sabato 7 maggio 2016

il manifesto 7.5.16
Archetipi dell’eternità
Filosofia. Come sono stati definiti gli archetipi del tempo dalla filosofia greca e dal cristianesimo, fino all’epoca della rivoluzione russa, una breve storia che si affaccia nell’abisso dell’infinito
di Raffaele K. Salinari

Che cos’è l’eternità? Cos’è il tempo? Possiamo conoscerli? Divenire noi stessi figure immutabili in un tempo che inesorabilmente muta? Ogni epoca ha costruito la sua visione dell’eternità, strumentalizzandola a fini politici o religiosi. Borges, nel suo Breve storia dell’eternità, ci parla di due grandi concezione del tempo, quella classica, con riferimento a Platone ed ai presocratici, e quella cristiana, a partire da Ireneo con l’affermazione del suo dogma trinitario.
L’eternità nella filosofia antica.
Nel libro III, 7 delle Enneadi, Plotino, l’ultimo maestro dell’antichità classica, riassume, dal suo punto di vista neoplatonico, o forse post platonico, la concezione classica della relazione tra eternità e tempo. L’egizio parte da una affermazione radicale: se vogliamo comprendere il tempo dobbiamo prima indagare le natura dell’eternità poiché questa è sia il suo immobile contenitore sia il suo contenuto.
Per i «filosofi sovraumani», come Giorgio Colli definisce i presocratici, Parmenide, Eraclito, Anassimandro, Anassimene, Empedocle, l’eternità è tutt’uno con l’Essere, l’Uno, cioè il Principio intelligibile che viene «prima di tutto ciò che esiste». Per Plotino esso ha creato la realtà fenomenica del cosmo per emanazione, per estasi, cioè uscendo fuori di sé, ma venendo a sua volta ricreato attraverso il ritorno a se stesso dell’essenza divina presente in ogni forma della creazione: “Infatti il mondo intelligibile e l’eternità contengono entrambe le stesse cose” dice al punto 7,2 della terza Enneade. “L’occhio con il quale io guardo Dio, è lo stesso occhio con il quale Dio guarda me; il mio occhio e quello di Dio sono lo stesso occhio, lo stesso vedere, e riconoscere ed amare”, ripeterà secoli dopo il mistico Meister Eckhart. E dunque, in questa concezione circolare di continua creazione e ricreazione dell’Uno da parte del creato, non esiste nessuna differenza tra l’Essere e l’eternità dato che, riprendendo la definizione platonica del Timeo, esso «non era, né sarà, ma è».
Riferisce Eustochio, suo medico e allievo, che prima di morire, coerente con questa visione del circolo ermeneutico dell’Essere da parte degli esseri, in altre parole della rigenerazione della Zoé al di fuori del tempo, da parte delle sue Bìos create nel tempo, Plotino abbia esclamato: “Sforzatevi di restituire il Divino che c’è in voi stessi al Divino nel Tutto”.
E così il tempo altro non è che un momento di eternità in movimento che si affanna nella sua corsa a spirale intorno all’anima delle cose e le rende così transeunte. Ogni cosa creata è soggetta alla morte poiché esiste nel tempo e con esso si muove: trascorre attraverso i suoi momenti sempre diversi anche se scaturiti dalla stessa eterna essenza. Come ricorda Eraclito «tutto scorre, non ci si può bagnare due volte nell’acqua dello stesso fiume». Solo l’increato quindi, l’Essere, è immerso pienamente e stabilmente nella sua eternità che di esso è un attributo essenziale.
E allora, se così stanno le cose, come ricomporre la scissione fenomenica tra Creatore e creatura, come ripristinare l’unità del cosmo, l’intima compenetrazione tra l’essenza comune e le esistenze particolari da essa generate? In altre parole: come far convergere in un unico punto metatemporale eternità e tempo?
Dice Borges commentando l’apparente aporia: “Questa avvertenza preliminare, tanto più grave se la riteniamo sincera, sembra annientare ogni speranza di intenderci con l’uomo che la scrisse (Plotino). Il tempo è per noi un problema, un inquietante ed esigente problema, forse il più vitale della metafisica: l’eternità, un gioco o una faticosa speranza”. Lo scrittore argentino passa poi a considerare la possibile soluzione del problema analizzando in primis il senso in cui il tempo si muoverebbe. Ma questa strada porta soltanto al punto di partenza: come in un labirinto circolare. L’autore dell’Aleph afferma che nulla ci è dato sapere di certo del tempo se non che esso scorre; forse dal passato verso il futuro, come comunemente si avverte, ma anche, perché no, dal futuro verso il passato: «notturno il fiume delle ore scorre dalla sua fonte che è il domani eterno» recita un verso di Miguel de Unamuno.
Per alcune scuole filosofiche indiane addirittura il tempo presente non esiste dato che «l’arancia sta per cadere dal ramo, o è già a terra: nessuno la vede cadere». In Altre inquisizioni il già direttore della Biblioteca Nazionale Argentina introduce poi, come ulteriore elemento di complessità, l’evidenza che se il tempo è un processo mentale «come possono condividerlo migliaia di individui, o anche due soli di essi?». Non abbiamo prove di nessuna di queste ipotesi o paradossi, conclude, se non l’unica certezza generica – ma il generico può essere più intenso del concreto ci ricorda Rilke – del suo fluire entro quella stessa eternità che sembra averlo generato.
Ed ecco che Plotino, a questo punto disperante e disperato, introduce forse il vero argomento della sua speculazione filosofica, la sua versione ante litteram di quella che Severino Boezio, tre secoli dopo, nel 525, in attesa dell’esecuzione capitale, riprenderà nel suo De philosophiae consolatione con la celebre definizione: “Aeternitas est interminabilis vitae tota et perfecta possesio”. La domanda dell’antico maestro di Licopoli è infatti la stessa dell’antimoderno maestro di Buenos Aires: “Bisogna dunque che anche noi partecipiamo dell’eternità, ma come se siamo nel tempo?”. La risposta plotiniana è sconvolgente: non si tratta di capire l’eternità attraverso la comprensione della misura o del senso del tempo che in essa e da essa fluisce, quanto di comprendere che il tempo è la vita dell’anima e che essa, discendendo direttamente dall’Essere, è il nostro tramite per l’eternità.
Qui, la suggestiva espressione di Keatz «fare anima», ripresa da Hillman per illustrare la sua concezione psicanalitica dei miti greci, assume un significato di merito e di metodo. Il problema è che l’anima è preda di una «potenza inquieta» che la distoglie dalla percezione dell’Essere e la riporta continuamente «a far passare in altro» ciò che invece si deve contemplare estasiandosi: in questo modo perverso il tempo «imita soltanto l’eternità volgendosi intorno all’anima, sempre disertore di un passato, sempre anelante l’avvenire».
Che fare? Poiché necessariamente il tempo è immagine dell’eternità, l’anima deve vivere la sua relazione con le cose sensibili così come il tempo vive la sua relazione con l’eterno; in altre parole «fare anima» significa l’estasi di fronte al Mondo, il ritrovare lo stupore infantile nei confronti del creato. Solo questa estasi terrena, analoga a quella che l’Essere ha vissuto quando, uscendo da sé, ha generato il Cosmo, può riportare l’anima al suo creatore immergendola nell’eternità e così contribuire a rigenerarla.
È dunque il tempo estatico quello che riunisce in un unico momento metatemporale tempo ed eternità. Da cosa partire per estasiarsi? Qui l’autore delle Enneadi riprende il filo del suo maestro Platone e ci ricorda che la Bellezza è l’anima del Mondo: Afrodite, l’anadiomenon, la sempre rigenerata dalle acque delle creazione – dalla spuma (afros in greco) nata attorno ai genitali di Urano, come narra Esiodo nella sua Teogonia – è il veicolo che ci farà estasiare al suo cospetto. Eros, il grande daimon della creazione vitale, ci spingerà oltre l’apparenza delle forme che scorrono per svelarci l’essenza ontologica della Bellezza. Come per Platone, anche per Plotino la follia che viene dalle Ninfe sarà la strada verso il ricongiungimento con l’Uno.
I posseduti dalle Ninfe, i «linfatici», come li chiamavano i latini (lymphaticos), e come sino alla prima metà del secolo scorso venivano chiamati i bambini dall’incarnato pallido, tendenzialmente gracili e psichicamente sensibili, sognatori propensi a perdersi vivendo i loro stessi sogni ad occhi aperti – tra i quali i medici annoveravano lo scrivente – costoro, dicevamo, sono allo stesso tempo immersi in una felicità ineffabile, estatica, che Aristotele, nella sua Etica a Eudemo, chiama eudaimonía, per distinguerla qualitativamente dagli altri quattro tipi di felicità: «O forse la felicità non può venire a noi in nessuno di questi modi, bensì in due altri, e cioè o come accade ai nymphólēptoi e ai theólēptoi, che entrano come in una ebbrezza (enthousiázontes) per ispirazione di un essere divino, o altrimenti attraverso la fortuna (molti infatti dicono che la felicità e la fortuna sono la stessa cosa)».
Per ciò felicità e fortuna condividono la stessa natura, come lo stato di chi è posseduto dalle Ninfe o da un dio. Qui bisogna ribadire che, per i Greci, e dunque anche per l’ellenizzato Plotino, la possessione divina era una modalità primaria per accedere alla conoscenza dell’Invisibile, della «prima materia» della quale sono composte tutte le cose, l’essenza immutabile del Mondo.
Ed è proprio di questa essenza che sono fatte le Ninfe, espressione archetipica delle potenze elementari e soprattutto metamorfiche, come il tempo che scorre e cambia la forma esteriore delle cose. Il tempo «grande scultore» come scriveva Marguerite Cleenewerck de Crayencour, al secolo Marguerite Yourcenar. Come Eros, fluido nella forma, ed Afrodite dai dardi più veloci nata dalla spuma spermatica, le Ninfe sono l’eternità ed al contempo ce la offrono: il mutevole dell’Invisibile che ha l’acqua come elemento materiale; le fonti e i fiumi come labirinti nei quali perdersi, il mare e gli stagni come occhi che ci mirano insonni, sono tutte immagini di essa.
La seconda eternità
«Il miglior documento sulla prima eternità è il quinto libro delle Enneadi, sulla seconda, o cristiana, l’undicesimo libro delle Confessioni di sant’Agostino». Così Borges chiarisce il passaggio dalla visione classica a quella cristiana dell’eternità. La nuova religione universale non poteva imprimere il suo sigillo all’eternità, far coincidere l’Evo cristiano con una nuova concezione monoteista del tempo. La visione platonica del rapporto tra eternità e tempo subisce dunque una mutazione drammatica in seguito alla nascente egemonia culturale del cristianesimo.
L’eternità cristianizzata è il prodotto dell’incontro tra le tre figure trinitarie. Primo Artefice di questa mutazione ontologica che la allontana dalla diretta contemplazione dell’umanità per sottometterla al divino, è Ireneo (130-202), martire sotto l’imperatore Marco Aurelio e Padre della Chiesa. Il vescovo di Lione decreta dal dirupo di Fourvière, l’antico sito romano di Forum vetus, che il Verbo è generato dal Padre, lo Spirito santo è prodotto dal Padre e dal Verbo (il Cristo); da queste due innegabili operazioni dogmatiche, ci fa notare Borges: “Gli gnostici solevano inferire che il Padre era anteriore al verbo, ed entrambi allo Spirito: questa inferenza, dunque, dissolveva la Trinità: Ireneo chiarì che il duplice processo – generazione del Figlio dal Padre, emanazione dello Spirito da ambedue – non accadde nel tempo, ma esaurisce di colpo il passato, il presente e l’avvenire. Il chiarimento prevalse ed ora è dogma. Così fu promulgata l’eternità, prima tollerata appena all’ombra di qualche screditato testo platonico”.
Ireneo concepisce e sancisce in questo modo, per confutare una eresia che poteva rivelarsi esiziale per la Chiesa paolina, un «atto senza tempo» che crea l’eternità. E dunque, per il cristiano, il primo momento coincide con la creazione che a sua volta non esiste se non nella volontà dell’Onnipotente di farla esistere. Quindi l’eternità altro non può essere che uno degli attributi divini. Le cose temporali, tra cui l’umanità, si distinguono allora da quelle divine per il fatto che sono prive di potenzialità creativa. Questo significa, in sostanza, che il tempo degli uomini non è commensurabile a quello trinitario, che così resta imperscrutabile e misterioso per definizione: non vi è partecipazione all’eternità se non indirettamente attraverso l’atto di fede che essa esiste poiché creata da Dio. Come scrisse riassumendo mirabilmente questa terribile distanza tra tempo umano e tempo divino San Paolino: “Toto coruscat trinitas mysterio”, cioè rifulge la Trinità in un totale mistero.
L’eternità teandrica di Florenskij
Ma nonostante il predominio metafisico che la Chiesa cattolica ha esercitato per secoli sull’eternità attraverso il dogma trinitario – un vero e proprio trattato di «teratologia intellettuale» lo definisce l’ineffabile Borges – nella Russia dei primi del Novecento, insieme al movimento simbolista e, più profondamente ancora, dalle radici della mistica ortodossa, nasce un autore che, senza in apparenza rinnegare, anzi con una massimo di affermazione della sua fede religiosa, spinge sulla barriera dogmatica e riapre le porte della patristica verso un orizzonte che travalica l’angusta visione trinitaria per ridare all’umanità, ma più in generale alla Creazione, un ruolo comprimario a quello del Creatore. Questo personaggio è Pavel Florenskij, il Leonardo russo: l’uomo che studierà il transfinito matematico per metterlo al servizio della riconciliazione tra eternità e tempo.
Autore di profondissima fede spirituale, Pavel Florenskij segue il ragionamento neoplatonico andando ben oltre le proposte di Plotino e di sant’Agostino. Egli esplora il tema del rapporto tra tempo ed eternità riconducendolo a quello, analogo, tra l’uno ed il molteplice, tra finito ed infinito. Per l’ingegnere-sacerdote ortodosso, responsabile per un lungo periodo dei programmi di elettrificazione dell’Unione sovietica staliniana, le forme sensibili, cioè la realtà in atto del Mondo, sono le porte verso l’intelligibile assoluto, sono simboli che ci portano alla contemplazione della profondità enigmatica del Mondo sino a «scorgere l’unità del finito e dell’infinito», cioè del tempo con l’eternità, l’unità integrale della conoscenza.
La visione di Florenskij è di una originalità estrema, anche perché vissuta con coerenza sino alle ultime conseguenze. Internato in un gulag per non voler abbandonare la sua veste talare, sarà infine fucilato nel 1937 e la sua opera scomparirà negli archivi del KGB sino agli anni Novanta del secolo scorso. Nel freddo glaciale delle isole Solovki scrive ai figli: “Che cosa ho fatto per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà compatta, ma ad ogni tappa della mia vita da un determinato punto di vista […]. Le sue angolature mutano, l’una arricchendo l’altra”.
Il clima culturale in cui si sviluppa la Weltanschauung integrale di Florenskij è sia quella del cristianesimo ortodosso russo dunque, molto vicino alle radici platoniche e altrettanto distante da quello romano, sia l’elaborazione matematica di Cantor sui numeri transfiniti che introduce nuove definizioni e mezzi di comprensione degli infiniti matematici. Qui, ai primi del Novecento, in pieno clima rivoluzionario, troviamo pensatori come Vladimir Solov’ëv padre di quel «realismo mistico» che poi padre Florenskij elaborerà sino alla visionarietà, proponendo la fusione tra tempo ed eternità attraverso il processo della «unitotalità», vsejedinstvo in russo.
Questa è allora la sua risposta alla domanda su come vivere l’eternità nel tempo: la convinzione che non solo l’umanità, ma tutti i fenomeni del Mondo, quelli animati e quelli inanimati, quelli coscienti consapevolmente e quelli che ancora non lo sono e, spingendosi molto oltre, tutto il Cosmo, siano chiamati a partecipare ontologicamente al graduale processo di costruzione dell’unità del tutto. In altre parole l’eternità non sarà in atto sinché tutti i fenomeni da essa prodotti nel tempo non formeranno un organismo universale, una «unitotalità» in cui ogni distinzione verrà annullata e non esisteranno più né il tempo né l’eternità.
Questo organismo cosmo-teandrico, come lo definisce Florenskij cioè alla coincidenza tra il divino (teos) e l’umano (andros), è allora il punto di convergenza e di sintesi tra le grandi intuizioni dell’idealismo tedesco di Schelling, Fichte, dello stesso Hegel, e il pensiero di scrittori abissali quali Dostoevskij e il movimento dei simbolisti russi.
«Dentro di noi portiamo il transfinito, il sovrafinito, noi – il kosmos – non siamo qualcosa di finito, di direttamente opposto alla Divinità: noi siamo transfiniti, siamo in mezzo tra il tutto ed il nulla». Così l’autore si esprime in merito alla sua intuizione della relazione tra l’eternità ed il tempo, tra il finito e l’infinito, nel I simboli dell’infinito.
Anche la sua concezione del microcosmo umano è coerente con la visione teandrica del macrocosmo: «l’uomo è parte del mondo, ma allo stesso tempo egli è complesso tanto quanto lo è il mondo. Il mondo è parte dell’uomo, ma anche il mondo è complesso quanto lo è l’uomo». La relazione tra creato e creatura, tra infinito e finito è tutta riconducibile e questa «interrelazione sostanziale».
Il soma dunque, il nostro fenomeno immerso nel tempo, si presenta agli occhi del matematico russo come un vero e proprio simbolo dell’eternità (soma-sema) dato che «il nostro corpo è infinitamente più profondo di quanto lo ritenessero il materialismo e il positivismo da un lato, e lo spiritualismo dall’altro. Alla sua base la fisiologia è assolutamente mistica, è la base della religione di tutta l’umanità… il nostro corpo esperisce misticamente il mondo intero».
E qui, con un balzo difficilmente immaginabile senza la capacità visionaria di collegare pensiero scientifico e misticismo, finito ed infinito, unità e pluralità, Florenskij fa collassare su se stesso il dogma trinitario, senza negarlo o rinnegarlo ma anzi portandolo a potenza, distillandone l’essenziale unisostanzialità come infinito rispecchiamento tra tutte le forme del cosmo.
«Il simbolo mi è sempre stato caro nella sua immediatezza, nella sua concretezza, nella sua carne e la sua anima. In ogni vena della sua carne io volevo vedere, cercavo di vedere, e credevo di poter vedere l’anima, la sola sostanza spirituale. Il positivismo mi disgustava, ma non meno la metafisica astratta. Io volevo vedere l’anima, ma volevo vederla incarnata».
Da questa tensione insonne, indomita, da questo intento visionario che travalica l’antinomia tra verità dogmatica e intuizione simbolica, nasce l’idea della homoousìa cioè dell’unisostanzialità trinitaria come vera e propria provocazione del pensiero, un avvicinamento totale tra significato e significante, tra corpo e anima, tra eternità e tempo.
Come fa notare Natalino Valentini nella sua bella introduzione al volume Il simbolo e la forma sui saggi scientifici dello scienziato russo: “Nel simbolo Florenskij coglie quel tipo di incarnato di realtà fisico–spirituale in cui è espressa direttamente l’antinomicità dell’essere, l’unità e la non riconducibilità di fenomeno e noumeno, di visibile ed invisibile, razionale e mistico”
Al proposito, chiosa il filosofo Choruzij, tra i commentatori più acuti di Florenskij, «l’Essere-Cosmo si struttura integrandosi».
E dunque, in conclusione, l’essere nel tempo struttura il tempo dell’essere, il tempo l’eternità, l’eternità il tempo, la vita particolare quella universale, la vita del cosmo quella delle sue parti, in una ricerca di totalità che alla fine cancellerà ogni distanza. Come esclama Jack Kerouac in Satori a Parigi: «Quando dio dirà: Ho vissuto!, dimenticheremo tutte queste storie di separazione».
il manifesto 7.5.16
Shakespeare va ad Hollywood
Anniversari. Secondo il Guinness dei primati le opere dello scrittore sono le più adattate al cinema e in tv con quattrocentoventi rifacimenti
di John Bleasdale

