martedì 17 gennaio 2006

L’Espresso, 17.01.06
LE NUOVE REGOLE DELLA PSICOLOGIA
Felici si diventa
Essere estroversi. Lanciare sfide ardite. Puntare sugli affetti. Basta per essere positivi? La scienza affronta il più antico dei dilemmi
di Paola Emilia Cicerone


Dopo un secolo dedicato a studiare le sofferenze umane, gli psicologi hanno scoperto la felicità. E i libri che raccontano come conquistarla, come 'Happiness' dell'inglese Daniel Nettle, pubblicato dalla prestigiosa Oxford University Press, o 'Satisfaction' dello psichiatra americano Gregory Berns, escono dagli scaffali dedicati alla psicologia popolare, per conquistarsi un ruolo tra le pubblicazioni accademiche. Come si spiegano tanti sforzi per migliorare la vita di chi non denuncia gravi patologie, ma semplici insoddisfazioni? "Non c'è molta felicità in giro, per questo ne parliamo tanto", dice Nettle, psicologo all'Università di Newcastle: "La gente si è resa conto che il nostro tenore di vita è sensibilmente migliorato, ma la nostra vita interiore no".

In effetti, i primi studi sulla felicità sono figli degli anni '60, quando si comincia a capire che il boom economico non cancella le nevrosi, anzi forse le genera. Ma a sdoganare ufficialmente la Psicologia positiva, in tempi più vicini a noi, è Martin E. P. Seligman, per anni presidente dell'American Psychological Association, noto al pubblico come autore di saggi tradotti anche in Italia, quali 'Imparare l'ottimismo' (Giunti 2005) e 'La costruzione della felicità' (Sperling Paperback 2005). E anche nel nostro paese si è da poco costituita la Società italiana di psicologia positiva (Sipp) guidata da Gian Franco Goldwurm e Antonella Delle Fave.

Una produzione e un argomentare che, alle raffinate sensibilità degli europei affascinati dalle profondità della psicoanalisi, profuma di banalità, ma che, partendo da un ragionamento semplice e da una serie di prescrizioni un po' naïve, arriva ad affondare le mani nel problema dei problemi: cosa è la felicità? E perviene a conclusioni per niente naïve.

"Il merito di questi studi? Prima che la psicologia positiva diventasse una moda, la scienza non se ne occupava", sottolinea Goldwurm, psichiatra e docente all'Università di Milano. Che ha sperimentato sui suoi studenti l'efficacia delle tecniche per correggere gli atteggiamenti che alimentano l'infelicità e che lo psicologo americano Michael Fordyce riassume in 14 principi fondamentali: in sintesi, socializzare, pensare positivo, coltivare le relazioni intime ed evitare di preoccuparsi per un nonnulla. Banalità? "Chiediamo ai musoni di scambiare due parole con quanti incontrano durante il giorno, dal giornalaio alla cassiera del supermercato. E agli ansiosi di appuntare su un quaderno le loro preoccupazioni: rileggendole una settimana dopo, scoprono che molte di queste erano infondate, e con un po' di esercizio possono imparare che non è il caso di preoccuparsi tanto". In altre situazioni si interviene sui processi cognitivi che ci portano a vedere tutto nero, "per aiutare i pazienti a rendersi conto di quanto c'è di valido nella loro esistenza". I risultati ci sono. E confermati da studi che mostrano come ottimismo e buone relazioni umane garantiscano non solo felicità, ma anche salute.

"Un importante studio inglese, il 'National Child Development', dimostra che sposati e conviventi sono decisamente più felici di quanti vivono soli", ricorda Nettle: "E altre ricerche confermano che felicità e un comportamento estroverso vanno di pari passo". Senza dimenticare lo storico studio statunitense sulle suore, che mostra come circa il 90 per cento delle religiose più ottimiste sia arrivato senza problemi agli 85 anni, contro solo il 34 delle meno ottimiste. "Il prossimo passo", spiega Goldwurm, "sarà quello di cercare di trasformare i pessimisti in ottimisti, seguendo il metodo di Seligman sul benessere soggettivo". Dunque si può imparare a essere felici? "Anche introversi e malinconici possono trarre piacere da un hobby, dall'amicizia e dalle relazioni umane, spesso hanno solo bisogno che qualcuno gli ricordi che ci sono cose piacevoli cui dedicare tempo ed energia", teorizza Nettle.

Sarebbe questa la felicità autentica cui il settimanale 'Time' ha dedicato una copertina? Domanda non retorica, perché il problema centrale del dibattito sulla felicità è proprio quello di mettere d'accordo gli psicologi sulla definizione. E a complicare le cose c'è anche la difficoltà di tradurre la dicotomia inglese tra 'joy', la felicità momentanea, e 'happiness', intesa, dice Nettle, "come uno stato durevole che consiste in un ragionevole equilibrio di emozioni positive e negative, e nella sensazione che la propria vita abbia un senso e proceda verso un obiettivo soddisfacente".

Comprensibile che qualcuno sia tentato di trovare delle scorciatoie: come Ruut Veenhoven della Erasmus University di Rotterdam, direttore del Database Mondiale della Felicità (consultabile presso http://worlddatabaseofhappiness.eur.nl). Che senza farsi tante domande ha provato a classificare il livello di felicità di popoli diversi, scoprendo che svizzeri e maltesi detengono la palma della felicità con un punteggio di 8, mentre all'estremo opposto ci sono Zimbabwe (3,2) e Tanzania (3,3), ma anche alcuni Stati europei come la Moldavia (3,5) e l'Ucraina (3,6), con l'Italia in una posizione intermedia (6,9).

Siamo proprio sicuri che quando dicono di essere (o non essere) felici svizzeri, moldavi e italiani intendano la stessa cosa? "Forse in italiano sarebbe più corretto parlare di benessere, che ha una definizione più ampia e meno connotata rispetto a felicità", commenta Antonella Delle Fave, docente di Psicologia generale all'Università di Milano. Non è solo questione di terminologia: "Molti psicologi americani tendono a privilegiare una visione della felicità molto individualista, pragmatica, che studia e promuove il piacere inteso come benessere prettamente personale. Mentre noi europei attribuiamo maggior peso allo sviluppo e alla realizzazione delle potenzialità individuali, ma all'interno di un contesto sociale", prosegue la psicologa.

Anche sull'origine della nostra felicità, insomma, i pareri sono tutt'altro che unanimi. Tanto che sembrerebbe più facile dare una risposta in negativo. Sappiamo, ad esempio, "che una volta soddisfatti i bisogni fondamentali, l'aumento della ricchezza non incrementa la felicità in modo proporzionale", precisa Delle Fave. E, sorpresa, anche la salute non è tutto. "Eventi lieti, come una vincita alla lotteria, o tragedie, come una grave malattia, influiscono sulla felicità degli individui. Ma solo momentaneamente: con il passare del tempo la maggior parte delle persone torna nella condizione psicologica precedente", ricorda Nettle: "Studi effettuati sui disabili mostrano che a fare la differenza non è la gravità dell'handicap, ma l'atteggiamento, la capacità di trasformare gli ostacoli in opportunità", racconta Delle Fave. Una patologia anche grave, vissuta con un atteggiamento costruttivo, non impedisce di essere felici. "E la psicologia positiva", dice Goldwurm, "può essere di grande aiuto per chi è costretto a convivere con una malattia cronica".

E in positivo, quale potrebbe essere la ricetta della felicità? C'è chi, come Gregory Berns, dedica la propria attenzione soprattutto al piacere, per concludere, dopo aver visitato bordelli sadomaso e assaggiate squisitezze gastronomiche, che questo consiste soprattutto nelle sfide concluse con successo, in quell''Ah!' di soddisfazione che ci viene fuori quando abbiamo affrontato e risolto un problema, e ancor di più nella novità. "Abbiamo verificato che se offriamo a un gruppo di bambini un vassoio di dolcetti misti, permettendogli di prenderne due, tutti prendono prima il loro dolce preferito, poi un altro diverso", testimonia Berns. Anche se in realtà le cose sono più complicate di così: ci sono piaceri che una volta assaporati perdono il loro fascino; altri che non ci stancano mai; e altri ancora, come le nostre pietanze preferite, che dobbiamo concederci solo di tanto in tanto se non vogliamo che perdano sapore. E in questo senso, insiste lo scienziato americano, anche il denaro ha un ruolo importante, purché venga utilizzato per vivere nuove esperienze.

"La novità è sicuramente un aspetto importante della felicità, ma l'elemento essenziale è l'opportunità di cimentarci con prove sempre nuove", spiega Delle Fave. Parliamo di quella gratificante condizione individuata da uno dei padri della psicologia positiva, Mihaly Csikszentmihalyi, e definita flow o esperienza ottimale. "È quello che prova chi si impegna per rispondere a una sfida difficile, ma non impossibile, che mette in gioco tutte le sue competenze. Ad esempio uno scalatore che conquista una vetta", interviene Delle Fave. Sembrerebbe un'emozione riservata a pochi eletti, in realtà è un'esperienza molto diffusa, che sembra comune a tutti gli umani a prescindere dalla loro cultura di origine: "Una nostra ricerca su 22 comunità diverse ci ha consentito di dimostrare che l'85 per cento delle persone ha vissuto esperienze ottimali", prosegue la psicologa. Un' interpretazione che spiegherebbe perché la felicità, apparentemente meno utile di altre emozioni salvavita come la paura o il disgusto, ci abbia accompagnato per tutta l'evoluzione: "La necessità di conoscere e sperimentare cose nuove è certamente un elemento importante per la nostra specie", dice Delle Fave.

Forse molta dell'odierna infelicità dipende anche dal fatto che le sfide quotidiane che attiravano l'uomo del paleolitico - combattere, procurarsi il cibo, conquistare una compagna - non hanno più senso nel mondo in cui viviamo oggi. Ossia, detto in altri termini, che siamo programmati per desiderare cose che non ci interessano più veramente, come ricchezza e potere. Ma soprattutto che siamo preda di un subdolo meccanismo biologico che ci rende incontentabili: "I nostri cervelli", ricorda infine Nettle, "non sono stati programmati per mantenere a lungo uno stato di felicità". E magari questo non è del tutto negativo.


E se fosse una malattia?
E se la felicità fosse una malattia? Il dubbio è venuto a Richard Bentall, psicologo dell'Università di Liverpool, che nel 1992 ha proposto di ribattezzarla 'disturbo affettivo maggiore, di tipo piacevole'. E in quanto tale di inserirla nella più recente revisione del DSM IV, il testo ufficiale per la classificazione dei disturbi mentali. Uno scherzo? "Un esame della letteratura in materia mostra che, in termini statistici, la felicità rappresenta un comportamento deviante, che è caratterizzata da un certo numero di sintomi significativi, ed è associata a varie anomalie cognitive, che probabilmente riflettono un funzionamento patologico del sistema nervoso centrale", spiega Bentall in un articolo pubblicato dalla rivista 'Journal of Medical Ethics', e spesso citato in letteratura.

Obiettivo dell'autore (oggi docente di Psicologia clinica all'Università di Manchester) era forse quello di polemizzare con il rigido sistema di categorie proposto dal DSM IV, che tende a etichettare come patologica qualunque emozione umana. Probabilmente a ragione, visto che nel 2000 un gruppo di scienziati ha vinto l'Ignobel Prize, il contro-Nobel assegnato a ricerche bizzarre o inattendibili, sostenendo che l'amore romantico è una forma di disturbo ossessivo-compulsivo. E che oggi sono in molti a individuare un tratto patologico nella frenetica ricerca della felicità che caratterizza i nostri tempi. "La mia teoria ha un punto debole", annota con flemma britannica Bentall: "Nessuno si è mai lamentato di essere troppo felice. Ma questo, dal punto di vista scientifico, è del tutto irrilevante".

Quante cose ci sono nel cervello
DOVE NASCE
Amigdala
È con l'ippocampo (foto sotto) l'area cerebrale coinvolta nelle risposte emozionali. Una sorta di sistema di smistamento che etichetta le percezioni che arrivano dall'esterno con la risposta emozionale più appropriata.

Emisfero sinistro
Diversi studi mostrano che una maggiore attivazione dell'emisfero cerebrale sinistro, e in particolare del lobo prefrontale, corrispondono a una risposta positiva a una reazione emozionale. Le ricerche di Richard Davidson dell'Università del Wisconsin mostrano che i bambini socievoli ed estroversi hanno una maggiore attività dell'emisfero sinistro rispetto ai loro coetanei, e che la meditazione aumenta straordinariamente l'attività di quest'area cerebrale.

COME NASCE

Serotonina
Neurotrasmettitore che contribuisce tra l'altro a stabilizzare l'umore e regolare il sonno. Bassi livelli di serotonina (nella foto sotto, la struttura molecolare) sono associati a disturbi quali depressione, ansia, stress post-traumatico. Sul sistema serotoninergico agiscono farmaci come gli antidepressivi Ssri o la d-fenfluramina, ma anche droghe come l'Lsd oppure l'extasy.

Dopamina
È un neurotrasmettitore rilasciato da specifiche aree cerebrali come il nucleo accumbens e il corpo striato. La dopamina entra in gioco quando proviamo o anticipiamo un'esperienza piacevole, producendo la gratificazione che ci spinge a mettere in atto o a ripetere determinati comportamenti come mangiare, fare sesso o assumere droghe.

Ossitocina
È stato definito l'ormone dell'amore, perché entra in azione durante il parto e l'attività sessuale contribuendo a stabilire il legame tra la madre e il bambino, ma anche la relazione affettiva tra due partner. Studi recenti mostrano che le persone che si dicono innamorate hanno alti livelli di ossitocina (nella microfotografia qui sopra) nel sangue, e che questa, somministrata per via nasale, favorisce un rapporto di fiducia tra gli esseri umani.

