni è la cifra finanziata dal ministero dei Beni culturali). E in via di definizione è anche il suo compenso: Melandri, secondo quanto risulta aRepubblica, percepirà 90mila euro lordi all’anno. Circa 45mila netti. Una cifra un po’ più bassa di quella che spetterà al nuovo direttore artistico: il cinese Hou Hanru, in carica per quattro anni, riceverà 95mila euro lordi.
Si conclude così la querelle sui compensi delle figure chiave dello spazio progettato da Zaha Hadid e inaugurato nel 2010. Melandri, nominata presidente della Fondazione nell’ottobre 2012 dall’allora ministro Lorenzo Ornaghi, dichiarò che avrebbe lavorato “pro bono”, come è stato fino a oggi. Ma dall’insediamento dell’ex ministro a oggi le cose sono cambiate. Ad aprile il Maxxi ha cambiato statuto, perfezionando una procedura già avviata in precedenza ed è diventato ente di ricerca come la Biennale di Venezia. Il suo presidente, quindi, si disse allora, deve percepire uno stipendio. Le polemiche furono immediate. In sostanza la Melandri fu accusata di essersi rimangiata la parola data a inizio incarico: «Lavorerò gratis». Ora il compenso è stato ratificato e conferma quanto detto in estate, quando le polemiche raggiunsero il culmine, dalla stessa Melandri: «Per adesso continuo a lavorare a titolo gratuito. Si deciderà in sede di consiglio di amministrazione». Quello di mercoledì scorso, appunto. «Chi scrive — disse ancora la Melandri — che sono stata io a far cambiare la natura giuridica del Maxxi per percepire un compenso verrà querelato. Se i risultati per cui sto lavorando arriveranno, non sarà immorale corrispondermi lo stipendio».
Oltre alle buste paga, dall’ultimo cda viene fuori un Maxxi rimodulato secondo quattro dipartimenti: Arte e Architettura, diretti rispettivamente da Anna Mattirolo e Margherita Guccione, costituiscono il cuore del museo. A questi si aggiungeranno adesso Sviluppo e Ricerca, due sezioni che hanno lo scopo di rafforzare il rapporto con i privati, da un lato, e di approfondire lo studio scientifico, dall’altro. Una riforma necessaria dopo il passaggio di status da museo a ente di ricerca.
Il 19 dicembre, inoltre, il Maxxi presenterà la prima mostra che porterà anche la firma del neo direttore Hanru: sarà la riorganizzazione della collezione permanente reinterpretata secondo il gusto personale del curatore nato a Guangzhou nel 1963. Un modello, questo, che richiama il lavoro svolto al Mart di Rovereto da Cristiana Collu con La magnifica ossessione. Per un’esposizione ex novo del direttore artistico bisognerà aspettare ancora l’inizio dell’estate. Ma il vero obiettivo del museo romano, ora, superato l’affaire dei compensi, è di catalizzare su di sé l’attenzione degli sponsor privati. I 5 milioni del Mibac sono una garanzia, ma non bastano a far funzionare una macchina enorme come quella del Maxxi che costa, in sole spese di gestione, qualcosa come 5-6 milioni di euro. Lo scopo dell’amministrazione Melandri è di tagliare il traguardo del 50 per cento di budget finanziato dai privati. Il ruolo di amministrazione delegato e l’onorario rappresentano adesso un incentivo in più.

l’Unità 9.11.13
La commedia di Pompei
Pompei non ha bisogno di un manager
di Vittorio Emiliani


Il dramma di Pompei rischia, come spesso accade in Italia, di trasformarsi in commedia e peggio. Ci sono i mezzi finanziari provenienti dall’Europa ma se ne vogliono convogliare altri, privati, italiani e stranieri. E si ritiene che la figura più adatta a gestire questa cornucopia sia una sola.
Si ritiene cioé che questa persona non debba essere un archeologo pur dotato di competenze gestionali (ve ne sono), ma un manager. Come l’ambasciatore Giuseppe Scognamiglio, già consigliere diplomatico di Enrico Letta al tempo in cui era ministro, ed ora vice-presidente di Unicredit. Questa sarebbe la posizione del presidente Letta. Il ministro dei Beni culturali, Massimo Bray non pare convinto, teme che un ambasciatore senza competenze specifiche possa non fare decollare il Grande Progetto Pompei previsto dal peraltro discusso decreto Valore e Cultura.
È intervenuto Salvatore Settis archeologo e, fra le altre cose, direttore per anni del Getty Research Institute, a perorare la nomina di un archeologo che abbia cultura gestionale. Il Mattino di Napoli ha messo in campo adeguate artiglierie per smantellare la tesi di Settis e sostenere invece la necessità assoluta di nominare subito un manager alla Scognamiglio. Pochi ricordano ormai che la Soprintendenza speciale di Pompei fu creata, assieme a quella di Roma, anni fa (ministro dei Beni culturale, Walter Veltroni) con un soprintendente archeologo e un city manager. La diarchia non ha funzionato, anche perché, dopo una certa data, si sono nominati generali dei carabinieri (più utili se applicati alla lotta alla camorra che controlla la zona, Pompei inclusa) o addirittura commissari di nessuna cultura archeologica (tantomeno pompeiana) sulla base di una «emergenza» proclamata dalla Protezione civile di Bertolaso e poi seccamente negata dalla Corte dei conti. Quest’ultima, esaminati i documenti dell’«emergenza» soltanto alla scadenza del mandato di Marcello Fiori, ha emesso un giudizio «postumo» dei più negativi. L’intera gestione commissariale tra il 2008 e il 2010, ha scritto infatti la Corte, «non sembra rispondere all’esigenza di tutelare l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinino situazioni di grave rischio». Somme ingenti finirono in un «restauro» raggelante del teatro romano, un tempo di tufo e marmo, ora di cemento, altre in musei virtuali, in piste ciclabili e via pedalando fra le rovine.
Rovine bisognose di attenzioni specialissime – come Stabia ed Ercolano – perché le «insulae» e i mosaici, gli affreschi contenuti nella varie dimore sono stati per un paio di millenni sotto una coltre di pomice senza conoscere quindi le mutazioni e le avversità climatiche. A differenza dell’archeologia in parte interrata, in parte no, di aree archeologiche paragonabili per vastità (Ostia Antica, per esempio). Molto, troppo forse si è scavato a Pompei anche perché la camorra scoprì decenni fa il business della pomice. Inoltre negli anni 50 si sono operati «restauri» con materiali cementizi che hanno peggiorato lo stato complessivo di conservazione dei manufatti, soprattutto davanti all’intensificarsi di piogge improvvise e violentissime. Ad imporsi oggi non è tanto un discorso di quantità, di provvista finanziaria, quanto di qualità tecnico-scientifica degli interventi, della loro programmazione, delle priorità da stabilire. Cosa c’entra un manager, di buona cultura bancaria, con tutto ciò? Nella vicina Ercolano le cose vanno assai meglio che a Pompei perché il flusso regolare dei finanziamenti è stato assicurato da un mecenate americano che non vuole «ritorni» pubblicitari e il piano dei lavori è stato definito e attuato dalla Soprintendenza. O no? E a Roma stessa, schivato il rischio di Bertolaso commissario, i lavori non sono andati a buon fine con Proietti e con Cecchi, due tecnici?
Ma i sostenitori della managerialità (gli stessi che parlano del «nostro petrolio») non si rassegnano facilmente. Hanno applaudito l’arrivo al Collegio romano di un manager, Mario Resca, il quale veniva da aziende importanti nel loro ramo: McDonalds’, il Casino di Campione, o Finbieticola. Doveva «valorizzare» i beni culturali nazionali. Ha combinato qualcosa? A guardare le pubblicità «valorizzatrici» che ci sollecitavano a correre a vedere il Colosseo o il Cenacolo di Leonardo prima che ce li portassero via, pare proprio di no. Per non parlare del rinnovo delle concessioni dei servizi aggiuntivi dove le convenzioni approntate da Resca sono state mitragliate di ricorsi al Tar e giacciono al suolo inanimate (e prorogate). Se questi sono i manager della cultura, aridàtece er Soprintendente. Che sia bravo, certo. E che abbia gli strumenti per snellire le operazioni programmate con rigore scientifico oltre che finanziario.

