sabato 3 maggio 2008

Corriere della Sera 3.5.08
Sinistra e sconfitta elettorale
La ribellione delle masse
di Ernesto Galli Della Loggia

«Arrogante», «oligarchico », «lontano dalle masse e vicino ai salotti»: si sprecano le analisi che rimproverano al Partito democratico di aver perso le elezioni a causa del suo essersi sempre più rinchiuso nei recinti della «casta», smarrendo il contatto con la realtà italiana e alienandosi parti rilevanti del proprio elettorato, specie popolare.
Comunque stiano le cose, di sicuro esse sono apparse così agli occhi di molti e qualche buon motivo, allora, deve pure esserci. Ma va cercato non già nell'ultimo paio di anni, nel tratto più o meno sbrigativo di questo o quel leader, nelle candidature più o meno paracadutate dall'alto, nelle mises
un po' troppo sul «semplice ma raffinato» di Barbara Pollastrini o di Giovanna Melandri, bensì in quello che è successo in Italia almeno negli ultimi due decenni.
A cominciare dall'epoca di Mani Pulite e subito dopo, allorché parti via via crescenti dell'establishment italiano, per scampare al naufragio dei suoi tradizionali referenti politici — la Democrazia Cristiana, il Partito socialista e quello Repubblicano — corsero a rifugiarsi sotto le ali ospitali dei postcomunisti. Il furbo dirigente Rai, la giovane industriale in sintonia con i tempi, il navigato notabile meridionale, il pm in carriera, il banchiere di peso, il direttore generale desideroso di non perdere il posto, tutti andarono inevitabilmente «a sinistra», per non dire di buona metà e forse più dell'intero gruppo dirigente democristiano. Tutti sicuri che lì era il nuovo baricentro del potere: lì le nuove combinazioni decisive, le assegnazioni di incarichi, i riconoscimenti ambiti. Fuori dalla «sinistra» (o da quella sua versione allargata che da lì a poco sarebbe stato l'Ulivo), della classe dirigente italiana non rimase praticamente che ben poco. E quel poco, per giunta, mantenne quasi sempre il più assoluto silenzio: accrescendo così ancor di più la visibilità pubblica dell'altra parte, quella della grande trasmigrazione a sinistra. Il cui adeguato involucro ideologico fu subito approntato: l'ideologia della «difesa della Costituzione», opportunamente messa a punto e diffusa proprio allora dall'ex sinistra democristiana con il potente ausilio strategico del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
A tutto ciò il Pds e poi i Diesse aprirono, anzi spalancarono, le braccia. Essi videro probabilmente in questa generale corsa verso di loro delle classi dirigenti italiane l'annuncio inaspettato di una qualche raggiunta egemonia. Non si accorsero che era invece la premessa del proprio snaturamento. Della propria mutazione da partito popolare a partito di «quelli che contano ». Ancora peggio: di quelli sicuri che saranno sempre loro a contare.
Ma se le cose hanno potuto svolgersi in questo modo è perché già il Partito comunista — di cui il Pds e poi i Diesse hanno rappresentato una sorta di aggiornamento, sempre più aggiornato se si vuole ma sempre legato per mille fili alla matrice originaria — già il Partito comunista, dicevo, non era mai stato in realtà un partito popolare nel vero senso della parola. Il Pci fu sempre altra cosa, infatti, rispetto ai grandi partiti socialdemocratici europei, per esempio al Labour britannico o alla Spd tedesca.
Partiti dove forte si è mantenuto, anche negli usi e nei rituali, un tradizionale sostrato culturale e antropologico schiettamente popolaresco, e perfino plebeo, espresso adeguatamente fino a tempi recenti da figure di capi tratti per l'appunto dai ceti popolari e dai suoi mestieri, con i gusti e i modelli espressivi relativi. Nel Pci no. Nel Pci Palmiro Togliatti tradusse l'antica diffidenza leninista per la spontaneità delle classi subalterne e insieme la lezione egemonica gramsciana in una direzione opposta: cercare di fare largo spazio nel partito, e specie tra i massimi dirigenti, a persone di buona cultura, ancor meglio se di buona famiglia, sostanzialmente a intellettuali borghesi. Al «Migliore» non sarebbe mai venuto in mente, tanto per dire, che un capocellula di Mirafiori contasse quanto un professore della Normale. Caratteristica già del Pci, insomma, fu un forte elitismo sprezzante di tutto ciò che sapesse di «piccolo-borghese», pur se innestato su una penetrante attenzione al sentire delle «masse» considerate sempre, però, alla luce di un pedagogico paternalismo disciplinatore. Da qui il grande fascino che, anche nei tempi della più aspra conflittualità, i comunisti hanno di continuo esercitato sulla borghesia italiana: precisamente per la loro capacità di presentarsi come un partito fatto apposta per dirigere, per governare, luogo vocazionale del potere, di un potere capace di mettere insieme l'alto e il basso della società.
Ma la formula di successo del vecchio Pci, la sua miscela singolare di alto e basso in tanto potevano reggere finché il partito era obbligatoriamente lontano dal potere. Quando dopo il '94 le cose sono cambiate, la formula allora non ha più tenuto, l'alto e il basso sono progressivamente andati ognuno per conto suo, e del paternalismo pedagogico le masse, alla fine, non hanno saputo più che cosa farsene.

Corriere della Sera 3.5.08
Condannati in 9. «Un contesto che rievoca i neofascisti»
Il saluto romano? In San Babila è reato
di Luigi Ferrarella

Il «saluto romano» può ancora costituire apologia di fascismo e quindi essere un reato. Dipende dal luogo (per esempio una piazza simbolo come San Babila a Milano) e dal «potenziale evocativo » del gesto. E' quanto si legge nelle motivazioni di una condanna inflitta a 9 manifestanti dai giudici milanesi.

MILANO — Fare il «saluto romano »? Sebbene l'aria che tira sia quella dello sdoganamento di un gesto, derubricato a poco più che innocua intemperanza (ad esempio di recente nell'entusiasmo dei supporters di Alemanno in Campidoglio dopo la sua elezione a sindaco di Roma), può essere ancora reato di apologia di fascismo. Come pure gridare lo slogan «Camerati a chi? A noi!». O partecipare al coro «Me ne frego». Dipende dalle condizioni di contesto, dal teatro delle performance, dal «potenziale evocativo ». È questo il discrimine tracciato dalle motivazioni (depositate prima delle elezioni) di una sentenza con la quale il Tribunale di Milano il 20 dicembre scorso aveva condannato nove persone a pene comprese fra gli 8 e i 2 mesi, assolvendone altre dodici.
Di fronte all'ottava sezione penale, nessuno degli imputati negava di aver fatto i gesti e intonato i cori attestati dai video della Digos e imputati dalla Procura a 21 dei 700 partecipanti alla manifestazione nazionale pubblica (con corteo in corso Venezia e comizio in piazza San Babila) organizzata dal Movimento Sociale-Fiamma Tricolore a Milano nel pomeriggio dell'11 marzo 2006, in un clima già teso per i gravi disordini provocati invece di mattina dal «corteo antifascista» di autonomi e centri sociali (costato 15 condanne a 4 anni per devastazione).
L'interesse delle motivazioni sta nel fatto che esse distinguono tra i due tempi della manifestazione.
Nel corteo di corso Venezia, benché di saluti romani e inni fascisti si fossero resi protagonisti alcuni degli impu-tati, scatta la loro assoluzione in quanto «si trattò di episodi isolati, che coinvolsero i manifestanti a gruppetti separati, senza che la gestualità o i canti abbiano (per compattezza, vistosità o intensità) presentato una coralità effettivamente suggestiva sulle folle». Qui i manifestanti esponevano «striscioni con rivendicazioni (come il diritto alla casa e la necessità del rispetto della legalità) dai contenuti squisitamente politici e legittimi», e sfilavano accanto ad altre persone «che non ostentavano simbologia fascista».
Tutta diversa, per la relatrice delle motivazioni Concetta Locurto e i colleghi Tremolada e Rispoli, la valutazione di quegli stessi gesti e inni «nel momento cruciale del comizio» di Maurizio Boccacci «in piazza San Babila, luogo non irrilevante» perché «San Babila, in tutta Italia e soprattutto a Milano, è un luogo già di per sé fortemente simbolico: al di là della dimensione architettonica risalente all'epoca e allo stile del ventennio fascista, la piazza evoca un immediato collegamento con le formazioni "neofasciste" milanesi che, notoriamente, l'avevano eletta a loro trincea negli anni '70».
È qui, per i giudici, che saluti romani e inni cessano di essere «innocue parole o gesti che esprimano semplicemente il pensiero o il sentimento occasionale di un individuo», e passano invece a costituire «una rievocazione evidente dei contenuti e dei metodi del disciolto partito fascista, attraverso la spavalda ripetizione di gesti e invocazioni abituali accompagnata a una rivendicazione orgogliosa e compiaciuta delle proprie radici storico- politiche». È qui che diventa reato «una ritualità potentemente evocativa del clima del ventennio», una «chiara esortazione a manifestare pubblicamente quella stessa fede politica anche a dispetto dei divieti imposti dall'Autorità».

Corriere della Sera 3.5.08
Primo Maggio Proteste per la kermesse del libro dedicata allo stato ebraico con l'ex leader Prc ospite
Bandiere di Israele e Usa bruciate Fischi e cori contro Bertinotti
I centri sociali a Torino: Fausto con gli assassini. E poi: torna nei salotti
di Vera Schiavazzi

L'ex presidente della Camera si sfoga con i suoi collaboratori: corteo mesto. Poi l'abbraccio con Ferrero

TORINO — «Mi pare un corteo un po' mesto», aveva appena commentato, quasi parlando tra sé e sé, Fausto Bertinotti. Aveva ragione: dopo le contestazioni dell'inizio rivolte proprio a lui, «colpevole» agli occhi di un gruppo di giovani dei centri sociali di partecipare alla Fiera del Libro che ha Israele come paese ospite, il 1˚ Maggio torinese si è concluso in modo ancor più triste, col rogo in piazza di tre bandiere con la stella di David e una americana. Un gesto compiuto da una piccola minoranza, che però rischia di diventare simbolicamente il più importante della giornata e che ha già suscitato condanna e preoccupazione proprio in vista della Fiera, che giovedì sarà inaugurata dal presidente Napolitano.
L'ex presidente della Camera aveva iniziato la sua mattinata a Torino, nella stessa città che due anni prima lo aveva accolto tra gli applausi dopo l'elezione a Montecitorio, di buon'ora, prendendo un caffè con Pietro Marcenaro, deputato pd. I guai sono iniziati quando Bertinotti, accompagnato dai «fedelissimi» Gennaro Migliore e Gianni Favaro, si è avvicinato allo striscione di Rifondazione, che attendeva di partire a pochi metri da quelli dei Comunisti Italiani e dei centri sociali «antagonisti». Un gruppo di ragazzi che, avvolti nella kefiah palestinese, stavano distribuendo un volantino contro la Fiera del Libro lo ha circondato minacciosamente: «Vai con gli assassini israeliani, vergognati». Nello stesso momento, sotto gli occhi non proprio solidali degli ex alleati del Pdci, da un altro gruppo partiva lo slogan «Bertinotti, torna nei salotti». A difenderlo sono stati, tra l'altro, alcuni militanti del Pd: qualche insulto, qualche spintone, poi la decisione dell'entourage di accompagnarlo da un'altra parte del corteo, molto più avanti, dove lo attendeva il sindaco Sergio Chiamparino.
Erano le 9,30. Tre ore dopo, in piazza San Carlo, a manifestazione ufficialmente finita, gli stessi giovani contestatori cospargevano di benzina e incendiavano le bandiere di Israele e Usa: una sessantina i ragazzi coinvolti, secondo la Questura che indaga sull'episodio.
La sinistra torinese ha vissuto così una delle sue giornate più controverse, il diario di piazza di una sconfitta elettorale ben lontana dall'essere elaborata. E Bertinotti ne è stato l'osservatore privilegiato, solo o quasi ai bordi del corteo, pronto a stringere mani e a abbracciare le decine e decine di militanti che venivano a salutarlo («Fausto, mi dispiace», «Ricominciamo insieme a te», «Non mollare», e lui a tutti «Grazie, siete molto cari, buon 1˚ Maggio, vedremo...») ma anche a fare domande ai suoi accompagnatori. «Chi sono quelli? Ma quante bandiere della Uil...», e poi ancora abbracci, ma anche faccia a faccia con le persone: «L'ho votata nel '96, poi basta», oppure «Fai rimettere il nome del partito, Arcobaleno non piace », e così via. Alle 12,30 la decisione di tornare indietro, tra i compagni di partito, e il lungo abbraccio con Paolo Ferrero, leader dell'opposizione nel Prc («Non mi candido a nulla, voglio che si riparta dal basso»). E i cugini separati del Pdci che a poca distanza, guidati dall'ex ministro Oliviero Diliberto, sceglievano la strade dell'identità esasperata, con le note dell'inno sovietico e le bandiere di Cuba e della Cina.