Endorfine
Sono oppioidi endogeni, ossia sostanze simili all'oppio prodotte dall'organismo, generano un senso di piacere e riducono la sensibilità al dolore. Sembrano essere responsabili del senso di benessere provato da chi pratica intensa attività fisica, anche se Berns attribuisce questo fenomeno alla dopamina. La produzione di endorfine può essere stimolata dalla luce solare, dalla meditazione oppure ridendo.

I geni
David Lykken and Auke Tellegen, due psicologi dell'Università del Minnesota, hanno mostrato che gemelli identici hanno esattamente lo stesso atteggiamento nei confronti della felicità, anche se sono cresciuti separatamente. E studi recenti mostrano che gli individui che hanno una versione più corta - e quindi meno efficiente - del gene 5HTT che regola il trasporto della serotonina, hanno un tasso di nevrosi e d'infelicità superiore alla norma.








L’Espresso, 17.01.06
UN NUOVO LIBRO SU ANSIA E DEPRESSIONE
Felicità senza colpa
La severità con se stessi e la paura di essere giudicati sono le vere cause del mal di vivere. Lucio Della Seta, grande analista junghiano, spiega come uscirne
di Luca Carra


Il cane accucciato sul divano. Libri, soprattutto romanzi, per terra e sui mobili. La stanza inondata di luce che affaccia sull'orto botanico di Roma, nel cuore di Trastevere. Lucio Della Seta riceve qui le sue anime tormentate. Capelli bianchi, l'eterna sigaretta, uno sguardo vigile e tollerante avvolge e acquieta, almeno per il tempo della seduta, timori e tremori del popolo di nevrotici, ansiosi e depressi che gli fanno visita. Della Seta, analista junghiano che non disdegna gli insegnamenti del "nostro grande padre Freud" e delle tecniche comportamentali, in realtà non ama le etichette, né per sé né per i suoi pazienti. "La prima cosa che dico a chi è perseguitato dal male di vivere è di non credersi malato. Il numero di persone afflitto da problemi psicologici è infinitamente più alto di coloro che hanno il coraggio di ammetterlo. Chi soffre di ansie e attacchi panico, per esempio, nei momenti di crisi si sente morire, crede di diventare pazzo. Ma una cosa è certa: non morirà e non perderà la ragione". La ricetta è quindi di rassicurarlo, magari con l'aiuto di un farmaco, per poi affrontare l'altalena di ansia e depressione smontando il meccanismo perverso che la genera e che va sotto il nome di senso di colpa. Ecco la chiave di tutto. Tanto che Della Seta ha voluto scrivere un libro su questi fenomeni, titolandolo 'Debellare il senso di colpa' (Marsilio 2005).

Il senso di colpa segue di solito un torto inflitto ad altri. Sentirsi colpevoli non è forse un correttivo importante delle nostre azioni?

"Il senso di colpa di cui parlo nel mio libro non consegue a un'azione: è piuttosto un sentimento indeterminato e potentissimo di inadeguatezza personale, che ci perseguita anche senza aver compiuto alcunché di sbagliato, e che ci fa vivere un'intensa paura immotivata. Questa è la vera radice delle ansie e del panico: provare paura di morire anche di fronte a situazioni che non rappresentano un reale pericolo per noi. Molti di noi, chi più chi meno, si sentono costantemente giudicati dai propri simili e ne cercano il consenso. Nei soggetti più predisposti, questa preoccupazione scatena attacchi irresistibili di paura, e da qui l'ansia. La vulgata vuole che sia l'ansia a scatenare i tipici sintomi del panico: tachicardia, affanno respiratorio, vertigini, sudorazione. E invece è vero proprio il contrario: questa paura ancestrale del giudizio altrui innesca in pochi millesimi di secondo questa tempesta neurovegetativa, che a sua volta si traduce in ansia".

Ma la paura è un istinto basilare della specie umana, perché aumentando la frequenza cardiaca e la quantità di ossigeno inspirata, e quindi di energia a disposizione, prepara alle due reazioni fondamentali di fronte al pericolo: la fuga o la lotta.

"Esatto. Peccato però che nell'ansioso questo succeda non perché gli si para improvvisamente davanti una tigre affamata, ma perché si trova alle prese con una situazione di confronto sociale, o una scadenza importante che sa di non riuscire a rispettare. Questi, a ben pensarci, non sono veri pericoli. Non si rischia la vita presentandosi a un esame impreparati, ma solo una brutta figura. Il primo passo, molto difficile, è quello di capire la differenza fra pericoli reali e immaginari".

Da dove proviene questo senso di colpa immotivato e senza oggetto reale che ci condiziona tanto?

"Dall'infanzia. Nei primi anni di vita, e fino alla conquista dell'autonomia durante l'adolescenza, il piccolo d'uomo è un essere indifeso che va costantemente controllato e ripreso per evitare che metta a repentaglio la sua vita. Compito dei genitori è di esercitare l'autorità attraverso continui atti di repressione. In parte questo meccanismo è inevitabile. Ma se l'intervento dei genitori eccede in colpevolizzazione, ed è accompagnato a freddezza, aggressività, ritiro d'affetto, il bambino vive questi episodi come catastrofi che non riesce a spiegarsi se non pensando di essere 'sbagliato'. Solo dopo i cinque anni il bambino comincia a ragionare secondo le categorie di causa ed effetto; prima non capisce il senso delle sgridate e, se queste sono fuori misura, ne soffre terribilmente. Al punto che con gli anni il senso di inadeguatezza e di colpa diventa una componente profonda del suo essere che genera le nevrosi e l'ansia".

Quali sono le spie di una personalità ansiosa e afflitta da questa colpa primigenia?

"La più tipica è l'incapacità di fronteggiare gli altri e di dire dei bei 'no'. C'è una tendenza a voler compiacere a tutti i costi gli altri, che fa soffrire in modo sproporzionato. Ma si possono citare anche altri comportamenti tipici: il richiedere attenzioni eccessive dal prossimo, l'essere irragionevolmente aggressivi, gelosi, indecisi, superstiziosi, ipocondriaci".

Basta la psicoterapia per uscirne?

"No, non basta. L'analisi è importante per capire meglio se stessi. Ma alla consapevolezza intellettuale deve associarsi un lavoro emotivo che smuova le resistenze. È importante ascoltare i propri dialoghi interiori non censurando i pensieri che sembrano più strani e inconfessabili, perché ci raccontano molte verità. Anche i sogni sono dei meravigliosi forzieri di emozioni profonde che vanno colte e comprese. Poi, per chi ha forti difficoltà sociali dovute all'ansia, bisogna lavorare con veri e propri esercizi che portino gradualmente a un decondizionamento dalle paure che ci opprimono".

Per esempio?

"Poniamo che lei tema molto il giudizio degli altri, non si voglia far nemici, sia incapace a dire 'no'. Bene, le dò qualche compito: prima di tutto entri in un bar e chieda dove si trova la toilette senza consumare. Uscito dalla toilette, esca dal bar senza ringraziare".

Ma è da villani!

"Pazienza, il barista sopravviverà all'insulto e a lei non accadrà assolutamente nulla. Certo, per un forte ansioso anche una cosa del genere sembra terribile, un pericolo mortale...".

Poi, che cos'altro dovrei fare?

"Entri in un negozio di vestiti, se ne provi vari e non compri nulla. Alle insistenze del venditore non si giustifichi. Risponda solo 'no, grazie' ed esca".

Mi sentirei molto a disagio...

"Vede? È una gran fatica fronteggiare questi pericoli inesistenti, ma le assicuro che dopo aver eseguito una serie di esercizi di difficoltà comincerà a sentirsi meglio, molto meglio. Glielo assicuro".

Non bastano le analisi e le parole, insomma. Bisogna anche mettersi in gioco.

"Sì. E col tempo ciò che terrorizzava apparirà come un brutto ricordo del passato, che ci ha fatto soffrire per niente. Io dico sempre che c'è un modo radicale per guarire dal senso di colpa e riagguantare la relativa felicità che ci è concessa in questo mondo...".

Qual è?

"Sbarazzarsi della credenza che esista il libero arbitro. Più di altri filosofi, Spinoza l'aveva capito bene, quando scriveva, nella sua 'Etica': "Gli uomini si credono liberi soltanto perché sono consapevoli delle loro azioni e inconsapevoli delle cause che le determinano". La filosofia ci insegna che il nostro agire è determinato dalla vita che abbiamo vissuto, che come una corrente ci trascina lungo il suo corso. Se si capisce questa intuizione, la colpa metafisica si dissolve".

Ma il rischio è che, insieme alla colpa, si dissolva anche la giusta punizione e il senso di responsabilità, che il libero arbitrio in qualche modo giustifica.

"Non è vero. Senza colpa, e senza l'idea sbagliata di poter scegliere, la vita sarebbe più felice e i nostri istinti positivi non verrebbero eclissati dalle nevrosi, che proprio della colpa si alimentano".

Dobbiamo dire 'sì' alla vita, allora, come intimava Nietzsche all'uomo in procinto di trasformarsi in superuomo?

"Un pensiero del genere l'ha avuto anche Jung, all'indomani di una grande depressione: 'Un'altra cosa mi è venuta dalla malattia. Potrei formularla come un'accettazione positiva delle cose così come sono; un sì incondizionato a ciò che è, senza proteste soggettive, un'accettazione delle condizioni dell'esistenza come io la vedo e la capisco, accettazione della mia stessa natura come mi accade di essere. In questo modo forgiamo l'Io che non si spezza quando accadono cose incomprensibili. Un Io che resiste e accetta la vita'. Così scriveva".

Torniamo al nostro quotidiano purgatorio. Qualche consiglio ai genitori per non allevare bimbi colpevoli e stressati?

"Ricordiamo l'accorata lettera che Franz Kafka ha scritto a suo padre: 'Mi è sempre stata incomprensibile la tua assoluta insensibilità al dolore e alla vergogna che suscitavi in me con le tue parole e i tuoi giudizi, era come se non ti rendessi conto del tuo potere'. Rendetevi conto del potere divino e imperscrutabile che avete sui vostri bambini, ai quali un urlo e uno schiaffo bastano per gettarli nella disperazione. Esercitate il vostro potere con tolleranza e dolcezza. Con umanità, insomma".



Cinque passi verso il panico
Ecco i sintomi fisiologici che caratterizzano l'attacco d'ansia.

1. L'attacco di ansia può accadere in qualsiasi momento e ovunque (sul lavoro, mentre ci si sta addormentando, per strada, da soli o in compagnia).

2. Si comincia a sentire un malessere generalizzato, che può interessare lo stomaco o la testa (la si sente leggera), o dare una sensazione di vertigini e di derealizzazione.

3. In poche frazioni di secondo si scatena una tempesta neurovegetativa che può dare, come sintomi, una frequenza cardiaca accelerata, fame d'aria, sudorazione abbondante.

4. I sintomi dell'attacco d'ansia o panico (nella foto sopra: il cervello durante una di queste crisi) in molti casi possono dare l'impressione dell'imminenza della morte, e questa sensazione non fa che peggiorare i sintomi.

5. L'attacco si cura a breve termine con ansiolitici e antidepressivi, prescritti dal medico. Ma può essere utile associare il trattamento farmacologico con una psicoterapia.










L’Espresso, 17.01.06
Gattopardo innamorato
Passione. Giallo. E un film nel film. Marco Bellocchio racconta 'Il regista di matrimoni'. Che unisce Fellini, Visconti e videocamere
di Alessandra Mammì


Come raccontare il nuovo film di Marco Bellocchio? Si comincia dalla storia d'amore di un regista fallito per una principessa triste? Dalle tante citazioni di film che punteggiano il suo film? Dalla frammentazione della visione fatta di un montaggio a volte dilatato e all'improvviso serrato, tra immagini digitali e la più classica delle inquadrature? Dai paesaggi siciliani scolpiti con lo sguardo austero di un uomo nordico o dalle frasi che squarciano i dialoghi come sentenze improvvise tipo: "L'artista è una specie di idiota che vede ciò che gli altri non vedono. Ha senza alcun merito questo dono". E il genere, qual è? È un melodramma d'amore e mistero, commentato da sapiente scelta di vecchie canzoni e brani lirici? O prevale la suspense del giallo con l'inquietante principe gattopardesco che prepara lo scenario di un delitto? O ancora, cosa è più forte: la favola della principessa chiusa nel monastero, il dramma esistenziale della mezza età, il film politico sul potere?

Quello che di certo c'è nel 'Regista di matrimoni' scritto, diretto e prodotto da Marco Bellocchio con la sua Filmalbatros insieme a Rai Cinema, è la volontà di spezzare ogni schema, compresi quelli più consolidati del cinema di Bellocchio. Perché qui si narra di un uomo (Sergio Castellitto) che entra in crisi quando la figlia decide di sposare un fervente cattolico. Si narra della sua fuga in Sicilia e dell'incontro con un altro regista (Gianni Cavina) che si è finto morto pur di vincere il David ("Perché in Italia sono i morti che comandano"). E si dipinge letteralmente fra gli stucchi e i marmi delle ville, l'ambiguo rapporto fra il nostro e il principe Ferdinando Gravina di Palagonia (Sami Frey, ma il rimando al Burt Lancaster viscontiano è inevitabile) e la passione d'amore per la sua bellissima figlia Bona (Donatella Finocchiaro). E così dopo 'Buongiorno Notte' - il patricidio, la colpa, il passato e la compattezza di una pagina di storia - ecco un film sul presente, sull'attuale frammentazione, sulla visione multipla del mondo e sullo sguardo futuro: quello di Bellocchio e quello del nostro cinema.

Un regista che non riesce a fare il suo film, il cinema nel cinema e persino un carosello sulla spiaggia con sposa, sposo e suocere con cappello. 'Il regista di matrimoni' è il suo '8 e 1/2'?

