giovedì 17 luglio 2014

l’Unità 17.7.14
Ai lettori
il CdR

Non siamo esperti ma non siamo neanche stupidi. Una liquidazione da chiudere in tre settimane somiglia molto a un pre-fallimento. Nella vertenza de l’Unità c’è qualcuno che sta giocando con la vita di un’ottantina di dipendenti e con quella delle loro famiglie. Il piano di chi vorrebbe acquisire la testata a poco prezzo, cancellando qualsiasi impegno con i lavoratori non è sventato. Anzi, si materializza con la fretta imposta dalle procedure che i liquidatori ci hanno prospettato e con la sarabanda di illazioni che si affastellano sui mass media. Noi lo ripetiamo da settimane: chi volesse salvare l’Unità con una procedura concorsuale che non garantisce il lavoro ai suoi attuali dipendenti sarebbe solo uno speculatore.
Non è colpa dei giornalisti se si è perso tempo. Prima per contrasti interni tra i soci della Nie, poi per giochi di potere di piccolo cabotaggio, che hanno prefigurato illusori piani di ricapitalizzazione. Il risultato oggi è che per salvare l’Unità è necessaria una corsa contro il tempo. Lo abbiamo già detto e lo ribadiamo: i giornalisti hanno fatto il loro dovere, ora chiedono di poter valutare le offerte che arriveranno ai liquidatori con un tempo congruo. Gli ultimatum oggi sono tardivi: bisognava pensarci prima. I rappresentanti sindacali sono pronti a sedersi al tavolo con gli offerenti da subito. L’unica cosa che non possiamo accettare che si «ammazzi» il malato, magari dicendo che lo si vuole salvare.

l’Unità 17.7.14
Questo giornale ci serve ancora
di Silvia Ballestra

IN MOLTI PRIMA DI ME HANNO SCRITTO CHE LA CHIUSURA DE L’UNITÀ È SEMPLICEMENTE IMPENSABILE, INCONCEPIBILE. È così. Non è pensabile che fra pochi giorni un giornale importante, libero, storico, possa sparire. Non è giusto e non è civile. Non è pensabile che uno dei pochi spazi di discussione e approfondimento e scoperta chiuda per sempre.
Non è pensabile neanche per me, ovviamente, e non lo dico solo da lettrice ma anche da collaboratrice (iniziai con Furio Colombo ,all’indomani di un altro salvataggio «fine di mondo» con gagliardissima ripartenza) e da scrittrice. Sì, da scrittrice che a ogni uscita di libro, film, prima di spettacolo teatrale, albo di fumetti, disco o serie tv è certa di trovare recensioni di qualità, argomentazioni critiche e spazi di dibattito mai ovvi, sempre liberi. Oggi più che mai perché mai come prima proprio la cultura, e l’approfondimento critico, e il dibattito fra voci diverse, e il taglio che non t’aspetti, e la preparazione, sono minacciati da superficialità, velocità, improvvisazione e rozzezza.
Così voglio parlare della cultura su l’Unità e pure di mee de l’Unità. Della volta in cui ho chiamato al volo per dire che avevo visto Maimorti di Renato Sarti a Milano ed era uno spettacolo importantissimo e, pur facendo storia e memoria, parlava dell’attualità del Paese (e finì in prima anche se era uno spettacolo «off»). O di quando ho scritto di Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi, un documentario che era partito da Milano come una cosa piccola ma era una cosa grande( e di nuovo ho trovato ascolto e spazio). O, per arrivare agli ultimi mesi, di quando Stefania Scatenimi ha chiesto di scrivere di Kurt Cobain perché erano i vent’anni della morte (e nessun altro quotidiano lo ha ricordato con così tanti pezzi e contributi).
Voglio parlare di quando Concita De Gregorio ha affidato agli scrittori una rubrica settimanale in cui poter commentare i fatti del mondo. Voglio parlare dell’importanza per uno scrittore, per un regista, per un cantante, di sapere che esiste un posto in cui il tuo lavoro verrà valutato da critici attrezzati e severi e del timore che questi posti si riducano sempre più, di giorno in giorno, lasciando spazio libero solo ai pareri, troppo spesso «ingenui» e scritti peraltro malissimo, del pubblico che anima gli sfogatoi online (anche delle recensioni). Voglio parlare del giornale in cui, di letteratura, scrive Angelo Guglielmi, e potrebbe bastare questo. Ma mi rendo conto che non potrebbe bastare, tutto questo, anche se è parecchio, alla vita di un giornale, e intendo «giornale» come forse si intendeva una volta: un metodo e una guida per la lettura del presente, non un Bignami fast and furious del «cos’è successo oggi». E allora dirò non solo che l’Unità mi serve, ma anche perché e come mi servirebbe.
Per esempio per dedicare lo stesso rigore critico (anche un po’ tignoso, anche un po’ curioso, anche capace di vedere il grande nel piccolo) alla società e alla politica. Perché di questi tempi all’apparenza nuovi e invece simili ai tempi di prima, serve una voce critica che non ceda né ai facili entusiasmi né ai disfattismi infantili. Che, scrivendo, sappia leggere quel che si muove intorno. Si dice in questi casi: senza guardare in faccia a nessuno, ed è una scemenza. Guardando in faccia tutti, invece, mi sembra più serio e consono, più adatto a l’Unità. E penso soprattutto a quella parte politica ormai indefinibile e indecifrabile che è la sinistra. Burbanzo sa evincente come vorrebbe qualcuno, ferita e dispersa come piangono altri. Ma sempre frenetica e incasinata e di difficile soluzione e di complicata lettura. E intendo qui non la sinistra dei capi e dei capetti, ma dei valori e delle persone, del lavoro, il poco che c’è e il molto che dovrebbe esserci. Un giornale di parte critico soprattutto con la propria parte è una buona, ottima, assicurazione sulla vita: allontana la propaganda e avvicina la comprensione. Per questo l’Unità mi serve e per questo trovo assurda anche solo l’ipotesi che possa sparire.

Repubblica 17.7.14
Landò replica alla Santanchè
“L’Unità mai a un editore di destra”

ROMA. «Questo giornale è della sinistra»: è il titolo dell’editoriale con cui Luca Landò, direttore dell’ Unità, ieri è tornato in prima pagina sul futuro del quotidiano, che rischia la fine delle pubblicazioni dal 30 luglio, e sulla manifestazione di interesse avanzata da Daniela Santanchè. « L’Unità non finirà mai nelle mani di un editore di destra: perchè se ciò dovesse accadere, finirebbe L’Unità ».

l’Unità 17.7.14
Con il sangue dei bambini
Gaza, l’orrore senza fine uccisi 4 bimbi palestinesi
Erano cugini: colpiti in un raid israeliano mentre giocavano in spiaggia
La denuncia del Guardian: colpiti a freddo senza preavviso

Oltre 216 i morti, almeno 1550 i feriti
di Umberto De Giovannangeli

Dopo una giornata segnata dalla crudeltà contro i più piccoli, quattro bimbi palestinesi uccisi sulla spiaggia e altri due più tardi, scatta una breve tregua umanitaria tra Israele a Gaza. Tel Aviv ha accettato, infatti, la proposta Onu per far giungere aiuti alla popolazione.
La morte viene dal mare. E fa ancora vittime innocenti. I più indifesi: i bambini. Ieri 4bambini sono stati uccisi a Gaza, nel corso dei raid israeliani. Le vittime, riferiscono fonti palestinesi, sono state colpite da proiettili provenienti dal mare, probabilmente da una motovedetta. I bambini uccisi erano quattro cugini di età compresa tra 9e 11 anni, uccisi mentre giocavano su una spiaggia di Gaza City. Lo fa sapere il medico palestinese Ashraf al-Kedra, mentre Israele annuncia che sta indagando sui fatti. I piccoli sono stati colpiti mentre si trovavano su una spiaggia lungo una strada costiera e altre sette persone, tra cui adulti e bambini, sono rimaste ferite, riporta ancora il medico. Lozio dei bambini uccisi, il 41enneAbdelKareemBaker, accusa Israele: «È un massacro a sangue freddo. È una vergogna che non li abbiano identificati come bambini, con tutta la tecnologia avanzata che stanno utilizzando».
ORRORE INFINITO Il corrispondente del Guardian, Peter Beaumont, ha sostenuto sul proprio profilo Twitter che «non c'è stato nessun colpo di avvertimento, i ragazzi sono stati uccisi al primo giro, poi gli artiglieri hanno aggiustato la mira e preso i sopravvissuti». «Ero a 200 metri da lì», ha aggiunto. Sul quotidiano britannico è apparso un suo lungo articolo in cui ha raccontato l'intera dinamica dei fatti. Le ambulanze hanno evacuato morti e feriti dalla spiaggia, tra cui anche altre persone che si trovavano sulla spiaggia. I corpi dei bimbi sono stati trasferiti alla moschea di Abu Hasira, lì vicino, e avvolti nelle bandiere gialle del partito Fatah del presidente Abu Mazen. Tra le vittime della nuova escalation di violenze a Gaza, «una su cinque è un bambino», spiega i in un comunicato l’organizzazione non governativa Save the Children. Si stima che almeno25mila bambini avranno bisogno di aiuto sostegno psicologico per affrontare il trauma che stanno vivendo. L'organizzazione ha esortato tutte le parti in conflitto a mettere urgentemente fine alla violenza, prima che altri civili innocenti siano feriti o uccisi, o costretti a vivere nella paura di esserlo. «Oltre al cessate il fuoco, solo un accordo negoziato tra tutte le parti in conflitto, farà la differenza nella durata della tregua e dovrà affrontare le cause a lungo termine di questo conflitto, promuovendo la dignità e la sicurezza per israeliani e palestinesi», ha insistito l'ong che ha chiesto infine la revoca del blocco di Gaza, che sta causando gravi disagi, incidendo sul benessere di tutti i bambini e le loro famiglie.
CRONACADIGUERRA Nono giorno. Continuano i raid israeliani su Gaza, continuano i lanci di razzi dalla Striscia al territorio israeliano. E continua ad aumentare il numero delle vittime: dall' inizio dell’operazione «Confine protettivo» sono stati uccisi 213 palestinesi, in maggioranza civili. I feriti sono 1550. Ma è un numero che sale ogni ora. Dopo il no di Hamas alla tregua proposta dall'Egitto, le forze dello Stato ebraico hanno ripreso i bombardamenti e hanno chiesto a circa 100mila abitanti del nord e dell'est di Gaza, vicino al confine con Israele, di lasciare le loro abitazioni. Secondo fonti militari, messaggi vocali sono stati diffusi in particolare per il quartiere orientale di Shujàiyya: i residenti sono stati chiamati ad «evacuare nell’interesse della loro sicurezza». Hamas risponde chiedendo agli abitanti della Striscia di non muoversi, denunciando una «guerra psicologica». Secondo il ministero dell’Interno di Gaza, infatti, «non c’è alcun motivo di preoccupazione né alcuna ragione per cooperare». Durante l’altra notte aerei da combattimento israeliani hanno attaccato a Gaza le abitazioni di diversi alti dirigenti di Hamas. Tra le case colpite c’è quella di Mahmoudal-Zahar, centrata da almeno due missili: in quel momento nell’edificio non c’era nessuno, sono state danneggiate anche alcune abitazioni e una moschea delle vicinanze. I raid israeliani hanno inoltre preso di mira le case di un Bassem Naim, dell’ex ministro Fathi Hammad e dell’ex deputato Ismail al-Ashqari.
MISSIONE DIPLOMATICA «Oggi la situazione è chiara, perché l'Egitto ha offerto un cessate il fuoco. Israele lo ha accettato. La Lega Araba lo ha accettato. L’unico che lo ha rifiutato e continua a sparare è Hamas», rimarca il presidente israeliano Shimon Peres, durante l’incontro con la ministra italiana. «Stiamo cercando di difendere la nostra gente, come dobbiamo, e stiamo anche cercando di non colpire persone in nocenti a Gaza», aggiunge Peres che ha poi voluto ringraziare l’Europa, ricordando che insieme agli Stati Uniti ha «preso una chiara posizione contro la politica unilaterale, irragionevole e crudele di Hamas». Una tregua è «nell’interesse sia di israeliani che dei palestinesi », sottolinea a sua volta la titolare della Farnesina, rilevando che «Europa e Usa faranno il possibile per sostenere un cessate il fuoco». In serata, la ministra degli Esteri italiana incontra a Gerusalemme il premier israeliano. Il mondo deve condannare Hamas per i lanci di razzi contro Israele, dichiara Netanyahu, rivolgendosi a Mogherini. La parola resta alle armi. Come sempre nell’insanguinata Terra Santa.

Repubblica 17.7.14
Bombe sui bimbi in spiaggia Israele prepara l’invasione
di Fabio Scuto

CORRISPONDENTE GERUSALEMME. GIOCAVANO a pallone su quel tratto di spiaggia che c’è tra il vecchio porto e l’Hotel Al Deira, nella segreta - e sbagliata - convinzione che stare nei pressi dell’albergo usato dai giornalisti stranieri nella Striscia li mettesse al sicuro.
LA PARTITELLA l’ha interrotta la Marina da guerra israeliana centrando con un colpo di cannone sparato dal mare quel gruppetto di “sospetti” e portandosi via la vita di Ahed e Zakarya di 10 anni, Ramez di 11 e Mohammad di 9. Il resto dei ragazzi della famiglia Bakr, che vive nel campo profughi di Shati, è all’ospedale Al Shifa, con i corpi straziati dalle schegge e bruciati dal calore delle esplosioni, in lotta tra la vita e la morte. I testimoni e i primi soccorritori delle vittime della strage sulla spiaggia sono stati i fotografi e i giornalisti che a quell’ora del pomeriggio si trovavano sul terrazzo dell’hotel. Fra le onde del mare, la spiaggia, le barche dei pescatori, i capanni dei caffè dai colori sgargianti, quei bambini non potevano certo immaginare che ci potesse essere da quelle parti un “obiettivo militare”. Né quel punto figurava tra le quattro zone della Striscia dove Israele aveva ordinato l’evacuazione a 100mila abitanti.
«I ragazzini stavano facendo una partita sulla spiaggia», ci racconta Ahmed Abu Adera, uno dei camerieri dell’albergo, «un primo colpo si è schiantato sulla spiaggia come un tuono, hanno iniziato tutti a scappare, ma un secondo colpo ha centrato un gruppetto che correva... Sembrava come se i proiettili li stessero inseguendo». Diversi giovanissimi sono corsi a ripararsi verso l’hotel Al Deira, poco distante, in cui alloggiano diversi giornalisti che coprono il conflitto. Racconta Paul Beaumont, corrispondente del Guardian, fra i primi soccorritori, che «non c’è stato nessun colpo di avvertimento, i ragazzi sono stati uccisi al primo sparo, poi gli artiglieri hanno aggiustato la mira e colpito i sopravvissuti. Ero a meno di 200 metri da lì». «C’è stata un’esplosione assordante verso le 4 del pomeriggio, in quel tratto di spiaggia dove i pescatori stendono le reti ad asciugare », continua. «Quando si è dipanato il fumo, ho visto quattro figure correre verso il nostro albergo in cerca di riparo: un adulto e tre ragazzini. Il secondo colpo è arrivato quando ci avevano quasi raggiunto. Siamo saltati tutti in piedi, urlando verso gli artiglieri israeliani, come se pola tessero sentirci: sono solo dei bambini!!!».
L’uomo che prima correva arriva all’hotel, si appoggia, geme e tiene con le mani la tshirt intrisa di sangue all’altezza dello stomaco, dove è stato colpito. «Era bianco come la neve, ha perso conoscenza», prosegue Beaumont. «Mentre i ragazzi dell’albergo fermavano un taxi sul lungomare per portalo in ospedale, altri hanno strappato le tovaglie dai tavoli per usarle come barelle e soccorrere gli altri ragazzi». «Tirando su la maglietta al primo bambino, ho visto subito il buco nel petto lasciato da una scheggia», racconta Ashraf, un altro dei camerieri- soccorritori, «piccolo e tondo come il cappuccio di una penna, fra la prima e la seconda costola. Gemeva: “ho male, ho male, il petto mi brucia”. Abbiamo preso altre tovaglie per comprimere la ferita e fermare l’emorragia ». Altri si sono occupati del ragazzo più grande: aveva le braccia bruciate, sanguinava dalla testa e dalle gambe. Qualcuno è corso in strada per fermare qualche macchina di passaggio, ma sono arrivate due ambulanze che hanno caricato i tre ragazzi.
Solo ieri il presidente Peres aveva lodato “l’umanità” dei piloti israeliani nello scegliere solo obiettivi militari. Il numero delle vittime ha superato quota 220, i feriti sono oltre 1500. Alla vigilia di una tregua umanitaria di 5 ore mediata dall’Onu, ieri sera l’Idf che ha aperto un’inchiesta si è giustificato così: «Stavamo colpendo un obiettivo terroristico, l’uccisione dei bambini è un fatto tragico». E una fonte israeliana ha rivelato che la probabilità che Israele lanci un’operazione di terra è “molto alta”.
La notizia della strage si è diffusa in un attimo nella Striscia, mentre le quattro piccole vittime venivano trasferite nella vicina moschea Abu Hasira. I corpicini in terra, avvolti nelle bandiere gialle del Fatah, il partito del presidente Abu Mazen. In migliaia, sfidando i raid che proseguono, hanno partecipato in serata ai funerali. Urlando la rabbia e la disperazione per le vittime innocenti di questa tragedia, bambini che volevano solo giocare al pallone in un pomeriggio d’estate sulla spiaggia nel posto peggiore al mondo dove crescere. Si chiama Gaza e dista solo tre ore d’aereo dall’Italia.

Repubblica 17.7.14
Quei piccoli corpi sulla sabbia di una prigione a cielo aperto
di Adriano Sofri

LE PAGINE di ieri si aggiornavano con titoli e foto su quattro bambini uccisi a Gaza su una spiaggia. Una di queste fotografie è specialmente difficile da guardare.
PER il modo in cui il colpo ha schiacciato il viso nella sabbia sporca, ha invertito il sopra e il sotto, il davanti e il di dietro degli arti. Si sceglierà di non pubblicarla quella foto, di sostituirle un’altra, che mostri quello che è accaduto, e però si tenga un passo di qua dal troppo orrore. Ci si interrogherà anche su come sia stata scattata, sul fondale di spiaggia vuota, prima dell’impulso a correre a toccarlo, ricomporlo, sollevarlo.
Su tutto ci si interroga in questa quarta guerra di Gaza, una specie di Biennale dell’odio e del furore. Sulle fotografie falsificate, sulla provenienza dei proiettili, sulle intenzioni reciproche. Ci si interroga su tutto perché niente ha senso.
Ieri i morti, dopo nove giorni, avevano superato i 200. Nella scorsa edizione della Biennale di Gaza, 2012, erano morti in 177 in una settimana, 26 erano bambini. Questa volta, secondo fonti palestinesi o Save the Children, i bambini uccisi sarebbero uno su cinque, dunque già una quarantina. Mentre lo scrivi, «una quarantina », senti la nausea. È una lugubre, stolida coazione a ripetere, dicono i commenti. C’è una provocazione, o un pretesto, Israele interviene e punisce Hamas e le sue piazzeforti, poi si ritira, e così via. Ma non è vero che la storia si ripeta uguale. Ogni volta è diverso, e peggiore. La gittata dei razzi e dei missili di Hamas e della Jihad, che già due anni fa toccavano Tel Aviv e lambivano Gerusalemme, cresce ogni volta. La regione che circonda la breve terra in cui israeliani e palestinesi si guardano si conoscono e si odiano stringe a sua volta una morsa attorno a Israele: se in Egitto i Fratelli Musulmani sono banditi e condannati a morte e hanno lasciato orfana Hamas, in Siria e in Iraq l’estremismo dispotico e jihadista infuria, e la Giordania gremita di milioni di profughi ne sente il fiato. E infine, a ogni nuova eruzione, la violenza si accumula nel sottosuolo, esacerbata dal rancore e dalla vendetta.
La grande maggioranza delle vittime dell’azione militare israeliana è di civili. Sono civili i bersagli prediletti dei lanci di razzi e missili di Hamas. Anche le parole sono consunte, e pronte a tradire le intenzioni e la verità, come la «sproporzione». Uno a duecento, i morti israeliani e palestinesi. Uno a mille o a duemila, i prigionieri scambiati. E così via. I governanti israeliani vantano di tenere supremamente alle vite umane, che i capi di Hamas sfruttano cinicamente come scudi e martiri della loro propaganda. Ma i responsabili israeliani possono dire di tenere altrettanto alle vite dei civili e dei bambini palestinesi? Non è affar loro - e nostro? Hamas impiega le sue risorse a moltiplicare i razzi da far piovere sui villaggi e le città israeliane piuttosto che per costruire rifugi o ripari al popolo che pretende di guidare: questo esime il governo di Israele da una responsabilità verso quello stesso popolo? Il governo di Israele avverte i civili palestinesi dei propri attacchi: ma c’è, non che un diritto, un resto di umanità nell’ingiunzione a centomila persone, famiglie di vecchi e bambini, donne e uomini, di evacuare le loro case e cercare scampo altrove, nel fazzoletto di terra più affollato del mondo?
Il governo di Israele accetta la tregua mentre Hamas, o la sua fazione più truce e potente, la respinge: ma la stessa eventualità di concordare una tregua cui sia Israele che Hamas si uniformino non segnala la necessità e l’inevitabilità di riconoscersi, pur con tutta l’inimicizia e il disprezzo possibile, e trattare reciprocamente?
Che la striscia di Gaza sia una prigione a cielo aperto non è solo un modo di dire, e tanto meno un modo di dire propagandistico e fazioso. È una descrizione istruttiva e rivelatrice, se solo i responsabili israeliani volessero prenderla in parola nel proprio stesso interesse. Dentro una prigione che si abbandona per sorvegliare solo i muri di cinta e gli accessi e impedire le evasioni, a rischio di morte - com’è a Gaza, per la stessa possibilità di passare in Cisgiordania e viceversa - succede come in ogni galera che si pretenda di governare lasciandola a se stessa: che il potere passa ai più incalliti e feroci criminali, e i deboli e inermi non possono che divenirne ostaggi, o confidare nella loro brutalità. L’esempio è istruttivo, a condizione di ricordare che i quasi due milioni di persone della Striscia non sono detenuti per aver commesso qualche reato ed esserne stati giudicati. Sono il deposito innocente di una disgrazia terribile.
I quattro bambini di ieri si sono guadagnati un titolo, come figure improvvisamente affiorate e colorate dentro un’infinita processione grigia: perché erano su una spiaggia, perché era il nono giorno, e chissà perché ancora. Come i tre ragazzi israeliani rapiti e trucidati. Come il ragazzo palestinese linciato. Si può andare indietro senza fine, in questa processione luttuosa interrotta da qualche nome scandito, da qualche immagine colorata. Questo significa che si può andare avanti senza fine, nel futuro, vedendo già espandersi il cimitero di fosse comuni interrotto qua e là da qualche tomba guarnita di un nome e una data, qualche figurina rosa o celeste, o verde o rossa? I bambini morti sono invidiati dai bambini vivi. I bambini vivi imparano ad aver paura e a odiare.

il Fatto 17.7.14
Morte in diretta dei bambini sulla spiaggia di Gaza
Colpiti da motovedette mentre giocavano. Centrato anche un ospedale
Attivisti europei fanno da scudi umani
di Cosimo Caridi

Striscia di Gaza. I bambini reclamano la loro infanzia, anche durante una guerra. Erano in otto sulla stretta spiaggia di Gaza, davanti ai lussuosi alberghi che in questi giorni ospitano i giornalisti, giocavano a pallone. All’orizzonte le navi della marina israeliana.
DUE ESPLOSIONI e subito il fumo nero che si alza da un container. Ismail, Mohammed, Zwkaria, Ahed, tutti tra i 10 e gli 11 anni, cadono e non si rialzano più. Altri due vengono feriti gravemente. I razzi che hanno colpito i minori, cinque dei quali appartenenti alla stessa famiglia di pescatori, sono partiti dal mare.
La dinamica non è chiara. L’Idf (esercito israeliano) ha dichiarato che aprirà un’indagine, sembra che l’obbiettivo fosse un deposito di armi di Hamas.
Già quattro notti fa c’era stato un conflitto a fuoco sulle vicine banchine del porto, accanto alle quali c’è presidio la guardia costiera di Hamas.
La voce della strage di bambini corre più veloce delle ambulanze. Quando si sentono le sirene all’ospedale Al-Shifa c’è già una piccola folla inferocita. “Allahu Akbar” (Dio è grande), urlano a una sola voce, come un monito. Squillano i cellulari , un altro raid israeliano. Questa volta è stato colpito un taxi a Khan Younis: 4 morti, tra cui una donna.
Arrivata al nono giorno l’operazione militare israeliana ‘Margine Protettivo’ ha ucciso 209 palestinesi, oltre 1500 i feriti. Martedì, a Erez, i razzi di Hamas hanno tolto la vita a un israeliano, il primo dall’inizio della crisi.
DURA LA RISPOSTA di Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, che parlando con la ministra degli Esteri Federica Mogherini ha detto: “Se Roma, Firenze e Milano fossero bersagliate da razzi. Non lo accettereste. Rispondereste. Quelli che sparano razzi non stanno cercando una soluzione politica”. La ministra, che da due giorni si trovava in Israele ha elogiato Netanyahu per aver accettato il cessate il fuoco promosso dall’Egitto, rigettato invece da Hamas. E ieri sera Israele annunciava una ‘tregua umanitaria’ di 6 ore a partire da stamattina.
Chiusa la possibilità di negoziazione, ieri mattina, l’esercito di Gerusalemme ha lanciato migliaia di volantini sul nord della Striscia. Centomila palestinesi vengono intimati a lasciare le proprie case. Tra loro anche i pazienti e il personale dell’ospedale Al-Wasa. “Attorno all’una di notte è arrivata una telefonata – spiega Basman Alashi, direttore dell’ospedale - una voce registrata ci ordinava di evacuare l’ospedale”. La scorsa settimana Al-Wasa è stato colpito ben quattro volte dai missili dell’Idf. Sulla facciata dell’edificio si vedono i buchi provocati dall’impatto, diversi metri quadrati di cemento armato collassati. “Ho fatto trasferire alcuni pazienti – continua Alashi – ma altri non possono essere spostati, la maggior parte di loro è in coma”.
I LORO LETTI sono stati portati nel corridoio al piano terra. Aya, 17 anni, paralizzata dalla vita in giù, è la più giovane dei ricoverati: “Ho un tumore alla schiena, sono arrivata solo una settimana fa, ma ho paura e voglio andare a casa”. Il suo volto si riga di lacrime che cadono sul cuscino, accanto a lei nessuno a consolarla. “La mia famiglia – continua - non può venire a trovarmi oggi, gli israeliani ci vogliono bombardare”.
Seduto in un ufficio poche porte più in là c’è Charlie, trentenne svedese con una kefiah annodata sul capo. “Sono qui come scudo umano”. Il giovane fa parte dell’Ism (International Solidarity Movement) un gruppo di attivisti internazionali che fa interposizione nonviolenta tra l’esercito israeliano e i palestinesi. “
Noi siamo protetti dalla nostra nazionalità –continua l’attivista – mi spiace, ma è così. Israele non fa attenzione alla vita dei civili palestinesi e forse non gli interessa troppo neanche della nostra, ma sono attenti alla loro reputazione”.
Charlie, con un'altra mezza dozzina di internazionali, da due giorni non si muove dall’ospedale, convinto che il suo passaporto possa fermare l’aviazione israeliana. Così non fu per Rachel Corrie, attivista statunitense che nel 2003 morì sotto un bulldozer israeliano mentre tentava di bloccare la distruzione di alcune case palestinesi a sud della Striscia.

