Slavi, il volto razzista del fascismo
di Enzo Collotti
Se vogliamo cercare di capire cos'è la politica di espansione che il fascismo realizza in direzione della penisola balcanica, dobbiamo tenere conto di una serie di fattori. Il primo è il presupposto storicoculturale del vecchio imperialismo nazionalista che ha nella penisola balcanica uno dei suoi obiettivi principali di espansione. Ricordiamo che la guerra di Libia ha solo come oggetto immediato la Libia: l'obiettivo principale è infliggere un serio colpo all'Impero ottomano e aprire la strada alla penetrazione italiana nei Balcani. Allora si pensava che l'Italia, nella fase del decollo industriale, avesse la capacità di espandersi, di realizzare le proprie ambizioni economiche in quell'area. Questo spiega l'ostilità manifestata, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, alla creazione dello Stato degli slavi del sud e l'ambizione a fare dell'Adriatico un mare interno italiano. Un secondo punto da tenere presente, quando si parla di questa problematica, è il rapporto tra la politica interna e la politica estera dell'Italia. Negli anni del fascismo - segnatamente a partire dalla seconda metà degli anni venti, indipendentemente da quello che era successo fino all'apparente chiusura della questione fiumana con i trattati di Nettuno del 1925 - l'Italia opera una costante politica di accerchiamento della Jugoslavia. Da nord attraverso l'aggiogamento alla politica del fascismo di Austria e Ungheria, da sud attraverso il favoreggiamento del terrorismo macedone. Successivamente l'Italia appoggerà il separatismo croato degli ustascia, che saranno ospitati e armati all'interno dello Stato italiano. Infine verrà l'occupazione dell'Albania, nell'aprile del 1939, come testa di ponte per continuare questa operazione di accerchiamento della Jugoslavia. Il terzo punto riguarda la problematica dei rapporti, in relazione all'area danubiano-balcanica, tra l'Italia e la Germania. Questi rapporti hanno visto fasi diverse, hanno avuto momenti di acuta crisi intorno alla questione austriaca, ma al momento dell'Anschluss (1938) l'Italia è già sulla strada della ritirata, non è più in grado di competere con la pressione germanica. Questo problema del rapporto con la Germania accompagna tutta la fase di avvicinamento alla guerra, e in guerra, per quanto riguarda l'Italia, la situazione balcanica attraverserà diverse fasi. Il 28 ottobre 1940 ha inizio l'aggressione, intrapresa con estrema leggerezza, alla Grecia. Il motto era «spezzeremo le reni alla Grecia», ma l'esercito italiano rischiò di essere rigettato in mare in Albania dalla resistenza che gli si oppose. Questa è la prima fase. La seconda fase si apre nell'aprile del 1941, quando l'invasione della Jugoslavia da parte delle forze della Wehrmacht e dell'esercito italiano apre definitivamente la via non solo alla sconfitta della Jugoslavia, ma anche, e soprattutto, della Grecia. In un primo momento la Grecia non riconosce di essere stata battuta dagli italiani e viene fatto ripetere l'armistizio, perché i greci vogliono firmarlo solo con i tedeschi, riconoscendo di essere stati sconfitti soltanto da loro. Questi sono i presupposti della complessa politica di occupazione che l'Italia praticherà in quell'area, distinguendo abbastanza nettamente fra il settore jugoslavo e quello greco. C'è da dire che il problema delle occupazioni balcaniche è, nella storiografia italiana, un argomento abbastanza marginale. Questo per varie ragioni: prima di tutto per una reticenza, credo tuttora inesplicabile, a occuparsi di questi problemi. Secondariamente - ma solo secondariamente - per il ritardo nell'acquisizione di fonti.
Bisogna distinguere, però, la Jugoslavia dalla Grecia, perché nel secondo caso il ritardo non è solo della storiografia italiana ma anche di quella ellenica, per motivi del tutto interni alla politica di quel paese. Qualcosa di più è stato fatto per quanto riguarda quella che possiamo chiamare, in riferimento al 1941, la ex Jugoslavia. Perché uso questa espressione? Perché la prima conseguenza della sconfitta militare della Jugoslavia ad opera delle potenze dell'Asse fu la totale disgregazione dello spazio jugoslavo: un vecchio obiettivo dell'imperialismo italiano e del fascismo, realizzato con l'appoggio della Wehrmacht. Questo vecchio obiettivo presentava per l'Italia anche notevoli implicazioni di carattere interno: non dobbiamo dimenticare che in tutta l'avventura balcanica vi sono una responsabilità e un peso della dinastia dei Savoia. Basta pensare alla collezione di corone, o di semicorone, che il sovrano italiano accumulò per sé e per la sua famiglia nella penisola balcanica per rendersi conto del significato dell'alleanza fra monarchia e regime. C'è la presenza di una principessa di casa Savoia in Bulgaria, la presenza del re d'Italia come re d'Italia e d'Albania, successivamente il tentativo di imporre un sovrano di casa Savoia - che per fortuna non prese mai possesso del suo trono - in Croazia. Il rapporto tra potere dinastico e regime fascista, poi, comportò anche l'appoggio di settori forti della politica italiana - nel caso specifico penso alle forze armate - ai disegni di dominazione balcanica da parte dell'Italia. Quindi risulta chiara l'influenza complessiva che lo scacchiere balcanico ha avuto rispetto alla posizione dell'Italia, ai caratteri dell'occupazione italiana in quei territori. Tuttora ci interroghiamo sugli obiettivi specifici di quell'occupazione, al di là della generica aspirazione a sottrarre spazio ai nemici, in particolare all'Inghilterra. Il problema del rapporto con l'Inghilterra in relazione alla penisola balcanica è molto importante, perché il patto di Pasqua del 1938 impegnava l'Italia a non modificare lo status quo nel Mediterraneo orientale. La conquista dell'Albania fu, quindi, un vulnus pesante, all'origine dell'accelerazione dell'Italia verso la guerra. Difficile, tuttora, è capire se ci fosse un disegno, un progetto nei confronti delle aree balcaniche, che andasse oltre la conquista territoriale diretta di certi territori. Questo discorso riguarda soprattutto le aree dell'ex Jugoslavia, e in parte anche la Grecia. L'Italia si annette alcuni territori - di fatto ma in parte anche di diritto, perché emana una serie di normative per quanto riguarda le isole ioniche -, operando una sottrazione a carico della Grecia. Fa molto più corpose sottrazioni di territorio a carico della Jugoslavia. Come con l'annessione - o meglio la cosiddetta annessione - della provincia di Lubiana. Agli sloveni promette la cittadinanza italiana senza mai accordarla, estende le occupazioni dalla Dalmazia alle isole dell'Alto Adriatico, stabilisce - e qui è un altro punto di interesse di casa Savoia - un protettorato sul Montenegro: si tratta di un protettorato di fatto, mentre si considera la possibilità di inserire un altro membro di casa Savoia in Montenegro. Inoltre l'Italia amplia il territorio albanese ai danni della Jugoslavia, con l'aggregazione all'Albania del Kosovo e di una parte della Macedonia, formando quella che poi viene definita «Grande Albania». La Macedonia viene divisa con la Bulgaria, quindi si disegna la disgregazione totale di quella che era la vecchia entità statale della Jugoslavia, e l'Italia tenta di allargare anche i confini dell'Albania in direzione dell'Epiro e della fascia costiera greca a sud dell'Albania, la Ciamuria. Più che un progetto di conquiste territoriali, c'è una pratica di conquiste territoriali che è uno dei risvolti della debolezza, non solo politica ma effettiva, della politica italiana. La politica italiana non ha minimamente la capacità di penetrazione e di tenuta della potenza concorrente tedesca, non è in grado di contestare l'egemonia della Germania. A loro volta i tedeschi avrebbero voluto tenere l'area balcanica fuori dal conflitto immediato: la Germania pensava alla penisola balcanica come grande retroterra di carattere economico, area di rifornimenti, oltre che di drenaggio di manodopera in previsione della guerra all'Est. L'Italia non ha nessuna capacità di penetrazione da questo punto di vista, lo si vedrà soprattutto nello scontro di interessi, non solo genericamente nell'area balcanica, ma in particolare in Croazia, dove il riconoscimento apparente di un'egemonia politica italiana viene contraddetto dall'influenza diretta, immediata, di carattere economico della Germania. Quindi ci troviamo di fronte alla problematica che nasce da questo conflitto di interessi e, in parte, dalla mancanza di obiettivi precisi dell'Italia, nonché dalla sua effettiva impreparazione a fare fronte a impegni di quelle dimensioni. Questa situazione è anche all'origine di altre caratteristiche della politica italiana in quei territori, come l'uso indiscriminato della violenza e della repressione nei confronti non solo dei movimenti di resistenza, ma anche, si potrebbe dire adottando un'espressione che oggi usiamo in altri contesti, in forma di guerra ai civili. E questo è un ennesimo risvolto dell'incapacità sia di avere una visione politica sia di dialogare con le popolazioni. Anche in questo caso, i discorsi che sono stati fatti sulla questione dell'«altro» calzano abbastanza bene, soprattutto per quanto riguarda le popolazioni slave, considerate come una sorta di nemico ereditario. Non vi è nessuno sforzo da parte italiana - almeno in base a quanto per ora possiamo documentare - di capire chi è l'«altro». Ne è testimone la pubblicistica che attraversa la stampa italiana dell'epoca e, più specificamente, la stampa diffusa tra i soldati. La propaganda per i soldati doveva cercare di dare loro la forza e il coraggio di operare e di ambientarsi in quel territorio. Perlopiù i militari non sapevano neanche perché erano stati mandati a morire in quelle zone, e per spronarli si dipingeva loro il nemico come appartenente a una civiltà inferiore, si spacciava l'immagine della Balcania tenebrosa. Quest'immagine - che andrebbe studiata attentamente, forse più dal punto di vista antropologico che da quello storico - delinea una Balcania sconosciuta che diventa per le forze italiane un vero e proprio incubo. L'uso indiscriminato della violenza è di sicuro - oltre che determinato dalla consapevolezza dell'inferiorità e incapacità militare italiana - anche il risvolto di questa totale cecità e incomprensione delle popolazioni con le quali l'Italia aveva a che fare. Vi sono alcune ipotesi interpretative che meriterebbero di essere approfondite; ricordo in particolare gli spunti di Sala sul carattere coloniale della presenza italiana nella penisola balcanica. Molti militari e anche funzionari dell'amministrazione italiana vengono mandati in queste terre dopo aver fatto esperienza militare o di amministrazione in Africa orientale o in Libia. Uno dei comandanti italiani con maggiori responsabilità quanto a repressioni, il generale Alessandro Pirzio-Biroli che operava in Montenegro, era stato governatore dell'Amhara. Il punto, qui, non è la carriera di queste persone, ma la loro cultura e il loro modo di guardare ai loro amministrati. Nella migliore delle ipotesi, questi amministrati non sono considerati degni di un rapporto come deve esservi tra popolazioni civili, ma solo sudditi da reprimere. Lo dico in termini spicci, forse brutali, ma la sostanza del discorso è questa, e sarebbe interessante continuare ad approfondire questo tema, perché alle spalle di certi comportamenti vi era una vecchia cultura italiana che aveva sempre guardato agli slavi come a nemici, comunque un popolo barbaro. E' chiaro che in questo contesto, soprattutto nel territorio jugoslavo, la guerra cieca delle forze italiane contro il dispiegamento delle forze partigiane comportò un coinvolgimento molto esteso in operazioni di rappresaglia - anzi, in operazioni che non erano solo di rappresaglia ma anche di feroce contrapposizione alla popolazione civile - e la trasformazione del conflitto in una grande operazione di polizia. Quindi, anche nel confronto tra potere politico - penso alla provincia di Lubiana - e potere militare, l'espropriazione di qualsiasi forma di autorità civile e la trasformazione di ogni operazione in azione di carattere poliziesco o militare diedero alla presenza italiana un carattere di militarizzazione estrema, e di altrettanto estrema violenza. Uno degli esempi più forti di disposizioni per la repressione delle attività partigiane - ma con ampie implicazioni nei confronti della popolazione civile - è rappresentato dalla famosa circolare 3C del marzo 1942, diramata dal generale Mario Roatta, comandante della II armata, che fu degno successore del generale Ambrosio, poi passato allo Stato Maggiore. Quest'ultimo aveva dichiarato a tutte lettere che la guerra che si combatteva in Jugoslavia era una guerra nella quale non si facevano prigionieri. Affermazioni di questa natura ne potremmo riportare molte, non soltanto grazie alle indagini - e alle relative documentazioni - di Tone Ferenc, uno storico sloveno purtroppo deceduto, ma anche grazie a uno dei pochi studi che l'Ufficio storico militare dello Stato Maggiore dell'Esercito è riuscito a produrre su questi temi, L'occupazione italiana della Slovenia (1941-1943) di Marco Cuzzi.