Corriere della Sera 3.5.08
La classifica Il Dalai Lama in testa alla hit parade della rivista «Time». Seguono Putin, Obama e Hillary Clinton
Non c'è il Papa nella «top 100» dei potenti
Bush al settimo posto, il suo profilo firmato dall'«amico» Berlusconi
di Alessandra Farkas

Il Vaticano: «Criteri assolutamente estranei a valutazioni sull'autorità religiosa». L'«Osservatore Romano»: sconcertante

NEW YORK — L'ennesimo schiaffo in faccia al Belpaese. Nessun italiano — e neppure papa Benedetto XVI — figurano nella hit parade dei 100 personaggi più influenti del pianeta stilata come ogni anno dal settimanale Time. La lista, pubblicata nell'ultimo numero in edicola da oggi, è divisa in 5 sezioni, con venti nomi per gruppo: «Leader e rivoluzionari », «Eroi e pionieri», «Scienziati e pensatori», «Artisti e intrattenitori», «Costruttori e titani».
Fra i leader, al primo posto c'è il Dalai Lama, capo spirituale e politico dei tibetani, seguito dal presidente russo Vladimir Putin e, a ruota, dai due candidati democratici in corsa per la Casa Bianca: Barack Obama e Hillary Clinton. Il candidato repubblicano John McCain è quinto, prima del presidente cinese Hu Jintao, al sesto posto.
Gli unici due italiani il cui nome appare nell'articolo di 90 pagine sono Sonia Gandhi, al 16˚ posto ma in qualità di leader del Partito del Congresso indiano, e Silvio Berlusconi, che figura come «biografo» dell'attuale presidente degli Stati Uniti George W. Bush (in settima posizione) in un articolo a sua firma dove il futuro premier scrive che «il presidente Usa ha risposto con coraggio alle sfide della storia» e «verrà ricordato come un leader di ideali, audacia e sincerità».
Quello di Berlusconi è uno dei 100 mini-profili commissionati da Time ad altrettanti «biografi d'eccezione» — quasi tutti americani, in una lista dal sapore decisamente anglosassone — tra cui Madeleine Albright, Henry Kissinger, George Clooney, Laura Bush, Marc Jacobs, Michelle Obama e Stevie Wonder.
Il fatto che Time abbia premiato il Dalai Lama e persino Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli con un seguito di poche migliaia di fedeli, snobbando il Papa, è destinato a scatenare polemiche. Soprattutto in America, dove Benedetto XVI è reduce dai successi mediatici della sua visita a Washington e New York che ha spinto lo stesso Time a dedicargli un lungo e laudatorio articolo di copertina.
«Sono stati utilizzati criteri assolutamente estranei a valutazioni sull'autorità religiosa e morale del Pontefice», ha commentato padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede. «Data la premessa — ha aggiunto — ci fa molto piacere che il Papa non ci sia». Eppure scorrendo gli archivi di Time, si scopre che il Pontefice tedesco figurava sia nel 2007 sia nel 2006, e nel 2005 era presente come cardinale Ratzinger.
Per Giovanni Maria Vian, direttore dell'Osservatore Romano, l'assenza del Pontefice è «sconcertante» in una lista che vorrebbe riunire «i 100 uomini e donne il cui potere, talento ed esempio morale stanno trasformando il mondo ». Secondo il direttore del giornale vaticano «nessun quotidiano avrebbe accettato la lista, in cui si citano nomi assolutamente inverosimili».
Nel capitolo «Eroi e pionieri » sono inclusi gli attori Mia Farrow e Brad Pitt/Angelina Jolie (come coppia) per il loro impegno sociale. Vi sono anche il tennista Andre Agassi, il ciclista Lance Armstrong, la dissidente birmana Aung San Suu Kyi, il calciatore Kakà e l'atleta senza gambe Oscar Pistorius.
Tra gli artisti figurano invece i cantanti Mariah Carey e Bruce Springsteen, gli attori George Clooney e Robert Downey Jr. nonché i fratelli registi Joel e Ethan Coen, l'idolo delle teenager Miley Cyrus (protagonista della sitcom
Hannah Montana).
L'elenco dei «Titani» comprende Steve Jobs (Apple), Jeff Bezos (Amazon) e il magnate dell'editoria Rupert Murdoch.

Corriere della Sera 3.5.08
La protesta Dopo le linee guida del ministero della Salute
«Obiezione di coscienza sulla fecondazione»
I medici cattolici: no alla diagnosi preimpianto
di Margherita De Bac

Il presidente del Consiglio Superiore di Sanità: «Niente eugenetica, ma dovevamo allinearci alle sentenze dei tribunali»
ROMA — I farmacisti cattolici avevano invocato quella sulla pillola del giorno dopo, ritenuta abortiva. E ora il fronte dell'obiezione di coscienza si allarga alla fecondazione artificiale. Vincenzo Saraceni, presidente dell'associazione medici cattolici, chiede che i ginecologi vicini al pensiero della Chiesa si «astengano dal praticare la diagnosi preimpianto sull'embrione in quanto è una forma di eugenetica». La possibilità di verificare con l'esame del Dna lo stato di salute del frutto del concepimento è stata riammessa con le linee guida alla legge sulla procreazione medicalmente assistita modificate dal ministro Livia Turco. Fisiatra, neo consigliere Pdl nel consiglio regionale del Lazio, Saraceni annuncia che l'appello ai colleghi cattolici, non solo i ginecologi ma anche tutti gli specialisti che seguono coppie sterili, verrà tradotto in una lettera: «L'obiezione di coscienza è prevista dalla legge sulla fecondazione artificiale quindi non si farà altro che applicarla. Queste linee guida sono inaccettabili perché introducono l'eugenetica. La diagnosi sull'embrione diventerebbe ammissibile solo nel caso in cui esistesse la possibilità di curare l'embrione. Non certo per buttarlo via se si scoprisse che è malato».
Attacchi alla Turco dall'Avvenire e dall'Osservatore Romano.
Il provvedimento — scrive l'Osservatore — è «inopportuno sia perché fuori tempo massimo di lavoro di Governo sia perché contestato da parte consistente dell'esecutivo dimissionario ». Chiarisce il suo pensiero Emanuela Baio, Pd: «Attraverso la diagnosi pre impianto si stravolge il contenuto della legge che all'articolo 1 definisce l'embrione l'inizio della vita umana, si rischia di scivolare verso la selezione eugenetica ». Secondo la senatrice Pdl Laura Bianconi «la materia è così delicata da richiedere l'esame del Parlamento, un decreto non è lo strumento giusto. E' stato un colpo di coda di cattivo gusto, una furbata. Solleveremo il problema in Commissione sanità».
Ma Franco Cuccurullo, presidente del Consiglio Superiore di Sanità spiega il significato delle modifiche: «Non c'è stata nessuna apertura all'eugenetica. Ci siamo allineati alle sentenze di tribunali che hanno consentito la diagnosi preimpianto a persone con malattie ereditarie». Dalla parte della Turco la Consulta di bioetica presieduta da Maurizio Mori: «Non è immorale volere figli sani». Mentre l'avvocato Gianluigi Pellegrino, il legale che ha curato il ricorso al Tar contro le linee guida precedenti, le definisce «un atto dovuto ».

Corriere della Sera 3.5.08
La Turco: caro Tonini, io non ho forzato la legge
di Livia Turco

Gentile direttore, tra le tante reazioni al decreto ministeriale sulle nuove linee guida della legge 40, mi ha colpito quella di Giorgio Tonini, di cui avete dato conto sul Corriere del 1˚maggio. In sostanza l'amico Tonini dice che, al mio posto, non avrebbe probabilmente firmato il decreto per evitare dissidi in sede politica. Soprattutto oggi, alla luce dei nuovi rapporti numerici tra maggioranza e opposizione. Come sempre rispetto il pensiero altrui. Ma Tonini sembra dimenticare un dato. Dal quale non si può prescindere. Questo decreto non è una mossa dettata da opportunità politiche. È un atto amministrativo di governo su una materia delicata oggetto di ripetute sentenze della Magistratura, che hanno creato una situazione di forte incertezza tra gli operatori e i cittadini. Era mio dovere intervenire e l'ho fatto seguendo rigorosamente il dettato della legge 40 che indica molto chiaramente come procedere all'aggiornamento periodico delle sue linee guida. Non farlo, questo sì, sarebbe stato opportunistico. Si sarebbe anteposta una valutazione di opportunità politica all'interesse dei cittadini. Cosa inaccettabile per chi ha una responsabilità di governo del Paese. In ogni caso, sono certa che una lettura attenta delle nuove linee guida da parte di Tonini, che è esperto e acuto osservatore della materia, potrà senza dubbio tranquillizzarlo su un fatto: non c'è stata alcuna forzatura della legge 40. Al contrario, si ristabilisce il primato della legge rispetto alle precedenti linee guida che ne avevano distorto il dettato e lo spirito. Tutto questo porterà a nuove derive ideologiche sulla legge 40, come teme Tonini? Temo che ciò avverrà a prescindere dalle mie nuove linee guida, delle quali, non a caso, si continua a parlare della forma e non del merito. Anche per questo, nel comunicare la pubblicazione in Gazzetta del decreto, ho auspicato che la politica torni ad avere maggiore serenità e fiducia nei confronti della comunità scientifica.
Sono infatti convinta che la responsabile autonomia degli operatori possa valutare, caso per caso, le soluzioni e i percorsi diagnostici, clinici e terapeutici più idonei per garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali del diritto alla salute, della dignità della persona e della tutela della vita. E ciò vale anche nel caso della procreazione medicalmente assistita.
Livia Turco

Corriere della Sera 3.5.08
Da uno studio del San Raffaele nuovi risultati sui meccanismi cerebrali della percezione visiva
L'occhio vede, il cervello sa già
I neuroni «capiscono» prima ciò che si imprimerà nella retina
di Massimo Piattelli Palmarini

Gli studi di due neuroscienziati del San Raffaele di Milano confermano la distinzione tra stimolo visivo e percezione consapevole. Il ruolo delle saccadi, rapidi movimenti oculari: dai loro «tempi» dipende la presa di coscienza di ciò che ci circonda
In questi ultimi anni, la registrazione fine dei processi cerebrali in tempo reale ci ha rivelato qualcosa che forse non ci fa del tutto piacere. Cioè che il nostro cervello, o meglio qualche porzione di esso, «sa» cosa faremo un attimo prima che noi stessi lo si sappia. Metto questo «sa» tra virgolette, in quanto ci è arduo credere che un ammasso di cellule, per quanto solerti e ben interconnesse, possa davvero sapere qualcosa. Resta il fatto, comunque, che qualcuno al di fuori di noi può tendenzialmente prevedere quanto noi, dopo qualche attimo, sentiremo e faremo.
Solo qualche attimo, certo, ma esiste davvero il libero arbitrio, se percepire, sentire e decidere discendono da binari cerebrali così obbligati? Un nuovo risultato viene ora rivelato, sull'ultimo numero della rivista internazionale specialistica The Journal of Neuroscience, da due neuroscienziati e psicologi sperimentali dell'Università San Raffaele di Milano: Claudio de' Sperati e Gabriel Baud-Bovy. I loro astuti esperimenti mostrano come il dramma che potremmo intitolare «neurone sa, ma tu (ancora) no!» investa anche il guardare e il vedere, ovvero quanto di più basilare, onnipresente e rapido esiste nella nostra vita mentale e cerebrale. Premettiamo che, senza requie, due o tre volte al secondo, i nostri occhi fanno qualcosa di cui non abbiamo alcuna consapevolezza, cioè rapidissimi movimenti in varie direzioni, chiamate in gergo saccadi. Se, per assurdo, un movimento saccadico potesse durare un intero secondo, il nostro occhio girerebbe su se stesso circa tre volte. Ebbene, de' Sperati mi dice testualmente: «I movimenti oculari saccadici sono a un tempo padroni e schiavi della visione. Padroni, perché sono loro a dettare quale stimolo visivo cadrà sulla retina; schiavi, perché sono guidati dalle domande che il nostro cervello pone come conseguenza di ogni successiva fissazione oculare».
I loro esperimenti rivelano qualcosa che già si supponeva, cioè che l'occhio si indirizza verso un oggetto prima che questo sia stato visto in maniera pienamente consapevole. Si guarda prima di vedere, insomma.
Baud-Bovy mi spiega, in breve sintesi, l'esperimento stesso: «Si fa lampeggiare per un istante un puntino luminoso in prossimità di un secondo stimolo in movimento. Il primo stimolo non viene percepito nella sua posizione fisica, bensì stabilmente spostato di una piccola quantità in direzione del movimento, come se il movimento del secondo stimolo avesse trascinato con sé il primo stimolo». Quale lezione trarne? «Ci si potrebbe aspettare che, se si chiede a un osservatore di muovere gli occhi verso il primo stimolo, questi guardi verso la posizione percepita (e illusoria), e non verso la posizione fisica dello stimolo, che non viene registrata nella percezione. E così è infatti, ma solo se la saccade parte un po' meno di mezzo secondo dopo la presentazione dello stimolo, cioè abbastanza tardi (si consideri che una saccade può essere diretta a un bersaglio in soli uno o due decimi di secondo). Se la saccade parte prima, il movimento oculare è invece accurato, ed è diretto verso la posizione fisica, invisibile, del primo stimolo. Quanto più la saccade ritarda a partire, tanto più è "contaminata" dalla percezione illusoria. In altre parole, nel "primo mezzo secondo", guardare (la saccade) e vedere (l'immagine cosciente dello stimolo) sono dissociati, e le saccadi, pur essendo accurate, partono "alla cieca". Solo nel volgere di mezzo secondo dalla presentazione dello stimolo i meccanismi di generazione delle saccadi accedono pienamente al segnale visivo che corrisponde alla visione cosciente». La scommessa degli autori è che il graduale cambiamento della codifica della direzione saccadica nel tempo riveli la dinamica temporale della formazione della percezione visiva consapevole nella corteccia cerebrale, cosa che si è sempre rivelata assai ardua da studiare. Da circa quindici anni si sapeva che esistono due canali cerebrali distinti: uno che presiede alle risposte motorie a uno stimolo visivo (movimenti dell'occhio compresi), e un altro che presiede in qualche modo misterioso ciò che noi percepiamo consapevolmente a seguito di quello stesso stimolo. Un canale per il «cosa» e uno per il «dove», che poi vanno a ricomporsi.
Questa nuova scoperta di de' Sperati e Baud-Bovy conferma che le due vie sono anatomicamente separate, non solo, ma che lo sono anche i loro tempi di elaborazione dei segnali rispettivi. Mi spiegano: «Il segnale visivo in arrivo dalla retina è utilizzabile dopo pochissimo tempo dai circuiti della corteccia che generano i movimenti oculari saccadici, ma solo in un secondo momento dà luogo alla percezione consapevole». Che si possa guardare senza vedere, insomma, non è solo il risultato di distrazione, dell'avere la testa tra le nuvole, bensì di meccanismi microscopici connaturati a come funziona il nostro cervello.

