sabato 30 gennaio 2010



Agi.it 30.1.10
Riccardo Lombardi, ricco non di soldi ma di grande dignità morale
Roma, 30 gen. - Ricordare oggi a venticinque anni dalla morte, Riccardo Lombardi, dopo eventi storici come il crollo del Muro di Berlino e Tangentopoli, comporta un atto di grande coraggio: riconoscere che con anni di anticipo l'Ingegnere azionista, giellista e poi socialista aveva previsto quanto e' sotto gli occhi di tutti. Ricco non di soldi - alla domanda ha mai pensato di avere piu' soldi? rispose "non avrei saputo che farne. Non ho neanche una casa. Mi basta poter comperare libri" - ma di alta dignita' e autorita' morale, rigoroso, onesto e coerente, Lombardi aveva gia' previsto negli anni '50 quando il Psi era impastato di stalinismo e fusionismo col Pci, la 'non riformabilita'' del sistema sovietico, cosi' come il 30 giugno 1984, nel suo ultimo intervento al Comitato Centrale del Psi aveva annunciato ai 2-3 mila presenti "un Psi cosi' non ha motivo d'esistere", a conclusione di una severa requisitoria che mai Bettino Craxi ascolto' da un socialista. Sono questi i due principali assi sui quali si sviluppa il libro 'Lombardi e il fenicottero' uscito in questi giorni per le edizioni 'L'asino d'oro' di Carlo Patrignani, giornalista dell'Agi. Parole come 'autonomia' e 'alternativa' o 'programmazione economica' e 'riforme di struttura' sono un'invenzione del geniale azionista che nel 1947, scioltosi il 'fastidioso' ed 'indigesto' Partito d'Azione di Piero Calamandrei, Vittorio Foa, Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Tristano Codignola, Ernesto Rossi e altri, entro' nel Psi e non lo mollo' sino alla morte: fu cremato senza riti religiosi il 18 settembre 1984 a dimostrazione di una profonda laicita'. Il distacco dalla educazione cattolica e dai primi esordi nella 'sinistra cattolica' di Miglioli e Speranzini, e' indubitabile. Un distacco lento e graduale avvenuto con il supporto di Croce e Marx ma soprattutto per la vicinanza di una donna straordinaria, atea, colta, antifascista, che sin dal 1931 aveva compreso l'inganno del comunismo, il fenicottero Ena Viatto che disse 'no' all'ordine dell'indiscusso leader del Partito Comunista Palmiro Togliatti che voleva mandarla per due anni all'Istituto Marx-Engels di Mosca dove si diventava perfetti comunisti. E seppe poi dire un altro 'no' ad un altro comunista Girolamo Li Causi: lo lascio' perche' innamoratasi dell'Ingegnere "non comunista ma amico degli antifascisti", come lei stessa racconta. Una coppia originale, atipica, fuori degli schemi: alle critiche di esser stravaganti, un po' anarcoidi, il fenicottero ribatteva "Tali eravamo" perche' insofferenti alle violenze e prepotenze di una societa' "spietata coi deboli, corriva coi potenti" e aggiungeva "s'il etait a refaire, je le refarais". (AGI) red (Segue) (AGI) - Roma, 30 gen. - Ritornare quindi su Lombardi, vuol dire immediatamente render il giusto riconoscimento ad un uomo "uno dei rarissimi che ha acceso un credito altissimo nel suo partito, il Psi, nella sinistra interna, nelle istituzioni anche le piu' alte", disse nel 1984 uno dei migliori sindacalisti della Cgil degli anni '80, Fausto Vigevani. E soprattutto Lombardi deve restare sulla scena "il meno possibile" perche', se scomodo e ingombrante e' stato da vivo, altrettanto se non di piu' lo e' ancora oggi a 25 anni dalla cremazione senza riti religiosi. Criticato per presbiopia, illuminismo, vocazione minoritaria, ma mai nessuno ha potuto metter in discussione la sua onesta', il suo rigore, la sua coerenza, a rileggere i suoi progetti - il riformismo rivoluzionario e le riforme di strutture, la possibilita' per tutti di realizzare la propria esistenza e decidere la propria vita - ci si accorge, oggi, quanto siano ancora attuali al pari delle sue intuizioni. "Un pensiero forte", ha detto di recente il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel '69 prima di diffonderlo alla stampa gli sottopose la posizione del Pci sull'invasione di Praga. Pienamente condiviso da Lombardi che poi voto' contro l'ordine del governo per aver dimenticato i bombardamenti Usa sul Viet- nam. "Riccardo e' stata la persona piu' importante della vita", e' la testimonianza di un 'amico e compagno', Bruno Trentin, il leader della Fiom del 1969 che con Riccardo ebbe un lungo e solido feeling da cui nacque, dopo il primo centro-sinistra del 1962-63, la proficua stagione delle riforme: la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la scuola dell'obbligo, il contratto unico dei metalmeccanici, lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, il diritto alla formazione ed allo studio, le 150 ore. "Se aver ragione con decenni d'anticipo in politica significa 'sconfitte' e 'fallimenti' di Lombardi - fu l'annotazione di Vigevani - allora 'sconfitte' e 'fallimenti' di Lombardi sono dell'intera sinistra italiana, della stessa democrazia italiana". Un politico non di parte ma dell'intera sinistra. (AGI)

l’Unità 30.1.10
Risposta a Luigi Manconi
Bonino nel Pd? Meglio la doppia tessera
di Angiolo Bandinelli

Luigi Manconi ha sollevato, su questo giornale, un tema di grande importanza e senz’altro urgente, vale a dire quale debba e possa essere il rapporto tra il Pd e i due “candidati esterni”, Vendola e Bonino, piombati, con le loro “autocandidature”, a sparigliare le carte elettorali di quel partito. Secondo autorevoli ma non sempre disinteressati commentatori, la vicenda sarebbe la spia di una organica debolezza del Pd o della sua dirigenza diciamo meglio, di Bersani incapace di imporre le proprie decisioni ad una periferia riottosa e disarticolata. Su tale (malevola) interpretazione si fondano le perplessità, le previsioni o insinuazioni negative, di quanti si chiedono “cosa c’è, cosa dovrebbe esserci dopo il Pd”.
Io credo che la vicenda vada affrontata, al di là della sua rilevanza immediata ed “elettorale”, in più ampia prospettiva. A mio avviso, le due “autocandidature” (ma almeno per la Bonino il termine è improprio) non sono un atto di “prepotenza” né, necessariamente, un segno di strutturale debolezza o insufficienza della dirigenza del Pd. Manconi ha ragione, credo: esse sono, o potrebbero essere, il segno che il Pd è, o può essere, un «partito aperto, permeabile, in movimento, capace di trasformarsi». Per rafforzare e dare organicità a questo suo auspicio, però, Manconi chiede a Vendola e alla Bonino (anzi ai radicali) di «entrare nel Pd, a pieno titolo e con pari dignità». Vorrei fargli osservare che, con le attuali strutture di quel partito, entrare nel Pd significherebbe per loro solo farsi schiacciare o emarginare. Nella prospettiva della nascita di una sinistra organicamente rinnovata e meno burocratica, un modo per dare subito un senso, una direzione di marcia unitaria alle diverse sue presenze potrebbe piuttosto essere la via della “doppia tessera”, una via che del resto proprio l’amico Manconi sta sperimentando con soddisfazione, credo, sua e sicuramente di tutti i radicali. Senza obbligare nessuno, senza imporre vincoli di sorta, la via della doppia tessera sarebbe un grande segnale persino in termini elettorali di superamento del partito-chiesa chiuso e monolitico: una immagine che il Pd sostiene di voler superare senza però riuscirvi, forse anche per sue interne resistenze ad ogni cambiamento vero.
Anche osservando il percorso difficile di Barack Obama, coraggioso e non condizionato dall’ossessione dei sondaggi, ho l’impressione che si sia aperto, su scala mondiale, un laboratorio politico nuovo, dagli esiti ancora poco visibili, ma forse aperti alla speranza di una rifondazione profonda della e delle democrazie. Qualche piccolo esperimento (la doppia tessera, appunto) potrebbe condurre, anche in Italia, in quella direzione. ❖

l’Unità 30.1.10
Gabriella: «Io, Emma e la guerra al Mostro»
Insegnante di Lettere, 30 anni fa fu alla guida del movimento antinuclearista «Quel giorno che la Bonino mi chiese di tenerle Aurora, la sua bambina...»
di P.S.P.

Me la ricordo Emma Bonino, eccome se me la ricordo. Era qui tutti i giorni, in prima fila, una donna umanamente ricca. Chissà se lei si ricorderà di me...». Gabriella Brandani oggi ha 62 anni, insegnante di Lettere in pensione, si occupa di ragazzi disabili. Trent’anni fa era una battagliera antinuclearista, non si fermava un attimo: marce, picchetti, manifestazioni, convegni. «Fu un bel periodo», ricorda con un po’ di nostalgia davanti al camino della sua casa di Montalto di Castro. «Emma era dei nostri, insieme a Gianni Mattioli, a Nicola Caracciolo. Pensi che una volta le tenni la bambina che aveva in affidamento, mi pare si chiamasse Aurora. Lei doveva discutere con l’Enel e non poteva portarsela dietro...».
Gabriella allora non aveva nemmeno trent’anni e una passione ambientalista nel cuore. «L’ho ereditata da mio padre che faceva l’amministratore di grandi aziende agricole. Aveva lavorato per i conti Vaselli a Castiglione in Teverina e poi qui per il marchese Guglielmi. Vivevamo tra il bosco e il mare. Ma devo essere sincera: all’inizio pensavo che quella centrale potesse anche far bene, qui non c’era un’industria e c’era bisogno di lavoro». Poi però iniziò il sospetto. Arrivarono i tenici dell’Enel, poi i politici. «Tutti che ci volevano convincere. Cominciai a vedere il lato fasullo». Gabriella cercò documenti, si informò. «Mi sono convinta che ci stavano violando», dice. Partirono le prime manifestazioni, i cortei, le notti sull’area dove sarebbe sorta la centrale. «Ma non solo, andavamo ovunque in giro per l’Italia racconta Dove si parlava di nucleare noi c’eravamo. E facevo delle cose pazzesche: si andava a Verona, si tornava alle quattro di mattina e alle otto in punto ero a scuola davanti ai miei studenti».
Il suo racconto torna spesso a Emma Bonino. «L’ho sentita molto vicina dice era una anticonformista e mi piaceva. Molto intelligente, era quella che riusciva a inquadrare meglio i problemi». Ma nel movimento c’erano anche altre “b” oltre a quella di Bonino. «Come no, ci chiamavano le tre b a noi: Blasi e Brevetti che erano due agricoltori e io, Brandani. Blasi era un personaggio straordinario. Aveva fatto la quinta elementare e però riusciva a mettere in imbarazzo tutti. Aveva buonsenso. Mi ricordo una riunione alla Regione a Roma. Lui intervenne e disse uno strafalcione. Quelli dell’Enel e del ministero risero e si diedero di gomito. Blasi non si perse d’animo. Li guardò negli occhi e disse: io sono un contadino, e voi invece parlate di risparmio energetico e qui ci sono le tende grosse alle finestre e le luci accese mentre fuori c’è un sole che spacca le pietre...».
Quella battaglia Gabriella e gli altri la vinsero. Loro sconfissero il Mostro. «Ci fu Chernobyl e la gente non si fidò più, aveva capito che ci avrebbero lasciati soli con i nostri drammi». Allora il movimento era davvero forte. Si presentò alle elezioni comunali e riuscì a ottenere quattro seggi. «Ho fatto il consiglieri per due legislature», racconta. Oggi che è in pensione il sindaco l’ha voluta alla presidenza della Fondazione Solidarietà e cultura e si occupa di ragazzi disabili. «Cerchiamo di farli stare bene. Fanno molte attività. Guardi, persino un giornalino scritto da loro...». E se tornasse la centrale? «La mia idea è sempre quella dice Gabriella Certo quel che ho fatto allora non sarei in grado di ripeterlo, ho trent’anni sulle spalle». Si ferma un attimo e con il tono misurato che le è proprio aggiunge: «Speriamo vinca la Bonino, io la conosco bene...».