l’Unità 9.11.13
Riforma sanitaria, «I am sorry» di Obama
Il presidente si è scusato con chi ha perso la copertura come conseguenza secondaria dell’Obamacare
Molte compagnie private hanno disdetto in maniera unilaterale i contratti attivandone altri più costosi
La Casa Bianca: si troverà «un qualche tipo di soluzione amministrativa»
di Gabriel Bertinetto


Falsa partenza per l’Affordable Care Act, la riforma sanitaria fortemente voluta da Barack Obama. A 40 giorni dall’entrata in vigore, i problemi sono tali e tanti che il capo della Casa Bianca ha sentito l’obbligo di chiedere pubblicamente scusa ai concittadini. Inizialmente sembrava un problema tecnico, il cattivo funzionamento del sito su cui informarsi e acquistare una polizza. Ma guai ben più seri sono emersi con il passare delle settimane, quando milioni di americani già in possesso di un’assicurazione, hanno ricevuto la disdetta del contratto vigente, spesso accompagnata dalla proposta di una nuova polizza molto più cara della precedente.
Le aziende che lucrano sul mercato della salute non hanno perso tempo ad approfittare dell’arma che involontariamente gli estensori della legge avevano messo loro in mano. La riforma prevede infatti che le assicurazioni forniscano condizioni più favorevoli di quelle che venivano in passato concesse ai destinatari. Per adeguarsi alle nuove norme le compagnie hanno pensato bene allora di disdire unilateralmente i contratti che non rientravano più nei parametri legali. Ai loro clienti ne hanno proposto altri che quei parametri li rispettano, ma a costi notevolmente maggiorati.
LE SCUSE
«Mi dispiace che molta gente si trovi in questa situazione a causa delle garanzie che avevano avuto da me», ha dichiarato il capo della Casa Bianca. Durante il travagliato processo parlamentare per l’approvazione della legge, Obama e gli altri promotori della riforma avevano insistito sul vantaggio che ne sarebbe derivato alla maggioranza dei cittadini, messi in grado di acquistare migliori assicurazioni a prezzi più contenuti. Ora in un’intervista televisiva ha annunciato di avere dato istruzioni ai suoi collaboratori affinché valutino se ci siano margini per «colmare certe lacune» nel testo di legge, e conservare così l’assicurazione a coloro che se la vedono cancellare dalle compagnie, soprattutto coloro che non hanno i requisiti per ottenere sussidi dallo Stato.
La riforma sanitaria è il fiore all’occhiello del programma democratico sul terreno dei diritti sociali. Obama è riuscito là dove molti suoi predecessori dello stesso partito hanno fallito. Lo stesso Bill Clinton aveva alzato bandiera bianca di fronte all’agguerrita opposizione dell’industria sanitaria e dei suoi sponsor parlamentari. Sostanzialmente l’Affordable Care Act di Obama garantisce l’accesso alle cure mediche per oltre 30 milioni di cittadini che prima ne erano privi. Viene vietato alle assicurazioni di negare l’iscrizione a chi abbia malattie preesistenti o di rescindere il contratto per gravi patologie sopravvenute. Alle compagnie è anche proibito stabilire un tetto massimo ai rimborsi, a danno dei pazienti portatori di malattie particolarmente gravi e costose. Viene esteso da 18 a 26 anni il limite d’età entro cui i giovani possono beneficiare delle polizze familiari.
A partire dal 2014 entreranno in vigore altre importanti modifiche, come l’allargamento delle categorie toccate da Medicaid (il programma pubblico per i poveri). Diventerà inoltre obbligatorio per le imprese con almeno 50 dipendenti stipulare contratti di assicurazione sanitaria per i lavoratori. Per le aziende con meno di 25 persone e forniscono loro l’assicurazione sono previsti crediti d’imposta consistenti.
Il progetto originario prevedeva vantaggi ancora più corposi per i cittadini, ma è stato necessario modificarlo per evitare che l’ala conservatrice dei democratici si unisse ai repubblicani nel mandare tutto a monte. Particolarmente dolorosa per Obama la rinuncia a creare un’assicurazione pubblica che facesse concorrenza alle compagnie private. Questo avrebbe comportato un probabile abbattimento dei costi delle polizze. Alle lobby affaristiche l’idea non piaceva e hanno trovato sponde robuste nel mondo politico per impedire che venisse messa in atto.
In difficoltà con la riforma sanitaria, Obama incassa un buon risultato su un altro versante della lotta per i diritti civili, con il voto del Senato che a larga maggioranza (64 contro 32) ha approvato la legge contro la discriminazione di gay e transessuali nei luoghi di lavoro. Nell’elogiare i senatori, Obama ha auspicato che alla Camera, dove la maggioranza è repubblicana, il testo sia votato rapidamente.

l’Unità 9.11.13
Prendiamone atto, gli Usa non sono più una superpotenza
di Luigi Bonanate


SEMBRA CHE PRENDERE A CALCI NEGLI STINCHI GLI STATI UNITI STIA DIVENTANDO IL GIOCO PIÙ POPOLARE NEL MONDO DIPLOMATICO. Due settimane fa l'Arabia Saudita ha rifiutato di entrare come membro non permanente nel Consiglio di sicurezza Onu per ripicca nei confronti della poca determinatezza degli Usa sulla questione siriana, non decidendosi ad abbattere Assad. La Germania (ma non è l'unica) si è lamentata (e non senza ragione: ma chi è senza colpe, in quel settore, scagli la prima pietra...) con toni mai sentiti prima, e risentiti, delle intercettazioni e dello spionaggio americano nei suoi confronti. E adesso ci si mette anche Israele. In verità, ce l'aspettavamo, ma data l'importanza dell'occasione delle trattative appena aperte tra le grandi potenze nucleari (cinque più uno: Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina più Germania) e l'Iran, che era stato uno degli obiettivi centrali della politica estera di Obama, si poteva sperare che Netanyahu si trattenesse. Senza contare che Israele è in queste stesse settimane coinvolta in un nuovo round di trattative con l'Autorità nazionale palestinese.
Un bell'intrico, non c'è che dire. Se Israele si metterà di traverso nella questione del nucleare iraniano, è chiaro che si scontrerà con gli Stati Uniti, e se lo fanno non accetteranno alcuna lusinga da parte americana per mettere un po' di buona volontà nella trattativa con l'Anp. L'altro giorno, in più, l'oltranzista ex-ministro degli Esteri Libermann è stato assolto dalle accuse di truffa del passato (buon per lui: ci mancherebbe, non siamo mica dei giustizialisti a tutti i costi...) rafforzando l'atteggiamento governativo e portando altra linfa all'oltranzismo di Netanyahu.
L'Europa vorrebbe sia che le trattative con l'Iran vadano a buon fine sia che la questione palestinese sia avviata a una soluzione. Ma non ha la minima voce in capitolo, neppure potrebbe assumere un ruolo di mediazione perché, diciamocelo francamente, nessuno se la fila. E questo è il vero grande problema della Ue: non è mai stata davvero in discussione l'ipotesi dell'Europa-potenza, che avrebbe dovuto diventare invece il modello della civilizzazione internazionale, come il suo Premio Nobel alla pace testimoniava. La Ue invece ha ripetuto, in piccolo, gli errori delle grandi potenze del passato; ma non avendone la caratura ne è diventata una caricatura.
Ma non ci nasconderemo che il vero grande (e grave) problema è quello americano. Analizziamo la sua collocazione internazionale. Dopo essere stata per mezzo secolo la protettrice delle libertà occidentali, la fiaccola della democrazia e il baluardo dell'anti-comunismo ( compiti che ha svolto in modo eccellente, cioé, con indubbio successo), la nazione americana si è trovata, a partire dal grande Ottantanove, ovviamente, a declinare lentamente e progressivamente. Attenzione: non un declino dovuto a sconfitte, a errori, a crisi politiche o economiche interne, no: il declino è consistito in una transizione di potere, in una sua evaporazione, o in un trasloco, se vogliamo. Gli Usa non sono più la più grande potenza del mondo e della storia: in ciò non c'è nulla di male né di tragico, si trattava semplicemente di accorgersene e di capirlo. Non dico nulla di scandaloso, spero, se aggiungo che la scienza politica americana e gli studiosi di relazioni internazionali, che hanno eccelso negli studi per decenni, sono praticamente scomparsi dalla scena, travolti nel declino del loro oggetto di studio (e di esaltazione).
Né gli Stati Uniti né la Russia possono comportarsi da grandi potenze, perché non lo sono più: possono continuare a essere buoni amici dei loro alleati storici, ma non possono più battere i pugni sui vari tavoli della diplomazia internazionale: non soltanto non ne hanno, probabilmente, più la forza sufficiente, ma neppure la credibilità. Non c'è da vedere nulla di male in questa novità, anzi: significa che gli Stati tendono a diventare più uguali tra di loro. Ciò che però non deve succedere è abbandonarsi all'anarchia, e consentire a chiunque (leggi, per oggi: a Israele) di opporsi sempre e comunque a qualsiasi iniziativa statunitense. Sarebbe ingeneroso ricordare a Israele che senza la protezione americana, la sua vita nel primo mezzo secolo della sua indipendenza sarebbe stata assai precaria? È mai possibile che qualche insediamento territoriale valga più di un grande processo di pacificazione mediorientale?
Viviamo oggi una congiuntura internazionale originale che richiederebbe ben maggiore analisi da parte di tutti noi. Consiglierei di incominciare dalla riflessione sul ruolo americano nel mondo. Non dimentichiamo che gli Usa stanno ancora faticosamente uscendo da due gravissimi errori politici, che si chiamano Afghanistan e Iraq. Non credo abbiamo nulla da guadagnare a rinchiuderli nell'angolo.