Edizione del
07.05.2016

Immaginate William Shakespeare che va a Hollywood. Cosa potrebbe accadere? Si tratterà di uno scontro tra la cosiddetta «cultura alta» e quella commerciale? Una lotta del poeta inglese più celebrato contro i soldi sporchi dello spettacolo? L’artista geniale sarà distrutto dalla macchina industriale dei sogni? No. William Shakespeare a Hollywood si troverebbe proprio bene. Naturalmente, il suo agente avrebbe qualcosa da ridire sul trasloco: «Ma William, là non ci sono storie originali. Tutto è stato fatto e rifatto mille volte». «Va benissimo», gli risponderebbe Shakespeare: «anch’io rubo quasi tutto. Da Holinshed per i drammi storici, da Plutarco per quelli classici romani, e anche dai romanzieri italiani ora dimenticati per le mie commedie, e non do a nessuno alcun credito». «Però William, lì si trovano solo sequel e franchise … » «Meglio ancora», risponderebbe il bardo: «sono stato io a iniziare ad usare i numeri romani; prima di Rocky II, c’erano Riccardo II, Riccardo III. Hunger Games: il canto della rivolta parte 2? Io ho fatto Enrico IV parte 2 quattrocento anni fa. E l’idea degli spin-off che prende un personaggio popolare per farne un film ‘stand alone’? «Già fatto! Quando la gente impazziva per la mia creatura comica, Falstaff, io scrissi un dramma tutto suo: Le allegre comari di Windsor». E così Shakespeare va a Hollywood e oggi lavora per la Marvel con qualche serie televisiva in fase di svilluppo per HBO.
E Hollywood ricambia l’affetto, ma non solo. Secondo il Guinness libro dei primati William Shakespeare è l’autore più adattato nella storia del cinema. Dai classici del cinema muto ad oggi ci sono state più di quattrocento versioni delle opere Shakespeariane sugli schermi grandi e piccoli, iniziando proprio nell’anno 1900 con un Amleto francese e la famosa attrice Sarah Bernhardt. Akira Kurosawa ha creato forse i due adattamenti più ammirati con il suo Trono di Sangue, un matrimonio sanguinoso fra la tragedia brutale di Macbeth e l’antica tradizione teatrale giapponese ‘No’; e Ran, bellissima versione jidaejeki di Re Lear ambientata nel Giappone feudale. Non essere strangolati dai versi in lingua originale è un vantaggio. Le versioni in lingua originale devono sempre avere il coraggio di tagliare parole e discorsi scritti dall’autore più famoso della letteratura inglese. Abbiamo avuto il campione della tradizione teatrale inglese, Laurence Olivier che ha vinto la seconda guerra mondiale con l’Enrico V nel 1944 e poi l’Oscar con il suo Amleto nel 1948. Il suo figlio d’arte Kenneth Branagh ha tentato di esorcizzare il fantasma di suo «padre» con la sua versione di entrambe le opere, poi con altre tre da regista e altre ancora come attore soltanto. Il suo Amleto del 1996 ha temerariamente fatto vedere una versione integrale, anche se rimane il dubbio che Shakespeare stesso abbia mai vista una versione completa sul palcoscenico durante la sua stessa vita – ‘le due ore di traffico sul palcoscenico’ a cui si riferisce il Prologo di Romeo e Giulietta non sono un caso, e la versione di Branagh raddoppia questo numero aggiungendo perfino qualche minuto in più. Branagh non è stato il primo né sarà l’ultimo a farsi travolgere dalla passione per la lingua di Shakespeare. Ne L’ultima tempesta di Peter Greenaway John Gielgud – forse l’attore teatrale classico più noto della storia – recita Prospero ma recita anche quasi tutti gli altri ruoli, un mago innamorato della sua stessa voce che trasforma il mondo intero in un monologo. Greenaway appartiene all’ala più sperimentale del cinema britannico – Derek Jarman ha realizzato anche una versione punk della Tempesta – ma Shakespeare è spesso la fonte per un cinema di prestigio come i film di Branagh, Il mercante di Venezia di Michael Radford o le versioni firmate da Franco Zeffirelli che vede le opere come artefatti di lusso, tessuti ricchi e splendenti, con una star o due ad affollare la scena, e rispettoso al punto da essere fatto quasi apposta per gli studenti di liceo. L’esempio più estremo lo troviamo nella nuova versione di Romeo e Giulietta dal creatore di Downton Abbey, che ha preso in prestito il fascino ma senza la fatica della parola shakespeariana.
Torniamo invece ad Hollywood dove Shakespeare viene preso un po’ meno con le pinze. C’è sempre stato un senso di liberazione nei confronti di Shakespeare – da quando Il sogno di una notte di mezz’estate mostrava James Cagney nel ruolo di Bottom, o dal magnifico Marc Antony di Marlon Brando nel Giulio Cesare o la versione di fantascienza della Tempesta, Il pianeta Proibito. Il regista americano più riuscito, più shakespeariano fu il maverick Orson Welles con Macbeth, Otello e il suo capolavoro Falstaff, in cui diverse opere vennero tagliate e ricucite insieme in una confezione magnifica. Due anni prima della maratona di Amleto firmata Branagh, Disney ne fece una versione più simpatica ed intensa con il Re Leone. Anche nel 1996, Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann uscì nelle sale come una ventata di aria fresca, una versione che guardava dall’altra parte, giovane, piena di sesso e droga, un cuore che batte ad un ritmo fra il pentametro giambico e l’ Hip-Hop, il testo ridotto all’ essenziale e la giovane e sfavillante bellezza di Claire Danes e Leonardo di Caprio.
L’innamoramento di Hollywood nei confronti del Bardo inglese è più forte che mai. Le nuove versioni di classici, come il Macbeth dell’ australiano Justin Kurzel, o di opere meno conosciute, come il Coriolano di Ralph Fiennes e il Cimbelino di Michael Almereyda, regista di Amleto 2000 di qualche anno fa ne sono la prova. Joss Whedon vuole realizzare un film veloce tra un Avengers e un altro – e cosa fa? Gira Much ado about nothing in un paio di settimane. Il showrunner di Buffy e il regista preferito della Marvel trova in Shakespeare un collega, un contemporaneo.
Repubblica 7.5.16
Il progetto e il sogno
Per affrontare il futuro serve un doppio sguardo: il primo ravvicinato, per programmare ogni aspetto. Il secondo lungimirante e visionario. Da giovedì 12 il tema è al centro della rassegna di Torino
“Non abbiamo invitato utopisti astratti e fumosi, ma persone concrete, che vedono al di là dei limiti del presente”, dice Ernesto Ferrero
di Stefania Parmeggiani