Repubblica 30.1.10
Ancora tensioni per la candidatura Bonino. Ma lei reagisce: coi credenti molte battaglie comuni
E tra i cattolici del Pd cresce la paura "Bersani deve darci un segnale"
Castagnetti: un errore Emma con noi. Baio Dossi: se votassi a Roma sarei in difficoltà
di Giovanna Casadio

ROMA - E ora la Cei mette il sigillo sulla paura dei cattolici del Pd. Quel richiamo di monsignor Crociata di votare i politici che rispettano «la vita umana comunque si presenti e difendano la famiglia...», preoccupa. Rinfocola i malumori. Sembra ai cattolici che stanno nelle file democratiche - già segnati dalle fughe di Rutelli, Mosella, Calgaro verso il nuovo movimento Api e dagli addii di Lusetti, Carra e Bianchi per l´Udc - una sottolineatura con la matita blu degli errori compiuti, a cominciare dalla candidatura alla guida della Regione Lazio della radicale Emma Bonino, donna-simbolo delle battaglie per l´aborto, il divorzio, l´eutanasia.
Pier Luigi Castagnetti, ultimo segretario del Ppi, rincara le critiche già fatte nella direzione del partito: «La posizione della Cei non sorprende, ma Bonino è stata comunque un errore. Non c´è bisogno dell´appello della Cei. La Bonino è una scelta imbarazzante per una parte del nostro elettorato. Ci vuole un segnale, Bersani deve mostrare di avere a cuore il mondo cattolico. Se per salvare l´alleanza con l´Udc nel Lazio ci fosse stato proposto di votare Carlo Casini del Movimento per la vita, nel Pd ci sarebbe stata una sollevazione o no? Invece alla candidatura Bonino abbiamo aderito con una leggerezza disarmante. Inaccettabile che questo si consideri un fatto senza implicazioni».
Lei, Emma, ovviamente non ci sta. Nessuna sorpresa per l´ostilità della Cei: «Con l´establishment della Chiesa rapporti zero», ha ribadito in un´intervista all´Espresso. Dell´ostilità delle gerarchie ecclesiastiche, sa bene. Berlusconi del resto è andato a far visita al cardinale Camillo Ruini per parlare di Renata Polverini, la candidata del Pdl alla sfida laziale, della necessità dell´appoggio dell´Udc per evitare il «fatto clamoroso» di consegnare la regione dove risiede il Vaticano a una radicale. Ma Bonino aggiunge ora di non avere timori di perdere i consensi cattolici: «Con il mondo cattolico ho molti punti di contatto, battaglie comuni sull´immigrazione, le carceri, contro la pena di morte». Netta Rosy Bindi: «I vescovi sono per il rispetto della vita, anche degli immigrati». Ovvero, il Pdl non si appropri dell´insegnamento della Chiesa, non può farlo.
Avvenire, il quotidiano dei vescovi, ha dato quattro bacchettate al Pd sulla Bonino e «la deriva laicista». Se l´è presa persino con Franco Marini, il leader popolare, che alla leader radicale ha tirato invece la volata. Opera sua, tra l´altro, se a coordinare il comitato per Emma ci sarà Riccardo Milana, cattolico, di formazione democristiana. «Io non voto qui, ma sarei in difficoltà e capisco il disagio che la candidatura della Bonino scatena - ammette Emanuela Baio, popolare democratica - Il rischio è che ci sia un ripensamento tra i nostri elettori cattolici che si sentono irrilevanti. Quindi attenzione, perché il Pd così non regge». Però la Baio non minaccia esodi. Paola Binetti invece sì. Gigi Bobba, ex Acli, si dice saldo nel Pd. Beppe Fioroni, leader degli ex Ppi, non ci sta all´allarme: «Quello della Cei è l´appello di tutte le tornate elettorali. Nel Pd ci sono personaggi con la valigia, sembra che cerchino sempre la terra promessa, ma non vorrei puntassero a uno strapuntino al sole».

Repubblica Roma 30.1.10
La cattolica Di Liegro lancia la Bonino "Difende i deboli, è la persona giusta"
di Chiara Righetti

Pd romano, il saluto di Milana: "Scusatemi per gli errori". Miccoli pronto a subentrargli. Raggiunta l´intesa sulla lista civica

«Emma Bonino è la persona giusta». Un sì incondizionato alla candidata del centrosinistra è arrivato ieri da una fetta importante del mondo cattolico, rappresentata da Luigina Di Liegro, assessora regionale alle Politiche sociali. «È difficile in Italia», ha detto Di Liegro, «trovare politici con curricula come quello della Bonino, che si è sempre spesa per i diritti dei più deboli, dai condannati a morte alle vittime del genocidio in Ruanda, dalle donne afgane al Tibet e alla Bosnia». Nel giorno in cui il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, ha dato le "indicazioni di voto" dei vescovi, invitando gli elettori a «seguire i criteri che permettono di realizzare il bene più grande». Valori di riferimento? Dalla difesa della vita e della famiglia al lavoro e alla solidarietà. Criteri che, ha aggiunto Crociata, «non possono essere contrapposti».
Sarà la direzione regionale del Pd, lunedì, a dare mandato a Marco Miccoli di traghettare il partito romano fino al congresso di primavera. Lo prevede il documento approvato in tarda sera dalla direzione romana riunita al Nazareno. Miccoli, che ha incassato gli auguri di buon lavoro del capogruppo capitolino Marroni, ha posto la condizione che sul suo nome ci sia convergenza di tutte le correnti. «Non è un vezzo, abbiamo bisogno di un partito compatto: per vincere servono 100mila voti più del centrodestra e la differenza si fa a Roma», ha spiegato Miccoli, che probabilmente si farà affiancare da una squadra per garantire la massima collegialità. «Chiedo scusa per gli errori commessi e faccio appello al senso di responsabilità: i problemi ci sono ma ci unisce la volontà di vincere con le nostre idee», ha detto in apertura il coordinatore dimissionario Milana. E ha rivolto un appello a «ritrovare l´unità: per la Bonino dobbiamo essere non un peso ma un motore».
Intanto prende forza l´ipotesi che sia il presidente del consiglio regionale Bruno Astorre a guidare la lista Pd alle regionali; il governatore reggente Montino finirebbe direttamente nel listino, con un´ipotesi di vicepresidenza in caso di vittoria. Ed è arrivato in serata, dopo i dubbi degli ultimi giorni, l´accordo sulla lista civica che sosterrà Emma Bonino: si chiamerà "Lista civica - I cittadini per Bonino" e sarà, spiega il coordinatore Roberto Alagna, «il modo per raccogliere le forze de i cittadini che non si riconoscono nei partiti tradizionali». Ieri una delegazione dell´Alleanza per l´Italia ha consegnato al comitato elettorale un documento di programma su sanità, rifiuti, infrastrutture, riduzione delle Province. «Abbiamo avanzato - spiega Sandro Battisti - la candidatura Lanzillotta, ma se ci saranno risposte nel merito siamo pronti a discuterne».
Infine un piccolo giallo informatico: ieri i radicali Nicotra e Capriccioli avevano denunciato il caso "Kalle Blomkvist", internauta autore di molti messaggi sul web anti-Bonino inviati da un pc della Reti di Claudio Velardi, che di Renata Polverini cura la comunicazione. A svelare l´arcano in serata è Massimo Micucci, presidente di Reti Spa: «Kalle Blomkvist sono io ma delle mie idee, dei miei voti, dei miei computer e post decido io», spiega. Sottolinea che non tutta la "Reti" è coinvolta nella campagna pro-Polverini e conclude: «Questo non è il Partito radicale: è il Kgb de noantri».

l’Unità 30.1.10
Un professore, la scuola gli immigrati e il diritto di imparare

Ci scrive Sergio Kraisky, insegnante di italiano per stranieri: «Da quasi trent’anni insegno italiano agli stranieri in un Centro Territoriale Permanente di Roma (corsi statali). Nel dibattito sul razzismo tutti sembrano concordi almeno su un obiettivo minimo: la necessità di favorire l’integrazione degli immigrati che in Italia hanno già un lavoro. Tralasciando le tante ragioni della rivolta di Rosarno e le condizioni di schiavitù di fatto di molti immigrati, (...) viene da chiedersi: se tutti, come pare, concordano sulla necessità di favorire l’integrazione degli immigrati che qui in Italia hanno già un lavoro, perché si vuole ridurre drasticamente il numero di insegnanti di lingua italiana per gli stranieri? Non vanno forse dichiarando tutti, in particolare uomini politici che fanno parte della maggioranza di governo, che coloro che aspirano alla cittadinanza italiana, o anche solo a un permesso di soggiorno di lungo periodo, dovrebbero conoscere bene la nostra lingua? Sia in una logica di integrazione sia, come paradossalmente in una logica di esclusione, che senso ha un drastico ridimensionamento di questo settore della istruzione pubblica? O si pretende forse che immigrati che vivono nelle condizioni economiche che tutti conosciamo frequentino a spese loro scuole private di lingua italiana? E che dire dei ragazzi stranieri che affollano sempre più le nostre scuole medie e superiori e che hanno bisogno di un aiuto linguistico per poterle frequentare degnamente? Che la conoscenza della lingua italiana sia un pilastro fondamentale di una politica di integrazione è un fatto che rasenta l’ovvietà. Come insegnante che lavora da tanto tempo in questo settore mi auguro che alla fine logica e coerenza prevalgono».❖

il Fatto 30.1.10
La Lega nord: controlli psichiatrici su tutti i migranti in arrivo

“Sottoporre sistematicamente tutti gli immigrati ad esame sanitario e psichiatrico”. Sì non è uno scherzo. Forse neanche una provocazione. È la proposta della Lega nord del Trentino. La richiesta è contenuta in un’interrogazione al presidente della provincia di Trento Lorenzo Dellai e prende spunto dall’arresto nei giorni scorsi di un ragazzo di 17 anni algerino, accusato di tentata violenza sessuale nei confronti di una giovane donna trentina, e che si sarebbe poi reso protagonista di danneggiamenti nella cella del reparto detenuti all’ospedale S. Chiara e in atti di autolesionismo. “Quanto accaduto – si legge nell’interrogazione – dimostra senza ulteriori necessità di prova come tante, troppe volte gli
immigrati, legali e non, che giungono sul nostro territorio abbiano serie problematiche sanitarie e/o psichiatriche, con grave pericolo di contagio e/o di incolumità per tutti i malcapitati che dovessero venire in contatto”. Per questo motivo la Lega chiede di attuare nei confronti di tutti gli immigrati “sistematici controlli per appurarne l’esatto quadro clinico”.

il Fatto 30.1.10
L’immigrato vien dall’aria
Il governo combatte (a colpi di spot) le carrette del mare Ma quasi tutti gli extracomunitari arrivano con l’aereo
di Rosaria Talarico

Utilizzano canali legali, attraverso un visto rilasciato dalle ambasciate o dagli uffici consolari italiani

Non sempre il clandestino arriva per mare. Nella maggior parte dei casi, atterra comodamente all’aeroporto passando i controlli di frontiera. Infatti, al contrario di quello che si è portati a credere a furia di vedere in tv sbarchi di immigrati sulle coste italiane, il grosso dell’immigrazione clandestina utilizza canali legali, attraverso un regolare visto rilasciato dalle sedi delle ambasciate e degli uffici consolari italiani sparsi nel mondo. Il problema è particolarmente sentito nei paesi dell’Africa Subsahariana (Sudan, Ghana, Eritrea, Costa d’Avorio, Burkina Faso, etc.) da dove hanno origine molti flussi migratori. Quel che diverge sono le procedure adottate da paese a paese, che hanno diversi gradi di severità nel rilascio dei visti, soprattutto per quanto riguarda le verifiche dei ricongiungimenti familiari. In tema di immigrazione la legislazione italiana è la meno rigida sotto vari punti di vista. Ad esempio, in Germania i visti per lavoro subordinato vengono concessi solo se non si trovano lavoratori disponibili tedeschi o appartenenti ad un altro Stato dell’Unione europea. Inoltre per favorire l’integrazione, gli immigrati sono obbligati a seguire corsi di lingua e cultura tedesca. In caso contrario si perde il lavoro e la possibilità di ottenere la cittadinanza. In Italia, la legge Bossi-Fini ha più che altro contribuito a regolarizzare gli immigrati illegali già presenti nel paese. La legge poi, secondo i documenti interni del ministero degli Esteri che il Fatto Quotidiano ha potuto consultare, viene interpretata in vari modi, rendendo di fatto possibile l’ingresso di clandestini. Tra le cause: scarsità dei controlli, carenza di personale nelle ambasciate e mancanza di coordinamento tra i vari soggetti che si occupano di immigrazione (ministero dell’Interno in primis).
In Ghana, ad esempio, circa il 20 per cento di chi richiede il visto dichiara di aver smarrito il passaporto con cui era stato richiesto il nulla osta (documento senza il quale non si può ottenere il visto e che viene rilasciato dagli sportelli unici per l’immigrazione, gestiti dal ministero dell’Interno). In questi casi, è altissimo il rischio che si tratti di falsi o di scambi di persona. Anche per i ricongiungimenti familiari le differenze tra Italia ed Europa sono notevoli. Nel 2008 la Germania ha rifiutato il 60 per cento delle richieste di ricongiungimento familiare (a causa del diniego a sottoporsi all’esame del Dna). Inoltre anche parenti devono dimostrare di conoscere il tedesco. In Italia, dove la legge in vigore tutela per prima cosa il nucleo familiare, può avvenire che sia il tribunale (cui fa ricorso chi vede respingersi la richiesta) ad obbligare le ambasciate al rilascio dei visti. E ciò, si badi bene, anche in presenza di documenti falsi o di esame del Dna negativo.
Questo perché in Italia la patria potestà su minori viene concessa anche a persone diverse dai genitori legittimi, di fatto permettendo ricongiungimenti familiari “allargati” (128 mila nel 2008 e 113 mila nel 2009). Con conseguenze facilmente intuibili in termini di flussi migratori. In vari paesi europei inoltre viene richiesta una foto recente rispetto a quella del passaporto (specie se si tratta di minori) e vengono prese le impronte digitali, sempre per minimizzare il rischio di scambi di persona. Secondo i dati del ministero degli Esteri, il numero di visti è in costante aumento. Si è passati dagli 854 mila del 2002 a poco più di un milione e 500 mila del 2008.
Solo il 2009, a causa della crisi generalizzata, ha fatto registrare una leggera flessione: poco più di un milione e 400 mila. “Come si può rilevare, dal 2002 l’incremento è stato notevole – spiegano dalla Farnesina – e ha accompagnato il processo di internazionalizzazione del paese. La diminuzione dello scorso anno è dovuta essenzialmente alla crisi economica. Sono infatti calate le richieste di visti di corto soggiorno Schengen (soprattutto turismo ed affari), mentre sono rimasti stabili quelli di lungo soggiorno nazionali (come lavoro e ricongiungimento familiare)”. Altro capitolo è quello relativo ai visti concessi per lavoro subordinato. I dati sono in controtendenza e mostrano una crescita, nonostante la crisi.
I visti per lavoro subordinato sono stati 137.284 nel 2008 e 140.346 nel 2009. Anche qui è stato trovato un escamotage da parte degli immigrati, particolarmente attenti a individuare i Paesi con la legislazione più “morbida”. Il meccanismo è questo. Cittadini extracomunitari già residenti in Italia (perché sposati a italiani o perché in possesso della cittadinanza) “assumono” come collaboratori domestici loro conoscenti o familiari del paese di origine, che con questo pretesto possono così richiedere il visto e raggiungerli.
Vista la natura fittizia del rapporto di lavoro, dovrebbero quindi essere rimpatriati. Ma una volta arrivati in Italia, ormai è fatta. Dal ministero degli Esteri segnalano che spesso la responsabilità è degli sportelli per l’immigrazione del ministero dell’Interno che concedono i nulla osta.
A quel punto gli uffici delle ambasciate non possono fare altro che prenderne atto. Le statistiche dell’area Schengen (di cui fanno parte 28 paesi, anche non aderenti all’Unione) mostrano un aumento delle richieste di visto da parte di gruppi artistici e folcloristici. Anche in questo caso, il “rischio migratorio” collegato è molto alto. E a quali uffici arrivano il maggior numero di richieste? Francia e, naturalmente, Italia.

