sabato 1 novembre 2014

Corriere 1.11.14
Dramma migranti
Mare Nostrum chiude i battenti «100mila salvati, ma pesano i morti»
Il ministro dell'Interno Angelino Alfano fa un bilancio dell'operazione di salvataggio dei migranti e annuncia la nascita di Triton, la nuova missione in chiave europea

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Corriere 1.11.14
Migranti, pattuglie solo a 30 miglia da terra
Rimane aperto il tratto di Mediterraneo fino ai confini della Libia, dove in poco più di un anno sono state salvate ben centomila persone
Parte la missione dell’Ue nel Mediterraneo. Ma l’accoglienza dei profughi resterà a carico dell’Italia
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Il piano operativo conta 25 mezzi navali e 9 aerei con una spesa mensile di 2 milioni e 900 mila euro. Fissa le aree di intervento in mare, si occupa della divisione dei compiti tra gli Stati e soprattutto impone le regole d’ingaggio, prevedendo che l’accoglienza dei migranti sia delegata interamente all’Italia visto che il pattugliamento viene effettuato a 30 miglia dalle nostre coste. È l’operazione «Triton», varata dall’Europa, che da oggi sostituisce «Mare Nostrum». Per i prossimi due mesi ci sarà «la fase dell’accompagnamento», come la definisce il ministro Angelino Alfano, ma di fatto rimane aperto il tratto di Mediterraneo fino ai confini della Libia, dove in poco più di un anno sono state salvate ben centomila persone.
Il mare «aperto»
La scelta di intervenire con il controllo dell’intera area era stata fatta nell’ottobre 2013 dopo il naufragio di un barcone di fronte a Lampedusa che provocò oltre 300 vittime. Uomini, donne e bambini che scappavano dall’Africa e morirono a meno di un chilometro dall’isola quando l’imbarcazione prese fuoco. Da allora sono stati compiuti 558 salvataggi e nonostante ci siano stati altri affondamenti e numerosi dispersi, il bilancio umanitario è certamente molto positivo.
L’Oim, L’organizzazione internazionale che assiste i migranti, torna a chiedere che la priorità rimanga il salvataggio perché «questa è un’emergenza dovuta ad un crescente numero di persone che hanno bisogno di protezione e assistenza». Su questo il titolare del Viminale si appella all’Europa affinché «cambi strategia e apra campi profughi, zone di accoglienza e di richieste di asilo direttamente in Africa». Una proposta più volte rilanciata, ma a quanto pare finora mai presa davvero in considerazione dalle autorità dell’Unione.
Il soccorso
Saranno gli italiani a guidare la missione dal Centro di coordinamento aeronavale della Guardia di Finanza a Pratica di Mare, dove saranno presenti anche gli ufficiali degli altri Paesi e quelli di Frontex.
L’intesa raggiunta a Bruxelles dagli specialisti della Direzione immigrazione del Viminale e della Polizia divide in maniera netta gli interventi di controllo da quelli di salvataggio e impone che in quest’ultimo caso spetti alla Guardia Costiera gestire l’emergenza. «Triton» ha infatti come obiettivo primario il contrasto dell’immigrazione illegale e dunque si parteciperà all’attività di soccorso soltanto in casi di massima gravità.
I mezzi messi a disposizione dagli Stati membri (Finlandia, un aereo; Francia, un aereo; Islanda, una nave; Lettonia, un elicottero; Malta un aereo, una motovedetta grande e una piccola; Olanda una motovedetta piccola; Portogallo una nave; Spagna, una nave) saranno guidati dall’equipaggio straniero, ma a bordo dovranno sempre avere un ufficiale italiano.
Il ruolo di Malta
L’accordo prevede che Malta si occupi esclusivamente dei migranti soccorsi o individuati all’interno delle proprie acque. E dunque rischia di riproporre i problemi già sorti in passato quando La Valletta contestava quest’obbligo sottolineando la propria incapacità operativa soprattutto in caso di ondate di sbarchi consistenti. Il resto riguarda l’Italia, che dovrà occuparsi sia degli irregolari, sia dei richiedenti asilo anche se l’individuazione è stata effettuata da un mezzo straniero. Sono invece vietati i respingimenti: i migranti dovranno essere sempre portati a terra per individuare chi ha diritto allo status di rifugiato.
I 2 milioni e 900 mila euro mensili a disposizione di «Triton» copriranno il 100% delle spese sostenute dagli Stati stranieri e il 38% di quelle dell’Italia che sosterrà i costi del controllo delle propri frontiere: per i mezzi navali ci vogliono dai 550 ai 1.000 euro all’ora, 3.500 per gli aerei. Altri 3 milioni di euro al mese saranno spesi sino a fine anno per chiudere «Mare Nostrum».