Scrittori, poeti, storici, filosofi, editori ma anche uomini di scienza. Così tanti come non si erano mai visti nelle edizioni precedenti. E non è casuale: il Salone del libro di Torino, dal 12 al 16 maggio al Lingotto, ha deciso di superare l’equivoco intellettuale che vuole la cultura umanistica divisa da quella scientifica. E di farlo chiamando a raccolta i visionari, cioè quelle persone che sanno spingere lo sguardo nel futuro, oltre l’orizzonte che noi tutti vediamo. «Abbiamo scelto il tema “Visioni” come una provocazione», spiega Ernesto Ferrero, direttore editoriale del Salone. «Viviamo in un Paese appiattito sul presente, incapace di guardare lontano. In politica, ad esempio, si gioca tutto sulle prossime scadenze elettorali. Non abbiamo invitato degli utopisti astratti e fumosi, ma visionari molto concreti».
E così accanto ai grandi ospiti internazionali, dall’americana Marilynne Robinson al premio Nobel per la pace Shirin Ebadi e ai protagonisti della cultura araba, ci saranno uomini di scienza e divulgatori. Visionari come il fisico Roberto Cingolani, direttore dell’Istituto italiano di Tecnologia e l’astronauta Samantha Cristoforetti, ma anche come Guido Tonelli, responsabile dell’esperimento che al Cern ha permesso di scoprire, con quello di Fabiola Gianotti, il bosone di Higgs. E ancora Renato Bruni, docente di botanica a Parma, Carlo Ratti, che dirige il Senseable City Lab di Boston indagando le città del futuro, e gli imprenditori Marino Golinelli e Brunello Cucinelli. Persone con sapienze diverse ma che ognuna a suo modo si è distinta per la capacità di affrontare in modo creativo i temi cruciali del presente. A volte unendo alle proprie competenze l’abilità di narrare il pensiero scientifico. È il caso di Carlo Rovelli, fisico teorico di fama mondiale, autore del bestseller Sette lezioni di fisica (Adelphi). «La scienza prima di essere tecnica è sempre visionaria», spiega, «perché il suo sforzo è trovare strumenti concettuali migliori per comprendere il mondo. Non si tratta solo di fare conti e prendere misure, ma di creare ed elaborare pensieri nuovi».
E la letteratura? «Fa la stessa cosa. Utilizza altri strumenti e altri metodi, ma permette di comprendere meglio l’uomo e la società». E, infatti, tra i visionari ci sarà pure Marco Malvaldi, giallista e chimico, che per anni ha esplorato le proprietà fisiche della materia. Al Salone farà un excursus storico che dimostra come scienza e poesia, da Omero e Borges, siano riuscite a mettere in campo un’alleanza profetica nell’antivedere le invenzioni più sofisticate. Tema al centro del suo ultimo libro L’infinito a portata di mano (Rizzoli). «I visionari, che siano poeti o scienziati poco importa», dice, «hanno la stessa capacità di osservare il mondo e di porsi domande. Non si tratta di talento, ma di una capacità immaginativa che si può allenare, soprattutto nei primissimi anni di vita». Solo dopo avere lasciato libera la fantasia entrano in gioco le specificità dei diversi linguaggi e la capacità di verificare un’ipotesi. «Albert Einstein, molto prima di formulare la teoria della relatività ristretta», ricorda, «aveva immaginato di cavalcare un raggio di luce».
«La letteratura quando è vera è sempre predittiva», aggiunge Chiara Valerio, scrittrice di formazione scientifica che nel suo romanzo Almanacco del giorno prima (Einaudi) aveva dato corpo a un broker che compra l’assicurazione sulla vita di chi non se la può più permettere. «Quando ho scoperto che esistono persone che speculano sulla vita degli altri ho ripensato a Le anime morte di Gogol: Cicikov acquista i nomi dei contadini morti dopo l’ultimo censimento. È un esempio chiarissimo di come la letteratura sappia anticipare la realtà, essere predittiva e quindi visionaria». Gli scrittori dunque, ma anche Carlo Petrini, che festeggia i trent’anni di Slow Food, il filosofo Michel Serres, lo storico d’arte Philippe Daverio, il fotografo Oliviero Toscani, l’antropologo Marc Augé, l’architetto Stefano Boeri, lo storico Carlo Ginzburg... «Ognuno a suo modo», spiega Ferrero, «è una persona capace di vedere al di là dei limiti del presente, cosa che possiamo dire anche degli editori. Almeno di quelli che non si limitano a seguire il mercato, ma costruiscono il loro catalogo con lungimiranza».
Al Lingotto saranno oltre mille gli editori e tra di loro pure Amazon, che debutta con il nuovo marchio di editoria cartacea APub. Ognuno parteciperà con i suoi autori, traduttori ed editor agli oltre 1.200 appuntamenti in programma. Molti sono proiettati al futuro, altri organizzati per rendere omaggio ad alcuni tra gli scrittori più visionari mai esistiti: Ludovico Ariosto, di cui si festeggiano i 500 anni dalla prima pubblicazione dell’Orlando Furioso, William Shakespeare, che a 400 anni dalla morte sarà ricordato con alcune letture di Massimo Popolizio, e Miguel de Cervantes, di cui ricorre il quarto centenario della morte.
Repubblica 7.5.16
“Aboliamo dalle leggi il concetto di razza”
L’iniziativa di un gruppo di antropologi divide il mondo della cultura
di Simona Poli

Non è soltanto politicamente scorretta. Non ha solo un suono molesto e un background ideologico ripugnante. La parola “razza” andrebbe cancellata dall’articolo 3 della Costituzione e da tutti i documenti ufficiali per il semplice motivo che le razze umane non esistono. Quel termine sarebbe una mistificazione, un errore, un significante senza significato, la veste semantica di un concetto fittizio. A sostenerlo sono alcuni studiosi della Società antropologi italiani che si riunisce oggi a Firenze per discutere la
proposta. Ma il fronte è spaccato. A sostenere la necessità di un radicale intervento di soppressione del termine razza dal lessico istituzionale e giuridico italiano sono stati gli antropologi romani Olga Rickards e Gianfranco Biondi in un articolo pubblicato sulla rivista on line Scienzainrete. «Siamo convinti che la parola razza vada abolita anche dalla Costituzione », dice Olga Rickards, «come del resto è stato fatto in Francia, proprio perché non esiste un’evidenza scientifica della razza, un termine che già Linneo utilizzò come sottocategoria classificatoria. La parola sopravvive adesso senza motivo, dato che alla fine degli anni Sessanta è stato stabilito che il grado di differenza all’interno del Dna umano è enorme ma se mettiamo a confronto i codici genetici di individui provenienti da continenti diversi la variabilità aumenta solo del 10 per cento. Potremmo parlare di “popolazioni geografiche” e non più di razze». L’idea però non ha trovato grande seguito finora. «Il nostro intento è di poter uscire con un documento unitario degli antropologi che farebbe molto più rumore», dice Rickards. «Dobbiamo essere consapevoli del fatto che rimuovere ogni riferimento a una visione della diversità razziale dal documento che ispira il nostro vivere civile è importante non solo per la sua valenza simbolica ma anche per togliere forza all’uso di un termine che inevitabilmente evoca pregiudizi».
Non la pensa allo stesso modo Luigi Capasso, docente all’università di Chieti, che della Società Antropologi Italiani è il presidente. «L’articolo 3 della Costituzione », è la sua tesi, «utilizza il termine razza in senso antidiscriminatorio, garantendo a tutti i cittadini pari dignità sociale e uguaglianza davanti alla legge senza distinzioni. Nessuno potrebbe mai fraintendere quello che i costituenti si ponevano come obiettivo. Se è vero che “razza” è una brutta parola non sempre è vero che sia anche negativa e questo è uno di quei casi. C’è una scuola di pensiero che vorrebbe sostituirla con “etnos”, sicuramente più elegante ma non sovrapponibile. E non è certo un caso che la Costituzione la contenga, non dimentichiamo che nel 1929 fu firmato il Manifesto della razza e che si è volutamente messo all’indice la “razza ebraica” confondendo la diversità religiosa o culturale con una presunta diversità biologica. L’incontro di Firenze servirà a sviluppare il dibattito e a prendere una decisione unitaria, o quanto meno di maggioranza, sull’opportunità di avanzare o meno una proposta concreta al presidente Mattarella, cosa che finora non siamo riusciti a fare».
La Crusca dà indicazioni precise. «Non toccherei la prima parte della Costituzione», avverte il presidente dell’Accademia Claudio Marazzini. «È fin troppo chiaro che qui il termine non è utilizzato in senso divisivo e che nei principi generali si stabiliscono fondamenti di uguaglianza. Mi sembra che non si tratti solo di una questione di linguaggio ma anche di civiltà giuridica, nel senso che la parola, anche se non piace agli antropologi, poggia su un sentimento comune». Il linguista Tullio De Mauro inquadra la complessità della questione: «Quella parola non ci piace e vorremmo evitarla ma non possiamo ignorare che abbia un riferimento biologico e in quel contesto venga usata senza preoccupazioni di correttezza politica. Nel Grande dizionario italiano dell’uso abbiamo cercato di limitare al minimo la sua presenza, adoperando “gruppo etnico o geografico”. Però non modificherei mai la Costituzione per questo. Che fine farebbero senza più la parola razza i derivati come razzismo o leggi razziali? Cerchiamo di non essere razzisti piuttosto che cancellare dal mondo la parola razza».
I dubbi di Capasso però vanno oltre: «Ci sono realtà come l’Agenzia italiana per il Farmaco in cui si fa largo uso della parola “razza” come sintesi del concetto di biodiversità umana con una conseguente tendenza a “personalizzare” varie medicine in base alle caratteristiche dei loro destinatari differenziati in base, ad esempio, alla provenienza geografica». Il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell’università di Tor Vergata, propone di sostituire razza con “gruppo etnico”: «L’equivoco nasce dal problema dell’inglese che non riesce a trovare un sinonimo per il termine “race” ma le razze negli esseri umani non esistono. Esiste solo un’immensa variabilità genetica. In fondo la questione è molto semplice. Peccato che di questo problema gli scienziati non discutano tra loro. Per quanto mi riguarda ne parlo nei convegni e agli studenti dalla cattedra. Ma in Italia purtroppo riusciamo a fatica a farci ascoltare».
Corriere 7.5.16
Faustus scende all’inferno
di Giorgio Montefoschi