"Prendo subito le distanze. Sia come autore che come spettatore. Questo non è né un film di affettuosa morbosità verso il cinema. Né appartiene a quella serie di capolavori come '8 1/2' e 'Effetto notte' di Truffaut, dove il cinema e la macchina del cinema erano al centro di tutto il film. Non ha soprattutto quel gusto di nostalgia da cinefilo alla Philippe Garrel, che è un ottimo regista ma non mi somiglia. Volevo esprimere un amore per la ricerca, un entusiasmo che apra nuove strade".

Eppure la storia inizia in una casa di produzione in panne, i provini degli attori, la difficoltà dell'autore di fare un film sui 'Promessi Sposi'...

"Appunto qui si inizia dove '8 e 1/2' finisce. La vicenda parte dal regista che abbandona il progetto e si lancia in un'avventura sentimentale con una donna fuori dal comune. È una storia d'amore".

Amore verso il cinema, però: lei cita Fellini, il 'Gattopardo' di Visconti e usa frammenti dei 'Promessi Sposi' di Camerini. Non è un omaggio ai grandi maestri del cinema italiano?

"Assolutamente no. Io non cito Camerini cito i suoi 'Promessi Sposi', un film devastante per me che lo vidi da bambino".

Perché devastante?

"Perché è un film sulla paura: la peste, la morte, l'inferno. Ero bambino alla fine degli anni Quaranta, anni in cui l'educazione cattolica era fondata sul terrore: della minaccia comunista e della morte. Non ricordo momenti di esaltazione del credente, ma solo una richiesta di martirio. Il messaggio che arrivava a noi bambini era questo: il comunismo avrebbe scristianizzato il mondo e l'unica salvezza sarebbe stata trasformarsi in martiri. Il film di Camerini allora coincideva perfettamente con questo terribile scenario".

Almeno Camerini il film l'ha fatto mentre il suo protagonista abbandona.

"Abbandona per mancanza di passione, per una crisi personale, per un fondo di indifferenza che si insinua in ogni rapporto con gli altri esseri umani. Finché una donna che chiede di essere salvata lo travolge in una passione inaspettata. La conquista finale di questa donna, la sua prima vera conquista con cui finisce il film, è un messaggio di sincero incoraggiamento".

L'indifferenza iniziale la riguarda?

"Tutti i miei film mi riguardano. Vengono sempre dopo ciò che è stato vissuto. È il primato della vita con le sue passioni e i suoi fallimenti. Certamente il film svela quello che sono, anche perché al centro c'è il rapporto uomo-donna che è ineliminabile nella mia vita".

Ma c'è anche il rapporto con il cinema. Nel film sembra questa la vera crisi d'amore. Lei frammenta la più classica delle visioni con le immagini digitali o il bianco e nero delle videocamere dei sistemi di sorveglianza...

"Come la vita del protagonista, anche il modo di fare cinema deve essere reinventato, per trovare nuove passioni. Siamo in un periodo di crisi dove sempre di più s'impone la domanda sul 'come fare le immagini'. Anche chi, come me, si è formato con apparati tecnici molto pesanti, capisce che deve imparare a lavorare con mezzi più agili per arrivare a miniaturizzare lo sguardo. L'innovazione tecnologica ha cambiato l'approccio alla realtà, ci ha regalato uno sguardo fulmineo. Non possiamo non tenerne conto".

E allora perché lei fa dire al principe che "l'importante non è il supporto, ma il film"?

"Certo che non è il supporto: altrimenti dovremmo pensare che con tutte le videocamere e telefonini, l'Italia abbia 20 milioni di registi. Fare cinema è qualcosa che riguarda un processo mentale e visivo, è un problema di originalità, di idee, di linguaggio e costruzione delle immagini che sono sempre al primissimo posto. La tecnologia da sola non dà cinema, al massimo pura fotografia dell'esistente".

Comunque questo suo film visivamente è molto diverso dai precedenti.

"Ha una complessità maggiore, la ricerca delle immagini è multipla, come se gareggiassero in varie situazioni le immagini video e quelle della macchina da presa. In qualche modo riprende la tecnica del film giallo. Ma a differenza dei gialli, dove le immagini video sono necessarie alla coerenza del plot, qui sono state scelte semplicemente quando erano più belle delle immagini in pellicola. Valgono come le altre, non sono funzionali alla rivelazione di qualcosa che è nascosto nella trama. Ho puntato su una essenzialità e su una forza che si è rivelata didascalica, al punto che in sede di montaggio sono cadute molte parole, sostituite dalle immagini".

E dalla musica. Un vero melò, con la presenza continua di canzoni anni Trenta, cori di chiesa, brani della 'Cavalleria Rusticana', diverse versioni di 'Solo me ne vo per la città' e persino il tema di Satie per 'Entr'acte'...

"Il melodramma è la mia musica di formazione e la 'Cavalleria Rusticana' assomiglia al mio sguardo nordico sulla Sicilia: in fin dei conti è stata scritta da un livornese. E la musica, compresi i temi originali di Riccardo Giagni e Carlo Crivelli, è essenziale contrappunto di un film che lavora tanto sull'immagine".

Ma lavora anche sulle parole, su sentenze come: "In Italia sono i morti che comandano", ripetuta per due volte nel film. È così?

"Rispondo da cittadino prima ancora che da artista. Sì, è così. Nella vita sociale e politica non c'è niente di nuovo e non avendo più idee, il vuoto trova ospitalità naturale nei principi della carità, dell'assistenza e del soccorso. Tutta la classe dirigente non ha il coraggio di esprimere autonomia verso il potere clericale. Le conversioni si moltiplicano, è stato sepolto persino il 'Libera Chiesa in libero Stato' di Cavour e finanche un Bertinotti non ha il coraggio di dichiararsi ateo. Il ritorno al potere clericale è il ritorno dei morti che comandano".

Anche nel cinema comandano i morti?

"Comandano in tutta la cultura quando non si ha il coraggio di investire sulla ricerca di un nuovo pensiero, quando si è ancorati al vecchio e ancor peggio al restauro del vecchio. Quando nel cinema dettano legge film vecchi come 'Natale a Miami'. Non vedo annunci di primavera nel cinema italiano. Di fronte a noi solo un lungo inverno".









L’Espresso, 17.01.06
Paola Maruschka e le altre
di Daniela Giammusso


Paola Pitagora
Inizia con la protagonista di 'I pugni in tasca' (1965) (foto sotto) la galleria di donne forti, sensuali, spesso 'contro', che animano i film di Bellocchio. Giovane e ancora sconosciuta, Paola Pitagora è la prima musa di Bellocchio, che debutta raccontando la dissoluzione della famiglia borghese. Lei è Giulia, cinica ventenne, che prima aiuta il fratello a sterminare la famiglia e poi lo lascia morire in un attacco di epilessia.

Miou Miou
Le sue attrici Bellocchio ama scoprirle anche all'estero, regalando al loro talento e alla loro bellezza la consacrazione definitiva in Italia. Così per 'Marcia trionfale' (1976) sceglie la parigina Miou Miou, aspetto esile e animo anticonformista, perfetta moglie infedele di un capitano dell'esercito, che seduce il soldato che deve pedinarla. Francese è pure Anouk Aimée, prediletta da Lelouche, che diventa la nevrotica Marta di 'Salto nel vuoto'. Dalla Spagna e da Buñuel arriva invece Angela Molina, la Wanda de 'Gli occhi, la bocca'.

Maruschka Detmers
Olandese di nascita, francese d'adozione, la Detmers, già 'Carmen' per Godard, nel 'Diavolo in corpo' (1986), abbandona ogni velo e tabù (foto a sinistra). Incarnando la passione tra la figlia di una vittima delle Br, fidanzata con un terrorista sotto processo, e uno studente, figlio del suo psicanalista.

Beatrice Dalle
Lineamenti irregolari, personalità ribelle, la Dalle in 'La visione del sabba' (1988) è la giovane omicida Maddalena (foto in alto). Convinta di essere una strega che attende di essere liberata con una violenza sessuale, coinvolge nel suo incubo anche lo psichiatra che deve analizzarla.

Valeria Bruni Tedeschi
Algida, misurata, emblema delle donne in conflitto con se stesse, dopo aver lavorato con Avati, Piccioni e Calopresti, Valeria non è più 'la sorella di Carla'. Anche grazie a Bellocchio, che in 'La balia' (2001, foto a sinistra) la trasforma nella madre anaffettiva della novella di Pirandello.

Maya Sansa
Sguardo intenso e origini iraniane, è l'ultima scoperta (foto sotto) del regista. Che la sceglie, debuttante, per 'La balia' e poi, tra un film di Giordana e uno di Mazzacurati, la consacra in 'Buongiorno notte' (2003) nella parte della terrorista del sequestro Moro.















Ansa, 17.01.06
Diete sbagliate, disturbi mentali
Da ricerca della Mental Health Foundation in Gran Bretagna


Le diete dimagranti, e non bilanciate, sono tra le principali cause dell'aumento dei disturbi mentali negli ultimi anni in occidente.Lo afferma una ricerca condotta dalla Mental Health Foundation and Sustain,secondo la quale anche l'industrializzazione della catena alimentare,il ricorso a coltivazioni intensive e gli additivi chimici utilizzati,hanno contribuito alla crescita negli ultimi 50 anni di patologie come depressione, Alzheimer e sindrome da deficit di attenzione e iperattivita'.








Corriere della Sera, 17.01.06
La donna è agli arresti domiciliari, l'uomo in prigione
Neonata venduta a Vibo Valentia
La madre è una bulgara: avrebbe consegnata la piccola a un 65enne in cambio del permesso di soggiorno e di una casa


Una neonata di tre mesi è stata ceduta dalla madre a un uomo di 65 anni a Vibo Valentia. La donna, di nazionalità bulgara, avrebbe deciso di consegnare la figlia a un uono di 65 anni in cambio di favori per ottenere il permesso di soggiorno e una abitazione a prezzo conveniente. La madre è agli arresti domiciliari mentre la piccola è stata affidata ai servizi sociali. L'uomo è stato arrestato: gli investigatori ipotizzano che avrebbe preso con sé la bambina per poterla cedere in cambio di denaro.








La Stampa, 17.01.06
Il velo come scelta di libertà
di Francesca Paci


Non prendono lezioni da nessuno. In questo, le femministe musulmane sono uguali a tutte le altre. Si battono da sole per l’autodeterminazione, senza l’ausilio di volenterose madri spirituali. Neppure di quelle occidentali che le hanno precedute sulla strada dell’emancipazione. Bisognava vederle alla fine di ottobre a Barcellona al loro primo congresso internazionale: giuriste, politologhe, medici, donne manager, predicatrici come Lily Zakiyah, che promuove l’inserimento della lettura «democratica e di genere» del Corano nelle quattordicimila madrase indonesiane. Quasi tutte rigorosamente velate.

L’hijab è il paradigma della diversità di genere tra le femministe islamiche della diaspora. Simbolo di sottomissione per chi trent’anni fa bruciava i reggiseni nelle piazze di Roma e Parigi inneggiando alla libertà del corpo, il fazzoletto sul capo rappresenta per molte giovani immigrate musulmane l’icona della propria identità.

Una scelta autonoma, nel loro caso: giovani donne che, a differenza delle madri, non vedono contraddizione tra affrancarsi da un sistema patriarcale e rispettare l’Islam. L’hanno imparato nelle università europee e americane, educate al pensiero critico.

Intellettuali e religiose come Irshad Manji, giornalista, lesbica, musulmana praticante fuggita a Vancouver dall’Uganda nel 1972, che ripete candidamente in qualsiasi intervista di dovere la sua fede all’esilio: se fosse vissuta in un paese islamico sarebbe probabilmente diventata atea per reazione. In Canada, patria tollerante del multiculturalismo, ha studiato invece a fondo le sura del Profeta Muhammad in una scuola coranica ed è arrivata alla conclusione che l’omosessualità non è affatto inconciliabile con il credo, a dispetto di mullah e imam maschi e omofobi. In numerosissimi altri casi, è ovvio, l’hijab e la dottrina islamica vengono ancora utilizzati da padri, fratelli, mariti, come strumenti di controllo sulle donne. Questa oppressione ha convinto le militanti dell’organizzazione francese «Ni pute ni soumise» (né puttane né sottomesse), a schierarsi con il presidente gollista Chirac quando ha fatto vietare i simboli religiosi nei luoghi pubblici, a cominciare dal velo a scuola. Restano osservanti del digiuno di Ramadan e dei riti di preghiera ma preferiscono la separazione tra Stato e religione. Velate o con il capo scoperto, restano tutte donne che vogliono decidere da sé, rivendicando il diritto a essere «individui» oltre che «genere». A mezza voce propongono alle colleghe occidentali di fare un passo avanti, chiedendo la chance di essere ascoltate, non solamente istruite.