Repubblica 9.11.13
Viaggio nelle paure di un terrorista da Guantanamo i diari di Abu Zubaydah
Da studente a jihadista, e poi le torture. Lo scoop di Al Jazeera
di Vittorio Zucconi


23 ANNI DI CONFESSIONI Abu Zubaydah inizia i suoi diari a 19 anni d’età. Deluso dagli amici, si rivolge a due versioni di sé stesso: il giovane Hani 1 e l’adulto Hani 2 “perché il tempo cambia tutto, anche le persone”

WASHINGTON — Nel labirinto infelice della follia di un uomo, di un tempo, di una guerra empia, arrivano i diari di Abu Zubaydah a condurci verso la cella del carcere di Guantanamo dove quest’uomo, un presunto “super terrorista”, è rinchiuso da ben undici anni, e torturato, senza speranza di uscirne. Zubaydah, colui che Bush, Cheney e Rumsfeld giudicarono — sbagliando — addirittura il capo operativo di Al Qaeda, e uno dei tanti “cervelli” dell’11 settembre, ha raccontato se stesso, la propria vita, la propria conversione da studente di informatica in jihadista, a un “amico di matita”, un compagno immaginario in 13 volumi di diario che oggi il canale americano dell’emittente araba Al Jazeeraha ottenuto e pubblicato in esclusiva.
La sua è la storia di un giovane palestinese nato per caso in Arabia Saudita che cerca la propria identità nel frastuono di una vita, e di una casa, dove soltanto la fede, e poi la fiducia nello «sceicco», in Osama bin Laden, sembrano essere il lumicino nel buio. «Se potessi chiedere a Dio di cancellare i miei anni vissuti fino a ora, lo farei, ma so che non è possibile » scrive Zubaydah a Hani, il suo amico immaginario. «Se potessi dimenticare i giorni nella mia casa d’infanzia, consumati fra le urla, il pianto, le botte di mio padre, le lacrime di mia madre, lo farei», ma «non ho nessuno con cui parlare, neppure amici veri, perchè nel mio mondo non ci sono veri amici e all’amicizia non credo, se non nella tua». Cioè nel suo alter ego, in Hani, in se stesso.
A questo giovane uomo, che fu ferito e catturato dai servizi segreti pachistani nel 2002 mentre tentava di sfuggire al collasso del regime Taliban, e indicò sotto tortura in Khalid Sheikh Mohammed la mente dell’11 settembre, l’adesione ai mujaheddin della rete terroristica apparve come la sola, possibile uscita dal buio nel quale la vita, e la confusione mentale della propria personalità multipa, lo avevano precipitato. La militanza e quelle pagine alle quale affidava giorno dopo giorno le proprie confidenza e che la Cia e lo Fbi si sono contese per anni, bollandole come supersegrete, sono state la tragica speranza di uscire dal labirinto.
È infatti in Afghanistan, nei campi d’addestramento di Al Qaeda all’inizio degli anni ‘90, che Abu Zubaydah sembra finalmente trovare sollievo. «A te che hai le mia età e che forse un giorno incontrerò, se sarò ancora vivo — scrive sempre a Hani nei diari — posso dire che soltanto in quegli accampamenti ho trovato un poco di pace. Ciascuno degli altri mujaheddin ha storie da raccontare alla sera attorno al fuoco, storie di notti oscure, di prigionia, di maltrattamenti, o storie di castelli bianchi, piene di sogni e di sacrificio». Ma quando Zubaydah arriva in Afghanistan per combattere contro i Sovietici, l’Urss si è già ritirata e quel che resta è una confusa, sanguinosa battaglia con altre bande, con altri signori della guerra: «Non c’è più nessun futuro per me qui, altro che lottare per fare la volontà di Allah. Ho paura, ma so che la causa è giusta e ripongo la mia fiducia nell’Onnipotente».
Nel primo volume, quello che è stato pubblicato, Abu Zubaydah non spiega il passaggio da questa resistenza interiore al jihadismo violento. Nota che «alcuni di questi giovani sono pronti a compiere la volontà di Allah e il destino scritto per loro». «Vorrei completare il mio addestramento e poi tornare in India per finire gli studi di informatica» spiega a se stesso e si avverte, nelle pagine, il desiderio di essere un uomo qualsiasi, uno “normale”. «Non faccio mai sesso per motivi religiosi, ma non ho dubbi sulla mia virilità», confida, per rassicurare se stesso. Ma narra, con particolari accaldati, i baci e le carezze scambiate con una domestica cristiana in Pakistan, Flumina, un “petting” prolungato e intenso, ma senza arrivare «fino alla grande cosa finale». Sarà in Pakistan che si farà quella fama di capo operativo e logistico per Bin Laden che lo spedirà nella braccia degli americani a Guantanamo e poi nelle torture inflitte nelle segrete polacche e thailandesi dove i suoi carcerieri lo spediranno per essere sottoposto a supplizi e “interrogatori speciali”: fino alle 83 sedute di waterboarding, l’annegamento simulato. Ma Zubaydah ha una fobia spe- per gli insetti e i suoi aguzzini lo chiuderanno in bare di legno rovesciandogli addosso cascate di ragni, scarafaggi, scarabei. Prima che ciò accadesse, in Pakistan era diventato responsabile dello smistamento di reclute jihadiste a varie organizzazioni affiliate dentro la Rete, (Al Qaeda in arabo ndr), come al Fatheen (i Conquistatori) Al-Shuhadaa (i Martiri) Al-Ansar (I Sostenitori). «Smistavamo poi tutti secondo la nazionalità, inviandoli in diversi Paesi dopo averli addestrati all’uso della armi che prima l’Armata Rossa e poi gli Americani lasciavano dietro — racconta — davamo a tutti nomi di battaglia, e anche il mio Abu Zubaydah è un nome di battaglia, non il mio vero che non ricordo più». Una scheggia di artiglieria che lo aveva ferito alla testa gli aveva cancellato la memoria. «Tutti mi dicevano che io ero Abu (che in arabo significa padre, ndr) Zubaydah e così fu».
L’eccitazione, l’entusiasmo per la guerra santa svaniscono in fretta. «Vedevo attraverso i binocoli la battaglia e i cannoni che sparavano verso di me e mi aspettavo di morire ad ogni istante». Vacilla, e lo confida a Hani, poi a Mohammed, un altro amico immaginario, ma neppure le lettere vere del padre che vorrebbe riportarlo a casa, quando la madre si ammala gravemente, lo strappano alle proprie esitazioni. Resiste, fugge con i Taliban e i qaedisti inseguiti dagli americani, lo catturano. E da quella cattura nasce la leggenda del “Super terrorista”. Nei suoi interrogatori, sotto tortura, racconta, millanta, fiumi di progetti piani. Bush e Rumsfeld diranno di avere sventato, attraverso di lui, piani diabolici per far saltare il Ponte di Brooklyn, ma la Cia non gli crederà mai. E oggi, 11 anni dopo, l’Amministrazione Obama, che pure lo tiene sottochiave a Guantanamo, non crede più al suo ruolo fondamentale in Al Qaeda. Abu Zubaydah resta recluso, senza processo, solo con i suoi diari, che continua a scrivere, giorno dopo giorno.