«Vengo a parlare d’affari», dice il diavolo a Adrian Leverkhun, protagonista del Doctor Faustus — il romanzo di Thomas Mann che oggi rileggiamo nella magnifica nuova traduzione di Luca Crescenzi — quando, improvvisamente, si materializza sul divano della casa di Palestrina nella quale il giovane musicista tedesco si è ritirato per concentrarsi nel lavoro, insieme all’amico poeta Rudiger Schildknapp. È un ometto basso, cereo (simile a quello che compare sulla panchina del Maestro e Margherita ), coi capelli rossicci, un naso ricurvo, un berretto sportivo, scarpe gialle, una ridicola giacca a quadri. La sabbia nella clessidra che misura il tempo della tua vita — spiega a Adrian con quella sua voce articolata da attore che accompagna il gelo — ha incominciato a scorrere. La nostra offerta è il tempo. Noi vendiamo tempo. Diciamo, 24 anni di suprema illuminazione creativa, di sfrenatezza intellettuale, di potenza, di trionfo, e in aggiunta di ammirazione per ciò che realizzerai. La tua ispirazione sfonderà i limiti, le convenzioni e le rigidità della cultura; avrai il coraggio della barbarie; sarai rapito dal brivido del sublime; verserai fiumi gioiosi di lacrime. In cambio, non dovrai amare nessun essere umano. L’amore — se accetti il nostro patto — dovrà essere escluso dalla tua vita. Ma questa è la sola esistenza possibile per una mente superba e orgogliosa come la tua, desiderosa di raggiungere l’estasi. Adrian è sconvolto. «Quello che mi preparate su questa terra», chiede all’ometto che, intanto, ha mutato sembiante due volte, «non è un anticipo dell’inferno?». Poi, perde i sensi.
È la scena culminante e terribile (altre, terribili, seguiranno) del più grande e meraviglioso libro sulla hybris — la parola greca intraducibile, nella quale si concentrano la superbia, la sfida, l’ardire, l’arroganza dell’uomo — che sia stato scritto nel Novecento. «Il mio proposito», rivela Thomas Mann nella Genesi del Doctor Faustus (anch’essa inclusa nel Meridiano) , «era scrivere il romanzo della mia epoca travestito da storia di una esistenza precaria e sommamente peccaminosa». L’epoca è la metà del secolo scorso: quella delle due Guerre mondiali, e della catastrofe tedesca che si concluderà «nel nulla, nella disperazione, in una bancarotta senza precedenti, in una vera discesa all’inferno, circondata da una ridda di fiamme assordanti». Adrian Leverkhun è l’uomo che denuncia se stesso per denunciare il Faust che è in ognuno di noi; l’artista sterile e follemente ambizioso che, per vincere la sua pochezza, si consegna al demonio. «Quanta atmosfera della mia vita», rivela ancora Mann «è contenuta nel Faustus . In fondo è una confessione radicale. Leverkhun è una figura ideale. Ero innamorato di lui, in ansia per lui, impazzivo per la sua freddezza, per il suo cuore disperato, e per la sua convinzione di essere dannato». Sono i medesimi sentimenti che muovono Serenus Zeitblom, il mite insegnante di materie classiche, amico fin dall’infanzia di Adrian, al quale — nel solco fondamentale dell’ambiguità e del doppio registro che, come nota Luca Crescenzi, attraversa in ogni sua piega tutto il romanzo — l’autore affida, con la distanza indispensabile a non soccombere, il peso del racconto.
Il racconto — al quale Zeitblom comincia a metter mano mentre la dittatura nazista è vicina al tracollo — si apre con una stupenda luce infantile e antica: quella della fattoria di Buchel in cui Adrian nasce alla fine dell’Ottocento, con le stanze foderate di legno, l’odore della pipa fumata dal padre appassionato dei misteri della natura, il cortile quadrato al centro del quale sorge il maestoso tiglio; quella della piccola città di Kaisersaschern, nella quale Serenus e Adrian frequentano la scuola, con le travature a vista degli edifici gotico-rinascimentali, le torri, le chiese e, nell’aria, il retaggio dell’isteria medievale che induce a credere nei fantasmi e nelle streghe; quella dell’università di Halle, dominata dai severi professori luterani, nella quale Adrian frequenta la facoltà di teologia; quella delle montagne della Baviera, teatro delle scampagnate studentesche che di notte si concludono, a candele spente, con infinite discussioni sul Bene e sul Male, sulle tentazioni della carne e sul peccato, sul cosmo e su Dio. È la luce della Germania millenaria; dei suoi miti; delle sue foreste. Non passeranno molti anni, e questa luce si trasformerà nel buio di una prima, fatale sconfitta; nel grigio cupo del rancore e della rivalsa; nei chiaroscuri dell’ansia. Finché, a quella che erroneamente sarà considerata dai tedeschi una rinascita popolare, al presunto nuovo inizio purificatore, si mescolerà una quantità spaventosa di «selvaggia rozzezza, di volgarità aggressiva, di lurida brama dell’oltraggio». E la colossale ebbrezza, di cui il popolo tedesco si ubriacherà, dovrà essere scontata con l’umiliazione e la fine.
Adrian, nel frattempo, ha abbandonato la teologia e, con la guida dell’organista Wendell Krettzschmar, si è letteralmente gettato nelle braccia della musica. Ha studiato Monteverdi, ha orchestrato brevi brani per pianoforte di Schubert e Beethoven; ha ascoltato il Fidelio («Quasi una imitazione di Dio»), Mahler e Brahms; si è sperimentato nel lied . L’idea che ha nella mente e sente di voler seguire (una idea per la quale Mann si è ispirato, come è scritto in calce nel libro, a Schönberg, frequentato insieme ad Adorno e Stravinskij nell’esilio americano) ha la sua base nella polifonia e nella dissonanza. «La dissonanza è l’indice della sua dignità polifonica. Quanto più dissonante è un accordo, quante più note contrastanti e di diverso effetto esso contiene, tanto più è polifonico». Sarà la musica delle sue opere maggiori, l’ Apocalypsis cum figuris e il Lamento dr. Fausti , nelle quali la più grande beatitudine coinciderà con il massimo dell’orrore, e i cori angelici non saranno altro che «echi di risate infernali».
Ora, il musicista è un adulto. Conserva la predisposizione a un riso liberatorio che aveva da bambino, ma sempre più i suoi occhi (che hanno una tinta indefinibile: fra il grigio, il verde e l’azzurro) scrutano in lontananza, e il loro crepuscolo si colma di «ombre più profonde». A Lipsia, per uno sciocco scherzo, è entrato in un bordello. Una donna bruna, con una grande bocca, gli occhi a mandorla, Esmeralda, gli ha carezzato una guancia. Lui è fuggito sconvolto. Quindi è tornato a cercarla e siccome non l’ha trovata si è fatto dare l’indirizzo; profittando della prima esecuzione della Salome di Strauss a Graz, è andato a trovarla nel paesino ungherese in cui si è ritirata ammalata; nonostante i suoi ammonimenti, si è lasciato infettare. È la malattia, da cui nascono le creazioni del genio che pretende di sfiorare l’Eterno, preparata dal diavolo per arruolarlo nelle sue schiere e, dopo 24 anni di estasi, distruggergli il cervello.
«Vado in cerca di un luogo in cui possa seppellirmi dinnanzi al mondo e conversare indisturbato con la mia vita e il mio destino», confida Adrian a Serenus. Questo luogo — una fattoria a Pfeiffering simile a quella dell’infanzia — può anche esistere. Quella che è sparita, se mai ne è transitata nella sua anima una scintilla, è la pace. Adrian, ammirato e ricercato, è costretto a vivere nel mondo, a frequentare i concerti, a dividere con tutti i personaggi maschili e femminili che lo assediano, il suo tempo (e questa è la parte diciamo così «borghese» del romanzo, con quei salotti decorosi, quei tram di Monaco di Baviera, quegli altri veleni sparsi attorno a lui dal demonio, che più amiamo). Si illude persino di potersi sposare, inoltra una goffa proposta di matrimonio, ed è respinto. La malattia incalza fino a costringerlo a fuggire la luce. E il suo padrone mena l’ultimo colpo. A Pfeiffering arriva il nipote, il piccolo Nepomuk, di sei anni. È un bambino bellissimo: un angelo sceso dall’alto. Lo zio se ne innamora. Ma ha dimenticato il patto: non può amare nessuno. E il diavolo glielo toglie. Nepomuk si ammala e muore: «Prenditelo, mostro!», grida Adrian davanti a Serenus Zeitblom.
Siamo così alla fine. Adesso il compito di Serenus è quello di raccontare la morte, mentale e poi fisica, dell’amico che ha sfidato Dio. Intanto, la Germania è allo stremo; le città sono un cumulo di macerie; i topi ingrassano con i cadaveri. E i tedeschi sono obbligati sfilare nei lager e a vedere coi loro occhi l’abisso.
La Stampa 7.5.16
L’emergenza dell’antibiotico che non guarisce
di Eugenia Tognotti

Il mondo post-antibiotico è già qui e si porta dietro quella che potrebbe diventare l’emergenza del XXI secolo: trovarsi con armi spuntate a combattere batteri che hanno «imparato» - anche per colpa nostra - a diventare sempre più resistenti agli antibiotici, il farmaco-miracolo che ha rappresentato la più grande conquista della medicina moderna. L’ennesimo allarme è suonato dopo l’isolamento, dapprima in Cina, e poi in Danimarca, di un ceppo batterico a cui una mutazione genetica consente di resistere a tutti gli antibiotici, inclusa la Colistina, un antibiotico definito, non a caso, di «ultima spiaggia», tornato recentemente alla ribalta nella terapia di infezioni umane gravi che resistono al trattamento con altri tipi di antibiotici. Ovunque, il fenomeno dell’antibiotico-resistenza è in aumento e interessa sia Paesi in via di sviluppo che Paesi industrializzati, compreso il nostro. I report più recenti, sempre più allarmanti, danno conto di quanto sia difficile, se non impossibile - data l’inefficacia delle armi - trattare alcune infezioni. E’ il caso di quelle provocate dai ceppi di Klebsiella pneumoniae, in rapido aumento nelle diverse aree del nostro Paese e in tutti i tipi di strutture di degenza.
In assenza di precauzioni igieniche (prima tra tutte quella del lavaggio delle mani), il microrganismo può essere trasmesso da un malato all’altro in ambito ospedaliero, dal personale sanitario, curante-untore, anche al di fuori dell’ospedale. Siamo all’apocalisse antibiotico-resistenza: solo in Europa, dove, ogni anno, i batteri «resistenti» sarebbero responsabili di 25 mila morti per infezioni resistenti agli antibiotici, dalle polmoniti, alla tubercolosi, alla gonorrea. Altro che cambiamento del clima o inquinamento: nel 2050 potrebbero provocare 317 mila morti in America e 390 mila in Europa, se prendiamo per buona l’agghiacciante stima diffusa in questi giorni. Quel che è certo, qui e ora, è che il poderoso arsenale di cui disponevamo per battere le infezioni batteriche - la prima causa di morte in un passato neppure tanto lontano - si rivela ogni giorno più sguarnito di fronte ad un fenomeno in continua evoluzione. E pensare che non è passato neppure un secolo dal trionfale esordio, negli Anni Quaranta del secolo scorso, dei farmaci antimicrobici. Che si portavano dietro la luminosa promessa della definitiva vittoria contro le infezioni e persino di una rivoluzione sessuale, una volta allontanato l’incubo delle malattie veneree, sifilide e gonorrea, evocate come «mostri», nelle immagini della campagna per l’uso della penicillina nel secondo dopoguerra. Chi avrebbe potuto prevedere, allora, che la gonorrea sarebbe tornata prepotentemente alla ribalta nel XXI secolo? Eppure è quello che sta accadendo. E’ appena di pochi mesi fa la scoperta in Gran Bretagna di un focolaio di quella che è stata battezzata la «super gonorrea» , il cui agente causale, la Neisseria gonorrhoeae, ha sviluppato una resistenza a quasi tutti gli antibiotici utilizzati per il suo trattamento: il rischio è che diventi una malattia incurabile, con gravissime implicazioni per la salute. Senza dar fondo all’allarmismo, c’è il rischio che molto presto - e in mancanza di nuove strategie di ricerca sulla resistenza antimicrobica e su nuovi antibiotici - ci si ritrovi con scarsi o nulli presidi terapeutici a riflettere sul ricorso dissennato e inappropriato degli antibiotici in diversi settori, dalla medicina, all’agricoltura, alla zootecnia. L’emergenza dell’antibiotico resistenza non riguarda solo noi, ma le generazioni future. C’è un’etica della responsabilità che dovrebbe essere presente a tutti coloro che - a diversi livelli - vi giocano una parte, piccola o grande che sia: medici, farmacisti, veterinari, allevatori, pazienti che ne fanno un uso improprio (contro bersagli sbagliati, come i virus dell’influenza). E, ancora, chi ha il cruciale compito del controllo delle infezioni nelle strutture sanitarie e dell’osservanza delle norme igieniche, prima tra tutte quella di lavarsi le mani per prevenire le infezioni trasmissibili in ambiente ospedaliero e di cura. Pensare che «De lotione manum» era raccomandata, dai dottori della Scuola Salernitana in pieno Medioevo, un buon millennio prima che l’Oms lanciasse la giornata mondiale del lavaggio delle mani: «Save Lives: Clean Your Hands». I batteri resistenti si combattono (anche) impedendo che si trasmettano.
La Stampa 7.5.16
Leonardo, sulle tracce del Dna per svelare i segreti del genio
Al lavoro genetisti e storici dell’arte: scopriremo anche come morì
di Vittorio Sabadin