il Fatto 30.1.10
Tutti i burqa che rivelano l’Europa
di Alessandro Cisilin

In Francia la “liberté” è una religione, sicché i ventilati divieti verso (presunti) simboli confessionali fanno più rumore che altrove. Ma sono diversi i paesi europei che riflettono sul velo integrale con animate sessioni parlamentari e dichiarazioni stampa. L'esito normativo, quasi ovunque, è peraltro finora vicino allo zero, come del resto lo è la percentuale delle musulmane che lo portano. A indossare il burqa, ovvero la “maschera” afgana, o il niqab saudita è infatti un’esigua minoranza, quantificabile nelle poche migliaia in tutto il Vecchio Continente. E a ben vedere, a dispetto di preconcetti Fallaci, di minoranza si tratta anche nell’intero universo musulmano in Asia e Africa, anche perché il Corano suggerisce qualche forma di velo a fini protettivi e non certo l’oscuramento integrale del mondo femminile. Più rilevante ancora, l'Islam non è un monolite ideologico, tant’è che, mentre l'Europa è arrivata a realizzare in passato un “Sacro Impero”, nessun leader islamico si è mai neppure avvicinato all’utopia di un Califfato unitario. A essere divisi sul burqa sono quindi anzitutto i musulmani, con una netta maggioranza degli europei, imam compresi – a cominciare proprio da francesi e italiani che non disdegnano il divieto, tant’è che lo applicano di fatto nelle proprie moschee. La “maschera” d’altronde non rivela l’irrompere dell’Islam bensì la sopravvivenza di alcune tradizioni asiatiche pre-musulmane, sicché non si capisce perché, fuori da fondamentalismi e speculari islamofobie, bisogni ancora tirare per la giacca il vecchio Maometto. E che tale bisogno sia vano è ribadito dal fatto che molte normative europee – compresa una legge italiana del ’75 – prevedano già il divieto di coprirsi il volto in luoghi pubblici sulla base di ragioni di ordine pubblico. “Non basta – spiegano i concitati discussants – il problema non è solo di difendere la sicurezza ma anche la nostra identità, a cominciare dall’emancipazione femminile”. Naturalmente si omette di prender atto che di veli alle donne, seppur non integrali, l’Europa è stata zeppa e lo è ancora in molte regioni mediterranee. E men che meno si riflette sui contenuti odierni della presunta emancipazione che, in alcune carriere (inclusa ora in Italia la politica), impone alle donne l’obbligo opposto di mostrare il massimo possibile di centimetri di pelle. Il tema è solo un altro, è l’Islam presunto, a cominciare da quel simbolo che, in alcuni contesti, è effettivamente strumento di grave oppressione. E se Parigi ha istituito una commissione parlamentare che ne ha dibattuto per sei mesi con centinaia di audizioni, raccomandando infine il divieto, il Parlamento olandese lo aveva proposto già cinque anni fa; ma il governo ha poi deciso di non far nulla, prendendo atto che il fenomeno è talmente esiguo che una norma suonerebbe come un’inutile costrizione col rischio di aggravare il conservatorismo religioso. Per lo stesso motivo la Danimarca ha cestinato il settembre scorso una bozza analoga. Addirittura il Regno Unito, dopo la “raccomandazione” emessa in Francia, ha preso le distanze con una nota ufficiale di Downing Street, che rivendicava: ”Qui siamo a nostro agio con la libera espressione delle convinzioni, qualunque esse siano”. E anche il Belgio, dove peraltro alcune amministrazioni locali già richiedono la “visibilità” in alcune strutture pubbliche, l’ipotesi di generalizzare il no al burqa all’intero spazio esterno alle mura domestiche suona inconcepibile, non foss’altro per la prossimità con la Corte europea dei diritti dell’uomo, che potrebbe bocciare la misura, ritenendola avversa proprio al principio di “libertà”.
Gli schieramenti del dibattito sono trasversali, e se solitamente è la destra a rilanciare il divieto, in Austria lo ipotizzano i socialisti. Facile previsione: terminato il periodo elettorale (che coinvolge tra l’altro i francesi come gli italiani), dei rarissimi burqa d’Europa non si parlerà più.

l’Unità 30.1.10
Lo Ior e il Vaticano
risponde Luigi Cancrini

Non posso fare a meno di ringraziare Margherita Hack che a «Otto e mezzo» ci ha ricordato che in Italia oggi comanda un Vaticano che, francamente, non mi pare intenzionato a diffondere il messaggio evangelico sull’eguaglianza degli uomini, ma quello più redditizio del profitto economico.
Silvana Stefanelli

RISPOSTA In «Qualunque cosa succeda» (Sironi editore), dedicato alla memoria di suo padre Giorgio, Umberto Ambrosoli ha lucidamente ricostruito l’imbroglio che Sindona aveva organizzato ai danni del nostro paese. C’erano, con lui, la Democrazia Cristiana di Andreotti e lo Ior, la banca del Vaticano legata alla P2 che tanta parte ha avuto nella vicenda politica italiana del secondo dopoguerra. Margherita Hack fa bene a ripeterlo, c’è una continuità impressionante fra quello che accadeva allora e quello che accade oggi che a capo del Governo c’è un uomo che nella P2 ha iniziato la sua carriera. Di lui infatti il Vaticano (che la rappresenta ma, per fortuna, non è la Chiesa) ha sfacciatamente auspicato e favorito (scendendo in capo col Family Day) il ritorno al potere. Continuando a godere senza problemi di coscienza i frutti di questo appoggio: la spregiudicatezza della finanza tanto cara agli uomini (o ai prelati) dello Ior, la tutela degli insegnanti di religione nominati dai Vescovi nella scuola pubblica e la difesa di leggi (l’ultima è il testamento biologico) ipocritamente confessionali. Come con la Dc di Sindona.

il Fatto 30.1.10
Per chi vota la Cei
di Stefano Feltri

Da giorni si capiva che nel mondo cattolico c’era un certo fermento per decidere chi votare alle regionali. Ieri ci ha pensato monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, a chiarirlo (un po’): “Non possiamo contrapporre i valori alle responsabilità sociali”. La lista delle caratteristiche richieste al candidato ideale è abbastanza precisa: deve difendere la vita “in qualunque forma si presenti”, la famiglia fondata sul matrimonio, promuovere la solidarietà. Che in pratica significa che non si deve votare per Emma Bonino nel Lazio e, nelle altre regioni, si può scegliere tra Pdl e Udc.
Visti i complessi equilibri tra il partito di Silvio Berlusconi e quello di Pier Ferdinando Casini, è però decisivo capire su chi punta la Cei. Ieri mattina Crociata ha detto: “Le nostre statistiche dimostrano che le percentuali di criminalità di italiani e stranieri sono analoghe, se non identiche”. Una replica a Berlusconi che potrebbe sembrare a qualcuno un implicito invito a votare Udc. Eppure è stato notato dai vaticanisti un certo attivismo nei giorni scorsi di Camillo Ruini, ex presidente della Cei, che si è recato anche dal Papa a discutere degli equilibri di potere tra vescovi e Vaticano. Ruini ha sempre sostenuto che non si doveva spingere per avere un forte partito cattolico, ma per avere cattolici in posizioni di forza, uno schieramento trasversale al centrodestra (e in parte al Pd) con le stesse idee su bioetica e politiche sociali.
Una linea fallimentare, al momento, visto che l’unico “cattolico” (inteso in senso ruiniano) del governo, il sottosegretario Eugenia Roccella è al momento nel limbo, non più sottosegretario al Welfare e non ancora sottosegretario alla Salute (manca la conferma della delega). Consapevole di questa ambiguità delle indicazioni di voto dei vescovi e del fatto che in Puglia potrebbe nascere la nuova alleanza con il Pdl (ritirando all’ultimo Adriana Poli Bortone), il leader dell’Udc Casini inizia a mandare messaggi di distensione, per far capire che non si pone in contrapposizione a Berlusconi. Ieri, da Bologna, ha lanciato l’appello a governo e Pd per “una grande riforma della giustizia” da discutere dopo le regionali. Anche il sindaco di Roma Gianni Alemanno, Pdl, propone una “assemblea costituente” dopo le elezioni.

l’Unità 30.1.10
L’embrione può attendere
Niente ricerca su quelli congelati né analisi su quelli da impiantare. Lo sostiene una commissione ministeriale ignorando il parere di scienziati, giudici e Oms
di Carlo Flamigni

Il Comitato Nazionale di Bioetica sta facendo “scuola” e adesso le commissioni che i vari ministeri promuovono per discutere i problemi della bioetica funzionano un po’ come un tribunale, un po’ come un parlamento: “questo è vero, questo è falso, ed è vero o falso perché la maggioranza ha votato così e la maggioranza ha sempre ragione”. In realtà, ci sarebbero molti motivi per dire questa è una sciocchezza, ma bisogna avere pazienza, prima o poi questo sconcio finirà. Intanto accade che un ministro cattolico nomina una commissione nella quale i laici sono solo due (gli altri, cattolici o pinzochere laiche, sono in genere un centinaio) e la commissione pubblica il documento di maggioranza, che diventa la verità; i due laici hanno diritto a pubblicare un codicillo che non leggerà nessuno. In ogni caso sarà passata l’idea che in materia di morale la scelta la fanno le maggioranze, anche quelle fasulle come nel nostro caso. Un obbrobrio.
Ho sotto gli occhi un documento intitolato «Relazione di studio sugli embrioni crioconservati nei centri di Procreazione medicalmente assistita (Pma). Relazione finale approvata l’8 gennaio del 2010». Il documento non è stato ancora reso pubblico, ma è certamente autentico, anche se mi è arrivato, credo per un errore, dal mio vecchio Ospedale: con il ministero non ho rapporti civili. Non ci sono nomi, ma conoscendo bene l’ambiente, potrei dirvi rigo per rigo chi ha scritto questo e chi ha scritto quello. È del tutto inutile, non lo farò.
Naturalmente il documento da per scontato che “l’embrione è uno di noi”, a nessuno è venuto in mente che solo dal mondo cattolico ci arrivano una decina di differenti ipotesi sull’inizio della vita personale, ma la scelta è ormai evidentemente questa: se non parli di una cosa quella cosa non esiste. Mi permetto di rilevare che questa scelta è poco seria, spero che i relatori non vogliano accreditarsi come scienziati, troppa gente si rivolterebbe nella tomba e per quest’anno abbiamo già avuto abbastanza terremoti. Il documento comunque ammette, obtorto collo, che la Corte Costituzionale ha praticamente legittimato il congelamento degli embrioni, e si lamenta per “l’affievolimento” della tutela del prodotto del concepimento. Ignora tutte le recenti decisioni della Magistratura e dichiara che è sempre consentita solo la valutazione osservazionale, mai quella genetica, ignorando che per l’embrione la diagnosi osservazionale non serve praticamente a niente, la sua utilità si limita all’analisi degli zigoti (ma non c’era uno straccio di biologo tra i commissari?). Chiede poi una serie di modifiche e di accorgimenti di nessun conto per concludere che l’embrione congelato deve restare lì, ad aspettare, e che – udite udite – la rinuncia eventuale dei genitori non può mai essere considerata definitiva e che l’obbligo di impianto non può mai venire meno (e qui mi piacerebbe molto sapere cosa ne penserebbe la Magistratura). Poi, non sapendo come punire i medici che fanno queste brutte cose, consiglia di addebitare a loro i costi del congelamento.
È difficile accettare l’idea che queste persone siano in buona fede. Sulla obbligatorietà dell’impianto si è discusso per anni, ormai, e tutti sanno che la norma della legge 40 che la prescrive è imperfetta (cioè non conta assolutamente niente) perché non prevede alcuna sanzione per chi non la rispetta. Faccio poi fatica a immaginare che i commissari non leggano i giornali e non si rendano conto che tribunali di mezza Italia hanno autorizzato la diagnosi genetica preimpiantatoria in circostanze molto diverse, e persino quando la coppia non è sterile. Ci sarebbero molte altre cose da commentare, mi limito a sottolineare l’ennesimo autogol sulla presunta azione eugenetica della selezione di embrioni: sarebbe ora che le persone che sbrodolano questi autorevoli nonsensi si leggessero un po’ di letteratura in proposito. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ad esempio, l’eugenetica corrisponde a «una politica di coercizione che intenda favorire un proposito riproduttivo contro i diritti, la libertà e le scelte dell’individuo attraverso leggi, regolamenti, incentivi positivi e negativi, inclusi quelli che rendono meno accessibili certi servizi medici. Secondo questa definizione, non rappresenta una scelta eugenetica la scelta di un individuo o di una famiglia di avere un bambino sano». Insomma, e qui cerco di adattarmi al linguaggio puerile che da qualche tempo distingue soprattutto le nostre sottosegretarie, è come dire “chi lo dice lo è, l’eugenetica la fai te”. No so dire se la sicumera incolta dei commissari mi faccia più rabbia o compassione.
Per fortuna il codicillo che riporta l’opinione dissenziente dei due membri laici (dei quali faccio il nome, sono Amedeo Santosuosso e Carlo Alberto Redi) ribadisce molto bene questi principi, è scritto con grande competenza e spiega anche perché gli embrioni congelati e abbandonati debbano essere utilizzati a scopo di ricerca e soprattutto per la produzione di cellule staminali.
C’è anche un codicillo aggiuntivo ipercattolico che dice cose in effetti molto bislacche, ma di questo non vi parlo perché non vi voglio rovinare il divertimento. Posso dire solo che non ho mai riso tanto da quando ho imparato a leggere (e sono più di 70 anni). ❖

l’Unità 30.1.10
Nelle carceri segrete dove non ci sono diritti e la tortura è la regola
Guantanamo e non solo. L’illegalità di Stato è diffusa contro oppositori o presunti terroristi. Dito puntato anche sull’Europa, che avrebbe dato informazioni o nascosto atti illegali di manipolazione giudiziaria
di Umberto De Giovannangeli