La Stampa 17.7.14
Basta
di Massimo Gramellini

A me non interessa se erano israeliani o palestinesi. A me interessa che erano bambini. Bambini che stavano giocando a pallone sulla spiaggia. Il primo missile li ha sorvolati, lasciandoli increduli. Possibile che la guerra potesse ruggire proprio lì, tra gli alberghi e i capanni del lungomare? Sono scappati col pallone sotto l’ascella. Qualcuno è corso verso un gruppo di giornalisti stranieri appena usciti da un hotel. Qualcun altro si è rifugiato dentro un capanno, nell’illusione che al riparo di un tetto il male sparisse o facesse meno danni. È a quel punto che il secondo missile li ha colpiti. Sono morti in quattro, tutti della stessa famiglia. Il più piccolo aveva nove anni. Il più grande dodici. I feriti perdevano sangue dalla testa e si tenevano le mani sullo stomaco, urlando di spavento e di dolore. 
Immaginate i parenti di quei piccoli, l’odio senza tempo che da oggi germinerà nei loro cuori. A me non interessa più capire questa guerra, distinguere tra atti bellici e atti terroristici, soppesare i torti e le ragioni. A me interessano quei quattro bambini. E i tre adolescenti della parte opposta uccisi a freddo nei giorni scorsi. La mattanza di futuro ha raggiunto ritmi insostenibili persino per un mondo in overdose perenne d’indignazione come il nostro. Nel tentativo di dare almeno una forma all’orrore, scrivo i nomi delle sette vittime, senz’altra distinzione che non sia la loro comune appartenenza alla razza umana: Eyal Yifrah, 19 anni, Gilad Shaar (16), Naftali Fraenkel (16), Ramez Bakr (11), Ahed Bakr (10), Zakaria Bakr (10), Mohammad Bakr (9). Nove anni. Scrivo i loro nomi e urlo il mio infantile, inutile, definitivo: basta.

La Stampa 17.7.14
Israele minaccia l’invasione
“Pronti a entrare fra due giorni”
di Maurizio Molinari
qui

l’Unità 17.7.14
Il confine della crudeltà
di Paolo Di Paolo

«DESIGNARE UN INFERNO NON SIGNIFICA, OVVIAMENTE, SAPERE COME LIBERARE LA GENTE da quell’inferno, come moderare le fiamme», ha scritto Susan Sontag. È ancora una volta quest’avverbio - «ovviamente» - il punto di partenza e di arrivo di ogni riflessione davanti all’orrore prodotto dagli uomini. Quattro bambini giocano su una spiaggia: vengono uccisi da un raid israeliano. Entrano in una conta macabra.
Un numero di vittime che lievita giorno per giorno. Più di duecento in nove giorni. Duecento vite, duecento storie, ognuna diversa dall’altra, di cui non sappiamo niente. Ma la morte di quattro bambini ci arriva alle orecchie, prima che agli occhi, come una sveglia che suona più forte. Anche fuori da qualunque conflitto, quattro bambini sembrano fare la differenza. Si alza il livello di guardia, la temperatura emotiva: l’istinto ci fa dire «i bambini no», come di fronte a un’ingiustizia più ingiusta, a un crimine più radicale. Ma dov’è il limite di un’ingiustizia? C’è un’ingiustizia più accettabile di altre? Là dove muoiono quattro bambini è l’inferno: lo designiamo con facilità, con certezza ma, per tornare a Sontag, designarlo non significa - ovviamente - sapere altro che questo. Ed è proprio quell’«ovviamente» che dovrebbe farci disperare; se possibile (ma è un paradosso) più di ciò che abbiamo già perduto, o che altri hanno già perduto, dovrebbe disperarci ciò che stiamo perdendo, che continuiamo a perdere. Salta da troppo tempo, da decenni e decenni, in quella terra, la matematica (ma è una matematica?) dei torti e delle ragioni: i conti non tornano comunque, non tornano mai. Resta, per chi è toccato dalla tragedia, soltanto il dolore: arriva dopo lo sgomento e la rabbia, ed è diverso dalla nostra indignazione, anche da quella più accesa. Non c’è nessuna ragione politica che lo riscatti, né la logica ferrea, ottusa, delle vendette e delle rappresaglie, delle «lezioni» che un paese dà all’altro per via militare. Quattro bambini che muoiono su una spiaggia, a luglio, a Gaza, restano fuori da ogni astrazione politica e tattica: stanno lì a confermarci - lo sapevamo - che la violenza non fa distinzioni; ci raccontano l’esproprio più immane, più assurdo che uno stato di guerra impone agli esseri umani. È la normalità della vita a essere strappata via, i giorni che chiamiamo qualunque - e dentro quei giorni qualunque, una spiaggia, a Gaza, a luglio, con quattro, con venti, con cento bambini, ragazzi, adulti che giocano a pallone, che provano a vivere.

La Stampa 17.7.14
Israele, i numeri del conflitto in 40 secondi

Vari studi forniscono i dati delle vittime del conflitto israelo-palestinese. Secondo la Stockholm International Peace Research Institute, 13.000 israeliani e palestinesi sono stati uccisi in tra il 1948 e il 1997. Dal 2000 al 2011 secondo l’Ong israeliana B’’tselem e il ministero degli affari esteri israeliano, le vittime palestinesi sono 6563 rispetto a 1095 israeliane con un rapporto 1 a 6. 1762 sono minori, di cui 1620 palestinesi con un rapporto 1 a 10
Il video qui

il Fatto 17.7.14
L’esercito di Israele spara anche con armi italiane
La denuncia dell'Archivio disarmo: siamo tra i primi fornitori Ue
di Stefano Pasta

A Gaza si bombarda anche con le nostre armi. “L’Italia – denuncia la Rete Disarmo – sospenda immediatamente l’invio di armi e sistemi militari in Israele”. Sì, perché, secondo la XV Relazione Ue sul controllo delle attrezzature militari, siamo il più importante fornitore europeo di sistemi militari e armi leggere del governo di Tel Aviv: nel solo 2012 ne ha acquistate per 473 milioni di euro, su un totale di
613. Il made in Italy stacca nettamente il secondo classificato di questo triste podio, la Germania, che si ferma a 49 milioni.
Non solo: il 9 luglio, nei primi giorni dei raid, l’azienda Alenia Aermacchi del gruppo Finmeccanica ha inviato i primi due aerei addestratori M-346 alla Forza aerea israeliana. I nuovi velivoli servono per l’addestramento a caccia di nuova generazione, ma possono anche essere armati e utilizzati per bombardare. In particolare, grazie alla loro maneggevolezza, potrebbero essere usati in aree urbane e di conflitti a basso dispiegamento di forze armate e di contraerea. Secondo la Rete per il Disarmo, che raggruppa le principali organizzazioni impegnate sul tema, “tutto ciò avviene in aperto contrasto con la nostra legislazione relativa all’export di armamenti”.
Effettivamente la legge 185 del 1990 prevede, proprio al primo articolo, l’impossibilità di fornire armi a Paesi “in stato di conflitto armato o i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”.
Il legame tra l’industria militare italiana e quella israeliana non è nuovo. Con la Legge 94 del maggio 2005, il governo Berlusconi III ratificò l’“Accordo generale di cooperazione tra Italia e Israele nel settore militare e della difesa” che definiva la collaborazione: misure per favorire gli scambi nella produzione di armi e il trasferimento di tecnologie, formazione, manovre militari congiunte e “peacekeeping”. Nel luglio 2012, fu firmato un nuovo accordo sulla esportazione dei sistemi militari italiani verso Israele, tra cui appunto gli aerei M-346, definito “storico” dalla Difesa italiana e “un salto di qualità” dal premier Monti, che si era impegnato in prima persona. Salto di qualità mai discusso in Parlamento.
E ora cosa potrebbe fare il governo? Tramite l’Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento), la Farnesina ha la facoltà di decidere sull’esportazioni di armi. Secondo la Rete Disarmo, il ministro Mogherini dovrebbe immediatamente impedire la fornitura

il Fatto 17.7.14
Affondata pure l’Arca che portava doni via mare
di Roberta Zunini

Hanno bussato anche sul tetto dell'Arca e su quello del centro di riabilitazione di Wafa dove ci sono solo malati con più di 60 anni di età bisognosi di cure 24 ore su 24”. Charly Andreason è un attivista svedese dell'international solidarity movement -di cui faceva parte anche Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza nell’aprile 2011 - che dall'altra notte, quando una bomba dell'aviazione israeliana ha “bussato sul tetto” del Wafa rehab center, fa da scudo umano per difendere i pazienti ricoverati. “Gli israeliani hanno definito eufemisticamente e ironicamente questi bombardamenti “knocking on the roof”, ma se non fosse l'ennesima tragedia verrebbe voglia di definire questa operazione una farsa: questa reazione sproporzionata porterà solo altro odio. Ciò che serve a Netanyahu per evitare i negoziati e mantenere invariata la macabra politica che non prevede la fine dell'assedio della Striscia”.
Andreason vive da 9 mesi a Gaza. Qui nessuno è più al sicuro fisicamente, in nessun luogo della Striscia, ma dal 2006, quando Hamas ha vinto regolarmente le elezioni, la vita dei gazawi è un incubo sotto tutti gli aspetti. “L'assedio di tutte le frontiere, il blocco di tutti gli spazi compresi quelli aerei e navali, ha distrutto quel minimo di economia di sussistenza che si stava sviluppando. La gente vive degli aiuti internazionali, ma anche in questo caso Israele crea continui ostacoli, trovando dei cavilli burocratici per farli entrare con il contagocce. Inoltre i permessi per uscire dalla Striscia son sempre più rari”.
“L'altra notte una serie di bombe ha ‘bussato sul tetto’ dell'Arca talmente tante volte che alla fine ne è rimasto solo lo scafo carbonizzato. Saremmo dovuti già salpare a maggio ma una bomba l'aveva danneggiata e ora è distrutta. Il problema è che anche 6 piccoli pescherecci ormeggiati accanto sono andati distrutti. Rappresentavano la loro unica fonte di sopravvivenza dei pescatori”.
Il progetto dell'Arca, piccola nave costruita nel porto di Gaza, era nato per trovare rimedio al blocco della Flottilla da parte della marina israeliana. “Il nostro scopo era caricarla di prodotti agricoli e tessili locali per portarli a coloro che li avevano acquistati per solidarietà. Era già virtualmente stipata di spezie e tessuti. Molti europei avevano aderito e a settembre avremmo provato a rompere il blocco e portarli a destinazione. Ma ora è impossibile, anche perché non abbiamo i soldi per comprarne un'altra”.

l’Unità 17.7.14
Senato, dissidenti Pd: «Voteremo contro»
Chiti: «No a un presidente senza contrappesi e senza Camere legittimate dal voto»
Boschi apre al presidenzialismo
di C. Fus.

Il ministro Boschi come sempre non fa una piega e relega i circa ottomila emendamenti nella massima «Andiamo avanti, un giorno alla volta». Il sottosegretario Scalfarotto ostenta sicurezza: «Li voteremo ». I relatori Finocchiaro e Calderoli sono un po’ meno sicuri e si danno un gran da fare per contattare uno ad uno i firmatari e chiedere: «Cosa volete? ». Loro, i firmatari della valanga di emendamenti, entrano ed escono dall’emiciclo, tengono il punto e insistono: più garanzie, elezione diretta dei senatori, più chiarezza sui poteri delle Regioni, più bilanciamento tra cittadini e rappresentanze politiche. Risuonano parole chiave: «Deriva autoritaria», «renzismo peggio di machismo», «serve la rivoluzione perché non ci si può piegare ai diktat specie sulle riforme».
Fotogrammi dal giorno terzo della discussione generale sulla fine del bicameralismo e la riforma del Titolo V della Costituzione. Ieri mattina mancavano ancora 17 ore e mezzo di dibattito, con una media di circa 8-9 ore al giorno, dovrebbe finire oggi quando nel tardo pomeriggio sono attese le repliche del ministro e dei relatori». Ma è ancora incerto l’inizio delle votazioni: la prossima settimana al netto di due decreti che devono essere convertiti entro fine mese.
In ogni partita, anche politica, soprattutto se istituzionale come quella in corso, che divide il campo a metà, a favore o contro, arriva un momento in cui tutti dovrebbero provare ad ascoltare le ragioni degli altri. Non significa essere conservatori, frenatori, gufi, boicottatori o perditempo. Così è stato un peccato che ieri mattina in aula, sui banchi del governo, non ci fosse il premier Renzi quando ha preso la parola il senatore Vannino Chiti, capofila di un partito del dissenso che sulle riforme costituzionali attraversa destra, sinistra, Cinque stelle e lo stesso Pd. «Il mio intervento non è facile» ha esordito Chiti freddamente emozionato perché consapevole che «dopo questa vicenda sulla riforma, non saranno molti altri i miei interventi in questa aula». Sono seguiti ventiquattro minuti di difesa appassionata delle proprie ragioni, contrarie alla riforma del governo e tutte manifestate nei 60 emendamenti che riscrivono il testo uscito dalla Commissione. Un intervento più volte interrotto dagli applausi e alla fine a lungo applaudito e condiviso da molti senatori del Pd, per non parlare di Fi e Lega e M5S, che però hanno giurato che voteranno a favore compatti con la linea del partito. Non è sembrato solo un onore delle armi a un combattente se anche il sottosegretario Pizzetti ha voluto stringere la mano a Chiti.
Un intervento «non facile» e meno che mai «fonte di gioia» perché «convinto » uomo di partito, consapevole «dell’importanza dei partiti e del loro ruolo fondamentale nella vita democratica », Chiti ha rivendicato «l’autonomia delle proprie convinzioni e della propria coscienza almeno sui temi che riguardano la Costituzione».
A seguire, un serrato j’accuse. «È stato fissato un dogma: in democrazia si è eretici se si dice che i cittadini sono sovrani » e in quanto tali «vogliono eleggere i propri rappresentanti». La proposta di riforma «non funziona in diversi e fondamentali aspetti», «indebolisce o fa venire meno equilibri e contrappesi fondamentali tra i poteri dello Stato». L’ombra è quella di «un presidente eletto senza contrappesi autonomi e senza camere forti e legittimate dal voto dei cittadini ». Di un «modello regionale che diventa nazionale mentre dovrebbe essere profondamente corretto». Poi l’attacco durissimo al ministro Boschi che in un’intervista ha detto che «prima va fatta questa riforma e poi si parla di presidenzialismo ». Tutto ciò è «inquietante» ha detto Chiti: «A questo Senato non eletto direttamente dai cittadini e a una Camera eletta con l’Italicum si fa corrispondere l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Ma ci si rende conto di quello che si dice e si fa o si scherza con il futuro del nostro paese?». Ha chiuso poi con la citazione di Jurgen Habermas: «La legittimità di una Carta costituzionale ha come presupposto la partecipazione politica dei cittadini» e la capacità di risolvere i conflitti non solo a colpi di maggioranza ma nell’ambito di «un processo di argomentazione sensibile alla ricerca della verità». Applausi. Mentre il renziano Marcucci se ne va irritato: «Basta attacchi al premier».

Repubblica 17.7.14
Ostruzionismo e decreti a rischio i dissidenti Pd non si piegano e il voto sul Senato si impantana
Quasi 8 mila emendamenti tra Sel e ribelli Fi. Asse sul referendum propositivo
La Boschi apre al presidenzialismo, ma insorge la sinistra del partito

ROMA. Si complica il percorso del ddl Boschi.
Nonostante Matteo Renzi abbia nuovamente chiamato i suoi parlamentari a rispettare i tempi e a non ostacolare il cammino delle riforme, il testo del governo rischia di impantanarsi a Palazzo Madama. Il primo risultato è che i tempi si allungano e le votazioni rischiano di far slittare il primo via libera al provvedimento.
Il primo scoglio è rappresentato dalla montagna di emendamenti, presentati soprattutto da Sinistra ecologia e libertà e dai ribelli di Forza Italia, sempre più sul piede di guerra. Ieri sono stati depositati circa 7.800 emendamenti, una parte dei quali con chiaro intento ostruzionistico. Senza contare la fila di decreti in scadenza che aspettano l’ok dell’aula di Palazzo Madama prima della pausa estiva dei lavori, prevista entro la prima decade di agosto. In questo clima, è ormai certo che le votazioni sul ddl slitteranno di qualche giorno, forse addirittura a metà della prossima settimana, per concludersi (nello scenario migliore) entro fine mese.
A complicare ancora di più il quadro c’è anche l’asse trasversale a favore del referendum propositivo da inserire nella riforme. L’idea è contenuta in un emendamento con prima firma Doris Lo Moro (Pd), nel quale si prevede che i cittadini siano chiamati a pronunciarsi sui disegni di legge di iniziativa popolare che non siano stati esaminati dalla Camera entro dodici mesi. Un progetto sostenuto anche dalla Lega: «Chiediamo a Renzi un referendum propositivo come in Svizzera. Senza, la Lega non voterà questa brutta riforma».
Il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, intanto, rilancia: «Oggi il tema è il nuovo Senato - sostiene in un’intervista ad Avvenire e io sono serena: il treno corre. Mi auguro che non ci siano slittamenti. Una volta approvata questa riforma possiamo passare al tema del presidenzialismo. Chiudiamo, poi apriamo un nuovo tavolo». Non apprezza Vannino Chiti - «si scherza con il futuro del Paese» - e neppure Pippo Civati.

Repubblica 17.7.14
L’ultima paura di Palazzo Chigi “Il via libera rinviato a settembre”
di Goffredo De Marchis

ROMA. Il nemico è il tempo. I dissidenti, secondo Renzi, sono ormai un problema secondario. Il punto è che con 8mila emendamenti è praticamente certo che la riforma del Senato non potrà essere approvata prima dell’estate e slitterebbe a settembre. Tradotto: il premier e il suo governo dovrebbero rinunciare a una scadenza che è allo stesso tempo simbolica e impegnativa sul piano dell’affidabilità riformatrice dell’Italia. Per questo già oggi, nella conferenza dei capigruppo, bisognerà sondare il presidente di Palazzo Madama Piero Grasso. Tocca a lui decidere quando e come far scattare il contingentamento dei tempi. In parole povere, stabilire una data in cui l’esame del provvedimento deve concludersi con un voto.
Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi non si sbilancia. «Valutiamo giorno per giorno, è la strada migliore». Ma l’allarme a Palazzo Chigi è scattato ed è un allarme rosso. L’obiettivo finora è stato quello di non strozzare il dibattito sfuggendo così alle possibili accuse di un confronto negato cvhe sottintende la polemica più generale sull’autoritarismo. Sulla riforma costituzionale è escluso un voto di fiducia. Dunque, la marea di emendamenti e l’ostruzionismo annunciato delle opposizioni mette a rischio non il sì finale ma i tempi ragionevoli del voto. Persino a settembre. Ecco perché nell’esecutivo sono certi che prima o poi il presidente del Senato dovrà intervenire stabilendo una fine della discussione. Ma quando ha intenzione di farlo? Prima o dopo la pausa estiva?
L’approvazione entro agosto è fondamentale per il premier, tanto più con il semestre di presidenza italiana in corso. «Presentarci in Europa con le riforme fatte - spiega Renzi - significa rispondere alla domanda che lì ti fanno tutti: “Il vostro Paese è ancora riformabile?”. Per questo mi cadono le braccia quando vedo i dissidenti del Pd, che in assemblea non parlano e non votano ». In realtà il conteggio dei ribelli, di quelli cioè che sicuramente voteranno contro la riforma, si è stabilizzato intorno a una cifra irrisoria: 7 o 8. Fanno parte di questo gruppo Chiti, Mineo, Mucchetti, Tocci, Micheloni, D’Adda e Casson, quest’ultimo addirittura in bilico. Dall’altra parte, in Forza Italia, dopo il duro richiamo di Silvio Berlusconi e la minaccia di espulsione, si può dire con certezza che il fronte del no guidato da Augusto Minzolini non si allarga semmai si restringe. Resta il nodo degli emendamenti che s’intreccia con ben 4 decreti in scadenza. Ogni decreto da convertire, anche in caso di voto di fiducia (a questo punto scontato), porterà via almeno un giorno per ciascun provvedimento. Quattro giorni di votazioni vanno considerati persi nel cammino della modifica costituzionale.
Negli uffici del ministero sono cominciate anche le valutazioni degli emendamenti. Ce ne sono molti simili che possono essere accorpati, altri verranno accolti dal governo e dalla maggioranza facendo risparmiare un po’ di tempo. Ad esempio sulla quota di firme utili a chiedere un referendum e sui deputati europei inseriti nella platea dei grandi elettori del presidente della Repubblica. In questo modo si conta di eliminare un centinaio di proposte di modifica al testo base. È una goccia nel mare di carte che ha sommerso gli uffici del Senato e del governo. Non rimane che un intervento del presidente Grasso e della conferenza dei capigruppo dove comunque la maggioranza favorevole alle riforme è schiacciante. La soluzione però non è facile.
La scelta fatta finora è quella di tenere il dibattito aperto e libero. Di non strozzare i dissensi. Di far esprimere soprattutto le opposizioni senza esporsi ad attacchi di carattere polemico non sul merito ma sulle “tagliole” imposte dall’alto alla democrazia e alle minoranze. Bisogna vedere adesso se questa esigenza coinciderà con i tempi promessi dal governo. Tempi che Renzi ha tutta l’intenzione di rispettare.

il Fatto 17.7.14
Senatori Morituri
“Dissentiamo, non siamo solo frenatori”
di Fd’E