Stralcio dal saggio di Enzo Collotti "Le occupazioni italiane nei Balcani" in "Dall'Impero austro-ungarico alle foibe" (Bollati-Boringhieri, pp. 304, euro 24,00), in libreria dal 12 febbraio
l’Unità 31.1.09
Intervista con Livia Turco
«Da Fava sul Pd parole assurde e irricevibili»
L’ex ministro: ha le sue ragioni sulla legge elettorale per le Europee, ma non c’entra nulla con il voto per Cosentino. Lo sbarramento è sbagliato
Onorevole Livia Turco, Claudio Fava, leader di Sd, ha accusato il Pd di aver fatto uno scambio con il Pdl sullo sbarramento per le europee. In questo baratto il Pd avrebbe messo anche la lotta alla mafia: la prova sarebbero i tanti assenti e astenuti sulla mozione di sfiducia contro il sottosegretario Cosentino...
«Parole irricevibili, Fava non può coltivare sospetti di questo genere contro il Pd e il suo segretario Veltroni. Li respingo in modo fermo. Fava ha ragione a lamentarsi per lo sbarramento, anche io sono e resto contraria. Ma con invettive di questo tipo non si va da nessuna parte, c’è solo la degenerazione del confronto politico. Con queste parole Fava allontana anche una come me...».
Eppure nel Pd ci sono state decine di voti mancanti per la mozione di sfiducia a Cosentino, accusato da alcuni pentiti di rapporti con il Clan dei Casalesi.
«Il partito ha posto la questione con grande forza e coerenza, abbiamo fatto una battaglia vera: non a caso la mozione era firmata dal nostro capogruppo Soro. Se non è passata è stato per il voto contrario della maggioranza. Quanto agli astenuti, evidentemente non erano convinti fino in fondo di quella mozione. Ma da qui a dire che questi deputati sono insensibili alla lotta alla mafia, o complici di qualche cosa, ce ne passa parecchio. Sono accuse assurde, che servono solo ad avvelenare il clima. Io ho ascoltato in aula le ragioni dell’astensione dell’onorevole Tempestini, una persona serissima. Se ci fosse stato un patto indicibile, Soro non avrebbe presentato quella mozione».
Fava è molto arrabbiato per lo sbarramento...
«Ecco, se stiamo su questo terreno penso che abbia le sue ragioni. Anche Veltroni ha detto che l’esclusione della sinistra radicale dal Parlamento è stata una ferita per la democrazia. Ecco, per rimarginarla ci sarebbe voluta attenzione, ascolto per le ragioni della sinistra, di una fetta importante di elettorato che rischia di precipitare nella sfiducia. Il Pd avrebbe dovuto avere questa attenzione, e rinunciare a qualunque forma di sbarramento. Anche perché non credo che, comunque, ne trarrà grandi vantaggi».
In che senso?
«Nel senso che non prevedo forme di voto utile, da sinistra verso il Pd: alle europee non si sceglie il governo. Noi avremo successo se sarà credibile il nostro progetto, se avremo parole chiare sulla crisi, sulla sicurezza, sull’immigrazione. Se diremo chiaramente quale sarà la nostra casa in Europa. Se queste cose non ci saranno, non sarà lo sbarramento a darci una mano. Ecco, a Walter lo voglio dire chiaramente: per vincere è molto più utile dire con chiarezza quale sarà la nostra famiglia europea rispetto agli sbarramenti».
Si dice che così si consolida il bipolarismo...
«La vocazione maggioritaria parte dalla forza di un programma e guai pensare che significhi “nessuna alleanza”. Se questo è vero, è un errore anche tattico alimentare lacerazioni a sinistra. Sarebbe stato molto meglio sanare la ferita del 2008, quando siamo andati da soli, invece di alimentare divisioni e risentimenti».
Franceschini sostiene che così la sinistra sarà spinta a riaggregarsi...
«Evitiamo almeno questi toni paternalistici. Le aggregazioni sono processi politici, non si fanno grazie alle leggi elettorali. Abbiamo deciso di dire sì a questo sbarramento, ma almeno evitiamo di dire alla sinistra che per loro sarà un bene...».
l’Unità 31.1.09
Violenza sessuale. La repressione non basta
Bisogna ripartire dall’educazione dell’uomo
a cura di Natalia Rodriguez
Pochi anni fa l’apparizione di un seno alla televisione americana in orario di massimo ascolto provocò uno scandalo pazzesco. Justin Timberlake e Janet Jackson cantavano nell’ intermezzo della partita finale dal campionato di calcio americano. Un gesto, una provocazione o magari una strategia commerciale, chissà, ma milioni di persone si trovarono di fronte a un capezzolo inaspettato, e scoppiò una grande polemica. Per un seno. Il rapporto fra gli americani e l’immaginario sessuale è molto complesso. Un seno in televisione può essere considerato un attacco ai valori americani, mentre i giovani si trovano a gestire una sessualità complessa.
Nel bagno dalla Stokes Librery si possono trovare alcuni poster dove si legge: «Una donna su quattro di questa Università è sopravvissuta a una aggressione sessuale o ha affrontato un tentativo di violenza durante il corso di laurea». Messaggi per la prevenzione sono frequenti anche in scuole, bar e biblioteche. Nonostante i poster e le buone intenzioni, purtroppo il messaggio sembra non raggiungere lo scopo. I comportamenti violenti nei confronti delle donne non demordono. Il numero delle aggressioni resta troppo alto. La campagna di prevenzione fin qui messa in atto non è sufficiente. Cosa e dove si sta sbagliando?
Alcuni studi sottolineano come sarebbe opportuno, a questo punto, promuovere iniziative che agiscano puntando a ridurre il tasso di accettazione dei comportamenti violenti contro le donne nella società e in particolare nei gruppi dove soprattutto negli ambienti universitari è attiva una tolleranza sottotraccia nei confronti di questo tipo di violenza. Nei bagni delle università americane si possono trovare anche poster contro l’alcolismo. Il problema è che i messaggi veicolati da queste campagne sono contraddittori.
Se da un lato si dice: «La maggioranza degli studenti beve tra quattro e sei bicchieri in una notte di festa», dall’altra si afferma: «questa quantità è eccessiva ed è dannosa per la vostra salute». La contraddizione sta nel fatto che questo doppio messaggio mette in luce un comportamento sociale molto popolare e allo stesso tempo condannato. Nei campus americani si beve molto e lo stato d’ubriachezza è frequente. Ed è proprio la condizione d’ubriachezza uno dei fondali più importanti della violenza sessuale.
Questi messaggi non sono efficaci Un poster da solo non ce la può fare. Ma può far sì che all’interno dei gruppi gli studenti inizino a parlare tra loro su questo tema. Allora il gruppo diventa il fulcro di una nuova politica d’intervento. Perché? Perché è proprio il gruppo il nucleo fondamentale su cui poggia la tolleranza nei confronti di comportamenti violenti contro le donne e in questo l’alcol gioca un ruolo spesso decisivo.
Dalla fine degli anni 90, l’Università James Madison di Virginia lavora utilizzando questo approccio di gruppo contro la violenza sessuale con strumenti desunti dal marketing. Con l’obiettivo di «vendere» una scala di valori capace di mettere in minoranza la «legge» che ha fin qui quasi legittimato lo scivolamento dei comportamenti nell’area della violenza. Nei campus si può leggere «L’uomo rispetta la donna: nove uomini su dieci della James Madison si fermano di fronte al primo no al sesso pronunciato dalla sua compagna».