Un rapporto esplosivo per un tema scottante. Un pool di quattro giuristi indipendenti che lavora per mesi, accumulando un dossier ponderoso, arricchito da testimonianze e interviste di ex detenuti. Il rapporto verrà presentato a marzo al Consiglio dell’Onu per i diritti umani. L’Unità ha potuto a prendere visione dell’ultima bozza. Una cosa è certa: quel rapporto è destinato a scatenare polemiche e denunce. Per ciò che contiene e per il tema che affronta: le carceri segrete. Oltre Guantanamo, oltre Abu Ghraib, oltre le prigioni afghane controllate dalla Cia e dalla polizia militare Usa. Il rapporto Onu è un viaggio nell’illegalità di Stato; un viaggio agli inferi. Dove tutto è permesso in nome della «guerra al terrorismo». Luoghi dove le convenzioni internazionali sono parole vuote, lettera morta, e la tortura è la regola. Luoghi che possono inghiottire come un buco nero.
Carceri segrete, torture, abusi... Una pratica che accomuna Stati democratici e regimi autoritari, realizzando alleanze impensabili, unendo Asia e Africa, America e Medio Oriente. Il rapporto chiama in causa pesantemente gli Stati Uniti. L’accusa è circostanziata: gli Usa sono tra i Paesi che hanno rapito e detenuto presunti terroristi in carceri segrete negli ultimi nove anni violando i diritti umani. Una situazione che non ha subito sostanziali modifiche nel corso del primo anno della presidenza Obama. Che, peraltro, ha deciso la chiusura di Guantanamo (posticipandola però al 2011); ma non ha deciso la chiusura del campo di prigionia di Bagram, presso una base aerea a nord di Kabul, in Afghanistan. Qui sarebbero ospitati in pessime condizioni circa 600 detenuti, la maggior parte dei quali afghani, anche se il governo americano continua a rifiutare qualsiasi informazione sulla loro identità. Nel dossier si sottolinea che anche Algeria, Cina, Egitto, India, Iran, Russia, Sudan, Zimbabwe, Thailandia, Etiopia, detengono sospetti terroristi o esponenti dell’opposizione in luoghi segreti.
La guerra al terrorismo avviata dall’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha generato, secondo gli autori del rapporto, la creazione progressiva «ma determinata di un vasto sistema coordinato di detenzioni segrete di sospettati, coinvolgendo non solo le autorità statunitensi ma anche altri governi in quasi tutte le regioni del mondo».
Oltre agli Usa, accusati di avere carceri segrete in Iraq e in Afghanistan e ai Paesi sopra indicati, il rapporto chiama in causa anche Gran Bretagna, Italia e Germania per aver nascosto atti illegali di manipolazione giudiziaria, o ancora Paesi come Canada, Croazia, Indonesia o Kenya accusati di aver fornito informazioni o partecipato ad arresti di sospettati prima del loro trasferimento verso centri di detenzione segreti. In riferimento all’Europa, il rapporto richiama la denuncia contenuta nel dossier «State of denial: Europe’s role in renditions and secret detention», pubblicato nel giugno 2008 da Amnesty International. Quel rapporto gettava una luce inquietante sul coinvolgimento degli Stati membri dell’Unione nelle attività di lotta al terrorismo guidate dagli Usai che «fanno uso spesso di detenzioni che violano i diritti fondamentali dell’uomo».
Quando non si tratta di coinvolgimento diretto, che spesso si realizza con la partecipazione attiva di agenti dell’intelligence europea negli interrogatori o nell’apertura di carceri segrete nei territori dei diversi stati membri, i Paesi dell’Ue sono colpevoli di non ammettere che il problema esiste, o di non diffondere la dovuta informazione. Gli stessi spazi aerei europei, e spesso gli aeroporti sottolineava Amnesty sono messi a completa disposizione della Cia.
Quello delle prigioni illegali anti-terrorismo «resta un problema serio», rimarcano i quattro autori indipendenti del rapporto Onu, basato fra l’altro su interviste a 30 ex-detenuti. Il rapporto conferma che lo scopo delle carceri segrete è quello di consentire il ricorso alla tortura e ad altri trattamenti degradanti o disumani utilizzati da nazisti, sovietici e dittatori latinoamericani ma banditi dalla Convenzione di Ginevra. Centri di detenzione segreti sono stati individuati in Thailandia, Romania, Polonia, Marocco e Afghanistan. Il rapporto, inoltre, fa riferimento alle conclusioni raggiunte lo scorso dicembre da una commissione d’inchiesta nominata dal Parlamento lituano che ha riconosciuto che nel Paese baltico sono state create almeno due carceri segrete per la «guerra al terrore» condotta dalla Cia. L’inchiesta sulle attività dell’agenzia di spionaggio Usa in Lituania aveva preso avvio da notizie apparse sulla stampa statunitense nell’agosto 2009. Ora è emerso che le prigioni Cia erano almeno due, una operativa già nel 2002 e l’altra dal 2004. Erano organizzate e gestite dalla centrale Cia di Francoforte in Germania, che aveva anche la responsabilità per centri detentivi simili in Romania, Polonia, Marocco e forse Ucraina.
Il dossier Onu conferma e sviluppa, nel capitolo-Cina, quanto denunciato da Human Rights Watch. Le carceri segrete sono in ostelli di proprietà dello Stato, in ospizi per anziani, in ospedali psichiatrici. Le carceri segrete sono state create dalle autorità locali, con il consenso delle forze di sicurezza, per sbarazzarsi dei cittadini che presentano rimostranze nei confronti della gestione amministrativa; contadini che arrivano in città per denunciare soprusi, corruzione dei funzionari pubblici, torture della polizia. Testimoni riferiscono che nelle «carceri nere» finiscono anche minori.
Il rapporto che il Consiglio per i Diritti umani dell’Onu discuterà a marzo ridà attualità a dossier inquietanti come «Ending Secret Detention», stilato nel 2004 da Human Rights First, Basandosi sulle testimonianze di varie fonti, Hrf ne aveva localizzati nove in Iraq, sette in Afghanistan, uno in Pakistan (a Kohat), un altro alla base Usa di Diego Garcia nell’Oceano Indiano, uno in Giordania (ad Al-Jafr, centro speciale per gli interrogatori gestito dalla Cia). Sei anni dopo, resta il mistero su questi come altri «buchi neri». La «guerra al terrorismo» post 11-settembre è anche questo. Il rapporto stilato dai quattro esperti di diritti umani dell’Onu lo denuncia condannandolo come un crimine contro l’umanità. A marzo ne discuteranno i membri del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite; tra questi, il rappresentante degli Stati Uniti nominato da Obama. Per il Presidente dei diritti e della legalità sarà un impegnativo banco di prova per sancire che il fine la «guerra al terrorismo» non giustifica l’uso dei mezzi più illeciti, e disumani, per praticare l’obiettivo.

il Fatto 30.1.10
Giorno della Memoria. Sul treno con gli studenti
Auschwitz, i ragazzi che non sanno
Il dolore obbligatorio
di Silvia Truzzi