Terzo giorno di dibattito a Palazzo Madama. Hanno preso la parola anche i frondisti più noti: Chiti, Mineo e Mucchetti per il Pd, Minzolini e Bonfrisco per Forza Italia.
“Chi si oppone è etichettato come ‘frenatore’. Bella questa parola, mi ricorda Vulvia, la presentatrice di ‘Rai educational channel’, impersonata da Corrado Guzzanti”.
(Giovanni Endrizzi M5S)
“Prima ho fatto una piacevole chiacchierata con il senatore Zavoli, che di esperienza penso ne abbia ben più della mia. Mi faceva notare con riguardo a determinati atteggiamenti di alcuni presunti leader - dico presunti perché i leader sono un’altra cosa: i leader hanno autorevolezza, non autorità - che se andiamo avanti su questa china ci troveremo in tempi estremamente bui”.
(Bruno Marton, M5S)
“La mia esperienza è quella di un uomo di partito, perché penso che i partiti siano importanti e fondamentali nella vita democratica, ma penso anche che ognuno di noi deve rispondere alle proprie convinzioni e alla propria coscienza, almeno sui temi che riguardano la Costituzione”.
(Vannino Chiti, Pd)
“È conservazione, può darsi. Conservare la democrazia non è un male; conservare la libertà non è un male”.
(Chiti, Pd)
“Stiamo imboccando in senso contrario l’autostrada sul futuro della democrazia, in senso contrario, come nella barzelletta famosa” .
(Chiti, Pd)
“La questione che più allarma è l’evidente sproporzione tra il numero dei senatori, 100, e quello dei deputati, 630. Ciò di per sé rende secondario il ruolo del nuovo Senato ma soprattutto getta un’ombra sull’elezione del presidente della Repubblica e sulla indispensabile autonomia della Corte suprema”.
(Corradino Mi-neo, Pd)
“È la versione moderna di quell’Aula ‘sorda e grigia’ (e non proseguo la frase)”.
(Cinzia Bonfrisco, Fi)
“Se accettasse l’elezione diretta dei senatori bisognerebbe fare anche una legge elettorale per il Senato e questo gli creerebbe delle complicazioni sulla tabella di marcia che si è dato. Il sistema non sarebbe pronto per andare al voto nella prossima primavera. E a questa esigenza, a questa opportunità Renzi subordina ogni cosa”.
(Augusto Minzolini, Fi)
“È un esito che dovrebbe essere sottoposto all’Antitrust della politica, se mai questo tipo di Antitrust ci fosse”.
(Massimo Mucchetti, Pd)
“Da giovane ero innamorato del pensiero di Antonio Gramsci, e dunque a Guicciardini preferivo Machiavelli, maestro supremo di scienza politica. Con il tempo, leggendo anche altro, ho capito i limiti del Segretario fiorentino, soprattutto con la riflessione sul tentativo che fece il suo eroe, il Valentino, Cesare Borgia, di unificare l’Italia – obiettivo meritorio – con il pugnale, il veleno e la guerra e su come e perché quel tentativo fallì”.
(Mucchetti, Pd)
“Ricordo, per gli amanti della storia, che quel palazzo, attuale sede del Pd,sichiamacosìperchénel1622vi morì il cardinale Michelangelo Tonti, detto, appunto, il Nazareno. Questo cardinale nel 1609 si fece rilasciare dall’arcivescovo Paolo V un testamento, una facultas testandi, per poter disporre a proprio piacimento delle sue immense ricchezze, che altrimenti sarebbero state utilizzate per costruire il collegio del Nazareno. Quel testamento provocò guerre giudiziarie che durarono oltre cinquant’anni perché il cardinale, con subdoli codicilli inseriti in punto di morte, lasciò tutto a familiari e servitù”.
(Nunziante Consiglio, Lega)
“Se fate un giro nelle piazze, in treno, in corriera, tutti quanti sanno chi ha vinto la finale dei mondiali di calcio, tutti sanno che Dudù ha una fidanzata, ma, se parlate di Senato, Titolo V, legge elettorale e riforme costituzionali, sono pochi quelli informati nel dettaglio e sono ancora meno coloro che hanno capito il vostro allucinante progetto”.
(Sara Paglini M5S)
La Stampa 17.7.14
“Vietato dissentire”: così i partiti  reintroducono il vincolo di mandato
Dal premier a Berlusconi, passando per Grillo: l’articolo 67 viene scavalcato
di Mattia Feltri

qui

Il Sole 17.7.14
Trattativa no-stop sul contratto nazionale del trasporto aereo
La Cgil non firma sugli esuberi
di Giorgio Pogliotti


ROMA Sugli esuberi la Cgil (e il suo sindacato di categoria Filt) ha deciso di non firmare l'accordo quadro sottoscritto da Cisl, Uil, Ugl e dalle associazioni professionali Anpac, Anpav e Avia. «Questo matrimonio s'ha da fare nonostante Don Rodrigo», ha commentato il ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, giudicando «contraddittoria» la linea della Cgil.
Intanto prosegue ad oltranza il tavolo sul contratto nazionale del trasporto aereo (sezione vettori) e sul taglio una tantum del costo del lavoro per circa 30 milioni, da realizzare entro dicembre. Ieri dalle ore 21 al ministero dei Trasporti è ripreso il confronto, ma si è bloccato poiché sul contratto la Uilt ha sollevato il tema della misurazione della rappresentanza, proponendo che il peso dei naviganti sia calcolato rispetto ai soli dipendenti di Alitalia, come per un contratto aziendale, affinché conservino la centralità. Contrari gli altri sindacati, che in base all'Accordo interconfederale sulla rappresentanza, trattandosi di un contratto nazionale, hanno sostenuto che la rappresentatività si misura rispetto ai lavoratori del settore aereo. Il negoziato così si è arenato, eppure segnali distensivi, prima dell'inizio del tavolo, erano arrivati da Susanna Camusso che aveva annunciato: «la Cgil intende concludere la trattativa sul contratto e il costo del lavoro. Se i testi rimangono quelli di stanotte siamo pronti a firmare».
Secondo la proposta, per il 2014 non vi saranno aumenti contrattuali, che scatteranno nel biennio successivo, quando crescerà del 6,5% la componente fissa della retribuzione del personale navigante (circa 250 euro in più, secondo stime sindacali) e del 6% il minimo tabellare del personale di terra (circa 120 euro). Gli aumenti saranno erogati in due tranche, a maggio 2015 e luglio 2016. Per il 2014 la proposta del taglio del costo del lavoro pesa per 16,5 milioni sui piloti, per 8,5 milioni sugli assistenti di volo e 5 milioni sul personale di terra. Un lavoratore di terra perderà circa 100 euro al mese, un comandante 1.500 euro. La trattenuta è progressiva, dal 4% per i redditi tra 30-40mila euro al 10% oltre i 90mila euro.
Tornando al no all'accordo sugli esuberi, la Cgil in una lettera critica il ricorso alla mobilità al posto della Cig straordinaria, giudicando «le ipotesi di ricollocazione incerte». Per l'ad di Alitalia, Gabriele Del Torchio, «se non prevale un po' di buon senso non si va da nessuna parte e l'epilogo è drammatico», quanto alla Cgil «me l'aspettavo, era nella logica delle cose. C'è un passo positivo perchè hanno detto che firmeranno il contratto nazionale».

La Stampa 17.7.14
Un video esilarante
L’inglese di Renzi in remix Video parodia su YouTube:



l’Unità 17.7.14
Lo stop di Grillo al dialogo: «Vogliono una dittatura»
di Fed. Fan.


Oggi alle 14 a Montecitorio «naturalmente in streaming» ci sarà il fatidico incontro tra le delegazioni Pd e M5S per capire se si possa giungere a un’intesa su riformee legge elettorale o se il dialogo epistolare sia destinato a interrompersi brutalmente. Sul tavolo i dieci punti dei Dem ai quali i pentastellati hanno risposto in modo affermativo, con aperture nette, ma anche con distanze che permangono: sulle preferenze, sul premio di maggioranza alla lista anziché alla coalizione, e soprattutto sul Senato non elettivo.
Ma ci sarà da discutere anche su quello che i Cinquestelle più intransigenti considerano il vero grimaldello per far saltare il patto del Nazareno con Forza Italia: incunearsi nella disponibilità del governo (o almeno di parte di esso) a depotenziare l’immunità dei senatori nel senso dell’insindacabilità di voti e opinioni espressi nell’esercizio delle funzioni per estendere la nuova disciplina anche ai deputati. La stessa cosa varrà (anche se non è materia di legge costituzionale) per l’eventuale riduzione delle indennità. Scenario che difficilmente Renzi potrebbe accettare, perché sa bene che i deputati a scrutinio segreto possono tagliare i “cugini” di Palazzo Madama, ma obbligarli a toccare le proprie guarentigie potrebbe significare la fine per il percorso delle riforme.
Si vedrà. All’incontro di oggi per i grillini dovrebbero esserci Luigi Di Maio, Toninelli e i due capigruppo Paola Carinelli e Vito Petrocelli. Per il Pd Matteo Renzi, Roberto Speranza, Alessandra Moretti e Debora Serracchiani. Assente, salvo sorprese, Beppe Grillo, che ieri si è definito soltanto un «motivatore » dei suoi parlamentari. «Sono stanco - spiegava martedì a un gruppetto di senatori pentastellati - Non ce la faccio a venire troppo spesso da voi. Adesso tocca a Casaleggio». C’è stato anche il giallo sul trasferimento a Roma del guru milanese, vuoi per rincuorare vuoi per controllare le pecorelle in Parlamento: a pranzo al ristorante di Palazzo Madama, il leader è stato sentito annunciare l’imminente trasferimento di Casaleggio nella capitale (a settembre), ma in serata il partito ha smentito.
Di certo, Grillo appare lontano e disamorato della sua creatura. Già durante la campagna elettorale aveva messo le mani avanti: «Europee decisive, se perdo mi ritiro». Poi, gli ultimi giorni arrembanti di campagna elettorale che prevedevano al massimo una forbice di 4 punti con il Pd se non addirittura il sorpasso, fino alla doccia fredda dei risultati: tre milioni di voti in meno, venti punti sotto Renzi, lo scenario politico che da tripolare si fa (al momento) monopolare.
Per i pentastellati è un momento di difficoltà, una parte degli elettori contesta la scelta «isolazionista», anche i parlamentari sono divisi sull’argomento. La svolta è rapida: il premier passa da «ebetino di Firenze» a interlocutore legittimato dal consenso popolare. Si comincia a discutere - a mezzo missive - di riforme e Italicum.
Anche se Renzi continua a considerare l’eventuale adesione di M5S come aggiuntiva e non sostitutiva dell’asse con Forza Italia. «Non cambieremo in corsa i connotati del progetto» ripete. Anche perché da Grillo arrivano segnali contraddittori. Da un lato sostiene la linea trattativista di Luigi Di Maio, pupillo di Casaleggio e di fatto ormai reggente del partito. Dall’altro, fa trapelare con sconforto che lui «con questi non farebbe nessuna riforma». E ieri si è di nuovo espresso in modo molto critico sul tema: «È una dittatura a norma di legge». È il titolo di un post sul suo blog che riprende il duro l’intervento nell’aula del Senato del grillino Carlo Martelli contro il provvedimento sulle riforme. Nel post si contestano le frasi del premier che aveva parlato di «Parlamento ostacolo delle riforme... Queste cose le ho sentite dire solo nei regimi totalitari, neanche in quelli autoritari». Secondo Martelli ci stiamo avviando verso una «nuova dittatura leggera, nella quale rimane lo scheletro democratico» ma «il cui centro è il presidente del Consiglio». E in un altro post, a firma della deputata M5S Maria Elena Spadoni, si accusa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio di incoerenza ricordando le sue parole da sindaco di Reggio Emilia nel 2010, quando disse: «La Costituzione ci piace così com’è».
Il giorno prima, sempre sul sito di Grillo aveva scritto Alessandro Di Battista: «Possibile che si sono tutti venduti tutti per 80 euro? Proprio perché votate Pd avete il diritto di ribellarvi al Pd se diventa P2...». Poi su Verdini: «Vi sembra accettabile che a un rinviato a giudizio per reati gravissimi siano affidati i fili della riforma dell’intera architettura costituzionale?».
il Fatto 17.7.14
Stop alla Mongherini: Renzi sbatte la faccia sull’Europa
di Stefano Feltri


inviato a Bruxelles. La nomina di Federica Mogherini come ministro degli Esteri dell'Unione europea sembrava scontata, invece si è complicato tutto. Mentre il Fatto va in stampa la cena dei leader è in corso e si prospetta il rinvio di tutte le nomine della Commissione al 28 agosto. E se un candidato non passa al primo giro, difficilmente viene tenuto in caldo per un mese e poi ripresentato col rischio di una seconda bocciatura. “Angela Merkel ha detto sì alla Mogherini, chissà forse perché è terrorizzata che se non passa lei tocchi a Massimo D'Alema”, scherza Matteo Renzi in una pausa durante la cena dei leader nel palazzo di Justus Lipsius.
LA GIORNATA è complicata, comincia con gli attacchi del Wall Street Journal alla Mogherini che arrivano dopo quelli del Financial Times e dopo lo scetticismo che ha iniziato a circolare da giorni tra Bruxelles e Strasburgo: il ministro degli Esteri italiano ha troppa poca esperienza, rappresenta un Paese troppo amichevole verso la Russia di Vladimir Putin per i suoi legami energetici, appoggia un progetto di gasdotto che piace a Mosca ma non a Bruxelles (il South Stream) e quindi non è considerata una garanzia dai Paesi ex sovietici della New Europe, gli alleati più preziosi per gli Stati Uniti nell’area. Renzi capisce l’aria e decide di partire da Roma più tardi del previsto, salta il vertice dei socialisti che come tradizione anticipa la riunione dei capi di governo e arriva a Bruxelles quando i negoziati bilaterali sono già in corso da ore. Spera di imporre la propria linea. Ma tutto è confuso. Gianni Pittella, Pd, capo dei socialisti nel Parlamento europeo, nel pomeriggio spiega la posizione ufficiale della famiglia socialista, raggiunta all’unanimità: “I socialisti sono presenti in 21 governi europei su 28, quindi riteniamo di poter chiedere sia la presidenza del Consiglio europeo per Helle Thorning-Schmidt che la Politica estera per Federica Mogherini”. Peccato che i socialisti abbiano perso le elezioni, il primo partito nel Parlamento europeo è il Ppe che infatti ha espresso il presidente della Commissione nominato, Jean Claude Juncker. Visto che Juncker ha ottenuto la fiducia da una grande coalizione, ha dovuto promettere ai socialisti il portafoglio più importante della Commissione, quello agli Affari economici e monetari che andrà molto probabilmente al francese Pierre Moscovici . Per le altre poltrone che contano, Renzi era riuscito a far passare la seguente linea: ai socialisti, e nello specifico all’Italia, la Politica estera, la poltrona più prestigiosa dopo le presidenza. L’Alto rappresentante per la politica estera è membro sia della Commissione che del Consiglio, ha il doppio cappello, rappresenta l’Unione nelle crisi geopolitiche. Il Ppe, con Angela Merkel, ha dato il via libera in cambio della presidenza del Consiglio, i popolari hanno molti più nomi per la successione a Herman van Rompuy di quanti non ne abbiano i socialisti. Ma Pittella annuncia che quell’accordo non è più valido, si ridiscute tutto.
FEDERICA MOGHERINI ci ha messo del suo per indebolirsi: è andata in Russia da ministro degli Esteri del Paese che ha la presidenza di turno dell’Unione, ha invitato Vladimir Putin al vertice Asem (Europa-Asia) che si terrà a Milano in ottobre. Un evento europeo, non italiano. E a Bruxelles non l’hanno presa bene: ma come, noi cacciamo Putin dal G8 brussellese di giugno per la crisi ucraina e voi lo riammettete subito dopo senza chiedere niente a nessuno? Era l’occasione che aspettavano i Paesi della New Europe, quelli terrorizzati dal tornare sotto l’area d’influenza russa, per attaccare l’Italia: il Paese che, colpa anche del gas dell’Eni, è il più filo-russo di tutti, il più morbido sulle sanzioni contro Mosca. I lobbisti dell’energia a Bruxelles si sono attivati, per bloccare la Mogherini favorendo così progetti e aziende ostili a Mosca (ci sono in gioco miliardi). La Polonia ha colto l’opportunità : prima si è smarcata dal blocco ex sovietico, poi ha iniziato a negoziare. Renzi capisce il gioco di Varsavia e appoggia il nome del premier Donald Tusk per il Consiglio: è un popolare, piace ad Angela Merkel e garantirebbe la conferma della Mogherini. Nel pomeriggio l'ambasciata polacca a Roma lavora per la Mogherini, anche quella d’Israele si attiva. Ma non basta. La prova di forza dell’Italia rischia di rivelarsi una dimostrazione di debolezza.
il Fatto 17.7.14
Mogherini
La “telefonista” Dem con la zavorra di Putin
Da sempre di sinistra, continui cambi di casacca, da Veltroni a Bersani fino al rottamatore. Poi la gestione fuori linea su Mosca
di Carlo Tecce


E chi l’andava a dire a Washington? Questo è il problema. E chi rassicurava i paesi ex sovietici ? Questo è il problema più grosso. Dove non poté l’inesperienza, può la sintonia tra Federica Mogherini e lo zar Vladimir Putin bloccare l’investitura per il ministro italiano come alto rappresentante per la politica estera di Bruxelles. Forse l’etichetta di putiniana è eccessiva, ma il governo di Renzi (benedetto dagli Stati Uniti) e la Farnesina hanno indugiato troppo e troppo spesso su Mosca. Dall’inizio. Il primo marzo, un sabato, il giovane esecutivo si godeva un giovane fine settimane: palazzo Chigi deserto, centralini sotto assedio, vampe di guerra in Crimea, ansie diplomatiche. Ma l’Italia non interviene, neanche una parola. Mosca, non indossa l’elmetto (simbolico) e consegna all’Unione Europea i suoi generici timori: “La Russia rispetti la sovranità ucraina”. Sempre il 2 marzo, di sera, Barack Obama fa un giro telefonico per l’Europa, carezza l’amica Londra, blandisce Berlino, Varsavia e Bruxelles. Italia ignorata. Al secondo giro, sabato 8 marzo, tocca a Renzi. E la Mogherini, chiamata telefonista per la capacità di rispondere a Matteo e di indirizzarlo nel mondo, che fa? Professa dialogo, non considera ritorsioni (in denaro) contro Mosca, poi va a Bruxelles e si corregge.
GLI AMERICANI sanno che se il cuore italiano, o quel che resta di un retaggio storico, è saldamente a Washington, il portafogli sta a Mosca: l’energia, i miliardi, il gas. Il ministro non impone mai deviazioni all’asse Roma-Mosca che rimanda a
Silvio Berlusconi in vacanza nella dacia di Putin, non alimenta dubbi, non contempla traslochi strategici. E ogni volta che commenta, ogni volta esprime desideri, formula auguri, solite speranze: “Il governo italiano ha la consapevolezza che il rapporto di Unione Europea e comunità internazionale con la Federazione russa debba essere di sodalizio per le crisi mondiali: Siria, Libia, Iran, Libano e Afghanistan”. Un ragionamento che non fa difetto a una logica geopolitica, ma che indebolisce la fermezza di Europa e Stati Uniti che si agitano e scalciano mentre Vladimir Putin strappa la Crimea a Kiev o ammassa soldati al confine ucraino. Stavolta, l’abile Federica ha sbagliato i tempi e, assieme ai tempi, i modi. E stupisce. Perché la Mogherini ha un percorso da funzionaria di partito - spesso in segretaria nazionale, prima con Franceschini e poi con Renzi – che potrebbe confluire in un manuale di tattica politica. Eppure ha commesso un errore marchiano: appena l’Italia ha assunto la guida per il semestre europeo, la scorsa settimana, la Mogherini è andata in visita a Mosca dopo una tappa a Kiev. E non basta. Ha riesumato il progetto per il gasdotto South Stream che manda in solluchero Mosca perché permette di aggirare l’Ucraiana e poi ha invitato Putin all’incontro asiatico-europeo di Milano a ottobre, lo stesso Putin sospeso per il G8 di Bruxelles a giugno. Il sospetto dei paesi ex sovietici ha contaminato la stampa mondiale. Ieri i quotidiani Wall Street Journal, Der Spiegel e Le Monde hanno inchiodato la Mogherini che non segue la linea di Bruxelles (e di Washington) e, dunque, non può essere l’ambasciatrice di 28 paesi. Ancora ieri, Merkel e Obama hanno ringhiato contro la Russia. Renzi insiste perché vuole pesare il partito democratico nei socialisti europei e Mogherini ha spinto l’ingresso del Nazareno nel Pse.
In questi giorni, mentre a Bruxelles la valutano, la Mogherini è in viaggio tra Palestina e Israele, ci manca che l’Europa la rimproveri per la fotografia (rilanciata dal Wall Street Journal, ndr) con Yasser Arafat da fresca laureata in Scienze Politica (tesi sull’Islam). Renzi l’ha messo in testa a un elenco che prevede Massimo D’Alema in panchina, già in riscaldamento, e pronto a subentrare. Come il lìder màximo, Federica ha un sentimento arabeggiante. Ha vissuto di tattica, ora la tattica l’ha fregata.
ERA IL MEGAFONO dei ragazzi al liceo Lucrezio Caro di Roma, zona Ponte Milvio, non periferia. Ha preso una tessera dei giovani comunisti e poi l’ha tenuta rincorrendo le infinite conversione e, mentre osservava i capi che smarrivano il potere, anche Federica si convertiva. Quando Piero Fassino stava per tumulare i Democratici di Sinistra, Federica era già una tifosa di Walter Veltroni (il marito curava la comunicazione istituzionale in Campidoglio). Quando Veltroni s’è dimesso, Federica l’aveva già rinnegato scoprendo l’efficacia di Dario Franceschini. Quando Pier Luigi Bersani sfidava il sindaco di Firenze alle primarie, la dirigente democratica Federica– deputata in cerca di nuova legislatura – bocciava lo spavaldo di Rignano: “Renzi ha bisogno di studiare un bel po’ di politica estera... non arriva alla sufficienza”. Troppo semplice capire come sia finita durante il passaggio tra Enrico Letta e Matteo Renzi e chi abbia scelto la scafata Federica. Reliquia di un giovanilismo veltroniano in coppia con Marianna Madia, eletta in Emilia Romagna per non affrontare le “parlamentarie” democratiche, Federica Mogherini ha aspettato l’ascesa di Matteo e l’ha braccato. Poi non ha aspettato più, e ha rischiato tutto.
Corriere 17.7.14
Dall’Italia una candidatura divisiva
Sottovalutate le insidie europee
di Franco Venturini


Qualcuno dice che l’Europa è cambiata e c’è da sperare che sia vero, ma se dovessimo giudicare dalla appena trascorsa «notte delle poltrone» ogni ottimismo rischierebbe di risultare mal riposto. Più che mai per noi italiani, perché sono proprio l’Italia e i suoi candidati veri o presunti ad agitare le acque.
Il via alle grandi manovre, in verità, lo ha dato una bella signora danese: il primo ministro Helle Thorning-Schmidt, che a metà pomeriggio di ieri ha confermato quel che già aveva annunciato più volte: di non essere interessata alla carica di presidente del Consiglio, cioè al posto che sarà lasciato libero da Herman Van Rompuy. I socialisti del Pse, invece, si erano preparati a puntare su di lei e, nel ruolo di Alto rappresentante per la politica estera, sull’italiana Federica Mogherini, tanto fortemente sostenuta da Matteo Renzi quanto fortemente osteggiata da un gruppo di Paesi dell’ex blocco sovietico con ramificazioni a Londra e a Stoccolma, per rimanere in Europa.
La guerra civile in Ucraina aveva dunque già fatto irruzione nel vertice europeo con tutti i suoi morti e le sue contrastanti ambizioni strategiche quando la definitiva rinuncia della Thorning-Schmidt ha rimesso sul tavolo, o almeno così è parso, una opzione già evocata nel recente passato: perché non Enrico Letta al posto di Van Rompuy? Letta sarebbe stato accolto benissimo, e nel contempo il caso Mogherini non avrebbe più avuto ragione di esistere.
La notizia poi smentita di una proposta in tal senso fatta dallo stesso Van Rompuy a Renzi sarebbe venuta — il condizionale è davvero d’obbligo — da ambienti di Forza Italia abituati ai mercanteggiamenti europei, il che non mancherà di mettere la classica pulce nell’orecchio del governo. Ma un fatto rimane, ed è su questo che occorre riflettere: è perfettamente comprensibile che i vertici della Ue cerchino sulla candidatura Mogherini una soluzione il più possibile consensuale, e che non vogliano arrendersi alle lacerazioni davvero eccessive ma reali che in questi giorni si sono manifestate.
Ieri la presidente della Lituania è stata la più dura e anche la meno accettabile, sostenendo di non volere nella carica di Alto rappresentante «una persona filo-Cremlino». Alzando al massimo la tensione sul capitolo dei rapporti con Mosca il gruppo anti-Mogherini conta di rendere sempre più difficile la sua nomina fino a logorarla definitivamente, anche se ben poco consente di definire l’attuale ministro degli Esteri una filo-russa (semmai questa sarebbe in ogni caso la linea del governo, non soltanto la sua). Ma il fatto che tra un gruppo di Paesi europei da una parte, e l’America con un altro gruppo di Paesi europei dall’altra, sia in corso da molte settimane un braccio di ferro sulla portata delle sanzioni anti-Russia per l’Ucraina (ieri sono state varate nuove sanzioni, più dure delle precedenti europee ma meno dure di quelle decise sempre ieri dagli Usa), crea una cornice ideale per usare Putin come un ariete all’interno della Ue: l’ariete che potrebbe affondare la candidata italiana.
L’impressione è che Matteo Renzi abbia sottovalutato le difficoltà dell’impresa, dando troppo presto la nomina per acquisita con conseguente esposizione della Mogherini al fuoco incrociato del partito avverso, e soprattutto ignorando i pur forti legami esistenti tra gli eventi ucraini e le loro ripercussioni all’interno della Ue. Proprio su quel confine che ha sempre diviso i «vecchi» soci da quelli «nuovi»: i rapporti da tenere con Mosca, del cui impero i «nuovi» hanno buona e non lieta memoria. Se poi alle divisioni europee si aggiunge un Obama a caccia di rivincite contro le accuse di debolezza che gli vengono rivolte negli Usa, lo scenario che Renzi avrebbe dovuto vedere diventa completo.
Non ci sono state a Bruxelles vittorie o sconfitte. Ma in nessun caso, anche in quello progressivamente meno probabile di una nomina della Mogherini, il suo cammino potrebbe ormai presentarsi privo di ostacoli e di recriminazioni. Se invece la nomina non ci sarà nemmeno nelle prossime settimane, l’imprudenza di Renzi lo avrà esposto a una sconfitta secca ma ricca di insegnamenti, da scambiare con una diversa presenza dell’Italia nella Commissione europea.