l’Unità 9.11.13
Morte di Arafat
I palestinesi: «Israele è l’unico sospetto»


«Israele è il primo, fondamentale e l’unico sospetto per l’assassinio di Yasser Arafat». Lo afferma Tawfik Tirawi, a capo della commissione dell’Autorità nazionale palestinese che indaga sulla morte dell’ex leader dell’Olp. Tirawi ha sottolineato che Arafat non è morto per cause naturali, ma non ha dato una risposta univoca quando gli è stato chiesto se l’ex leader palestinese fosse stato avvelenato. L’investigatore ha tenuto una conferenza stampa a Ramallah, in Cisgiordania, il giorno dopo che gli
scienziati di un laboratorio svizzero che ha esaminato campioni prelevati dalla salma dell’ex leader palestinese hanno confermato che Arafat ingerì polonio radioattivo. Gli esperti affermano che le quantità di polonio e piombo registrate non possono essere state presenti per motivi naturali e che la tempistica della malattia e morte sarebbero compatibili con il polonio. La morte di Arafat per avvelenamento di polonio è «priva di fondamento», invece per una relazione stilata dalla squadra di esperti russi, anticipata da al Jazeera.

il Fatto 9.11.13
Gaza
Hamas vieta commemorazione Arafat

Lunedì 11 ricorre l’anniversario della morte di Yasser Arafat, ma a Gaza non potrà essere commemorato. I responsabili della sicurezza di Hamas hanno vietato ogni manifestazione dedicata alla memoria dell’ex leader dell’Olp, scomparso nel 2004. LaPresse

l’Unità 9.11.13
Nucleare iraniano, stretta sull’«accordo del secolo»
A Ginevra ora trattano i capi della diplomazia del gruppo 5+1
Il segretario di Stato: «Stiamo lavorando sodo». L’ottimismo di Zarif
Netanyahu gela gli Usa: quell’intesa è un tradimento
Due ore di colloquio per sancire una rottura destinata a segnare le relazioni tra i due Paesi e a ridefinire equilibri e alleanze in Medio Oriente
di U. D. G.


Un colloquio «burrascoso». Una rottura totale. Visto da Tel Aviv, l’«accordo del secolo» altro non è che un «Grande tradimento». Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha bocciato l’intesa che si profila a Ginevra sul nucleare iraniano come «pessima» e ha avvertito che Teheran si appresta a fare «l’affare del secolo». «Israele la respinge fermamente», mette in chiaro Netanyahu all’inizio del tumultuoso faccia a faccia con il segretario di Stato Usa, John Kerry, che era in partenza da Gerusalemme proprio per la città elvetica. Fonti bene informate raccontano, con garanzia dell’anonimato, che poche volte si era visto un Netanyahu così furente. Nella saletta riservata dell’aeroporto internazionale Ben Gurion, sono volate parole grosse tra il premier israeliano e il segretario di Stato Usa. «Ciò che dico», ha aggiunto Netanyahu, «è condiviso da molti nella regione anche se non tutti lo affermano pubblicamente. Israele non è vincolato da questo accordo e farà tutto ciò che è necessario per difendersi e per garantire la sicurezza del suo popolo», chiara allusione a un possibile attacco mirato preventivo.
LO SCONTRO
Ai giornalisti che lo «assediavano», Netanyahu non ha lesinato dichiarazioni da prima pagina: «Credo scandisce “Bibi” che gli iraniani debbano essere molto soddisfatti a Ginevra visto che hanno ottenuto tutto e non hanno pagato nulla». «Volevano prosegue nel suo j’accuse un allentamento dopo anni di estenuanti sanzioni e lo hanno ottenuto. Non hanno pagato nulla, perché non stanno riducendo in nessuna maniera la loro capacità di arricchimento nucleare. Quindi l’Iran ha ricevuto l’accordo del secolo e la comunità internazionale ha avuto un cattivo accordo».
Israele vuole un quasi completo stop ai programmi nucleari di Teheran, prima che le sanzioni siano sollevate, mentre respinge qualsiasi approccio graduale. «Israele si oppone del tutto a queste proposte», ribadisce Netanyahu.
Il premier israeliano non crede neanche un po’ alla svolta «moderata» del successo di Mahmud Ahmadinejad alla presidenza dell’Iran, Hassan Rohani: «Non rappresenta il popolo iraniano. Rappresenta solo un desiderio di cambiamento, ma non è stato eletto con elezioni aperte. Io non credo che abbia il mandato di modificare le reali decisioni che vengono prese da Khamenei e Khamenei vuole le armi nucleari. Se l’Iran ottiene le armi nucleari, il regime sarà immortale, come quello della Corea del Nord», aveva affermato Netanyahu in una recente intervista alla Bbc. In un sondaggio pubblicato un mese fa dal quotidiano filogovernativo Israel HaYom, oltre il 65% degli israeliani si era detto favorevole ad un intervento militare unilaterale contro Teheran.
A metà ottobre, Israele ha simulato un attacco aereo a lungo raggio, come nel caso di un attacco alle installazioni nucleari iraniane. F-16, F-15, areorifornitori e altri aerei di supporto hanno volato sul Mediterraneo per migliaia di chilometri e simulato un attacco sul suolo ellenico. L’opzione militare torna prepotentemente sul tavolo. E tra i suoi più decisi sostenitori c’è il super falco Avigdor Lieberman, che dopo essere stato prosciolto dalle accuse di corruzione, è destinato ricoprire uno dei ministeri chiave in Israele: quello della Difesa.

l’Unità 9.11.13
Il regista Floridia espulso da Israele


PIETRO FLORIDIA, REGISTA E DRAMMATURGO, È PARTITO IL 5 NOVEMBRE PER LA PALESTINA, per portare a termine «Alone we Stand», progetto di Al-Harah Theater (Palestina), Teatro dell’Argine e Oxfam Italia, co-finanziato dalla Commissione Europea, realizzato attraverso scambi interculturali tra Palestina e Italia e incentrato sul tema della solitudine femminile e sulle possibilità di cambiamento del ruolo sociale della donna. Ma è stato «fermato» dalla polizia israeliana, interrogato per otto ore quindi espulso da Israele per cinque anni, pena un anno di prigione se dovesse contravvenire al provvedimento.