NONOSTANTE l'elettrochoc a corpi e anime, il dolore non arriva. Almeno non subito: aspetti una lacrima, almeno una, cerchi di ascoltare ma niente. La sofferenza non si in-segna e non si induce, nemmeno se stai nel luogo simbolo del male, dove si cammina a venti gradi sotto zero sopra il cimitero di ossa più grande del mondo, Birkenau. E il senso di colpa per sentire più freddo che dolore non va via.
GITA E DESTINO
Il treno della memoria è partito puntuale lunedì pomeriggio dalla stazione di Carpi, da dove iniziò anche il viaggio di Primo Levi e di tutti i catturati smistati nel campo di Fossoli. Negli scompartimenti ci sono 580 studenti delle scuole superiori della provincia di Modena, accompagnati dagli insegnanti e dagli ospiti: gli storici Costantino Di Sante e Carlo Saletti, gli scrittori Carlo Lucarelli e Paolo Nori, i musicisti Vinicio Capossela, Cisco, il gruppo dei Rio. Non è l’Orient Express, è un treno misero che avrà almeno vent’anni con l’elettricità che salta, alcuni scompartimenti senza riscaldamento e pezzi di sedili di simil pelle che si staccano. Ma è vietato lamentarsi, chi viaggiava su queste rotaie non aveva solo freddo, fame e sete: stava per perdere molto più della vita. Quindi oggi nessuno fiata, perché tutti hanno dentro l’inadeguatezza, sei solo un essere umano davanti al manifesto mondiale della malvagità. Due ragazzi si domandano ad alta voce: “Oh, ma come facevano a non morire di freddo gli ebrei?”. Risposta: “Vivevano”. Citazione inconsapevole di Vasilij Grossman, che in Vita e destino fa dire a una madre ebrea nell’ultima lettera al figlio: Vivi, vivi, vivi. Vivi per sempre. C’è un vagone per i bagagli con la neve dentro e bisogna attraversarlo per andare alla carrozza ristoro, il posto dove ci s’incontra, ci si scalda con il caffè bollente preparato dai ragaz-zi del Fuori orario di Gattatico, si ascolta chi ha studiato e sa, si canta. Gli studenti sono in gita scolastica e si vede. Le gite scolastiche non cambiano mai, da Pupi Avati fin qui, in un trionfo di magliette improbabili, mazzi di carte, iPod, sms, moon boot, improvvisi scoppi di risate e noiosi rimproveri dei prof. Il treno fa mille fermate anche se non deve caricare nessuno, fuori sfilano centinaia di chilometri di bianco a perdita d’occhio. Naturalmente la notte è interminabile e senza sonno, o quasi. Non solo per la cuccetta.
VERGOGNA AL MUSEO
Ad Auschwitz è il Giorno della Memoria, nel 65esimo anniversario della liberazione del campo: corone, capi di Stato, visite ufficiali, centinaia di persone, lingue diverse che si mischiano ora come allora. L’insegna Il lavoro rende liberi è finta perché quella originale la stanno restaurando: l’abbiamo vista mille volte, come i binari del campo di sterminio. Tante volte che adesso non sappiamo se stiamo guardando un film sul lager o il lager. Si attraversa Arbeit macht frei con l’auricolare nelle orecchie e una voce che spiega geografie, morti, numeri, treni, come si organizza uno sterminio. La visita ad Auschwitz 1, il campo di lavoro, inizia presto. Qui c’è il museo, dove è stato raccolto tutto quanto è sopravvissuto. La guida “parlante italiano” fa una gran fatica, nello slalom tra gruppi che si stipano nelle baracche. Il tour nella prigione del campo si svolge ordinatamente e in fretta, con sinistra efficienza: “Ecco la cella dove morì padre Kolbe, che offrì la sua vita al posto di un altro prigioniero. State sulla sinistra per favore. Più avanti le prigioni dove i detenuti venivano internati e costretti a stare in piedi, guardate il crocifisso inciso con le unghie. Non sostate troppo a lungo. Signori, seguitemi al muro delle fucilazioni”. Al block 4 le stanze sono piene di avanzi di esistenze. Sono foto conosciute e adesso oggetti in una teca trasparente. Due tonnellate di trecce e code, vicino uno scampolo di stoffa e una didascalia: tessuto prodotto con capelli umani. Poi mucchi di scodelle per la zuppa, valigie e calzature. Nella teca delle scarpe dei bambini ce n’è una bianca e un po’ rotta che si fa vedere più delle altre, forse perché è lunga pochi centimetri ed è la misura di un morto minuscolo. Uno dei 240mila passati per questi camini, come i bimbi zingari di Mengele, ritratti nudi, niente sotto la pelle, spaventati prima dell’iniezione di fenolo nel cuore. I ragazzi dell’Iti si vergognano un po’ perché avevano detto loro che sarebbe stato sconvolgente e invece stanno bene. Carlo Lucarelli è una delle guide dei sottogruppi ed è bravissimo: sembra di vedere una puntata di Blu notte e gli studenti stanno lì a bocca aperta. Nel corridoio immagini di donne e uomini appena arrivati, immatricolati, rasati, ma ancora in forze. Sulle didascalie ci sono la data di nascita, di arrivo e morte. E dalle facce s’indovina, in un quiz macabro, quanto sarebbero durati. Troppo sgomenti o vecchi per sopravvivere più di un mese, ancora in forze per lavorare almeno un anno. Hanno occhi che si sovrappongono, increduli e intimoriti, comunque altrove. Padre Wrosoz Ceslaw, classe 1917, internato il 4 settembre 1941 e morto il 5 febbraio 1942, è tra i pochissimi che spara gli occhi nella camera e dice guardami. Giulia da Modena sta davanti a lui fin che può, prima che la sua prof la vada a recuperare perché gli altri sono già altrove.
PALLE DI NEVE A BIRKENAU
All’ingresso del campo inventato per la soluzione finale c’è la security, si sta in fila in attesa di poter entrare. I polacchi sono alti e grossi, non esattamente cordiali. Una delegazione di francesi ci precede: sono i “militanti della memoria”, i figli dei deportati. Birkenau vuol dire “paese delle betulle” e infatti è un posto bellissimo, anche se è ricoperto di ghiaccio. Tre bambini giocano a palle di neve, e allora ci si domanda: si può giocare dove si moriva, si può ridere dove si torturava? E’ un dubbio che resta, ma non è la retorica o la forma che conservano la memoria sottovuoto e preservano dal “non deve succedere più”. Sfilano le delegazioni e le televisioni, le corone e gli striscioni, ci sono fuochi ai bordi del sentiero perché il freddo paralizza. Ognuno bada a sopravvivere: ci si maledice per aver prestato un paio di calzini e si bada più a non perdere i guanti che a guardare. Il sole sta pericolosamente andando via mentre iniziano le celebrazioni, che hanno le stesse parole di sempre: dovere del ricordo, pietà per i morti di una morte e di una vita inumane. Qui sotto c’è una falda acquifera, spiega il professor Saletti a un capannello di coraggiosi, e nelle stagioni piovose l’acqua fa risalire le ossa. “E allora si vede l’erba luccicare e tutti pensano sia rugiada, ma sono frammenti di ossa che risalgono. Così accade il paradosso della memoria: i pellegrini camminano sulle ossa degli uomini che Hitler voleva annientare e così distruggono anche quel che resta di loro”. Ma si viene qui il 27 gennaio, forse perché il gelo disumano produce empatia, che però è solo una parte della comprensione. Se non funziona il cervello, il cuore non basta a capire.
Ai lati del campo ci sono le baracche di legno degli internati: le conosciamo già perché abbiamo visto molti film ambientati qui. All’ingresso è quasi impossibile trattenere un segno della croce che non ha spiegazioni: omaggio, rispetto, compassione, scusateci. Il sole entra dalle finestre e disegna ombre colorate di rosso. Una ragazzina di Carpi scavalcando l’apparecchio ai denti, dice: “Sembra la luce di quando si torna da sciare”. Infatti è la stessa
e non c’è niente di sbagliato in questa frase con il sorriso metallico.
MONDINE ROCKSTAR
Quasi ogni minuto della visita è programmato. Anche la sveglia, ore 6 e trenta con la tv che si accende o il telefono che suona. Dopo cena ci sono le attività, laboratori di scrittura, conferenze e concerti. Al cinema di Cracovia, la sera della musica inizia con Vinicio Capossela. Un recital di voce roca e profonda, interpretazione intelligente, sofisticata e compiaciuta di musica e testi: da Primo Levi il deportato a Celine l’antisemita. Quando Cisco sale sul palco con il tamburo scalda i ragazzi, stanchi e intimoriti dall’esibizione di Capossela, comunque conclusa con le parole di Ovunque proteggi: Mi spiace se ho peccato, mi spiace se ho sbagliato. Se non ci sono stato, se non sono tornato. “Ovunque proteggi, proteggimi nel male. Ovunque proteggi la grazia del tuo cuore”. Non sono passati dieci secondi dall’inizio di Cento passi, dedicata a Peppino Impastato, che Cisco è già sudato e la platea scatenata: “Si sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore”. Poi salgono sul palco le mondine di Novi di Modena. Le ragazze canterine, età media sui sessanta, volate fin qui gonnone di velluto, scarpe da nonna, le mani rovinate dall’acqua e dal lavoro, una forza difficile da descrivere per portare i canti degli ultimi. “Siamo lavoratori ... siam le proletarie sfruttate”. E una poesia: “Abbiamo fatto un mazzetto di riso, perché quello che sappiamo fare, con il gelo e la cenere. La lotta noi l’abbiamo vissuta e ora tocca a voi, che siete il futuro”. Il finale è Bella ciao in versione risaia (“Il capo in piedi col suo bastone o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao, il capo in piedi col suo bastone e noi curve a lavorare”), poi quella del fiore del partigiano morto per la libertà. Tutto il cinema in piedi ad applaudire e un coro da stadio traslocato e tradotto per l’occasione: la mondina, una di noi. Finalmente sciolti. Al bar dell’hotel si affollano birre, shot di vodka e domande. Gli studenti di Modena sequestrano Cisco e i Rio per un discorso sulla felicità, che va da Schopenhauer ai lager, dallo scopo della vita fino a Dio, a dov’era Dio mentre tutto questo e molto altro accadeva. A come soffrire per qualcosa di mostruoso ma successo tanto tempo fa. Se bisogna capire o emozionarsi. Alle tre non ci sono risposte. Domani è ancora Birkenau, un giorno meno affollato di oggi, di fiaccole e silenzi. E forse la tregua del più desiderato tra i dolori.

Repubblica 30.1.10
La favolosa storia del trattato sui profeti bugiardi
di Adriano Prosperi

Minois ripercorre la leggenda del celebre testo su Gesù, Mosè e Maometto Un´opera contro la religione, prima immaginata poi scritta per davvero

Questa è la storia di un libro maledetto e desiderato, temuto e accanitamente ricercato: un libro che prima di diventare reale fu piuttosto una fantasia, una testa senza corpo, un embrione di libro. All´inizio ci fu un´idea, un titolo: i tre impostori. Ma che titolo: i tre impostori erano Mosé, Gesù Cristo e Maometto. E l´idea era quella di attribuire l´origine delle tre religioni monoteistiche mediterranee all´impostura dei fondatori. Come quell´embrione sia nato e si sia sviluppato lo racconta Georges Minois (Il libro maledetto. La storia straordinaria del Trattato dei tre profeti impostori, Rizzoli, traduzione di Sara Arena, pagg. 320, euro 17,50).
Minois è uno storico abituato a scavare nei sedimenti dell´immaginario religioso. Sue sono tra l´altro una storia del diavolo e una storia dell´inferno. Lo zolfo d´inferno circola anche in questa storia. Da lì affiorano le ombre di Federico II di Svevia e del suo ministro Pier delle Vigne, convinti - secondo l´accusa di papa Gregorio IX (1239) - che il mondo intero fosse stato ingannato da tre impostori, Gesù Cristo, Mosé e Maometto.
In quell´inferno la tradizione cristiana collocò anche Averroè. A lui, un infedele e dunque un comodo capro espiatorio, fu attribuita la tesi che le tre religioni monoteistiche fossero state fondate da tre imbroglioni.
L´idea che la storia dell´uomo e del mondo raccontata dalle tre religioni fosse frutto di un´abile mistificazione poteva nascere solo in quel bacino del Mediterraneo dove tre monoteismi si scontravano con l´insanabile odio di un rapporto fraterno. Ma perché si pensasse alla religione come impostura e inganno deliberato era stato necessario il contributo dell´intelligenza greca e della sapienza politica romana. Erodoto aveva raccontato l´inganno di un fondatore di religione, lo schiavo trace di Pitagora, Salmoxis. E Tito Livio aveva descritto i finti convegni notturni di Numa Pompilio con la ninfa Egeria. Il poema di Lucrezio aveva accusato la religione di fondarsi sulla paura. E fu dalla lettura di Lucrezio e di Tito Livio e dall´esperienza dei tempi suoi che Niccolò Machiavelli ricavò le sue osservazioni sulla funzione della religione per il potere politico e per la forza dello stato.
Intanto con le scoperte geografiche la comparazione tra religioni si allargava a scala mondiale; e con la comparazione si sviluppava la capacità di critica e di relativizzazione e la tendenza a considerare la religione - ogni religione - una creazione umana, modellabile con la forza e con l´astuzia. E il libro dei tre impostori? La convinzione della sua esistenza condivideva con la fede in Dio delle religioni positive un carattere comune: era sostanza di cose sperate, terrore di cose temute. Finché a un certo punto ci fu chi lo scrisse davvero. Ma tutta questa storia, dalla lunghissima gestazione alla nascita, ha ancora lati oscuri e passaggi incerti su cui si affaticano gli studiosi: il che contribuisce a conferirle il fascino che appartiene alle cose nascoste, ai sogni e alle immaginazioni.
La violenza dei dispositivi di chiese e stati obbligava al nascondimento e nello stesso tempo aggiungeva forza di argomenti a chi parlava di impostura. Fu allora che la figura dell´ateo cessò di essere uno spauracchio apologetico e prese corpo e caratteri moderni. E fu con gli apporti dei libertini eruditi, di Hobbes e soprattutto di Spinoza che venne lievitando l´idea centrale di quel libro: che intanto, detestato e ricercato, dichiarato esistente senza essere visto, restava come avvolto nell´alone di quella che era la sua materia: l´impostura. Quando prese corpo in stampe e non in una ma in più versioni, una in latino e una in francese, fu per opera delle correnti dell´Illuminismo radicale, decise a voltar pagina rispetto a una cultura elitaria che non riteneva il popolo capace di tollerare la verità.
La versione su cui giustamente Minois si concentra comparve all´Aia nel 1719 dall´editore Levier. E il lettore curioso potrà verificare sull´eccellente edizione che del testo da lei scoperto ha pubblicato Silvia Berti (Trattato dei tre impostori, Einaudi, 1994) se è vero, come scrive Minois, che quel trattato è deludente: di più, se è vero che all´epoca in cui comparve avesse perduto la sua forza dirompente. Una cosa è certa: non c´è l´inferno in quelle pagine, non vi sono le sulfuree empietà su cui avevano speculato trafficanti e stampatori. Al loro posto c´è una ferma fiducia nella retta ragione, «la sola luce che l´uomo deve seguire». E c´è in più un salto rivoluzionario rispetto ai tempi delle cabale segrete e dei libertini eruditi: la convinzione «che il popolo non è così incapace di fare uso /della ragione / come si cerca di fargli credere». Era finita un´epoca, un´altra cominciava che ancora non è finita.

Repubblica 30.1.10
Il "Popolo Viola" scende in 120 piazze sit-in per difendere la Costituzione
di Alessia Gallone, Anna Rita Cillis

Nel "copione" testi di Calamandrei, Pertini e Dossetti. "Serve un nuovo patriottismo"
Tam tam online anche all´estero. "Qui a Parigi alle 14 tutti alla Piramide davanti al Louvre"

MILANO - A Roma, in piazza Santi Apostoli, leggeranno anche quelli che chiamano "frammenti di pensiero patriottico": il discorso di Calamandrei, le lettere dei condannati a morte dal nazifascismo, spezzoni di frasi di Pertini e Dossetti. A Milano, invece, gli articoli della Costituzione risuoneranno in piazza Mercanti, a due passi dal Duomo e dallo shopping del sabato pomeriggio in centro. A Parma e Palermo si sfilerà in corteo, a Torino sarà allestito un palco in piazza Castello. A Firenze l´appuntamento è davanti alla prefettura, il luogo prescelto da molte altre città. Perché dopo il "No-B day" dello scorso 5 dicembre, il Popolo Viola torna in piazza. Lo fa oggi con sit-in in difesa della Costituzione. E un´onda che, annunciano gli organizzatori, non si limiterà a colorare Roma, ma raggiungerà «120 città italiane e sei capitali internazionali». Da Londra a San Francisco, da Hong Kong fino a Parigi, da dove è partito un annuncio in Rete: «Ci troviamo alle 14 di fronte alla Piramide del Louvre: portate il vostro articolo della Costituzione preferito, amici e parenti... ».
Anche questa volta, l´appello è stato lanciato da Internet, con le adesioni raccolte via Facebook e i blog. Per proteggere e difendere la Costituzione «di fronte all´ennesimo tentativo di saccheggiarla che si concretizza principalmente nelle manovre del governo per garantire impunità a Berlusconi a partire dal nuovo Lodo Alfano e nei proclami di qualche ministro che chiede addirittura la cancellazione dell´articolo 1». A differenza della manifestazione di dicembre che, ricorda Fausto Renzi del coordinamento milanese del Popolo Viola - ha avuto l´effetto di mobilitare oltre un milione di persone», però, la scelta è stata quella di moltiplicare le iniziative in tutta Italia. Con un elenco che, dice Gianfranco Mascia, «si è allungato di ora in ora fino a raggiungere 120 città».
Per tutti gli orologi si sincronizzeranno alle 18: il momento clou della giornata quando - anche attraverso collegamenti - partirà uno stesso grido: «Berlusconi dimissioni!». Ogni città, però, ha provato a declinare in diversi modo il richiamo. Partendo da alcune indicazioni di base: organizzare se possibile i sit-in di fronte alle prefetture e durante il pomeriggio. A unire idealmente le piazze che parteciperanno (un elenco è sul sito http://30gennaio2010.wordpress.com) sarà la lettura degli articoli della Carta che, in molti casi, verrà anche distribuita. Il raduno di Roma in piazza Santi Apostoli accoglie una sfida in più: trasformarsi in happening scandito da parole, musica e un po´ di ironia. Si parte alle 15 con un reading. «Siamo riusciti ad avere la collaborazione di molti attori di teatro», spiega Sara De Santis, 31 anni, del comitato romano. E tra le voci, magari tanti riconosceranno quella di Alessandro Quarta, il doppiatore di Topolino e di Ethan Hawke in "L´attimo fuggente».
Oltre alle adesioni "dal basso" ci saranno esponenti politici. Il leader dell´Italia dei Valori Antonio Di Pietro parteciperà all´appuntamento milanese e attacca: «Il ministro Brunetta vuole cambiare l´articolo 1 perché, secondo lui, non vuole dire niente che una Repubblica sia fondata sul lavoro. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, sotto dettatura di Berlusconi, prova sistematicamente a stravolgere l´articolo 3 sull´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge». In piazza scenderà anche la Federazione della Sinistra e Sinistra Ecologia e Libertà.
Libertà e Giustizia sarà presente a molti sit-in (da Roma a Milano, da Firenze a Bologna) con le bandiere e gli striscioni dell´associazione. Proprio nel giorno in cui, al collegio Ghislieri di Pavia, parte la sua scuola di formazione politica con le lezioni sulla Costituzione di Gustavo Zagrebelsky e Valerio Onida. I due presidenti emeriti della Corte Costituzionale, attraverso l´associazione, si sono fatti promotori di una legge di iniziativa popolare perché il 2 giugno sia proclamata non solo festa della Repubblica, ma anche della Costituzione. Tra le adesioni alla giornata anche il comitato "Salviamo la Costituzione" di cui è presidente Oscar Luigi Scalfaro, Paolo Flores D´Arcais e la rivista Micromega, Articolo 21, gli Amici di Beppe Grillo, Dario Fo, Franca Rame e Moni Ovadia.