Repubblica 17.7.14
Il vero nodo della partita
La partita delle nomine è in realtà un durissimo braccio di ferro tra i due grandi partiti europei, Ppe e socialisti, sulla ripartizione delle poltrone di vertice
di Andrea Bonanni

SAREBBE suggestivo credere che l’intera Europa sia rimasta appesa alla cerimonia della campanella, all’ormai celebre passaggio di consegne a Palazzo Chigi che ha fissato nell’immaginario collettivo il gelo insanabile tra Matteo Renzi ed Enrico Letta. Sarebbe suggestivo, ma non è così.
La partita delle nomine che si è aperta ieri sera a Bruxelles è in realtà un durissimo braccio di ferro tra i due grandi schieramenti europei, Ppe e socialisti, sulla ripartizione delle due poltrone di vertice che restano dopo la nomina del popolare Juncker alla guida della Commissione.
ISOCIALISTI , che in Parlamento hanno solo una manciata di seggi meno del Ppe, vogliono tutte e due: quella del presidente del Consiglio europeo e quella dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue. I popolari ne vogliono concedere solo una. Il vero nodo, dunque, è il colore politico da attribuire ai «top jobs» europei. I nomi di Enrico Letta e di Federica Mogherini sono tra le molte variabili di un’equazione a due incognite che per ora i leader europei non riescono a risolvere.
A complicare una partita che comunque già non si presentava semplice è stato ieri pomeriggio il vertice dei leader socialisti, a cui Renzi e Hollande hanno avuto il torto di non partecipare confidando sul fatto che bastasse un loro incontro bilaterale già in programma. Da quel vertice è uscita la richiesta formale di avere tutte e due le poltrone ancora in ballo: quella del presidente del Consiglio per la danese Thorning- Schmidt (che poi ha detto di non essere interessata) e quella di Alto rappresentante per Federica Mogherini. I popolari sono immediatamente passati alle contromisure sottolineando l’opposizione dei governi dell’Est alla Mogherini e attribuendo a Van Rompuy l’idea di proporre Enrico Letta come presidente del Consiglio europeo.
In realtà il nome di Letta circola da tempo negli ambienti europei, anche se ieri nessuno lo ha formalmente messo sul tavolo. L’ex premier è molto apprezzato nelle capitali che contano, da Londra a Parigi a Berlino. Probabilmente più che a Roma. Ma a suo sfavore gioca il fatto che un altro italiano siede già sulla poltrona più importante d’Europa: quella del presidente della Bce autorevolmente occupata da Mario Draghi. Può sembrare paradossale ma l’unica, remota, possibilità che il predecessore di Renzi possa davvero essere chiamato a quell’incarico, è che il suo nome venga sostenuto dagli altri governi e non da quello italiano. Se l’Italia se ne facesse carico in qualche modo, se Letta diventasse a qualsiasi titolo un candidato italiano, finirebbe immediatamente sacrificato sull’altare di Mario Draghi. Detto questo, se mai sul nome di Letta si dovesse veramente coagulare un consenso bipartisan dei leader popolari e socialisti, sarebbe inconcepibile che fosse proprio l’Italia a mettere un veto contro di lui. Anche perché la carica di Presidente del Consiglio europeo è l’unica che consente al Paese che lo esprime di avere in più anche un proprio membro della Commissione, scelto dal governo in piena autonomia.
Ma, al punto in cui stanno i giochi fino ad ora, il nome di Letta sembra essere stato evocato solo per sventare la candidatura di Federica Mogherini: questa sì formalizzata pubblicamente dal governo italiano. È ovvio, infatti, che l’Italia non potrebbe mai affiancare a Draghi sia il presidente del Consiglio sia l’Alto rappresentante per la politica estera. E questo è il vero snodo della partita. Se cadesse la candidatura Mogherini, i socialisti infatti difficilmente potrebbero trovare un altro nome da proporre per l’incarico di «ministro degli Esteri» della Ue, visto che il governo francese vuole per Moscovici la poltrona di commissario agli affari economici e visto che D’Alema non sembra incontrare il gradimento delle capitali che contano. E dunque la casella tornerebbe in gioco e i popolari potrebbero accaparrarsela vincendo alla grande il derby delle nomine.
E così si torna alla casella di partenza: a quale partito vanno le due poltrone che restano da assegnare? Se i socialisti, come vorrebbe l’Italia, si concentrassero sulla richiesta dell’Alto rappresentante, la poltrona andrebbe con ogni probabilità alla Mogherini. Fino a che continuano ad aspirare anche alla carica di Presidente del Consiglio, la partita resta aperta e le chances della candidata italiana si assottigliano
il Fatto 17.7.14
Giuseppe Civati
“Con voi per le buone riforme”
di Giuseppe Civati


Caro Direttore, ho letto con molto interesse i dieci punti della Vostra proposta per una “Democrazia partecipata”. Si tratta di punti che non solo in gran parte condivido ma di molti dei quali mi sono fatto già promotore fuori e dentro il Parlamento.
Di questi temi abbiamo parlato al Politicamp di Livorno nello scorso fine settimana, iniziando i nostri lavori proprio sui temi della partecipazione, curati da Andrea Pertici: dal rafforzamento della democrazia diretta alla previsione di istituzioni davvero rappresentative, cioè scelte dai cittadini con leggi elettorali che assicurano il rapporto elettori-eletti. Su questo si impegnerà anche Possibile, l’associazione che a Livorno abbiamo lanciato come momento di incontro, sulle grandi scelte popolari, di tutta la sinistra repubblicana, larga e aperta a tutte le forze politiche e alle associazioni che si riconoscono in questo campo, che deve crescere e divenire maggioritario.
In Parlamento ho portato avanti molti dei punti che Voi indicate. In particolare mi sono impegnato – presentando anche in Senato una mozione – per un sistema elettorale uninominale maggioritario (basato su quello della legge elettorale Mattarella nella versione che era prevista per il Senato, cioè senza listini bloccati e scorporo); ho quindi presentato lo scorso autunno una proposta di legge sul conflitto d’interessi, ispirata al sistema americano e in grado di separare davvero gli interessi privati da quelli pubblici; ho poi depositato – prima che lo facesse il governo – una proposta di revisione costituzionale per superare il bicameralismo paritario, con forte riduzione del numero di deputati e senatori, la fiducia alla sola Camera e un generale miglioramento dell’efficienza delle scelte da compiere; più recentemente, infine, sono stato promotore di una proposta sulla partecipazione, che ha tra i punti centrali l’abbassamento del quorum del referendum abrogativo e l’effettività dell’iniziativa legislativa popolare, con la sottoposizione all’approvazione con referendum di quelle che non saranno approvate dal Parlamento.
Su queste basi, quindi, credo che possiamo procedere insieme sui punti condivisi, perché si facciano riforme che abbiano davvero il segno del cambiamento, per aumentare la consapevolezza dei nostri concittadini verso riforme buone.
il Fatto 17.7.14
I musicanti del premier nel Paese dei “Perché no?”
di Luisella Costamagna

Cari “musicanti del Premier”, come vi ha definito qualche giorno fa Eugenio Scalfari (che ha lasciato la banda), avete presente il ventennio berlusconiano? Se sì, saprete che può essere diviso in due fasi.
La prima razionale, in cui ci si scontrava sul merito: rivoluzione liberale, cosa pubblica come un’impresa, “un milione di posti di lavoro” da un lato; conflitto d’interessi, leggi ad personam, “odore dei soldi” di dubbia provenienza dall’altro.
La seconda fase è stata più irrazionale, pura tifoseria: se insistevi con critiche circostanziate, ti si rispondeva con visceralità da stadio: “Uff, la solita lagna”, “siete ossessionati”, “meno male che Silvio c’è”.
Con Renzi, complice il vostro concerto, sembra di essere già nella fase due (beninteso, senza inchieste e interessi personali): puro innamoramento. Le “farfalle nella pancia”, la mano che ti sfiora e non capisci più niente. Ma proprio niente.
Il razionale si ferma alla facciata: è giovane, è nuovo, vuole cambiare le cose. Punto.
Un paese innamorato, ipnotizzato , e in attesa: “Se sono rose fioriranno, facciamolo provare”.
Renzi lo sa: chi ha davanti pende dalle sue labbra. Così dona “baci perugina” (slogan, battute, annunci) e liquida come “gufo” (invece di rispondere nel merito)chi si permette di fare qualche pulce, di riportare il dibattito su un piano razionale.
Berlusconi a volte ha trovato la strada in salita perché, nonostante il consenso degli elettori, aveva contro una parte significativa del blocco media/classe dirigente. Renzi no. Gode dell’innamoramento di entrambi, e il “lavoro” dei secondi (voi musicanti) alimenta l’invaghimento dei primi. Come fa la signora Maria a capire se il divino Renzi ha la pancetta, se viene sempre photoshoppato? Nel dubbio, il poster in camera resta.
Così innamorata, l’Italia è diventata il paese del “Perché no?”. Il “Yes, we can” obamiamo (importato, non a caso, dal renziano Veltroni) si è trasformato nel “Sì, con me tutto è possibile”. Madia e Boschi ministre? Perché no? Senato di nominati con immunità? Chi vince prende tutto senza contrappesi? Perché no? Tutto è possibile: non solo fare cose che faceva Berlusconi (norma ad personam per la condanna in primo grado per danno erariale da presidente della Provincia; o frasi silviesche come “L’Italia è molto più forte di come si racconta in sede internazionale”), ma anche quello che non è riuscito a fare(stravolgere il Parlamento, o togliere l’articolo 18 ai neoassunti).
Senza contare l’averlo scelto come interlocutore da condannato, incandidabile e pure decaduto.
Sì, tutto questo, e altro, ora è possibile . Senza scandalo. Tanto poi voi musicanti intervistate Renzi e scrivete “Si è svegliato alle 5 del mattino per leggere il suo livre de chevet”, “premier multitasking”, “Luic’è”(ma non era Dio?), e via a incensare; mentre pochi altri–come questo giornale – sono gufi. Più che in Telemaco, gli italiani dovrebbero immedesimarsi in Ulisse e farsi legare, per resistere alle vostre sirene.
Cari musicanti, ok la fiducia in un governo, ma così non è troppo? Non è questione di essere gufi, ma solo – come scrive Galli della Loggia – bisogno di verità. Per capire se l’innamoramento può lasciare il posto all’amore. O se è solo un’infatuazione.
Un cordiale saluto.

Corriere 17.7.14
La disciplina della verità
di Michele Salvati

«Bisogna dire la verità agli italiani». Non so quanti siano gli articoli che ho scritto su questo giornale e che si concludevano con quel ritornello: forse troppi. Li ho scritti quando al governo era Berlusconi e imperava una filosofia alla Mike Bongiorno («allegria!»); e quando al governo era la sinistra, un po’ più sobria ma che, con la verità, non aveva un rapporto molto diverso. «La verità mi fa male», cantava Caterina Caselli alla fine degli anni 60. Fa male a un politico dire agli italiani che per troppo tempo hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi — il debito ne è la conseguenza — e che, per rientrare e tornare a crescere, sarà necessario un lungo periodo di sofferenze, durante il quale molte istituzioni e rapporti cui si sono assuefatti dovranno essere radicalmente riformati. Nella politica, nella pubblica amministrazione, nell’istruzione, nella giustizia, nel Mezzogiorno, nella legislazione del lavoro, nell’impresa, e si può continuare. Le sofferenze, in realtà, sono iniziate da molto tempo: è almeno dall’inizio del secolo che il Paese ristagna e la prospettiva di un declino secolare si avvicina. Ma la ragione per cui gli italiani devono subirle — la verità, appunto — non è per loro ancora chiara. E ancor meno chiaro è se le riforme promesse saranno giuste e radicali quanto è necessario ad evitare che debbano subirle anche i loro figli. A partire da queste convinzioni — che mi sono formato attraverso lo studio delle origini del declino italiano — ho provato una forte sintonia con l’editoriale che Galli della Loggia ha scritto sul Corriere di lunedì scorso: «Dirsi in faccia un po’ di verità». Due domande, però, che rivolgo anche a me stesso.
La prima è ovvia: qual è la verità? In altre parole, qual è l’analisi più affidabile dei guasti che corrodono il nostro Paese e, di conseguenza, quali sono le aree nelle quali si dovrebbe intervenire con le riforme? E come? Un giudice, ma anche uno storico, sanno benissimo com’è difficile ricostruire la verità: nel film Rashomon , Akira Kurosawa ne ha dato una rappresentazione indimenticabile per la sua forza. Dagli esempi che Galli della Loggia riporta mi sembra di capire che la sua verità assomiglia abbastanza alla mia. E poi i guasti nelle istituzioni, nell’economia, nella società, nella cultura e nelle mentalità del nostro Paese sono così evidenti e macroscopici che dovrebbero bastare criteri elementari di efficienza e di giustizia — condivisi dalla gran parte dei nostri concittadini, quali che siano le loro convinzioni politiche — per farne una narrazione capace di ottenere un largo consenso. Temo che le cose siano un po’ più complicate di così, dato che in Italia circolano oggi tante «verità» partigiane, un quasi ossimoro. Ma ammettiamo, senza concederlo, che le cose siano abbastanza semplici da poter passare alla seconda domanda.
Basterà questa verità, questa narrazione, per «mobilitare le menti e i cuori degli italiani e in questo modo spingerli al rinnovamento e all’azione»? In altre parole — perché di questo si tratta — che cosa deve fare un politico dotato del carisma di Matteo Renzi? Se dire la «verità», e quanta verità dire, sia sufficiente a «mobilitare le menti e i cuori» in un Paese così frammentato culturalmente e politicamente diviso com’è l’Italia — è un giudizio che conviene lasciare al politico, perché questo — l’intuito per il consenso — è una parte essenziale del suo mestiere e di esso Renzi ha dimostrato sinora di essere ben provvisto.
A noi come cittadini interessano altre parti del suo mestiere, anzi della sua vocazione: quelle che Max Weber descrive con la tripletta passione, responsabilità, lungimiranza. Passione vuol dire dedizione ad una causa esterna da sé (la vanità e la ricerca del potere di per se stesso è uno dei crimini del politico) e questa passione spero che Renzi ce l’abbia: la sobrietà con cui ha reagito alla grande vittoria elettorale delle Europee promette bene. Responsabilità vuol dire che la causa che il politico si prefigge — nel caso nostro sollevare il Paese dall’infelice condizione in cui è caduto, e così facendo migliorare anche la situazione dei nostri concittadini più disagiati — dev’essere la stella polare del suo agire, l’unico metro con cui misura il suo personale successo. E lungimiranza vuol dire — la faccio breve — freddezza, realismo, capacità di valutazione distaccata. Le cose che Galli della Loggia vorrebbe che Renzi dicesse agli italiani — la «verità» — io vorrei che le pensasse lui e agisse in conseguenza, con la massima lungimiranza, astuzia e freddezza di cui è capace. Se non ne fosse intimamente convinto la tripletta weberiana lo porterebbe in direzione sbagliata: resterebbe un politico per vocazione, ma non il politico di cui oggi il Paese ha bisogno. Perplessità e preoccupazioni gli osservatori esterni — Galli della Loggia, chi scrive e tanti altri — è comprensibile che le abbiano e la mia maggiore è se Renzi, e il gruppo dirigente che ha portato al governo, abbiano le risorse tecniche e culturali adeguate al compito, alle fatiche di Ercole, che si sono addossati. Ma consigli non ne ho, se non quello di tenersi sul comodino il profondo e commovente saggio di Max Weber cui ho fatto riferimento: La politica come vocazione.

Il Sole 17.7.14
L'impeto senza metodo non realizza il cambiamento
di Fabrizio Forquet

Uno Sturm und Drang che ancora non conosce la sistemazione teorica dell'idealismo: il riformismo renziano acquista sempre più la fisionomia di un impeto senza organicità. Il Sole ha provato a darne una razionalizzazione, e ne sono nate le pagine 2 e 3 di questo giornale, ma anche con una certa esperienza di norme si fa fatica a seguire le linee e i contorni del disegno complessivo.
Lo slancio, appunto, c'è. Così come lo sforzo evidente e meritevole di produrre il cambiamento necessario, a partire proprio dall'economia. Va incoraggiato il premier nel tentativo di superare le resistenze di un'Italia che, nel suo immobilismo, si è messa ai margini delle trasformazioni che hanno cambiato il mondo negli ultimi 25 anni. Ma l'impeto, pur necessario in questa fase, non basta. Produce antitesi, quasi mai sintesi.
Lo dimostra, una su tutte, la vicenda del Jobs Act. Renzi ne presentò con grande urgenza le linee guida nei primissimi giorni dell'anno, quando non era ancora premier. Letta ragionava sul programma 2014, Renzi in poche ore tirò fuori la sua "rivoluzione" del lavoro. Sono passati sei mesi e l'approdo in Aula al Senato del Ddl 1428, la delega sul lavoro appunto, è slittato a fine mese, in attesa che la maggioranza trovi l'intesa sul contratto a tutele crescenti. Poi toccherà alla Camera e, quindi, ai decreti delegati. La rivoluzione, insomma, può attendere.
Anche perché le norme sul lavoro si devono far largo nel vero e proprio ingorgo parlamentare di questi giorni. Tra decreto competitività, Dl e Ddl pubblica amministrazione, riforme istituzionali, sono centinaia gli articoli da discutere e approvare, con il termine dei due mesi che incombe pericolosamente per la conversione dei decreti. Il tutto complicato ulteriormente dalla mole delle norme attuative che continuano a moltiplicarsi mentre si fa fatica a smaltire quelle ereditate dai precedenti governi.
La «nostra novità è il metodo» annunciava Renzi all'esordio del suo governo. Oggi quello che manca è proprio il metodo e l'organizzazione. Il solista c'è, così come la visione e il coraggio, ma lo schema di gioco non ancora. E così la palla, banalmente, non va in porta.

l’Unità 17.7.14
La patrimoniale è necessaria contro le disuguaglianze
di Alfiero Grandi


CONCORDO CON LANDÒ. LA PATRIMONIALE È NECESSARIA E VA UTILIZZATA PER LA RIPRESA ECONOMICA E RIDURRE LA DISUGUAGLIANZA. Oggi la parte di reddito nazionale che va ai lavoratori dipendenti è calato del 15 %, contro il 10% nell’area Ocse, malgrado siano relativamente aumentati. La globalizzazione viene usata come ricatto per ridurre il peso sociale, produttivo e il reddito dei lavoratori subalterni, scaricando su di loro il peso della concorrenzialità. Il lavoro viene svalorizzato e la competitività decade portando ad altre svalorizzazioni, in un circuito senza fine. È stato fatto così con l’estensione del tempo determinato senza vincoli. In questo il governo non ha cambiato verso. Né sembra finita. Se i redditi da lavoro si riducono, con essi le pensioni, e la povertà aumenta, la domanda interna si riduce. Tutti vogliono essere più competitivi all’estero, ma non è possibile per tutti.
Il superamento della crisi non è tornare a prima, quindi va messo in discussione il modello di sviluppo, la sua qualità ambientale, sociale e il rapporto tra i sessi. Vanno evitate sciocchezze come rimettere in discussione i patti stipulati come nel fotovoltaico. Se cambi i patti hai voglia di fare appello agli investitori internazionali. Il governo impegnandosi a mantenere i patti dovrebbe proporre un piano energetico fondato su rinnovabili e risparmio, fondamento di una politica industriale degna di questo nome.
Gli 80euro sono stati una scelta discutibile. È giusto ridurre prioritariamente il fisco sulle buste paga, ma con solo quelle risorse a disposizione l’impiego migliore era un piano di investimenti per creare nuova occupazione nell’ambiente, nelle rinnovabili, in utilità sociale. Secondo Gallino con 10 miliardi di euro si potrebbero creare 1 milione di posti di lavoro. Sarebbe una svolta per tante persone e per l’economia, dando vita a un grande patto di solidarietà tra lavoratori occupati e disoccupati. La scelta è caduta sugli80euro, forse era meglio avere più coraggio. Per rilanciare l’economia occorrono risorse e un’interpretazione elastica del patto di stabilità non darà granché. Quindi occorre reperire risorse all’interno.
Landò ricorda diverse ipotesi di imposta patrimoniale, che potrebbe dare almeno 20 miliardi di euro. Queste risorse andrebbero utilizzate per creare nuova occupazione, senza sottovalutare altri interventi. Puntare tutto sui tagli di spesa può dare risultati discutibili. Keynes ha spiegato che tagliando la spesa si comprime la domanda, salvo che si tratti di tangenti o economia criminale.
Sui capitali portati all’estero il Parlamento si appresta a varare un provvedimento che dovrebbe convincere gli evasori a riportare i quattrini in Italia. La preoccupazione di creare differenze con gli evasori «interni» estenderebbe il provvedimento a chi ha tenuto i quattrini in Italia. Si afferma che non è un condono, né una sanatoria. Possiamo chiamarlo trattamento di favore? Chi ha frodato il fisco, non ha emesso fatture, né pagato l’Iva, ha nascosto i suoi redditi e imbrogliato sui bilanci vedrebbe ridotte le pene in modo da non finire in galera e pagherebbe meno di chi è stato già pizzicato. È questo il modo di rilanciare la lotta all’evasione ? Se la Svizzera inizierà a collaborare perché fare uno sconto anticipato su pene e sanzioni ? Chi ha commesso un reato deve pagare il dovuto, in euro e in pene. Sul sistema fiscale: oggi 100 euro guadagnati non hanno lo stesso trattamento fiscale, mentre tutti dovrebbero pagare la stessa imposizione senza riguardo all’origine del reddito. La Costituzione afferma che ciascuno deve contribuire secondo le sue capacità. Oggi in realtà non è così.
Queste ed altre misure possono migliorare l’equità sociale come contributo alla ripresa economica, comprendendo la lotta alla povertà, il diritto alla salute e all’istruzione fino ai livelli più alti e ad una vecchiaia serena, che i giovani non avranno. Perché se avessero il lavoro dei padri, e non è così, avranno comunque una pensione inferiore del17%.Ilproblema debito pubblico esiste, ma deve essere affrontato con altre modalità. Se si pagano, come è giusto, i debiti della Pa il debito arriverà al140% del Pil. Pensare di risolvere il problema con un po’ di ripresa economica, che non c’è, e un po’ di inflazione vuol dire prenotare un futuro orribile e forse il consolidamento del debito pubblico. Il problema del debito pubblico italiano è europeo e dovrebbe essere affrontato con la modifica delle regole, affidandone alla Bce l’acquisto al di sopra del 60%, alle stesse condizioni date alle banche, che hanno realizzato enormi guadagni comprando debito pubblico. Per una svolta europea occorre cambiare le regole altrimenti le risorse faticosamente ottenute serviranno per acquistare i titoli necessari per pagare i debiti della Pa. Per questo i 4 referendum anti austerità possono aiutare. I nodi vanno affrontati altrimenti non usciremo dalla crisi e aumenteranno le disuguaglianze.
Repubblica 17.7.14
“Tutta l’Italia può essere spiata” il rapporto segreto sulla nostra privacy
L’allarme del garante: buco nella sicurezza, a rischio telefonate, sms e mail
di Marco Mensurati e Fabio Tonacci