Corriere della Sera 3.5.08
Anteprima Un saggio di Antonio Carioti sui giovani neofascisti: nemici di comunismo e americanismo
Reduci di Salò, precursori del '68
Forti nelle università. E su Trieste conquistarono la piazza
di Giovanni Belardelli

È da qualche anno, ormai, che gli storici si vanno interessando dei giovani, e spesso giovanissimi, italiani che dopo l'8 settembre 1943 scelsero la Repubblica sociale, soprattutto per un atto di estrema ribellione contro il «tradimento » del re e di Badoglio. Meno noto è che, nei primi anni del dopoguerra, molti di quei giovani avrebbero animato un movimento che, per capacità di mobilitazione e vivacità culturale, può essere addirittura considerato una specie di «Sessantotto nero ». Questa appunto è la definizione che utilizza Antonio Carioti, in un lavoro di grande interesse dedicato a un settore minoritario ma certo non irrilevante del mondo giovanile ( Gli orfani di Salò, Mursia, pp. 293, e 17). Basti ricordare la sua capacità di penetrazione nel mondo universitario: nel 1950, ad esempio, nelle elezioni per le rappresentanze studentesche i neofascisti conquistarono a Roma il primo posto. Presto i giovani missini diventano protagonisti delle agitazioni contro l'aumento delle tasse universitarie, trovando in questo la collaborazione dei coetanei di estrema sinistra. Ma la grande questione che permette loro di acquisire consensi anche nelle scuole medie è quella giuliana: nelle manifestazioni contro Tito e per il ritorno all'Italia dell'intero Territorio libero di Trieste trovano la possibilità di intercettare un sentimento patriottico che sembra ricevere scarsa o nulla attenzione dagli altri partiti.
Il ruolo dei giovani neofascisti si rivela decisivo nell'affermare con l'impiego della forza fisica il diritto del Msi a scendere in piazza, messo spesso in discussione, soprattutto nelle città del Nord, dal diretto intervento dei militanti comunisti. Il libro di Carioti restituisce qui efficacemente il quadro di un'Italia dominata, ben prima dei cosiddetti «anni di piombo», dallo scontro violento tra fascisti e comunisti. All'inizio si tratta per i missini di difendere la possibilità di scendere in piazza; ma su questo si innesta anche una tendenza a considerare positivamente la violenza, circondandola magari di un'aura eroica. Ecco come un giovane neofascista di allora descrive oggi un episodio del settembre 1947, quando Almirante fu costretto da un gran numero di militanti di sinistra a terminare un comizio dopo appena dieci minuti dall'inizio: «Eravamo in 42 quel giorno e ci sentimmo come i 300 delle Termopili».
Sembra che, alla ricerca di azioni clamorose, qualche neofascista progettasse addirittura l'assassinio del direttore dell'Unità Renato Mieli (padre dell'attuale direttore del Corriere). Pochi anni dopo alcuni giovani neofascisti avrebbero imboccato anche la via degli attentati dinamitardi contro le sedi di partiti e organizzazioni antifasciste.
L'intensità e la facilità con cui nei primi anni del dopoguerra l'estrema destra pratica la violenza non deve far dimenticare che anche la sinistra comunista non disdegna all'epoca metodi in parte analoghi. Tra i casi più clamorosi riferiti da Carioti, l'uccisione di Franco De Agazio, direttore del settimanale neofascista milanese Il Meridiano d'Italia, nel marzo 1947, o la devastazione della sede del Msi compiuta dal Pci torinese, che nelle modalità (mobili e documenti gettati dalle finestre, falò acceso sulla strada) sembra riprodurre le azioni squadriste del primo dopoguerra. In realtà, l'atteggiamento del partito di Togliatti nei confronti dei giovani missini è ambivalente. Da una parte, appunto, il Pci non ostacola le spinte della base in direzione di un «antifascismo militante», necessariamente violento. Dall'altra è lo stesso segretario a condividere la strategia dell'attenzione nei confronti dei reduci di Salò messa in atto soprattutto da Ruggero Zangrandi, che nel febbraio 1947 riconosce loro «un malinteso e tuttavia non troppo facilmente discutibile amor di Patria». Qualche anno dopo sarà l'allora segretario della Fgci Enrico Berlinguer a formulare giudizi analoghi, ma — come osserva Carioti — con una importante differenza. Se da principio il Pci mostrava di voler recuperare gli ex fascisti, ora nel 1950 si dichiara disposto alla collaborazione con i fascisti che continuano a dichiararsi tali: il giornale dei giovani comunisti
Pattuglia, ad esempio, ospita un articolo di Pino Rauti. Il fatto è che, nel nuovo clima internazionale determinato dalla guerra di Corea, i giovani missini appaiono ai dirigenti comunisti come possibili alleati nella lotta all'«imperialismo americano ».
La maggioranza dei giovani neofascisti, infatti, è risolutamente antiamericana: ed è questo uno degli elementi che alimentano il conflitto continuo che li oppone a una dirigenza del Msi che, sia pure tra mille cautele, si va orientando ad accettare il Patto atlantico e la scelta occidentale dell'Italia. Più in generale, una parte cospicua del movimento giovanile contesta la scelta del partito di aprire alle forze moderate e conservatrici (monarchici, liberali, in prospettiva la stessa Dc). Quando alla Camera, nel 1949, Almirante parla di «accettazione integrale» del metodo democratico, i giovani missini protestano con forza. In particolare, ad opporsi è la corrente «spiritualista», che ha una forte influenza tra i giovani di estrema destra. Seguaci di Evola, gli «spiritualisti» considerano «americanismo» e «bolscevismo » come due facce dello stesso male, contestano il capitalismo e la società di massa, rifiutano in blocco la modernità in quanto irrimediabilmente edonistica. Il loro radicalismo, che ripropone confusamente un ritorno alla tradizione (il Sacro Romano Impero e la civiltà feudale sarebbero «le due ultime grandi apparizioni tradizionali che l'Occidente conobbe»), li porta a prendere le distanze perfino da certi aspetti del fascismo in quanto frutto anch'esso della aborrita modernità. Il libro di Carioti si arresta al 1951, quando gli «spiritualisti» conquistano la leadership del movimento giovanile. Ma queste posizioni avrebbero continuato a condizionare per anni l'estrema destra italiana, divisa tra inserimento nel sistema democratico e sua radicale contestazione.
Roma 1951: una manifestazione di studenti, guidata dai giovani missini, per il ritorno di Trieste all'Italia

Corriere della Sera 3.5.08
Le parole della Bellezza
Givone: cerco nelle viscere di Firenze un antitodo al trionfo del nichilismo
di Fabio Cutri

È vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la «bellezza»? Signori, — gridò forte a tutti — il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza. [...]Quale bellezza salverà il mondo?
Fëdor Dostoevskij da «L'idiota»

Un concetto in primo piano
La Bellezza vista dalla filosofia, dall'arte, dalla natura, dalla letteratura è il tema centrale della Fiera 2008. Sul tema interverranno tra gli altri, oltre a Sergio Gicone, Remo Bodei, Luciano Canfora, Mario Botta, Danilo Mainardi, Raffaele La Capria

Il mondo, scriveva ne «L'idiota» Dostoevskij, sarà salvato dalla bellezza. Una profezia che sembra ormai essersi rovesciata. Perché il culto della bellezza — sfruttata dal mercato, amplificata dai media, ostentata dal potere — produce un mondo che non è mai stato tanto brutto. Esiste una via d'uscita da un simile nichilismo estetico? «Non c'è più tempo», sembra suggerire il titolo dell'ultimo romanzo di Sergio Givone. Del resto la disperata discesa nel sottosuolo fiorentino dei protagonisti, veri e propri demoni dostoevskiani, non lascia ben sperare. Ma non tutto è perduto assicura l'autore, perfettamente a suo agio nella doppia veste di filosofo e scrittore.
Professore, che rapporto ha la nostra società con la bellezza?
«Ossessivo e compulsivo, direi. A tal punto da ritenere che solo ciò che è bello abbia valore, sia degno di essere apprezzato, comprato, votato. Siamo tutti vittime di questo abbaglio. Perché si tratta di un'idea di bellezza vuota che si concretizza nel trionfo del brutto. In questo senso, più che salvare il mondo, la bellezza sembra averlo condannato».
Come si è imposta una simile ideologia?
«La bellezza muore quando perde il legame con ciò che è buono e con ciò che è vero. E se non è più capace di fare cenno ai valori etici e morali diventa un guscio vuoto, appunto, qualcosa che inseguiamo solo per affermare noi stessi».
Ma cos'è la bellezza, qual è il suo significato più autentico?
«È la cosa più inutile che esista, ma di cui non possiamo fare a meno. Senza bellezza perdiamo la nostra umanità, siamo ridotti allo stato di natura. E come insegna il mito biblico della caduta, lo stato di natura non è affatto il luogo da cui proveniamo, bensì quello in cui siamo stati cacciati. E dal quale perciò dobbiamo uscire. Ecco, la bellezza è lo scarto che c'è tra lo stato di natura e quel "di più" a cui siamo chiamati per essere davvero uomini. La bellezza è l'ideale che ci ricorda che non siamo fatti per vivere come bruti. È per questo che gli antichi la legavano al Bene e al Vero. Noi l'abbiamo dissociata».
E l'arte contemporanea come vive questo tradimento?
«Rifiutando la bellezza e tutto ciò che a che fare con l'armonia, la composizione luminosa, l'immagine. Penso a Beuys, che raccoglie delle pietre e le scarica sul pavimento: non perché scelte in base a qualche criterio estetico, ma in quanto pietre e basta. Oppure a Rothko, con il suo imprigionare frammenti di luce dentro a una tela nera che li inghiotte».
Non abbiamo dunque scampo dal pensiero unico di una bellezza autoreferenziale?
«Non tutto è perduto, anche perché la bellezza si dà in molti modi. Non esiste infatti solo la visione occidentale di proporzione formale, la bellezza può essere anche ad esempio pensata come bellezza del gesto: nei giardini giapponesi l'idea è quella di intervenire senza che l'intervento si veda, lasciando che la natura faccia ciò che deve. Altre forme di bellezza non ossessiva si affacciano nella nostra esperienza quotidiana, penso al piacere che proviamo nel servire una cena come si deve, nel disporre i fiori nel vaso in un certo modo. Il bello ci seduce e ci guida sempre, anche se noi lo tradiamo di continuo».
Perché uno dei più affermati filosofi italiani si dedica alla scrittura romanzesca? La filosofia non riesce a dire tutta la verità?
«Certo che no! La filosofia non può fare altro che riflettere sulla realtà data. La letteratura invece produce la realtà, nel senso che rende possibile l'esplorazione di mondi che si suppone esistano ma di cui sappiamo poco. Come si fa a fare una visita nei meandri dell'anima o della città, a scandagliare le dimensioni della morte e della pazzia? Ecco: immaginando che qualcuno compia questo viaggio».
Cosa cercano nel sottosuolo di Firenze gli allucinati terroristi del suo ultimo romanzo?
«Il Nulla, come tutti i terroristi di tutte le epoche. Il titolo del libro — una citazione della frase finale dell'Apocalisse — esprime la loro folle certezza: il mondo è prossimo al collasso, la fine dei tempi è giunta, e la violenza è l'unica via di salvezza. È questo il senso del terrorismo: solo l'autodistruzione può rigenerare un mondo nuovo. Tutto ciò è esattamente il contrario della bellezza».
Uno dei personaggi chiave è una donna di nome Maria...
«Lei rappresenta il controcanto al nichilismo. Certo, non porta quel nome per caso: incarna la vita umile, confidente, già salvata. Che non ha alcun bisogno di sprofondare nell'abisso del Nulla. Perché la salvezza, anche in fondo alla tenebra più cupa, è sempre a portata di mano. Basta volerla».

l’Unità 3.5.08
Preservativi tabù, boom pillola del giorno dopo
Contraccezione Ue, Italia indietro. Quella d’emergenza usata molto dalle giovanissime
di Giuseppe Vittori

In Italia nel 2007 vendute 370mila confezioni
50 mila in più rispetto all’anno prima

PILLOLE contraccettive e preservativi ancora tabù per gli italiani. Il 53% non vuole utilizzare alcun metodo di protezione nei rapporti sessuali, senza contare
che il 38% non li conosce e che il 9% li usa in modo errato. Dati che ci pongono agli ultimi posti rispetto agli altri paesi europei. È quanto emerge da un sondaggio che ha coinvolto 616 medici della Sigo (Società italiana di ginecologia e ostetricia) e Simg (Società italiana medicina generale), presentato al X congresso della Società europea della contraccezione a Praga. «Il problema - commenta Emilio Arisi, presidente della Società medica italiana per la contraccezione - è che manca educazione e informazione nelle scuole. Nel resto del mondo da tempo si fanno dei programmi che hanno permesso di ridurre le gravidanze indesiderate tra le adolescenti e le malattie sessualmente trasmissibili tra i giovani». Da un’indagine condotta nel 2006 in Italia, si stima siano circa 2,2 milioni le donne tra i 15 e 49 anni che usano contraccettivi ormonali, dove il primato spetta alle donne di Sardegna (28,6%), Val d’Aosta (22,8%) e Liguria (19,9%). Le minori consumatrici si trovano invece nel sud, in Basilicata (7,3%), Campania (7,6%) e Molise (8,7%).
E mentre la contraccezione arranca, cresce invece l’assunzione della pillola del giorno dopo. Soprattutto le giovanissime scelgono sempre più la contraccezione di emergenza come un metodo di routine, tanto che il consumo in Italia in 7 anni è cresciuto del 60%. I ginecologi invitano perciò le donne a «scegliete metodi sicuri e a basso dosaggio ormonale», mettendo da parte la paura di ingrassare, visto che le pillole anticoncezionali di nuova generazione non hanno più questo effetto collaterale. I dati sono chiari: in Italia nel 2006 ne sono state vendute 320mila, il 55% a chi ha meno di 20 anni e il trend è in crescita, tanto che nel 2007 si è arrivati a circa 370 mila. «Le ragazze spesso sottovalutano l`impatto di questo farmaco, un vero shock ormonale», commenta Rossella Nappi, ginecologa dell'Università degli Studi di Pavia. I medici in particolare, rassicurano le ragazze su uno dei più temuti effetti indesiderati della pillola anticoncezionale: l`aumento di peso. La paura di ingrassare infatti è uno dei motivi che scoraggia le più giovani dall'usare la pillola anticoncezionale e le spinge a rivolgersi verso altri metodi, meno sicuri. Ma oggi - spiegano i ginecologi - grazie al progestinico di quarta generazione, il drospirenone, il rischio di chili di troppo è del tutto superato.