Santi Apostoli, il popolo viola torna in piazza in difesa della Costituzione
Anna Rita Cillis

Scenderanno nuovamente in piazza, ma questa volta per un sit in in difesa della Costituzione. A Roma, come in altre cento città, il popolo viola torna oggi a manifestare e lo fa davanti alle prefetture, per "proteggere" la carta fondamentale, come spiegano gli organizzatori. Quattro ore, dalle 15 alle 19, in piazza Santi Apostoli, dove un palco accoglierà i tanti artisti che hanno aderito all´evento.
Un appuntamento - come la manifestazione del 5 dicembre organizzato esclusivamente utilizzando facebook e i blog - nato per rimarcare che «in questo momento il pericolo per la Costituzione è reale: il primo articolo ad esempio - dicono dal comitato promotore - recita che l´Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ma non è cosi: il nostro Paese, oggi, è fondato sulla disoccupazione e sul precariato». In più, racconta il popolo viola, l´idea di mettere in piedi questo raduno nasce anche dalla necessità di «ricordare che se è vero che legge è uguale per tutti bisogna allora che noi diciamo un no fermo al processo breve e al legittimo sospetto».
Nella Capitale, oggi, il sit in avrà come snodo centrale la partecipazione di molti volti noti che leggeranno e commenteranno articoli della Carta. In più saranno allestiti tre stand dove si potranno ritirare i certificati di "sana e robusta costituzione". Alle 16 il via agli eventi lo daranno il magistrato Domenico Gallo e il giornalista e scrittore Curzio Maltese. A loro è affidata "l´interpretazione" di alcuni articoli della Carta democratica.
A seguire per "Storie di un´idea: memorie costituzionali a voce alta" che prevede anche in questo caso letture "costituzionali" che saranno inframmezzate da alcuni pensieri patriottici espressi da Antonio Gramsci, Sandro Pertini, Ferruccio Parri e da altri padri fondatori della nostra Repubblica si alterneranno sul palco per dar corpo alla performance quattro attori e il gruppo "Voci del deserto". Mentre alle 18 è previsto uno stop per «dare voce al nostro malcontento: un urlo liberatorio si libererà in contemporanea in tutte le città - conclude il popolo viola - e la frase sarà per tutti la stessa: "Berlusconi, dimissioni!"».

il Riformista 30.1.10
La posta di Zoro
Il tassinaro pugliese che vota a destra ha scelto Vendola
di Diego Bianchi

Caro Diego, ho visto che sei stato in Puglia nei giorni delle primarie. Che impressioni hai avuto una volta sul posto? Era prevedibile un risultato del genere?
Circolo Pd Tanto A Poco
Sì, un risultato del genere era prevedibile, era nelle cose, nei fatti, nelle facce delle persone che non vedevano l’ora di votare, anche e forse soprattutto in quelle di chi sosteneva Boccia, anche in quella di Boccia stesso. Non ci voleva molto, davvero sarebbero bastate poche ore di iniziative elettorali per respirare l’aria che tirava e ossigenarsene. Mai come stavolta, e sì che di precedenti anche recenti ce ne sono stati, chi guida il Pd è stato tanto lontano da chi il Pd lo vota, da chi fa sempre più fatica a capire la differenza che passa tra voglia di contare nella società e voglia di contarsi sulla carta preventivamente per poi scoprire di aver fatto male i conti. Non so cosa succederà a marzo, nessuno può saperlo ora, ma di certo c’è che chi ha votato Vendola, al di là della propria preferenza partitica, è convinto di vincere anche a marzo, e di convincere chi, se dovesse seguire i propri leader di riferimento, sulla carta non dovrebbe votarlo. Che poi fare politica dovrebbe essere soprattutto questo, riuscire a convincere delle tue ragioni, preferibilmente sulla base dei fatti, chi non la pensa come te. Il tassinaro che lunedì m’accompagnava all’aeroporto di Bari ascoltava eccitato le notizie sulla vittoria di Vendola alla radio, gasandosi per le imbarazzanti percentuali. Lui aveva votato Vendola il giorno prima, alle regionali di cinque anni fa, alle primarie di cinque anni fa, e rivoterà Vendola a marzo 2010. Per il resto, ci ha tenuto a dirmi, vota Fini, Alleanza Nazionale prima, Pdl poi. A lui dei partiti interessa poco. Valuta le persone, i fatti, le ripercussioni sul suo lavoro, sulla sua vita, sulla sua città. E come lui molti altri. Il bello è che il merito di tutto ciò (di una giunta che per i suoi cittadini ha ben operato) è anche e per certi versi soprattutto del Pd-Pds (che di quella giunta ha fatto parte). Roba da andarne fieri e orgogliosi per molto, se solo il Pd fosse un partito normale.
Ma tu che l’hai visto da vicino, davvero Vendola è così bravo e ammaliatore? Davvero è il nuovo leader della sinistra?
Circolo Pd Verfo Fud
Vendola è sempre stato così fin da quando era dirigente della Fgci nazionale e io m’arrabattavo in quella romana. In un contesto quale quello italiano dove sono tutti leader per qualche minuto, è giusto che Vendola lo sia almeno per qualche ora. Ambizioso e presuntuoso il giusto, capace e sognatore, forse pure troppo, Vendola è un istrione, tecnicamente impressionante nell’arte dell’oratoria. Sabato sera ha parlato in piazza per circa un’ora e un quarto senza gobbo, senza appunti, senza niente di niente, a braccio, ispiratissimo, melodrammatico e battutista, sicurissimo di sé. C’è il pericolo che venga travolto dall’autostima, che si autodivori, che si convinca un giorno di essere
politicamente autosufficiente. Ma occorre avere fiducia, in lui e soprattutto nel suo popolo. Che non aspettava altro che un politico che lo stesse ad ascoltare trattandolo alla pari. Se l’ego di Vendola esondasse travolgendo tutto, allora sì, quasi senza accorgersene, Nichi potrebbe rimanere solo davvero. Per ora il rischio mi pare ancora lontano.
Caro Zoro, cosa ne pensi dell’ultima uscita di Chiamparino che si è detto disponibile a collaborare per un nuovo soggetto politico all’indomani del risultato delle regionali?
Circolo Pd Ritardante
Come il caso pugliese dimostra, più gli eventi politici sono prevedibili più fanno incazzare. L’uscita di Chiamparino era tanto prevedibile che alla Snai rifiutavano le puntate. Spesso mi capita di sentire o leggere l’analisi che segue: quando si candidò Prodi in realtà avrebbe dovuto farlo Veltroni ma preferì aspettare, quando si candidò Veltroni era il turno di Bersani che preferì aspettare, quando si è candidato Bersani era il momento perfetto per Chiamparino che, pure lui, ha preferito aspettare. Ecco, se il coraggio circolasse in dosi maggiori presso i vertici del Pd, non saremmo in costante ritardo di leadership rispetto alle
potenzialità delle leadership in questione. E forse, ad aver azzeccato i tempi giusti, è plausibile pure che avremmo potuto fare a meno di cambiarne così tante in così poco tempo. Per quanto riguarda il “nuovo soggetto politico”, va tutto bene, purché continui a chiamarsi Pd e non si perda nuovamente tempo con l’arte dell’onomastica e del trasloco. In questi anni di scatole ne abbiamo fatte di ogni forma e dimensione.
Sarebbe il caso di cominciare a riempirle.
Scusa Zoro, ma tu hai capito alla fine cosa sarebbe meglio che accadesse in Puglia e nel Lazio a marzo? Dovessero vincere Vendola e Bonino, per il Pd sarebbe una vittoria o una sconfitta?
Circolo Pd Gufidem
La situazione è talmente paradossale e confusa da far sì che una domanda del genere sia pertinente. Purtroppo le scorie del congresso sono ancora molto ingombranti e in troppi si stanno sedendo sulla sponda del fiume aspettando marzo. Cosa ognuno auspichi di veder passare nel fiume è materia da psicanalisi. Paradossalmente Bersani e D’Alema, per non passare per sempre come coloro che ne sanno di Puglia come di Groenlandia, dovrebbero sperare in una sconfitta di Vendola. Per veder riconosciuta la visionarietà della loro strategia d’alleanze, dovrebbero tifare anche contro la Bonino. Contro Vendola e Bonino dovrebbero andare anche i pensieri inconfessabili dei veltronianfranceschiniani nel caso avessero in animo di attaccarsi subito ad un fallimento elettorale dell’attuale segreteria. Se invece Vendola e Bonino dovessero vincere, a denti stretti dovrebbero esultare tutti, masticando comunque amaro. I primi per aver toppato ogni strategia, i secondi per il culo dei primi.

The Lancet, Volume 375, Issue 9712, Page 348, 30 January 2010
Complicity in the abuse of patients

Few doctors are unaware of the notorious cases of torture or degrading treatment by members of their profession, such as those that came to light during the Nuremberg trial of Nazi physicians (1946—47). More recently, the involvement of physicians in interrogations at the Guantanamo Bay detention facility has received high-profile coverage and condemnation. But the ill-treatment of individuals does not only occur in conflict situations or in prisons. In fact, doctors' complicity in torture and cruel, inhumane, or degrading treatment is commonplace in health-care settings in several nations, according to the 2010 World Reportby Human Rights Watch (HRW), which has the abuse of patients as one of its main themes.
The report describes several cases in which patients have been harmed by health providers, often, but not always, because of abusive state laws. For example, in Iraqi Kurdistan, health providers do, and promote misinformation about, female genital mutilation. In Egypt, government physicians do forcible anal examinations of men suspected of homosexual activity. In Libya and Jordan, doctors do tests of the virginity of women and girls without their consent. And in China and Cambodia, doctors withhold evidence-based treatment for drug dependency and withdrawal.
The HRW report calls for these practices to be recognised as forms of abuse, and to be condemned and combated. Such inhumane treatment—the very antithesis of good medical care—requires a strong response from the medical profession. Professional bodies must speak out against government policies that force doctors to betray ethical principles such as the Hippocratic Oath. Medical regulators need to pursue cases in which doctors have been involved in unethical practice. And medical educators should ensure that their students learn from past and present day atrocities in which health providers have been complicit.
It is the medical profession's collective failure in a post-Nuremberg world that the abuse of patients and detainees still occurs today. Such immoral practices will continue to flourish if doctors' organisations, professional bodies, and medical educators remain silent.

The Lancet, Volume 375, Issue 9712, Page 372, 30 January 2010
Did mass privatisation really increase post-communist mortality?
John S Earle, Scott Gehlbach

David Stuckler and colleagues1 claim that mass privatisation of enterprises was “a crucial determinant of differences in adult mortality trends in post-communist countries”. We attempted to replicate their results and found that the relationship is not robust. Here we summarise our findings, which are expanded in a webappendix. Because Stuckler and colleagues do not find a positive correlation between privatisation and mortality in central and eastern Europe, but only in the former Soviet Union, we focus on the latter set of countries.
In our replication we carried out three simple checks. First, by examining the data used by Stuckler and colleagues, we found inconsistencies between the published description of their dummy variable measuring “implementation of mass privatisation”—one of two privatisation measures used in the paper—and the coding of this variable. We therefore created a new variable coded precisely as described in the article (“a jump from 1 to 3 on the EBRD large-scale privatisation index”), and we re-estimated Stuckler and colleagues' model using this corrected measure. Second, because an instantaneous effect of privatisation on mortality is implausible, we re-estimated the model assuming short lags (1 or 2 years) between policy changes and mortality. Third, we controlled for differences across countries in long-term mortality trends, a common statistical method (indeed, one used by Stuckler and colleagues in other work2).
The results, shown in the table, demonstrate that any one of these changes substantially weakens the positive correlation between privatisation and mortality reported by Stuckler and colleagues, and a combination of any two changes eliminates it entirely. Indeed, the estimated effect of privatisation on mortality is negative when assuming 2-year lags and controlling for trends. Although the correct functional form is unknown, one could as easily conclude that privatisation lowered as raised mortality in the former Soviet Union.