ROMA. C’è un enorme buco nero nella sicurezza delle telecomunicazioni italiane. Una falla talmente ampia da mettere a disposizione di chiunque volesse attrezzarsi telefonate, sms, email, chat, contenuti postati sui social network. Tutto il traffico online del Paese, insomma. Non si tratta di un allarme generico ma di un pericolo più che concreto, tanto che negli ambienti dello spionaggio internazionale si dà per scontato che l’Italia sia da anni «interamente controllata». Da Nord a Sud. Quello che non si sa, però, è da chi.
A denunciare questo buco è una relazione riservata del Dipartimento attività ispettive dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, inviata al presidente del Consiglio dei ministri, al ministro per lo Sviluppo economico, a quello dell’Interno e al sottosegretario con delega all’Intelligence Marco Minniti. Tre pagine che riassumono un rapporto lunghissimo, stilato dagli ingegneri informatici del Garante tra aprile e maggio dopo lo scandalo mondiale del Datagate del 2013. E nonostante le rassicurazioni del governo italiano, che in quell’occasione, per bocca dello stesso Minniti, aveva detto che «la tutela della privacy delle comunicazioni interne in Italia è garantita con ragionevole certezza».
Tutto ruota intorno agli Internet eXchange Point (IXP) e ai sistemi di sicurezza, insufficienti, che li dovrebbero proteggere. Gli Ixp sono delle infrastrutture chiave per il funzionamento di Internet. Di fatto sono dei luoghi fisici in cui convergono tutti i cavi che trasportano i dati degli utenti dei vari Internet Service Provider (Telecom, Fastweb, H3G, ecc. ecc.). In questi luoghi, i dati vengono letti, elaborati e dunque smistati nella Rete. Per fare un esempio: le informazioni di navigazione di un utente qualsiasi che da rete Fastweb si colleghi con un sito il cui server è ospitato da Telecom, passa necessariamente per uno di questi Ixp. In Italia ce ne sono nove, ma tre sono quelli fondamentali: uno a Milano (il “Mix”), uno a Torino (il “Top-IX) e uno a Roma (il “NaMex”).
«Tali apparati - scrivono gli ispettori del Garante - dispongono di funzionalità tecniche che possono consentire di replicare, in tempo reale, il traffico in transito dirottando il flusso replicato verso un’altra porta (port mirroring)». Nel corso dei controlli questa funzione non era attivata, specificano gli ispettori, aggiungendo però che se qualcuno volesse esaminare il traffico in transito potrebbe farlo «con una certa facilità, attivando la funzione di port mirroring e poi utilizzando appositi strumenti di analisi». Sarebbe dunque un gioco da ragazzi duplicare il traffico degli utenti, dirottarlo altrove su grossi database e poi con calma analizzarlo. Certo occorrerebbe prima entrare dentro queste strutture ma, è proprio questo il punto, la cosa appare tutt’altro che impresa ardua.
«Abbiamo una certificazione di sicurezza Iso27001», spiega l’ingegner Michele Goretti, direttore dell’Ixp di Roma. «E anche l’ispezione del Garante non ha fatto emergere problemi». In realtà non deve essere andata proprio in questi termini se nella relazione c’è scritto che sono emerse «una serie di gravi criticità sulle misure di sicurezza logiche e fisiche concretamente adottate da queste società/consorzi nella gestione dei loro sistemi ».
«La cosa merita la massima attenzione - continuano gli ispettori - in quanto si tratta di strutture nevralgiche nel sistema di comunicazioni elettroniche del Paese poiché attraverso questi nodi di interscambio passano enormi flussi di traffico relativo alle comunicazioni degli abbonati e utenti (anche pubbliche amministrazioni e impresi) dei principali operatori nazionali». Da una decina di anni anche le chiamate vocali (sia da fisso sia da mobile) vengono digitalizzate, sono cioè trasmesse via web. «Per tanto un inadeguato livello di sicurezza può riflettersi negativamente sia sui diritti dei singoli cittadini, pregiudicando la riservatezza delle loro comunicazioni e la protezione dei loro dati personali, sia gli interessi istituzionali ed economici degli enti e delle imprese».
Il rischio, secondo Goretti, è molto ridotto: «In linea teorica la possibilità di duplicare i dati c’è. In pratica sarebbe molto complesso farlo e i risultati sarebbero molto parziali: bisognerebbe duplicare i dati di tutti gli Ixp del paese». Cosa complessa ma certo non impossibile, visto che gli hardware ospitati in queste strutture sono di varia provenienza: ci sono, ad esempio, router a marchio Huawei e Cisco, due multinazionali non estranee alle recenti polemiche sullo spionaggio. La manutenzione delle macchine può essere fatta anche da remoto e volendo non sarebbe complicato avviare funzionalità di mirroring e dirottare il traffico copiato. Tra i 132 operatori connessi al “Mix” di Milano ci sono gli americani At&T;, Amazon, Facebook, Google, Microsoft, Verizon. Giuliano Tavaroli, ex responsabile della sicurezza di Telecom e del Gruppo Pirelli, la vede in maniera a dir poco laica: «Il problema non è se i dati vengano o meno copiati. Questo in fondo starebbe nelle cose, e al massimo bisognerebbe capire chi è che intercetta e perché, visto che in Italia i nostri servizi segreti non dispongono dei mezzi per immagazzinare e analizzare moli significative di dati. Il vero problema è che, considerato il livello scarso di sicurezza di queste strutture, se fossero intercettate in Italia, oggi, non ce ne riusciremmo nemmeno ad accorgere».
Oltre che di sicurezza e di privacy, gli ispettori del Garante ne fanno anche una decisiva questione di regole: «Per svolgere la propria attività gli Ixp non hanno la necessità di trattare i dati personali degli abbonati o degli utenti e quindi (...) non assumono la qualifica di titolare del trattamento, in relazione alla quale il Garante potrebbe prescrivere loro direttamente le misure ritenute necessarie o opportune per rendere il trattamento dei dati conforme alle disposizioni di legge». Come a dire, sono liberi di fare ciò che vogliono, senza essere controllati.
La Stampa 17.7.14
Cognome materno, balletto infinito
Slitta ancora la legge della discordia
Arenata alla Camera la norma che mette fine all’inevitabilità del cognome
del padre introducendo invece la possibilità di scelta da parte dei genitori
Frenano FI, Lega e Fdi
Marzano (Pd): «Serve più coraggio dai miei colleghi»
di Laura Preite
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Repubblica 17.7.14
Stop alla legge sul doppio cognome
Montecitorio, rinviato a sorpresa il voto sulla norma che abolisce l’obbligo di trasmettere quello paterno
Il Pd si spacca, bagarre in aula
La relatrice: “Colpa dell’opposizione trasversale dei deputati maschi”
di Cristiana Salvagni

ROMA. Maschi contro femmine. Sembrava a un passo dal voto finale alla Camera la legge sul cognome dei figli che abolisce l’obbligo di trasmettere il paterno, lasciando liberi i genitori di scegliere tra quello del padre o della madre o di entrambi, e che stabilisce che in caso di disaccordo vengano assegnati tutti e due. Approvata all’unanimità dalla commissione Giustizia la scorsa settimana, ieri il testo era all’esame dell’assemblea.
Invece, a sorpresa, il voto è stato rinviato.
Mandando su tutte le furie diverse deputate, che dello stop accusano i colleghi in Parlamento.
«È colpa dei veti culturali opposti dai deputati maschi a una legge che avrebbe dovuto porre fine alla concezione patriarcale della famiglia», punta il dito la relatrice Pd sulla nuova legge Michela Marzano. «Il testo recepisce una norma di buon senso ed è assurdo che debba essere bloccato per l’opposizione trasversale di alcuni deputati, per lo più uomini», aggiunge la deputata Pd Caterina Pes. «Ogni volta che si cerca di mettere mano a questioni così ancestrali si crea un blocco culturale ostile», sottolinea la deputata Sel Marisa Nicchi.
Il meccanismo della legge risponde alla sentenza della Corte europea del diritti dell’uomo che nel gennaio scorso ha condannato l’Italia per violazione del principio d’uguaglianza (perché negare la possibilità di trasmettere il cognome della madre discrimina le donne) e vuole allineare il nostro Paese agli altri europei, come Spagna, Germania e Inghilterra.
In particolare ricalca il modello francese e prevede che i genitori possano scegliere se dare al figlio il cognome del padre, della madre o di entrambi, nell’ordine da loro stabilito. In caso di disaccordo stabilisce che vengano attribuiti tutti e due in ordine alfabetico. Inoltre per evitare che fratelli nati dagli stessi genitori abbiano cognomi diversi dispone che quello scelto per il primo figlio sia trasmesso ai successivi. Infine prevede che la persona con due cognomi possa poi trasmetterne ai figli soltanto uno.
Proprio questo punto fa scoppiare in aula la bagarre. Stefania Prestigiacomo di Forza Italia solleva il dubbio che non sia giusto far scegliere ai figli quale cognome salvare. Ignazio La Russa raccoglie firme per chiedere il voto segreto e propone il rinvio in commissione.
Anche Alessandro Pagano del Nuovo centrodestra e Rocco Buttiglione dell’Udc sollevano perplessità. Per risolvere le questioni formali si riunisce la commissione dei Nove ma il voto finale non arriva più: la proposta di legge viene rinviata a una seduta da fissare, forse, prima della pausa estiva.
Repubblica 17.7.14
L’intervista. Michela Marzano
“È mancato il coraggio mi sento tradita dagli uomini del mio stesso partito”
di C. Sal.

ROMA. «Stava filando tutto liscio, la proposta di legge in commissione era stata votata all’unanimità, invece anche in una parte del Pd, soprattutto maschile, hanno prevalso le idee retrograde che non vogliono farci allineare all’Europa». È delusa Michela Marzano, relatrice del Pd per la nuova legge sul doppio cognome, per la frenata improvvisa in aula. «Mi sento tradita dal mio partito, dai dirigenti del gruppo parlamentare che non hanno avuto il coraggio di cambiare. Abbiamo perso un’occasione».
Cosa rimprovera ai suoi colleghi?
«Contestano l’impianto stesso della legge perché non concepiscono la possibilità di scelta. Ieri in aula è stato come se si aprisse un vaso di Pandora delle idee patriarcali della destra, assecondate purtroppo dai miei compagni di partito. Ma non è perché trenta persone non sono d’accordo che si abbassano le braccia e si assecondano le idee reazionarie».
Alcuni dicono che il testo è caotico.
«Il testo è semplicissimo e risponde anche all’infrazione che ci è stata contestata dall’Europa per mancanza di eguaglianza tra uomo e donna. È allineato ai meccanismi di Spagna, Germania, Inghilterra e Francia. Il problema è che molti di quelli che lo contestano neanche l’hanno letto: vogliono che sia ancora lo Stato a decidere e a imporre delle regole e per questo dicono che è caotico».
Pensa che sia tutta una scusa per mantenere una impostazione maschilista nella trasmissione del cognome?
«Posso dire che molti di quelli che ieri sono intervenuti contro l’impianto della legge sono uomini e così quelli che hanno votato contro ai primi tre articoli, anche nel mio partito. Ma questa è una scelta codarda e chi l’ha fatta chiaramente non ha capito il messaggio di cambiamento di Renzi».

Corriere 17.7.14
Un doppio libretto agli studenti transessuali


Torino, Bologna, Napoli, Padova. E adesso anche Urbino. Cresce il numero delle università che adottano il doppio libretto, pensato per quegli studenti «in attesa di riattribuzione di genere». Quei ragazzi cioè che si ritrovano nella fase di passaggio da un sesso all’altro, i transessuali, e che, per motivi di privacy, preferiscono non dover giustificare ogni volta un nome maschile in presenza di aspetto femminile o viceversa. Spesso decisioni simili arrivano dopo la fase adolescenziale, quindi è normale che la transizione avvenga durante gli anni dell’università. Alla Carlo Bo di Urbino ora il doppio libretto è legge: «Riconosciuto all’unanimità il diritto di studenti e studentesse in situazione di riattribuzione del sesso ad avere un doppio libretto universitario», recita una nota diffusa ieri dall’ateneo. Nella documentazione amministrativa, invece, tutto rimarrà immutato fino alla definitiva sentenza del tribunale che si occupa dei singoli casi. Intanto anche a Pisa, Roma e Milano si discute della questione del doppio documento.

Repubblica 17.7.14
Mentì ai giudici per salvare il boss parroco festeggiato coi fuochi d’artificio
di Giuseppe Baldessarro

REGGIO CALABRIA. Hanno accolto la notizia facendo suonare le campane a festa e con i fuochi d’artificio, poi qualcuno si è messo a girare in macchina suonando il clacson. L’assoluzione del loro parroco ha scatenato i parrocchiani e il quartiere. Tutti solidali con don Nuccio Cannizzaro e tutti felici perché, dicono, giustizia è fatta. Anche se si tratta di una prescrizione e non proprio di un’assoluzione piena, il quartiere di Condera non si è risparmiato per manifestare apertamente il suo entusiasmo. E d’altra parte la parrocchia ha sempre difeso a spada tratta il prete sotto processo perché accusato dalla Dda di aver detto il falso per avvantaggiare Santo Crucitti, presunto boss della periferia nord di Reggio Calabria.
Il parroco, ex cerimoniere del vescovo e cappellano della polizia municipale, era imputato nel processo Raccordo-Sistema assieme a Crucitti e a un gruppo di uomini ritenuti dalla procura vicini o complici di un clan della ‘ndrangheta. Una tesi che tuttavia non ha retto davanti ai giudici che martedì sera hanno ritenuto non provato il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Circostanza che ha fatto cadere tutte le aggravanti, riducendo il falso ad un reato già prescritto.
Comunque una vittoria giudiziaria per don Nuccio, ma anche per Crucitti, condannato solo per reati “minori” a quattro anni di reclusione, ma immediatamente scarcerato vista l’assoluzione per il reato associativo. Una sentenza che ha chiuso una lunga fase dibattimentale durante la quale l’accusa aveva descritto il parroco come il perno di un complesso sistema di potere fatto di relazioni non sempre cristalline. Don Nuccio era finito nel calderone perché durante un precedente procedimento contro Crucitti aveva reso delle dichiarazioni in difesa dell’imputato principale, dichiarazioni che poi, intercettato, aveva ammesso di aver fatto a favore di Crucitti. La Dda, oltre a contestare il fatto in sè aveva portato il prete alla sbarra accusandolo di avere agito per favorire esplicitamente il presunto ‘ndranghetista, applicandogli le aggravanti del caso. Il processo tuttavia non ha dimostrato l’associazione mafiosa ed essendo caduto il capo d’imputazione principa che le sono sparite anche le aggravanti, con la conseguente prescrizione del falso. Tra l’altro il parroco ed alcuni degli altri imputati erano stati accusati in aula da Tiberio Bentivoglio, un commerciante testimone di giustizia che ha descritto una serie di episodi di danneggiamenti e minacce che lo avevano visto protagonista del processo.
Vicenda spinosa, sia per la sentenza, sia per il seguito dei festeggiamenti. Tanto che Libera non ha esitato a ricordare come l’associazione di don Ciotti avesse denunciato «ben prima che tali fatti entrassero nelle aule di tribunale l’intreccio opaco e perverso che ha condizionato per troppo tempo la vita del quartiere reggino di Condera». Aggiungendo che «le responsabilità di chi riveste ruoli pubblici (il riferimento è al parroco, ndr) non possano esaurirsi nelle aule di giustizia e, soprattutto, non cadono mai in prescrizione».
Sulla vicenda dei festeggiamenti nel quartiere il procuratore Federico Cafiero de Raho, amareggiato, ha comunque voluto dire che «le cose col tempo cambieranno». E così anche l’aggiunto Nicola Gratteri, anche se per il magistrato «la strada è ancora lunga». Non ha invece usato mezzi termini Davide Mattiello, componente della Commissione parlamentare antimafia, che ha paragonato la vergogna dei fuochi d’artificio per don Cannizzaro e Crucitti «all’inchino della Madonna ad Oppido Mamertino». Episodio, quello della processione di Oppido, che ha lasciato il segno, avendo anche delle conseguenze. Tanto ieri a Vibo Valentia, il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica ha deciso di annullare la processione della Madonna del Carmine che avrebbe dovuto tenersi in serata. Una decisione assunta sulla base di alcune informative delle forze dell’ordine che hanno individuato tra i portatori della statua personaggi vicini alla cosca di ‘ndrangheta dei Lo Bianco. In pratico, col rischio fortissimo che tra i portatori della statua ci fossero esponenti di una cosca, il prefetto aveva proposto alle autorità religiose di far trasportare la Madonna su un camion guidato da un rappresentante della Protezione civile. Ma alla proposta del prefetto le autorità religiose hanno preferito far saltare la processione.

La Stampa 17.7.14
Coca-party con i trans
Arrestato parroco di Stresa
Già condannato per truffa, ora è accusato di spaccio

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La Stampa 17.7.14
Uccide la madre a coltellate:«Sono Satana»
Arrestato dai carabinieri romeno di 29 anni, il delitto in via Belfiore 19
di Massimo Numa

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La Stampa 17.7.14
“Fermiamo lo sfruttamento dei giovani infermieri”
Orari insostenibili, ricatti, contributi mai pagati
Pronte le denunce all’Ispettorato del Lavoro
di Marco Accossato

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l’Unità 17.7.14
Per Srebrenica condanna all’Olanda
di Roberto Arduini


Lo Stato olandese è responsabile della morte di più 300 musulmani uccisi dalle forze serbo bosniache a Srebrenica a luglio del 1995. Lo ha stabilito un tribunale dell’Aja, affermando che i peacekeeper olandesi avrebbero dovuto sapere che gli oltre 300 uomini e ragazzi consegnati ai soldati di Ratko Mladic il 13 luglio del 1995 sarebbero stati uccisi. Il governo olandese, ha ordinato il tribunale, dovrà risarcire le famiglie delle 300 vittime. La corte ha tuttavia assolto l’Olanda dalla responsabilità per la morte della maggior parte delle oltre 8mila vittime del massacro di Srebrenica. Il giudice Larissa Alwin ha notato che all’epoca c’erano già prove dei crimini di guerra commessi dai serbi bosniaci. «Collaborando nella deportazione di questi uomini, il Dutchbat ha agito contro la legge», ha affermato Alwin, usando il nome del battaglione olandese dell’Onu. Due giorni dopo che le forze serbo bosniache entrarono a Srebrenica, il 13 luglio, i caschi blu si piegarono alle pressioni di Mladic, costringendo migliaia di famiglie musulmane a lasciare il loro compound recintato. I militari serbi separarono le donne dagli uomini, portando gli ultimi via e giustiziandoli. I corpi delle vittime furono abbandonati in fosse comuni. Il tribunale ha tuttavia assolto i soldati olandesi della responsabilità dell’uccisione delle altre migliaia di musulmani fuggiti nelle foreste intorno a Srebrenica e poi accerchiati e assassinati dai serbi. «Il Dutchbat non può essere ritenuto responsabile della loro sorte», ha affermato il giudice.
I familiari delle vittime hanno accolto con favore il parziale riconoscimento della responsabilità dei caschi blu olandesi, ma hanno criticato il tribunale per non aver fatto di più. «Chiaramente la corte non ha il senso della giustizia», ha affermato Munira Subasic, presidente dell’associazione Madri di Srebrenica, che aveva sporto la denuncia contro i militari olandesi. «Com’è possibile - ha detto - dividere le vittime e dire a una madreche lo Stato olandese è responsabile della morte di suo figlio da un lato della recinzione e non di quella dell’altro figlio dall’altro lato della recinzione? ». Le Madri di Srebrenica, ha dichiarato Subasic, «continueranno a lottare per la verità e la giustizia. E alla fine vinceranno».
Precedentemente i giudici dell’Aja avevano stabilito che i familiari delle vittime non possono avviare una causa legale contro l’Onu nei tribunali olandesi perché l’immunità di cui gode l’organizzazione è fondamentale per le sue operazioni di peacekeeping nel mondo. Il coinvolgimento dei caschi blu olandesi nel massacro di Srebrenica è da tempo la fonte di un trauma nazionale nel Paese. Nel 2002 il governo dell’allora premier Wim Kok si dimise dopo un rapporto che accusava le autorità olandesi e l’Onu di aver dispiegato in Bosnia soldati senza gli equipaggiamenti necessari e con un mandato troppo debole per poter prevenire la tragedia. «La sentenza ci ricorda di un’Europa inerte, ferma, incapace di fare risposte ai deboli, alle minoranze. Non deve accadere mai più», è il commento di Pina Picierno, europarlamentare del Pd.
Corriere 17.7.14
Olandesi condannati per Srebrenica
Una Sentenza che aprirà controversie
di Massimo Nava


La giustizia per i crimini della guerra bosniaca arriva tardi e accoglie solo in minima parte le attese delle vittime, ma è pur sempre un atto di giustizia, coraggioso e politicamente forte, la sentenza pronunciata ieri da un tribunale dell’Aia che condanna l’Olanda a risarcire i familiari di 300 bosniaci uccisi a Srebrenica nel luglio del 1995. Atto coraggioso e politicamente forte poiché di fatto i giudici olandesi hanno ritenuto il proprio Paese civilmente responsabile del comportamento dei propri caschi blu, il battaglione che avrebbe dovuto proteggere i civili musulmani dell’enclave bosniaca e impedire la separazione dalle loro famiglie di migliaia di uomini, poi trucidati dalle milizie serbo-bosniache agli ordini del generale Mladic. Le vittime dell’eccidio furono in realtà almeno ottomila, ma la sentenza si è limitata ad accogliere la domanda di risarcimento presentata da 300 familiari.
Non era ovviamente necessario attendere questo giudizio per confermare una ricostruzione del massacro ormai passata alla storia: la mancata protezione da parte del contingente olandese, la reazione tardiva del comando dell’Onu e il generale Mladic — poi condannato dal Tribunale internazionale dell’Aia come principale responsabile del massacro — che in quella circostanza alza il bicchiere con gli ufficiali olandesi, evidentemente incapaci o timorosi di qualsiasi reazione. Ma è comunque importante che tutte le responsabilità vengano con il tempo definite e accertate, in attesa che qualche altro squarcio di verità si apra anche sulle responsabilità di altri contingenti internazionali e dello stesso governo bosniaco che lasciò Srebrenica senza difese.
Sentenza coraggiosa, politicamente forte (basti pensare, per confronto, alle reticenze della Francia per l’appoggio dato alle milizie hutu nel genocidio in Ruanda e, anche in quel caso, alle responsabilità del contingente Onu), ma anche suscettibile di aprire una controversia di non facile soluzione. I caschi blu, quando impegnati in una missione internazionale, dovrebbero godere di immunità per gli atti compiuti nell’esercizio dei compiti assegnati e, al tempo stesso, non si comprende come si possa definire la responsabilità di uno Stato o di un governo quando i propri soldati agiscono sotto bandiera internazionale. Sarà interessante leggere le motivazioni della sentenza. Ma il precedente è di sicuro clamoroso: di fatto, uno Stato paga un risarcimento di guerra per conto dell’Onu.