Un gruppo internazionale di esperti di genetica, antropologi e storici dell’arte è al lavoro per rivelarci tutto quello che ancora non sappiamo del più grande genio del Rinascimento, Leonardo da Vinci. Grazie ai progressi realizzati dalla medicina forense, che gli appassionati di “CSI, scena del crimine” conoscono benissimo, l’esame del Dna e dei resti dell’autore della “Gioconda” permetterà di scoprire il colore dei suoi occhi e dei capelli, il colorito della carnagione e la dieta che seguiva. Sapremo tutto delle sue abitudini e avremo la possibilità di vedere il suo volto ricostruito in 3D. Scopriremo anche di che cosa è morto, il 2 maggio del 1519 ad Amboise, in Francia.
L’appuntamento
Gli scienziati che lavorano al progetto contano di finire la loro complessa ricerca entro il 2019, per dare un contributo significativo al 500° anniversario della morte di Leonardo. Potrebbero davvero riuscirci, perché del team fanno parte i maggiori esperti di Stati Uniti, Francia, Italia, Canada e Spagna, compresi alcuni medici forensi che hanno identificato le vittime del World Trade Center dopo gli attacchi dell’11 Settembre 2001 e il Craig Venter Institute, che ha mappato il genoma umano.
Le possibilità di successo dipendono essenzialmente da due condizioni: raccogliere un campione del Dna di Leonardo e recuperarne le ossa. Il Dna potrà essere ricavato dall’esame dei suoi dipinti, nei quali potrebbe essere rimasta imprigionata materia organica: basterebbe un solo capello caduto nei colori a olio. «Ma Leonardo – ha ricordato Jesse Ausubel, che finanzia la ricerca con la sua Lounsbery Foundation, – non dipingeva solo con i pennelli: spesso usava le dita per spalmare la tinta e quindi dovrebbe essere possibile identificare sulle tele cellule della sua epidermide».
La lapide
Si pensa che i resti di Leonardo, indispensabili per ricostruirne il volto, si trovino dal 1874 sotto una lapide della cappella di Saint Hubert nel castello di Amboise, ma non è certo che siano davvero i suoi. Dopo la morte, il corpo era stato inumato nella cappella di Saint Florentin, ma il castello era stato devastato nel corso della Rivoluzione francese e il teschio e le ossa erano stati ammucchiati in una cesta, dimenticati per decenni prima della nuova sepoltura. I ricercatori del “Leonardo Project” hanno però già identificato 41 discendenti in linea diretta di Da Vinci, con i quali sarà possibile confrontare il Dna dei resti che si trovano ad Amboise.
I testi
Tutti sono stati invitati a collaborare alla ricerca, il cui programma è stato pubblicato su “Human Evolution”. Anche i testi scritti da Leonardo potrebbero contenere tracce di Dna, e gli scienziati vorrebbero sicuramente avere accesso al “Codice Leicester” acquistato da Bill Gates per 30,8 milioni di dollari nel 1994, o allo “Studio di mani” e agli altri disegni di proprietà della regina Elisabetta. Sarà riesumata la salma della madre Caterina, sepolta a Milano, e si cercheranno tracce di Dna nell’ ”Adorazione dei Magi”, attualmente in restauro agli Uffizi. «Il progetto - ha detto Brunetto Chiarelli, antropologo all’Università di Firenze - ci consentirà non solo di avere una maggiore conoscenza storica di Leonardo, ma forse ci permetterà anche, grazie alla ricostruzione del suo profilo genetico, di fare luce sulle caratteristiche degli individui che hanno capacità fuori dall’ordinario».
I progressi scientifici nell’esame del Dna hanno consentito recentemente di individuare a Madrid i resti dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes e di identificare il corpo e ricostruire il volto di Riccardo III, l’ultimo re dei Plantageneti, trovato sepolto sotto un parcheggio a Leicester, e diventato un’attrazione prima che la città proclamasse il suo nuovo re italiano: Claudio Ranieri.
Corriere 7.5.16
Diventare fantasmi. Quelli che spariscono
Si chiama «ghosting» ed è semplice ma molto crudele (dicono gli psichiatri). Qualcuno vi ha ferito? Tagliate i ponti. Tutti
di Carlotta Clerici

«Ghosting o non ghosting?». Questo è uno dei nuovi problemi dell’uomo digitale, direbbe William Shakespeare, acuto osservatore dei meccanismi sottili dell’animo umano ed esperto di fantasmi della mente. Il grande poeta che resta sempre attualissimo anche se le sue opere sono state scritte 400 anni fa. Un fenomeno, quello di fare o subire ghosting (letteralmente fantasmare o essere fantasmati da qualcuno), entrato di recente nel vocabolario comune, grazie anche all’uso/abuso di questa parola per definire quando solo una delle due parti (che sia amore/lavoro o amicizia) scompare dal rapporto, senza nemmeno uno straccio di lettera d’addio.
La storia di Charlize
Insomma, senza dare alcuna spiegazione, nemmeno di seconda mano. Un comportamento, tollerato a fatica, dalla società 2.0 di cui si è occupato persino il New York Times. E del quale, a quanto pare, ci si può trovare anche ad essere coinvolti a nostra insaputa. A questo proposito, ne sa sicuramente qualcosa la bionda Charlize Theron, tirata in ballo sull’argomento proprio dall’articolo del giornale americano, con l’accusa di aver fantasmato il suo ex Sean Penn dopo la fine della loro relazione. Una voce, quella del ghosting nei confronti di Penn, diventata sempre più insistente negli ultimi mesi, ingigantita dai pettegolezzi in rete. E che, per essere messa a tacere, di recente ha richiesto addirittura un’intervista chiarificatrice al Wall Street Journal Magazine, in cui la Theron si è dovuta giustificare per aver fatto uscire dalla sua vita l’attore senza troppe cerimonie. Dichiarandosi, tra l’altro, parecchio disorientata dallo stesso fare ghosting — di cui, dice, non conosceva nemmeno l’esistenza — e dallo psicodramma virale che si è creato dopo la fine della loro storia. «La coppia celebre — osserva lo psichiatra Antonio Acerra, direttore della Scuola Romana di psicoterapia familiare — si trova a dover fornire spiegazioni anche a livello pubblico quando il rapporto finisce. Per questo, anche il silenzio di una delle due parti può fare così tanto rumore». Un suono spettrale diventato ormai, nell’immaginario collettivo e non solo per le celebrità, una forma di comunicazione. «La voce dei fantasmi non c’è — prosegue Acerra —ma si fa sentire in tutta la sua assenza. I legami profondi, infatti, innescano a volte meccanismi perversi, nei quali, anche se ci si è lasciati fisicamente si continua ad essere legati mentalmente». Diventando persino, nei casi più estremi, un’arma per colpire l’altra persona. «Fare il fantasma — conclude lo psichiatra — può servire a uno dei due ex per dirigere la situazione, innescando una dinamica di tipo competitivo e alimentando psicologicamente la propria mancanza nell’altro». Non solo una strategia, però, ma il più delle volte una questione di semplice sopravvivenza, il ghosting tra esseri umani. Soprattutto in uno scenario iperconnesso, nel quale si è sempre apparentamenti disponibili solo perché si è dato segnali di vita online. «Una volta — spiega Massimiliano Gianotti, presidente della Lombardia dell’Associazione nazionale sociologi (Ans) — bastava sbattere la porta o staccare la cornetta, mentre ora, il processo di rottura è diventato molto più complicato, proprio per il coesistere della vita reale con quella della rete». Esistenze parallele che amplificano nel «fantasmato» il desiderio di un confronto diretto e che, in un certo senso, obbligano «il fantasmante» a fornire spiegazioni. «La tecnologia — conclude il sociologo — ha acutizzato tantissimo questo fenomeno, soprattutto in una società multimediale e narcisistica come la nostra nella quale vedere online qualcuno che ignora noi, ma continua ad interagire con altre persone, può essere vissuta come una stoccata personale ».
La lezione di Madonna
Un fatto, dicono gli esperti, al quale si può benissimo sopravvivere anche oggi permettendo al fattore tempo di fare il suo corso. Anche perché, come canta Madonna — tra l’altro ex storica di Sean Penn — nell’evocativa ballata «GhostTown», hit del suo ultimo disco «Rebel Heart»: «Tutto è destinato a rompersi presto o tardi. Quando non c’è nessuno in giro saremo anime nella città fantasma».
Corriere 7.5.16
il pregiudizio sui depressi che li isola dal mondo
di Rosario Sorrentino

In questo momento circa 350 milioni di persone nel mondo stanno soffrendo di depressione e 2 su 3 non si curano perché non si rendono conto di averla. «Ci fai o ci sei»? Siamo alle solite: il pregiudizio o la scarsa conoscenza dei problemi prevalgono. E poi quell’odioso sospetto, l’etichetta del malato immaginario, a prescindere, fanno il resto.
Perché il depresso non viene preso troppo sul serio, non è creduto o è mal sopportato nella sua sofferenza avvolto com’è da quella «bolla trasparente» che lo fa apparire agli occhi degli altri come uno che esagera, inventa. Si sente solo e incompreso, una solitudine profonda, aggravata anche dai suoi mille sensi di colpa che lo rendono incapace di provare piacere. La depressione è una malattia vera, insidiosa che può modificare la personalità di chi la subisce fino ad annullare la sua volontà. Ammalarsi di depressione non è mai una scelta, perché causa un blackout che può far barcollare ogni cosa. Eppure è curabile e si può spesso guarire; certo è un po’ imprevedibile perché a volte ritorna. Tenersela e imparare a conviverci? Ma nemmeno per sogno; mai arrendersi, curiamola per non soffrire inutilmente. La terapia c’è, ma è necessario affidarsi a degli esperti, capaci di utilizzare al meglio i farmaci, insieme a una psicoterapia breve e all’attività fisica costante. Questi rimedi, se utilizzati contemporaneamente, garantiscono i risultati migliori.
È da evitare invece il «fai da te» perché può rendere tutto ancora peggiore. Forse anche il povero Leopardi, tanto per citarne uno, oggi farebbe di tutto pur di rendere la sua vita meno infelice e struggente di quella che fu, bat tendo il suo «male oscuro».
La Stampa 7.5.16
In Brasile c’è il primo sì del Senato contro Dilma
di Emiliano Guanella

Il cerchio si stringe intorno alla presidente brasiliana Dilma Rousseff, che ormai conta i giorni per la sua destituzione. Ieri la commissione del Senato ha dato via libera per 15 voti a 5 alla richiesta di impeachment che arriverà in aula mercoledì prossimo per la decisione finale. Un voto scontato, 51 senatori hanno già espresso il loro parere favorevole, dieci più del quorum previsto di 41.
Dilma verrà sospesa per un periodo massimo di 180 giorni durante il quale dovrà rispondere all’accusa di aver truccato i conti fiscali del suo governo per assicurarsi la rielezione nel 2014. Scalda i motori il vice Michel Temer, che le subentrerà venerdì prossimo. Temer conta su un’amplia ma molto frammentata maggioranza in Parlamento: sono 25 i partiti che reclamano posti nel suo futuro esecutivo, al punto che la drastica riduzione dei ministeri che aveva promesso, oggi sono 31, si limiterà a 3 o 4 dicasteri in meno. Il Psdb, principale partito alleato del centrista Pmdb, di cui Temer è segretario, ha chiesto il ministero degli Esteri, mentre all’Economia è dato per certo l’ex governatore della banca centrale nel primo governo di Lula, Henrique Meirelles.
Gli imprenditori e i produttori rurali si dicono pronti a collaborare con Temer per risollevare il Paese dalla recessione. Mentre si fanno i conti alla Manuale Cencelli, la magistratura continua a scuotere Brasilia. La Corte Suprema ha sospeso per «mancanza di decoro» il presidente della Camera Eduardo Cunha, l’architetto dell’impeachment a Dilma, mettendo fine a un’impasse di cinque mesi che stava spazientendo l’opinione pubblica. Cunha, oggetto di una decina di indagini di corruzione e con decine di milioni di euro depositati in conti segreti in Svizzera, è uno dei politici più detestati del Brasile. Ma ha promesso battaglia e ora molti deputati temono che, se interrogato dagli inquirenti, possa fare anche i loro nomi.
Trema anche l’ex presidente Lula da Silva, indagato nell’indagine sugli appalti truccati alla Petrobras e considerato dal procuratore generale della Repubblica il capo dello schema di malaffare nell’industria petrolifera nazionale. Con Dilma destituita e il suo partito (il Pt) all’opposizione, sono in molti a scommettere su imminenti sviluppi giudiziari contro di lui.
La Stampa 7.5.16
Dietro le armi atomiche di Kim c’è il duello strategico fra Cina e Usa
risponde Maurizio Molinari

Caro Direttore, in Corea del Nord c’è un dittatore di nome Kim, figlio e nipote di dittatori, che minaccia i vicini con le sue armi nucleari. Opprime il suo popolo, lo affama, reprime gli oppositori in maniera brutale ed elimina chiunque vuole. Quanto sta avvenendo in questi giorni in Corea del Nord testimonia come si tratti di una dittatura tanto feroce quanto stabile. Da dove nasce la minaccia di Kim? Perché la comunità internazionale non riesce a trovare le risposte adatte? Quali sono i pericoli che comporta?
Ascanio Novaris

Caro Novaris, Kim Jong-un dispone di un arsenale nucleare rudimentale grazie ad un programma atomico sviluppato in segreto a partire dalla fine degli Anni Novanta, quando negoziò con l’amministrazione Clinton una sospensione che adoperò come scusa al fine di prendere tempo ed accelerare la corsa militare. Negli ultimi anni con l’amministrazione Obama ha continuano nello stesso approccio, alternando negoziati e crisi all’unico fine di raggiungere l’obiettivo dei test nucleari.
Gli Stati Uniti hanno finora perseguito la strada cinese nel tentativo di fermare il regime di Pyongyang. Poiché la Corea del Nord dipende dalle importazioni di cibo - e in particolare di riso - dalla Cina, Pechino è infatti l’unica capitale che può esercitare strumenti di pressione. Ma la Cina somma interessi diversi: da un lato impedire a Kim di destabilizzare la regione con le atomiche, dall’altro scongiurare l’implosione della Corea del Nord per evitare una riunificazione della penisola da parte della Corea del Sud, alleata degli Stati Uniti. Ciò consente a Kim di avere margini di azione che sfrutta per migliorare il programma nucleare esistente e sviluppare anche vettori balistici capaci di minacciare l’intero Estremo Oriente. Senza contare che, secondo il Congresso Usa, esiste una cooperazione scientifica e militare fra Corea del Nord e Iran. Il sospetto di Washington è che Pechino abbia interesse a mantenere tale situazione per usare la Corea del Nord come pedina contro gli Stati Uniti nella partita per gli equilibri strategici in Asia.
Corriere 7.5.16
Kim e l’elogio della Bomba
di Guido Santevecchi