Cross-country mortality regressions on Stuckler and colleagues' sample of countries in the former Soviet Union
















Each cell of the table reports the estimated effect of privatisation on the log working-age male mortality rate from a separate regression. Privatisation is measured in three alternative ways: first column, as a dummy variable for mass privatisation coded by Stuckler and colleagues; second column, as the average of the European Bank for Reconstruction and Development (EBRD) indices for large-scale and small-scale privatisation; and third column, as a dummy variable for mass privatisation recoded precisely following the description in Stuckler and colleagues. With the exception of the privatisation measure in the third column, data are identical to those in Stuckler and colleagues. Specifications are identical but for the specific changes noted in the table. In parentheses, p values calculated from heteroskedasticity-robust standard errors.

venerdì 29 gennaio 2010

l’Unità 29.1.10
Vendola e Bonino subito nel Pd
La presenza dei due candidati esterni regala l’immagine di un partito aperto e in movimento E allora cosa aspettano Emma e Nichi ad entrare?
di Luigi Manconi

Condivido all’80% (poco più, poco meno) il programma politico di Nichi Vendola. Analogamente devono pensarla quei tantissimi elettori del Partito democratico che hanno votato per lui alle primarie di domenica scorsa. Ne consegue una domanda: ma cosa aspetta Vendola a entrare nel Pd? A pieno titolo, con pari dignità e con quanti, oggi in Sinistra Ecologia e Libertà, vorranno seguirlo (la stragrande maggioranza, immagino). E, infatti, che senso ha voler preservare ancora, e a tutti i costi, l’autonomia organizzativa di un partitino del 2-3%? Tanto più in presenza di uno scarto così ampio tra la capacità di attrazione delle tematiche che lo connotano e del leader che lo rappresenta, quel partitino, e l’esiguità dei consensi elettorali. Da tempo, pongo lo stesso quesito ai Radicali, dei quali – come si dice – mi onoro di essere un militante e un dirigente, senza ottenere risposte che mi soddisfino.
Le vicende più recenti – ovvero proprio la cosiddetta “imposizione” al Pd di due candidati esterni, come Emma Bonino e Vendola – hanno rafforzato la mia convinzione, inducendomi a dare una lettura di quanto accaduto esattamente opposta a quella corrente. Sia chiaro. Non mi sfuggono i moltissimi limiti di un partito come il Pd, “costretto” a candidare leader di altre formazioni: ma ritengo prevalente la novità positiva che questa vicenda segnala. Ovvero quella di un Partito democratico aperto, permeabile, in movimento. E capace di trasformarsi. Qualcuno tradurrà tutto ciò nell’allarme per la debolezza di un Pd che si rivelerebbe “infiltrabile” e “conquistabile”, ma a parte l’ovvia battuta (chi vuoi che se lo pigli, un partito così sciamannato?), c’è da riflettere su quale sia oggi la posta in gioco: l’oggetto del contendere, in senso proprio (ovvero l’oggetto della conquista). Le primarie pugliesi e i consensi raccolti dalla Bonino dicono che l’elettorato non è rigidamente ripartito per nicchie più o meno ampie, puntualmente corrispondenti ad altrettanti coerenti e compatte visioni del mondo e conseguenti programmi politici. E tutte le analisi dei flussi elettorali confermano che una quota assai estesa di elettorato indirizza il proprio consenso, di volta in volta, verso l’una o l’altra formazione del centro sinistra (Pd, SeL, Federazione della sinistra, IdV e, non stupitevi, Udc). Perfino io, che vedo l’IdV come il fumo negli occhi (e un po’ peggio), devo riconoscere che a questo partito vanno voti di elettori che pure considero a me affini. E questo vale per l’intero campo del centro sinistra. Esemplifico in termini un po’ brutali: c’è tanta “destra” in Sinistra Ecologia e Libertà quanta “sinistra” nel Pd. (Se volete vi preparo degli appositi test per verificarlo). Se questo è vero, non riesco a vedere il successo delle “autocandidature” di quei due leader, all’interno di coalizioni guidate dal Pd, come un atto di “prepotenza” della Bonino e di Vendola e nemmeno di subalternità dei democratici nei confronti di quest’ultimi. Mi piace immaginarlo, invece, come l’esito del ricorso, al “paradigma del judo” da parte del Pd, magari per necessità. La natura del judo è come quella dell’acqua: si adatta al terreno, scivola e si ritrae per poter di nuovo avanzare; è una tecnica di azione che – diversamente da altre arti marziali – non si affida alla forza propria, ma all’iniziativa altrui; ne asseconda le mosse e lo slancio (della Bonino e di Vendola); non oppone resistenza irriducibile al gesto dell’altro, ma fa di esso una leva per la propria azione. Nel nostro caso, il Pd piuttosto che respingere l’iniziativa dei due leader in questione, rivendicando la propria indipendenza, ha ceduto – sia pure riottosamente – alla pressione proveniente dall’esterno, l’ha accolta, fino a farla propria e ora se ne può giovare come di una risorsa comune.
Mi rendo conto che questa mia è una versione estremamente benevola e ottimista di un processo che può essere presentato in termini esattamente opposti (e così viene fatto, in modo ossessivo da tutti i media, non solo quelli ostili). Ma questa mia interpretazione non nasce – vi prego di credermi – dall’ingenuità: è vero, piuttosto, che talvolta in politica (e non solo in politica) il realismo può essere la più innocente e saggia delle astuzie.
P.s.
Ho detto di condividere all’80% il programma di Vendola ma devo dire che trovo insopportabile il suo linguaggio (e, poi, quella gramsciana «connessione sentimentale col popolo», evocata a Ballarò e ai telegiornali, in piazza e, immagino, in taxi e all’Upim, sul lungomare Araldo di Crollalanza e in pizzeria...). Ma, considerato come scrivo e parlo io, pazienterò. In nome della Causa.❖

l’Unità 29.1.10
Sul treno della memoria
di Carlo Lucarelli

Come ormai da cinque anni in questi giorni mi ritrovo in Polonia, ad Auschwitz, con gli studenti e gli ospiti del treno della memoria organizzato dalla Fondazione ex campo di concentramento di Fossoli e dalla Provincia di Modena. Sono qua tutte le volte per un motivo ben preciso: perché so che “ricordare” è un verbo, una parola che indica un’azione, e anche molto dinamica. Un’azione che non si limita soltanto a “ricordarsi di ricordare”, come succede con gli anniversari e le feste comandate, ma che si attua, si prolunga nel tempo e produce qualcosa. Come tutte le azioni forti e concrete, insomma, ha conseguenze. Determina quello che succede dopo.
Sul treno che porta ad Auschwitz assieme a più di seicento studenti già preparati dagli insegnanti prima di partire ci sono un sacco di attività, c’è lo scrittore Paolo Nori, ci sono i musicisti Vinicio Capossela, Cisco e i Rio con Marco Ligabue, ci sono gli storici Costantino Di Sante e Carlo Saletti, ci sono testimoni come Eugenio Itzhak Cuomo e ci sono anch’io. Questo atto di ricordare produce prima, durante e dopo, incontri, laboratori, dibattiti, concerti e spettacoli, e se abbiamo fatto tutti bene il nostro mestiere produce nei ragazzi e anche in noi pensieri, emozioni, riflessioni e nuove consapevolezze.
Insomma: conseguenze.
Per questo, tutte le volte che sto per partire e qualcuno mi chiede se ne valga la pena, se i Giorni della Memoria servano a qualcosa, se ricordare sia utile io penso alle conseguenze che certe cose fatte in un certo modo producono nelle persone e determinano così il loro e anche il nostro futuro. Che poi è il motto di questo viaggio: diamo alla memoria un futuro.
Per cui rispondo che sì, vale pena, è utile e serve.❖

l’Unità 29.1.10
Carfagna la Lega e il caso francese
Vietare il burqa non aiuta a liberare le donne
di Vittoria Franco

Burqa e niqab sono “contrari ai valori della Repubblica”. Così si legge nel documento della commissione parlamentare francese che ha suggerito di vietare alle donne di indossarli nei luoghi e nei servizi pubblici. Da noi hanno applaudito soprattutto esponenti della Lega e pochi altri, compresa la ministra Carfagna che è partita all’attacco nel nome della liberazione delle donne. La questione può essere letta da vari punti di vista e portare a conclusioni diverse. Per questo credo che anche negli ambienti più laici e liberali la questione meriti una riflessione approfondita.
Primo punto fermo per me è che il burqa è una prigione, una forma violenta di sopraffazione maschile, un modo per annientare la personalità della donna, per farla scomparire, nasconderla, negarle l’identità. È certo che rappresenta una tradizione e che ha poco a che fare con la religione. Nel mondo occidentale certamente essa contrasta coi principi dell’eguaglianza e della pari dignità fra uomini e donne. Ma io sono convinta che la scelta del divieto per legge sia sbagliata perché non aiuterebbe le donne nell’emancipazione. Anzi, ne rafforzerebbe la segregazione all’interno della famiglia. L’uomo che obbliga la moglie al burqa sarebbe così facilmente disposto a concederle di uscire senza?
Il paragone con la situazione francese tiene fino a un certo punto. La Francia ha una legge sulla laicità da più di un secolo, nel 2004 ne è passata un’altra che vieta di indossare simboli religiosi a scuola, il termine laicità compare nella Costituzione. In Italia, dove peraltro non mi risulta che l’uso del burqa sia così diffuso, la laicità e la libertà femminile non sono proprio gli elementi più condivisi e sostenuti nella destra. Allora, il problema non esiste? Certo che esiste; ma la via, che non ha alternative, e che trovo più efficace è quella di utilizzare tutte le norme già esistenti, come la legge del 1975 che prescrive di essere e identificabili nei luoghi pubblici e affidare il resto a ulteriori regolamenti della Pubblica amministrazione. Tra l’altro, c’è da sottolineare che una legge di divieto non avrebbe senso senza una sanzione (alcune proposte prevedono addirittura l’arresto!), che in questo caso sarebbe doppiamente punitiva nei confronti delle donne. I comportamenti delle giovani, che arrivano a ribellarsi alle famiglie tradizionali, purtroppo talvolta anche a costo della vita, sono la prova che si può lavorare su un processo intelligente di integrazione che comprenda le donne e il loro bisogno di liberazione. Occorre puntare sull’educazione anche degli uomini, sul dialogo con l’associazionismo islamico e sulla scuola, con regole certe su diritti e doveri delle persone immigrate. Ma prima di tutto bisogna abbandonare la cultura della demonizzazione degli immigrati e avere comportamenti più inclusivi. ❖

il Fatto 29.1.10
Alle scuole lombarde piace il tetto per i bimbi stranieri
Prima rigida applicazione della circolare del ministro Gelmini
di Corrado Giustiniani

Altro che escludere gli alunni stranieri nati in Italia dal tetto del 30 per cento, come Mariastella Gelmini ha garantito nella famosa intervista televisiva del 10 gennaio. La Lombardia fa spallucce e si attiene alla circolare ministeriale. E, anzi, la inasprisce. E a Roma, nelle scuole dell’infanzia, che come tali dipendono dal comune e non dal ministero, l’assessore alle Politiche scolastiche, Laura Marsilio, impone un tetto di cinque bambini stranieri per classe. Possibilmente dello stesso gruppo linguistico. Intanto non si trova traccia, nei piani che contano del ministero dell’Istruzione, dei 20 milioni di euro che la Gelmini ha promesso in tv per accompagnare l’operazione tetto, mentre viene scartata l’ipotesi di una nuova circolare correttiva, dopo le parole del ministro. Tutto questo mentre il 27 febbraio scadrà il termine per iscrivere a scuola gli alunni delle elementari e delle medie.
In Lombardia, il direttore generale scolastico Giuseppe Colosio, nella circolare “regionale” con cui ha recepito quella spedita l’8 gennaio dal ministro precisa che “il numero degli alunni stranieri non può eccedere il 30 per cento degli iscritti in ciascuna classe”. E che “deroghe in aumento o in diminuzione rispetto al limite stabilito potranno essere autorizzate dall’ufficio scrivente in casi eccezionali, debitamente documentati”. La circolare del ministro concedeva invece la possibilità di alzare il tetto “in presenza di adeguate competenze linguistiche” senza parlare di eccezionalità. Quanto ai nati in Italia, è molto significativa la dichiarazione resa dall’assessore romano Marsilio: “Quando parliamo di bambini stranieri parliamo di bambini che non hanno la cittadinanza italiana in base alle norme vigenti. Dunque anche quelli nati in Italia. E sbaglia chi dice che il ministro Gelmini non applica il tetto ai nati in Italia: questa sì che è una forzatura”. Se non fosse che il protagonista della forzatura è il ministro in persona, che in tv dice una cosa, e poi nella circolare ne fa scrivere un’altra.
Del misterioso fondo da 20 milioni di euro hanno chiesto conto, in un’interpellanza urgente al governo, le deputate del Pd Maria Letizia De Torre e Maria Coscia. Deludente la risposta, affidata al sottosegretario Giuseppe Pizza, perché a quei soldi Pizza non ha fatto alcun riferimento. “Sono solo poche centinaia le scuole italiane in cui si supera la citata quota del 30 per cento – ha precisato nella replica Maria Coscia – e per queste andrebbe realizzato un progetto specifico di accompagnamento”. Che invece non c’è. Di qui “il nostro rammarico per le risposte che abbiamo avuto”. In un clima di incertezza applicativa, a meno di un mese dalla scadenza per le iscrizioni, anche gli altri uffici regionali stanno ultimando le loro circolari. La regione Veneto, però, ha appena annunciato un piano sperimentale che partirà dalle superiori di Vicenza: tre giorni in classe con tutti gli altri ragazzi e tre a perfezionare l’italiano. Mentre a Bologna comune e provincia hanno detto “no” al tetto della Gelmini. Piombano come macigni, intanto, le parole di Simonetta Salacone,
direttrice della scuola elementare romana Iqbal Masih: “Il tetto è uno spot ideologico. Non ci si può limitare a quello, se attorno non si costruisce niente. In alcuni piccoli paesi della Bassa padana diverse
scuole dovranno chiudere. Ed è una follia applicarlo alle scuole dell’infanzia, dove i bimbi imparano velocemente l’italiano e anzi diventano mediatori degli adulti”.