La Stampa 17.7.14
Cronistoria
Il massacro di Srebrenica: l’escalation
I fatti che sconvolsero il mondo

qui

Corriere 17.7.14
La Francia e il coprifuoco per i tredicenni
Le regole approvate in diverse città: «A casa entro le undici di sera»
di Stefano Montefiori


PARIGI — A cominciare da ieri sera, i ragazzini di età inferiore ai 13 anni sorpresi per strada a Suresnes (a Nord-ovest di Parigi) tra le 23 e le 6 del mattino saranno fermati, riportati a casa e la multa — oltre che la ramanzina — sarà riservata ai genitori. Lo ha deciso il sindaco Ump (centrodestra) Christian Dupuy, dopo che l’anno scorso una banda di adolescenti appassionati di petardi aveva finito con il dare fuoco a una villetta.
Con l’estate in Francia arriva la stagione del coprifuoco per i ragazzini. Il primo a deciderlo quest’anno è stato il sindaco di Béziers, Robert Menard, eletto con i voti del Front National. Quando a maggio Menard ha emanato la sua ordinanza sull’ordine pubblico, è stato accusato di riflesso autoritario, di scegliere una misura liberticida e repressiva come primo atto del suo mandato. «Sono sciocchezze alle quali possono credere giusto quattro bobo parigini», ha detto subito Menard.
I «bobo » sono una categoria importante nel dibattito socio-politico francese: li ha identificati e descritti il columnist del New York Times , David Brooks, in un libro di ormai 14 anni fa che descriveva il tipo umano del «bourgeois bohème », il borghese (quasi sempre parigino) con il portafoglio a destra e il cuore a sinistra, facoltoso e integrato nel sistema economico ma affezionato alle parole d’ordine e ai valori della sinistra alternativa e ecologista. Il termine «bobo » ha avuto una fortuna straordinaria in Francia come versione aggiornata di «radical chic», usato quasi quotidianamente dagli esponenti del Front National per denunciare l’ipocrisia e il conformismo politicamente corretto delle élite parigine.
La Lega dei diritti dell’uomo si è opposta in tribunale contro l’ordinanza di Menard, ma nel frattempo decine di altre piccole città di tutta la Francia — governata da sindaci di destra, centro e pure sinistra — hanno adottato misure analoghe. Florent Montillot, vicesindaco centrista di Orléans, ha decretato il coprifuoco per i minori già dal 2001. «Fa parte di un’iniziativa globale che punta a sottrarre i bambini e giovani adolescenti alla scuola della strada per restituirli all’educazione dei genitori e della scuola — dice al Figaro —. Si raccolgono i bambini che vagano per strada nella notte con l’obiettivo di responsabilizzare i genitori, e poi seguire i ragazzini a scuola durante l’anno».
Il coprifuoco per i bambini e adolescenti — il limite di età varia dai 13 ai 16 anni — fa parte delle invenzioni americane che i francesi adorano detestare ma alla fine adottano, come McDonald’s (la Francia è il secondo mercato mondiale, dopo gli Stati Uniti, ndr ). Inaugurata una ventina di anni fa, la politica del coprifuoco per ridurre la delinquenza giovanile ha attraversato negli Usa diverse fasi, dall’entusiasmo iniziale alla disillusione per mancanza di risultati quantificabili all’abbandono per mancanza di fondi. Ma in questi giorni viene rilanciata a Baltimora, una delle città della costa Est dove più alta è la criminalità giovanile, per provare a ridurre gli atti di teppismo.
Al di qua dell’Atlantico, molte città francesi fanno lo stesso. Provano a combattere la «cultura della strada» decantata in tante canzoni rap francesi, e ribadiscono il principio che il posto dei bambini e dei pre-adolescenti, la notte, è a casa. Sébastien Pietrasanta è stato il primo sindaco socialista a instaurare il coprifuoco per i minori di 18 anni a Asnières-sur-Seine, alle porte di Parigi, assieme al collega comunista del comune vicino di Gennevilliers. «Lo abbiamo fatto nel 2011 in un contesto particolare, un ragazzo era stato ucciso e c’erano state violenze di strada. Io credo che non si debba essere ideologici. Il coprifuoco è una misura di destra, dicono. Perché, è normale che un ragazzino vagabondi per strada dopo le 10 di sera? Io non ho esitato a convocare i genitori per dirgliene quattro».

Corriere 17.7.14
La Svizzera fra due guerre, neutrale ma bene armata
risponde Sergio Romano


Com’è riuscita a rimanere neutrale nel corso degli ultimi conflitti e soprattutto durante la Seconda guerra mondiale, quando tutta l’Europa era in fiamme? 
Può avere contribuito la circostanza che in quella nazione era possibile depositare e mettere al sicuro i propri tesori? 
Come è possibile che anche ai nostri giorni ci giungano notizie di ingenti depositi effettuati dai rappresentanti politici delle più eterogenee ideologie?
Giuseppe Merlino

Caro Merlino,
Durante la Grande guerra l’opinione pubblica dei cantoni di lingua tedesca aveva sentimenti di affinità e simpatia per gli Imperi centrali, mentre quelli di lingua francese e italiana provavano gli stessi sentimenti per la causa degli Alleati. Se la Confederazione non fosse stata neutrale e avesse sostenuto apertamente gli uni o gli altri, la scelta avrebbe avuto per effetto, probabilmente, una pericolosa rottura dell’unità nazionale. La neutralità, quindi, ha garantito la stabilità del Paese: un risultato che fu considerato positivo anche dagli Stati vicini, tutti egualmente interessati a evitare che una importante regione dell’Europa centrale divenisse un’area di turbolenza politica e sociale.
La situazione cambiò in parte durante la Seconda guerra mondiale. Deciso a trasformare l’intera Europa in una sorta di Commonwealth tedesco, Hitler prese certamente in considerazione per qualche tempo la possibilità di un’invasione. Ma ne fu dissuaso da due fattori. In primo luogo, l’evoluzione del conflitto, soprattutto dopo le sconfitte di El Alamein e Stalingrado, gli impediva di allontanare truppe dai fronti in cui erano maggiormente impegnate. In secondo luogo, gli svizzeri, se invasi, avrebbero rapidamente abbandonato i cantoni indifendibili, ma avrebbero resistito tenacemente nel Ridotto Nazionale, una grande zona montuosa e fortificata con le piazzeforti di Sargans, St. Maurice e Gottardo. Ancora una volta la neutralità armata si dimostrò, per la Svizzera, una carta vincente.
Mentre la Confederazione difendeva la propria neutralità con misure convincenti, le maggiori potenze constatarono che l’esistenza di uno Stato estraneo al conflitto poteva presentare parecchi vantaggi. Era possibile utilizzare Berna per avviare qualche utile contatto con il nemico e comprenderne meglio le intenzioni. Era possibile usare Ginevra e la casa madre della Croce Rossa internazionale per garantire il migliore trattamento possibile dei prigionieri di guerra e, eventualmente, il loro scambio. Era possibile servirsi di Zurigo e delle sue banche per operazioni commerciali e finanziarie che sarebbero state altrimenti impossibili. La Svizzera fu costretta a qualche necessario compromesso e chiuse un occhio in parecchie circostanze. Ma praticò una politica che era, in ultima analisi, utile a se stessa e agli altri.
Quanto ai depositi bancari di alcuni discutibili uomini politici, è certamente vero che la Svizzera ha offerto asilo per parecchi anni a capitali di dubbia origine. Ma il clima è cambiato. Le proteste e l’indignazione della società svizzera hanno costretto il governo e le banche ad adottare una linea di maggiore prudenza. E il segreto bancario è diventato, sotto la pressione degli altri governi e delle nuove tecnologie, sempre più difficilmente applicabile.

Corriere 17.7.14
Conflitti sociali Pechino va a lezione dal Sant’Anna
di E. Teb.


Lezioni di conflittualità nel Paese che per qualcuno è il più grande regime autoritario al mondo. Le dà un professore italiano, Andrea de Guttry, ordinario di Diritto internazionale alla Scuola Sant’Anna (una delle due università di eccellenza pisane), che oggi terrà una lectio magistralis sulla gestione dei conflitti sociali a oltre 200 funzionari della Municipalità di Pechino (Cina). L’iniziativa fa parte di un programma di scambio di tre anni con l’ateneo toscano, promosso dal governo cinese. «Sono molto interessati all’esperienza europea in termini di prevenzione dei conflitti sociali. Si sono resi conto che la loro risposta tradizionale, la repressione, non funziona più, perché sono aumentati e cambiati di natura», aggiunge de Guttry, che è anche direttore della scuola di peace-keeping del Sant’Anna. Il governo cinese deve affrontare soprattutto le tensioni legate alla costruzione delle grandi infrastrutture, come le mastodontiche centrali idroelettriche, che causano problemi di inquinamento e mettono in gioco i diritti dei lavoratori. «Gli parliamo di democrazia partecipata e insegniamo l’approccio europeo alle grandi opere, come la consultazione pubblica per rendere gli obiettivi compatibili con quelli dei cittadini». (e. teb.)

Il Sole 17.7.14
La Cina riparte ma non di scatto
Il Pil aumenta del 7,5% nel secondo trimestre, e-commerce nuovo motore
di Rita Fatiguso


Evviva. Il prodotto interno lordo cinese nel secondo trimestre del 2014 è cresciuto del 7,5% rispetto al 7,4% del primo trimestre del 2014. Il dato in sé non direbbe molto se non fosse per le aspettative, altissime, riposte dal Governo di Pechino su queste stime attese con grande ansia. Un flebile segnale, da valutare con grande attenzione. Perché i grandi macigni che ostacolano la ripresa non sono stati completamente rimossi e la Cina sta rivedendo ancora, a fondo, la sua struttura produttiva: cambiare impostazione da nazione export oriented a internal consumer non è impresa facile. Una rivoluzione copernicana di queste dimensioni non si realizza in una notte, né nelle spazio di un anno.
Il dato positivo dell'Istituto nazionale di statistica, però, dà conforto alle autorità cinesi, a loro avviso l'economia di Pechino mostra segni inconfutabili di una moderata ma stabile crescita. Il che non implica che l'orizzonte sia privo di nuvole, anzi.
Sheng Layun è il portavoce dell'Istituto nazionale di statistica cinese, nonché capo del dipartimento delle previsioni statistiche dell'Istituto. Alla notizia del 7,5% di crescita del Gdp cinese ieri, in conferenza stampa, la seconda più importante dopo quella di gennaio, allo State Council, Layun ha riferito, come un disco rotto, ripetutamente, che «la Cina non deve farsi condizionare dalle pressioni esterne che reclamano una crescita a doppia cifra». La crescita a doppia cifra, com'è noto, ormai è archiviata. La Cina è alle prese con aggiustamenti strutturali molto dolorosi, ma necessari e inderogabili.
C'è però un aspetto nuovo del quale rallegrarsi ed è, come ha rivelato Sheng Layun, quel 48% di vendite online in più rispetto al primo semestre del 2013, un fenomeno che trascina con sé molti servizi legati al terziario, ai servizi, all'e-commerce, all'hi-tech. Un dato eccezionale che fa credere alla Cina come il commercio online possa sanare molti mali, dall'eccesso di capacità alla logistica inadeguata, dall'insufficiente mercato interno ai flussi valutari sospetti.
Di fatto il Pil reale della Cina è aumentato del 7,5% nel secondo trimestre del 2014, migliorando sulla crescita del 7,4% nel primo trimestre. I dati mostrano comunque un ritmo più lento della crescita in 18 mesi. Il credito, in particolare, dimostra di essere la fonte di finanziamento dell'economia più forte. Più degli utili reinvestiti o dei risparmi delle imprese o dei privati stessi. Ciò è visibile sia nel tasso di crescita dei prestiti, che ha superato la crescita del Pil nominale in termini di un anno fa in ogni trimestre dal primo uarto del 2011, e dal tasso di crescita degli investimenti fissi finanziati dalle imprese, ancora in grado (ma fino a quando?) di investire nel settore dei servizi.
Il settore del real estate preoccupa tantissimo gli investitori ma anche lo stesso Governo centrale. «Alla base - sottolinea Sheng - continua a esserci una buona base di crescita sia delle nuove costruzioni che delle vendite, per questa ragione non siamo affatto preoccupati del calo registrato dal settore rispetto all'anno scorso».
C'è molta paura per il settore immobiliare ma l'Istituto di Statistica rassicura gli animi: anche se il real estate sta cercando di risolvere i problemi all'interno è anche vero che lo stock resta alto. Lo State Council non vede pericoli nel tanto vituperato settore virtuale, anzi. Come si diceva l'e-commerce, che ha raddoppiato le performance, sembra essere il nuovo driver dell'economia cinese. Il volume di vendite degli immobili, alla fine, è rimasto inalterato. Quindi, perché preoccuparsi?
«Steady grow» è il motto di Pechino e ogni segnale che va in questa direzione sembra quello giusto. Come ha ripetuto il portavoce dell'Istituto di statistica, gli aggiustamenti strutturali hanno permesso di ottenere progressi stabili nell'economia, incluse le misure di stimolo che - però - non saranno seguite da altre manovre entro l'anno. Il pacchetto di mini-stimolo varato quest'anno ha già contribuito a rivitalizzare il sistema delle piccole e medie imprese, ma non sarà semplice ripetere questa manovra entro l'anno.
La Cina ha ben presente gli effetti indesiderati dei pacchetti massicci di stimolo, tra questi quello varato nel 2008 che, in fin dei conti, si è tradotto in un massiccio intervento ben al di fuori dei normali criteri si sostegno all'economia. Ricordiamolo: un fiume di milioni di yuan è finito a finanziare opere non necessarie o attività completamente al di fuori di quanto richiesto anche dalle comunità locali.
Nella prima metà dell'anno l'economia cinese, tuttavia, può tirare un respiro di sollievo, i problemi interni ed esterni continueranno a incidere sullo sviluppo dell'economia del Paese. Ma gli aggiustamenti strutturali riusciranno ad attutire i contraccolpi. Il gap tra le entrate di lavoratori delle città e quelli delle campagna si sta riducendo e questo è considerato da Pechino un altro elemento positivo. Secondo Sheng Layun questo è un nuovo elemento a favore della svolta ormai innescata da Pechino.

Il Sole 17.7.14
Il nuovo ruolo della valuta
In scena il grand tour del Renminbi
di Barry Eichengreen


Il 18 giugno la China Construction Bank è stata designata prima stanza ufficiale di compensazione per le transazioni in renminbi a Londra. Il giorno seguente, la filiale di Francoforte della Bank of China ha ricevuto la stessa nomina per l'eurozona. Il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha definito l'istituzione di una clearing bank a Londra «estremamente importante» per la City. Joachim Nagel della Bundesbank ha definito l'annuncio «una pietra miliare». Ma a noi che cosa ne viene? Banche, aziende e privati possono già acquistare renminbi in cambio di sterline o di euro. Esiste già un'ampia rete di istituzioni finanziarie, locali e a Hong Kong, pronta a fornire il servizio. La differenza è che le due grandi banche cinesi, quando faranno operazioni commerciali a Londra e a Francoforte, potranno acquistare renminbi anche in Cina se i loro clienti esteri lo richiedessero. La Banca del Popolo cinese (Bpc) darà loro una quota a tal fine. Le altre banche, se devono fornire renminbi ai loro clienti, sono limitate dalle quantità dell'offerta fissa che circola offshore facendo lievitare i costi e limitando la domanda dei servizi.
Lasciando che due clearing bank abbiano accesso al renminbi onshore, le autorità cinesi incoraggiano gli scambi diretti in sterline e in euro. Ma Londra e Francoforte sarebbero sconsiderate a fare affidamento su un rapido aumento delle transazioni in renminbi. In una ricerca dell'aprile 2013, la Banca dei regolamenti internazionali ha rilevato che le transazioni renminbi-dollaro arrivavano a 113 miliardi di dollari al giorno, quelle dirette renminbi-euro ammontavano a 1 miliardo e quelle dirette renminbi-sterlina ancora a meno.
Quando gli europei vogliono moneta cinese, usano euro e sterline per acquistare dollari e con i dollari acquistano renminbi. Questo rispecchia la vastità e liquidità del mercato degli asset in dollari, cosa che limita i costi di transazione. La prassi europea rispecchia l'«esorbitante privilegio» del dollaro come unica moneta globale. Probabilmente le autorità cinesi pensano che le cose cambieranno. Se le banche offriranno nuovi asset in renminbi, il mercato attirerà nuovi clienti portando liquidità e riducendo i costi di transazione.
Così la decisione di aprire una stanza di compensazione per le transazioni in renminbi a Londra e Francoforte rappresenta un ulteriore passo da parte della Cina verso la nascita di un sistema monetario composto da diverse divise globali. È un passo avanti verso una maggiore corrispondenza fra la nostra economia globale e multipolare e il suo sistema monetario e finanziario e verso la fine della dipendenza mondiale dal dollaro. Ma mercati vasti e liquidi non si fanno in un giorno. Nel giugno 2013, quando la Bpc ha dato una stretta monetaria, i tassi interbancari cinesi sono balzati a 25 per cento, perciò anche una quota che permetta a una clearing bank offshore di attingere a fondi in Cina non garantisce che quei fondi possano essere ottenuti a un prezzo ragionevole. Se la Cina dovesse avere problemi finanziari, i deflussi di capitale potrebbero accelerare. Le autorità cinesi potrebbero essere costrette a ridurre le quote accordate alla clearing bank. Legittimo chiedersi quanto appetito dimostreranno gli investitori europei nei confronti degli asset in renminbi. In passato, la domanda era alimentata dall'aspettativa che il renminbi avrebbe continuato ad apprezzarsi. Se la crescita cinese rallenta, quell'aspettativa potrebbe venire meno. Con il tempo il renminbi acquisterà un maggior ruolo internazionale. La tecnologia finanziaria del XXI secolo faciliterà le transazioni dirette in diverse monete, eliminando il bisogno e l'abitudine di far passare quasi tutte le transazioni internazionali attraverso il dollaro e questo segnerà la fine dell'«esorbitante privilegio» americano. Ma non adesso, e nemmeno tanto presto.
(Traduzione di Francesca Novajra)

il manifesto 17.7.14
L’assillo inascoltato di Pietro IngraoSaggi. «Crisi e riforma del parlamento» di Pietro Ingrao per Ediesse. Pubblicati i saggi del dirigente comunista scritti nella metà degli anni Ottanta sulla necessaria innovazione del sistema istituzionale
di Claudio de Fiores

Crisi e riforma del Par­la­mento è il titolo di un volume, curato da Maria Luisa Boc­cia e Alberto Oli­vetti (Ediesse, euro 14), che rac­co­glie alcuni con­tri­buti di Pie­tro Ingrao sullo stato delle isti­tu­zioni ita­liane. L’arco di tempo della pro­du­zione ingra­iana che il volume prende in esame è il bien­nio 1985–1986. Un arco di tempo alquanto deli­mi­tato, ma tut­ta­via essen­ziale per com­pren­dere gli svi­luppi della que­stione isti­tu­zio­nale in Ita­lia. Que­stione quanto mai dif­fi­cile e tor­men­tata, soprat­tutto se posta in ter­mini ingra­iani. Le rifles­sioni dell’esponente comu­ni­sta sulle «nuove risorse del muta­mento isti­tu­zio­nale» appa­iono infatti per­meate da un assillo insi­stente e grave che per­vade, pagina dopo pagina, l’intero volume: come riaf­fer­mare la cen­tra­lità del Par­la­mento e quindi della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in una società di massa fram­men­tata e in con­ti­nua tra­sfor­ma­zione.
Un «assillo» che Ingrao declina con straor­di­na­ria abi­lità, tenendo ben pre­sente il con­te­sto, le sedi, gli inter­lo­cu­tori. Una polie­dri­cità di accenti e di sfu­ma­ture che spinge il let­tore a misu­rarsi con le diverse dimen­sioni dell’agire pub­blico ingra­iano: l’Ingrao giu­ri­sta (autore della rela­zione su «potere e poteri nell’esperienza giu­ri­dica ita­liana» all’Istituto di diritto pub­blico de «La Sapienza»); il teo­rico della poli­tica (pro­ta­go­ni­sta con Nor­berto Bob­bio di un sug­ge­stivo con­fronto epi­sto­lare su demo­cra­zia, ege­mo­nia e masse); il Pre­si­dente del Crs (con la sua rela­zione pro­gram­ma­tica al con­ve­gno annuale dell’associazione del 1986); il lea­der di par­tito (arte­fice della discussa mozione «per un governo costi­tuente» al XVII Con­gresso del Pci).
Lo stato della Repubblica
PUNTO DI SNODO DELLA RIFLES­SIONE DI INGRAO È LA CEN­TRA­LITÀ DEL PAR­LA­MENTO COSÌ COME VOLUTA E DELI­NEATA DALLA CARTA REPUB­BLI­CANA. UNA COSTRU­ZIONE COM­PLESSA E ARTI­CO­LATA, DESTI­NATA A INTREC­CIARSI INTI­MA­MENTE CON LE SORTI DELLA COSTI­TU­ZIONE E PRO­TESA A FARE DEL PAR­LA­MENTO «IL LUOGO CEN­TRALE, LA SEDE DIRI­GENTE E DI EQUI­LI­BRIO, IN CUI POS­SONO RICOM­PORSI I FILI DELL’OPERA NUOVA DA COM­PIERE». UNA VERA E PRO­PRIA OPZIONE «COSTI­TUENTE» CHE TRAEVA LA SUA LEGIT­TI­MA­ZIONE NON DALLE SEDU­ZIONI DELL’INGEGNERIA COSTI­TU­ZIO­NALE (OGGI COSÌ DI MODA), MA DALLA STO­RIA DEL PAESE, DAI PRO­CESSI DI TRA­SFOR­MA­ZIONE DELLO STATO, DALLA FORZA POLI­TICA ASSUNTA DAI PAR­TITI DI MASSA DURANTE LA RESI­STENZA. SOLO IL PAR­LA­MENTO AVREBBE POTUTO, IN ALTRE PAROLE, OFFRIRE UNA TRAMA COM­PIUTA ALLA REPUB­BLICA OPE­RANDO QUALE IMPRE­SCIN­DI­BILE ASSE DI «COL­LE­GA­MENTO DIRETTO FRA STATO, ISTI­TU­ZIONI E I PAR­TITI POLI­TICI CHE ERANO STATI I PRO­TA­GO­NI­STI DELLA RESISTENZA».
Ecco per­ché Ingrao dif­fida di che vede «nella carat­te­riz­za­zione par­la­men­tare della forma di governo (ita­liana) una pura pro­ie­zione di modelli di altri paesi occi­den­tali». Ed ecco per­ché cri­tica quelle com­po­nenti del pen­siero libe­rale che non hanno mai com­preso che la cen­tra­lità del par­la­mento, più che un vezzo «ideo­lo­gico» della sini­stra, era la rispo­sta a «inte­ressi quanto mai cor­posi e spe­ci­fici della situa­zione ita­liana» così come sto­ri­ca­mente deter­mi­na­tasi.
Il Par­la­mento non costi­tui­sce insomma per Ingrao una delle tante arti­co­la­zioni della demo­cra­zia costi­tu­zio­nale (al pari di Governo, Capo dello Stato, Corte costi­tu­zio­nale). Ai suoi occhi il Par­la­mento è la demo­cra­zia costi­tu­zio­nale. E finan­che le loro sorti sono inti­ma­mente legate.
È da qui che prende avvio la sua ori­gi­nale rico­stru­zione della sto­ria costi­tu­zio­nale repub­bli­cana (che altro non è, per Ingrao, che la sto­ria del Par­la­mento): dall’ostruzionismo della mag­gio­ranza (cul­mi­nato nella ste­sura della legge elet­to­rale mag­gio­ri­ta­ria del 1953) alle lotte per l’attuazione della Costi­tu­zione (svi­lup­pa­tesi a ridosso delle mobi­li­ta­zioni poli­ti­che e sociali del bien­nio 1968–69). E poi ancora: dallo Sta­tuto dei lavo­ra­tori del 1970 all’affermazione delle poli­ti­che con­ser­va­trici nei primi anni Ottanta.
Con la vit­to­ria della That­cher e di Rea­gan la rea­zione capi­ta­li­sta torna nuo­va­mente in campo in tutto l’Occidente. E Ingrao ne evi­den­zia anzi­tempo la dimen­sione «glo­bale»: «mani­po­la­zione mon­diale dell’informazione e della cul­tura; scelte tec­no­lo­gi­che che inci­dono nel rap­porto mil­le­na­rio tra uomo e ambiente…; mano­vre finan­zia­rie che ridi­stri­bui­scono risorse e con­di­ziono eco­no­mie su scale mon­diale; redi­stri­bu­zione di potere: fra aree del mondo, all’interno stesso dell’area occi­den­tale, fra nazioni e all’interno delle diverse nazioni».
Tutto ciò avrebbe avuto le sue rica­dute anche sul piano costi­tu­zio­nale. Sono que­sti gli anni in cui il sistema poli­tico e isti­tu­zio­nale ini­zia (sem­pre più visi­bil­mente) a dare segni di cedi­mento: le dina­mi­che dei poteri subi­scono un’alterazione pato­lo­gica senza pre­ce­denti e a fronte di una isti­tu­zione par­la­men­tare desti­nata dive­nire sem­pre più ese­cu­tiva («ridotta solo a met­tere tim­bri») il governo, di con­verso, ten­derà sem­pre più ad assu­mere i con­no­tati di un legi­sla­tore (abu­sivo). I feno­meni dege­ne­ra­tivi denun­ciati da Ingrao sono gli stessi feno­meni che per­va­dono oggi le isti­tu­zioni par­la­men­tari: dall’utilizzo smo­dato della «decre­ta­zione d’urgenza, all’uso del voto di fidu­cia … alla messa in mora dell’iniziativa legi­sla­tiva par­la­men­tare».
Le inno­va­zioni di sistema fino a oggi spe­ri­men­tate più che risol­vere hanno ulte­rior­mente aggra­vato le pato­lo­gie dell’ordinamento isti­tu­zio­nale ita­liano: ver­ti­ca­liz­za­zione del con­senso, per­so­na­liz­za­zione della poli­tica, incre­mento del tasso di cor­ru­zione nelle ammi­ni­stra­zioni pub­bli­che, cre­scente esa­spe­ra­zione dei rigur­giti «par­ti­to­cra­tici» (senza più par­titi).
Tutto ciò poteva essere evi­tato? Per Ingrao i pro­cessi di tra­sfor­ma­zione della società, venu­tisi con­so­li­dando nel corso degli anni Ottanta, indu­ce­vano cer­ta­mente a un ripen­sa­mento degli assetti poli­tici e costi­tu­zio­nali. Ma la dire­zione, i con­te­nuti, gli sboc­chi di tali istanze rifor­ma­trici avreb­bero dovuto però essere diversi. Per il diri­gente comu­ni­sta era cioè pos­si­bile imma­gi­nare e pra­ti­care altre riforme del sistema poli­tico e costi­tu­zio­nale. Ad assu­mere l’iniziativa avrebbe dovuto essere la sini­stra. Una sini­stra moderna, in grado di inter­pre­tare i pro­cessi sociali e in ragione di ciò dispo­sta a gio­care d’anticipo sul ter­reno delle riforme.
Le cose sono andate un po’ diver­sa­mente. E a fronte del pro­gres­sivo disfa­ci­mento del cosid­detto ordine della media­zione (par­la­mento, par­titi, sin­da­cati), la sini­stra prima ha pre­fe­rito affon­dare la testa nella sab­bia e poi asse­con­dare i miti e le ideo­lo­gie della moder­niz­za­zione libe­ri­sta. Di male in peg­gio. La sini­stra non ha com­preso Ingrao. E soprat­tutto non ha com­preso che l’alternativa che il Paese aveva, già in que­gli anni di fronte a sé, non era tra con­ser­va­zione e inno­va­zione, ma tra inno­va­zione e innovazione.
IL GOVERNO DELL’INNOVAZIONE
Nel suo inter­vento al XVII con­gresso del par­tito comu­ni­sta Ingrao su que­sto punto è quanto mai netto: «Non pos­siamo nascon­der­celo: sta­volta l’obiettivo è più avan­zato» e ci pone di fronte alla «domanda chi gover­nerà l’innovazione». E cioè chi si farà carico di modi­fi­care gli assetti isti­tu­zio­nali, rifor­mando un sistema poli­tico invec­chiato e sem­pre più para­liz­zato da «un governo pog­giato su strut­ture mini­ste­riali vec­chie di un secolo, con un Par­la­mento bloc­cato e sof­fo­cato da un inu­tile, siste­ma­tico dop­pio lavoro su un mare di leggi e decreti, con una pub­blica ammi­ni­stra­zione arcaica». Di qui il ricco ven­ta­glio di ipo­tesi di riforma ela­bo­rate in que­gli anni da Ingrao: rin­no­va­mento degli appa­rati di governo, mono­ca­me­ra­li­smo, moder­niz­za­zione della pub­blica ammi­ni­stra­zione, intro­du­zione del refe­ren­dum pro­po­si­tivo.
Era que­sta la piat­ta­forma «rifor­ma­trice» con la quale tutta la sini­stra avrebbe dovuto misu­rarsi. E avrebbe dovuto farlo e farlo imme­dia­ta­mente. «Pur­ché non ci si muova quando ormai è tardi»: è con que­ste enig­ma­ti­che parole che Ingrao con­clude la sua inter­vi­sta a L’Espresso del 23 feb­braio 1986.
Ma a cosa si rife­ri­sce Ingrao? Tardi rispetto a cosa? La rispo­sta non ce la for­ni­sce diret­ta­mente l’autore, ma è pos­si­bile comun­que desu­merla da quella che è stata, in que­sti decenni, la natura del cosid­detto revi­sio­ni­smo costi­tu­zio­nale. Tardi allora rispetto al peri­colo che, a fronte di un atteg­gia­mento sem­pre più inerte e rinun­cia­ta­rio della sini­stra, potesse pre­va­lere nel senso comune una diversa idea di inno­va­zione, di Par­la­mento, di demo­cra­zia. Tardi rispetto al rischio che il biso­gno di riforme se lasciato inap­pa­gato potesse, a lungo andare, dege­ne­rare in solu­zioni di carat­tere auto­ri­ta­rio. Tardi rispetto all’incognita che, se non si fosse tem­pe­sti­va­mente inter­ve­nuto sulle dege­ne­ra­zioni del sistema dei par­titi, anche la riforma del Par­la­mento avrebbe potuto essere in futuro impie­gata per disar­ti­co­lare la rap­pre­sen­tanza poli­tica, tra­sfor­mando la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in una demo­cra­zia di inve­sti­tura.
Oggi, dopo trent’anni di espe­ri­menti mag­gio­ri­tari, di capi del governo tutti (più o meno) «unti dal Signore», di pro­gres­sivo depe­ri­mento delle assem­blee poli­ti­che (a ogni livello di governo), è più facile com­pren­dere «l’assillo» di Pie­tro Ingrao. Ma anche più amaro.