Il punto di partenza di questo lavoro era molto chiaro: quasi tutti i fattori che favoriscono l’aggressione sessuale si coltivano all’interno di gruppi maschili; di conseguenza i programmi sono stati portati avanti da psicologi uomini specializzati. Questo programma ha prodotto risultati apprezzabili.
Qualcuno si è chiesto: non sarebbe forse meglio minacciare gli aggressori con pene più dure? I fatti dimostrano che è una strada improduttiva. Nella James Madison le indagini hanno evidenziato che gli uomini e anche le donne non davano valore al «consenso» nelle relazioni sessuali. Anzi, gli studi hanno dimostrato che gli uomini non riconoscevano le donne come compagne se nel gruppo questa percezione non era acquisita come positiva. Cosa possono punizioni più severe contro una cultura ben radicata che toglie valore fondamentale al «consenso» nelle relazioni tra uomini e donne?
Sono stati costruiti messaggi destinati esclusivamente alle donne. Alcuni di questi lavorano affidando alla paura un ruolo di governo delle scelte e dei comportamenti. Uno spot della televisione italiana mostra una donna che cammina sola nella notte. Un uomo la segue e la blocca per il braccio; la voce fuori campo recita : «fai attenzione, questo può succedere anche a te».
La paura può convincere tutte le donne a restare chiuse in casa la sera, ma non eviterà la violenza sessuale che si consuma all’interno dei gruppi d’amici o spessissimo nella propria casa. La paura non aiuterà le donne. Gli studi fin qui compiuti tendono invece a dare importanza a tutti gli strumenti utili a rafforzare il controllo della paura nello scenario della violenza sessuale.
Il ruolo degli uomini Un aspetto interessante di questo nuovo approccio è il ruolo degli uomini: in questa direzione vengono infatti assunti come soggetti della soluzione e non più solo come causa del problema. Da qui, l’opportunità e l’urgenza di promuovere a tutti livelli una normativa sociale che convinca l’uomo ad accettare la pari dignità della donna. A partire ovviamente dalle relazioni all’interno dei gruppi.
l’Unità 31.1.09
Nessuno ricorda lo sterminio degli zingari
di Dijana Pavlovic

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Repubblica 31.1.09
Il colonialismo del terzo millennio
Territori sempre più vasti dei paesi poveri comprati dalle nazioni ricche: è il nuovo colonialismo. Al tempo della crisi
di Ettore Livini
Niente carri armati. Zero aerei, soldati e cannoni. Il neo-colonialismo del terzo millennio (copyright della Fao) va alla conquista di nuove terre da sfruttare a bordo di comodi trattori. Spargere sangue per annettersi un pezzo d´Africa, Asia o Sudamerica non serve più. Oggi - per alzarci la propria bandiera - c´è un metodo molto più semplice: comprarselo. Il Terzo mondo, messo in ginocchio dai dazi agricoli e dai capricci dei prezzi delle materie prime, si è messo in vendita. E i paesi più ricchi (ma non solo) - consci che tra pochi anni terra e acqua saranno risorse più preziose del petrolio - fanno già la fila per accaparrarsi le nazioni in saldo.
Questo risiko sulla pelle delle aree più povere del pianeta è aperto a tutti. Si muovono governi, grandi aziende, fondi sovrani, persino i privati. Philippe Heilberg, ex banchiere a Wall Street e oggi numero uno della Jarch Capital (società dietro cui ci sono molti ex-uomini della Cia e del dipartimento di Stato Usa), si è regalato due settimane fa 400mila ettari di campi fertili in Sudan lungo le sponde del Nilo.
Le aree più povere del pianeta sono ormai in ginocchio Colpa dei dazi agricoli e del prezzo delle materie prime E così, per annettersi un pezzo d´Africa, di Asia o Sudamerica non c´è più bisogno di guerre e invasioni. Basta semplicemente fare un´offerta e acquistare territori. Come in un risiko. Tragico
Una maxi-fattoria grande come tutto il Dubai. Venditore: Gabriel Matip, figlio di Paulino, il signore della guerra che da anni controlla in punta di fucile queste zone. Il Madagascar ha "affittato" alla Daewoo per 99 anni 1,3 milioni di ettari, una superficie superiore a quella del Belgio e pari al 50% della terra arabile malgascia. Qui i trattori dei sudcoreani coltiveranno mais e olio di palma da destinare ai consumi interni di Seul. «L´intesa è solo all´apparenza commerciale - commenta Carl Atkins di Bidwell Agribusiness, società di consulenza che si occupa di questo tipo di transazioni - In realtà è sponsorizzata dal governo della Corea del sud nel nome degli interessi strategici nazionali di sicurezza alimentare».
«Siamo di fronte a un fenomeno che non possiamo non catalogare alla voce del neo-colonialismo», ha lanciato l´allarme il numero uno della Fao Jacques Diouf pensando al 70% dei cittadini del Madagascar che vivono al di sotto della soglia della povertà. Ma fermare il vento con le dita è impossibile. La Cina - paese dove l´acqua (scarsissima) vale già come oro - ha messo le mani avanti dal 2007 comprando a suon di renminbi centinaia di migliaia di ettari nelle Filippine, in Sudan e Kazakhstan. La Libia ha barattato uno po´ di barili del suo greggio per aggiudicarsi i diritti su un pezzo di Ucraina. Quindici investitori sauditi hanno puntato 4 miliardi di dollari per sviluppare 500mila ettari in Indonesia. Obiettivo: piantare riso Basmati da riesportare poi in Arabia.
Il problema della Fao e delle organizzazioni non governative - allarmate per le drammatiche conseguenze sui milioni di persone che oggi campano coltivando queste terre - è che le vittime del neo-capitalismo, affamate di capitali e investimenti, sono le prime a mettere la testa sotto la ghigliottina. La Cambogia, ingolosita dalle intese indonesiane, ha messo in vendita pezzi enormi del paese. «Vogliamo incassare 3 miliardi - ha detto orgoglioso Suos Yara, sottosegretario alla cooperazione economica di Phnom Penh - Abbiamo contatti avanzati con Kuwait e Qatar». Che dalla sabbia dei loro deserti riescono a cavare solo petrolio. Stessa musica in Etiopia: «L´asta per i nostri campi è aperta, ci servono tecnologie e soldi», ha annunciato il primo ministro di Addis Abeba Meles Zenawi.
Ad accelerare questo suk, che sta ridisegnando la mappa del mondo senza sparare una sola pallottola, è stata la bolla speculativa sui prezzi delle materie prime alimentari del 2008. Il problema, dicono i sociologi, è semplice. La popolazione del mondo cresce a ritmi vertiginosi mentre le superfici coltivabili sono più o meno sempre le stesse. Nel 1960 ogni essere umano aveva a disposizione 4.300 metri quadri del pianeta per il suo sostentamento alimentare. Oggi siamo scesi a 2.200 e nel 2030 il nostro "spazio vitale" sarà di soli 1.800 mq. Altro che dipendenza dal greggio: «Allargare la terra a disposizione dei propri cittadini sta diventando sempre più una priorità strategica per i governi che sanno guardare più lontano», dice Atkins. Quelli che non sono capaci (o non possono permettersi di farlo) invece vendono.
Le cose tra l´altro, dicono gli esperti, rischiano solo di peggiorare. «La prossima emergenza si chiama acqua - sostiene Chiara Tonelli, docente di genetica all´università degli studi di Milano e consulente dell´advisory group sull´alimentazione della Ue - Il 70% delle risorse idriche viene utilizzato oggi per l´agricoltura e il cambio delle abitudini mondiali dalla dieta vegetale alla carne (per produrre un chilo di riso ci vogliono mille litri d´acqua, per un chilo di carne 45mila) aggraverà questo problema. Ragion per cui chi può va a comprarsi e consumare l´acqua degli altri». La Cina è l´esempio più lampante: a Pechino non manca certo la superficie arabile. Ma la cronica indisponibilità di sorgenti e fiumi ha convinto il governo da qualche anno ad adottare una certosina politica di acquisizioni di terra all´estero (da Cuba al Messico, dall´Australia all´Uganda fino alla Russia e alla Tanzania) che ha consentito di alzare la bandiera rossa su quasi 3 milioni di ettari in giro per il mondo.
Il problema è chiaro (e antico): i paesi più potenti e ricchi si riempiranno in futuro la pancia a spese di quelli più poveri. Offrendo in cambio poco più di un piatto di lenticchie. Ma cosa si può fare per arginare questo fenomeno? La Fao, alle prese con un miliardo di persone che soffrono di fame (un numero che cresce invece di diminuire), ha proposto di avviare un piano di aiuti d´emergenza all´agricoltura delle nazioni più arretrate per non costringerle ad appendere il cartello "Vendesi" sulle proprie terre. Peccato che in piena crisi finanziaria i big del G-8 non trovino i soldi nemmeno per rimediare alle voragini aperte dalla loro finanza creativa.
La scienza ha la sua ricetta: se le terre non si possono allargare, spiegano pragmaticamente nelle università, si può provare a farle rendere di più. «Oggi il 30% della produzione agricola è perso per stress come malattie e mancanza d´acqua - spiega Tonelli - Una cifra enorme. Basterebbe riuscire a rendere le piante più resistenti alla siccità o recuperare alla coltivazione i terreni marginali per disincentivare la convenienza economica allo shopping di terre all´estero». Una risposta di mercato forse più efficace degli appelli della Fao. Le conoscenze scientifiche per arrivare a questi risultati tra l´altro, grazie al sequenziamento dei genomi, ci sono già. Ma le resistenze alle modifiche genetiche, il crollo dei fondi per la ricerca e le lungaggini dei processi d´approvazione non autorizzano a sperare in una rapida soluzione scientifica alle esigenze alimentari del mondo.
La via dunque è stretta ed è in questo crinale sottile che si tuffano tutti, dai governi ai bucanieri della finanza come Heilberg. «Agricoltura? Io non ne capisco niente - ha ammesso il numero uno della Jarch, ex manager della disastrata compagnia assicurativa Aig, dopo lo shopping in Sudan - So solo che questa è terra fertile in una zona instabile. E quando la situazione sarà tranquilla, con la richiesta di asset come questi che c´è in giro per il mondo, noi faremo grandi affari». Nessun rimorso per aver negoziato con un signore della guerra. «So che Paulino ha ucciso molta gente - ha confessato al Financial Times - ma l´ha fatto per difendere il suo popolo».