il Fatto 29.1.10
Delinquono più degli altri? I numeri non lo dicono
Le Acli: le poltiche del governo sull’immigrazione sono schizofreniche
di Elisa Battistini

Il principale reato che compiono gli stranieri è quello di esistere. E non avere le “carte in regola”. Il 70% degli stranieri denunciati è, infatti, irregolare. E tra questi, l’87,2% ha semplicemente violato la legge Bossi-Fini. Ovvero circa tre stranieri su quattro sono criminali per essenza, per il semplice fatto di essere entrati in Italia senza un lavoro, o un permesso per studio o per turismo. Ma, vale la pena di ricordarlo, sono moltissimi gli immigrati che entrano in Italia con un permesso per turismo, e scaduto il quale restano sul territorio e diventano irregolari. Quindi criminali. Gli immigrati regolari, al contrario, non delinquono molto più degli italiani e, soprattutto, non esiste correlazione tra l’aumento degli immigrati e l’aumento dei reati in Italia. I dati del Dossier statistico Caritas-Migrantes parlano chiaro. Tra il 2001 e il 2005, mentre gli stranieri sono raddoppiati, le denunce nei loro confronti sono aumentate del 46%. Mentre gli italiani che delinquono sono lo 0,75% della popolazione, gli stranieri che delinquono sono circa l’1,3% del totale. Ma gli stranieri aumentano, in proporzione, molto di più degli italiani. Gli immigrati ultra 40enni compiono invece meno reati dei loro coetanei italiani: 0,5% contro il “nostro” 0,65%. Interessante, poi, vedere quali reati commettono gli immigrati. Compiono il 60,8% dei reati legati alla riproduzione abusiva di audiovisivi, il 40% dei furti, e il 34% dei reati di spaccio e traffico di stupefacenti. Mentre sono autori del 3% delle rapine in banca (il 97% dei rapinatori evidentemente è italiano) e il 5,8% di loro evade il fisco. Materia in cui spiccano maggiormente gli onesti autoctoni.
E proprio nella giornata in cui Berlusconi dipinge gli immigrati come criminali, le Acli intervengono per mettere il dito in un’altra piaga. “Le politiche del governo sono totalmente schizofreniche”, dice il responsabile immigrazione dell’Acli, Antonio Russo. “Per questo Acli e Caritas hanno tolto la propria adesione al progetto Nirva cofinanziato dall’Ue e dal Viminale per i rimpatri volontari”. Ci sono, infatti, immigrati che vorrebbero tornare nel paese d’origine. E il progetto – come segnalato ieri da Il Fatto Quotidiano – si propone di aiutare gli stranieri che intendano andarsene dall’Italia. “La maggioranza degli immigrati che vorrebbero farlo – spiega Russo – sono irregolari. Per uno straniero è così difficile ottenere il permesso di soggiorno, in assenza di sanatorie, che sono pochissimi i regolari che chiedono il rimpatrio. Il problema è che dopo la legge 94 del 2009, che introduce il reato di clandestinità, il progetto Nirva deve essere chiarito”. In effetti, Caritas e Acli avevano pensato di applicare le procedure di aiuto per i rimpatri volontari (che comprendono un percorso di reinserimento nel paese d’origine e supporti allo studio, oltre alle spese per il ritorno “a casa”) anche agli irregolari. “Il progetto – prosegue ancora Russo – prevede che i casi umanitari possano beneficiare di questa misura. Ma non è forse un caso umanitario quello di una persona sbarcata a Lampedusa, che dopo un anno da clandestino vuole tornare in Nigeria? Noi pensavamo di sì. Ma c’è un problema: se dichiaro di essere clandestino mi autodenuncio. Perché essere clandestino è un reato”. Il reato di immigrazione clandestina ha insomma introdotto una limitazione all’applicazione dei rimpatri volontari e proprio per i casi che, più frequentemente, ne farebbero ricorso. Le Acli e la Caritas non sono state a guardare. “Il 20 ottobre i presidenti delle nostre associazioni hanno scritto al ministro Maroni per chiedere chiarimenti. Non ci ha mai risposto. E a gennaio abbiamo deciso di uscire dal progetto Nirva. Volevamo che Maroni desse un indirizzo politico sulla materia. Non è successo. Così agli irregolari è negato pure il sostegno per il rientro in patria”. Di fatto, per contrastare l’immigrazione clandestina il governo ha concentrato le proprie forze in muscolari respingimenti e nel monitoraggio delle coste. Ieri il titolare del Viminale ha ribadito, dopo averlo annunciato il giorno prima, che gli sbarchi sulle coste italiane sono diminuiti, nel 2009, del 74%. In effetti, cifre alla mano, se nel 2007 le persone sbarcate sono state 20.453 e nel 2008 sono arrivate a 36.900, fino al luglio dello scorso anno gli sbarchi avevano visto l’arrivo di “sole” 7500 persone. Il calo c’è. Peccato che, secondo le stime degli operatori del settore (che, come sottolinea l’Ismu, non sono statistiche, ma stime derivate da colloqui e conoscenza diretta) meno del 20% degli immigrati entri in Italia via mare. Il resto arriva da terra.

il Fatto 29.1.10
“Accuse false” La Cgil contro la Cgil
di Beatrice Borromeo

Chi pensa che le vicende sindacali non siano, come dire, emozionanti si potrebbe ricredere, perché la guerra intestina alla Cgil sta diventando degna delle peggiori tradizioni della sinistra italiana. Sono false, secondo la mozione uno della Cgil – la corrente maggioritaria presieduta dal segretario generale Guglielmo Epifani – “le affermazioni circa una presunta alterazione dei dati”. La nota del sindacato, diffusa ieri, si riferisce alle pesanti accuse mosse dalla mozione due – la “Cgil che vogliamo” – secondo cui la maggioranza di Epifani gonfierebbe sistematicamente i voti durante le assemblee, soprattutto in vista del XVI congresso nazionale del prossimo maggio in cui si dovrà decidere la successione alla segreteria (Epifani sponsorizza Susanna
Camusso). “Abbiamo riscontrato molte irregolarità”, denuncia al Fatto Marigia Maulucci, mozione due (di cui fanno parte i metalmeccanici della Fiom, gli statali della Funzione pubblica, i bancari). E spiega: “Quando noi siamo presenti alle assemblee, tutto si svolge normalmente. C’è un dibattito e gli iscritti votano in maniera differenziata, chi per noi e chi per gli altri”. Il problema, racconta Maulucci, nasce quando la “Cgil che vogliamo” è assente: “Quando manchiamo noi, che controlliamo, si creano situazioni irrealistiche. Risultano infatti sempre presenti tutti gli iscritti, mai neanche uno che abbia il mal di gola e guarda caso il cento per cento dei votanti si esprime sempre in favore della mozione Epifani. Vi sembra verosimile?”. Per Enrico Panini, segretario confederale della Cgil e responsabile dell’organizzazione (quindi in area Epifani), si tratta di accuse “assolutamente destituite di ogni fondamento”. Panini ha anche aggiunto che “le assemblee si svolgono sulla base di un rigoroso regolamento approvato all’unanimità dal Comitato direttivo e in ogni provincia sono costituite commissioni, rappresentative di tutte le posizioni congressuali, deputate a dirimere ogni contestazione”. In più, si legge sempre nella nota, “il Congresso della Cgil si basa sul voto delle iscritte ed iscritti, sull’applicazione del proporzionale puro e rende impossibile ogni interpretazione tesa ad alterare il rigido rispetto del voto nella definizione dei delegati spettanti ad ogni mozione e nella determinazione del rapporto fra queste”. Ma al di là della risposta nel merito, tra le file della mozione uno si privilegia una lettura più politica della denuncia a mezzo stampa fatta dalla “Cgil che vogliamo”: “C’è voglia di potere, nella Cgil. Peccato che la mozione due non abbia le adesioni che credeva. Sta andando malissimo. Ecco perché attacca”, dice chi è vicino a Epifani.
La “Cgil che vogliamo”, che è nata aggregando sigle sindacali con culture tra loro molto diverse, dai duri della Fiom ai più moderati bancari, starebbe quindi esasperando i toni, cercando risalto sulla stampa e accusando il segretario generale perché povera di consensi, alla ricerca di appigli per recuperare terreno in vista del congresso polarizzando la competizione. Questa, almeno la linea della maggioranza del sindacato. Che non sembra preoccupata di possibili sorprese quando, dal cinque all’otto maggio, tutti gli iscritti alla più importante organizzazione sindacale italiana saranno chiamati a esprimersi sui programmi e sui rappresentanti per la prima volta dal marzo 2006. E la “Cgil che vogliamo” confida, con un aiutino a mezzo stampa, in un improbabile ribaltone. O almeno nel diventare una minoranza influente nella Cgil post-Epifani.

Repubblica 29.1.10
Depresso, ipocondriaco e sessodipendente il medico svela Hitler
di Andrea Tarquini

Pressione alta dolori cronici e morbo di Parkinson Le rivelazioni in un libro appena uscito
Il Führer costretto dal suo dottore a ingerire eccitanti, droghe e forti dosi di tranquillanti

Adolf Hitler aveva una riserva di oro prelevato dai denti dei deportati di Auschwitz per curarsi le carie, e intanto era stato ridotto dal suo medico curante, dottor Theodor Morell, alla dipendenza da eccitanti, tranquillanti, stimolanti sessuali: 82 medicamenti in tutto. Almeno dal 1944, prima di ogni incontro con la sua amante Eva Braun si faceva iniettare forti dosi di testosterone o di ormoni prelevati dalla prostata o dallo sperma di tori giovani, quasi un Viagra ante litteram. Soffriva anche di meteorismo, e di manie ipocondriache: temeva di ammalarsi di cancro. Ecco la cartella clinica segreta del Führer, rivelata in Germania dallo storico Henrik Eberle e da Hans-Joachim Neumann, medico specialista della Charité, il principale ospedale di Berlino. Insomma, il creatore del Terzo Reich, non era solo un tiranno sanguinario ma anche, clinicamente, un relitto.
"War Hitler krank?", cioè "Hitler era malato?", s´intitola il libro, anticipato da Spiegel online. I suoi dentisti avevano ricevuto dalle SS una riserva di oro di almeno 50 chili per essere pronti in ogni momento a effettuare ogni otturazione o altro intervento dentistico d´urgenza al Führer del Reich millenario. Quell´oro non veniva da laboratori scientifici o chirurgici, né dalle riserve della Reichsbank, la Banca di stato. Era stato strappato senza anestesia a centinaia, forse a migliaia di deportati ad Auschwitz e negli altri campi della morte.
Non è tutto. Qualche volta, quando il Fuehrer era depresso o giù di morale, il dottor Morell gli somministrava il pervitin, un farmaco che produce alta dipendenza. Insieme ad altri 81 medicinali pesanti, da zucchero concentrato a vitamine. Il pervitin era noto anche nei reparti scelti delle forze naziste, che lo ricevevano preparato in praline. Oggi un prodotto simile, la droga da discoteca "Crystal Meth", è nota tra chi la usa come "droga del Führer". Testosterone e ormoni di toro erano per il complessato Hitler irrinunciabili prima di ogni incontro privato con Eva Braun. Ma questo non risolveva tutti i suoi problemi. Egli soffriva di meteorismo e problemi di digestione, per cui si fece vegetariano. La propaganda del regime, diretta dal genio del male Dottor Goebbels, spacciò la conversione del Führer alla dieta vegetariana per amore per gli animali.
Mali, acciacchi e debolezze del tiranno che scatenò la seconda guerra mondiale e l´Olocausto in nome del delirio razzista del superuomo ariano non finiscono qui. Hitler si faceva curare da Morell l´aria nella pancia da una miscela medicamentosa che conteneva anche stricnina. Almeno due volte gli furono asportati polipi dalla gola. Soffriva di pressione alta e di dolori cronici a stomaco e intestino, e tutto questo quadro clinico contribuiva sempre più alla sua irascibilità. Negli ultimi anni fu colpito anche dal morbo di Parkinson. Insomma, era un rottame di uomo, quello che sognava il trionfo della razza superiore e del nazismo. Ma era sempre totalmente capace di intendere e di volere, dice il libro-cartella clinica.
Al medico Hitler riservava fiducia totale. «Doktorchen», cioè «mio caro dottorino», lo chiamava. Morell era odiato dai gerarchi. Il generale Heinz Guderian, uno dei teorici e artefici della guerra lampo, lo definiva «disgustoso medicuccio grassoccio». Persino il maresciallo Hermann Goering, capo della Luftwaffe, lo chiamava con disprezzo "il signore delle siringhe del Reich". Il 21 aprile 1945, quando già i soldati di Zhukov erano a un passo dal Bunker e combattevano contro gli ultimi disperati della Wehrmacht e del Volkssturm, Hitler congedò il suo "dottorino". «Grazie, torni tranquillo in borghese al suo studio medico al Kurfuerstendamm». Pochi giorni dopo, si suicidò con Eva Braun a fianco.