Corriere 9.11.13
Unesco, Usa e Israele perdono il diritto di voto
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Gli israeliani si sono arroccati a Masada, uno dei siti riconosciuti dall’Unesco, e da un paio d’anni non pagano più i contributi all’organizzazione delle Nazioni Unite che promuove la cultura e la scienza nel mondo. Da quando la Palestina è stata ammessa tra gli Stati membri, una decisione inaccettabile per il governo di Gerusalemme: «L’Unesco si è trasformata in una macchina politica e ha scelto di accogliere una nazione che non esiste», commenta l’ambasciatore Nimrod Barkan. «È automatico che tagliassimo i pagamenti».
È altrettanto automatico che da oggi Israele non abbia più diritto di voto a Parigi. Anche gli Stati Uniti restano esclusi dopo aver bloccato i finanziamenti all’organismo. Il taglio da parte di Washington (80 milioni di dollari l’anno, quasi 60 milioni di euro, rappresentano il 22 per cento del budget totale) ha già costretto l’Unesco a cancellare un intervento in Iraq e mette a rischio un progetto per diffondere la conoscenza dell’Olocausto in Africa, un programma che avrebbe dovuto educare alla non-violenza. L’organizzazione conta 1200 impiegati nella capitale francese e 900 in giro per il mondo.
La Casa Bianca è preoccupata di non avere più voce in un’assemblea che dovrebbe promuovere con le sue iniziative la libertà di parola o i diritti delle donne e combattere l’estremismo. Gli israeliani sostengono che i palestinesi «fanno di tutto per trasformare l’Unesco in un sistema di propaganda». A maggio una delegazione avrebbe dovuto visitare Gerusalemme per la prima volta dal 2004. Il viaggio è stato fermato dai diplomatici dello Stato ebraico dopo le dichiarazioni di Riyad al Malki, ministro degli Esteri a Ramallah: «L’Unesco viene per investigare le misure prese dall’occupazione».
La Palestina è stata ammessa a maggioranza (l’Italia si è astenuta) come membro numero 195 dell’Unesco ancora prima che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite le riconoscesse lo status di Paese osservatore un anno fa. Il presidente Abu Mazen sta usando la strategia diplomatica e la minaccia di richiedere l’adesione ad altri organismi internazionali come arma nelle trattative.

Corriere 9.11.13
Il poeta di periferia che rinnega l’Islam
Figlio di immigrati, divide la Danimarca
di Maria Serena Natale


«Yahya Hassan». La sua prima raccolta di poesie porta il nome dell’autore: autoritratto in versi di un diciottenne arrabbiato che scrive solo in stampatello maiuscolo, le lettere come lapidi di cemento sulle menzogne di troppi traditori. Yahya Hassan è il figlio danese di palestinesi finiti dal Libano ad Aarhus, il porto industriale dello Jutland che nel 2011 fu tra i punti nevralgici del dibattito sul multiculturalismo nordico fondato sull’universo parallelo dei ghetti: pace sociale in cambio della totale separazione tra le comunità. La cortina politicamente corretta calata su quel mondo è il bersaglio polemico di Yahya.
«A scuola non possiamo parlare arabo / A casa non possiamo parlare danese»: lo spaesamento delle seconde generazioni e le contraddizioni degli adulti in poesie che spaccano la società, confondono la destra con la sinistra, accusano di parassitismo e ipocrisia il gruppo religiosamente connotato dei musulmani di Danimarca. Trentaduemila copie vendute in due settimane, in un Paese di neanche sei milioni di abitanti dove i libri di poesia superano di rado i cinquecento esemplari. È un fenomeno letterario e sociopolitico questo ragazzo dei ghetti cresciuto in una famiglia difficile e violenta, allontanato da scuola a 13 anni, affidato alla rete del welfare danese come soggetto problematico, diventato rapper e salvato dalla poesia. Una parte della critica lo ha accostato al gigante americano Walt Whitman, al grido di libertà di Foglie d’erba . La sua biografia rende difficile classificarlo come provocatore razzista o figura modello. «Quello che scrivo riguarda solo me».
Lessico quotidiano, immagini ruvide e spiazzanti. Ora che ha trovato il suo linguaggio interiore, Yahya se la prende con la generazione dei padri che «tra le preghiere del venerdì e il Ramadan girano con un coltello in tasca». Con le famiglie di immigrati che vietano ai figli di fare sport insieme ai coetanei «bianchi», alimentando quella cultura della distanza che è la premessa ideologica della discriminazione. Con «gli stupidi che fanno jogging e pregano, poi rubano, bevono e vanno a letto con le ragazze danesi... in prigione si redimono leggendo il Corano e ricominciano da capo».
Ateo, definisce «innocuo» il cristianesimo. «Qualcosa non va nell’Islam — dice —, una religione che rifiuta di rinnovarsi». Destabilizzante in un Paese che ha chiaro il ricordo delle violente proteste esplose nel 2005 in tutto il mondo arabo-musulmano per la pubblicazione delle dodici vignette «blasfeme» del quotidiano Jyllands-Posten : Maometto con il turbante a forma di bomba fu giudicato un inaccettabile oltraggio alla tradizione che bandisce le raffigurazioni del Profeta. Il disegnatore, Kurt Westergaard, vive sotto protezione nella stessa città di Yahya. È sfuggito a più di un tentato omicidio.
Il poeta delle periferie dure è spesso nei salotti tv. Nelle ultime settimane ha ricevuto 27 minacce di morte sulle quali indaga la polizia. «Conosco questa gente, non sopporta le critiche e non vuole il dialogo». I capelli scuri raccolti a coda, felpa nera e giubbotto, ieri era al Bella Center di Copenaghen per la più grande Fiera del libro del Paese. Tra autografi e letture, già una piccola star.

Corriere 9.11.13
I bimbi abbandonati e il dramma di Atene
Tre milioni di cittadini - un terzo della popolazione - non ha copertura sanitaria
di Dino Martirano


Ormai anche alla radio gli appelli rivolti al ministro della Sanità Georgakis si ripetono tutte le mattine: «Due ragazze con problemi cardiovascolari devono essere operate d’urgenza ma non hanno la copertura sanitaria...». Dai microfoni dell’emittente Sky arriva la voce delle due giovani donne greche prive di «social security card» che raccontano i particolari sulle cure ricevute nel centro dei medici volontari di Hellenicò (vicino al mare, accanto al vecchio aeroporto di Atene) dove però non possono essere operate. Insomma, per accedere al servizio sanitario nazionale, l’unica strada per molti cittadini greci caduti nel buco nero della non copertura assicurativa è quella dell’appello diretto alle autorità di governo. Mentre per altri, anziani soprattutto, non rimane che rivolgersi alle associazioni che un tempo si occupavano di assistere esclusivamente gli immigrati e che ora, invece, devono offrire le loro cure gratuite ai greci finiti oltre la soglia della povertà: «Ormai — spiega il dottor Jannis Musalla, del board di Medici del Mondo — nel nostro centro di Erama, un quartiere popolare di Atene, 8 pazienti su 10 sono greci e vengono da noi anche quelli in cura presso il servizio pubblico che però non possono permettersi le medicine». Secondo il dottor Musalla — che insieme ai suoi colleghi ha incontrato il presidente della Camera, Laura Boldrini, in visita ufficiale ad Atene — i greci senza copertura sanitaria sarebbero circa tre milioni, poco meno di un terzo dell’intera popolazione». La crisi delle famiglie più deboli, poi, la tocca con mano anche Costas Yannopoulos, direttore del centro il «Sorriso del bambino», che ospita minori abbandonati e che ha visto crescere fino all’80% le presenze dei bimbi greci nella sua struttura. Da queste stanze colorate nascoste nella periferia nord di Atene è passata anche Maria, la bimba rom bionda dagli occhi verdi, che a metà ottobre ha fatto commuovere mezzo mondo: «Ecco — ha commentato la presidente Boldrini che ha voluto visitare anche questa realtà — se l’Europa vuole cambiare rotta deve partire dai più deboli. Perché l’Europa che impone solo sacrifici e austerity la gente non la capisce più. Il populismo anti europeo è un nemico in agguato, per questo dobbiamo far passare l’idea di un’altra Europa. Dobbiamo farlo prima che sia troppo tardi».