Liberazione, 17.01.06
Il prodismo antipolitico malattia senile del girotondismo
di Rina Gagliardi


Nella sua ormai trentennale storia, la "Repubblica" ha privilegiato un obiettivo su tutti gli altri: la “modernizzazione” del sistema politico italiano. Via via, mutavano i protagonisti delle campagne sostenute (De Mita contro Craxi, Lama contro Berlinguer, Occhetto e Segni contro il proporzionale, e vari altri), ma l’idea restava sostanzialmente la stessa: finirla con la storica anomalia di questo paese, che era data dall’esistenza dei partiti di massa e in particolare del Partito comunista italiano; superare, in via più o meno definitiva, la natura fortemente ideologica della nostra cultura politica nazionale; marciare verso un bipolarismo di tipo europeo, anzi anglosassone. A tutt’oggi, questo resta il “programma fondamentale” del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari: il quale, in coerenza, da anni è schierato con nettezza sia contro Berlusconi e la destra, sia a favore delle componenti più moderate della sinistra e del centrosinistra. In questo schieramento - ecco la novità relativa - oggi la "Repubblica" tende a cavalcare il “prodismo puro”: non il semplice (e scontato) sostegno al leader dell’Unione, ma un appoggio pressoché incondizionato alla sua leadership nella sua variante, chiamiamola così, più estremisticamente antipartitica e antipolitica. Talora, è stato il professor Parisi a delineare l’essenza autentica del progetto, ovvero una “radicale” uscita dal Novecento e dalle sue ideologie, una nettissima soluzione di continuità con tutte le tradizioni della sinistra. Tal’altra, è stato Carlo De Benedetti a imprimere una cifra più precisa, di classe, alla più generale proposta del Partito Democratico: come quando ne ha chiesto la “tessera numero uno” e ne ha nominato, sul campo, i leader autentici, Walter Veltroni e Francesco Rutelli. Con ciò rendendo palese l’atteggiamento suo proprio, e di una parte della borghesia “illuminata”, nei confronti di Romano Prodi: quella del Professore altro non è che una fase tanto “necessaria” quanto contingente e transeunte.
Intanto, però, è ancora Prodi il leader sul campo: tanto da riprovare a rimettere in discussione la scelta di Margherita e Ds di presentarsi separati al Senato, tanto da far balenare la possibilità, per il 9 aprile, di dar vita a una sua propria lista. Nell’Ulivo tende dunque a riaprirsi la dialettica tra il leader designato e le forze maggiori della sua coalizione - e, in un quadro nient’affatto risolto, la "Repubblica" tende a diventare proprio l’organo del “prodismo”. L’articolo domenicale di Ilvo Diamanti aveva quasi anticipato l’iniziativa del Professore. Mosso dalla preoccupazione che l’ancor rovente scontro sull’Unipol finisca con restituire troppa forza ai Democratici di sinistra, il politologo si era lanciato in una accorata “denuncia” dei partiti e del loro ruolo ingombrante. Chiedeva a Prodi di superare le sue prudenze e chiedeva alla Quercia di sciogliersi - né più né meno - consegnando agli archivi ogni traccia, anche la più residua, della sua storia. Sono le posizioni espresse con quasi quotidiano vigore da altri commentatori di "Repubblica" (Maltese, Berselli ed altri). Del resto, non era stato proprio Eugenio Scalfari uno dei protagonisti del referendum del ’93, tanto da definirlo in Tv come “una bomba ad orologeria messa sotto i partiti”? E non è vero che ormai i principali organi di stampa (anche il "Corriere della sera") tifano forsennatamente per il Partito Democratico, quasi completamente a prescindere dai suoi contenuti, dalla sua possibile fisionomia, dai suoi programmi?
Cerchiamo di capire di che cosa davvero si tratta. Così come viene sollecitato, auspicato, preconizzato, il Partito Democratico sarebbe un soggetto politico nuovo di zecca: la vera chiave di volta per superare tutte le arretratezze italiane. Modellato sul suo omologo statunitense, sganciato da ogni legame organico con gli interessi dei lavoratori e con il conflitto sociale, privo di ogni fisionomia forte, esso avrebbe il compito di costituire attorno a sé un’aggregazione elettorale - capace di coinvolgere la “medietà” dell’opinione di sinistra, gli intellettuali, un po’ di “liberal”, un po’ di borghesi progressisti, un pizzico di ambientalismo, e anche un po’ di movimentismo, purché autocensurato nelle sue sfere d’intervento e nella sua pratica sempre e comunque “compatibile”con l’esistente. Sarebbe, insomma, uno dei due poli nei quali suddividere una politica finalmente normalizzata: del tutto simili l’uno all’altro sulle grandi discriminanti (la politica internazionale e quella economica), la scelta sarebbe ridotta agli “umori” - tra un fronte vagamente progressista e un fronte, più o meno, reazionario. A tutto il resto sarebbe riservato, come massimo, un diritto di tribuna, all’interno di un destino di marginalità.
Ma come mai un’idea come questa affascina, quasi con la stessa intensità, intellettuali (quasi) “radicali” e imprenditori? “Girotondini” antiberlusconiani e borghesi perbene? Estremisti prodiani ed estremisti “riformisti”?
Risposta numero uno. In realtà, nell’immaginario ideologico postcomunista e nelle campagne della "Repubblica", il Pd, il Partito Democratico è da intendersi proprio come una scorciatoia: non è un partito, ma la fine dei partiti. Non è una nuova forza politica, ma l’approdo “necessario” dello scioglimento delle forze attuali. Non è un nuovo inizio, ma la conclusione desiderabile della crisi delle grandi narrazioni novecentesche. Si scrive Pd, ma si deve leggere - almeno per una parte sostanziale - come fine della politica classica, quella fondata sulle grandi categorie della politica europea (comunismo, socialismo, socialdemocrazia, e perfino liberalismo). Si capisce bene, perciò, perché piace a una parte, la meno volgare, del capitalismo italiano. Contemporaneamente, esso - il Pd - non può che piacere a un’intellettualità che è, al tempo stesso in crisi e critica, “libera” e separata, priva cioè di rapporti diretti con la realtà sociale, ma bisognosa di ritrovare una funzione e di esercitare un’influenza. Gli uni e gli altri, alla fine, rispondono alla crisi dei partiti (che c’è) e al degrado della politica (che c’è) con una ricetta dall’apparente semplicità: l’antipolitica.
Risposta numero due. In quanto ideologia antipolitica, il Pd corrisponde ai miti oggi più diffusi dal sistema mediatico: l’efficienza, la competenza, il merito, intesi come valori “in sé”, in qualche modo neutrali e comunque sempre benefici. Se la politica è rappresentata come il regno delle chiacchiere, della retorica inetta, della “fannullonaggine” (come ha detto Berlusconi nel faccia a faccia con Bertinotti), e se in conseguenza i politici di professione sono identificati con burocrazie tanto costose quanto voraci, il Tecnico - ovvero il Non Politico di mestiere - viene esaltato in quanto tale, in quanto detentore in sé e per sé di un potere salvifico. A destra, Berlusconi ha fatto di questa ricetta - l’orgoglio imprenditoriale e aziendale - una chiave del suo successo, e a suo tempo anche del suo consenso popolare. A sinistra, di Romano Prodi si esalta, in quest’ottica, il ruolo di Professore, di Tecnico, di “esperto” (ciò che è anche oggettivamente fondato). Eppure, in quest’ultimissima fase, se c’è un fallimento conclamato, sotto gli occhi di tutti, non è proprio quello dei Grandi Tecnici (Fazio), dei manager ex-furbi, degli imprenditori, dei raccoglitori puri di ricchezza? Ma la retorica della “società civile” - vaga e indifferenziata, interclassista, priva di soggetti e interessi sociali definiti - resta forte. Un’icona quasi irresistibile.
Risposta numero tre. I fans del prodismo e del Partito Democratico, anche quelli che ci credono davvero, sottovalutano radicalmente il rapporto tra qualità della democrazia - anche della democrazia liberale e rappresentativa - e presenza dei partiti. Non sembri un paradosso polemico: ma è perfino curioso annotare quanto poco ai “democratici in fieri” interessi la democrazia, quanto poco (quasi nulla) questo tema compaia nelle loro riflessioni. Come se l’antica formazione azionista - quella sorta di riflesso ipergiacobino e paternalistico che costituisce tanta parte della cultura politica della "Repubblica" e del suo fondatore - si proiettasse “naturalmente” su intellettuali, opinion maker, analisti. Come se l’ossessione dell’uscita dalle grandi narrazioni novecentesche costituisse, a tutt’oggi, la vera priorità
Ma è anche grazie a quelle narrazioni che, per la prima volta nella storia moderna, si è rotto - o incrinato - il dominio delle oligarchie: le classi subalterne si sono date strumenti di partecipazione, riflessione e intervento, hanno scoperto la militanza in prima persona, in una parola, hanno inventato i partiti di massa. La politica di trasformazione rivoluzionaria, ma anche, allo stesso tempo, un nuovo e determinante innervamento della stessa democrazia liberale. La politica, insomma, non più come tecnica riservata ad una élite di specialisti, destinati ad amministrare al meglio gli interessi delle classi dominanti, ma come riconciliazione tra il cittadino astratto e la persona in carne ed ossa - con il suo essere sociale, i suoi bisogni, le sue sofferenze, le sue gioie. E’ vero che questa epopea straordinaria conosce da tempo una crisi profonda - per molte ragioni che qui non possiamo analizzare. E’ vero che il più grande tentativo rivoluzionario del ‘900 è finito in un disastro - non solo in quella che è stata l’Unione sovietica. Ed è vero che, in conseguenza, non solo il movimento comunista, ma la sinistra, in quanto tale, in tutte le sue varianti, non appare più capace di promettere il futuro. Ma la risposta può essere quella, in fondo molto banale, del nodo gordiano? Se i partiti sono in crisi, se deludono, e gravemente, se sono - talora - una vera schifezza, si può pensare davvero che sia un bene eliminarli? Tagliarli come fossero solo escrescenze fastidiose e ingombranti? Sradicarli a forza? E senza pagare prezzi salatissimi dal punto di vista dello stato di salute della democrazia?
Conclusione (provvisoria). Dunque, da Diamanti a Panebianco, la richiesta è univoca - ed è logico che il bersaglio privilegiato della campagna per il Partito Democratico siano i Ds. Per quanto sia stato fatto dai suoi gruppi dirigenti (quasi) tutto quello che è stato chiesto - dalla Bolognina in poi - non sono né soddisfatti né placati: perché i Ds, a dispetto di tutto, sono un partito, vengono dalla sinistra, ne portano tracce profonde e rispondono comunque ad un popolo. I suoi dirigenti (e militanti) vengono, per lo più, dal Pci - un altro peccato, una “diversità”, una storia, che si possono scontare soltanto con una buona eutanasia. Alla fin fine, può darsi che le sirene della "Repubblica" incantino la Quercia: ognuno decide liberamente il proprio destino. Ma c’è un classico motto della politica classica che potrebbe tornare utile anche in questa circostanza: “primum vivere”…












Corriere della Sera, 16.01.06
La scoperta pubblicata sulla rivista Nature Neuroscience
Le cellule immunitarie stimolano i neuroni
Un gruppo di ricercatori israeliani ha dimostrato che i linfociti T garantiscono il processo di rinnovamento dei circuiti nervosi


Il nostro sistema immunitario riveste un ruolo molto importante nel mantenere la funzionalità del cervello: alcuni ricercatori del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele, hanno dimostrato che cellule immunitarie specifiche, che hanno cioè una funzione di difesa, sono cruciali per mantenerlo giovane poiché stimolano la rigenerazione dei neuroni. Secondo un articolo pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, queste cellule, speciali linfociti T, garantiscono il processo di rinnovamento dei circuiti nervosi e di ricambio cellulare con formazione di nuovi neuroni (neurogenesi) in certe aree del cervello. La scoperta, che sovverte quanto ritenuto finora e cioè che il cervello sia una sorta di santuario protetto in cui il sistema immunitario ha un ruolo marginale per evitare che faccia danni, è avvenuta grazie a studi su topi diretti da Michal Schwartz ed è ritenuta molto importante in quanto apre nuove prospettive contro la perdita delle funzioni cognitive e la neurodegenerazione tipica della terza età.
CELLULE IMMUNITARIE - È noto che con l'invecchiamento diminuisce la funzionalità del sistema immunitario, ha osservato Schwartz, e questo potrebbe far venir meno il ruolo rigenerante delle cellule T specifiche sul sistema nervoso e, quindi, portare al suo invecchiamento. Le cellule immunitarie, hanno spiegato i ricercatori, in genere non vanno «d'accordo» con il sistema nervoso, che è protetto dalla barriera ematoencefalica dall'ingresso sia di sostanze tossiche e patogeni sia dalla presenza impropria di troppe cellule immunitarie. Tanto è vero che spesso cellule di difesa nel cervello possono provocare malattie. Si tratta di cellule autoimmuni che attaccano, cioè, componenti specifiche del sistema nervoso, danneggiandolo. Una malattia tipica di questo tipo è la sclerosi multipla, in cui le cellule di difesa attaccano la guaina mielinica che riveste le fibre nervose. Eppure, gli esperti sapevano che talvolta le cellule autoimmuni specifiche del cervello sono presenti senza dare problemi; un arcano difficile da interpretare.
FORMAZIONE DI NUOVI NEURONI - Ebbene, gli scienziati israeliani hanno scoperto che queste cellule autoimmuni hanno in realtà anche un ruolo positivo per il cervello, perché lo stimolano a rigenerarsi, con la formazione di nuovi neuroni. In alcune aree cerebrali, come l'ippocampo, la rigenerazione e il ricambio dei neuroni nonché la formazione di nuove reti neurali con creazione di nuove sinapsi sono condizioni alla base di apprendimento e memoria. I ricercatori hanno dimostrato che queste cellule autoimmuni cervello-specifiche in quantità controllata hanno dunque l'abilità di contrastare la neurodegenerazione tipica di malattie come il morbo di Alzheimer e di Parkinson, il glaucoma, la sclerosi laterale amiotrofica. Inoltre, hanno dimostrato che tali cellule partecipano al processo di neurogenesi: infatti, topolini immunodepressi sono deficitari di questo processo e hanno problemi di apprendimento e memoria, ma iniettando loro cellule T il processo di neurogenesi si ripristina.