Corriere 17.7.14
Come il sottotenente Piero Calamandrei salvò otto soldati condannati senza colpa
Fu un caso reale della Grande guerra che ricorda «Orizzonti di gloria»
di Corrado Stajano


Il libro di Piero Calamandrei «Il mio primo processo», (pp. 40. e 22) è tirato dalla casa editrice Henry Beyle in 575 copie numerate su carta Zerkall Bütten caratteri Garamond.
Racconta come nell’estate del 1916, il sottotenente Piero Calamandrei si trova a difendere otto soldati, accusati di aver abbandonato il posto di combattimento. Secondo il comando, almeno uno di loro dovrà essere condannato a morte.

Il sottotenente di fanteria Piero Calamandrei un giorno dell’estate 1916 riposava sotto la sua tenda al Pian delle Fugazze, ai piedi del Pasubio, dove il suo reggimento si era accasermato dopo la battaglia «degli Altipiani» in cui l’esercito italiano aveva respinto una violenta offensiva austriaca.
Era accaduto che ai primi di maggio un disertore polacco avesse dato notizia di un attacco in grande stile che gli austriaci stavano preparando proprio in quel settore. Ne era stato informato il generale Cadorna giunto sul posto con gli ufficiali del suo Stato maggiore per rendersi conto se quelle informazioni potevano essere veritiere. Il generale salì su un cocuzzolo, puntò il binocolo dalla parte di Rovereto e, algido e privo di dubbi, come sempre, sentenziò che il soldato polacco era solo un agente provocatore inviato dagli austriaci per seminar zizzania. Il Comando supremo, lui, non credeva per nulla a simili fanfaluche.
L’offensiva, puntualmente scatenata poco dopo, rappresentò un grave pericolo per la tenuta del fronte. Le truppe italiane, con coraggio e sacrificio di sangue, seppero resistere e arrestare sulle ultime alture del loro schieramento gli austriaci che avrebbero potuto altrimenti dilagare nella pianura e arrivare fino a Vicenza.
Il sottotenente Calamandrei stava dunque gustando dopo la battaglia un po’ di pace steso su un giaciglio di rododendri fioriti quando un portaordini lo scosse dal suo beato dormiveglia. Doveva presentarsi immediatamente al Comando del Reggimento. Il colonnello non perse tempo in convenevoli: «Per ordine del Comando di Divisione, tra dieci minuti si aduna un Tribunale straordinario per giudicare otto soldati di fanteria imputati di abbandono di posto dinanzi al nemico: lei ne assumerà la difesa». Il reato era punibile con la pena di morte.
È immaginabile lo smarrimento di Calamandrei, il futuro grande luminare del diritto, padre della Costituzione della Repubblica, politico di rilievo, uno dei protagonisti del Novecento. Aveva 27 anni. Vinto il concorso di Diritto processuale civile all’Università di Messina, scoppiato il conflitto mondiale, interventista democratico qual era con il mito dell’ultima guerra del Risorgimento, si era arruolato volontario. Convertito presto dal sangue versato, dal vedere i poveri contadini in grigioverde che, scesi dalla tradotta, non sapevano neppure dove si trovassero e non si ponevano di certo il problema di rendere concreta per sempre l’idea di nazione che aveva infiammato le piazze. Capì immediatamente la bestialità e la follia della guerra, di ogni guerra. Vide i suoi orrori.
Imbarazzato, preoccupato, cercò di far capire al colonnello che lui era un civilista, non un penalista. Ma per il comandante del Reggimento non esistevano differenze. Non era un professore di legge?
Il mio primo processo è il racconto, scritto con amara ironia, di quel che allora accadde. Calamandrei lo pubblicò nel 1956 sulla sua rivista, «Il Ponte », ed ora esce di nuovo nelle preziose e carissime (di prezzo) Edizioni Henry Beyle (pp. 40, e 22).
Ha pochi minuti e poche carte a disposizione per documentarsi, il futuro grande giurista. Dei suoi otto assistiti, almeno uno dovrà essere fucilato — verrà a sapere dopo — per dare un esempio e sollevare, chissà come, il morale delle truppe.
Il regista è il comandante della Divisione, una specie di «puro folle» della guerra: «Aveva la mania di uscire di pieno giorno fuori dai reticolati a gironzolare sotto le trincee austriache ed esigeva che gli ufficiali lo seguissero conversando del più e del meno dimostrandosi beati come lui di quelle passeggiate allo scoperto. Per fortuna le vedette austriache avevano più testa di lui e non sparavano». (Un gemello del tenente generale Leone, il fanatico protagonista di Un anno sull’altipiano , di Emilio Lussu).
Gli otto imputati sono meridionali, non giovani, e sembrano inebetiti. Non si rendono conto di quel che sta succedendo. Di che cosa sono accusati? Scesi da un autocarro durante la battaglia — inizialmente erano 12 — gli era stato comandato di marciare verso la prima linea raggiungendo un paese di nome Valmorbia (una poesia degli Ossi di seppia di Eugenio Montale ricorda che il poeta in guerra si trovava proprio lì). Il gruppetto, poi, doveva entrare nelle trincee del Reggimento. I dodici si erano persi, tra le bombe che scoppiavano, le barelle dei feriti, le macerie delle case distrutte. I carabinieri li avevano trovati «ammucchiati come bestie dietro un muretto». Ma poi erano rimasti in trincea per più giorni, due di loro erano morti, altri due, feriti, erano ricoverati in un ospedale da campo.
Il processo spettacolo viene celebrato in un prato, tra gli abeti. Il Tribunale di guerra è sul fondo, dietro un bancone di assi di legno, il colonnello comandante del Reggimento nel mezzo, due ufficiali per lato. Poco discosto il pubblico ministero, un capitano della Giustizia militare. L’avvocato difensore sta in piedi vicino agli otto soldati incatenati. Tutt’intorno i reparti in armi della Divisione formano un quadrato minaccioso. Un picchetto di dodici carabinieri attende in un angolo di trasformarsi in plotone di esecuzione. Il cappellano militare, con la croce rossa sull’uniforme di campagna, sembra il simbolo della morte.
«Perché vi fermaste dietro al muretto?» domanda il presidente. Gli otto soldati rispondono come trasognati, ogni loro parola dà credito al capo d’imputazione. Anche l’avvocato difensore sembra trasognato, «in quel gran silenzio che mi schiacciava». Ma poi Piero Calamandrei ha un salvifico sussulto della mente che deve nascergli dalla disperazione. Chiede la parola, solleva un’eccezione di incompetenza procedurale. L’articolo 559 del Codice penale militare di guerra prevede che i tribunali straordinari si convochino «per dare un pronto esempio di militare giustizia». Ma sono passate tre settimane da quell’evento, l’urgenza non esiste più, dice Calamandrei. C’è un ansioso momento di attesa, il capitano di stato maggiore che fa parte della Corte e rappresenta il generale di Divisione, il «puro folle», è furibondo e lo fulmina con gli occhi, il colonnello trema, ma il pm fa sua l’eccezione di incompetenza: il processo è rinviato al Tribunale di Corpo d’Armata di Valdagno.
Gli otto morituri, inconsapevoli di quel che è accaduto, se ne vanno sperduti. Hanno avuto salva la vita. Il Tribunale di Valdagno li assolverà.
Il mio primo processo di Piero Calamandrei fa ricordare Orizzonti di gloria , di Stanley Kubrick, protagonista la macelleria della guerra sul fronte franco-prussiano nel 1916. Fa male al cuore quel gran film. Kirk Douglas, l’avvocato che difende con infinita passione tre soldati del 701° Reggimento, tirati a sorte per dar l’esempio, ingiustamente accusati di codardia, anch’egli giurista di fama, non ha, sia pure nella finzione, la stessa fortuna di Piero Calamandrei. I tre vengono fucilati tra gli spasimi.
Fu una guerra feroce la Grande guerra. E non fu, come era nella speranza di molti, l’ultima delle guerre. Aprì piuttosto il cammino a vent’anni di violenza, di sopraffazione, di sangue, il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, la Seconda guerra mondiale, la Shoah, la bomba atomica.
Piero Calamandrei, dalla vita retta e operosa, pieno di speranze e anche di tormenti, riuscì in quel massacro a esaudire almeno un sogno della giovinezza. «4 novembre 1918: ieri alle 13.30 — annotò in un suo diario — sono stato il primo soldato italiano a entrare in Trento ancora tenuta dalla marmaglia austriaca. Ora siamo qui in un tumulto di festa…».
Figuriamoci la gioia. «Donne, vecchi, bambini, giovinetti, signorine e popolane, tutti ci gridavano sulla faccia il loro giubilo, la loro ebbrezza». (Ne scrisse distesamente il 10 novembre 1919 su «la Lettura» del «Corriere della Sera»). «Quanto vi abbiamo aspettato!», «Quanto abbiamo sofferto!».

Corriere 17.7.14
«Non dovevamo salvare Moro ma stabilizzare il vostro Paese»
Lo psichiatra americano mandato dal governo Usa nel 1976 che aiutò Cossiga dopo via Fani «L’incompetenza dell’Italia uccise Moro»
Pieczenik: ero terrorizzato, vivevo in albergo con la pistola che mi diede il ministro
«Dovevo valutare cosa era disponibile in termini di intelligence, sicurezza, capacità di attività di polizia. E la risposta è stata: niente»
di Giovanni Bianconi


È stato ascoltato da un magistrato italiano il «dottor Pieczenik», lo psichiatra americano chiamato a Roma nel marzo 1978 dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga dopo la strage di via Fani (foto ) e il rapimento di Aldo Moro. «L’ordine non era di far rilasciare l’ostaggio, ma di stabilizzare l’Italia».
D avanti al magistrato italiano, il protagonista «amerikano» del caso Moro mostra di avere un’alta considerazione di sé. Vuole essere chiamato «dottor Pieczenik», rivendicando il titolo di medico psichiatra al servizio del governo degli Stati Uniti. Nella primavera del 1978, durante il sequestro del leader democristiano, fu inviato in Italia per assistere il ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Il suo ruolo — rimasto sempre piuttosto misterioso — venne alla luce molto più tardi, e dopo tante interviste e affermazioni spesso ambigue Steve Pieczenik, oggi settantenne, è stato interrogato per la prima volta da un inquirente italiano. Il 27 maggio scorso il pubblico ministero della Procura di Roma Luca Palamara è andato ad ascoltarlo in Florida, con l’assistenza di un magistrato statunitense. Quello che segue è il resoconto della sua testimonianza, raccolta a 36 anni di distanza dai fatti in un’indagine che tenta, se non di scoprire nuove verità, almeno di dissipare ombre.
All’epoca Pieczenik veniva considerato un esperto di sequestri: «Ero appena riuscito a negoziare il rilascio di circa 500 ostaggi americani a Washington in tre diversi palazzi utilizzando tre ambasciatori arabi… Cossiga è venuto a sapere di me e ha chiesto al segretario di Stato Cyrus Vance di chiedermi se potevo andare ad aiutarli nel rapimento di Aldo Moro».
Allo psichiatra statunitense sbarcato a Roma una decina di giorni dopo la strage di via Fani in cui le Brigate rosse avevano sterminato la scorta del presidente della Dc e portato via il prigioniero, erano state date consegne precise per la sua collaborazione col governo italiano: «L’ordine non era di far rilasciare l’ostaggio, ma di aiutarli nelle trattative relative ad Aldo Moro e stabilizzare l’Italia». Poi aggiunge: «In una situazione in cui il Paese è totalmente destabilizzato e si sta frantumando, quando ci sono attentati, procuratori e giudici uccisi, non ci possono essere trattative con organizzazioni terroristiche… Se cedi l’intero sistema cadrà a pezzi».
Aveva paura anche per se stesso, il consigliere americano: «Ero terrorizzato, non avevo nessuna protezione, mi hanno messo in una abitazione sicura con due carabinieri senza pistola e senza munizioni, e sono andato via… Cossiga mi ha dato una pistola Beretta 7.4 mm e qualcuno che venisse con me per allenarmi a sparare, non ero vestito in modo formale ma con i jeans, in incognito… Mi ero trasferito all’hotel Excelsior. Ho trascorso tutte le notti con una pistola tra le gambe, pronto a sparare a chiunque».
Pieczenik trascorse le sue giornate romane per lo più nell’ufficio di Cossiga, insieme a «uno psichiatra italiano» (probabilmente il criminologo Franco Ferracuti, iscritto alla Loggia P2 di Licio Gelli) e al giudice Renato Squillante, all’epoca consigliere del ministro dell’Interno. Il pm Palamara gli chiede che cosa ha fatto in concreto, e il testimone risponde: «Dovevo valutare che cosa era disponibile in termini di sicurezza, intelligence, capacità di attività di polizia, e la risposta è stata: niente. Ho chiesto a Cossiga cosa sapeva delle trattative con gli ostaggi e lui non sapeva niente; in terzo luogo dovevo assicurarmi che tutti gli elementi che negoziavamo dovevano diminuire la paura e la destabilizzazione dell’Italia; quarto: dovevamo valutare la capacità delle Br nelle trattive e sviluppare una strategia di non-negoziazione, non-concessioni».
Nella sostanza, Pieczenik voleva «costringere le Br a limitare le richieste in modo che avessero una sola cosa possibile da fare, rilasciare Moro». Andò al contrario, come il consigliere statunitense ha confidato in un libro scritto da un giornalista francese e crudamente intitolato «Abbiamo ucciso Aldo Moro». Ma adesso Pieczenik prova a fare marcia indietro: «Programmi tv e interviste per me sono solo spettacolo e finzione, ciò che dico alla stampa o nelle interviste è disinformazione». E dunque, quasi si spazientisce il pm Palamara, è vero o no che secondo Pieczenik lo Stato italiano ha lasciato morire il presidente dc? Risposta: «No, l’incompetenza dell’intero sistema ha permesso la morte di Aldo Moro. Nessuno era in grado di fare niente, né i politici, né i pubblici ministeri, né l’antiterrorismo. Tutte le istituzioni erano insufficienti e assenti».
Lo specialista arrivato da Washington sostiene di essersi limitato a leggere i comunicati delle Br, che avevano una «strategia molto facile», rendendosi conto che il governo italiano non era in grado di fare nulla. Quindi, dopo aver sponsorizzato la linea della fermezza appoggiata dal partito comunista, ripartì alla volta degli Usa, a sequestro ancora in corso. Come se la sua missione fosse compiuta: «Cossiga era un uomo estremamente intelligente che ha capito molto in fretta ciò che doveva fare, ed è stato in grado di attuarlo… Continuare a cercare di stabilizzare l’Italia e continuare la politica di non-negoziazione, nessuno scambio di terroristi e nessun altro scambio». Rientrato in patria, il consigliere venne a sapere che Moro era stato assassinato: «Ho pensato che sfortunatamente le Br erano dei dilettanti, e avevano fatto davvero un grande sbaglio. La peggior cosa che un terrorista possa fare è uccidere il proprio ostaggio. Uccidendo Aldo Moro hanno vinto la causa sbagliata e creato la loro autodistruzione».
Dopo il sanguinoso epilogo, Pieczenik sostiene di non aver seguito gli sviluppi del caso Moro, né avuto altri contatti con il governo italiano: «Ho fatto il mio lavoro e sono tornato a casa, ero felice di aiutare l’Italia… Poi sono stato impegnato nella caduta dell’Unione Sovietica… L’America e io abbiamo abbattuto l’Urss, portato la libertà in Cambogia, abbattuto il partito comunista cinese e integrato l’Unione Europea, ma l’Italia non è cambiata, ha un tasso di crescita negativo, una disoccupazione elevata… Penso che abbiate oggi un problema più grave di quello che avete avuto nel rapimento di Aldo Moro».

Repubblica 17.7.14
Il potere dell’istruzione
di Nicholas Kristof


SONO passati quasi tre mesi da quando i militanti islamici nel nord della Nigeria attaccarono una scuola dove si svolgevano gli esami e sequestrarono più di 250 ragazze, tra le più intelligenti e promettenti della regione.
I loro rapitori le hanno definite schiave e hanno minacciato di «venderle sul mercato». L’ultima volta che sono state viste, in un video di due mesi fa, le ragazze apparivano terrorizzate.
«Stiamo chiedendo aiuto», supplica Lawan Zanah, padre di una ragazza scomparsa, Ayesha, che ha 18 anni e compariva in quel video. «America, Francia, Cina, dicono che ci stanno aiutando, ma concretamente non vediamo nulla».
Lui e gli altri genitori, dice, non sanno nemmeno se le loro figlie sono vive. I genitori passano il tempo a pregare che Dio intervenga, dal momento che il governo nigeriano e gli altri non sembrano avere intenzione di farlo. «Speriamo che Dio ascolti il nostro dolore».
La preside della scuola, Asabe Kwambura, dice che 219 ragazze non sono ancora tornate e denuncia il fatto che la campagna internazionale di solidarietà Bring Back Our Girls si sia affievolita mentre il mondo va avanti.
«Questa campagna deve proseguire», esorta. «Le nostre studentesse vivono ancora nei boschi. Vogliamo che la comunità internazionale chieda al governo della Nigeria di fare qualcosa, perché non sta facendo nulla».
La risposta più evidente del governo nigeriano è stata quella di dare un incarico a una società di pubbliche relazioni statunitense, pagandola, si dice, 1,2 milioni di dollari. Questi soldi potrebbero essere utilizzati meglio investendoli nel rendere più sicure le scuole.
I leader mondiali fanno dei bei discorsi sull’istruzione, ma poi non concludono niente. Questo vale, purtroppo, anche per il presidente Barack Obama. Quando era candidato alla presidenza, nel 2008, annunciò un piano per l’istruzione che prevedeva un fondo globale di 2 miliardi di dollari: se non ve lo ricordate, pazienza, se lo è scordato anche lui. Infatti, Obama sta chiedendo di ridurre del 43 per cento gli aiuti internazionali all’istruzione di base nel 2015 rispetto a quanto stanziato dal Congresso nel 2010.
Secondo l’Unesco, l’aiuto all’istruzione, finanziato da tutti i paesi del mondo, è diminuito del 10 per cento dal 2010.
Se Obama vuole sostenere un fondo globale per l’istruzione, ne esiste uno. Si chiama Global Partnership for Education, e ha i suoi uffici a Washington. È fortemente sostenuto da altri paesi finanziatori, ma il suo presidente, Julia Gillard, l’ex primo ministro australiano, fa notare che gli Stati Uniti, finora, hanno messo a disposizione solo l’1 per cento del loro bilancio per questo fine.
«Gli Stati Uniti non sono l’1 per cento della popolazione mondiale», dice seccamente.
A suo merito, Obama sta aumentando i finanziamenti, offrendo 40 milioni dollari per quest’anno e ancora di più in futuro. Anche Nita Lowey, membro democratico della Camera dei Rappresentanti per lo stato di New York, e il repubblicano Dave Reichert, deputato dello stato di Washington, stanno patrocinando una legge ( Education for All Act) che promuova gli aiuti per la scolarizzazione di una parte dei 58 milioni di bambini nel mondo che non frequentano la scuola primaria.
Un gruppo si è dimostrato sensibile: i lettori del New York Times . A maggio scrissi un articolo sulle ragazze nigeriane, citando un gruppo, Camfed, che manda a scuola le bambine in Africa. I lettori del Times risposero donando circa 900.000 dollari a Camfed. Grazie, lettori!
Quei soldi, dicono i responsabili di Camfed, permetteranno a 3.000 ragazze di continuare a frequentare la scuola superiore in tutta l’Africa, ragazze come Katongo, una 16enne dello Zambia bravissima in matematica. Katongo è orfana e ha dovuto abbandonare la scuola perché non aveva i soldi per pagare la retta, ma ora sta per diventare la prima persona della sua famiglia a finire la scuola. Vorrebbe diventare infermiera.
Le donazioni private aiutano, ma non risolveranno il divario educativo. Né basteranno i dollari, anche se sono utili. Fondamentalmente, i governi dei paesi poveri devono incrementare l’istruzione e renderla una priorità: non servono solo soldi, ma anche un calcio nel sedere.
L’Unesco denuncia che in Mali, il 92 per cento dei bambini alla fine della seconda elementare non è in grado di leggere una sola parola. In Zambia, il 78 per cento dei bambini di terza elementare non sa leggere nemmeno una parola. In Iraq, il 61 per cento degli alunni di seconda elementare non riesce a risolvere correttamente una sottrazione.
Le condizioni sono spesso deplorevoli. In Africa e in Asia, spesso gli insegnanti non si presentano a scuola perché sono pagati da una burocrazia di governo anche se sono perennemente assenti. In Malawi, tra i bambini poveri, solo il 3 per cento riesce a completare la scuola elementare e a imparare le basi della formazione, forse anche perché la dimensione media di una classe di prima elementare in Malawi è di 130 alunni. In Camerun, c’è solo un libro di matematica ogni 13 alunni di seconda elementare. Come fanno i bambini a imparare in questo modo?
Eppure abbiamo anche imparato che, quando è fatta bene, l’istruzione cambia quasi tutto. L’esperienza dimostra che educare le ragazze aumenta la produttività, fa crescere gli standard di salute, riduce il tasso di natalità e indebolisce l’estremismo.
Droni e missili possono combattere il terrorismo, ma un’arma ancora più efficace e in grado di trasformare le cose è una ragazza con un libro, e costa molto di meno. Con quello che costa un singolo missile da crociera Tomahawk, è possibile costruire circa 20 scuole.
Molti poveri nel mondo capiscono il potere dell’istruzione. Ho visto dei bambini in Liberia che non hanno la luce in casa e la sera fanno i compiti per strada sotto ai lampioni. Mi hanno commosso, in India e in Pakistan, i genitori disposti a patire la fame per pagare le tasse scolastiche dei loro figli.
L’ambizione di studiare spiega perché quelle 219 ragazze nel nord della Nigeria sono andate a fare gli esami di fine anno pur sapendo dei rischi rappresentati dal terrorismo. Alcune di quelle ragazze sognavano di diventare insegnanti, medici, avvocati - e ora sono forse ridotte in schiavitù in un bosco o costrette a sposare i militanti islamici.
Spero che stiamo facendo tutto il possibile per trovare e liberare quelle ragazze. Questo è uno dei rari casi in cui, visto che il governo nigeriano ha chiesto il nostro aiuto, il mondo approverebbe la nostra assistenza in un blitz. Quindi, Bring Back Our Girls , riportiamo a casa le nostre ragazze. Ma non limitiamoci a questo.
Per quasi tutta la storia, la grande maggioranza dell’umanità è stata analfabeta, ma è qualcosa che oggi sta cambiando con una rapidità sorprendente. Lant Pritchett, un esperto nel campo educativo a Harvard, osserva che la scolarizzazione, negli ultimi 60 anni, è aumentata molto di più di quanto non avesse fatto in tutti i secoli che vanno dall’Accademia di Platone al 1950. L’istruzione è una scala mobile che può cambiare il mondo, e oggi abbiamo la possibilità di cancellare l’analfabetismo globale, se sosteniamo questo sforzo. Boko Haram uccide gli insegnanti, attacca le scuole e rapisce gli studenti perché sa che l’alfabetizzazione è il nemico dell’estremismo. I terroristi capiscono il potere dell’istruzione. E noi?
(New York Times News Service, traduzione di Luis E. Moriones)