Pecunia non olet, il denaro non ha odore. «Io ho tutti i giorni sotto il naso la mappa del mondo per andare a di nuove occasioni - conclude Heilberg - E sto già guardando al Darfur». Il neo-colonialismo - un´arte raffinata - riesce ormai persino a far combattere le sue guerre dagli eserciti altrui.
Repubblica 31.1.09
La Terra in svendita
di Carlo Petrini
Tutto fa presupporre che il 2008 sarà l´anno che ricorderemo come quello in cui è iniziato un cambiamento epocale. Le crisi finanziaria, ecologia e climatica sono esplose in tutta la loro gravità. È proprio in questi momenti che la terra, la natura, le risorse rinnovabili e la produzione di cibo attirano maggiori attenzioni: sono quell´economia reale a cui ri-aggrapparsi. Sono il motore di un possibile cambiamento e si fa gara ad accaparrarsele.
Non è dunque un caso che chi ha sfruttato e vilipeso la Terra, ha generato la crisi finanziaria, ha fatto miliardi con pratiche insostenibili, oggi che si trova con le spalle al muro si getti a capofitto nell´acquisizione selvaggia di terre e fonti d´acqua. Non sono certo operazioni che hanno come fine il bene della comunità: il tentativo è di spremere tutto ciò che si può ancora spremere. Bel cambiamento.
Cambiamento è la parola sulla bocca di tutti, è ciò che più ha cavalcato Barack Obama nella corsa alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti d´America.
Ovvero l´evento indiscusso del 2008, che farà storia, grazie a un uomo che si presenta promettendo di «imbrigliare il sole e i venti e il suolo per alimentare le nostre auto e mandare avanti le nostre fabbriche»; che promette alla gente delle nazioni povere «di lavorare insieme per far fiorire le campagne, per pulire i corsi d´acqua, per nutrire i corpi e le menti affamate».
In tutto il nostro fare non avevamo mai messo in conto le esigenze della natura, gli equilibri ambientali, uno sfruttamento equo delle risorse e il benessere dei poveri: probabilmente è stato il nostro errore più grande. Credevamo di migliorare la nostra condizione e invece l´abbiamo peggiorata.
Ma dicevamo che il 2008 farà storia. Per l´evidenza delle crisi e l´elezione di Obama, certo, ma forse nessuno lo ricorderà per l´entrata in vigore di una delle costituzioni nazionali più moderne e intelligenti del mondo. Il 28 settembre 2008, infatti, la popolazione dell´Ecuador ha votato a larga maggioranza la propria nuova costituzione, la prima nella storia in cui vengono riconosciuti i diritti della natura insieme a quelli delle persone e della collettività.
Una carta costituzionale esemplare che, come tutte le costituzioni, è figlia dei propri tempi e recepisce in pieno le nuove esigenze di questo mondo in difficoltà. Nelle roccaforti della democrazia Occidentale la protezione dell´ambiente, delle minoranze etniche e culturali, della diversità e della biodiversità non erano certamente delle priorità nel momento in cui si trovarono a darsi delle regole fondanti: nei periodi post-rivoluzionari o post-bellici erano, giustamente, da privilegiare valori come l´uguaglianza, il lavoro, la libertà.
Oggi, in questo quadro mondiale, in un paese come l´Ecuador, è invece sintomatico come la vera conquista sia rappresentata dall´inedito riconoscimento dei diritti del creato. La portata innovativa del documento però non finisce qui, perché i diritti della natura sono soltanto uno dei presupposti per il «buen vivir»: un concetto chiave, nel documento scritto anche in lingua quichua, «sumak kawsay».
Il "buon vivere" nell´opulento mondo Occidentale è connotato da cose superflue, dall´accumulazione della ricchezza; in campo alimentare dallo sfizio costoso, "gourmettistico" o pantagruelico. Tutto ciò è sintomatico di un´altra visione del mondo: il buen vivir in Ecuador è il fine di vivere in armonia con ciò che ci sta intorno e con gli altri. Per perseguirlo hanno messo nero su bianco che va difeso l´ambiente, che la sovranità alimentare è un diritto inalienabile, che i suoli vanno conservati e protetti, che la terra deve essere garantita ai piccoli contadini, che l´acqua non si può privatizzare, che i popoli indigeni hanno gli stessi diritti degli altri, mentre la loro identità, la loro lingua, i loro saperi ancestrali sono importanti come le più moderne tecnologie e la ricerca più avanzata. Hanno però vietato gli organismi geneticamente modificati, vogliono ridurre le emissioni di CO2 e dichiarano di voler rispettare la «Pacha Mama», la Terra Madre, «con tutti i suoi cicli vitali, funzioni e processi evolutivi». Propongono un nuovo rapporto e un nuovo equilibrio fra zone urbane e zone rurali, all´interno delle quali anche ai piccoli contadini è garantito il diritto al buen vivir. Niente di tutto questo è rintracciabile in altre costituzioni. Pensiamo ad esempio alla sovranità alimentare: c´è un intero capitolo ad essa dedicato, e non si tratta di un generico dovere di garantire alimenti a tutta la popolazione, ma si pongono le condizioni, economiche ed ecologiche, perché tutti possano godere del cibo che vogliono scegliersi.
Mentre Obama teneva il suo magistrale discorso, pieno di speranza e propositivo in tema di importanti cambiamenti, io pensavo alla nuova costituzione dell´Ecuador e al buen vivir. Mi chiedevo se in un paese come gli Stati Uniti e in tutto l´Occidente, dove abbiamo un´idea completamente diversa del "buon vivere", dove lo ricerchiamo attraverso un sistema economico disumano, del tutto avverso alla Natura, i cambiamenti invocati dal nuovo Presidente Usa potranno davvero trovare terreno fertile. E la metafora non cade a caso: mentre il terreno fertile diventa un bene preziosissimo, comprato selvaggiamente da chi non ha idea cosa sia il buen vivir, si sente anche la mancanza di quel terreno fertile dato da menti aperte, da una nuova visione del mondo. Una visione che si emancipi dai sistemi economici, energetici, alimentari e industriali che ci hanno condotto sin qui, a riporre tutte le nostre speranze nel nuovo capo della nazione che in realtà più di tutte ha esportato quei sistemi insostenibili in giro per il mondo. Tranne in Ecuador, a ben vedere.
Repubblica 31.1.09
Grand Palais, esauriti persino i biglietti delle 4 del mattino
Parigi in fila anche di notte per la 24 ore di Picasso
di Giampiero Martinotti
Nel tentativo di attrarre un pubblico più giovane, i grandi musei sperimentano nuovi orari d´apertura E nonostante i rigori dell´inverno, in Francia spopola l´esposizione-evento al Grand Palais
"Picasso la nuit" Parigi insonne
I cancelli sono aperti a ciclo continuo da ieri mattina a lunedì sera
18 mila biglietti notturni sono già stati venduti. Per gli altri 18 mila tocca fare la coda
PARIGI È la superstar dell´arte novecentesca, uno dei rari artisti a mettere d´accordo critici e pubblico, a conciliare gli snob e i cultori del nazional-popolare, a far tacere le differenze tra il colto e l´inclita: Pablo Picasso ha sbancato ancora una volta il botteghino. Settecentodiecimila persone hanno visitato da ottobre a oggi la mostra del Grand Palais dedicata al pittore spagnolo e ai maestri che lo hanno ispirato.
E altre cinquantamila sono attese in tre giorni per un´inedita kermesse: da ieri mattina e fino a lunedì sera, infatti, la mostra è aperta senza interruzione, di giorno e di notte. Tutti i posti prenotabili sono esauriti, compresi quelli alle quattro o alle cinque del mattino.
Vedere Picasso anche a costo dell´insonnia - come già avviene, ma in piena estate, per i capolavori di Goya a Madrid - è insomma la parola d´ordine degli appassionati che hanno già un biglietto e di quelli che si metteranno in coda per una o due ore, malgrado il freddo delle notti parigine: 18 mila biglietti "notturni" sono già stati venduti, gli altri 18 mila sono riservati a chi si sorbirà la coda.
Un vero e proprio happening difficilmente paragonabile con altri avvenimenti. Certo, da qualche anno la «notte bianca» ha abituato a un festival sotto le stelle dedicato all´arte, ma in quel caso si tratta di un avvenimento particolare, di una specie di mega-spettacolo. Qui, invece, si tratta di andare a vedere una mostra tradizionale a un´ora in cui le auto sugli Champs-Elysées si fanno rare e il piantone al commissariato del Grand Palais comincia a chinare il capo dal sonno. E di sopportare le temperature previste per stanotte, attorno allo zero. Gli organizzatori della mostra hanno però cercato di addolcire la stanchezza degli aficionados: ai visitatori in fila saranno offerti cioccolata e bevande calde per aiutarli a superare la prova del freddo e del sonno. All´interno, bar e libreria saranno aperti durante tutta la maratona. L´obiettivo principale di questo "Picasso by night" è di far venire i giovani, visto che la media dei visitatori delle mostre al Grand Palais è di 53 anni.
Esposizione eccezionale, successo strepitoso (anche se non si tratta di un record) e profitti sostanziosi: la mostra dovrebbe portare nelle casse della Réunion des Musées Nationaux (Rmn) più di un milione di euro. Una cifra che ha creato immediatamente molte gelosie: i tre musei che hanno prestato il grosso delle tele (Louvre, Picasso, Orsay) hanno rivendicato il 70 per cento di quella cifra, la Rmn ha risposto picche annunciando che i soldi guadagnati serviranno a ripianare il deficit di altre mostre. I responsabili, del resto, ricordano che nessuna mostra al mondo è in attivo se si considerano tutti i costi (trasporti, assicurazione, affitto, ecc.) e che la mostra Picasso lo è solo se si considerano i costi diretti.
Resta il successo, alimentato anche dalle star: a vedere Picasso e la sua genealogia artistica sono venuti proprio tutti, da Nicolas Sarkozy e Carla Bruni a Woody Allen e Nicole Kidman, da Valéry Giscard d´Estaing a Sophie Marceau. E poi la folla degli anonimi, che stanotte ha avuto l´onore di microfoni e telecamere: per tre notti, la superstar Picasso è stata soppiantata da una star inattesa: il pubblico.