Eccoci davanti a un brutto palazzone grigio che i nordcoreani chiamano Casa della Cultura. Sulla facciata le gigantografie di Kim Il Sung, fondatore della Repubblica, e del figlio Kim Jong-il, entrambi defunti. Sono le 10 del mattino e all’interno Kim Jong-un, 33 anni (forse, perché la data di nascita è uno dei molti misteri statali) sta tenendo il discorso d’apertura del Congresso del Partito dei Lavoratori, che non veniva convocato da 36 anni. Una delle poche cose che si possono affermare con sicurezza sul Paese più isolato del mondo è che al suo leader piace l’imprevedibilità. Per settimane la propaganda di Pyongyang aveva preparato il popolo e il pianeta a un grande annuncio di Kim davanti ai 3500 delegati del Congresso.
Ma invece di trasmetterle in diretta, fino a notte nessuna parola del leader era stata diffusa. La tv di Stato, al posto dell’evento, ha mandato un vecchio film sulla guerra anti giapponese, concerti di bambini con chitarre e fisarmoniche, documentari, inni patriottici e tre notiziari senza la notizia. Kim Jong-un avrà avuto le sue ragioni per temporeggiare. La tv è stata autorizzata a diffondere il discorso solo alle 10 di sera, con una dozzina di ore di ritardo, quando i nordcoreani di solito hanno già spento la luce .
Kim, in gessato scuro extralarge, ha parlato per una decina di minuti, suscitando applausi frenetici in sala. La durata delle ovazioni ha superato quella di un discorso che non sembra epocale.
L’illusione di una svolta l’avevano data i nordcoreani che ci hanno accompagnati (scortati) alla Casa della Cultura, accanto alla smisurata stele posata su due archi dedicata all’Eterno Presidente Kim Il Sung. Le aperture alla stampa straniera si sono fermate qui, a duecento passi dall’ingresso: non ci è stato consentito di entrare, solo di restare nella piazza per un paio d’ore.
C’era un discreto movimento di abitanti di Pyongyang, che passavano o si erano radunati su una collinetta, non si è capito se più per interesse verso il congresso o per godersi la novità della presenza di giornalisti e tv venuti dall’estero. Diversi, quando abbiamo cercato di avvicinarli, si sono voltati e sono scappati via. Ma alcuni si sono fermati, prima con sguardi duri, poi compiaciuti del nostro interesse e finalmente sorridenti. Choi Siwon, conducente d’autobus: «Il Congresso? Io ho un amore enorme per il Partito e il Rispettato Maresciallo Kim ama il suo popolo, quindi annuncerà sicuramente qualcosa di grande per la gente». Più articolato Jong Song Nam, studente di IT, 19 anni: «Dopo 36 anni dall’ultimo Congresso il popolo è molto cambiato, ma l’entusiasmo è lo stesso»; «l’America? Uhm, ha diviso il nostro Paese in due, l’unico modo di fare la pace sarebbe il loro ritiro completo dal Sud»; «le nostre armi nucleari? Sono orgoglioso, gli americani ci hanno sempre minacciato, ora invece possiamo difenderci e raggiungere grandi obiettivi per l’economia». Li Ok Mi, casalinga di 40 anni sta andando a fare la spesa: «Comprerò uova, le farò semplici, bollite. Vorrei decisioni per migliorare la vita del popolo». Spera e crede in misure per alzare la qualità della vita quotidiana anche la signora Kim Su Ryou, 31 anni, carina e madre di una bambina di 7 anni. «Scrivete la realtà che vedete qui, non mentite», ci dice; aggiunge che «l’America resta il nemico, fin dal 1950, quando ci colpì con brutalità». Bene, scriviamo tutto le assicuro, ma quali sono in concreto le misure per la gente che vorrebbe dal Rispettato Maresciallo Kim Jong-un? La signora si perde: «Non so che cosa decideranno, spero che il Paese diventi più potente». Ma per sé cosa vorrebbe, poter viaggiare all’estero magari? «No, mi piace vivere qui». Più prodotti? Paga migliore? Scuote la testa disorientata. E per sua figlia, quando crescerà? «Vorrei che diventasse membro del Partito».
Le risposte sembravano autentiche, segno che questi cittadini di Pyongyang non hanno tempo e voglia di sperare in qualcosa che non sia «l’amore del Rispettato Maresciallo Kim Jong-un».
Questo Congresso del Partito dei Lavoratori, solo il settimo nei circa settant’anni della sua storia, è il primo dal 1980. Quando si tenne il sesto, Kim Jong-un non era ancora nato e il nonno Kim Il Sung annunciò che il suo successore sarebbe stato il figlio Kim Jong-il: la nascita della Dinastia Kim. Il secondo Kim non convocò alcun congresso nei suoi 17 anni di dominio (è morto nel 2011). Ora il terzo Kim utilizza lo strumento dell’assemblea suprema del partito per proporsi come diretto erede del nonno, del quale sembra avere il carisma e la capacità di comunicare con il suo popolo.
Kim ieri ha detto che la Corea del Nord «ha una potente forza deterrente nucleare», ha elencato per nome cinquanta eroi della Repubblica e detto che il Paese diventerà «più prospero». Pare di capire che il progetto nucleare proseguirà simultaneamente allo sviluppo di un’economia oggi arretratissima. Una sorta di promessa «burro e cannoni», che in coreano si definisce «Byungjin», «linee parallele». E queste linee parallele dovrebbero sostituire la linea unica del padre di Kim, il «Songun» che significava «prima le forze armate». Quindi, Kim Jong-un avrebbe deciso di convocare il congresso dopo 36 anni per riaffermare la superiorità del partito (e la propria).
«In questi 36 anni sono stati ottenuti risultati miracolosi», dice Kim con molta immaginazione. Ma a Pyongyang qualche segno di novità si coglie davvero: si vedono taxi e alcune auto private, anche se le strade sono poco trafficate, i numerosi vigili urbani del tutto inoperosi e la notte le strade tornano deserte; ci sono interi quartieri residenziali nuovi; si notano numerosi chioschi per la vendita di bibite e cibo, segno forse di una nascente impresa familiare. Di fronte ai chioschi abbiamo visto qualche fila di cittadini: i risultati miracolosi al momento sono solo quest i.
La Stampa 7.5.16
Kim: il nucleare è la nostra forza
Il “Brillante leader” inaugura il primo congresso del Pc dal 1980 e si auto-celebra Gli Usa pronti a dispiegare nuovi missili. Per Putin “è una minaccia inaccettabile”
di Cecilia Attanasio Ghezzi

«Abbiamo ottenuto risultati senza precedenti», così Kim Jong-un ha aperto il Congresso dei lavoratori, il settimo del regime nordcoreano. L’ultimo si era svolto nel 1980, il «Brillante leader» non era ancora nato. Se ne è avuta notizia solo in serata dalla televisione di stato Kctv. Un silenzio carico di domande aveva caratterizzato le dodici ore precedenti. Ai cento giornalisti stranieri invitati al «congresso e al principio di una nuova era» non è stato permesso di entrare nella Casa della cultura del 25 aprile dove erano riuniti i circa tremila delegati del Partito e, come era chiaro da tempo, nessuna delegazione straniera è stata invitata. In un discorso di 15 minuti, Kim Jong-un ha ribadito come il nucleare e il lancio dei missili a lungo raggio siano «la prova della forza della Corea del Nord». Per questa sua politica è stato condannato unanimemente, ma con dei distinguo. Gli Usa si stanno accordando per il dispiegamento di uno dei sistemi antimissile più avanzati al mondo nel territorio della Corea del Sud; una «minaccia» che Russia e Cina non accetterebbero mai. Putin ieri lo ha affermato chiaramente.
Con tutti i condizionali dovuti all’assenza di informazioni che caratterizza la Corea del Nord, gli analisti sono finora concordi nell’interpretare questo congresso come la formalizzazione del passaggio da una dittatura marxista-leninista a una di stampo dinastico. Il padre di Kim Jong-un, il «Caro leader» Kim Jong-il, era a sua volta il delfino del nonno, nonché fondatore della Repubblica democratica popolare di Corea, il «Grande leader» Kim Il-sung. Non si capirebbe altrimenti la necessità di indire un congresso a 36 anni dall’ultimo. Ma siamo di fronte a uno dei Paesi più chiusi al mondo, non è facile interpretare quello che succede. Di sicuro, il «successo» dei quattro test nucleari, due dei quali sotto l’attuale capo di Stato, sono tra le poche cose che il Partito può celebrare. Un quinto test appare imminente.
Quando nel 2011 il più giovane dei Kim è salito al potere, in molti avevano ipotizzato che sarebbe stato solo un fantoccio nelle mani di personalità più navigate. Non è stato così. Nel tentativo di ricompattare a suo favore le élite del potere, Kim è riuscito persino a far condannare a morte suo zio Jang Sung-taek, tra l’altro l’interlocutore per eccellenza con l’unico «Stato amico» rimasto: la Repubblica popolare cinese. Per il momento è evidente la scelta della «linea byungjin» ovvero la corsa al nucleare e allo sviluppo economico. Ma il «Brillante leader» deve confrontarsi con un Paese che non se la passa bene.
Un rapporto della Fao sottolinea che in Corea del Nord oltre dieci milioni di persone sarebbero malnutrite. Un numero probabilmente destinato ad aumentare in conseguenza delle sanzioni internazionali che sono seguite ai test nucleari. Ma il giovane Kim non teme l’isolamento. Anzi. Forse è proprio questa la linea che lo riporta alle radici famigliari: l’affermazione dell’autarchia, la convinzione che le masse nordcoreane possano da sole essere «artefici della rivoluzione e della ricostruzione» del loro Paese.
Repubblica 7.5.2
Nilgun Cerrahoglu, La corrispondente di Cumhuriyet In Italia
“Il potere vuole demolire la Turchia dei laici”
“È in atto il tentativo di archiviare Ataturk per questo attaccano il nostro giornale: è un simbolo”
Intervista di M. Ans.

«QUESTO è un incubo, un giorno nero per il giornalismo turco. Non dimentichiamoci che la scorsa settimana altri due colleghi del nostro giornale, Ceyda Karan e Hikmet Cetinkaya, sono stati condannati a due anni di prigione per le vignette pubblicate in solidarietà al settimanale francese Charlie Hebdo.
Adesso arriva la condanna pure al nostro capo redattore e al direttore, subito dopo i colpi di pistola contro di lui. Ci sentiamo veramente sotto assedio». Sono 30 anni che Nilgun Cerrahoglu, una delle migliori e più spigliate giornaliste turche, vive in Italia. E per tutto questo tempo, prima come corrispondente ora come opinionista di Cumhuriyet,
che in lingua turca significa “repubblica”, ha raccontato il nostro Paese. Ma adesso tocca a lei, autrice di tre libri, dire che cosa sta accadendo non solo a Istanbul, ma proprio dentro il suo giornale, che appare letteralmente sotto l’attacco del potere nelle mani dei conservatori di ispirazione religiosa.
Perché ce l’hanno con voi?
«Perché considerano Cumhuriyet il paladino dell’opinione laica in Turchia, come in effetti è, a dispetto della tiratura modesta, 50-60mila copie al giorno. Ma il suo impatto politico è forte, e porta il nome della Repubblica voluta da Ataturk, il fondatore della Turchia moderna».
Che cosa vogliono?
«Chiudere questo periodo di Repubblica laica, di cui Cumhuriyet è simbolo e memoria storica. Essendo un quotidiano molto importante è ogni giorno sotto assedio. Soprattutto dopo il nostro scoop sulla fornitura di armi inviate verso la Siria e protette dai servizi segreti turchi, causa dell’accusa contro Can Dundar ed Erdem Gul».
Prima il vostro direttore portato in carcere per 92 giorni, poi liberato, ora condannato a 5 anni benché a piede libero. Cos’altro può accadere?
«Dundar e Gul andranno in Cassazione. Dopo si vedrà. Ci auguriamo che si decida per la loro non colpevolezza e la piena libertà. Anche se, in queste condizioni, è tutta una situazione molto deprimente ».
Accuse, minacce, pressioni. Come riuscite a lavorare?
«In questo momento tutti i giornalisti in Turchia si sentono sotto pressione. Ma teniamo duro. In un solo anno ci sono stati ben 2mila casi di persone chiamate a processo per insulto al Presidente della Repubblica. Erdogan non è il primo Capo dello Stato turco. Ma non era mai successo prima: né con Demirel, né con Sezer, né con Gul».
Quando il vostro direttore ha detto, a proposito degli spari, “i responsabili sono quelli che mi hanno fatto diventare un bersaglio”, a chi si riferiva? Molti hanno pensato a Erdogan, che aveva detto che Can l’avrebbe “pagata cara” quando fu liberato dall’Alta Corte.
«Beh… mi pare chiaro”.
Questa situazione di conflitto continuo non danneggia il dialogo vitale oggi tra Turchia ed Europa?
«C’è una situazione di emergenza da noi che sta contagiando l’Europa. Basti pensare a cosa è successo con la Germania dopo la presa in giro di Erdogan da parte del comico Boehmermann. Ma se questa pressione arriva fino in Germania, si può ben capire che cosa stiamo provando noi ora in Turchia».
La Stampa 7.5.16
“È un paladino della tolleranza e dei diritti. Sadiq ha vinto perché parla a tutti”
Lo scrittore Mohsin Hamid: dice cose concrete, per questo piace
intervista di Francesca Paci