l’Unità 3.5.08
Dentro il giardino di Jean Dubuffet
di Andrea Di Consoli

Aveva capito l’enorme potenziale di un’arte «grezza» immediata e tellurica, preculturale e psicotica
Perciò guardava con interesse ai disegni degli alienati mentali dei bambini e a quelli dei naïf

Si chiama «Jardin d’hiver» ed è una scultura-architettura del creatore dell’
«Art brut». In polistirolo bianco, è in mostra al Centre Pompidou. Entrarci significa penetrare nella mente, nella candida follia di questo artista. Ecco cosa si prova

Condividere proprio Jean Dubuffet (Le Havre 1901, Parigi 1985) con gli altri «fruitori», con questa specie di folla internazionale mediamente colta, mi mette nella posizione di chi prova idee e sentimenti non troppo diversi dagli altri (ché nessuno prova sentimenti troppo eccezionali), e nel vecchio riflesso disagiato di chi ha scatti di vertigine, e prova fastidio a condividere l’arte con gli altri, e quindi vorrebbe scappare. Ma dove si scappa? Tutto finisce in un museo, alla fine (ma questa è una storia nota).
«Individualismo», ancora una volta (parola cruciale negli scritti di Dubuffet); senso del limite, per forza, come uscirne?; ma anche troppi «professori», che Dubuffet odiava: «Gli architetti del Rinascimento disprezzavano il gotico e quelli liberty disprezzavano il Rinascimento; ma il professore celebra contemporaneamente nel suo infiammato discorso gli uni e gli altri, perché il suo cuore è gonfio di ammirazione per quel che ha prevalso, e del bisogno di applaudire quel che ha prevalso, ovunque si manifesti». In fondo sono venuto al Musée national d’art moderne al Centre Pompidou di Parigi solo per lui, per Jean Dubuffet, per questo sovversivo (altra cosa, diceva, è il rivoluzionario; perché il rivoluzionario capovolge la clessidra, mentre il sovversivo la rompe). Mi fermo davanti a Le Métafizyx e mi domando se la coppia francese (o belga) che mi sta di fianco prova le mie stesse cose. Possibile che altri pensino a questa figura dilatata e dilaniata dalla mostruosità dell’interiorità (a questa piccola testa scheletrica) proprio alla mia maniera? E a cosa servirebbe davvero (nel grande mare delle cose periture) l’unicità di un sentimento, di un’idea: appunto, di una maniera? Ma poi: cos’è un’eccezionalità, un’unicità?
Faccio una manovra mentale e mi ripeto a bassa voce il mio passe-partout, che è art brut. Qui davvero si entra uno per volta; la follia fa paura; qui c’è aria pura, cioè l’angoscia pura del puro esistere. Scrive Dubuffet: «Il capriccio, l’indipendenza, la ribellione, che si contrappongono all’ordine sociale, risultano assolutamente necessari alla buona salute di un gruppo etnico. È dal numero dei suoi irregolari che si potrà misurare il grado della sua salute. Non c’è nulla di più sclerotizzante dello spirito di deferenza». L’artista francese aveva letto, nel 1922, l’imprescindibile libro di Hans Prinzhorn, L’attività plastica nei malati di mente. Aveva capito, insomma (a costo di posticipare al massimo il suo divenire un artista, ovvero nel 1942) l’enorme potenziale di un’arte «grezza», immediata, tellurica, preculturale, psicotica. Non essendoci la verità, ma solo la libertà, Dubuffet guardava con interesse all’arte degli alienati, dei bambini, dei naïf. Mentre guardo i suoi «scarabocchi» (da cui discendono i graffi-graffiti di Basquiat) ho in testa gli affollamenti segnici e i volti spiritati di Adolf Wölfli, certi naïf jugoslavi del dopoguerra, i ritratti «matissiani» e da mille e una notte di Maria Trentadue, la principale naïf pugliese del Novecento. Perché, mi domando, amo l’art brut? Perché è intensa e poetica (massimamente espressiva), mi dico; e poi per un mio mai sopito sospetto per la cultura, cioè per le certezze sclerotizzate. Scrive Dubuffet: «La cultura tende a occupare il posto che in altri tempi fu quello della religione. La cultura, come la religione, ha oggi i suoi preti, i suoi profeti, i suoi santi, i suoi collegi di dignitari. Il conquistatore che vuole essere consacrato si presenta al popolo con a fianco non più un vescovo, ma un premio Nobel. Il ricco prevaricatore per farsi assolvere dai suoi peccati non fonda più un’abbazia, ma un museo».
E penso, mentre mi avvicino col muso (quasi a volerne sentire l’odore) a Dhôtel nuancé d’abricot, che la differenza tra Dubuffet e Duchamp è tutta qui: nella poesia, che Duchamp mai ha. I baffi alla Gioconda ribaltano la clessidra; gli scarabocchi, la materia grumosa e spirituale di Dubuffet, la clessidra la spaccano (cioè il tempo, in fondo progressista, della storia dell’arte). L’orinatoio non mi tocca dentro. Non c’è archetipo, inconscio, poesia nel Porte-Bouteilles. Lì, invece, lì davanti a me, quando vedo apparirmi finalmente l’opera-caverna Jardin d’hiver, la poesia (l’insensatezza) è evidente, spalancata nel suo malato biancore.
Nel libro recentemente pubblicato da Abscondita, Asfissiante cultura, ci sono in appendice alcune foto di Dubuffet: mentre lavora nell’atelier di Périgny blocchi di polistirolo; mentre cammina, solo, ai piedi della sua casa di Vence; mentre sorride, al fianco di un cammello, nel deserto del Sahara; e con una scimmia in braccio a Fontenay-aux-Roses nel 1924 (la scimmia era Jeanne Léger, moglie di Fernand). Cos’era il volto di Dubuffet, se non il volto di una scimmia buona e matta? La testa calva di Dubuffet ha incrinature commosse e sperdute, a volte clownesche; somiglia, in qualche misura, a quella di Michel Foucault, del quale però non aveva certe durezza e spigolosità somatiche. Il volto è tutto; e il volto di Dubuffet era un volto poetico. Cammino verso il giardino-caverna e ho in mente la faccia (asociale) di Dubuffet, il quale scriveva: «Conferire alla produzione artistica un carattere socialmente meritorio, farne una funzione sociale onorata, significa falsificarne profondamente il senso, perché la produzione artistica è una funzione specificamente e fortemente individuale, e dunque assolutamente antagonista a qualsiasi funzione sociale. L’arte non può essere che una funzione antisociale, o almeno asociale».
Dico a mia moglie di andare avanti. Mio figlio mi guarda incuriosito e allunga il braccino, indicandomi implorante la «caverna» di Dubuffet. Me li lascio alle spalle, ed entro. All’improvviso rimango solo, totalmente solo. Sono nel cuore di un’opera di Dubuffet, ci sono dentro, con il mio corpo pesante, con le scarpe sporche; sono nel Jardin d’hiver, scultura-architettura (casa poetica) creata tra il 1968 e il 1970. Sono in un sogno di poliuretano. Non so se pensare a certe giostre-horror di plastica in cui entri guardandoti alle spalle, o alle grotte di Lescaux o Altamira (o alla grotta del Romito di Papasidero, tra le gole aspre del fiume Lao, nell’alta Calabria, dove un bos primigenius sta inciso da millenni sulla roccia bagnata, fermo nella sua linearità quasi astratta, e misterioso come un remoto dio-animale). Quella di Dubuffet è una caverna bianca tutta percorsa da fantastiche e sinuose linee nere (sono le vene nere dell’uomo, queste linee?) E cos’è questo biancore? È la neve, la neve dell’inverno, o la neve della mente che copre e nasconde la realtà? Cosa direbbe, qui dentro, il poeta romagnolo Raffaello Baldini, autore dell’indimenticabile La naiva? Non è candore, non è ingenuità; tutto questo bianco è invece il totale disarmo dell’anima..
Però quanta memoria c’è nella parola «giardino»: la Bibbia, le favole turchesche, Cechov, Bassani. C’è anche una penombra che mi spaventa; e sento quasi freddo, anche se freddo non fa. Mi viene il dubbio che non potevo entrarci, in questo Jardin d’hiver. Sto calpestando il sacro poliuretano di Dubuffet. Cosa posso fare, qui dentro? Quasi mi aspetto gocciolii d’acqua, là in fondo (come nella grotta del Romito). Quanta è lontana la Calabria, da qui? Forse poi neanche troppo, se pure Dubuffet si richiamava alla capacità «araba» di vedere l’attività (la produttività) del nichilismo, sicuramente memore dei tanti viaggi in Algeria: «Il nostro Occidente è incapace di rendere operanti in tutti i campi i termini negativi; considera le cose sotto un unico aspetto, quello positivo, perdendo di vista l’altro. Sono gli arabi a eccellere nell’utilizzazione degli inversi, delle vie negative». Mi appoggio alle pareti sinuose e sbozzolate e sento di essermi appoggiato a un sogno. Mi dico: ecco com’è la radiografia di un’anima che non distingue più tra un torpore niveo e la consapevolezza del naufragio dell’io (la follia). Questa neve di grotta è un ossimoro; ma questa grotta di libertà e di rivoli di acqua marcia è anche una camera di giochi, un tempo preculturale per sempre perduto, o per sempre presente, come una fortuna. L’infanzia è tutto; proprio questa consapevolezza rendeva così dura la posizione anticulturale di Dubuffet. E questa verità elementare (l’infanzia è il destino) la vedo stampigliata in una sua foto del 1959, davanti alla serie Barbes, nell’atelier di Vence. È una foto leggermente sfocata. Dubuffet ha le occhiaie, è stanco. È sicuramente triste; anzi, è spaventato, non già della morte, ma di quanto possa essere insondabile e insostenibile l’anima. Anche io mi sento così quando esco dal Jardin d’hiver: inconsolabile e allarmato.
Francamente non avrei resistito a lungo, lì dentro, in quell’incubo-bambino. E trovo pace nel rivedere, uscendo dalla moderna caverna di Dubuffet, le coppie europee in moderato ascolto dell’arte, i passeggini, i custodi, i meravigliosi tetti di Parigi, la mia famiglia. E finché si entra e si esce fortunosamente dall’abisso dell’arte e della mente, ecco, finché questo è ancora possibile (finché è ancora possibile la cultura, l’odiata cultura), possibile è non scomparire per sempre, possibile è non dire: io per sempre mi sono smarrito nelle nevi della mente.

l’Unità 3.5.08
È morto a 90 anni l’ultimo sopravvissuto dei congiurati che fallirono l’azione il 20 luglio 1944
Von Boeselager, il tedesco che attentò alla vita di Hitler

Philipp Freiherr von Boeselager era l’ultimo sopravvissuto del gruppo che cospirò contro Adolf Hitler. Era sopravvissuto anche alla rappresaglia dopo il fallito attentato del 20 luglio 1944, ed è morto nella notte tra mercoledì e giovedì in Germania ad Altenahr, in Renania-Palatinato. Aveva 90 anni, era nato il 6 settembre 1917 a Bonn. Nel gruppo di cospiratori guidati da Claus von Staffenberg l’allora giovane ufficiale di cavalleria Von Boeselager aveva procurato l’esplosivo, e nelle successive rappresaglie rimase sconosciuto alle Ss che si occuparono di eliminare tutti i congiurati, torturando chiunque riuscissero a scoprire. Per questo von Boeselager ha sempre reso omaggio al coraggio di chi, tacendo il suo nome, gli aveva salvato la vita. In occasione dell’anniversario dell’attentato contro Hitler, nel 2004, von Boeselager osservò che se esso fosse riuscito si sarebbe potuta risparmiare la vita di milioni di persone e la seconda guerra mondiale sarebbe finita molto prima. Quanto alle sue motivazioni personali, disse che era stata per lui una «questione di coscienza e patriottismo», e ammette che aveva una «paura terribile». Aveva sentito degli orrori perpetrati, come le esecuzioni di ebrei o zingari senza processo, e alla fine si era sentito sciolto dal giuramento della bandiera: «Un giuramento lega sempre due parti, e Hitler lo aveva rotto da un pezzo, col suo comportamento». Assieme al fratello maggiore Georg (morto a 29 anni il 27 agosto 1944 sul fronte russo dove comandava una brigata di cavalleria) e ad altri otto ufficiali, von Boeselager aveva pianificato già nel marzo del ‘43 un attentato contro Hitler e contro il capo delle Ss Heinrich Himmler durante una visita al comando delle truppe sul fronte orientale. I piani furono però fermati perchè Himmler cancellò la sua visita e si temette che, con lui vivo, potesse scatenarsi una guerra civile fra Wehrmacht e Ss. Anche due bombe piazzate sull’aereo del dittatore immediatamente dopo non esplosero. A portare von Boeselager nel gruppo dei congiurati del 20 luglio fu Henning von Tresckow, un generale da tempo convinto della necessità di rovesciare la dittatura di Hitler, che aveva convinto anche von Stauffenberg a entrare nella congiura. Dopo aver appreso del fallimento dell’attentato, si suicidò con una bomba a mano. Von Boeselager, che in varie occasioni aveva raccontato le sue esperienze a studenti che andavano a trovarlo, dopo la guerra aveva sposato la contessa Rosa Maria von Westphalen zu Fürstenberg, dalla quale aveva avuto quattro figli. Cattolico praticante, era stato membro fondatore del Pronto soccorso dell’Ordine dei Cavalieri di Malta in Germania.