Corriere della Sera 31.1.09
Immigrazione, chiede asilo il 75% di chi arriva per mare
Unhcr: non possono essere respinti
di Mario Porqueddu
A fine 2008 le istanze ricevute dalle commissioni erano 31.097. Già valutate 21.933
Le procedure L'esame delle domande è lungo e complesso. Il trasferimento in centri appositi
Era il 1999, l'anno della guerra in Kosovo. Migliaia di persone in fuga dai Balcani bussarono alle porte d'Italia e le richieste d'asilo, che solo due anni prima erano state circa 2 mila, superarono le 33 mila; una cifra senza precedenti per il nostro Paese. Allora si parlò di emergenza-profughi. Sono passati dieci anni e molte cose sono cambiate. Dal Kosovo in Italia non arriva più quasi nessuno, ma nel mondo si continua a scappare da Paesi in guerra, persecuzioni, aree di crisi. Alla fine del 2008 le commissioni territoriali per il diritto d'asilo in Italia avevano ricevuto 31.097 richieste: 21.933 sono state valutate. In 9.478 casi le udienze si sono concluse con un diniego, 10.849 hanno avuto esito positivo. Il nostro Paese ha riconosciuto lo status di rifugiato — pensato per chi è vittima di una persecuzione ad personam — a 1.695 richiedenti, e ha accordato forme di protezione sussidiaria o umanitaria in altre 9.154 occasioni.
Per capire la realtà descritta dai numeri, però, occorre qualche confronto. Nel 2007 in Italia le domande d'asilo sono state 14 mila. L'anno prima furono circa 10.500. C'era un crescendo e quest'anno c'è stato un picco. «Ma stupisce vedere come, di fronte a cifre simili a quelle di dieci fa, la situazione sia sempre di affanno — dice Laura Boldrini, portavoce dell'Unhcr, l'Alto commissariato Onu per i rifugiati —. Non si è riusciti a prevedere il fenomeno e inserirlo in termini di risorse nel budget dello Stato. La mancanza di programmazione ha impedito che si creasse un sistema adeguato. Così ogni anno si finisce per dichiarare lo stato di emergenza a livello regionale o nazionale perché servono più fondi per offrire accoglienza alle persone. Questo crea confusione nell'opinione pubblica, come se il Paese dovesse difendersi da un'invasione. Non è così». Un fattore che distorce la percezione è che sempre più spesso la strada dei richiedenti asilo passa per Lampedusa. Quella che nell'immaginario italiano rimane «l'isola dei clandestini», da almeno un paio d'anni è la principale porta d'ingresso per donne e uomini che fuggono verso l'Europa perché la loro vita è in pericolo. Le carrette del mare sono le stesse, ma i flussi migratori sono cambiati. Nel 2008 (dati del Viminale) sono sbarcate sulle coste italiane 36.952 persone: 30.657 hanno preso terra a Lampedusa. «Dal mare, però, arriva solo il 15% dei clandestini presenti sul territorio nazionale — ha spiegato il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, una decina di giorni fa —. Anche trovando la soluzione alla questione-Lampedusa risolveremmo solo parte del problema: l'85% degli immigrati giunge nel nostro Paese con visti turistici, poi li fa scadere e rimane ». Altri perdono il lavoro, non ne trovano uno entro 6 mesi ed entrano in clandestinità.
L'Unhcr ribadisce: «Le nostre statistiche dicono che il 75% di chi è arrivato in Italia dal mare nel 2008 era un richiedente asilo. Queste persone non possono essere respinte, a meno di violare la Convenzione di Ginevra. Perciò, quando si firmano accordi bilaterali tra Stati nell'ambito della lotta all'immigrazione irregolare, come quelli sui pattugliamenti delle coste africane, ci devono essere garanzie specifiche per i richiedenti asilo».
Lo status di rifugiato è concesso con parsimonia, perché accordarlo a chi non ne ha diritto indebolirebbe lo strumento di protezione. L'Ue a fine 2007 dava asilo a 1 milione e 400 mila persone. In Italia i rifugiati sono 38 mila, uno ogni 1.500 residenti (la cifra non comprende minori e rifugiati riconosciuti prima del '90). Non sono molti: Norvegia, Germania e Svezia ospitano oltre 7 rifugiati ogni 1.000 abitanti. Da noi la procedura standard funziona così: prendendo ad esempio Lampedusa, un funzionario dell'Unhcr comunica a ogni persona che sbarca le informazioni in materia di asilo, illustra le regole, spiega che non tutti hanno titolo per fare domanda. Qualcosa di simile avviene ai valichi di frontiera, a Fiumicino e Malpensa, nei porti di Bari, Brindisi, Ancona e Venezia, dove spesso a fare questo lavoro è il personale di associazioni come Caritas o Consiglio italiano per i rifugiati. Chi vuole chiedere asilo viene indicato alle autorità, è fotosegnalato, gli prendono le impronte digitali e le generalità. Poi, se privo di documenti, parte per un «Cara», Centro di accoglienza per richiedenti asilo, mentre se ha soldi e passaporto è libero di spostarsi dove vuole. I «Cara» sono aperti, di giorno le persone entrano ed escono a piacimento, perché chi chiede protezione non ha interesse a scappare. Il passo successivo è compilare il modulo «C3», con il quale chi ha lasciato il suo Paese e non può tornarci comincia a raccontare alle forze di polizia italiane la sua storia. A quel punto inizia l'attesa. Dall'arrivo nel «Cara» all'audizione si aspetta, in media, circa 4 mesi. Dipende dall'arretrato che le commissioni devono smaltire: in questo momento le «istanze in attesa di esame» sono circa 10 mila. In Italia fino a pochi mesi fa operavano 10 commissioni, a novembre un decreto ha istituito altre 5 sottosezioni: sono tutte composte da un prefetto, un rappresentante della polizia, uno dell'Anci e uno dell'Unhcr. Se il caso che esaminano è lampante il colloquio con il richiedente asilo può risolversi in 45 minuti. Altre volte si parla per ore. L'intervistato deve spiegare perché è fuggito da casa sua, meglio se fornisce delle prove: «Capita che mostrino tesserini di appartenenza a un partito di opposizione, articoli di giornale che hanno scritto, documenti che dimostrano la residenza in un luogo dove c'è guerra — spiega Boldrini —. Poi molto dipende dalla loro credibilità. Chi conduce l'audizione fa domande incrociate, prende informazioni sui Paesi di origine presso il database dell'Unhcr e le ambasciate italiane. È un lavoro complicato: hai di fronte una persona che non conosci, ti racconta una storia, parla di tragedie, di violenza. A volte capita che si esprima bene, altre volte che sia quasi incapace di parlare. Magari a causa dei traumi subiti, o semplicemente perché non è spigliato. Tu non gli credi, decidi per un diniego: espulsione, cinque giorni per lasciare l'Italia. E allora ti porti dentro il dubbio: perché non gli ho creduto? Avrò fatto bene?». I tempi per il ricorso sono di 15 giorni se sei all'interno di un «Cara» e di 30 se vivi altrove, fuori dal centro. Dati sul numero dei ricorsi non ce ne sono. Sull'asilo, l'Italia ha recepito le normative europee con standard superiori a quelli minimi stabiliti da Bruxelles: i richiedenti possono avere un avvocato durante l'audizione e chi ottiene lo status di rifugiato non deve indicare requisiti di reddito per il ricongiungimento familiare. Ma la vita può non essere facile nemmeno per loro. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), garantisce ospitalità ad alcune di queste persone in strutture messe a disposizione da più di 100 Comuni italiani. Ognuna di loro costa circa 25 euro al giorno: il grosso lo paga il Viminale, ma negli anni altri soldi sono venuti dall'8 per mille, da fondi europei, in piccola parte dalle casse dei Comuni. I posti a regime, però, sono pochi: 2.600 l'anno scorso, 3.000 in quello appena iniziato. Insomma, la maggioranza rimane fuori. E l'accoglienza è a tempo: 6 mesi, che servono da «accompagnamento verso l'autonomia». Poi la collettività smette di occuparsi di loro.
Corriere della Sera 31.1.09
Dalla Somalia all'Italia, in fuga dalla guerra. «Ma siamo chiusi nel centro, non era quello che sognavamo»
Un anno e mezzo in attesa di una risposta
di Mariolina Iossa
ROMA — Scappano i somali. Scappano dalla guerra, dagli etiopi, dai bombardamenti, dai pestaggi e dai fondamentalisti islamici. Da una vita che non è più vita, da una città, Mogadiscio, dove c'era il grande mercato che dava da lavorare a tre milioni di persone e ora è distrutto. Alì ha 34 anni, sta in Italia da sei mesi, nel centro di Castelnuovo di Porto, vicino a Roma. Viene da Mogadiscio, ci sono voluti mesi e un viaggio lungo per arrivare qui. «Ho detto basta il giorno in cui un mortaio ha distrutto la nostra casa, ha ucciso mio padre e la moglie di mio fratello, un altro fratello ha perso una gamba. Basta lo dicono in tanti, vendono le case, i terreni e partono».
Ma avere un gruzzolo non basta. Raggiungere l'Italia è difficile. Continua Alì: «Da Mogadiscio sono arrivato a Gibuti e ci sono rimasto due mesi, ho lavorato per guadagnare i soldi che mi servivano per il pezzo di viaggio successivo. Il lavoro si trova così: vai nei posti dove sai che al mattino presto arrivano degli uomini con i camion e ti portano dove serve, a mungere le mucche, tosare le pecore, raccogliere la frutta, fare il muratore, qualunque cosa. In Eritrea sono stato un mese, in Sudan due. Da lì per attraversare il deserto devi pagare le bande di trafficanti, due, trecento dollari per ogni pezzo di strada. Una banda ti vende ad un'altra banda e devi pagare. Dopo 25 giorni nel deserto sono arrivato a Kufra, in Libia. Ci hanno messo in un capannone e ci hanno detto che se non pagavamo 250 dollari a testa non saremmo stati liberati».