Corriere della Sera, 16.01.06
Ma chi viene al mondo nelle stagioni calde è più vivo e ottimista
Bambini nati d'inverno più belli e intelligenti
È il risultato di una ricerca condotta dalla prestigiosa università statunitense di Harvard su un campione di 21.000 soggetti


Quante volte i bambini nati nei mesi invernali hanno invidiato la fortuna dei loro coetanei nati in estate che potevano festeggiare il proprio compleanno tra il sole e il mare. Ma secondo la scienza i veri fortunati sono i primi. Secondo una ricerca condotta dalla prestigiosa università statunitense di Harvard le persone nate in inverno hanno maggiori possibilità di essere sane, belle e di avere una vita piena di successi. Lo studio è stato condotto su un campione di 21.000 bambini ed è stato pubblicato questa settimana sulla rivista scientifica Schizophrenia Research.
BELLI E SANI - Gli psichiatri e gli antropologi di Harvard, coadiuvati da esperti dell'università del Queensland, hanno effettuato diversi test su bambini di diversa età e precisamente su neonati, bambini di otto mesi, di quattro e sette anni. I bambini nati in inverno già alla nascita risultano più alti, più robusti e hanno la circonferenza della testa più grande. Nelle prove di intelligenti superano largamente i coetanei nati in estate. Lo studio afferma che «Il responso globale è che chi nasce in inverno è più forte fisicamente e più sveglio da un punto di vista intellettivo».
DIFFERENZA - Secondo gli esperti queste differenze sono causate dai cambiamenti dietetici adottati dalle mamme incinta di mese in mese e dalla presenza di diverse infezioni stagionali. «Una madre che dà alla luce un bambino in primavera vive l'ultima fase di gravidanza in inverno, periodo in cui mangia poche vitamine - sostiene Gabriele Doblhammer, uno degli scienziati che ha condotto la ricerca -. Quando finisce di allattare il bambino e lo comincia a nutrire con cibo normale, sono arrivate le calde settimane estive nelle quali aumentano i rischi di contrarre infezioni al sistema digestivo».
LONGEVITA' - Già in passato sono stati condotti studi sullo stesso tema. Nel 2002 il famoso istituto demografico tedesco «Max Planck» presentò una ricerca secondo la quale «i nati in autunno sono più longevi e corrono meno rischi di ammalarsi in tarda età». Ma i nati in estate non si devono abbattere. Secondo lo stesso studio che condanna la maggior parte delle loro qualità, essi si rifanno se confrontiamo gli stati d'animo: i nati in inverno risultano pessimisti e si lagnano di più mentre chi è nato nelle stagioni calde è più vivo e ottimista.
Francesco Tortora














Il Manifesto, 15.01.06
L'ingombro degli anni Settannta
IDA DOMINIJANNI


E' una diga: lunga, grande, possente, e per lo più - ironia della sorte, dato lo slogan su cui s'è organizzata - silenziosa. Serve a dire: da qui non si passa. Non passa né Ratzinger né Ruini, non passano i teocon e non passano i moderati, non passa nessun politico, nessun segretario di partito credente in pubblico o in privato, nessuna militante della vita con la faccia dolce e il caschetto perbene come quelle che vanno a parlare dell'embrione in tv. Il corteo di Milano manda forte questo messaggio, che peraltro tutti conoscono, anche quelli che fingono di prescinderne: la 194 non si può toccare, perché l'autodeterminazione sull'aborto è la linea invalicabile della resistenza femminile. E si porta appresso una catena associativa che riguarda la responsabilità sulla maternità, la sessualità, i rapporti con l'altro sesso, la sovranità sul proprio corpo. Se di tutto questo si sente parlare meno, o solo meno rumorosamente di trent'anni fa, non è perché ci sia calata sopra una coltre di colpevole silenzio femminile ma solo perché tutto questo è acquisito, sedimentato e trasmesso. A fare diga sulla 194 e su tutta la catena associativa suddetta c'è comunque la generazione degli anni settanta, le femministe e quelle che dal femminismo sono state variamente investite, nei partiti, nei sindacati, nei consultori, nella vita, e molti uomini, i quali a differenza di trent'anni fa non guardano dagli spalti ma sfilano dentro, muti ovviamente, come se in poco meno di un secolo si fosse ribaltata la situazione che muoveva l'ammonimento di Virginia Woolf a non farci annettere, noi donne, nel corteo degli uomini colti. Sono perlopiù citazioni dagli anni settanta anche gli slogan - pochi - e le scritte, salvo quelli riservati a Ruini e dintorni che negli anni settanta non c'era; e bisogna aspettare l'ultimo tratto del serpentone, più colorato e più sonorizzato, per vedere il salto di generazione, le giovani e i giovani, che citano anche loro parecchio dagli anni settanta, come se l'essenziale fosse stato già detto allora e ci fosse poco da aggiungere o da aggiornare alla parola delle madri che tengono la testa del corteo. Certo il corteo avrebbe avuto un'altra faccia, se l'ultimo tratto fosse stato invece il primo, ma non è così e non può essere per caso.

Sarà perché è sempre lì, agli anni settanta e alla generazione degli anni settanta, che bisogna tornare quando il contesto sembra regredire piuttosto ai cinquanta o a chissà quando e sul piatto c'è la difesa e il rilancio della libertà allora guadagnata. Il decennio maledetto torna a galla in questi casi come il rimosso della transizione italiana, tanto malignamente negletto nel discorso politico quanto benignamente infiltrato nella memoria sociale. E c'è di che essere soddisfatte, se quella memoria torna al presente con la potenza di una diga. Che come tutte le dighe però molto argina, e qualcosa blocca. E come una grande potenza materna, tutto comprende, molto autorizza, e qualcosa lascia in ombra. La parola e la scommessa sul presente di chi è venuta o è venuto dopo, e non può che trovarle a partire da sé.







Il Manifesto, 15.01.06
194, il trucco per aggirarla
Nessuno lo dice, ma l'obiettivo finale dell'offensiva della destra è proprio quello di cancellare la legislazione sull'aborto. Anche Casini smentisce l'intento, ma poi rispunta l'idea del controllo dei consultori
BIANCA LA MONICA


L'attacco strisciante alla legge 194 - che ha trovato linfa nella sconfitta al referendum sulla legge 40/04 - si è fatto negli ultimi mesi assai più pressante e più subdolo: non passa attraverso proposte di modifica della 194 - che tutte le forze politiche ripetono di non voler toccare - ma attraverso altre proposte legislative che non solo renderebbero sempre meno praticabile l'aborto legale, ma rafforzerebbero la tendenza a invasioni autoritarie nel privato e a relegare il corpo della donna a contenitore-riproduttore della specie. In particolare, lo strumento prescelto per svuotare la 194 è la modifica legislativa della disciplina dei consultori familiari. La legge che regola attualmente i consultori (legge 29/7/1975, n.405) trovò origine in diverse proposte di legge presentate dal `72 al `75 dai vari gruppi dei partiti dell'arco costituzionale: alcune erano nate contemporaneamente alle proposte di regolamentazione dell'aborto; altre erano state presentate in precedenza, per fare "pulizia" della legislazione fascista in materia demografica e di propaganda sui sistemi anticoncezionali. Certamente, l'approvazione della legge fu favorita dalla forte spinta venuta dal movimento delle donne per la legalizzazione dell'aborto e più in generale dall'esito del referendum per il divorzio.

La legge 405, nel contesto culturale che viviamo oggi, ci sembra di straordinaria laicità. Basti considerare l'articolo 1: "Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi: a) l'assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile (....); b) la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile (...); c) la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento; d) la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza consigliando i metodi ed i farmaci adatti a ciascun caso..".

Incredibile: si parla di "procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche.. degli utenti" e di "tutela della salute della donna"; e il "prodotto del concepimento" viene proprio così definito!

Questa prospettiva trova poi riscontro nell'articolo 2 della legge 194, che, con riferimento all'assistenza alla donna in stato di gravidanza, pone a carico dei consultori compiti informativi (sui diritti spettanti alla donna in base alla legislazione statale e regionale, sui servizi sociali, sulle modalità per ottenere il rispetto delle norme sul lavoro della gestante..) e di supporto ("..contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione volontaria di gravidanza.."). Va anche sottolineato che l'articolo 2 della legge 194 prevede la possibilità di "..collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato.." con riferimento all'aiuto alla maternità difficile "..dopo la nascita..", escludendo così i volontari dalla delicata fase decisionale.

E' comprensibile, quindi, che questa regolamentazione dei consultori sia stata più volte attaccata: a partire dalla Proposta di Legge di Iniziativa Popolare del Movimento per la vita del 1977 (che proponeva di affiancare ai consultori i Centri di Accoglienza e Difesa della Vita Umana).

Tra le proposte modificative più recenti, va segnalata la numero 5206, presentata il 30/7/2004 d'iniziativa dei deputati Francesca Martini (Lega) + altri che propone una nuova disciplina dei consultori familiari, caratterizzata da un forte impegno nella "tutela sociale della genitorialità e del concepito". La proposta, di soli 7 articoli di legge, inserisce tra i compiti dei consultori indicati all'articolo 1 anche "la tutela della vita umana fin dal suo concepimento". E tali compiti elenca poi all'articolo 3, intitolato "Tutela della maternità e del concepito", prevedendo, tra l'altro, che i consultori

e) sostengono psicologicamente le donne durante la riflessione in materia di prosecuzione della gravidanza e in caso di eventuale possibilità di patologie o malformazioni del nascituro;

f) sulla base di appositi regolamenti o convenzioni si avvalgano, ove presenti, della collaborazione delle associazioni a difesa della vita fin dal suo concepimento.

Questa proposta - già assegnata il 7/10/04 in sede referente alla commissione XII Affari Sociali della Camera - risulta ripresentata alla Camera in data 23 novembre 2005, col numero 6196, e annunciata nella seduta 711 del 24 novembre 2005: identico il testo; identica la relazione di accompagnamento; identici i 13 deputati presentatori (tranne uno).

Proprio il 23 novembre si è tenuta presso la Camera dei Deputati una conferenza stampa nel corso della quale è stato presentato un «progetto cattolico di riforma dei consultori» sottoscritto da quaranta organizzazioni cattoliche (elaborato dal Forum delle Associazioni Familiari in collegamento con il Movimento per la vita): è una proposta attualmente priva di rilievo giuridico (l'iniziativa delle leggi compete ai cittadini solo nel caso in cui la proposta provenga da almeno 50.000 elettori), ma con fortissimo valore politico (e nulla esclude che questo testo, anche solo in parte, sia fatto proprio dal Governo o da membri delle Camere). E' quindi utile prenderla in considerazione.

La proposta cattolica sui consultori familiari consiste in uno sconcertante elaborato di 34 articoli che, anche richiamando e rielaborando a proprio uso e consumo alcuni principi costituzionali, rappresenta un vero e proprio Manifesto dell'etica e del familismo cattolico. E' opportuno riportare qualche stralcio:

articolo 1: Lo Stato riconosce il valore primario della famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio e quale istituzione finalizzata al servizio della vita...e ne tutela l'unità, la fecondità, la maternità e l'infanzia.

articolo 2: Lo Stato riconosce alla famiglia, alle associazioni di famiglie e alle organizzazioni senza scopo di lucro, che promuovono la stabilità familiare, la cultura familiare e i servizi per la famiglia.. la funzione ed il ruolo di istituzioni sociali, costituite nell'esercizio dei diritti fondamentali della persona, i cui fini conformi all'ordinamento sono recepiti come fini pubblici.

articolo 9: I consultori familiari tutelano la vita umana fin dal concepimento (è sempre utile ricordare che nella legge 194 troviamo la diversa espressione della tutela della vita umana dal suo inizio).

E come avviene la tutela? Il successivo articolo 10 prevede che il medico (cui una donna che intende ricorrere alla interruzione di gravidanza può rivolgersi, come è consentito dall'articolo 5 della legge 194) allorchè invita la donna "a soprassedere per sette giorni" (qualora lo stesso medico non riscontri un caso di urgenza) e le rilascia copia di un documento attestante lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta di interruzione, "..immediatamente informa il consultorio familiare del luogo dove risiede la donna...". Di tale comunicazione è informata la donna alla quale viene ricordato il suo dovere morale di collaborare nel tentativo di superare le difficoltà che l'hanno indotta a chiedere l'interruzione volontaria della gravidanza.."

L'articolo 9, secondo comma, della proposta prevede che "..il Consultorio, ricevuta la comunicazione..anche di propria inziativa prende contatto con la donna..e le offre ogni possibile aiuto al fine di favorire la prosecuzione della gravidanza.." Il ruolo attivo dei consultori familiari in questa conclamata nuova azione preventiva e di sostegno alla famiglia si svolgerebbe anche all'interno dei procedimenti giudiziari per separazione e divorzio, perché, secondo l'articolo 18 della proposta, il giudice "..dovrà sospendere il procedimento, rinviando il caso ad un Consultorio familiare.." che sentirà i coniugi per aiutarli alla composizione del conflitto: il contenuto a dir poco stravagante della regola e il suo possibile contrasto con alcuni principi costituzionali non elimina il valore simbolico di questa smodata pretesa di governo autoritario delle relazioni e delle scelte più intime e profonde dei singoli.

Ma il vero scandalo della proposta sta nel voler portare a compimento l'innaturale separazione tra la madre e il concepito, negandone l'inscindibile relazione, e privilegiando un diritto a nascere comunque del concepito rispetto al diritto all'autodeterminazione e alla salute della madre, soggetto ritenuto inaffidabile cui sottrarre, in nome di una mistificante "naturalità" del ruolo materno, libertà e responsabilità nella procreazione.

*Collettivo Donne Diritto di Milano










Il Manifesto, 15.01.06
DIVINO
Pacs, aborto la dottrina papale
FILIPPO GENTILONI


La nuova offensiva pontificia contro la laicità dello stato - italiano e non solo - non cessa di meravigliare. Non la si aspettava né prevedeva. Come mai? Quali sono le motivazioni e le posizioni dottrinali che la sorreggono? E quale è (potrebbe essere) la reazione laica più autentica? Interrogativi la cui risposta è stata resa forse più facile proprio dagli interventi pontifici degli ultimi giorni sui Pacs e l'aborto. Sono proprio questi i temi che il papa ha scelto per la nuova offensiva. Si trattava di uscire da un certo silenzio che aveva caratterizzato la gerarchia cattolica negli ultimi tempi di Wojtyla II. Sembrava che l'attenzione fosse tutta rivolta alla figura «eroica» del pontefice vecchio e malato. A scapito, così poteva sembrare, delle rivendicazioni dottrinali, proprio quelle che ora si vogliono riportare in prima pagina.