Repubblica 3.5.08
Quell’Europa senza sinistra
di Anthony Giddens

Il successo del partito laburista si è protratto per circa 11 anni. Mentre in Italia, in Francia, in Germania, e altrove in Europa, nello stesso periodo, i governi di centrosinistra subivano fasi alterne, in Gran Bretagna, il Labour teneva la sua forte posizione.
Anche dopo la disastrosa decisione di Tony Blair di unirsi all´invasione in Iraq.Blair ha lasciato l´incarico di primo ministro nel giugno 2007 ed è stato sostituito da Gordon Brown, già ministro delle Finanze. Ma il Labour, dopo un lungo periodo in cui è stato il partito dominante, ora si trova in una situazione difficilissima. Nelle elezioni municipali tenutesi l’altro ieri ha ottenuto i peggiori risultati degli ultimi 40 anni. La sua percentuale è stata leggermente inferiore a quella dell´eterno "terzo partito" della politica britannica, i democratici liberali.
Nei primi tre mesi circa, dopo aver assunto l´incarico di premier, Gordon Brown ha riscosso un certo successo – era preferito a Blair, la cui popolarità era andata diminuendo nell´ultimo periodo. Lo stile di Brown è alquanto diverso da quello di Blair: serio e misurato il primo, accattivante nei modi il secondo. Inizialmente, questo cambiamento è stato ben accolto dalla gente, stanca del sempre sorridente Blair. Brown ha descritto se stesso come un «leader serio per tempi difficili» e, in generale, è stato ritenuto essere lui l´abile stratega politico, la cui agenda politica avrebbe avuto una portata ben maggiore rispetto a qualsiasi agenda che Blair avrebbe potuto elaborare. Buona parte del successo del Labour in quel periodo felice è da attribuirsi, difatti, a Brown. Con lui al Tesoro, il Paese aveva vissuto un periodo di continua espansione dell´economia britannica che, a sua volta, aveva reso possibile una massiccia spesa pubblica per scuole, ospedali e welfare.
Una gestione riuscita delle finanze di una nazione non sono sempre garanzia, tuttavia, di una buona preparazione per il più alto incarico. E vi sono dei precedenti. Il canadese Paul Martin era stato un eccellente ministro delle Finanze, prima di diventare primo ministro del Canada all´inizio del 2003. La sua attuazione come primo ministro si rivelò invece profondamente insoddisfacente.
I guai di Brown sono cominciati lo scorso settembre, quando, trovandosi in vantaggio nei sondaggi, Brown ha cominciato a considerare la possibilità di indire elezioni nazionali. Ma non si è deciso e ha girato a vuoto. Quando finalmente ha deciso di non procedere su quella strada, la sua reputazione di decisionista era già stata intaccata. Brown ha commesso anche altri errori che hanno rafforzato questa impressione. Brown ha parlato spesso della sua «visione» del centrosinistra, ma non è affatto chiaro quale sia questa visione. Personalmente, sono stato tra quelli che si aspettavano che sarebbe salito al potere con un programma preciso su come fare procedere il partito laburista dopo gli anni di Blair. Ma quando è diventato primo ministro, è sembrato persino che Brown, per esempio, non avesse chiara la misura nella quale avrebbe dato seguito al tentativo di Blair di introdurre una maggiore diversità e concorrenza nei servizi pubblici, né quanto avrebbe adottato una visione più tradizionale dello Stato.
Se i risultati delle elezioni di ieri si ripetessero nelle prossime elezioni nazionali (che devono essere tenute nel maggio o prima del maggio 2010) i conservatori riprenderebbero il governo con larga maggioranza. È poco probabile che i laburisti abbandonino Brown come leader prima di quella scadenza, ma Brown ha davanti a sé un compito enorme, se non vuole seguire la stessa sorte di Paul Martin. A questo punto, è probabile che il Labour si aggiunga agli altri partiti europei di centrosinistra che hanno dovuto cedere il potere.
La domanda è: sta accadendo qualcosa di più generale? Se i laburisti perdessero il potere in Gran Bretagna, solo un Paese, la Spagna, tra i 15 più grandi paesi della Unione Europea, avrebbe un governo di centrosinistra. In effetti, è una situazione molto lontana da quella degli anni Novanta, quando i governi di centrosinistra erano al potere in tredici su quindici Paesi della Ue. Tutti i partiti di sinistra hanno cercato affannosamente di rispondere in maniera coerente alle preoccupazioni che più assillano gli elettori in questo momento. L´immigrazione, la criminalità, il terrorismo e il venir meno delle identità nazionali, ad esempio. E sono questi i temi che hanno portato alla sconfitta i partiti socialdemocratici anche in quei Paesi dove sono stati tradizionalmente forti, come in Scandinavia. La destra può proporre «soluzioni» – come ad esempio, un nazionalismo xenofobico – che per la sinistra equivalgono ad anatemi.
Occorre anche tener presente che i partiti di centrosinistra hanno faticato a far passare delle riforme anche in quegli ambiti dove sono stati tradizionalmente forti. Sono diventati impopolari a causa della loro incapacità di coinvolgere l´elettorato nella riforma dei sistemi del welfare, pensionistici e dei mercati del lavoro. In una certa misura, ciò riflette una mancanza di volontà politica. Per Gerhard Schröder in Germania, Lionel Jospin in Francia e Romano Prodi in Italia nel suo ultimo periodo di governo, è stato impossibile far approvare programmi di riforme.
Personalmente, avevo sperato che Brown sarebbe stato in grado di avviare un programma per il centrosinistra, la cui influenza sarebbe andata ben oltre la Gran Bretagna, come era riuscito a fare Tony Blair quando i laburisti salirono al governo nel 1997. Ora appare chiaro che Brown, anche se si riprendesse a livello nazionale, non sarà in grado di farlo. Ritengo che oggi occorra una nuova sintesi per i partiti di centrosinistra. La destra ha preso l´iniziativa, anche se vedo poche possibilità che vada oltre l´attuale generazione di politici.
Traduzione di Guiomar Parada

Repubblica 3.5.08
L’euforia moderna non spiega la nostra vita
di Raimon Panikkar

La vita umana è ciò che unisce tutti gli uomini, ma anche li distingue. Fino al secolo scorso l´umanità credette empiricamente alla generazione spontanea; che la vita, cioè, non fosse solo quello che unisce e distingue gli uomini, ma che fosse il trascendentale assoluto dell´Essere, ciò che unisce e distingue tutto ciò che in qualche modo è. Vita ed Essere erano sinonimi - benché la Vita, come l´Essere, «si dica» in molti modi. Nel XIX secolo, con il raffinarsi dell´empeiria si credette di «dimostrare» che la vita era privilegio solo di alcuni esseri

«Omne vivum ex vivo» («Tutto ciò che vive proviene da un altro essere vivo») nacque quindi come un nuovo dogma ai tempi di Pasteur. La vita passò dunque a essere una specialità di quegli esseri definiti precisamente come vivi. La riproduzione fu considerata la caratteristica distintiva della vita e la riproduzione più palese era quella biologica, che reca con sé la morte. La grande divisione tra materia inerte ed esseri vivi ricevette un riconoscimento «scientifico». Ogni altro concetto era catalogato come magia e pensiero «primitivo». La «fisica», nonostante il suo nome, si ridusse alla materia inerte, e la vita di Dio risultava problematica, a meno che non fosse lui pure disposto a morire come ogni altro essere vivo - benché alcuni teologi si difendessero con la distinzione tra zoe e bios. Essere è un concetto astratto, vita è una nozione immediata. Questa intuizione va nella stessa direzione della credenza tradizionale nell´anima mundi tanto di frequente mal interpretata.
Siamo ben lontani dal mythos del secolo scorso, di cui potremmo assumere come simboli le due grandi figure di Sigmund Freud e Romain Rolland (oltre a molti altri): il primo vedeva nella mistica un fenomeno psicologico di evasione e il secondo un attributo antropologico di «sentimento oceanico». In ambedue i casi, tuttavia, la mistica si assimilava al primitivo ed estraneo al mondano. Comunque stiano le cose, ci si trova di fronte a un´esperienza della Vita circoscritta a qualcosa di specificamente umano, dato che parliamo dell´esperienza (umana) della Vita. Questa esperienza completa della Vita sarebbe l´esperienza mistica nel suo aspetto più generico. Per questo la mistica è gioiosa, stando al detto secondo il quale un mistico triste è un triste mistico.
Abbiamo scritto Vita con la maiuscola per non escludere a priori che la vita può avere altre dimensioni oltre a quelle inerenti ai suoi aspetti fisiologici e psichici. Esiste anche una vita spirituale: esiste la Vita dell´Essere e quindi, paradossalmente, anche la Vita della materia. In accordo a quanto detto, intendiamo per mistica questa esperienza integrale della Vita. Usiamo la parola «vita» invece di «realtà» perché più vicina a esperienza. In fondo vogliamo dire la stessa cosa, però, mentre la «realtà» è un concetto che deve essere spiegato, la vita è qualcosa che sperimentiamo direttamente; siamo esseri vivi, partecipiamo alla Vita anche se la riflessione poi ci dice che siamo esseri (viventi) che partecipano all´Essere. La nostra è l´esperienza della Vita. Pensiamo l´Essere, lo deduciamo o induciamo - al massimo lo intuiamo. La Vita la viviamo e ne siamo coscienti. Ogni uomo è cosciente di vivere e del fatto che la Vita rappresenta il suo massimo valore. Tutto il resto ne dipende; per meglio dire, le è legato. La conservazione della vita è il primo istinto umano.

Questa esperienza basilare può attingere diversi livelli di profondità - che sono inscindibili. Alcuni si sentono vivi perché sentono il sangue pulsare nelle vene - in tutta la ricchezza di questa metafora che abbraccia la passione e il sentimento. Alcuni si sentono vivere appieno quando pensano; quando, cioè, si rendono conto di essere dotati di una meravigliosa capacità di sentire il polso della realtà - c´è un´esperienza intellettuale della Vita. Ci sono, inoltre, alcuni che si rendono conto, con un´intensità ancora maggiore, che la Vita li trascende, che è stata data loro, che è un dono, una grazia anche se talvolta ad alcuni sembra una dis-grazia. Le tre esperienze procedono unite e talvolta prevale l´una, talvolta l´altra. Parliamo dell´esperienza del corpo, dell´anima, dello spirito - attenendoci alla antropologia tradizionale tripartita. Quando dico esperienza della Vita non intendo l´esperienza della mia vita, ma della Vita, quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina: Vita, tuttavia, che si «sente» palpitare, o, per meglio dire, semplicemente vivere in noi. Le interpretazioni che se ne danno naturalmente spaziano da ciò che è definito sentimento oceanico fino alla sensazione biologica di vivere, passando attraverso l´esperienza di Dio, di Cristo, dell´Amore o anche dell´Essere. Diciamo esperienza della Vita, ma non dobbiamo confonderla con nessuna delle funzioni del nostro essere.
Vivere la Vita non è pensarla, non è sentirla, non è farla, come non è neanche disprezzarla o «volere» porle fine. Non abbiamo un´altra parola. La Vita si vive. La mistica è questa esperienza di Vita anche se, mentre ne parliamo, già la traduciamo in linguaggio, il quale richiede una interpretazione. Diciamo esperienza della Vita e non esperienza della durata della vita; breve o lunga che sia. L´esperienza della Vita non è la coscienza del passare del tempo. Ciò di cui si fa esperienza è l´istante della tempiternità. L´esperienza non si misura col tempo.
È necessario inserire a questo punto una riflessione interculturale. L´esperienza della Vita ci riscatta dal dominio, per non dire dalla tirannia, della ragione dialettica, dato che non possiamo pensare alla sua negazione: non possiamo pensare alla morte, ci dicono, perché la identifichiamo con la non-vita. Possiamo pensare con maggiore o minore profondità alla vita ed esserne coscienti, ma non possiamo essere coscienti della morte.
Ogni cosa ha una possibile contraddizione: l´albero il non- albero, il Bene il non-Bene, e così pure l´Essere il non-Essere, anche se questo pensiero è un pensiero astratto e probabilmente vuoto. Non possiamo però fare esperienza della non-vita in quanto il soggetto (vivo) pensante non esiste più. Posso pensare la morte di un altro, non fare la sua esperienza, né tanto meno la mia. Si può fare esperienza della Vita, ma non si può fare l´esperienza della morte. Non si può certo «sperimentare» la non-vita, ma solo il pensiero dialettico identifica la non-vita con la morte. La morte non è la vita; ne è distinta e anche opposta, ma vita e morte non si contraddicono - se non nel pensiero dialettico. Non possiamo fare l´esperienza della morte, anche se possiamo meditare su di essa e questo pensiero (astratto) ci illumina sulla vita.