Corriere 9.11.13
Cina, le scelte del nuovo Timoniere mentre soffia il vento delle riforme
di Guido Santevecchi


«Riforme, salpiamo di nuovo». Con questo titolo «Beijing News», un giornale liberale, per quanto può essere liberale la stampa in Cina, presenta il Plenum del Comitato centrale del partito comunista che si apre oggi. Nella prima delle 96 pagine dedicate all’evento, il grande disegno di un veliero; il mare è agitato, alla sua sinistra scogli minacciosi. Due sole scelte: virare a destra o alzare altre vele, accelerare e lasciarsi alle spalle il pericolo. Non sappiamo se il quotidiano abbia voluto proporre un’allegoria della destra e della sinistra. Ma il tema delle riforme economiche è cruciale nella Cina che dopo 35 anni di crescita a due cifre del Prodotto interno lordo si trova di fronte a problemi strutturali. Il presidente Xi Jinping ha detto che il Paese non cadrà nella «trappola del reddito medio», la stagnazione che ha già frenato molti Paesi dell’Asia. Ed è già un’ammissione dell’urgenza.
Questo è il Terzo Plenum della nuova leadership che guiderà la Cina per dieci anni. Il Terzo Plenum ha un significato storico: nel 1978 fu un terzo plenum che permise a Deng Xiaoping di imporre l’apertura al mercato. E nel 1993 un altro terzo plenum lanciò la formula dell’impresa con caratteristiche socialiste. Il boom della Cina.
Ora Pechino ha capito di non poter più giocare la carta della Fabbrica del Mondo. Ci sono altri Paesi emergenti dove il costo del lavoro è molto più basso. Bisogna cambiare. Servono più concorrenza, liberalizzazione finanziaria, piena convertibilità della moneta, minor ricorso ai massicci investimenti statali, più consumi interni. È il vento che deve seguire il veliero. Il nuovo timoniere Xi Jinping sembra deciso a seguire questa rotta. Ma le resistenze del mastodontico settore statale sono ancora molto forti. E le riforme politiche? Ieri un comunicato del vertice comunista le ha spazzate definitivamente via dalla rotta: «La Cina può prosperare solo sotto la guida del partito». Il documento che uscirà dal Terzo Plenum ha già un titolo: «Decisione del Comitato centrale del partito comunista cinese su diverse importanti questioni dell’approfondimento comprensivo della riforma». Lungo e tortuoso da leggere. Ancor più da interpretare.

l’Unità 9.11.13
Saccheggi ad arte. Gli altri tesori dei nazi
Oltre a quello di Monaco, il più prezioso è la collezione del Reichsmarschall
Ermann Göring passò la guerra più ad arraffare capolavori che a combattere Nonostante fossero stati bollati come «degenerati»
Göbbels fece incetta di quadri e dipinti preziosi
di Enzo Verrengia


ARTE DEGENERATA, IN TEDESCO «ENTARTETE KUNST»: ERANO LE PAROLE DI JOSEPH GÖBBELS, il Ministro della Propaganda nel Terzo Reich, per definire tutto quanto negli anni fra le due guerre faceva avanzare la pittura e il resto della creatività verso le forme più avanzate di espressione. E così venne intitolata la celebre esposizione a Monaco nel 1937, nella quale si additavano al pubblico ludibrio e disprezzo del popolo nazista le opere da NON imitare.
Adesso, per l’ennesima ironia della Storia, è proprio nella città-simbolo della svastica che sono stati rinvenuti oltre 1500 capolavori pittorici dietro una parete dell’abitazione di Cornelius Gurlitt, figlio del gallerista Hildebrand Gurlitt nel sobborgo di Schwabing. Accatastati fra l’immondizia, giacevano quadri di Pablo Picasso, di Renoir, di Henri Matisse e addirittura un dipinto sconosciuto di Marc Chagall.
Non è propriamente il tesoro di Hitler, pure costituisce un patrimonio. Perché se Göbbels ragliava contro l’arte degenerata, questo non ne impedì il saccheggio nei territori occupati. Hitler aveva due consulenti, i professori Hans Posse e Karl Haberstock, che dovevano decidere le sorti dei beni confiscati.
Parte non secondaria spettò alla Reichsbank. Un decreto del 1939 la pose sotto il controllo di Hitler, che ne sostituì il presidente e plenipotenziario per l’economia Hjalmar Horace Greely Schacht, banchiere della vecchia scuola, col fedelissimo dottor Walther Funk. Sotto di lui, la Reichsbank assolvette a tre compiti. Quello di un normale istituto di credito statale, arbitro dell’andamento valutario interno, l’amministrazione dei risparmi privati, deposito dei bottini di guerra. Il terzo ruolo fu il più ambiguo. Nella sede centrale di Berlino della banca e in alcune sedi periferiche confluirono infatti i frutti delle razzie compiute dalla Wehrmacht e dalle Waffen SS nell’Europa conquistata: valute estere, preziosi e opere d’arte.
Quanto alla Reichsbank, malgrado i bombardamenti a tappeto su Berlino ed il trasferimento di una cospicua porzione dei suoi depositi nelle miniere di Kaiseroda, dove furono recuperate dalle truppe del Generale Patton, custodiva ancora ingenti fortune nelle sue sedi della Germania centrale e meridionale, nella sottile striscia di territorio tedesco ancora scampato all’incedere degli alleati a ovest e dei russi a est. Il colonnello Friedrich Josef Rauch, del servizio di sicurezza personale di Hitler, ebbe l’idea di portare ciò che restava del tesoro nazista nella cosiddetta Alpenfestung, la fortezza alpina, o ridotto nazionale del Sud, destinato ad accogliere i vertici del partito in fuga dalla Capitale, compreso il Führer, per ingaggiare una sanguinosa e infinita resistenza. Si trattava di un’area ai confini tra la Baviera e l’Austria, dove si trovava fra l’altro anche l’Obersalzberg, sede del Berghof, il rifugio montano di Hitler. Quest’ultimo approvò il piano di Rauch. Il tesoro giunse così a Mittenwald, non lontano dalla splendida località sciistica di Garmisch-Partenkirken, risparmiata dalla guerra, dove si erano rifugiati il Kaiser ed esponenti del governo Vichy. Rauch affidò il carico al fido e leale colonnello Franz Wilhelm Pfeiffer, eroe del reggimento Brandeburgo e direttore di una locale scuola di addestramento per alpini. L’ufficiale trattenne per qualche tempo il tesoro della Reichsbank in una baita di montagna, l’Einsiedl o rifugio solitario. Quindi ordinò ai suoi uomini di seppellirlo sulle pendici dello Steinriegel e del Klasenkopf.
Di questo bottino si registrarono due recuperi effettuati dagli americani. Ma in ambedue i casi, risultavano ammanchi. E qui le tracce del tesoro si perdono nei meandri occulti dai servizi segreti occidentali.
Il più favoloso dei tesori nazisti è la collezione d’arte del Reichsmarschall Hermann Göring. Il responsabile della Luftwaffe, l’aeronautica militare nazista, a capo del piano economico quadriennale, passò la guerra più a comprare e ad arraffare capolavori che non a combattere.
Il suo mausoleo era la residenza che si era fatta costruire nel 1933 allo Schorfheide, nella marca del Brandeburgo, chiamata Carinhall in memoria della contessa Carin von Fock, prima moglie di Göring. Qui il maresciallo accumulò un patrimonio artistico che nel 1944 egli stesso valutava intorno ai cinquanta milioni di marchi. Molte le opere acquistate legalmente e a prezzi spesso superiori al loro valore. Per esempio Venere e Adone di Rubens «pagato un occhio» a un antiquario parigino. Oppure la partita di quadri Goudstikker, che al contrario si risolse in un affare vantaggioso per Göring. Erano all’incirca 1300 opere, alcune di Paul Gauguin, di Cranach e del Tintoretto, vendute con l’intermediazione del mercante bavarese Alois Miedl, sposato con un’ebrea. Il che non gli impedì di avere ottimi rapporti con il Reichsmarschall. Parte dei quadri andarono al Führer, per il palazzo di Monaco.
Göring in Francia veniva informato per primo dall’amico Harold Turner, prefetto civile dell’occupazione a Parigi. Una fedele segretaria, Fraülein Gisela Limberger, compilava inventari delle opere e della loro ubicazione. A fargli da consulente, il maresciallo aveva nominato lo storico d’arte Bruno Lohse, esentandolo dal servizio nell’aeronatica. Con una dotazione di mezzi e denaro liquido la sua forma preferita di pagamento Göring, dimentico dello smacco subito dalla RAF durante la battaglia d’Inghilterra, partiva per quelle che lui stesso definiva “spedizioni di acquisto”.
Riuscì così ad accaparrarsi il ricercatissimo dipinto L’uomo dal cappello, di Jan Vermeer van Deft, quadri di Henri Matisse, di Amedeo Modigliani, di Pierre-Auguste Renoir e di Antoine Watteau. L’inglese Don Wilkinson nel 1941 donò al maresciallo un costosissimo ritratto di Juliana von Stolberg, madre di Guglielmo d’Orange, per ringraziare Göring di avergli salvato la moglie dal lager.
Paradossalmente, molti dei tesori del Reichsmarschall vennero restituiti dopo la guerra ai proprietari, senza che però questi rimborsassero le somme incassate.