l’Unità 17.7.14
I santi guaritori e l’industria delle false speranze
Stamina è l’espressione di un movimento che vuole ridisegnare il sistema
di controllo farmacologico

di Pietro Greco
È successo anche ieri. Ancora una volta un magistrato si è sostituito ai medici e ha ordinato la somministrazione della terapia di Davide Vannoni a un paziente che la chiedeva. È un nuovo caso di quella «cura per decreto» che è somministrata solo in Italia e che fa parlare il mondo. Al caso Stamina e alla cura per decreto è dedicato l’e-book Acquasporca. Cosa rischiamo di buttar via con il caso Stamina, scritto da Antonino Michienzi e Roberta Villa, disponibile su tutte le principali librerie online, scaricabile gratis perché finanziato attraverso un interessante esperimento di crowdfunding (una sorta di finanziamento preventivo dei futuri lettori), patrocinato da Scienza in rete, e intitolato alla memoria del «nostro» Romeo Bassoli, il giornalista che per anni ha animato le pagine scientifiche dell’«Unità», scomparso il 13 ottobre 2013.
Romeo, come giornalista e come paziente, si è sempre battuto contro le «false speranze», da chiunque alimentate: ricercatori, medici o mass media. E gli sarebbe piaciuto molto questo libro, anche e soprattutto perché racconta come un’industria delle «false speranze» stia cercando di imporsi nel «mercato della salute», travolgendo le norme e le regole create, neppure tanti anni fa, a salvaguardia dei cittadini.
Antonino Michienzi e Roberta Villa ricostruiscono passo dopo passo la vicenda di Davide Vannoni e della Fondazione Stamina. Dimostrando come il professore laureato in lettere ed esperto di comunicazione sia riuscito a entrare nelle strutture della sanità pubblica e ad alimentare «false speranze» in tanti malati e famiglie di malati con una pratica che non ha i requisiti minimi per essere considerata una terapia, neppure una terapia non convenzionale, grazie alla compiacenza di un’incredibile quantità di persone - politici, medici, ricercatori e, appunto, magistrati – che hanno ruoli importanti nel sistema nazionale che sovraintende alla nostra salute.
L’«Unità» ha puntualmente raccontato queste vicende, che il libro ci ripropone con un racconto completo e organico. Il cui maggior pregio, tuttavia, è quello di dimostrare che la vicenda Stamina non è un caso isolato. E che Davide Vannoni non è che uno dei tanti «santi guaritori » che costellano la millenaria storia dell’industria delle «false speranze» in medicina. Stamina è l’espressione - magari degenere - di un vasto movimento che nella pratica e nella teoria sta cercando di ridisegnare il sistema di controllo e di sicurezza in ambito farmacologico e, più in generale, medico.
Un sistema che si è affermato negli anni 60 del secolo scorso, dopo la vicenda del talidomide, un farmaco ansiolitico che dopo essere stato messo in commercio negli anni 50 e stato ritirato nel 1961 perché causa di centinaia di malformazioni fetali. Da allora le autorità sanitarie europee e americane hanno stabilito procedure molto rigorose per la sperimentazione dei farmaci e dei protocolli clinici. Queste procedure hanno il consenso della comunità scientifica internazionale e hanno consentito di aumentare il livello di sicurezza in sanità. Ma hanno un difetto - almeno agli occhi delle imprese che producono farmaci e propongono protocolli clinici - di essere lunghe e costose. Negli Usa, per esempio, ogni anno vengono spesi 65 miliardi di dollari in ricerca e si ottengono solo una decina di formule veramente nuove. A torto o a ragione, le grandi aziende del farmaco ritengono che questa sia causa di una loro crisi prossima ventura. E chiedono meno regole, per introdurre novità nel mercato della salute. Poiché uno dei settori innovativi più promettenti è quello delle cellule staminali, ecco che la richiesta di «meno regole» si sta concentrando su queste cellule. Cellule che, finora, molto hanno promesso ma che, tutto sommato, poco hanno finora mantenuto.
La deregulation ha due dimensioni. Una pratica, una teorica. Quella pratica consiste nel creare industrie delle «false speranze» nei paesi con legislazioni meno rigorose. Si hanno notizie di queste industrie in Cina, in Giappone, in Messico. E si ha notizia di una nuova forma di «turismo sanitario» che vede centinaia di persone di tutto il mondo disposte a lunghi viaggi e a conti salati pur di accedere a terapie che molto promettono e che poco mantengono. Tuttavia a preoccupare di più è la dimensione teorica che, negli Stati Uniti e non solo, ha assunto le forme di un «nuovo pensiero in sanità » proposta da un vero e proprio movimento, di matrice liberale e liberista, che chiede meno lacci e lacciuoli in sanità, nel nome della libertà di ciascuno di curarsi come vuole e di scegliere i rischi da correre. Il prerequisito è aggirare le norme sulla sperimentazione dei farmaci.
La speranza posta nelle cellule staminali è il cavallo di Troia considerato più promettente per smantellare il sistema di sicurezza e liberalizzare l’intero settore della biomedicina. In gioco ci sono fatturati da centinaia di miliardi di euro l’anno. Il caso Stamina in Italia è un piccolo rivolo di questo grande fiume che, nel nome della libertà, rischia di distruggere la sicurezza in sanità.

Corriere 17.7.14
«Svelo le ultime ore di Pasolini Misteri e visioni prima del delitto»
Abel Ferrara: ho incontrato l’assassino per il mio film onirico
di Valerio Cappelli


Le ultime ore di Pasolini, il sangue di un poeta, i nudi fatti intrecciati a una narrazione visionaria. «Io non sono un detective o un documentarista, il mio è un approccio da artista» dice Abel Ferrara. Il suo film, che dovrebbe andare in concorso alla Mostra di Venezia e uscirà il 18 settembre (una coproduzione Capricci, Urania, Tarantula, distribuito da Europictures) non ha punte di sentenziosità nel titolo: Pasolini . Ma il sottotitolo dice: Scandalizzare è un diritto. Essere scandalizzati è un piacere. È una frase dalla sua ultima intervista, due giorni prima di morire; poi aggiunse: «Colui che rifiuta di essere scandalizzato è un moralista». Un altro film sul poeta assassinato, che qui «è» Willem Dafoe, il cui volto ha una ruga verticale che lo attraversa e sembra scolpirlo, come aveva Pasolini.
Un’altra occasione perché il suo sangue lavi le coscienze di cattolici e comunisti, con cui dialogava, litigava, discuteva? Maurizio Braucci (co-autore di Gomorra ), ha scritto la sceneggiatura districandosi nella giungla di altri film e documentari, di ipotesi sull’omicidio del 2 novembre 1975 all’idroscalo di Ostia, di ricostruzioni e aule giudiziarie: «Ci limitiamo alla base di questo immenso materiale, molto del quale discutibile. Noi sappiamo di non sapere. Ci siamo attenuti al primo processo, che ci sembra il più plausibile, quello in cui il perito Faustino Durante accerta che, dalle prime percosse e dal numero dei bastoni, c’erano più persone».
Abel Ferrara ha voluto incontrare Pino Pelosi, che fu riconosciuto con sentenza definitiva colpevole dell’omicidio di Pasolini: «È stato un ragazzo di strada, a New York ne ho conosciuti centinaia come lui. Ero interessato ai dettagli, come fumava... Mi sono chiesto cosa Pasolini vedesse in lui». E lei, cosa ha visto in Pier Paolo Pasolini? «A vent’anni restai folgorato da un suo film, il Decameron ; l’ho rivisto due mesi fa e non ha perso niente della sua energia. Era la prima volta che sentivo nominare il suo nome, venni a conoscenza dei guai che ebbe, il sequestro, il dissequestro. E la censura è uno dei temi che tocchiamo nella nostra storia, accanto a cosa significasse essere omosessuali nell’Italia moralista dell’epoca».
Il film ricostruisce quello che il poeta fece a Roma immediatamente prima della morte. Era di ritorno da un viaggio di tre giorni a Stoccolma (dove aveva presentato la sua raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci ) e Parigi (dove aveva ultimato il doppiaggio di Salò o le 120 giornate di Sodoma ). Il primo novembre si sveglia a Roma nella sua casa in via Eufrate. «Lo vediamo nelle sue abitudini intime, quotidiane, come la lettura del Corriere della Sera , su cui scriveva. Poi la cena con Ninetto Davoli da Pommidoro a San Lorenzo e l’intervista a Furio Colombo». Era pronto per spendere alcuni giorni nella torre di Chia, il borgo nel viterbese che aveva conosciuto durante i sopralluoghi di Il Vangelo secondo Matteo . Dopo il tramonto, si preparava per incontrare i compagni della notte».
Nel cast, i cugini Nico Naldini e Grazia Chiarcossi (la vedova di Vincenzo Cerami, che fu allievo di Pasolini) sono interpretati da Valerio Mastandrea e Giada Colagrande; Ninetto Davoli fa Eduardo De Filippo mentre Riccardo Scamarcio impersona Ninetto Davoli; Susanna, la madre del poeta, è Adriana Asti, e Laura Betti è Maria De Medeiros. Pino Pelosi è il cameo di Damiano Tamilia.
Ferrara non ha usato filmati di repertorio, è tutto ricostruito, anche la scena dell’automobile che quella notte sormonta il corpo di Pasolini in fin di vita. Non ha potuto girare nella casa di Pasolini all’Eur, i nuovi proprietari non hanno voluto. Ma grazie ai parenti del poeta, ha avuto il privilegio di averne gli abiti (Dafoe porta la stessa taglia), e il mobilio della sua stanza.
Ma Abel Ferrara ha portato il suo stile personale, dunque su un doppio registro si entra e si esce continuamente dalla realtà, sospesi in una dimensione onirica. Qui, racconta Braucci, esplode l’altra metà del film, quella visionaria: ed ecco pezzi di opere incompiute, il romanzo postumo Petrolio e il film Porno-Teo-Kolossal , la fiaba desacralizzante che non ebbe tempo di girare. Braucci: «L’aveva scritta per Totò, che però morì; ma sarebbe subentrato Eduardo come Re Mago che parte per cercare il Messia, va a Sodoma e Gomorra, arriva nella città della tolleranza di omosessuali e lesbiche che, alla festa della fertilità, si accoppiano per procreare...». C’è l’anima dissacrante di PPP, le sue due ossessioni di segno opposto (per la gioventù e contro la borghesia), la spiritualità, le contraddizioni tra cristianesimo e comunismo, il centauro con la testa nei valori metafisici e i piedi nella critica sociale, le periferie, i poveri...
«Pasolini — dice Ferrara — era una figura unica, artista e intellettuale, scrittore, regista, polemista. Noi abbiamo voluto scoprire perché lo amiamo così tanto, dopo tutti questi anni. È stato anche un mio viaggio, alla ricerca delle mie origini italiane. Da quasi un anno ho deciso di vivere a Roma. Mi piace la città e la gente, mi piacciono gli intellettuali scomodi».

Corriere 17.7.14
Luoghi e oggetti: tutto il mondo di Pier Paolo in una Polaroid
di Renato Franco


La Loggia di San Giovanni a Casarsa della Delizia in Friuli dove affiggeva manifesti politici che scriveva di suo pugno, il Caffè Rosati luogo di incontro degli intellettuali, l’Olivetti Lettera 22 che usava per scrivere... Pasolini tradotto in istantanee. I suoi luoghi, i suoi oggetti, i perimetri fisici in cui si muoveva — quelli mentali sono rimasti per iscritto — fissati in Polaroid che traducono in immagini lo spazio in cui si è mosso uno degli intellettuali più importanti del Novecento. È il lavoro fotografico di Graziano Panfili (è nato a Frosinone nel 1971) che con questo reportage è stato tra i finalisti del Premio Amilcare G. Ponchielli, dedicato al ricordo di uno dei primi photo editor del giornalismo italiano (ha lavorato anche a Sette ). Spiega Panfili: «Nel mio viaggio fotografico, ho ripercorso le tappe più significative della vita di Pasolini: l’infanzia trascorsa a Casarsa della Delizia; Bologna dov’era nato nel ’22 e dove, tornato in età adulta, ha alimentato la sua passione per la letteratura, il cinema, lo sport. Infine Roma, set naturale dei suoi film più belli, dei suoi incontri con gli intellettuali del tempo, delle sue scorribande nelle periferie. Fino all’idroscalo di Ostia, meta del suo ultimo viaggio». Autore anche delle didascalie che accompagnano gli scatti, Panfili per il suo lavoro ha scelto pellicole a sviluppo istantaneo. Detto in una marca, Polaroid (le scorte della madre alla fine sono servite). Una scelta dettata da diverse ragioni: «Dall’esigenza di individuare un riferimento fisico e iconografico con gli ultimi anni di vita del poeta; per ricreare un ideale legame di unicità e irripetibilità della figura; fino alla caratteristica di questi materiali di immergere gli scenari in un’atmosfera intima, imprecisa, ovattata e lontana come i ricordi».

il Fatto 17.7.14
L’importanza di avere Pompei. In 3D
Un documentario per immagini e (poche) parole: per capire cosa combattiamo quando difendiamo questo luogo unico
di Tomaso Montanari


Si racconta che quando qualcuno propose a Winston Churchill di tagliare la spesa sulla cultura per rinforzare ancora la contraerea, il primo ministro avrebbe risposto: “Ma allora, per cosa stiamo combattendo?”. Quando ho finito di vedere, in anteprima, Pompei 3D che andrà in onda stasera alle 21.10 su Sky3D ho pensato subito a questa celebre, e probabilmente apocrifa, battuta.
Già, perché la immagini, la musica e le parole di questo piccolo capolavoro coprodotto da Ballandi Arts e Sky3D sono capaci di spiegare a chiunque per che cosa stiamo combattendo quando combattiamo per Pompei.
DI QUESTA battaglia il documentario non parla. Non parla di crolli, di finanziamenti e di personale, di trattative sindacali o di speculazioni edilizie, di ministeri fallimentari e decreti inutili, di conflitti d'interesse e concessionari onnipotenti. Non parla, cioè, di tutto ciò per cui – inevitabilmente – Pompei è quasi ogni giorno sulle pagine dei giornali italiani e stranieri. Non mostra il degrado, non grida allo scandalo: e non perché a Pompei non ci sia (anche) del degrado, e non perché non ci sia (ancora) da gridare.
Ma perché, appunto, è vitale ricordarci perché gridiamo. Ed è importante particolarmente ora, quando grazie al soprintendente Massimo Osanna e a una pattuglia di giovani archeologi e architetti a Pompei si vede finalmente una luce.
Ebbene Pompei 3D riesce perfettamente a ricordarcelo. Perché le sue straordinarie immagini (ancor più impressionanti se si indossano gli appositi occhiali) sono state girate utilizzando anche un drone sperimentale particolarmente evoluto, che ha sorvolato Pompei in varie condizioni di luce, e anche in parti degli scavi inaccessibili ai turisti, e poco o per nulla filmate. E perché le parole scelte per commentarle non sono da meno. Si è infatti scelto di rinunciare sia alla classica, didascalica, spiegazione (disponibile per altro in contemporanea su Sky Arte, nella puntata dedicata a Pompei nella serie sulle Sette meraviglie), sia alla passeggiata dell'esperto (che fa ormai troppo Alberto Angela) o alla terribile presenza dei personaggi in costume, un escamotage tristemente vicino alla mascherata dei gladiatori al Colosseo.
Qua invece non si vede anima viva (fatti salvi due dei dolci cani che custodiscono Pompei), e tutto è affidato ad un sapiente montaggio di testi letti da una voce fuori campo. Testi – e questo è il punto – di grandissimi scrittori che hanno lasciato testimonianze di viaggio, pensieri o poesie su Pompei.
Il filo conduttore è una indimenticabile pagina di Goethe che definisce la città morta “un posto mirabile, degno di sereni pensieri”.
MA LO SPETTATORE ha il privilegio di vedere Pompei attraverso gli occhi e le parole di Giacomo Leopardi (“Torna al celeste raggio / Dopo l'antica oblivion l'estinta/ Pompei, come sepolto / Scheletro, cui di terra /Avarizia o pietà rende all'aperto”) e di Shelley, di Dumas, di Dickens (“perdo il conto del tempo, e penso ad altre cose”) e Melville (“Pompei è uguale ad ogni altra città. La stessa antica umanità. Che si sia vivi o morti non fa differenza . Pompei è un sermone incoraggiante”). E così vediamo con i nostri occhi “il segno della corda del secchio sulla vera del pozzo, la traccia dei carri sul basolato delle strade” di cui parla Dickens, e guardiamo il Tempio di Iside mentre ascoltiamo le note del Flauto magico che esso ispirò a Mozart. Nulla ci viene spiegato: ma sentiamo di comprendere tutto.
Per questo Pompei3D è un potente argomento contro coloro che, per stupidità o interesse, oppongono la qualità al successo mediatico, e considerano elitarista ogni tentativo di educare: qua le immagini ultramoderne e spettacolari dei droni convivono con il riuscito tentativo di raccontare Pompei come un pezzo della storia della cultura europea tra Otto e Novecento.
NON UNA CURIOSITÀ turistica, non solo materia per gli archeologi, non un problema amministrativo: ma una grande occasione per tornare civili e umani. Ecco perché meriterebbe di essere proiettato nelle scuole: ed ecco perché speriamo che non rimanga un episodio isolato.
E si trattiene il respiro quando si vede il calco del corpo della fanciulla che Primo Levi associò ad Anna Frank e alla scolara di Hiroshima in una poesia il cui incipit basta a spiegare perché Pompei ci sta a cuore, perché combattiamo per salvarla: “Poiché l'angoscia di ciascuno è la nostra”.
Corriere 17.7.14
Sovrintendenze accorpate. Nascono venti supermusei
di Luca Zanini


Sovrintendenze accorpate e quasi dimezzate, con gli uffici per i beni storico-artistici che si fondono a quelli per i beni architettonici e prendono il nome di «Soprintendenze Belle arti e Paesaggio», in tutta Italia. Direzioni regionali trasformate in Segretariati regionali (con il compito di coordinare tutti gli uffici periferici del ministero). Una linea di comando semplificata e snellita tra amministrazione centrale e periferica. E ben venti grandi musei che si staccano dalla tutela dei sovrintendenti e acquisiscono — oltre ad una maggiore autonomia — nuovi vertici: super-direttori che potranno essere scelti — in deroga alla normativa vigente — anche all’estero, con concorsi. Sono le novità che promette la rivoluzione Franceschini: la riforma del ministero dei Beni culturali e del Turismo presentata ieri a Roma.
In epoca di tagli alla spesa pubblica e crisi della cultura (calano i visitatori dei musei, diminuiscono gli italiani che vanno al cinema), il progetto Franceschini si prefigge il triplo scopo di ridurre i dirigenti, rendere più efficienti le strutture ministeriali e riportare i turisti nei musei e nei siti archeologici.
Motore della riforma l’adeguamento ai numeri della spending review, «divenuto l’opportunità — spiega il ministro — per intervenire sull’organizzazione del dicastero» e per porre rimedio «ad alcuni problemi che da decenni segnano l’amministrazione dei Beni culturali e del turismo in Italia». Il ministero era obbligato a ridurre 6 dirigenti di I fascia e 31 dirigenti di II fascia tra centro e periferia (i sovrintendenti sono tutti di II fascia), «abbiamo scelto di fare un accorpamento per materia e non per area geografica — sottolinea Franceschini — perché sarebbe assurdo avere un unico soprintendente tra Piacenza e Rimini». È una strada già percorsa e sperimentata in Toscana e in Campania, dove le sovrintendenze unificate funzionano.
Accanto ai tagli, la riorganizzazione, con la nuova autonomia assegnata a 18 grandi musei e 2 aree archeologiche (Colosseo-Fori e Pompei), che saranno presto indipendenti dalle sovrintendenze grazie alla nuova qualifica di Ufficio dirigenziale. Ai loro vertici saranno chiamati super direttori scelti anche all’estero, perché «se un giovane italiano viene mandato dal Louvre a dirigere la sua nuova sede di Abu Dhabi, tanto vale ci siano anche bravi esperti di altre nazionalità alla guida dei musei italiani». E proprio riguardo al Louvre, Franceschini denuncia «il nostro complesso di inferiorità ingiustificato». Certo che, presto, anche i musei italiani sapranno fare marketing con prodotti che sfruttino l’immagine dei loro tesori, vendersi bene e fare incassi». I super direttori avranno contratti a termine e saranno sottoposti a severa valutazione periodica da comitati di esperti internazionali. Quanto al calo dei visitatori, sarà fondamentale lo sviluppo di Poli museali cittadini misti: dovranno mettere insieme i musei di Stato, Comune, privati e Chiesa riuscendo così a fare sinergia, offrendo un sistema di promozione unico, «perché al turista interessano i servizi e la card comune, non a chi appartiene il singolo museo».
In merito alle sovrintendenze, la riforma che le accorpa susciterà certo — avvisa il ministro — «qualche resistenza: quando ci sono le riforme accade sempre». Ma restano autonome le due sovrintendenze speciali di Roma e Pompei. Grandi novità anche in decine di uffici ministeriali in tutti i capoluoghi di regione. Nascono la nuova Direzione generale «Arte e architettura contemporanea e periferie urbane» e la Direzione generale Educazione e ricerca, per «riorganizzare la parte formativa del ministero e organizzare grandi scuole tra cui, magari, una grande scuola archeologica a Pompei».
Nel frattempo, però, Franceschini vuole fermare le diatribe tra vertici regionali del Mibact e sovrintendenti: «Troppe volte quei contrasti hanno portato a impasse e anche a dibattiti negativi sui giornali». Razionalizzati pure gli Archivi: «Il direttore di quello di Stato nel comune capoluogo assumerà anche le funzioni di soprintendente archivistico; gli altri archivi saranno diretti da funzionari». Stessa procedura nelle biblioteche statali: resta un dirigente di II fascia solo in quelle di particolare valore storico.

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