Inoltre, l´esperienza della Vita è l´esperienza del mistero, è la coscienza che si sta sperimentando un qualcosa che non può essere pensato. È proprio per questo che, da Socrate ai nostri giorni la filosofia è stata interpretata come una «meditatio mortis». V´è però dell´altro: l´esperienza della vita porta, a volte, con sé anche l´esperienza del morire. Non è un´esperienza gradevole, ma non deve neanche essere identificata con l´angoscia della morte, che dipende da altri fattori più animici e fisiologici che spirituali. È comunque un´esperienza nella quale anche il corpo è presente, in un aspetto più spirituale quale è la respirazione. Qualsivoglia descrizione implica di per sé una interpretazione. Io la chiamerei una esperienza della contingenza umana, dato che la vita non è nostra, dato che non si regge da sola, ma si sostiene proprio sulla Vita. Se all´inizio della mia esistenza era la Vita (anche se non mia), alla sua fine essa torna alla Vita. Se dovessi abbozzare con le mie parole questa esperienza integrale della Vita, direi che è l´esperienza completa tanto del corpo, che si sente vivere con palpiti di piacere o dolore, quanto dell´anima, con le sue intuizioni di verità seppure con i suoi rischi di errore, insieme alle folgorazioni dello spirito che vibra con amore o repulsione. L´esperienza della Vita non è solo la sensazione fisiologica di un corpo vivo, né è esclusivamente l´euforia della conoscenza che deriva dal contatto con la realtà, né l´effluvio dell´amore che nasce dalla partecipazione al dinamismo che muove il mondo.
L´esperienza della Vita è l´unione più o meno armonica della tre coscienze prima che l´intelletto le distingua. Questa esperienza sembra mostrare una complessità speciale - che chiamerei trinitaria. Non è né un semplice piacere sensibile o una pura esperienza intellettuale, né tanto meno una mera estasi incosciente. «La condizione umana», che è la condizione della realtà, ci accompagna sempre.
© 2008 Raimon Panikkar; Editoriale Jaca Book per l´edizione italiana (traduzione di Milena Carrara Pavan)

Repubblica 3.5.08
Il segreto dei Piceni. Identikit di un popolo fantasma
Una grande mostra di reperti mai visti prima

Centinaia e centinaia di tombe circolari a tumulo piene di tesori sono state scoperte negli ultimi anni nell´entroterra maceratese
Carri interi, servizi rituali grondanti di tazze, tessuti ricamati con migliaia di perline
La fiducia in una vita oltre la morte è documentata dai corredi funebri spesso toccanti

MATELICA. Questa mostra appena inaugurata nel cuore delle Marche, nell´entroterra maceratese - Potere e splendore: gli antichi Piceni a Matelica, fino al 31 ottobre - si può guardare e godere anche solo per quel che si vede lì, esposto con cura e buon gusto, nei sotterranei di Palazzo Ottoni. E lasciarsi affascinare dall´abbondanza di questa etnia: da quelle loro enormi olle brune, decorate con sapienza trattenuta (quasi déco, nonostante i loro 27 secoli di età), o da tutti quei bronzi fuori dall´ordinario, anche istoriati all´orientale, con quei soliti motivi che li fanno belli e sacri. E dagli elmi, dagli scettri, dalle lance, dai carri, dalle cascate di monili: tanto che, poi, a un certo punto, non sai più dove sei - se in un museo d´Etruria; o ad Hallstatt; o a Pontecagnano; o in Basilicata - tanto gli oggetti si somigliano e sembrano trasmettere gli stessi messaggi, ancora segreti. C´è uno scudo - trovato addosso al corpo di un principino di 15 anni - che è un vero portento e che, anche da solo, vale il viaggio fin qui: sembra materializzare gli antichi racconti sugli scudi di Achille o di Ercole.
Si può visitare questa mostra così: anche solo per stupire degli esotismi che - scavallando montagne e mari - arrivarono fin quassù, per esser poi sepolte accanto ai morti di qui. Robe da Wunderkammer: c´è un uovo di struzzo, quasi gemello di quelli che si trovano in necropoli etrusche e fenicie, ricamato da tali ghirigori che la dice lunga sui contatti internazionali di questi Piceni, insediatisi in zona intorno all´IX secolo avanti Cristo. E ci sono anche pezzi balcanici, e avori africani lavorati ad arte (per farne pissidi o per rendere eccelsa l´impugnatura di una spada ad antenne), e, in grandi quantità, ambre baltiche, montate con gli spilloni dei mantelli, o a far da collier alle dame di qui, fin dopo la morte. Proprio come avveniva - in quegli stessi secoli - nella Verucchio etrusca o nelle necropoli lucane. Ma si tratta dei Piceni.
Ci hanno messo un po´ gli archeologi a scegliere per loro questo nome, visto che le fonti classiche, per chiamarli, alternavano i termini «Picenti», «Piceni», «Picentini» & C. Alla fine si optò per «Piceni» e - come al solito, nel XX secolo - li si fece discendere da quei Villanoviani che, scoperti nel 1853, in un´altura sopra Bologna, sono attualmente ritenuti i progenitori del fenomeno etrusco che permeò l´entroterra appenninico d´Italia da nord a sud.
Divenne un dogma, questo dei Villanoviani. Sacrilego persino dubitarne e chiedersi cosa mai ci fosse a Villanova di tanto consistente nel II millennio a. C. per spiegare una colossale diaspora come quella ipotizzata. La nascita degli insediamenti villanoviani è, infatti, avvolta in un mistero doloroso, rassegnato: ci si convive con vaghezza, nebulosi, e ci si giustifica tirando in ballo la Dark Age, quell´età buia che spostò negli entroterra molti popoli del Mediterraneo, senza che ancora ne sia stato neppure ipotizzato un perché.
Lo stesso Massimo Pallottino, padre dell´etruscologia italiana, nel 1975 confessò: «Noi abbiamo un grande fantasma che ci perseguita da molti decenni: sull´Adriatico, nel centro dell´area adriatica, questo fantasma sono i Piceni».
Oggi, però - con l´exploit delle restituzioni dalla Piana di Matelica che questa mostra fa conoscere alla comunità scientifica internazionale - quel fantasma, d´improvviso, prende corpo e segnala quanti elementi lo imparentino non solo alle popolazioni etrusche umbre e toscane, ma anche a quegli Etruschi del Sud che da poco hanno trovato casa nel loro nuovo museo di Pontecagnano.
E a questo punto, però, c´è senz´altro un altro modo per guardarsela questa mostra - che da sola impone vistosamente una realtà locale fino a venti anni fa quasi sconosciuta: come fosse un anello mancante - e ragionarci su. Sapendo infatti che anche tutti questi tesori sono stati restituiti da centinaia e centinaia di tombe circolari a tumulo di questa grande piana, freddissima l´inverno - 80 chilometri quadri, blindati da due dorsali appenniniche parallele alte 1000 metri che si chiudono, sigillandola - si può anche tentare di analizzare nel suo complesso il big bang di quella religiosità italica che, dal primo millennio a. C. in poi, convertì l´intera penisola prima all´incinerazione, con le ceneri conservate in urne biconiche, poi a questo tipo di sepolture per inumazioni.
C´è una foto, a pagina 64 del bel catalogo realizzato da Erma di Bretschneider (30 euro in mostra; almeno il triplo fuori mostra), che solo a guardarla bene - e a rifletterci un po´ su - riesce davvero a commuovere: vi si vede un teschio ancora semisepolto e, proprio accanto alla bocca scarnificata, una coppa in bronzo. E una tenerissima istantanea sul nostro Passato Remoto: fa vedere come fosse una sepoltura femminile, qui in zona, nel Piceno, alla fine dell´VIII secolo a. C., ma anche - e con un solo colpo d´occhio - dimostra con quanta fiducia in una nuova vita dopo la morte affrontassero il viaggio nell´aldilà questi popoli italici, che, dal mille avanti Cristo in poi, si arroccarono sui picchi della penisola.
Da almeno 40 mila anni l´Homo sapiens sapiens aveva già molte delicatezze verso i suoi morti, tingendoli di ocra purificante e accompagnandoli con strumenti di lavoro o di caccia: segnali di vita, utili alla «sopravvivenza». Ma qui, ormai, ci sono veri e propri tesori sepolti con il morto: carri interi, servizi rituali grondanti di tazze, tessuti ricamati con migliaia di perline di vetro, bronzo e ambra, ma anche vettovaglie, e, addirittura, un cagnetto sepolto affiancato al suo padrone per nuove cacce ultraterrene. Una fede, questa loro, che doveva regalare mille speranze e lenire il dolore.
Non solo: quella foto spiega anche cosa ci sia di realmente affascinante nell´archeologia. Scavare e trovarsi di fronte cose così. E trovare altre tombe lì accanto, e altre ancora, a centinaia. E poterle, poi, anche indagare, come Dio comanda. E restaurarne i pezzi per metterli in mostra, in modo che tanti possano ragionarci su, sapendo già che, poi, finiranno nel museo locale, orgogliosamente inaugurato quattro anni fa: in Italia, dove i reperti spesso attendono decenni sepolti nei magazzini, tutto questo è quasi un miracolo.
Questa è l´archeologia, quand´è ben fatta.
Te ne accorgi ascoltando - davanti alle vetrine che presentano più di 350 pezzi, per lo più inediti, scavati negli ultimi 20 anni - Mara Silvestrini, curatrice della mostra, e lo staff di giovani archeologi che lei, con la sua soprintendenza, e Tommasso Sabbatini, e il sindaco-archeologo di Matelica, Patrizio Gagliardi, sono riusciti a coinvolgere in quest´operazione di conoscenza e documentazione del territorio che non ha molti precedenti in Italia.
Questa di Matelica - e di questa sua fascinosa avventura - è, tutto sommato, storia recente e insolita. La si deve a un codicillo che proprio il sindaco riuscì a inserire, anni fa, nei regolamenti comunali. Recita: «Eventuali operazioni di scavo, di qualsiasi tipo, che si rendessero necessarie in tutto il territorio comunale dovranno essere eseguite sotto la direzione della competente Soprintendenza archeologica. Pertanto l´inizio dei lavori relativo a tali operazioni dovrà essere comunicato con congruo anticipo alla sunnominata Soprintendenza».
Dopo qualche bizza iniziale, ormai, in zona ci si sono abituati.
Il soprindente delle Marche, Giuliano de Marinis, e la Silvestrini, sua responsabile di zona, da una decina d´anni hanno messo su uno squadrone di pronto intervento e così - man mano che la zona industriale si mangiava la piana con i suoi centri commerciali e i nuovi opifici, non essendoci architetture da salvare, ma solo tumuli di fango, ormai disfatti, ognuno però con la sua tomba sepolta lì - hanno potuto tesaurizzare i corredi di centinaia e centinaia di sepolcri, che ora, in gran parte restaurati, fanno di Matelica una tappa d´obbligo per chi ha passione per la prima storia d´Italia.

Repubblica 3.5.08
Eugenio Scalfari. Dai ricordi dell'infanzia a quelli del liceo, dagli anni del fascismo alla liberazione
Esce il libro autobiografico del fondatore di "Repubblica" Un bilancio a metà strada tra la vita e la filosofia


Mi teneva in braccio e io piangevo disperatamente, aggrappato a lei, con un singhiozzo lungo che mi consumava tutto il respiro fino a soffocarmi, quando il singhiozzo finiva era finito anche il respiro, come nei sogni quando ti senti affogare e l´anima sta per volare via e tu annaspi tra la morte e la vita sorretto solo da quella fitta di dolore che ti chiude la gola e il cuore.
Mi teneva in braccio e m´accarezzava la testa spingendola dolcemente nel cavo della sua spalla ad offrirmi riparo, ma nel buio caldo di quel riparo il pianto riprendeva con la stessa violenza e di nuovo restavo senza forze, arreso di fronte a un´incomprensibile incombente ingiustizia.
Mi aveva detto: dobbiamo andar via, lasceremo questa casa, è troppo grande per noi, ne avremo un´altra, ti piacerà, c´è un grande cortile e tante scale e i gatti che giocano su e giù, ti abbiamo comprato un letto grande, vedrai com´è bello vedrai, e continuava a carezzarmi la testa e a nascondermi il viso contro la sua spalla ma io mi accorsi che anche lei piangeva sotto l´onda dei capelli bruni mischiando le sue lacrime con le mie.
Anche lei c´era nata in quella casa ventitré anni prima di me, ne conosceva tutti gli anditi, i mobili, gli oggetti disposti come lei voleva che fossero, il bacile smaltato sopra il treppiedi di ferro, l´armadio di noce dov´erano conservate le lenzuola di lino e le tovaglie profumate di canfora e di spighetta, le pentole di rame appese alla parete della cucina, l ´attaccapanni con lo specchio e i pioli ad uno dei quali c´era ancora attaccato il cappello grigio a larghe tese del nonno e il suo bastone col pomo d´avorio e d´argento.
Mi svincolai dal suo abbraccio e ricordo di averle detto:«Quando sarò grande te la ricomprerò e torneremo qui»,e ridemmo tutti e due consolati tra le lacrime che ci rigavano ancora le guance.
Forse quella promessa l´avrei mantenuta, ma quando fui grande e tornai in quel luogo dell´infanzia la casa non c´era più, sprofondata in un cratere di bombe da cui emergevano pochi muri sdentati e rovine sparse tutt´intorno insieme a travi, calcinacci e spezzoni di tegole. La guerra era passata furiosamente distruggendo le banchine del porto, il muraglione dell´Arsenale, le pescherie, la Torre della Rocca, la chiesa di Santa Firmina e i palazzi di piazza della Vittoria. Al posto della casa dove ero nato vent´anni prima c´era solo quel cratere. Più tardi ci costruirono una sconcia palazzina coi mattoni a vista e le tapparelle alle finestre al posto delle lunghe persiane che ombreggiarono protettrici i primi anni della mia vita.
Quel pianto disperato in braccio a mia madre è il mio primo ricordo, insieme alla finestra sul mare, il cesso sul balcone e la ringhiera di ferro, le navi del porto che partivano e arrivavano, il suono della sirena del postale che salpava per la Sardegna e i gabbiani che volavano maestosi e all´improvviso cadevano a picco sui pesci del mare e sulle immondizie della darsena.
Da quella finestra è cominciata la mia vita, la mia memoria, la mia malinconia. Anche il mio risentimento e la voglia di compensare un torto subito.