Corriere 9.11.13
I banchetti degli eccessi nelle notti dell’antica Roma
di Eva Cantarella


Tutti i giorni sono uguali, non le notti. Non è una battuta libertina ma la conclusione che viene alla mente dopo aver sfogliato «Nuits antiques», raccolta di testi curata da Virginie Leroux, preceduta da una conversazione tra Michel Serres e Michel Polacco (Edizioni Belles Lettres, pp. 336, euro 14,50). Le notti antiche erano uniche. In esse si esagerava con il cibo e con i sensi; nel buio di Roma l’imperatore Nerone — riferisce Svetonio — si concedeva tutte le licenze possibili, anche dentro le taverne. A cena da Trimalcione, assicura Petronio, si perdeva il senso del limite: le portate ormai suscitavano meraviglia e saziavano gli occhi prima del ventre. Le abbuffate diventarono un fatto estetico, un’ostentazione; la volgarità era la nuova signora, le preoccupazioni per una sana nutrizione erano bandite. Tra feste e veglie, nelle ore scellerate anche i filosofi cercavano di non dormire. Il cibo era simile a un dio che permetteva di superare tutti i riferimenti della decenza. I commensali preferivano ingozzarsi e non attendevano che rare volte la digestione: di solito espellevano dopo aver esagerato. O forse a casa di Trimalcione la cena era un gioco supremo. Con la vita.

Corriere 9.11.13
L’arte può salvarci dall’angoscia
Un catechismo di religione laica
di Alain De Botton


I musei devono essere le nuove chiese in cui curare lo spirito Il mondo moderno tiene l’arte in grande considerazione. Lo si vede dal fatto che si continuano ad aprire nuovi musei, si destinano notevoli risorse pubbliche alla produzione e all’esposizione di opere d’arte, si cerca di avvicinare ad essa un pubblico sempre più ampio (coinvolgendo anche bambini e gruppi minoritari), lo si nota dal prestigio goduto dagli studiosi e dalle alte valutazioni del mercato dell’arte. L’arte è ritenuta qualcosa di vicino al senso stesso della vita.
Nonostante tutto questo, i nostri incontri con l’arte non sempre sono soddisfacenti come vorremmo. Spesso usciamo da un museo importante con un senso di delusione, di disorientamento o di inadeguatezza, chiedendoci perché la profonda esperienza che ci attendevamo non si è verificata. E di solito diamo la colpa a noi stessi, alla nostra ignoranza o mancanza di sensibilità.
Secondo me, il problema non è nell’individuo, ma nel modo in cui l’arte viene insegnata, venduta e presentata dalle istituzioni artistiche. Dall’inizio del XX secolo il nostro rapporto con l’arte è stato condizionato dalla profonda riluttanza istituzionale ad affrontare la questione della funzione dell’arte. È una questione che, ingiustamente, viene considerata importuna, illegittima e un po’ impudente.
L’espressione «l’arte per l’arte» respinge l’idea che l’arte debba avere uno scopo preciso, lasciandola così in un empireo misterioso — e quindi vulnerabile. L’importanza dell’arte è di solito data per scontata, piuttosto che venir spiegata. Che abbia un valore è considerata una cosa ovvia. Questo è però sbagliato, sia per chi la contempla che per chi la custodisce. Sono convinto che l’arte abbia uno scopo che può essere definito e discusso in termini chiari. Credo che l’arte sia uno strumento e che si debba cercare di capire con maggiore precisione quale sia la sua natura e cosa possa fare di buono per noi.
Tanto per cominciare, abbiamo bisogno di uno strumento che corregga o compensi una serie di nostre fragilità psicologiche. Riassumiamo alcune di queste debolezze:
1. Dimentichiamo ciò che conta, non riusciamo a valorizzare esperienze importanti, ma poco comprensibili.
2. Tendiamo a scoraggiarci: siamo ipersensibili ai lati negativi dell’esistenza. Perdiamo legittime occasioni di successo perché non riusciamo a vedere la ragione per continuare a fare certe cose.
3. Siamo inclini a sentirci isolati e perseguitati, perché non vediamo in modo realistico i normali livelli di difficoltà. Cadiamo troppo facilmente in preda al panico, perché non diamo il giusto significato ai nostri problemi. Siamo soli — non perché non abbiamo qualcuno con cui parlare, ma perché chi ci sta intorno non è in grado di capire i nostri problemi con sufficiente profondità, onestà e pazienza. Questo anche perché la rappresentazione dei nostri dolori — relazioni sbagliate, invidie, ambizioni non realizzate — può essere spiacevole e offensiva. Soffriamo, e ci sembra che la nostra sofferenza sia poco dignitosa.
4. Siamo poco equilibrati e perdiamo di vista i nostri lati migliori. Noi non siamo un’unica persona. Siamo fatti di molteplici «io», e sappiamo che alcuni di questi sono migliori di altri. Tendiamo a manifestare i nostri «io» migliori un po’ a caso e quando è troppo tardi; perseguiamo le ambizioni più alte con poca determinazione. Pur sapendo come dovremmo comportarci, non riusciamo ad agire secondo le nostre migliori intuizioni, che non ci si offrono in una forma sufficientemente convincente.
5. Farci conoscere è difficile: costituendo già un mistero per noi stessi, non riusciamo a spiegare agli altri chi siamo, o non siamo in grado di farci apprezzare per i giusti motivi.
6. Respingiamo molte esperienze, popoli, luoghi, epoche che hanno cose importanti da offrirci, perché ci si presentano nella forma sbagliata e non ci danno modo di avvicinarle. Siamo inclini a giudizi superficiali e a preconcetti. Vediamo quel che è «straniero» con troppa diffidenza.
7. La consuetudine ci rende meno sensibili — e viviamo in un mondo dominato dal commercio e dalla moda. Siamo quindi spesso insoddisfatti di una vita che ci sembra troppo monotona e pensiamo che «la vera vita» sia altrove.
L’arte trova il suo scopo e il suo valore in relazione a questi sette problemi cognitivi, per ciascuno dei quali ci offre benefici:
1. Corregge la cattiva memoria: l’arte rende i frutti dell’esperienza memorabili e rinnovabili. È un meccanismo che mantiene le cose preziose, le nostre migliori intuizioni, in buone condizioni e le rende accessibili a tutti. L’arte tesaurizza le nostre vittorie collettive.
2. Apporta speranza: l’arte ci mostra le cose piacevoli e confortanti. Sa che ci disperiamo con troppa facilità.
3. Rende dignitoso il dolore: l’arte ci ricorda qual è il giusto posto del dolore in una vita piena, permettendoci così di essere meno travolti dalle difficoltà, che possono essere viste come componenti legittime di un’esistenza nobile.
4. È un fattore di equilibrio: l’arte rappresenta con insolita chiarezza l’essenza delle nostre buone qualità e ce le mette davanti agli occhi utilizzando vari mezzi di comunicazione, per aiutarci a riequilibrare la nostra natura e indirizzarci verso le nostre migliori possibilità.
5. È una guida alla conoscenza di sé: l’arte ci aiuta a identificare quel che è importante per noi, ma che è difficile esprimere con le parole. Molto di quel che è umano non è reperibile nella sfera linguistica. Può capitare di prendere un oggetto artistico e di dire, confusamente ma significativamente, «questo sono io».
6. È una guida all’espansione dell’esperienza: l’arte è una summa , immensamente sofisticata, delle esperienze di altri, presentate in una forma ben costruita e organizzata. Ci fornisce alcuni degli esempi più eloquenti dell’espressione delle altre culture — quindi la fruizione di opere d’arte espande la nostra idea di noi e del nostro mondo. In un primo momento l’arte ci sembra in gran parte «altro», ma scopriamo che essa può contenere al suo interno idee e atteggiamenti che possiamo fare nostri arricchendoci. Non tutto quello che serve a migliorarci è già attorno a noi.
7. È uno strumento di risensibilizzazione: l’arte rimuove la nostra scorza e ci salva dall’abituale indifferenza verso quel che ci circonda. Ci permette di recuperare la sensibilità, di guardare il vecchio in modo nuovo. Ci evita di pensare che le novità e la moda siano le uniche soluzioni.
Si sente spesso dire che «i musei sono le nostre nuove chiese»: in altre parole, in un mondo che si sta secolarizzando, l’arte ha sostituito la religione come veicolo di riverenza e devozione. È un’idea interessante, che fa parte della più ampia nozione per cui la cultura dovrebbe sostituire la Scrittura. In pratica, però, i musei presentano le collezioni loro affidate in forme che spesso li allontanano dalla possibilità di svolgere la funzione di chiese (luoghi di consolazione, meditazione, redenzione). Ci mostrano oggetti genuinamente importanti, ma sembra non siano in grado di organizzarli in modo da collegarli con forza ai nostri bisogni profondi.
(Traduzione di Maria Sepa)