Quelli che non possono pagare sono denunciati alle autorità libiche e sbattuti nelle carceri. Omar, 21 anni, è stato in carcere «2 mesi e 23 giorni, poi ci hanno liberato, lì i poliziotti sono corrotti, abbiamo dato i numeri di telefono delle nostre famiglie a Mogadiscio e loro hanno chiesto un riscatto. Come ha pagato la mia famiglia? Mio padre è morto anni fa, mia madre ha chiesto aiuto ai parenti, hanno fatto una colletta e hanno spedito i soldi».
Per liberare Omar i libici hanno preteso 600 dollari ma appena lui e gli altri hanno messo piede fuori dal carcere, quegli stessi poliziotti hanno avvisato i trafficanti di uomini che li hanno ripresi ed è ricominciato il ricatto dei soldi in cambio della libertà.
Iman, 36 anni, ha lasciato la Somalia «per questa guerra civile che dura da venti anni e che ha distrutto il mio Paese. In viaggio per Kufra su un camion con altri profughi una banda ci ha saccheggiato, ci ha portato via tutto, le cose, i soldi. Hanno costretto tre ragazze somale a scendere dal camion e le hanno violentate sotto i nostri occhi. Ci puntavano il fucile alla testa, non potevamo fare niente. Poi ci hanno lasciato andare. A Kufra un'altra banda di trafficanti ci ha massacrato di botte e ci ha chiesto 500 dollari per arrivare a Tripoli».
Tripoli, la tappa finale degli esuli somali in viaggio verso l'Italia. A Tripoli si sta almeno 5, 6 mesi per lavorare e guadagnare quegli 800-900 dollari da dare agli scafisti per la traversata in mare coi barconi. Alì ce l'ha ancora negli occhi il viaggio su quel barcone. «Ho avuto una paura che non posso dimenticare. In mezzo al mare c'erano solo due possibilità: vivere o morire. La barca era lunga non più di 8 metri, ci stavamo in 45. Se resto vivo, ho pensato, avrò tutta la vita davanti e sarò libero. Quando ho visto la motonave italiana con la bandiera che sventolava ho pensato: è fatta, vengono a salvarci. Ero veramente felice». Ma la felicità dura poco, il tempo di dire: sono un profugo, scappo dalla Somalia in guerra e Alì, Iman, Omar si ritrovano nel centro di Castelnuovo di Porto. Non sono proprio rifugiati politici ma hanno una protezione. Devono sottoporsi ad un'audizione ma per farla aspettano mesi, poi altri mesi per avere il permesso di soggiorno. Loro ancora non ce l'hanno. Come Raghe, 20 anni. «A Mogadiscio studiavo all'università, poi la mia famiglia mi ha detto: va via di qua, questa non è vita. L'università era spesso chiusa, le lezioni sospese, gli studenti perseguitati dagli integralisti islamici. Io qui spero di studiare e di trovare un lavoro, di vivere una vita vera. Ma per ora non vedo niente, stiamo al centro tutto il giorno, non conosciamo la lingua, non possiamo lavorare senza permesso di soggiorno, non ci sono scuole, assistenza, aiuti, niente che ci prepari ad integrarci. Mangiamo, beviamo e dormiamo. Io sognavo l'Italia, non pensavo che fosse questo». Abdullahi, 19 anni, sorride e annuisce: «Io mi sento il cervello spento». Quando arriverà il permesso di soggiorno, per Alì, Omar, Iman, Raghe e Abdullahi sarà passato almeno un anno e mezzo dall'addio a Mogadiscio. Le porte del centro di accoglienza si apriranno e fuori ci sarà il nulla. «Roma è piena di somali esuli con il permesso di soggiorno che non riescono a integrarsi, a trovare lavoro», dice amaro Iman.
Corriere della Sera 31.1.09
Nuovi studi sui gemelli (e un test con i topi) aprono scenari inediti sul nostro profilo genetico
La firma della mamma sul Dna
I comportamenti materni ci condizionano prima di nascere
di Massimo Piattelli Palmarini
Esperimento Sotto esame 200 coppie di fratelli Epi-genoma Non ereditiamo geni «nudi» Gravidanza Quanto incide lo stile di vita
Uno studio su circa duecento coppie di gemelli identici (tecnicamente definiti monozigotici) e gemelli fraterni (dizigotici) appena pubblicato su «Nature Genetics» da un nutrito gruppo di clinici e genetisti canadesi, cinesi, svedesi, americani e australiani conclude con la seguente frase: «I meccanismi molecolari dell'eredità possono non essere limitati alle sole differenze di sequenze del Dna». In altre parole, contano anche le minime trasformazioni chimiche impresse soprattutto dalla madre durante la gestazione, quello che in termini tecnici si definisce il «marchio» (imprinting) sui geni. In altre parole ancora, non ereditiamo dai nostri genitori solo dei geni, per così dire, nudi, non solo un intero genoma, ma un intero apparato, quello che oggi si chiama, come diremo tra un momento, un epi-genoma.
Oltre ai geni, questo apparato contiene anche una miriade di piccole appendici chimiche attaccate sia al Dna che ai rollini sui quali il Dna si arrotola nel formare un intero cromosoma, i cosiddetti istoni, costituenti fondamentali della cosiddetta cromatina (l'assonanza con cromosoma è tutt'altro che accidentale). Ebbene, queste piccole appendici, gruppi noti ai chimici organici da gran tempo, per esempio i gruppi detti metilici, stanno per dimensioni alle grandi molecole del Dna e alle proteine che costituiscono gli istoni come i sassolini catturati da un pneumatico stanno a un intero autobus. Ma il loro ruolo nel regolare l'espressione dei geni è capitale.
Tali piccoli gruppi possono bloccare o ritardare o attenuare il lavoro dell'apparato cellulare che trasforma l'informazione contenuta in un gene in prodotti biologici, per esempio in enzimi, proteine di supporto, messaggeri tra cellula e cellula, attivatori o inibitori di altri geni. Tali piccole appendici srotolano o arrotolano parti dei cromosomi, esponendo o nascondendo i geni, in tal modo attivandoli o disattivandoli. Quanti di questi gruppuscoli chimici si attaccano al Dna e agli istoni e dove esattamente si vanno ad attaccare dipende da molti fattori, per esempio dalla storia alimentare della madre durante la gravidanza, e dal suo regime di vita. I dettagli sfuggono ancora, nonostante negli ultimi anni sia fiorita un'intera disciplina, chiamata epi-genetica, che si avvale anche di modelli animali, soprattutto dei topi. I gemelli identici hanno in comune non solo le sequenze di Dna, ma anche, ovviamente, l'ambiente biologico materno della gestazione. I gemelli fraterni condividono anche loro tale ambiente, ma non tutti i geni. La comparazione tra coppie di gemelli identici e non, rappresenta, quindi un laboratorio naturale ideale per spiare i diversi effetti di questi diversi fattori.
Analizzando in minuzioso dettaglio le sequenze geniche e altri fattori in una varietà di cellule estratte da coppie di gemelli identici e non identici a varie età, questi ricercatori hanno costruito una banca dati senza precedenti. Le differenze sono, come previsto, maggiori tra i gemelli non identici, ma si trattava di precisare quanto di questa maggiore differenza è dovuta alla diversità delle sequenze geniche e quanto ai fattori qui sopra menzionati, ai piccoli onnipresenti gruppi chimici inseriti «a valle» della formazione del genoma, durante la gestazione e poi durante la vita extra-uterina. Dico «a valle» in termini intuitivi, ma il termine appropriato, dal greco, è «epi», cioè al di sopra. Epi-genetica significa, infatti, al di sopra della costituzione dell'apparato genetico, significa studiare cosa avviene, cosa cambia nell'organismo, senza che niente cambi al livello del suo Dna.
Qui conviene fare due passi indietro. Nel 1944 l'Olanda, occupata dei nazisti, venne sottoposta a drastiche restrizioni alimentari. La carestia affamò tutta la popolazione e le donne che riuscirono a completare la gravidanza partorirono bimbi e bimbe di peso assai ridotto. Fin qui niente di biologicamente sorprendente. La sorpresa viene adesso, con le nipotine di quelle nonne. Anche loro, sebbene perfettamente ben nutrite, partoriscono neonati di peso ridotto. Il passo indietro più breve va, invece, all'estate del 2003, quando Randy Jirtle e collaboratori, alla Duke University, nutrirono delle topine gravide con cibi altamente metilanti, cioè ricchi di uno di quei gruppi chimici visti sopra. Ebbene, tanto più ricca era la dieta in gruppi metilici, tanto più manifestamente giallo era il manto dei topini figli, e così succedeva nella generazione successiva.
A parità di Dna, un gene chiamato aguti veniva diversamente attivato. Il parallelo con gli effetti della carestia olandese è lampante. In anni ancora più recenti altri fenomeni di eredità epi-genetica sono stati individuati in animali, ma per quanto riguarda gli esseri umani poco si aveva. L'articolo appena pubblicato costituisce, quindi, un notevole passo avanti. Similmente a quanto si era osservato in cloni di topi geneticamente identici, le differenze individuali sussistono sempre, anche tra gemelli identici. Dati clinici ed epidemiologici sui gemelli identici nell'uomo mostrano una concordanza media di circa il 50% nella suscettibilità a diversi tipi di patologie. Molto? Poco? Il ruolo fondamentale di quello che si chiama «epigenoma», cioè del Dna con in più la miriade di gruppuscoli chimici, soprattutto i famosi metili, deciderà se il bicchiere dell'ereditarietà è mezzo pieno o mezzo vuoto.
il Riformista 31.1.09
Soru, il padrone di sinistra
di Stefano Cappellini
SONDAGGI a due facce: avanti nel gradimento sullo sfidante Cappellacci, molto indietro nella sfida tra coalizioni. Ma la scommessa è lanciata: vincere ribaltando il canone moderato della candidatura Veltroni.
Fosse un referendum sulle persone, la vittoria sarebbe assicurata. Se prevarrà il voto ai partiti, la sconfitta è certa. Il bivio di Renato Soru, in corsa per la riconferma alla presidenza della Regione Sardegna, si snoda tutto su questa consapevolezza.I sondaggi sono chiari: nel gradimento dei sardi, il suo vantaggio sul rivale Ugo Cappellacci è netto. Come netto, d'altra parte, è lo scarto tra la coalizione di centrodestra e quella di centrosinistra che si sfideranno il 15 febbraio.