Come mia madre mi aveva preannunciato la nostra nuova abitazione era al terzo piano d ´un vecchio palazzo pieno di scale, di gatti semirandagi e dell´odore acre della loro orina e del seme che i maschi spargevano dovunque in quegli antri bui quando le femmine andavano in calore strusciando a coda dritta sulla pietra dei gradini e mugolando con il lagno solitario della voglia amorosa.
Dall´androne del palazzo si divaricavano due scale senza luce che dividevano simmetricamente l´edificio in due ali, due cortili a ringhiera, un corridoio che bucava il muro divisorio e collegava le due metà. Ma a partire dal primo piano le rampe diventavano quattro e gli appartamenti otto per piano. Tra i due cortili non c´era comunicazione, sicché per passare da uno all´altro bisognava scendere al piano terra e salire fino al quinto dove la chiostra tornava ad essere percorribile attraverso una balconata che girava intorno ai quattro lati del palazzo e alle finestrelle che davano luce agli abbaini.
Questa struttura complicata possedeva un fascino intenso che stimolava esplorazioni, incontri furtivi, impreviste avventure. Le mamme più possessive – la mia era una di quelle – vietavano ai bambini di rincorrersi e nascondersi in quel labirinto di ringhiere per timore che vi si perdessero o facessero cattivi incontri, ma i divieti accrescevano il senso della trasgressione e dunque il gusto di trasgredire.
Quando prendemmo alloggio al terzo piano di quel labirinto io comunque ero troppo piccolo per infrangere i divieti e poi il gusto della trasgressione non faceva parte del mio carattere, ero timido, temevo il buio, le presenze invisibili, i rischi delle imprese coraggiose. Perciò non feci comunella con la masnada dei più grandi che nei pomeriggi invernali metteva a rumore i cortili e le scale del casamento.
Me ne stavo in una delle tre stanze del nostro appartamento, destinata a camera da pranzo e luogo dei miei giochi. Dava sulla chiostra del cortile con una porta-finestra dai vetri smerigliati per impedire che ci guardassero dentro. Accanto c´era lo stanzone semibuio della cucina; la stanza da letto e il salotto affacciavano invece sulla piazzetta di Sant´Antonio.
Era difficile non sentirsi triste e non annoiarsi in una casa fatta in quel modo. Passare le ore lunghissime del pomeriggio schierando sul tavolo da pranzo soldatini e figurine, dondolando su un cavallino nero di pannolenci e facendo le maglie all´uncinetto per due bambole con la testina di ceramica, una negretta e una cinesina, che piegandole chiudevano gli occhi e mettendole in piedi mandavano un suono da gattino neonato.
Erano quelli i passatempi delle mie giornate, mia madre mi considerava più una femminuccia che un maschietto, avevo capelli lunghi e biondi fino alle spalle.
Mio padre però mi aveva regalato una sciabola e un cappello a lucerna da carabiniere. Ogni tanto, quando montavo sul cavallo a dondolo, me lo calcavo in testa, ma durava poco perché non avevo nessuno che giocasse alla guerra con me.
Finalmente uscivamo verso le sei della sera, per assistere alla funzione nella chiesa di Sant´Antonio che stava di fronte alle finestre di casa mia, nella piazza cui il santo dava il nome sebbene al centro fosse stata eretta una statua di Garibaldi, con l´eroe in piedi appoggiato ad un fusto di cannone che gli faceva da sostegno, la sciabola in mano puntata verso Roma e tanto di iscrizione datata 1883 che mio padre leggeva ad alta voce ogni volta che ci passava davanti: «All´Eroe dei due mondi alfiere di libertà e indipendenza artefice dell´unità della Patria il Grande Oriente da lui lungamente guidato per imperituro ricordo pose».
Dopo aver scandito la metrica dell´iscrizione, mio padre si guardava fieramente intorno e aggiungeva a conclusione un sonoro «Perdio» che era la massima espressione del suo laicismo massonico.
Nessuno faceva caso alla contraddizione tra la statua e la chiesa; il parroco anzi usciva a spruzzare d´acqua benedetta le fattezze marmoree dell´Eroe la sera di ogni 2 giugno, anniversario della sua morte, in mezzo a una piccola folla di garibaldini in camicia e berretto rosso, figli o nipoti dei volontari che avevano accompagnato il Generale alla difesa di Roma, a Calatafimi, sul Volturno, sull´Aspromonte, a Mentana e che, dopo quella benedizione e un discorso di saluto di chi comandava quei guerrieri di seconda e terza generazione già vecchi e malandati anche loro, si imbarcavano sul postale alla volta di Caprera.
Ignaro di queste vistose contraddizioni toponomastiche e liturgiche (e anche familiari), io attraversavo la piazza con la mano in quella di mia madre voltandomi due o tre volte indietro a guardare le finestre di casa che viste dal di fuori facevano un bellissimo effetto, per rassicurarmi che fossero sempre lì e sempre quelle, con le tendine ai vetri e i ridò di damasco rosso. Infine andavamo a inginocchiarci in uno dei primi banchi della navata di destra. Il prete recitava il rosario e tutti facevano coro con l´«ora pro nobis» allo snocciolio delle giaculatorie delle quali non capivo una parola ma che, passati tre quarti di secolo, conservo ancora nella memoria: «Virgo prudentissima, Virgo veneranda, Virgo potens, Virgo clemens, Janua coeli, Stella matutina, Refugium peccatorum, Consolatrix afflictorum…» e via continuando fino a quando le canne sonore dell´organo, concluso il corale delle giaculatorie, riempivano di accordi profondi le navate, troppo piccole per contenere quei suoni irrompenti protesi verso l´alto alla ricerca del Signore.
Era il momento in cui i chierichetti (molto invidiati per la divisa di bianco e merletti che indossavano sulla veste nera)porgevano al celebrante il turibolo sul quale spargevano i grani dell´incenso che effondevano il loro fumo odoroso. Il prete che indossava i paramenti della funzione, deposto il turibolo impugnava l´aspersorio spruzzando l´acqua benedetta verso i banchi dove eravamo inginocchiati e, tracciando nell´aria il segno della croce, abbandonava l´altare.
Per rincasare passavamo davanti all´imboccatura del porto. Spesso andavamo a comprare il cefalo e le triglie per la cena e io restavo incantato dai gamberi rossi e dalle aragoste con le chele legate per non farle saltar fuori dai canestri.
Poi a casa, per le scale buie di quella gattara lasciandoci alle spalle l´orchestrina del caffè sotto il portico del palazzo e le folate di musica che ci accompagnavano.

Non sapevo ancora che cosa fossero i pensieri e neppure il significato di quella parola, eppure la mia testa ne era già piena. Ma uno me lo ricordo perché mi ha accompagnato per un bel pezzo della mia vita e quando ho capito che non corrispondeva affatto alla natura delle cose del mondo ho dovuto faticare molto per liberarmene.
Si tratta della lotta tra i buoni e i cattivi. Mi sforzo di ricordare se quella bipartizione avesse per me qualche significato. Direi di no, non l´aveva. Sapevo solo che i buoni erano contro i cattivi, stavano dalla nostra parte e vincevano sempre.
Quando giocavo con i miei soldatini di piombo e li dividevo in due schiere contrapposte secondo il colore delle divise fingendo una guerra tra loro, quelli che vincevano (cioè quelli che io facevo vincere)erano i buoni, e gli sconfitti i cattivi. Così prese forma nella mia mente l´identificazione buono-vittorioso contro cattivo-sconfitto.
Una volta però, ma avevo già compiuto i sei anni e le guerre dei miei giochi erano diventate quelle tra i cowboy e gli indiani, decisi – non so perché – di far vincere gli indiani buttando per terra, a colpi di pistola caricata con i fagioli, tutti i cowboy schierati in campo.
Mia madre, che subito informai dell´accaduto, commentò: «Questa volta hanno vinto i cattivi», ma io risposi che gli indiani erano diventati buoni e avevano vinto per questo. L´attribuzione della bontà era dunque diventata variabile ma la sua associazione con la vittoria era rimasta.
Come ho detto, questo mio primo giudizio di valore è durato a lungo nella mia testa. A ripensarci adesso non so spiegarmi perché a sei anni ero convinto che chi vince è buono. Oppure che chi è buono vince, che sono due assiomi assai diversi. Oggi mi rendo conto di quanto sia complicata questa questione. A volte mi sorprendo ancora a identificare i buoni con i vincenti e un po´ me ne vergogno.

Da dove arrivano i pensieri? Nonostante i progressi delle scienze questa domanda resta ancora inevasa. Forse esiste un luogo dove sono riposti tutti i pensieri del mondo e quelli di ciascuno di noi. Quando hai consumato i tuoi pensieri o quando ti siano venuti a noia, chiami il centralino del deposito e te ne fai mandare altri nuovi di zecca.
È così che funziona? Rilke ha scritto che esiste un magazzino di facce. Quando sei stufo di quella che hai fin dalla nascita, vai al magazzino, butti via la tua e te ne scegli un´altra. La stessa cosa potrebbe avvenire per i pensieri. Però rimane una domanda: perché un pensiero ti arriva in quel momento e non prima né dopo?
Arrivano all´improvviso, quando meno te l´aspetti. Si dice che siano le sensazioni del corpo a suscitarli, ma io non credo che sia così. A me la maggior parte arriva la notte quando mi sveglio. Al buio. Non ho alcuna sensazione che possa associarsi ad un pensiero, eppure loro arrivano. Non li hai scelti tu, spesso ti disturbano, a volte ti cambiano la giornata, qualche volta possono addirittura cambiarti la vita. Possono non lasciare più la tua mente, fanno il nido tra le mappe del tuo cervello e diventano la tua ossessione, uccidono la tua fantasia e la tua libertà.
Oppure un pensiero ti invade per un attimo e subito ne arriva un altro che ne prende il posto e poi un altro ancora, un´immagine seguita da un´altra, immagini e pensieri si incalzano e si spingono via dalla tua mente come le vele bianche in viaggio in quel pezzo di mare blu inquadrato dalla tua finestra.
Denis Diderot andava tutte le mattine nel giardino del Palais Royal «che fosse bello o facesse brutto» e lì pensava. Lo racconta in uno dei suoi dialoghi aggiungendo che i pensieri gli arrivavano chissà da dove, lo intrattenevano per un po´ e poi volavano via. Come i passeri che dopo un breve cinguettio abbandonano il ramo dell´albero su cui si erano posati e vanno a frascheggiare altrove. «Come le ragazze di vita», scrive Diderot, che in fondo ai portici del giardino le vedeva adescare i giovanotti o i signori in polpe e parrucca, passando da uno all´altro svolazzanti nelle loro gonne d´organza. «I pensieri sono le mie puttane», scrive il filosofo: quando, tanti anni fa, lessi quella definizione me ne innamorai perché anche delle puttane ci si può innamorare.
Se fosse la volontà a inviarti i pensieri e a governarli? Talvolta accade. Da bambino mia madre mi aveva abituato a inviare una preghiera alla Madonna e a Gesù ed io, obbediente, così facevo; la volontà comandava alla mente di pensare a Dio e pregare. Però non erano veri pensieri. Infatti ripetevo insonnolito l´Ave Maria, facevo il segno della croce e mi cacciavo sotto le coperte.
E poi, chi è il padrone della volontà? La risposta più ovvia, quella che per tanti anni mi sono dato e sulla quale mi sono acquietato, è che sia io il padrone della mia volontà. Ma in realtà si tratta di una risposta che è poco più di una tautologia e sposta la domanda sull´io. È l´io che decide? È l´io il sovrano della mia mente, del mio corpo, della mia anima, qualunque cosa si intenda con questa enigmatica parola?

L´infanzia è una stagione fatata. La sola di tutta una vita che non finisce mai e t´accompagna fino all´ultimo respiro.
Anche i ricordi dell´infanzia ti seguono negli anni, sono gli ultimi ad annebbiarsi e quando le cellule che presidiano la memoria sentono già il logorio del tempo, il gocciolio del tempo che cade dalla gronda del cielo sui tuoi pensieri ormai svagati e sconnessi, il fanciullino che è rimasto in te ancora ti invia segnali, segnali di riso e di pianto, di gioco e di malinconia.
La nostalgia è il rimpianto d´un passato che è stato e non può tornare; ma la malinconia è diversa. È rimpianto di ciò che non è stato ma che sarebbe stato possibile, di un´altra vita non vissuta, d´un amore che ti ha sfiorato senza fermarsi. Di un tu che avresti voluto incontrare ma non hai incontrato, di un te stesso che avresti voluto essere e non sei stato.
Ciascuno di noi ha la sua infanzia e non ce n´è nessuna che somigli ad un´altra, ma questa diversità non è una tua scelta. Tu sei già una persona ma la materia che ti raffigura è come una cera morbida, calda, plasmabile.
La plasmano i fatti, il mondo in cui vivi e nel quale il caso ti ha catapultato. Ti devi misurare con quel caso che ti ha fatto nascere nero o bianco, povero o ricco, alto o basso, allacciando tra loro le tue cellule neuronali in un modo o in un altro, in una famiglia accogliente o ispida, armoniosa o invece devastata dalla discordia.
Così la tua cera viene modellata dalla realtà che ti circonda e tu reagisci con l´istinto di sopravvivenza che la natura ti ha dato dal primo istante in cui sei stato proiettato dall´utero materno nel caos d´una vita tutta ancora da inventare.
Certo ora sappiamo che hai un tuo Dna, una collana di geni inanellata e presente in ogni cellula, in ogni tessuto, in ogni capello, in ogni stilla della tua saliva. I saggi d´un tempo lo chiamavano destino, ma la scienza ormai gli ha dato per nome una sigla, che contribuisce a determinare la tua identità, i mali latenti, le predisposizioni e perfino la probabile durata d´una esistenza; ma non chiarisce nessun mistero, non risponde alle «domande fondamentali», ai perché che tutti i membri della specie si pongono. Soprattutto a dare un senso alla tua vita.
C´è chi si pone questa domanda una sola volta e poi l´accantona per sempre; chi più volte ogni giorno, chi mai. Ma non è vero. La domanda di senso, che lo si sappia o no, è il tema dominante della specie. Discende dalla mente capace di riflettere su se stessa, dal pensiero capace di pensare il pensiero.
Il filo d ´erba vive ma non si pensa e così la farfalla, gli uccelli, il serpente, i pesci nel fondo del mare. La vita dell´universo non ha bisogno di senso. Noi ne abbiamo bisogno, la nostra specie ne ha bisogno.
Ma non il fanciullo.
Quel problema si porrà in tutta la sua prorompenza nell´altra grande stagione creativa e sognante, quella dell´adolescenza, che scopre il mistero del senso e l´incombere della morte.
Un lungo interrogarsi senza risposte. Il tempo fatto acqua. I morti che vivono. La morte, la morte che viene.