Repubblica 9.11.13
Il vero Furore
Ecco il capolavoro di Steinbeck per la prima volta senza censure
Sforbiciato dal fascismo il romanzo simbolo della Grande Depressione non era mai uscito in versione integrale
di Simonetta Fiori


È considerato uno dei più bei romanzi del Novecento, ma in Italia ancora non lo conosciamo. Per settant’anni abbiamo letto un altro libro pensando che si trattasse diFurore, il capolavoro di John Steinbeck, l’opera che gli valse un Nobel e un mito lungo un paio di generazioni, oltre che una famosa canzone di Springsteen. L’odissea di Tom Joad e famiglia, ovvero l’esodo biblico dei contadini dell’Oklahoma rimasti senza terra e senza casa nell’America della Grande Depressione. Finora l’abbiamo letto in una versione tagliata che ne stravolge lo spirito e lo stile. Una riscrittura segnata da alterazioni, rimaneggiamenti e diluizioni che fa dire all’attuale traduttore Sergio Claudio Perroni: «Nella vecchia traduzione di Coardi non c’è traccia dell’originale di Steinbeck». Un epitaffio, che però appare sorretto da prove inoppugnabili.
Da oggi, dunque, chi non ha letto The Grapes of Wrathin lingua originale potrà ritrovarne la forza espressiva nella nuova edizione Bompiani curata da Luigi Sampietro, con la bella traduzione di Perroni che ha lavorato sui diversi registri del testo reintegrandone le pagine tagliate. Ma resta il caso clamoroso di una censura culturale lunga sette decenni, cominciata con la prima uscita diFurorein Italia, nel gennaio del 1940, XVIII anno dell’era fascista, e interrotta solo oggi. È anche la storia paradossale d’un testo che fin da principio fu accolto in modo ambivalente. Il suo debutto italiano contribuì ad alimentare quel mito americano che strappava un’intera generazione dalla palude autarchica voluta Mussolini. Il quale però acconsentì alla prima edizione Bompiani diFuroreperché funzionale alla battaglia contro le «demoplutocrazie » borghesi. Finché nel luglio del 1942 il ministero della Cultura Popolare respinse una nuova ristampa dell’opera, «essendo il contenuto incompatibile con le nostre idee». Anche i censori incamicia nera erano arrivati a percepirne la forza d’urto. E tutto questo nonostante la cloroformia sparsa dal traduttore Coardi.
E qui arriva l’aspetto clamoroso del caso Furore. Proprio quell’edizione italiana che allora fece scalpore, indignando Prezzolini per il linguaggio scurrile o facendo innamorare Vittorini per il «mistero dell’uomo», era di fatto molto lontana dall’originale di Steinbeck. E tale è rimasta fino a oggi. Una versione, quella resa da Coardi, che non solo annacqua l’incisività del parlato in un giro di frase tipico della prosa d’arte, ma arriva a sopprimerne i contenuti più dirompenti. Un intervento censorio di carattere moralistico più che direttamente politico, anche se poi l’addomesticamento complessivo risponde al conformismo dell’epoca. «I tagli», ci dice Perroni, «sono dettati da remore cattoliche nei confronti della spiritualità anomala di Steinbeck. Non è un caso che la figura più manipolata sia quella di Jim Casy, le cui iniziali sono le stesse di Jesus Christ. È una splendida figura di profeta malgré soi che esprime un mix tra animismo e panteismo, che poi è lo spirito alla base di tutto il romanzo». Anche i riferimenti sconci vengono sforbiciati, ma solo se accostati a una figura religiosa. Nella prosa prudente di Coardi sparisce il sesso del predicatore («Pa’ sarà contento di vederti. Diceva sempre che avevi l’uccello troppo lungo per fare il predicatore» si traduce in un più pudico «Il babbo vi vedrà volentieri»). E quando Jim Casy dialoga con se stesso, «thescrewing» («scopate») diventa «una malattia ». «Tra l’altro», interviene Perroni, «nell’originale ci sono pochissime parolacce. E l’accusa di romanzo osceno può trovare un appiglio quasi esclusivamente nell’immagine finale della ragazza che allatta il moribondo». A un certo punto salta anche una pagina sugli effetti sciagurati prodotti da una lunga carcerazione: non può essere letta come la censura di un regime che in galera ci spediva i dissenzienti? «Può essere. Ma qui come altrove il taglio è ispirato da una sorta di ritorno all’ordine, principio informatore di tutto il lavoro di traduzione. Come se, più in generale, si volesse edulcorare lo spirito di ribellione ai soprusi».
I taccuini di Perroni sono pieni di annotazioni critiche. Tagli cospicui senza motivo apparente. Ribaltamenti di senso o incomprensione del testo. Riscritture con assurde dilatazioni, «rese ancora più incomprensibili dal fatto che i tagli dell’originale avrebbero dovuto ridurre la foliazione». Libere interpretazioni con sistematica distruzione del timbro biblico- retorico («Sarete ladri se tenterete di restare, sarete assassini se ucciderete per restare» diventa un elaborato «Non capite che, se v’ostinate a restare, contravvenite alla legge sulla proprietà, e che se fate uso delle armi siete dei delinquenti?»). In questo pasticcio di “straduzione” è difficile trovare una ratio,se non un dubbio espresso da Anna Tagliavini in un documentato saggio suFurore: forse Coardi – che probabilmente è solo uno pseudonimo – non capiva bene l’inglese? Non tutti tra gli americanisti di quella generazione avevano dimestichezza con la lingua. Ma l’insipienza non basta a spiegare il taglio più clamoroso, la pagina dell’ultimo dialogo con “ Ma’ ” che ha fatto di Tom Joad un mito dell’antagonismo («Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare, io sarò là. Dove c’è uno sbirro che picchia, io sarò là...»). Zac. Sparito. Eppure Bruce Spreengsteen ci avrebbe costruito sopraThe ghost of Tom Joad («Now Tom said “Mom, wherever there’s a cop beatin’a guy//... Look for me mom I’ll be there”...»). Ma noi non ce ne siamo mai accorti.