Il papa (con il fedelissimo cardinale Ruini) ha scelto alcuni temi che devono essere apparsi più «popolari», più legati alla vita di tutti e di tutti i giorni e a quella realtà che la chiesa ha sempre privilegiato, la famiglia. Qui la chiesa cattolica, per così dire, gioca «in casa»: può confidare in un largo ascolto, anche se non addirittura consenso. E qui il nuovo papa può appoggiarsi su un'antica dottrina classica, quella che collega l'annuncio cattolico con la ragione. Così l'annuncio, inevitabilmente parziale, cerca di divenire universale. Il papa può permettersi di parlare non solo ai cattolici ma a tutto il mondo.

Una dottrina che la scolastica medioevale aveva codificato, ma che il mondo moderno con il suo pluralismo e la sua globalizzazione, aveva reso, a dir poco, improbabile. Come proporre - se non addirittura imporre - a tutto il mondo un modello unico di matrimonio e di famiglia?

Ora Roma pretende di rinnovare e rafforzare quella dottrina, quella di una presunta «legge naturale», forte di un argomento in parte nuovo: i fallimenti delle posizioni laiche, tutte più o meno in crisi. La laicità in crisi (si pensi ai discorsi del presidente del senato Pera) favoriscono un certo pessimismo e quindi lasciano spazio e forse giustificano le positive sicurezze vaticane.

Ma... Le perplessità non mancano e il mondo laico non deve dimenticarle. Basti ricordare i risultati dei referendum su divorzio e aborto. Come può l'autorità cattolica pretendere di parlare a tutti gli italiani? Quei risultati hanno confermato, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che la popolazione, anche se a larga maggioranza cattolica, su molte questioni importanti decide in modo autonomo. La famosa obbedienza non funziona più, né funziona più una legge morale universale della quale il papa sarebbe ancora custode. Il mondo è cambiato più di quanto non si pensi al di là del Tevere.

E anche al di qua, a giudicare dalla perplessità di molti cosiddetti laici nei confronti delle esternazioni pontificie. Alla nuova aggressività pontificia corrisponde, infatti, una nuova incertezza del mondo e della cultura laica, in affannosa ricerca di appoggi e argomenti che non siano solo negativi.








Il Manifesto, 15.01.06
La lettura di Levinas non è ferma a Simone de Beauvoir
DONATELLA DI CESARE


Nel centenario della nascita di Levinas (senza l'accento richiesto dalla lingua francese) il manifesto gli ha dedicato, unico quotidiano in Italia, una pagina, mentre in Francia (e non solo) i principali giornali si attrezzavano a ripercorrerne il pensiero allestendo ampi inserti. Forse mosso dall'imbarazzo per aver mancato di segnalare l'anniversario, il Corriere della sera del 13 gennaio ha fatto uscire un breve articolo a firma di Pierluigi Panza titolandolo Levinas maschilista. Piuttosto che impegnarsi in un discorso approfondito sul contributo del filosofo, l'autore preferisce arrivare frettolosamente a una serie di banali grossolanità, il cui intento è al tempo stesso triste ed evidente. Levinas, infatti, viene sacrificato sull'altare di una polemica pretestuosa contro la cosiddetta gauche, accusata di «celebrare rimuovendo». In cosa consisterebbe la rimozione della sinistra? Nell'avere dimenticato che solo «ieri», ovvero negli anni `40, Simone de Beauvoir aveva condannato Levinas e la sua filosofia. Panza crede, e fa credere, che tutto sia rimasto fermo a quella data, non solo la filosofia di Levinas ma la filosofia in genere (che da allora si indirizzò, invece, al superamento della metafisica) e con essa il pensiero femminista e la sinistra. Forse varrebbe la pena aggiornarsi prima di scivolare in capziose reprimende. Nella sua «Introduzione» a Il secondo sesso del 1949, che resta uno dei testi chiave del pensiero femminista contemporaneo, de Beauvoir mette decisamente in dubbio la pretesa della filosofia occidentale di essere asessuata; dietro l'apparente neutralità si nasconde un pensiero che nel corso dei secoli si è declinato sempre al maschile. Per la prima volta con de Beauvoir il «genere» assume significato in filosofia. Negli stessi anni Levinas, in modo per nulla ovvio, indica la rilevanza filosofica del genere e certo non per scadere in sermoni misogini come quelli di Schopenhauer. Nella donna Levinas vede uno dei paradigmi dell'alterità - un altro paradigma è ad esempio quello dell'ebreo. Se si pensa al ruolo centrale che l'alterità svolge non solo nella sua filosofia, ma anche nella sua etica, sorprende che nei testi raccolti nel volume Il tempo e l'altro del 1948 quello che lui chiama il «femminile» sia soltanto lo sfondo che dischiude la possibilità dell'etica. Che ne è allora della donna come agente morale? Non avrà forse ragione de Beauvoir puntando l'indice su questa riduzione all'alterità? Le cose non sono così semplici. E lo dimostrano i numerosi studi che, soprattutto in America, il pensiero femminista ha dedicato, negli ultimi anni, a un confronto serrato con Levinas. Vale la pena citarne almeno tre: il volume di Stella Sandford Metafisica dell'amore. Genere e trascendenza in Levinas del 2000; la miscellanea edita da Tina Charter, Interpretazioni femministe di Emmanuel Levinas del 2001, a cui hanno contribuito fra l'altro Diane Brody, Catherine Chalier, Luce Irigaray, Ewa Ziarek; il bel libro di Claire Elise Katz, Levinas, l'ebraismo e il femminile. Le tracce silenziose di Rebecca, uscito nel 2003. Con argomentazioni e accenti diversi, questi studi sono attraversati dall'esigenza di riconsiderare il giudizio di de Beauvoir e di interrogarsi sul contributo che il pensiero femminista può trovare in Levinas.

A venire sottolineato è lo sviluppo della sua riflessione, che dopo Totalità e infinito può precisarsi in un'etica meno astratta, proprio guardando a quelle figure concrete di donne che le fonti ebraiche gli offrono, da Sara a Rebecca, da Naomi a Ruth. Quanto la nuova etica della responsabilità verso l'altro debba ai gesti e alle azioni di queste donne lo mette in luce Claire E. Katz, che scorge il debito di Levinas verso l'ebraismo anche nel modo di leggere la differenza sessuale: se nella cultura greca la donna è simbolo di imperfezione rispetto all'uomo, in quella ebraica è simbolo di una «alterità positiva». Lo testimonia il commento midrashico alla Genesi dove l'umanità diventa umana solo dopo la differenziazione sessuale e l'essere divenuto maschile non rappresenta in nessun modo la perfezione. Senza smettere di tenere d'occhio vecchi stereotipi in cui lo stesso Levinas cade - quello che descrive la donna come «mistero», per esempio - il pensiero femminista contemporaneo guarda dunque con interesse al progetto filosofico di Levinas, dove emerge sempre più chiaramente il ruolo che la donna svolge nell'oltrepassamento della metafisica. Rispetto al modello etico-politico occidentale scandito da controllo, aggressione e morte, la donna è lontana dalla coscienza intesa come il miraggio di «sapere sé attraverso sé» annullando l'altro. E il movimento alternativo del suo ritrarsi per fare posto all'altro rinvia alla possibilità di un altrove che a sua volta è un altro modo di pensare, un altro modo di esistere.













Il Manifesto, 15.01.06
Dal ventre letterario di Céline
Due piccoli libri riportano alla attualità le provocazioni dello scrittore francese. Tre balletti senza musica, senza gente, senza niente ritradotto da Elio Nasuelli per Archinto e L'invasato in provetta, nella versione curata da Massimo Raffaeli per il volume Tartre, uscito dall'Obliquo. Il titolo riprende la storpiatura del nome di Sartre, fatto oggetto di violente invettive dopo il suo Ritratto di un antisemita dedicato a Céline
MARCO DOTTI


«Ci saremo, saremo là, per tradire ancora una volta». Henry de Montherlant, il più enigmatico dei collaborazionisti francesi, lo rivendicava a chiare lettere nel Solstizio di giugno, pubblicato all'indomani dell'occupazione nazi-fascista di Parigi: il tradimento dei «sacri doveri della nazione» non era affare da poco, ma andava coltivato - al di là della forma e delle circostanze - come la più sublime fra le virtù antimoderne. Se nel 1934 Drieu La Rochelle era stato il primo letterato francese a pronunciare un discorso ufficiale nella Germania nazista, Montherlant lo aveva in qualche maniera preceduto e superato già nel 1929, rivolgendo agli studenti tedeschi una celebre «allocuzione» sulla necessità di «non perdonare, né dimenticare» lo smacco subito con la ratifica delle condizioni di pace stabilite, o a suo dire imposte, dalla Conferenza di Versailles. «Bisognerà ammettere», aveva allora dichiarato, «che un giorno sarà ancora nostro dovere uccidere, ucciderci gli uni con gli altri». Ben espressa dalla massima mors et vita, da cui trasse spunto per dare il titolo a uno dei suo lavori più noti, Montherlant inviterà a «ponderare con calma questa eventualità: esiste qualcosa di peggio che morire».

Tempi difficile per Montherlant
Aristocratico e decadente sui generis, amante della latinità cristiana e al tempo stesso del paganesimo, volontario pluridecorato, accademico di Francia, appassionato di calcio e di atletica nonché torero dilettante, Montherlant si tolse la vita senza troppo clamore nell'imminenza dell'equinozio di settembre del 1972. L'anziano scrittore aveva trascorso i suoi ultimi giorni ossessionato dal crescente timore di perdere vista e ragione e forse anche stordito dalla notizia che uno Stato dichiaratamente ebraico avrebbe presentato una sua delegazione ufficiale ai ventesimi Giochi Olimpici di Monaco di Baviera. Un doppio oltraggio, segno di tempi difficili e proprio «nei tempi difficili», aveva lasciato scritto, «c'è sempre un tipo di uomo che, dopo aver tributato alla cattiva sorte il minuto di silenzio che le è dovuto, si rimette in piedi, intatto, e senza sforzo domina ogni avvenimento». Ma neppure le qualità a lui più care - il trasformismo, il contraddirsi, il cambiare sempre, comunque, bandiera - predicate in settanta anni di intenso lavoro da polemista letterario, gli sarebbero infine venute in soccorso. Montherlant non amava sporcarsi le mani e persino dinanzi a un gesto estremo come il suicidio il suo tanto conclamato «istinto» gli impose di non dar spazio a eccezioni, escludendo l'ipotesi della fine teatrale. L'ambiguo discepolo di de Maistre, che aveva esaltato le virtù dell'atletismo e della forza, terminò la sua corsa dimenticato da tutti, senza l'aura che avvolge i dannati, afflitto e senza più cerimonie da consacrare all'odio per i numerosissimi nemici della «purezza» che i suoi occhi, ormai, intravedevano a fatica.

Mosso da diverse intenzioni, ma guidato da istinti non meno bassi, anche Louis-Ferdinand Céline, che apparteneva alla stessa generazione di Montherlant e come lui portava sul corpo decorazioni e ferite della Grande guerra, si mostrò non meno sensibile al richiamo della tentazione fascista, lavorando quasi in contrappunto alla propria sconcertante «opera del tradimento» persino del grado minimo di umanità tollerabile in uno scrittore.

L'insonnia degli intellettuali
Il dottor Destouches, che nel 1943 venne condannato a morte dal milieu resistenziale direttamente dai microfoni di Radio Londra, si rifiutò però di lavorare in punta di penna, fuoriuscendo dalla strada maestra del collaborazionismo dichiaratamente antifrancese e da quell'ignobile antisemitismo sottotraccia, fatto di mezze parole e di argomenti quasi sempre «rispettabili», che ai suoi occhi era incarnato proprio da Montherlant e compagni. Troppo anarchico il suo profilo, troppo rozzo il suo contegno, troppo indecente e sporca la sua prosa, Céline non fu per nulla amato dalle schiere di intellettuali di mezzo calibro che scelsero di vestire, scrivere, vivere in camicia nera mantenendo al tempo stesso un disinvolto distacco e un contegno tutto aristocratico e di maniera. «L'insonnia degli intellettuali» - scriverà siglando, col suo nome da medico, un'ipotetica ricetta - «è diversa da quella di ogni altro soggetto. Gli intellettuali sembrano prendere un certo gusto perverso per il loro malessere, entra in gioco un forte componente di masochismo, di narcisismo... insomma di letteratura. Del resto, l'intellettuale non vuole perdere nulla di sé: né la sua amata firma, né il suo delizioso buon nome, né la sua magnifica personalità e tanto meno la sua terribile insonnia!» Al contrario, come sottolinea Elio Nasuelli introducendo la sua recente versione dei Tre balletti senza musica, senza gente, senza niente (Archinto, pagine 76, euro 10), l'enorme successo di pubblico e l'acceso dibattito provocato al tempo dal più celebre dei libelli antisemiti di Céline, le Bagatelle per un massacro, ebbe come risultato di scuotere questa inerzia, innalzando la soglia di «violenza tollerabile» nel discorso antisemita; poiché se le idee proposte facevano parte del «patrimonio culturale» del tempo ed erano in gran parte - salvo lodevoli eccezioni - accettate, a dare scandalo furono il registro scatologico, lo sproloquio, la volgarizzazione della lingua, l'impatto con una scrittura impura, apparentemente priva di velature di stile, che si rivolgeva a chi delle cosiddetta purezza aveva fatto invece una questione politica e di valore.

Mentre la guerra volgeva al termine, confidandosi al giovane segretario di Gide, Lucien Combelle, Céline sosteneva, senza troppi rimorsi, che «c'è stato un tempo assai grottesco, in cui i cosiddetti scrittori si prendevamo molto sul serio. Credo che i Montherlant siano ancora di questo parere... Pietà per le loro opere! Mi sembra... ecco tutto... Risolvere il problema ebraico? Ci penserà l'azione. Non le parole, i fatti».