© 2008 Giulio Einaudi editore s.p.a. Torino

il Riformista 3.5.08
Sunto di Citati su Scalfari

Ad uso e non abuso dei lettori, offriamo una sintesi di 20 righe dell'ampissima recensione di Pietro Citati, uscita giovedì 1 maggio su Repubblica, a proposito del libro del suo fondatore, Eugenio Scalfari.

Eugenio Scalfari ha scritto un romanzo, anzi no, un'autobiografia. D'altronde la sua vita è un romanzo e visto che mi fa scrivere in prima pagina, spesso, anche male di Alessandro Baricco, devo recensire il suo ultimo libro. «L'uomo che non credeva in Dio». Chi è l'uomo che non credeva in Dio? Lui, Eugenio Scalfari. Perché in questo libro, Scalfari, che ha appreso l'esistenza dell'inconscio dai libri, si chiede chi sia l'io, l'io proprio e l'io degli altri. Se interroghi il tuo io, non c'è spazio per Dio. Io - scusate - infatti non credo che Dio sia morto. Il libro è amabile, ma non penso nemmeno come sostiene Scalfari che il sentimento religioso derivi dal timore della morte. Il libro, dicevo, è amabile, ma non avendolo letto del tutto non riesco a dirvi di che parla, a parte il fatto che Scalfari ha letto molto Montaigne, questo sì, e che pensa al suo io ma anche all'io degli altri. Ci sarebbero molte vicende private di Scalfari, ma è meglio sorvolare. D'altronde, anche i grandi incontri della sua lunga e onorata vita giornalistica sono poca cosa rispetto a Nietzche. Alla morte di Dio. A questo punto, vi racconto la mia personale lettura del «Messaggio dell'imperatore» e nel «Processo» di Franz Kafka.

Ad uso e ulteriore non abuso dei lettori, offriamo una sintesi dell'articolo di Citati, in cinque rigue.

Il libro l'ho letto, non tutto, ma mi è piaciuto. Dovendo scriverne tanto e subito, mi sono riletto Kafka e ho chiuso il pezzo con il «Processo», dove l'uomo conosce il divino nella morte del divino. Ognuno è pieno di disperazione Dio è morto, e di speranza, Dio non morirà.

il Riformista 3.5.08
L'ex ministro minimizza e pensa al congresso
Ferrero: «Avrei invitato anche i palestinesi
Rifondazione? Ricominciamo da tre»
di De Angelis

Prima sdrammatizza sui disordini di Torino: «Le manifestazioni contro Israele non vanno criminalizzate». Poi traccia la rotta per il suo partito: «Bisogna ripartire dall'opposizione sociale a Berlusconi». E infine lancia un monito in vista del congresso: «Rifondazione non si scioglie». L'ex ministro Paolo Ferrero, in una conversazione col Riformista , analizza le principali questioni in campo. A partire dalle contestazione anti-Israele a Torino: «È legittimo che ci possano essere forme di contestazione, anche se non condivisibili. Non sono d'accordo con il boicottaggio, ma bisogna lottare affinché i palestinesi abbiano uno Stato e contro la repressione di Israele. Serve un impegno più netto per obbligare Israele a fare passi in avanti. È una condizione inaccettabile». Ferrero sarà ospite della fiera del libro di Torino dove presenterà il suo volume sull'immigrazione, ma mette le distanze: «Parteciperò con una piccola bandiera palestinese sul bavero della giacca. La nostra linea è "due popoli, due Stati". Non era opportuno che solo Israele fosse ospite d'onore. Io avrei ospitato israeliani e palestinesi».
La contestazione a Bertinotti su Israele è stato l'ultimo di una serie di episodi che hanno mostrato una distanza della sinistra-sinistra dal suo popolo. Dice Ferrero: «Il punto di fondo è che con l'esperienza del governo Prodi alcune aspettative sono andate deluse. Su tutti i temi fondamentali il Pd ha mediato con i poteri forti: sulla precarietà con Confindustria, sulla laicità col Vaticano, sulla tassazione delle rendite con assicurazioni e banche». E qui l'ex ministro individua le ragioni della disfatta: «Il nostro popolo è esigente e a un certo punto non ha capito più a cosa servivamo». Di chi sono le responsabilità? «Voglio dire chiaramente che siamo tutti responsabili. Io per primo. L'errore è all'origine: abbiamo sbagliato all'ultimo congresso la valutazione dei rapporti di forza. Abbiamo pensato che si sarebbe potuto avere uno spostamento a sinistra e invece c'è stata una linea tesa al risanamento più che alla distribuzione».
Ferrero non vuol sentir parlare dei veleni che agitano il suo partito. E, parafrasando Troisi, afferma: «Si deve ripartire da tre». In primo luogo, dice, va archiviato l'Arcobaleno: «La sinistra va ricostruita a partire dal basso, in forme democratiche e in modo che la gente capisca la nostra utilità sociale. Dobbiamo costruire le Case della sinistra sul territorio. L'Arcobaleno è stato gestito dall'alto. Ora dobbiamo ribaltare la piramide. A chi dice acceleriamo non rispondo "andiamo piano", ma rispondo "rovesciamo la piramide"». Secondo: «Va costruita una opposizione sociale senza dare per scontato che la gente stia con noi. A partire da alcuni temi fondamentali: contratti, salari, grandi opere». Terzo: «Rifondazione è utile per l'oggi e per il domani. Non va sciolta perché è una risorsa e non un ostacolo. Ma, pur essendo necessaria, non è sufficiente: va costruita una forza dal basso e plurale».
Sul questo punto Ferrero marca le distanze da Bertinotti, Giordano, Vendola: «Alla fine di un processo costituente non c'è più quello che c'era prima, cioè Rifondazione. Per questo penso al modello Flm: non una semplice federazione tra partiti ma una rete di associazioni che preveda coordinamenti comuni». Rifondazione è divisa anche tra chi vuole un congresso a tesi e chi lo vuole a mozioni. Dice Ferrero: «Proprio perché bisogna far ripartire Rifondazione penso che si debba fare un congresso che discute e che favorisca la partecipazione. Ho proposto di fare un congresso a tesi, cioè unitario. Se invece si parte su mozioni contrapposte l'elemento plebiscitario è molto forte e questo processo fa saltare Rifondazione. D'altronde se nell'ultimo comitato politico nessuno ha proposto di sciogliere Rifondazione ci sono, tra noi, molti elementi comuni». È vero che vuole spostare il congresso a ottobre? «Mai pensata una cosa del genere. Va fatto a luglio». Quale è, in sintesi, la linea Ferrero? «Se Rifondazione si scioglie in un nuovo soggetto della sinistra non più comunista, la Costituente di Diliberto va avanti. E la sinistra si trova divisa tra una parte comunista e una no: sarebbe un disastro, una sconfitta del nostro progetto di Rifondazione, nata per tenere assieme comunismo e innovazione. Quella che propongo è l'unica ipotesi unitaria sul campo. Quelle degli altri spaccano tutto in due e ognuno spera di essere il pezzo più grande». (de angelis)

Repubblica 3.5.08
Sempre più alta la quota del Pil che va ai profitti. In busta 5mila euro in meno all´anno
Il declino degli stipendi
di Maurizio Ricci

Profitti, corsa senza fine così ogni busta paga perde 5 mila euro l´anno
Studio Bri, dagli ´80 a oggi salari schiacciati

Se i rapporti di forza fra capitale e lavoro fossero ancora quelli di vent´anni fa, nelle tasche dei lavoratori ci sarebbero 120 miliardi in più
Secondo Stephen Roach, ex Morgan Stanley, la globalizzazione si sta rivelando un gioco in cui non è vero che vincono tutti

ROMA. La lotta di classe? C´è stata e l´hanno stravinta i capitalisti. In Italia e negli altri Paesi industrializzati, gli ultimi 25 anni hanno visto la quota dei profitti sulla ricchezza nazionale salire a razzo, amputando quella dei salari, e arrivare a livelli impensabili ("insoliti", preferiscono dire gli economisti). Secondo un recente studio pubblicato dalla Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, nel 1983, all´apogeo della Prima Repubblica, la quota del prodotto interno lordo italiano, intascata alla voce profitti, era pari al 23,12 per cento.
Di converso, quella destinata ai lavoratori superava i tre quarti. Più o meno, la stessa situazione del 1960, prima del "miracolo economico". L´allargamento della fetta del capitale comincia subito dopo, nel 1985. Ma per il vero salto bisogna aspettare la metà degli anni ´90: i profitti mangiano il 29 per cento della torta nel 1994, oltre il 31 per cento nel 1995. E la fetta dei padroni, grandi e piccoli, non si restringe più: raggiunge un massimo del 32,7 per cento nel 2001 e, nel 2005 era al 31,34 per cento del Pil, quasi un terzo. Ai lavoratori, quell´anno, è rimasto in tasca poco più del 68 per cento della ricchezza nazionale.
Otto punti in meno, rispetto al 76 per cento di vent´anni prima. Una cifra enorme, uno scivolamento tettonico. Per capirci, l´8 per cento del Pil di oggi è uguale a 120 miliardi di euro. Se i rapporti di forza fra capitale e lavoro fossero ancora quelli di vent´anni fa, quei soldi sarebbero nelle tasche dei lavoratori, invece che dei capitalisti. Per i 23 milioni di lavoratori italiani, vorrebbero dire 5 mila 200 euro, in più, in media, all´anno, se consideriamo anche gli autonomi (professionisti, commercianti, artigiani) che, in realtà, stanno un po´ di qui, un po´ di là. Se consideriamo solo i 17 milioni di dipendenti, vuol dire 7 mila euro tonde in più, in busta paga. Altro che il taglio delle aliquote Irpef.
Non è, però, un caso Italia. Il fenomeno investe l´intero mondo sviluppato. In Francia, rileva sempre lo studio della Bri, la fetta dei profitti sulla ricchezza nazionale è passata dal 24 per cento del 1983 al 33 per cento del 2005. Quote identiche per il Giappone. In Spagna dal 27 al 38 per cento. Anche nei paesi anglosassoni, dove il capitale è sempre stato ben remunerato, la quota dei profitti è a record storici. Dice Olivier Blanchard, economista al Mit, che i lavoratori hanno, di fatto, perduto quanto avevano guadagnato nel dopoguerra. Forse, bisogna andare anche più indietro, al capitalismo selvaggio del primo ‘900: come allora, in fondo, succede poi che il capitalismo troppo grasso di un secolo dopo arriva agli eccessi esplosi con la crisi finanziaria di questi mesi.
Ma gli effetti sono, forse, destinati ad essere più profondi. C´è infatti questo smottamento nella redistribuzione delle risorse in Occidente dietro i colpi che sta perdendo la globalizzazione e il risorgere di tendenze protezionistiche: da Barack Obama e Hillary Clinton, fino a Nicolas Sarkozy e Giulio Tremonti.
Sostiene, infatti, Stephen Roach, ex capo economista di una grande banca d´investimenti come Morgan Stanley, che la globalizzazione si sta rivelando come un gioco in cui non è vero che vincono tutti. Secondo la teoria dei vantaggi comparati di Ricardo, la globalizzazione doveva avvantaggiare i paesi emergenti e i loro lavoratori, grazie al boom delle loro esportazioni. E quelli dei paesi industrializzati, grazie all´importazione di prodotti a basso costo e alla produzione di prodotti più sofisticati. «E´ una grande teoria - dice Roach - ma non funziona come previsto».
Ai lavoratori cinesi è andata bene, ma quelli americani ed europei non hanno mai guadagnato così poco, rispetto alla ricchezza nazionale. Sono i capitalisti dei paesi sviluppati che fanno profitti record: pesa l´ingresso nell´economia mondiale di un miliardo e mezzo di lavoratori dei paesi emergenti, che ha quadruplicato la forza lavoro a disposizione del capitalismo globale, multinazionali in testa, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori dei paesi sviluppati. Quanto basta per dirottare verso le casse delle aziende i benefici dei cospicui aumenti di produttività, realizzati in questi anni, lasciandone ai lavoratori le briciole. Inevitabile, secondo Roach, che tutto questo comporti una spinta protezionistica nell´opinione pubblica, a cui i politici si mostrano sempre più sensibili.
Ma il ribaltone nella distribuzione della ricchezza in Occidente è, allora, un effetto della globalizzazione? Non proprio, e non del tutto. Secondo gli economisti del Fmi, nonostante che il boom del commercio mondiale eserciti una influenza sulla nuova ripartizione del Pil, l´elemento motore è, piuttosto, il progresso tecnologico. Su questa scia, Luci Ellis e Kathryn Smith, le autrici dello studio della Bri, osservano che il balzo verso l´alto dei profitti inizia a metà degli anni ´80, prima che le correnti della globalizzazione acquistino forza. Inoltre, l´aumento della forza lavoro disponibile a livello mondiale interessa anzitutto l´industria manifatturiera, ma, osservano, non è qui - e neanche nei servizi alle imprese, l´altro terreno privilegiato dell´offshoring - che si è verificato il maggior scarto dei profitti.
Il meccanismo in funzione, secondo lo studio, è un altro: il progresso tecnologico accelera il ricambio di macchinari, tecniche, organizzazioni, che scavalca sempre più facilmente i lavoratori e le loro competenze, riducendone la forza contrattuale. E´ qui, probabilmente, che la legge di Ricardo, a cui faceva riferimento Roach, si è inceppata. Il meccanismo, avvertono Ellis e Smith, è tutt´altro che esaurito e, probabilmente, continuerà ad allargare il divario fra profitti e salari in Occidente.
Dunque, è la dura legge dell´economia a giustificare il sacrificio dei lavoratori, davanti alla necessità di consentire al capitale di inseguire un progresso tecnologico mozzafiato? Neanche per idea. La crescita dei profitti, sottolinea lo studio della Bri, «non è stato un passaggio necessario per finanziare investimenti extra». Anzi «gli investimenti sono stati, negli ultimi anni, relativamente scarsi, rispetto ai profitti, in parecchi paesi». In altre parole «l´aumento della quota dei profitti non è stata la ricompensa per un deprezzamento accelerato del capitale, ma una pura redistribuzione di rendite economiche».
La lotta di classe, appunto.