Dopo aver narrato il cortocircuito tra Islam e Occidente con il bestseller «Il fondamentalista riluttante», lo scrittore anglo-pachistano Mohsin Hamid vorrebbe narrare oggi il suo opposto, l’integrazione compiuta di uno come il connazionale Sadiq Khan, neo rivoluzionario sindaco di Londra.
Si sente orgoglioso di Khan?
«Sì ma non perché pachistano o musulmano: sono fiero in quanto londinese, una città che parla a tutti ha bisogno di un sindaco che parli a tutti».
La Gran Bretagna in odore di Brexit pare muoversi in senso opposto. Come lo spiega?
«A Londra c’è il maggior numero di musulmani e di migranti del Regno Unito ed è allo stesso tempo il luogo in cui si registrano più integrazione e tolleranza. La paura è inversamente proporzionale alla convivenza».
Cosa c’è di vincente in Khan?
«I londinesi sono stanchi del costo della vita, l’affitto, la metro, le mille spese vive lievitate con i conservatori. Khan ha sollevato questi temi rendendo il suo programma più appetibile. Inoltre, cosa non irrilevante a Londra, è un paladino della tolleranza che si è schierato contro l’antisemitismo nel suo stesso partito, ha difeso i gay e le minoranze».
La campagna avversaria non ha risparmiato la sua fede. Perché i londinesi hanno scelto lui?
«La gente ragiona con stereotipi. Un mio amico a Lahore è stato ucciso perché difendeva i cristiani dall’accusa di blasfemia. Khan condanna l’antisemitismo e non è il solo musulmano a farlo. L’Europa, di suo, non ha carenza di antisemitismo e in più ha un gran numero di musulmani antisemiti ma ci sono anche i Khan. La sua elezione, come quella di Obama, dovrebbe ricordarci che l’antidoto alla tribalizzazione voluta dalle destre è l’alleanza dei Khan di ogni fede e cultura».
Cosa ci dice il successo di Khan sul referendum? Brexit sì o no?
«Gli inglesi, come tutti sono spaventati: gli hanno spiegato che rinchiudersi nelle tribù li proteggerà. Non credo che il nodo del Brexit sia tanto l’Europa quanto la visione dell’Europa, un sogno svanito anche nell’immaginario degli europei. Ma il progetto Europa non è meno valido solo perché non sta funzionando, anzi: i problemi del futuro sono globali. Khan ci ricorda cosa vuol dire essere culturalmente europei».
Perché l’Europa e il Regno Unito hanno paura dei migranti?
«Quando ero piccolo arrivarono a Lahore 3,5 milioni di profughi afghani e non fu una tragedia. Gli europei non hanno paura degli altri ma di cambiare. Stiamo facendo politiche per gente di mezza età, viviamo nella nostalgia del passato, fingiamo d’ignorare che i profughi aumenteranno coi cambiamenti climatici, Bangladesh, Indonesia: come faremo?».
Il sindaco Khan seppellisce il fantasma del «Londonistan»?
«Londra ha integrato meglio di Parigi, Bruxelles, Rotterdam. Il resto del Paese è diverso, nella Birmingham post industriale ci sono i problemi d’integrazione dell’Europa continentale. Ma a Londra, metropoli di servizi e finanza, vedi il mondo alla guida dei taxi così come in banca o in tv. Il «Londonistan» era reale e quelle sacche di radicalizzazione resistono, ma accanto al problema Londra ha la soluzione. Il trionfo di Khan è l’antidoto alla segregazione sognata dai terroristi».
Onestamente, quanti Khan vede nelle periferie europee?
«Tanti. La maggioranza? No, ma più del numero conta la forza del loro messaggio. Magari sono il 30% ma possiamo amplificarne la forza: se Khan governa bene dopo Londra potrebbe essere Rotterdam».
La Stampa 7.5.16
Khan conquista Londra e salva l’onore dei laburisti
È il primo sindaco musulmano della città. Débâcle della sinistra in Scozia
Cameron a Corbyn: hai perso il contatto con la gente. Bene i nazionalisti
di Alessandra Rizzo

Per la prima volta nella sua storia, Londra ha un sindaco musulmano: Sadiq Khan, londinese di origini pachistane, ha sconfitto in un colpo solo il rivale Zac Goldsmith e i sospetti, adombrati in maniera dubbia dai conservatori, di essere legato al terrorismo islamico.
La vittoria di Khan era fondamentale per il Labour, che soffre in molte aree e subisce una sconfitta umiliante in Scozia. Le elezioni di giovedì hanno dato un quadro complesso degli umori del Paese a un mese e mezzo dal referendum sulla Brexit. I Tory del Premier David Cameron hanno ottenuto il miglior risultato di sempre in Scozia, affermandosi come secondo partito dietro ai nazionalisti. Ukip, partito euroscettico per eccellenza, ha conquistato consensi in Inghilterra e, per la prima volta, seggi in Galles.
Il voto ha interessato milioni di cittadini chiamati al rinnovo di consigli comunali inglesi e dei Parlamenti di Scozia, Galles e Irlanda nel Nord.
Gli occhi erano puntati su Londra, dove Khan ha coronato la sua «success story»: cresciuto in una casa popolare con un papà autista di bus emigrato da Karachi, è diventato primo cittadino della città più grande d’Europa.
Fuori dalla capitale, il Labour ha perso consensi, ma non è stata la catastrofe che molti si attendevano. Ha vinto a Liverpool, dove il sindaco uscente è stato riconfermato, e in alcuni consigli inglesi considerati a rischio. In Galles si è confermato primo partito, ma in calo. Un risultato comunque modesto in una consultazione che di solito premia i partiti all’opposizione. «Abbiamo tenuto», ha detto il segretario Jeremy Corbyn, al suo primo test elettorale, mentre per Cameron «il Labour ha completamente perso il contatto con le persone che vuole rappresentare». I detrattori di Corbyn, che lo accusano di aver portato il partito troppo a sinistra, sostengono che una vittoria alle politiche del 2020 è impensabile senza un cambio di leader. Dopotutto, il Labour non ha saputo approfittare della debolezza dei conservatori, lacerati dalle divisioni sulla Brexit, e del calo di popolarità di Cameron dopo i «Panama Papers». E Corbyn non si può prendere il merito della vittoria di Khan, che dal segretario ha preso le distanze. Gli alleati chiedono invece di dare tempo a Corbyn, insediatosi a settembre con un mandato popolare ampio e sull’onda dell’anti-politica. «Quello che il Labour ha ottenuto non è un granché, ma è abbastanza per evitare a Corbyn pressioni immediate e tentativi di sostituirlo», spiega Tony Travers, professore alla London School of Economics.
Al Nord del confine, il Partito Nazionalista Scozzese di Nicola Sturgeon ha vinto 63 seggi su 129, confermandosi primo partito ma senza ottenere, per appena due seggi, la maggioranza assoluta: dovrà formare un governo di minoranza. Il dato più interessante è l’affermazione dei Tory, odiati in Scozia dai tempi di Margaret Thatcher, che vincono 31 seggi (+8%) contro i 24 del Labour (-9%). Quest’ultimo, un tempo dominante, paga la sua opposizione all’indipendenza al referendum del 2014. A Cameron, impegnato nella battaglia contro la Brexit, probabilmente basta questo. Il voto ha sottolineato le divisioni nell’elettorato, confermando che la partita per il voto del 23 giugno sulla permanenza o meno nell’Unione Europea resta apertissima.
La Stampa 7.5.16
Gli insegnanti sfidano Renzi
Sciopero prima delle elezioni
Il 20 maggio la protesta della scuola su contratti, bonus e assunzioni
di Lorenzo Vendemiale

A poche settimane dall’appuntamento con le urne, per Renzi un’altra grana. Lo scontro nella scuola - che ha portato in piazza contro il Pd una categoria tradizionalmente vicina al centrosinistra - si riaccende e rischia di fare molto male al premier.
A un anno di distanza dallo sciopero del 2015 sulla riforma, il 20 maggio insegnanti, presidi e collaboratori tornano in piazza per protestare contro le politiche del ministro Stefania Giannini. I temi sul tavolo sono ancora gli stessi: l’annosa questione del blocco contrattuale, che si riconnette ai vari punti cardine della riforma, dai bonus stipendi alla valutazione, passando per mobilità e assunzioni. Con una grossa differenza, però: tutte le proposte della “Buona scuola” sono diventate legge, compreso il piano straordinario di assunzioni e il nuovo concorso che porteranno complessivamente alla stabilizzazione di 180mila precari. Circostanza che permette alla Giannini di definire «singolare» una mobilitazione annunciata in pieno concorsone. Anche se sono proprio i docenti precari i più arrabbiati col governo.
Contratti fermi
Si tratta del primo sciopero unitario dei sindacati della scuola, dopo quello del 6 maggio 2015. Allora si era nel mezzo del dibattito sulla riforma. Adesso Flc Cgil, Cisl, Uil e Snals si ritrovano per una manifestazione che coinvolgerà tutto il personale scolastico, con al centro il tema del contratto, fermo per tutti gli statali al 2010. «Il mancato rinnovo ha comportato una perdita concreta del potere d’acquisto», spiega Domenico Pantaleo, segretario della Flc Cgil. «Ed è emblematico del dialogo nullo con il governo: questo esecutivo tende a cancellare la contrattazione e a regolare tutto per legge. Un salto indietro di vent’anni, che si è visto anche sugli ultimi provvedimenti presi sulla scuola». Il discorso, infatti, torna subito sulla riforma, che non è ancora stata digerita.
Malcontento e precari
Dal punto di vista sindacale, il nodo maggiore riguarda i nuovi bonus di merito per gli insegnanti, che il Ministero non ha voluto far passare dalla contrattazione: 200 milioni di euro l’anno, circa 20mila euro ad istituto che andranno ai docenti più bravi, secondo il giudizio di un apposito comitato di valutazione. Ci sono i contestati poteri del «super-preside», la chiamata diretta per i nuovi assunti, che saranno scelti dai dirigenti all’interno degli ambiti territoriali. Ma a livello di base il malcontento riguarda soprattutto le assunzioni. «La Giannini vende fumo, perché resteranno a terra 300mila laureati e decine di migliaia di docenti già abilitati all’insegnamento». Senza dimenticare il personale Ata, oltre 200mila collaboratori, completamente esclusi dalla riforma. La mobilitazione, inizialmente prevista per il 23, è stata anticipata al 20 per la commemorazione della strage di Capaci. I sindacati si augurano un’adesione alta, anche se la data cade in mezzo al calendario del concorsone. «Noi crediamo che la Legge 107 possa essere ancora cambiata, da quando è entrata in vigore ha dimostrato di fare acqua da tutte le parti», conclude Pantaleo della Cgil.
Corriere 7.5.16
Rachele Mussolini
«Io e Alessandra avversarie. Il fascismo? Ormai è storia»
intervista di Monica Guerzoni

ROMA «Sono una persona semplice, con un nome ridondante».
Rachele Mussolini, candidata nella Lista civica Con Giorgia (Meloni, ndr).
«Ho quasi 42 anni e chi mi conosce da una vita apprezza Rachele e non il mio cognome, a prescindere».
Ne è sicura?
«Non mi sono mai servita del mio cognome, anzi ne ho pagato le spese. Chiamarsi Mussolini è difficile, a Roma, in Italia, nel mondo. È un cognome impegnativo, ma lo porto con grande orgoglio».
Orgoglio per la storia di Benito Mussolini?
«Per la storia della mia famiglia e per mio padre Romano, jazzista apprezzatissimo e squattrinato. Faceva il lavoro dei suoi sogni, cosa che alla mia generazione è stata negata. Io ho subito lo choc del licenziamento».
E di suo nonno il Duce, cosa pensa?
«Il fascismo deve essere consegnato alla storia. Capisco la curiosità dei media per me e per mia sorella, ma vorrei che potessimo concentrarci sui problemi reali».
Con Alessandra avete lo stesso padre e madri diverse.
«Ci chiamano sorellastre e mi da fastidio, brutta parola».
Però siete rivali...
«Purtroppo abbiamo vite diverse, lei è molto impegnata e non ci siamo mai frequentate tanto. Ma le rinnovo il mio in bocca al lupo per la sua nuova avventura con Marchini. Lei è un politico navigato, non ha bisogno del mio in bocca al lupo e anzi dovrebbe essere il contrario, visto che sono io ad affacciarmi alla politica».
Alessandra non le ha ancora fatto gli auguri?
«No, ma non è importante. Siamo sorelle e il legame di sangue non si cancella».
Come ha votato nel 2013?
«Fratelli d’Italia e, prima, An. Bazzico la politica da 13 anni, sempre in segreteria dietro le quinte. Il mio primo datore di lavoro è stato il senatore Franco Servello (ex Msi, poi An, ndr ), era un signore e mi ha insegnato moltissimo».
Perché si candida?
«La proposta di Giorgia è arrivata mesi fa. Per la prima volta sono in prima linea per i valori della vera destra, quella vicina alla gente. Non amo gli estremismi, per questo ho accettato la proposta di una politica giovane ed esperta».
La Meloni sarà presto mamma. Potrebbe ritirarsi?
«Noi donne siamo multitasking, la gravidanza è un arricchimento e le voci di un ritiro sono senza fondamento. Io ho due figlie piccole e mi sento prima di tutto mamma».
La sua priorità per Roma?
«Il decoro. Roma è ostaggio della sporcizia e dell’incuria».
Di chi è la colpa?
«Della malagestione. Nessuno ha la bacchetta magica, neanche Giorgia, però Marino ha dato il colpo di grazia a una situazione drammatica».
Alemanno no?
«Tutti hanno le loro colpe, destra, sinistra, centro».
Cosa pensa di Giachetti, Marchini, Fassina e Raggi?
«Massima stima, ma non sono nelle mie corde».
Il Fatto 7.5.16
“Canne e coma non sono collegati”: la neurologa smentisce Marchini