Quanto alle previsioni di voto per il Pd, le cui divisioni interne hanno causato le dimissioni del governatore e portato la regione di nuovo al voto, meglio stendere il classico velo: non dovrebbe andare molto meglio che in Abruzzo, dove si fermò al 19 per cento.
Si può vincere in queste condizioni? Soru è convinto di sì, anzi si sente come quei saltatori in alto che dopo aver sbagliato la misura due volte decidono di giocarsi il terzo e ultimo tentativo alzando l'asticella. Dopo aver comprato l'Unità nel momento peggiore della sua presidenza, quando pareva che i suoi avversari interni fossero addirittura in grado di impedirne la ricandidatura («Si comprò così la riconferma», tagliano corto i suoi detrattori), e dopo essersi dimesso in polemica col suo stesso partito, un preludio che di solito porta al bagno di sangue nelle urne, a Soru piace accreditare l'idea che le sue ambizioni di leadership siano addirittura nazionali e che la sfida sarda sia solo un antipasto di quella che lo vedrà un giorno non troppo lontano riportare la sinistra alla vittoria su Silvio Berlusconi.
«Io sono contento che Berlusconi venga così spesso in Sardegna a fare campagna elettorale», dice il patron di Tiscali. Vero o no che sia, le ragioni di contentezza sarebbero le seguenti: la presunzione che il sardo non gradisca questa ingerenza di un uomo del continente, sebbene all'anagrafe faccia Berlusconi, ma soprattutto la possibilità di elevare la portata dello scontro, di presentarlo come un confronto titanico capace di produrre come conseguenza immediata la "scomparsa" del carneade Cappellacci e come risultato di lungo periodo una candidatura naturale alla premiership, in caso di vittoria il 15 febbraio.
In questo senso la campagna dell'imprenditore di Sanluri è l'esatto opposto di quella di Veltroni. Se questi non nominava nemmeno Berlusconi, l'altro lo cita in continuazione, disseminando i suoi discorsi nei palazzetti e nelle piazze di ironici rimandi al «signor presidente del Consiglio». Ma le differenze non si fermano qui. Quella di Soru è una delle campagne più di "sinistra" che si ricordino negli ultimi lustri: tutto un inno al pubblico, alla redistribuzione della ricchezza, sciorinata in comizi in stretto dialetto campidanese tra i pastori, tra i pescatori, con una capacità - questa sì del tutto simile a Veltroni - di ricordare volti e nomi di gente incontrata magari mesi o anni prima. «Signor presidente, vorrei parlarle...», lo ha avvicinato pochi giorni fa un pescatore. E lui, prima ancora che quello finisse la domanda: «Delle ferrettare». Che sarebbero poi un metodo di pesca vietato in Sardegna.
Se l'uomo ci faccia o ci sia - se cioè il suo spiccato sinistrismo sia indole reale ovvero pura scelta di marketing politico, come peraltro sosteneva ieri in un'intervista al Giornale Giovanni Valentini, ex vicedirettore di Repubblica ed ex dirigente di Tiscali - non è dato capire fino in fondo. Non foss'altro per un paradosso: la rete di supporto al governatore è quasi interamente composta dagli ex democristiani dell'isola, mentre suoi nemici giurati sono gli ex Pci e Psi, quasi tutti epurati dalle liste democrat (Antonello Cabras, che sconfisse Soru nella corsa a segretario regionale alle primarie prima di dimettersi a sua volta, è all'estero in questi giorni...). A parte il sostegno del capogruppo alla Camera del Pd Antonello Soro, già capo dei giovani Dc di Nuoro, in loco si segnala l'attivismo di Pietro Soddu, ex giovane turco cossighiano e commissario straordinario della Dc ai tempi di Tangentopoli. Anche la rete intellettuale è di estrazione cattolico-popolare. Fan di Soru sono Manlio Brigaglia, professore di Storia all'università di Sassari e, soprattutto, un altro sassarese illustre, il sociologo Arturo Parisi, convinto che l'uomo possa davvero rivelarsi «il nuovo Prodi».
Non è chiaro nemmeno fino a che punto sia un gioco delle parti, oppure una rivalità già in essere, la dialettica con Veltroni, che certo non gradisce l'ombra di un potenziale concorrente nazionale impegnato a rispolverare la parola d'ordine dell'ulivismo nel momento peggiore del Pd. E comunque, almeno su questo punto, una certezza c'è. Veltroni deve sperare con tutte le forze che Soru batta Cappellacci e, in un certo senso, la debole coalizione di centrosinistra che lo accompagna alle elezioni. Per l'ex sindaco di Roma, meglio rischiare un avversario in più domani che fare i conti oggi con una sconfitta che lastricherebbe un bel tratto della via che porta alla fine della sua leadership democratica.
il Riformista 31.1.09
Stratagemmi che puzzano d'inciucio
di Diego Bianchi
L'idea di sopravvivere con lo sbarramento del quattro per cento alle europee è cosa tristissima, soprattutto alla luce del fatto che l'escamotage è pensato per limitare forze politiche che tradizionalmente si sbarrano da sole
Ciao Diego, cosa ne pensi dell'accordo Pd-Pdl per fissare al 4% lo sbarramento alle Europee? Circolo Pd Sotomayor
Penso sia una porcata poco furba, palesemente scorretta e ingiustificabile, visto che del bipolarismo in Europa non gliene frega niente a nessuno. Sopravvivere con stratagemmi che puzzano d'inciucio è cosa tristissima soprattutto alla luce del fatto che l'escamotage è pensato per limitare forze politiche che tradizionalmente si sbarrano da sole.
Ciò detto, mercoledì ero davanti alle targhe divelte della sede del Pd ad ascoltare Ferrero che lì manifestava simbolicamente la sua protesta. A 200 metri di distanza i vendoliani manifestavano per le stesse ragioni, ovviamente separati dai primi.
Oltre a Ferrero e a due bandiere di Sinistra Democratica, al Nazareno c'erano solo giornalisti e giapponesi che li fotografavano. E Russo Spena, che mentre Ferrero parlava e spiegava le sue ragioni, chiacchierava e rideva a voce alta con un amico suo, disturbando come uno scolaretto. Solo dopo m'è venuto il dubbio che stesse dando il la ad un'ulteriore scissione.
Caro Zoro, ho appena finito di vedere la puntata di Anno Zero dedicata a Lampedusa. Tu cosa ne pensi? T'è piaciuta?
Circolo Pd Mano Negra Clandestina
Anche e soprattutto sulle pagine di questo giornale Santoro non gode di particolare stima, anzi, ma per quel che mi riguarda la puntata in questione è stata veramente bella, appassionante, formativa e informativa.
Bravo Santoro, bravo Travaglio, bravissima Youdem (e non è una battuta) a trovarsi nel posto giusto al momento giusto (con emblematiche immagini del centro d'accoglienza e della fuga dei reclusi tra le braccia dei lampedusani manifestanti), brava la Bindi, bravo Cota a fare la parte del leghista de coccio, bravo Casini a fare la parte di quello che deve dire qualcosa di diverso da quello che dicevano Bindi e Cota, brava la Guzzanti a fare l'Annunziata (a me l'Annunziata di Sabina Guzzanti me fa ride sempre, è più forte di me).
E bravi soprattutto i lampedusani. Potevano far scoppiare una guerra tra poveri, si sono alleati con i poveri.
Roba che neanche Obama l'ha pensata ancora una cosa così bella.
Caro Zoro, la famigerata amichevole tra Italia e Brasile, la dobbiamo giocare o no?
Circolo Pd Ana Laura Ribas
Ogni partita della Nazionale, amichevole o no, rappresenta un rischio. Una partita della Nazionale contro il Brasile raddoppia il rischio. Dopo il caso Panucci e l'infortunio di Cassetti abbiamo gli uomini contati e l'idea che un giocatore della Roma s'infortuni in questa inutile partita, per quel che mi riguarda cancella ogni dubbio sull'opportunità della stessa.
Ciao Diego, ti ho visto in Sardegna al seguito di Soru. Che te ne è parso?
Circolo Il Pd Non È Acquafresca
Sono stato invitato a partecipare ad un'iniziativa di lettiani candidati con Soru, e con sorpresa ho scoperto che i lettiani non sono solo Enrico Letta e lo zio, ma ce ne sono anche altri, per lo più giovani, uno dei quali mi ha pure ricordato che il 10% del Pd ha votato per il loro leader e quindi non c'è nulla di che stupirsi.
E poi ho seguito Soru per un giorno intero di campagna elettorale, e l'ho sentito rispondere ad un pescatore che lo contestava perché non gli aveva concesso le ferrettare (una discussa tecnica di pesca non permessa in Sardegna) che "non si vive di sole ferrettare", ma anche di ospedali, scuole, asili nido, ecc. ecc.
Soru parla di scuola pubblica e sanità pubblica come nessun altro politico negli ultimi anni, di giovani, ambiente e pari opportunità in una maniera tale per cui in parecchi da quelle parti pensano che Obama sia il Soru dell'Illinois. Anche al netto della retorica di ogni campagna elettorale, Soru parla da uomo di sinistra, o forse "da miliardario di sinistra", ma per come siamo messi non cambia molto.
Ciao Diego, ti risulta che il Pd abbia salvato Cosentino, il sottosegretario Pdl accusato di camorra, astenendosi alla Camera sulla mozione di sfiducia presentata dal Pd stesso?
Circolo Pentìti Pd
Sì, mi risulta, se ne parla poco, ma è successo anche questo. Qualche parlamentare Pd ha votato contro la mozione, molti si sono astenuti, altri sono usciti dall'aula per rientrare dopo il voto, qualcun altro era in missione e Cosentino s'è salvato, grazie al Pd. Considerando così inutile il proprio voto adesso, non sarà semplice chiedere voti utili a giugno.
il Riformista 31.1.09
Dopamina. Il libero arbitrio chimico
di Andrea Valdambrini
NEUROSCIENZE. All'origine delle nostre scelte ci sarebbe un elegante meccanismo neurale, in grado di spiegare persino come si diventa terroristi. È l'ipotesi del neuroscienziato Read Montague nel suo ultimo libro "Perché l'hai fatto?"