I fatti, però, coincidevano per lui con una certa degradazione materiale delle parole, con il loro abbassamento a un piano viscerale del discorso, con un'idea a suo modo aberrante di «igiene sociale» che già nella tesi di laurea - dedicata alla vita e all'opera dello scopritore delle cause della febbre puerperale, il medico ungherese Ignaz Philipp Semmelweis - lasciava intendere possibili sviluppi. Semmelweis era un irregolare, la sua infanzia e la sua formazione - «l'immenso lavoro della vita interiore» - che per molti rimangono un mistero, avevano per Céline una doppia declinazione: la strada e il sogno. «Che cosa possono mai i maestri e il loro sapere per questa gestazione spirituale, questa seconda nascita, dove tutto è mistero? Quasi nulla. L'essere che giunge alla coscienza ha come grande maestro il Caso. Il Caso è la strada. La strada, varia e molteplice di verità all'infinito, più semplice dei libri. E che cosa si fa per strada? Semplice: si sogna».

Ma la Budapest di Semmelweis, ricostruita, o forse semplicemente reinventata da Céline, assomiglia troppo a un luogo ideale fatto di «canzoni né gaie, né tristi», ma «ricche di magica sostanza». Canzoni e danze popolari che, «come la grande musica, fanno anch'esse capire il Divino, soltanto che per la grande musica bisogna essere perlomeno un po' istruiti, musicisti; per amare la canzone del popolo, quella vera, basta l'amore». Dinanzi a una strada infestata di «rogna», ricca solo di ambizioni «da bassifondi», di illusioni di progresso sociale da conquistare nelle aule di un qualsiasi parlamento, anziché dal basso, Céline non esitava a radicalizzare - «sono un medico, non uno scrittore» - il metodo immunitario, invocando pulizia, tagli, disinfezioni. Interrogato sul problema della disoccupazione, si azzardava allora a rispondere, con un articolo diventato ormai celebre, che l'unico modo per risolvere la questione era «ammazzare i disoccupati», costringerli all'inerzia definitiva fiaccandoli «per fame». La banlieue per cui nutre affetto, dedizione, pietà è la stessa che vorrebbe ripulire dai buoni propositi e da improbabili sogni «basso borghesi» di redenzione sociale. Nel 1937, quando diede alle stampe uno dei suoi testi più duri e sconfortanti, le Bagatelle per un massacro, oltre alle normali critiche che ogni opera alimenta e mette in gioco, Céline si attirò pesanti accuse e giudizi taglienti che riguardavano la sua salute e il suo equilibrio mentale ritenuto precario. Fu costretto ad abbandonare il lavoro di medico, presso il dispensario pubblico di Clichy, - «nella zona più rossa dei dintorni di Parigi», in quella banlieue che, meglio di ogni altro luogo, incarnerà d'ora in poi gli umori del suo ventre letterario. A Clichy, circondato dalla modesta umanità che si aggirava tra rue d'Alsace e rue Barbusse, divideva le sue giornate tra il «dovere» delle visite ai poveracci e la passione per le ballerine, mentre di notte, a colpi di eccitanti, combatteva contro il sonno per terminare la stesura del Voyage.

Lo zerbino di Parigi
«Terra senza anima», già ai suoi occhi la banlieue parigina appariva come lo «zerbino davanti alla città, dove ciascuno si asciuga i piedi, sputacchia bel bello, passa», ma anche il «banco di prova» su cui si deve «lavorare la materia più ributtante, più spregevole, più aspra, e renderla amabile, attraente, grandiosa». «Soffre la banlieue, e mica poco, espia senza fede un crimine di nulla. Mai tempi furono più vuoti. Bei poeti quelli che s'incantano di Bretagna e di Corsica! Degli abitanti di Angouléme! delle Esperidi! Chi ci pensa a lei? Nessuno. Abbrutita di fabbriche, cesso universale, in tocchi, squartata, terra senz'anima ormai, un campo di lavoro maledetto, dove il sorriso è inutile, la fatica sprecata, cupa la sofferenza, Parigi «cuore della Francia», bel ritornello! pubblicità! La banlieue tutt'intorno che crepa! Calvario permanente, totale, di fame, di lavoro, e a tiro di bombe! a chi gliene frega? Nessuno, sicuro, sicuro. Cessosa e basta. Gli ultimi anni non hanno messo a posto le cose. Chi ci capisce? Banlieue delle incazzature, eterno vago bagnomaria di una specie di rivoluzione che nessuno compie o realizza, eterna moribonda che non muore mai».

Se nel gennaio del 1938, recensendo le Bagatelle su «L'Action française», Robert Brasillach dichiarava di essersi «sommamente divertito... io che non sono né un assetato di sangue, né un fanatico dell'antisemitismo, e soprattutto non sono un ammiratore del signor Céline», al punto da concludere che «ogni francese nato francese dovrebbe leggerne almeno alcune pagine», le reazioni da parte dello stesso «fronte nero» furono spesso di tenore contrario. «C'è da chiedersi», scriveva Pierre Loewel, sulle pagine dell'«Ordre», un quotidiano ritenuto moderato, se le Bagatelle non siano «esattamente quel tipo di opera che un antisemita intelligente dovrebbe chiedersi se non sia stata pagata dagli Ebrei». Ciò che Loewel non poteva sapere, era che l'antisemitismo di Céline si sarebbe «arricchito», nel giro di poco tempo, di altri durissimi pamphlet, meno strutturati e complessi delle Bagatelle - se non altro per il groviglio di citazioni e rimandi impliciti che, nel loro stile scombinato e nel loro gioco allucinatorio, queste ultime riuscivano a mettere moto - ma pur sempre caustici e brutali.

Cinico e irrimediabilmente votato all'infelicità, fra il 1937 e il 1941 Céline pubblicò Mea culpa, L'Ecole des cadavres e Les beaux draps, oltre a una serie di interventi su riviste vicine, quando non direttamente finanziate, dagli occupanti nazisti. «Non è la realtà che Céline dipinge, ma l'allucinazione che la realtà provoca», affermava André Gide, tutto proteso a salvare il salvabile, mascherando, più che lo scandalo, lo sconcerto per l'immenso talento che lo scrittore di origine bretone stava dissipando sotto i suoi occhi. Proprio a lui, d'altronde, Céline aveva consegnato il manoscritto del Viaggio al termine della notte. Gide, ancora scottato dalla sua incauta bocciatura e dal giudizio affrettato pronunciati in merito alla Recherche di Proust, non aveva tardato a definire il Viaggio come «il più grande romanzo comunista dei nostri tempi». Anche Jean-Paul Sartre rimase abbagliato dal capolavoro e dalla scrittura del medico delle banlieues, aprendo la Nausea con un esergo céliniano tratto dalla pièce La chiesa. L'abbaglio, ricorda Simone de Beauvoir, durò comunque poco. «Il libro francese che più mi colpì in quel tempo», scrive, «fu Il viaggio al termine della notte, di cui sapevamo a memoria interi passi. Il suo anarchismo sembrava assomigliare al nostro. Si batteva contro la guerra, il colonialismo, la mediocrità, i luoghi comuni. Céline aveva forgiato uno strumento nuovo: una scrittura viva quanto la parola viva». Ma già con Morte a credito, conclude la de Beauvoir, «aprimmo gli occhi», poiché «conteneva quel bilioso disprezzo per il popolino che è una tipica tendenza prefascista». Se nella Nausea è la scoperta della musica a porre parziale rimedio al male di vivere del protagonista, nelle invettive céliniane - bagatelle, non a caso - la petite musique è il complemento necessario a un controstile delirante che cerca di opporsi, parole sue, alla «dialettica capziosa (brouillamineuse) e profetizzante del Giudeo». Contro questa «musichetta» che a lui parve quantomeno sfasata, nel dicembre del 1945, su «Les Temps modernes», Sartre pubblicò un Ritratto dell'antisemita, a cui Céline replicò, a due anni di distanza, con un velenosissimo attacco, titolato L'invasato in provetta, ora tradotto da Massimo Raffaeli per L'Obliquo (Tartre, pp. 38, euro 11). Con la sua consueta furia da «predicatore cataro», Céline attacca, irride, costruisce un devastante «rito di profanazione» attorno al celebre scatto di Cartier-Bresson che ritrae il filosofo esistenzialista accanto al Pont des Arts. Trattato da delatore - «ecco che cosa scriveva questo piccolo mangiamerda, mentre stavo in prigione e potevano appendermi a ogni minuto» - Sartre, o per meglio dire Tartre, appare come «una tenia umana», uno «spione» da presentare in provetta all'opinione pubblica.

Questa l'invettiva
«Perdere un quarto d'un ottavo di pensiero dietro a Sartre! Da ridere! Mettiglieli tu, i puntini sulle i! Tutta sta stampa che abbaia ai delatori, agli spioni etc. etc. Gliene faccio vedere uno carino, io! in provetta! con tanto di prove che è spione! nero su bianco! Vedrai se non si eccitano, là sopra! loro e la loro Virtù! la loro Purezza! perché Puri lo sono proprio! dopo un'Epurazione simile! Ma che mi lascino in pace, me! Glielo faccio vedere io un bell'esemplare, un perfetto spione in provetta! Colpa dell'Esistenzialismo: tutti sulle nuvole! ipocriti! Eccovelo uno spione molto ma molto ESISTENTE! Vedrai che la fanno finita!».

Sartre gli appare allora il prototipo dell'uomo incapace di sentire che «l'Orrore è niente senza il Sogno e la Musica». Se nel Semmelweis, come si è detto, solo l'amore apriva le strade «della Musica e del Sogno», ora quelle strade sembrano non aprirsi più, senza dar sfogo a un odio portato alle sue estreme conseguenze.










Liberazione, 15.01.06
Partecipazione ben oltre le previsioni alla manifestazione
"Usciamo dal silenzio" in difesa della legge 194.
Sono arrivate da tutta Italia, madri e figlie, amiche e sorelle.
E tutte ripetono: «Libere di scegliere, libere di amare, questo movimento non si può fermare»
Oltre duecentomila invadono Milano il femminismo torna, vince e avverte il Palazzo
di Claudio Jampaglia


Milano [nostro corrispondente] - Le streghe son tornate, sono "uscite dal silenzio" (come diceva lo striscione che apriva il corteo di ieri) e non sembrano disposte a tornarci. Una prova di forza ragionevole e festosa di 250mila (forse più) donne, in stragrande maggioranza, che ha riempito il 2006 di libertà e autodeterminazione. Come una liberazione, come una promessa. Che fosse un appuntamento da non mancare era chiaro a tante, ma così grande nessuna se l'aspettava. E ora i conti si devono fare con loro.
La scale della metropolitana della Stazione centrale rigurgitano manifestanti come un perenne tapis roulant dalle viscere della città. Nella calca, ogni dieci metri, sono cartelli e saluti. Le prime che incontriamo sono le donne di Torino, portano al collo tante immagini della Cesira di Lupo Alberto che dice: "E' nata prima la gallina", col tamburello e una voce solista ballano la taranta di "pizzicherella mia" in cerchio. E tutte sembrano essere state "pizzicate", è un moto perpetuo che per ora attraverserà Milano fino a piazza del Duomo. Impossibile tenere il conto delle presenze, degli striscioni, degli slogan; c'è tutta l'Italia e ognuna ha il suo cartello. Fiocchi rosa e striscione, "Noi decidiamo É comunque", per il coordinamento donne di Bologna. "Soggetti non oggetti, se come quando e con chi vogliamo", scrive il collettivo Quarantatette del centro sociale Magazzino 47 di Brescia. "Donne alla riscossa", "Donne "(r) esistenti" da Milano a Catania (con l'Udi) che cantano: «Ruini, Ruini pensa ai tuoi casini». Per il Vaticano ce n'è di ogni. Oltre all'Unione atei e agnostici che porta decine di cartelli gialli: "Basta col governo del clero, vogliamo Zapatero", uno degli slogan più gettonati è: «Gridate gridate tutte quante, fuori la chiesa dalle mutande». Ce n'è anche per il ministro della salute: «Storace, babbeo, beccati sto corteo». Ma meno, d'altronde si sa che parla per altri.

Ci sono le donne di Rifondazione sparse (e tanto partito da Milano), moltissime bandiere dei Ds, un blocco compatto di migliaia da Emilia, Romagna e Toscana con la Cgil. Ma la più parte è slegata, creativa: donne, compagne, amiche. Per fortuna che doveva essere un "rito stanco", a fine serata qualche migliaio di infreddolite continuavano a ballare sotto il palco in via di smontaggio.

Un corteo come non se ne vedevano da mo', politico, creativo. Un gruppo non catalogabile, "Primavera libertà", mette in piazza uomini travestiti da corvacci e lupi neri scacciati da donne con rami di fiori di carta. Ogni venti metri si inventano un nuovo slogan: «Libere di scegliere, libere di amare, questo movimento non si può fermare»; «Libere di vivere e di convivere». Libere. Poco dietro gli striscioni della storia del movimento femminista italiano: le librerie e università delle donne, la rivista "Noi Donne", i collettivi: «Le donne di oggi hanno memoria»; «Siamo invecchiate, ma sempre più arrabbiate», dicono. Ci sono le operatrici sociali: «Il corpo delle donne non è un contenitore, dai nostri consultori fuori gli obiettori». E tutta l'intelligenza di chi sa.

Malgrado i timori (e i gufi) della vigilia decine di migliaia sono le giovani, organizzate e non.

Madri e figlie, amiche e sorelle. Se proprio volessimo cercare a tutti i costi la sfumatura delle assenze, manca un pezzetto della generazione di mezzo. Ci sono anche tanti uomini, «quelli intelligenti» ricorderà l'attrice Debora Villa dal palco, che non riducono le donne a una cosa da dare o meno come un pacchetto. Gli uomini di "maschile plurale" portano cartelli sandwich, da un lato c'è scritto "vogliamo anche noi uscire dal silenzio", dall'altro, "liberazione maschile". Personalmente sottoscriviamo.