PER PRECISARE la sua posizione sull’uso di droghe leggere durante una puntata di Piazza Pulita su La7, il candidato a sindaco di Roma sostenuto da Forza Italia Alfio Marchini aveva raccontato del suo passato, di come suo figlio in coma dopo un incidente si fosse ripreso proprio perché “non si è mai fatto le canne”. Una spiegazione che il candidato aveva attribuito alla neurologa Rita Formisano che, però, ieri ha diffuso una precisazione: “Non c'è correlazione scientifica dimostrata tra il fatto di non consumare sostanze stupefacenti e il risveglio dal coma. L’uso di alcol e di sostanze stupefacenti non è in generale salutare per il cervello, ma non ho mai sostenuto che il figlio di Alfio Marchini si sia risvegliato dal coma grazie al fatto che non faceva uso di sostanze”. Poi la spiegazione: molti di coloro che non fanno uso di sostanze stupefacenti non si risvegliano, ma è vero anche il contrario. Il risveglio dipende da fattori complessi e dalla combinazione di numerose attenzioni terapeutiche e riabilitative neuropsicologiche. “Il successo di qualsiasi percorso di riabilitazione neurologica ha spiegato la dottoressa Formisano dipende molto dalla cosiddetta plasticità cerebrale, ovvero dalla capacità del nostro cervello di organizzare nuovi collegamenti tra i neuroni in sostituzione delle parti danneggiate dal trauma”. Nel dibattito, Marchini ha voluto l’ultima parola: “La dottoressa Formisano, che non finirò mai di ringraziare, conferma quanto ho detto: il recupero è facilitato dalla plasticità della massa cerebrale e dalla giovane età. E tale plasticità viene ridotta dall’uso di droghe”.
Corriere 7.5.16
Raggi avanti e vincente al ballottaggio Corsa a tre per sfidarla. Marchini risale
di Nando Pagnoncelli

A Roma Meloni seconda, poi Giachetti e il candidato di FI (+13% rispetto a fine marzo)
Dopo una settimana dalla decisione di Silvio Berlusconi di ritirare la candidatura di Bertolaso per convergere su Marchini, lo scenario a Roma presenta un elevato livello di incertezza.
Sullo sfondo c’è un clima caratterizzato da una forte preoccupazione per la crisi economica (circa due romani su cinque si aspettano che il peggio debba ancora arrivare). La maggioranza dei romani sembra ancora faticare a riprendersi anche dalle complicate vicende giudiziarie e amministrative dell’ultimo anno.
La campagna elettorale appare quindi particolarmente complessa. La candidata del M5S Virginia Raggi fa registrare una crescita del vantaggio sui concorrenti, ma non è affatto chiaro chi sarà lo sfidante al ballottaggio. Perché di certo sembra esserci solo la prospettiva di un ballottaggio.
Iniziamo dal gradimento dei candidati. Virginia Raggi si mantiene l’unica ad ottenere più giudizi positivi (35%) che negativi (30%), aumentando il saldo da +2% a +5%. Gli altri radicalizzano maggiormente i giudizi, compattando gli elettorati antagonisti e facendo prevalere le valutazioni negative, anche se tutti (eccetto Giachetti) fanno segnare un miglioramento, più accentuato per Marchini e Fassina.
Le intenzioni di voto per il candidato sindaco vedono ridursi l’area dell’astensione (da 36,3% a 32,3%) e dell’indecisione (da 15,5% a 12,5%) che, tuttavia, si mantengono su valori molto elevati sfiorando il 45%. Virginia Raggi si conferma in testa con il 29,5% delle preferenze (+2% rispetto a fine marzo), seguita da Giorgia Meloni con il 21,5% (anch’essa in crescita: +1,5%), Roberto Giachetti con il 20% (in calo del 2,5%), Alfio Marchini con il 19,5%, in forte crescita (+13%) rispetto al precedente sondaggio realizzato quando Bertolaso era ancora in campo. A seguire Stefano Fassina con il 5,5% (+2%) e gli altri candidati che, tutti insieme, raggiungono il 4%. È opportuno sottolineare che le differenze tra le intenzioni di voto di Meloni, Giachetti e Marchini non sono statisticamente significative: per questo motivo lo scenario del primo turno è all’insegna dell’incertezza.
Incertezza che, al contrario, non sembra emergere dalle ipotesi di ballottaggio nelle quali Virginia Raggi continua a prevalere contro tutti, aumentando il proprio vantaggio rispetto al precedente sondaggio: al momento prevale su Meloni (52,5% a 47,5%), Giachetti (55,2% a 44,8%) e Marchini (54,3% a 45,7%). Abbiamo testato tutte le ipotesi di ballottaggio tra i candidati principali: oggi Meloni prevale su Giachetti (55,2 a 44,8) e Marchini (52,9% a 47,1%), mentre Marchini prevale su Giachetti (54,4% a 45,6%).
Da ultimo i partiti. Il M5S si mantiene in testa con il 31,5% (+1,7% rispetto a marzo), seguito dal Pd (22,6%), FdI (10,8%), FI (9,7%), Lista Marchini (5,4%), Lega (4,3%). Da sottolineare l’elevato livello di astensione di lista e indecisione (53,2%) e la difficoltà di confronto con precedenti elezioni e sondaggi a causa della presenza delle liste civiche e delle liste dei candidati.
In conclusione alcune considerazioni:
1) A quattro settimane dalle elezioni i romani appaiono poco coinvolti dalla campagna elettorale, probabilmente segnati dalle vicende che hanno colpito la città, alimentando la disaffezione e lo scetticismo rispetto alla possibilità di un autentico cambiamento. Insomma, Roma pare una città «sotto schiaffo» e la competizione elettorale, pur non priva di colpi di scena, non sembra mobilitare più di tanto. È una campagna inerziale, molto «politica» e poco coinvolgente. Mancano obiettivi di ampio respiro, manca un colpo d’ala.
2) Nel centrosinistra permangono molte criticità: Giachetti è in corsa per il ballottaggio ma ancora poco conosciuto, pur avendo aumentato l’esposizione mediatica; inoltre il Pd appare troppo in difficoltà per poter determinare un «effetto di trascinamento» del voto sul candidato. Sono difficoltà che hanno a che fare sia con le vicende romane (l’inchiesta giudiziaria, le dimissioni del sindaco Marino, le divisioni interne) sia con quelle nazionali (tensioni tra maggioranza e minoranza e questione morale).
3) La candidatura di Marchini presenta un interessante potenziale di crescita non soltanto nel bacino di centrodestra ma, più in generale, nell’area moderata e in quel segmento di elettori che fatica a riconoscersi nei partiti tradizionali. Ma deve fare i conti con la frattura profonda che si è aperta nel centrodestra a seguito della decisione di Berlusconi di ritirare la candidatura di Bertolaso: infatti una parte rilevante di elettorato romano al momento si mostra insoddisfatto di questa competizione interna alla propria area ed è poco disponibile a convergere su Marchini.
4) Indubbiamente il cambio di strategia del leader di FI a Roma assume un significato politico che va al di là dei confini della Capitale. Le elezioni romane potrebbero rappresentare un laboratorio, dare spazio ad un progetto «moderato», favorire aggregazioni e spostamenti di voto. Ma la campagna elettorale di Roma appare davvero atipica e apatica e la sfida, per quanto interessante, sembra svolgersi in un contesto sbagliato.
Repubblica 7.5.16
Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano, parla delle inchieste sui politici. Difende i pm di Lodi, ma avverte: “L’arresto è l’estrema ratio”
“Il governo faccia riforme e lasci stare i complotti”
ntervista di Liana Milella

ROMA. «Il governo non pensi ai complotti, ma attui le riforme». Dice così l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati.
Ogni giorno aumenta la tensione tra la politica e i magistrati. Si respira un’aria da conflitto berlusconiano. Il Pd contro le toghe. Le toghe, vedi Morosini, contro il Pd. È la nuova puntata di una guerra già vista?
«È inevitabile che indagini penali che toccano esponenti politici abbiano grande rilievo mediatico e provochino reazioni e critiche. Ma le guerre e le teorie del complotto fanno danni a tutti. Meglio misurarsi con i casi specifici e piuttosto affrontare i problemi che le indagini penali hanno messo in luce».
A Lodi il gip conferma l’arresto del sindaco Uggetti. Sale sulle ferite. A vederla dall’esterno, poteva evitarlo?
«L’indagine di Lodi, per la celerità e la tempestività, ha stroncato ogni accusa di giustizia ad orologeria e c’è da augurarsi che questo pseudo argomento esca dal dibattito politico definitivamente. Non è mancato invece lo pseudo argomento della giovane età delle colleghe, quasi che di fronte a un’ipotesi di reato avrebbero dovuto attendere di maturare una maggiore anzianità di servizio ».
Sì, ma l’arresto?
«Non intendo entrare nel merito della vicenda che ha i suoi giudici. E per fortuna è rapidamente rientrata l’idea che il Csm potesse intervenire sul caso. Mi limito a due osservazioni di carattere generale. Uno: il reato di turbativa d’asta è un reato grave e non esistono turbative d’asta a fin di bene. Due: il confronto sul tema del ricorso alla custodia cautelare in carcere dev’essere sempre aperto».
Hanno esagerato?
«Il carcere è l’extrema ratio riservata ai casi in cui ogni altra misura sia inefficace. Lo impone l’art. 275 del codice di procedura penale nel quadro di un processo ispirato ai valori della Costituzione. Il 28 aprile, parlando alla Scuola della magistratura di Scandicci il presidente Mattarella ha detto: “È compito del magistrato scegliere, in base alla propria capacità professionale, fra le varie opzioni consentite quella che, con ragionevolezza, nella corretta applicazione della norma, comporta minori sacrifici per i valori, i diritti e gli interessi coinvolti».
Al Pd l’arresto di Lodi però non va giù, ci vede la conferma di una giustizia ad orologeria.
«La critica ai provvedimenti dei magistrati, anche severa, è essenziale in democrazia. Purché fatta di argomenti e non di invettive o delegittimazione. Alcune reazioni sono state fuori misura. Ma non mancano dichiarazioni di tono rispettoso. Soru, condannato a una pena severa per un grave reato di evasione fiscale, ha reagito così: “È una sentenza ingiusta, a mio avviso”».
Eppure, a leggere l’intervista di Morosini, pare proprio di cogliere un umore cattivo verso il Pd. Quale sarebbe la sua reazione se finisse sotto processo disciplinare?
«Lui ha smentito di aver rilasciato le dichiarazioni che gli sono state attribuite in virgolettato, che sarebbero state certamente inopportune. La questione dovrebbe essere considerata chiusa. In ogni caso e in via generale l’azione disciplinare dev’essere estremamente prudente quando si tratti di opinioni e in questo senso c’è una consolidata giurisprudenza al Csm».
C’è una grave questione morale nel Pd e nella politica?
«Che esista un problema persistente e grave di corruzione nel Paese e nella politica mi pare fuori discussione anche se non giovano le generalizzazioni e sono fuorvianti le semplificazioni dell’accostamento a Tangentopoli. I magistrati fanno doverosamente le indagini e spesso con grande efficacia nonostante la nota difficoltà ad accertare fatti in cui corrotto e corruttore sono legati dal patto del silenzio. Ma alla magistratura non può essere delegata la “questione morale”: i magistrati si occupano della “questione penale” e dei casi specifici, il resto, che è quello che più conta, spetta alla politica e ancor prima alla società civile. Se si addita la corruzione come un cancro della nostra società l’80% degli intervistati dice di concordare... compresi magari alcuni che in quel momento stanno pagando mazzette».
Morosini ha parlato (ma nega di averlo fatto). Ma fino a che punto una toga può dire quello che pensa?
«I magistrati prima ancora che il diritto di espressione del pensiero direi che hanno il dovere di portare il loro contributo di riflessione e di esperienza sui problemi della giustizia. Se parlano anche indirettamente delle loro inchieste creano un pericoloso cortocircuito quasi che la solidità delle inchieste si fondi sul grado di consenso dell’opinione pubblica. Ma il magistrato non deve mai dimenticare che la sua opinione sui problemi della giustizia ha un peso particolare per il ruolo che svolge: si possono esprimere opinioni nette e precise, ma con argomenti e con sobrietà. Si deve rifuggire dalla comunicazione strillata e dalla fuorviante semplificazione della battuta».