Il Duca di Mantova nel Rigoletto si vantava delle sue qualità di conquistatore cantando che le donne per lui «pari sono», se belle e non invadenti. Eppure, le scelte grandi o piccole fanno parte del quotidiano. In termini un po' più scientifici, il fatto è che il nostro cervello non può permettersi di sprecare energie come se le risorse a disposizione fossero infinite. Questo dato impone la scelta come costante necessità, senza la quale non saremmo organismi efficienti quanto dobbiamo. Se la drastica alternativa è "scegliere o morire" ecco che sembra aprirsi un abisso, per dirla nei termini poco ironici con cui si esprimeva Jean Paul Sartre. Ogni decisione ne esclude inevitabilmente mille altre, perfino in campo sentimentale.
Certo, Sartre si riferiva a grandi scelte, quelle che facciamo in modo tendenzialmente consapevole. Ma più in generale, su che base prendiamo decisioni, a partire da quelle piccolissime che facciamo ogni momento della giornata anche in modo non consapevole? Perché per esempio oggi preferisco mangiare la pasta piuttosto che le verdure? O mi va più di uscire con Silvia che con Giulia? Non è strano che ad occuparsi di questa tema sia, qualche anno dopo Sartre, non un filosofo ma uno scienziato con un ricco background di ricerca medica. In Perché l'hai fatto? (Cortina, Milano 2008) Read Montague presenta il risultato del suo decennale lavoro di ricerca, in cui ha focalizzato la sua attenzione sul ruolo della dopamina, un importante neurotrasmettitore presente nel cervello. Proprio la dopamina, sarebbe sostanzialmente responsabile delle piccole scelte, quelle che senza neppure accorgerci dobbiamo fare istante per istante. I segnali elettrici prodotti dal sistema dopaminico e inviati alle aree cerebrali coinvolte nel processo decisionale agiscono indicando quanto la situazione che abbiamo di fronte sia migliore, peggiore o eventualmente in equilibrio con le attese e attivando in questo modo un complesso circuito di valutazioni e anticipazioni di queste, che facilitano le scelte sia in presenza che in assenza dello stimolo percettivo.
La cosa più strana è che il cervello non funziona solo seguendo ricompense e delusioni "materiali" come il piacere del cibo o quello di uscire con Giulia. L'azione della dopamina sarebbe per Montague anche la soluzione all'inquietante interrogativo: cosa spinge un terrorista a compiere un'azione suicida? Non è forse questa la più anti-biologica delle funzioni, dato che porta alla distruzione di un'individuo e potenzialmente alla rovina della specie? Montague ipotizza che il circuito dopaminico sia in questo caso "ricompensato" dal solo potere di un'idea, che si assocerebbe al prestigio personale. L'assunto di partenza può essere giudicato sbagliato, sotto il profilo morale, se si tratta di dare corso a un'azione violenta o addirittura suicida. Ma i circuiti cerebrali funzionano correttamente, perseguendo linearmente l'obiettivo della ricompensa attraverso il prestigio. Ecco prché la specie umana sarebbe dotata di un "superpotere" decisamente anti-biologico, quello di respingere gli istinti più immediati, come quello principale di non morire, al solo fine di servire un'idea. Una qualità che al di là del terrorismo, potrebbe dare luogo a comportamenti nobilissimi, come quello di battersi fino a sacrificarsi per la libertà o per la giustizia.
Come se non bastasse poi lo stesso meccanismo è anche alla base del potere del marketing. Tutti noi siamo infatti inconsapevolmente spinti a comprare qualcosa principalmente in base alla ricompensa sociale che possiamo trarre da questa scelta. Compro quel cibo o quel vestito preferendolo a un altro, perché il suo marchio significa prestigio, e il prestigio è una ricompensa per ‘individuo che lo ottiene. Così il marketing ha una fonte biologica, e perfettamente naturale. Anche le bacche infatti si colorano di rosso per segnalare agli insetti la presenza degli zuccheri che sono necessari al loro nutrimento, e grazie alla scelta degli stessi insetti il loro seme viene propagato il più possibile. Insomma, alla competizione disperata, anche in natura si risponde mettendosi in mostra. Perché le scelte vanno sempre sollecitate e, ricordiamocelo, chi non sceglie o chi non è scelto muore. E anche in questo caso non tutti i messaggi "pari sono", perché alcuni risultano più efficaci degli altri. Così succede tanto alle bacche rosse rispetto alle verdi quanto al marchio Coca-cola, che da solo esercita più potere persuasivo di quello Pespi, come ha efficacemente dimostrato un esperimento psicologico condotto qualche anno fa.
La dopamina sembra la chiave di molti problemi. I tormenti filosofici di Sarte o di Heidegger sono così almeno in parte chiarificati e il Duca di Mantova è servito. A meno che non si interpreti la sua dichiarazione come un'appassionata, legittima, scelta in favore del libertinaggio e contro il tedio dell'amor coniugale: «Del mio core/l'impero non cedo/meglio a una/ che ad altra beltà».
Aprile on line 31.1.09
Folena: un partito della "conoscenza"
di Carlo Patrignani
Il primo atto è riscoprire la "vita", i sentimenti, gli affetti, l'umano, ricollegandosi a un filone caldo della storia del socialismo: al riformismo rivoluzionario di Riccardo Lombardi e al comunismo libertario e critico che in Antonio Gramsci ha avuto il suo ispiratore. E su queste basi si può "ri-costruire" un nuovo partito della sinistra, parte della grande famiglia socialista europea, che chiamo della cultura o della conoscenza. A parlare è l'ex-coordinatore dei Ds, poi leader di "Uniti a Sinistra", formazione dell'arcipelago bertinottiano "Sinistra Europea", Pietro Folena che, di fronte all'ennesima scissione di Vendola e compagni da Rifondazione Comunista è categorico e netto: "Rifondazione, accantonata la speranza di una forza nuova
della Sinistra Europea, cavalca legittimamente l'obiettivo della propria sopravvivenza, è una posizione comprensibile - spiega Folena - sia per chi ha osteggiato il cambiamento e sia per chi lo vorrebbe ma attende tempi migliori.
Incomprensibile invece è la posizione di chi sostiene le stesse idee di innovazione anche oggi: come si può pensare che - si chiede Folena - da una scissione e da una rottura, costruendo un piccolo partito con altre frange della sinistra dispersa, possa nascere un corso nuovo?".
Da Rifondazione, al Pd. "La crisi del Pd è palese - annota Folena - e non si sbaglia a affermare che questo progetto, pur con il fascino che ha esercitato, ha determinato una asimmetria da cui può uscir travolto il fragile bipolarismo italiano: in tali condizioni la destra può governare a lungo e finire con l'essere la sola possibile alternativa a se stessa". Insomma, bisogna prendere atto che una fase politica è finita e per ripartire non c'è che una strada: il socialismo versus vita. "Un Epinay italiana spesso annunciata e sempre bruciata dallo scontro sulla leadership - nota Folena - diventa un percorso necessario e perfino obbligato. Del resto la sinistra, nelle forme che si è data lungo il '900, è morta nel cuore della gente. E la violenta uscita dal Parlamento, per la prima volta in democrazia, non è solo l'esito di un'esperienza catastrofica di partecipazione al Governo e di una aggregazione elettorale confusa, gestita da un ceto politico chiuso, mediocre, autistico, ma è il prodotto (la cui altra faccia è la crisi dell'ipotesi neomoderata del Pd) di una separazione profonda, avvenuta negli anni del neoliberismo globale, tra i "proletari di tutto il mondo" e le loro forme storiche di organizzazione autonoma".
Nuovo partito e pertanto un programma specifico. "Questo programma sulla vita, per conquistare fiducia e consenso, deve avere quattro pilastri: il primo è la specie umana, i suoi affetti, i suoi sentimenti, il suo corpo e la sua coscienza che diventano il terreno di conquista e di resistenza della libertà umana; il secondo, la nonviolenza come stile di vita, risposta alla guerra e alla logica amico-nemico; la libera circolazione del sapere per cambiare la vita di tanti; la dignità del lavoro, a partire dal suo prezzo, e quindi di un rinnovato programma di difesa delle condizioni economiche e sociali di chi lavora". Una nuova sinistra che sappia, secondo Folena, "promuovere un cambiamento in cui ciascuno possa poter realizzare una parte di se stesso e delle proprie aspirazioni".
Ed il nuovo partito della cultura e della conoscenza? "Penso ad una forza che, consapevole dello sfruttamento, e della violenza sulle donne e sui bambini, e dei rischi per la vita di tanti esseri viventi e dell'ecosistema, e della spirale terrorismo - fondamentalismo - guerra, sappia vedere oggi, nella diffusione e nell'accesso di un numero crescente di esseri umani alla cultura e alla conoscenza, un'opportunità straordinaria per cambiare quelle condizioni. Il sol dell'avvenire è una vita - continua Folena - e un'organizzazione sociale in cui il tempo per sé, per i propri affetti, per gli altri, per le relazioni sociali possa crescere in quantità e in densità, e in cui le componenti meccaniche, ripetitive, alienanti possano esser progressivamente circoscritte, ridotte, temperate. Un partito che vuole che alla cultura possa accedere chi oggi non può; che vuole moltiplicare i luoghi di produzione, di diffusione, condivisione dell'arte, della musica, della danza, del teatro, della letteratura, del cinema.
Un partito che fa del bello una visione degli spazi urbani, dei paesaggi naturali e culturali e delle relazioni tra esseri umani.
Qui vi è anche una corposa indicazione sulle forme organizzate, oltre quelle sperimentate nel secolo passato, di una nuova forza della sinistra - conclude Folena - in cui l'aspetto partecipativo e democratico, nella selezione dei dirigenti e dei candidati, non può prendere la fragile forma di un'occasionale primaria, ma si deve impiantare sull'educazione permanente, sulla riflessione culturale e sull'organizzazione di un tempo per se, sull'organizzazione e sulla promozione di cultura nella società. Una comunità aperta, senza timori del diverso, che aiuta a valorizzare, nella società delle merci e del profitto, i fattori umani".