Sul palco, condotto da Ottavia Piccolo, non c'è calca e assembramento, qui non si viene per farsi vedere, ma per stare e dire. Così fanno Karina Scorzelli Vergara, mediatrice culturale cilena che racconta i consultori e le donne migranti, vero oggetto di una campagna sull'aborto usato come contraccettivo che grida vergogna. Fiorella Mattio giovane atipica a raccontare tempi e vita per chi rischia che «la precarietà è il contraccettivo del futuro». Assunta Sarlo, ancora incredula di cosa si è messo in movimento a partire da una sua mail intitolata "Usciamo dal silenzio", è stravolta e scherzando promette di non farlo più. Ma non è vero: «Avevamo bisogno di guardarci in faccia, di sentirci, adesso abbiamo una responsabilità ancora più grande, questa piazza ce la siamo presa e dobbiamo continuare a incontrarci, ragionare, parlare, senza dare nulla per scontato e non lasciandone passare una. E' ancora tutto da fare».

Intanto attorno si balla, si ride. Lea Melandri è frastornata: «Ho dovuto congelare l'emozione, mi verrebbe da piangere per la gioia», dice a un'amica. Sul palco, grazie alla diretta di Radio Popolare, arriva il saluto dei "tutti in Pacs" di Roma con Lella Costa che ricorderà come «ancora le donne si trovano a difendere il diritto più doloroso, perché a nessuna donna, a nessuna, piace abortire e siamo stanche di misoginia e di sentirci dire come dobbiamo vivere e comportarci con i nostri sentimenti e il nostro corpo in un mondo che ancora ammazza milioni di bambini nelle guerre». Cristina Granellini di Arci-Lesbica, ricambia da Milano il saluto a Roma: «Le famiglie di fatto esistono, piaccia o no, e la libertà senza diritti è quella del liberismo, di chi può perché non ha bisogno».

L'unico uomo invitato a parlare, Paolo Hendel, si conquista la platea con un secco: «Ammettiamolo, le donne sono nettamente più avanti degli uomini (e lo dico in quanto donna ovviamente)», e giù sui cavalli di battaglia sulla relazione tra embrione e Buttiglione, Storace e la Ru486 («crede sia un modello della Renault») e prelati: «Cardinali e vescovi non c'hanno la moglie a farli ragionare e l'uomo da solo non ce la fa». Nel fiume di letture con Maddalena Crippa e tante altre, solo Heidi Giuliani (con Rosa Pilo, madre di Davide "Dax" Cesare) non trova lo spazio di ricordare la vicenda di Federico Aldrovandi, picchiato a morte in un controllo di polizia a Ferrara. Lo facciamo noi.

Chiuderà Susanna Camuso, segretaria regionale della Cgil lombarda, tra le motrici dell'organizzazione: «Le donne non sono mai state zitte, abbiamo solo dato forza a tante voci disperse, continuiamo, con l'autorganizzazione, il lavoro collettivo, la partecipazione trasversale di questi mesi; che nessuno possa dire che è tornato il silenzio delle donne». Dalla resistenza alla riscossa: «Non si illudano che tutto torni come prima, vogliamo la sperimentazione della Ru486, la pillola del giorno dopo, consultori nelle scuole e la libertà delle donne alla base della politica dei prossimi anni». Che peccato che di questo grande popolo laico e democratico, a maggioranza femminile, ci sia così poca rappresentanza politica. "Attenti le donne votano con la pancia", scrivono le donne del Sud-Tirolo (su striscione bilingue). Hanno ragione (e vale anche per gli uomini) ma buona parte della politica se l'è scordato.







Liberazione, 15.01.06
Una giornata particolare
di Angela Azzaro


Sono uscite dal silenzio (siamo uscite dal silenzio). Hanno invaso Milano portando in piazza duecentocinquantamila donne e anche tanti uomini. Sono uscite dal silenzio occupando piazza Duomo con le loro ragioni. Un'invasione pacifica ma determinata, forte, decisa, di chi chiede e vuole ottenere. Da oggi nessuno potrà più parlare a cuor leggero sul corpo delle donne: dettare leggere, stabilire norme, imporre una morale che sia di Stato o della Chiesa.

La manifestazione di ieri a Milano rappresenta un evento storico: forse dagli anni Settanta non si vedeva un corteo così numeroso in nome dell'autodeterminazione e della libertà delle donne. Per molte giovani è stata la prima volta. Per loro essere in piazza non è riconoscimento di debolezza ma un'emozione, è il segno di quanto la determinazione delle donne vada oltre gli anatemi del Papa, le ingiurie dei politici. E' il segno che insieme si è più forti. Che insieme si può vincere.

Ma di chi è la vittoria e su quali temi? Per capire bisogna risalire a circa due mesi fa, quando a Milano un gruppo di donne, tra cui Assunta Sarlo, giornalista di "Diario", e Lea Meandri, intellettuale femminista, hanno dato appuntamento per un'assemblea che dicesse basta allo straparlare della politica e del Vaticano sul corpo delle donne. Erano in duemila. Da lì a poco la manifestazione del 14 gennaio ha costruito consenso, ha mobilitato donne in tutte le parti d'Italia, è sfociata in un corteo che neanche le stesse organizzatrici pensavano così partecipato. Un successo. Un successo del femminismo, di chi - dopo un lavoro di tanti anni, capillare, paziente e sapiente - è uscita dal silenzio portando duecentocinquantamila cittadine e cittadini in piazza. Il femminismo, parola a lungo considerata negletta, si è ripreso la scena della politica, ha dimostrato quanto ha prodotto in termini di esperienze, di cultura, di relazioni, quanto è in grado di parlare un linguaggio che riguarda tutte e tutti.

La radicalità del femminismo fa però ancora paura. Non è un caso che ieri i commenti dei politici si rivolgessero (soprattutto per attaccare) quasi esclusivamente alla manifestazione di Roma sui Pacs o che al Tg3 e nei diversi giornali on line l'evento milanese sia stato attribuito ai diversi partiti dell'Unione, che erano presenti ma come ospiti. La verità è un'altra, sta scritta in quella prima convocazione: nella mobilitazione del femminismo. La conferma viene dai temi portati in piazza: una critica radicale alla politica del governo di centrodestra e a chi nel centrosinistra si fa portavoce del Vaticano, ma anche un discorso rivolto alla sinistra tutta per porre una questione centrale: la trasformazione della politica a partire dal rapporto uomo-donna.


La difesa della legge sull'interruzione di gravidanza e la difesa della laicità dello Stato sono punti centrali della mobilitazione delle donne, ma che derivano da una domanda ancora più alta di cambiamento che chiede un nuovo rapporto tra le donne e gli uomini come misura di civiltà, come misura dello stato di democrazia del Paese. Non si tratta di un fatto occasionale, né marginale. La libertà di scegliere se abortire o meno, se procreare o meno, la libertà di amare una persona dello stesso sesso, non sono un di più della politica. Sono la politica. Le femministe su questo non intendono più fare sconti. A nessuno. Neanche agli organi di informazione che dovranno prima o poi confrontarsi con questa realtà: il femminismo c'è, ha ripreso la parola in maniera collettiva e intende fare della diversità dei linguaggi una ricchezza.

E' solo l'inizio. Lo si è detto prima del 14. Ora si può dire che è un inizio speciale. Una giornata particolare. Da questo momento la forza espressa in piazza si deve declinare in tutti i luoghi in cui le donne sono presenti, deve diventare capacità quotidiana di trasformazione. E' una domanda che riguarda tutte e tutti. Gli uomini presenti alla manifestazione di Milano lo dimostrano. Tanti, tantissimi. Convinti della necessità di manifestare perché la libertà delle donne è anche la loro libertà da una politica che cancella i desideri, nega i diritti, tenta di stabilire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato nella sfera personale. Da oggi non è più cosi. Non sarà più così. Neanche per il dibattito dentro il femminismo. La quantità e la qualità della manifestazione di ieri fa chiarezza anche su questo punto. Le donne che avevano dubbi sulla necessità di andare in piazza, che pensavano fosse un segno di miseria femminile, che considerano la piazza come un vetusto strumento della politica maschile sono state messe fuori gioco. A Milano eravamo in tante, gioiose, determinate, per nulla subalterne alla politica degli uomini. Una nuova pagina è stata scritta. Ora si tratta solo di continuare con lo stesso desiderio.








Liberazione, 15.01.06
Di fronte alla nuova strategia di Berlusconi
L'Unione ha una sola scelta: svolta a sinistra
di Ritanna Armeni


Il flop di Berlusconi alla procura di Roma, il fatto che la sua "denuncia" dei vertici Ds si sia risolta nel nulla e che egli stesso abbia dovuto ammettere l'irrilevanza penale di quello che aveva detto ai giudici non deve trarre in inganno. Non deve far pensare che il Cavaliere consideri fallita la strategia della denigrazione dell'avversario politico o che eviterà di ricorrervi ancora in una campagna elettorale che si presenta più che mai avvelenata. Quel comportamento fa parte della strategia che il presidente del consiglio intende adottare in campagna elettorale nella speranza di rimontare sulla differenza dei voti a vantaggio dall'Unione indicata finora dai sondaggi. La strategia elettorale di Silvio Berlusconi è molto semplice. Parte da un presupposto e si articola in due punti.

Il presupposto è che è davvero molto difficile che i voti si spostino dall'uno all'altro schieramento. Qualche spostamento può esserci, ma non di entità tanto rilevante da produrre la vittoria di un Polo sull'altro. Per vincere occorre puntare piuttosto sull'aumento dell'astensionismo del campo avverso e sul recupero degli astensionisti di casa propria. E sono esattamente questi i due i pilastri della strategia berlusconiana. Secondo gli insegnamenti, del resto, che vengono d'oltreoceano dall'amico George Bush e dal suo spin doctor Karl Rove.

Come si aumenta l'astensionismo nel campo degli avversari? Sollevando una questione "morale", non importa quanto sostenuta dai fatti; sollevando un dubbio non importa quanto consistente; delegittimando l'avversario, cercando di demolire la sua identità; se ci si riesce, rendendolo ridicolo. Berlusconi sa bene che le opposizioni hanno al loro interno molte contraddizioni e non pochi disagi. La speranza è di convogliare tutto questo in un malessere e in una sfiducia che porti al non voto.

L'altro punto, speculare al primo, é il recupero dell'astensionismo nel proprio campo. Il premier ha perso molti consensi e sa di averli persi sulla più importante delle questioni, quella delle condizioni di vita. Il malessere e la probabile, anche se non sicura, sconfitta della maggioranza che ha governato il paese sta molto semplicemente nel fatto che la maggioranza degli italiani è convinta che si sta peggio oggi che cinque anni fa ed è tendenzialmente incerta e pessimista sul futuro.

Caro vita, precarietà del lavoro, attacco alle libertà personali e ai diritti sociali costituiscono i punti deboli di questo governo, ciò che - stando ai sondaggi, ma anche ad una percezione comune alla maggioranza degli italiani - lo rende inviso a gran parte del paese. Questa parte della popolazione non è facilmente convincibile del contrario. I conti della spesa, e i numeri della busta paga fanno parte della concretezza di una quotidianità che non si può concellare né con le parole, né con le Tv, né con i mega manifesti elettorali.


Che fare allora? Berlusconi pensa di puntare sul richiamo ideologico che non sposterà tutti gli scontenti, ma ne potrebbe spostare, o meglio far rimanere nel campo della casa della Libertà, una parte di loro. L'ideologia è un'arma potente che punta sulla paura del futuro e sulla condanna del passato più che sulla sofferenza e il disagio del presente. Ed ecco che il premier richiama gli orrori del comunismo e il pericolo che esso ritorni magari in un programma elettorale dell'Unione troppo influenzato da Rifondazione comunista. Ed ecco i toni apocalittici e apparentemente irrazionali dei suoi discorsi, tesi in realtà a recuperare quella parte del suo elettorato più sensibile al richiamo ideologico e più impaurita dai cambiamenti.

La strategia di Silvio Berlusconi ha un pregio: è chiara. O almeno dovrebbe esserlo. Come dovrebbe essere chiara ed evidente la risposta. Se il premier cerca di recuperare puntando sull'astensionismo dell'Unione e sul recupero di una parte dei suoi usando (lui, proprio lui) le armi della questione morale e dell'ideologia, le opposizioni dovrebbero contrapporgli senza alcuno sconto ed incertezza il fallimento delle sue ricette sociali, il crollo delle condizioni di vita di parte consistente della popolazione, la violazione delle libertà personali e dei diritti sociali. Francamente non è difficile. Basterebbe schierarsi senza remore con il contratto dei metalmeccanici, appoggiare la lotta delle donne in difesa della 194, sostenere i Pacs, battersi per l'amnistia, sciogliere a favore dei diritti delle popolazioni le ambiguità sulla alta velocità o sul nucleare, impegnarsi senza retorica e senza demagogia in una reale battaglia per allineare salari e stipendi al costo della vita.

Se una campagna elettorale può spostare qualcosa - e l'esperienza dimostra che può farlo - sono questi i terreni ne forniscono la possibilità. Sono questi i temi sui quali si può battere Berlusconi e il berlusconismo. E sui quali i capi dell'opposizione possono anche accettare andare il confronto televisivo e vincere la battaglia mediatica.

I programmi, i convegni, le mediazioni sono importanti, ma sono inutili se non si misurano sui fatti che ogni giorno richiedono una posizione, una indicazione e uno schieramento. Sono questi fatti a dire agli elettori da che parte si sta e che tipo di società si comincerà a costruire con un nuovo governo. E che mantengono l'elettorato di sinistra legato al suo schieramento anche in un momento difficile, in cui è stata messa in dubbio la sua "diversità" rispetto all'avversario e in cui la delusione per i comportamenti di molti è forte ed anche motivata.