il Fatto 1.11.14
Non è più Mare Nostrum
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, stanno per chiudere Mare Nostrum e nasce Triton, un’operazione europea molto più modesta e molto meno costosa, con un raggio d’azione più piccolo. Salveranno chi sta per arrivare. Ma gli altri?
Andrea

IL CAMBIO DELLA GUARDIA è proprio oggi, primo novembre. Non è esattamente un cambio della guardia. È frutto di doppiezza, di inganno, di finzione, di egoismo. Che cosa è stata l’operazione Mare Nostrum? È stata la risposta italiana a numerosi spaventosi naufragi di barche e barconi di profughi e rifugiati che tentavano di raggiungere, dalla Libia (la costa più vicina) l’Italia, ma sono annegati a migliaia. Risultato di Mare Nostrum? “Almeno 100 mila vite salvate”. Sono parole di Angelino Alfano, ministro dell’Interno italiano, che in questa affermazione appare giustamente orgoglioso di questo straordinario impegno umanitario. Perché allora Mare Nostrum finisce? “Non possiamo permettercelo, è troppo costoso”. Sono parole di Angelino Alfano, ministro dell’Interno italiano. Non sarebbe giusto dire che ha cambiato idea. Alfano è uno molto sensibile al successo, ed è un buon politico, per se stesso. Sente che la crociata del salvataggio ha perduto sostegno, anche per la paura totalmente infondata di Ebola, che arriva in jet nei migliori aeroporti e caserme del mondo, ma non ha mai dimostrato di poter attraversare il deserto e il mare (come non si è mai trovato un solo caso della tubercolosi annunciata con grida dagli untori della Lega Nord). Ma dove non c’è applauso non c’è gusto per un politico. E allora Angelino Alfano se ne va con tutta la sua flotta dal Mediterraneo (la sua flotta sarebbe la flotta italiana, ma nessuno ha trovato da ridire) tanto adesso ci pensa l’Europa. L’Europa, purtroppo, non è né più generosa né più intelligente di Alfano: l’importante è limitare i costi. Perciò adesso, che siamo tutti insieme a sorvegliare il mare, la parola civiltà si traduce in questo: costi drasticamente ridotti, 30 miglia nautiche a ridosso delle coste italiane (che vuol dire quando sono quasi arrivati), nessun pattugliamento in mare aperto, e chi annega annega. Se non è proprio a ridosso delle coste italiane, lasciamo fare al destino. Poco, direte, per una nuova unione di Stati che avrebbe dovuto portare un grande cambiamento di valori e ricchezza alla comunità umana. Poco, tenuto conto che metà dei Paesi della Unione, i più grandi e presuntuosi, hanno debiti pesanti con molti Paesi dell’Africa e del Medio Oriente dal quale adesso arrivano o tentano di arrivare i rifugiati. Il cambio di strategia si può, in poche parole e con minore ipocrisia, riassumere così. La Missione Mare Nostrum era salvare le persone. La missione Triton è sorvegliare le coste. E chi può dire che non si torni alla strategia leghista di respingere? Infatti l’accusa a Mare Nostrum era di incoraggiare (come se uno scegliesse di restare a Kobane o a Homs, in Siria, perché non c’è più Mare Nostrum). Ma vuoi vedere che, senza Mare Nostrum l’arrivo di profughi diminuirà, Salvini se ne farà un vanto, e tutti fingeremo di non sapere quanti muoiono annegati ogni giorno?

Corriere 1.11.14
Soccorsi ai migranti l’irresponsabilità di chi guarda altrove
di Andrea Riccardi


L’operazione Mare Nostrum è alla fine. Si chiude una pagina generosa della nostra Marina e di tutto il Paese. L’operazione nacque dopo il terribile naufragio del 3 ottobre 2013 che provocò la morte di 366 persone davanti a Lampedusa. In poco più di una settimana, in quelle acque, ne morirono più di 560. Erano in larga parte siriani ed eritrei. In questi mesi Mare Nostrum ha salvato più di 100 mila persone di cui 9 mila minori non accompagnati. Sono stati pure arrestati 728 scafisti. Mare Nostrum ha messo in rilievo quella qualità umana delle nostre forze armate, mostratasi in varie missioni di pace. Ha scritto una storia di cui possiamo andare fieri e che spero sia in qualche modo continuata. L’Italia s’è presa la responsabilità di salvare vite umane, anche arrivando sotto le coste libiche. Non si poteva accettare quella che papa Francesco definì, durante la sua visita a Lampedusa dell’8 luglio 2013, la «globalizzazione dell’indifferenza».
Ora la storia di Mare Nostrum è finita. Non è che, attraverso i passaggi del Mediterraneo, venissero minacce terroristiche, che seguono ben altre strade. La realtà è che l’Italia non può sostenere i costi dell’operazione. Per l’Unione europea è tendenzialmente un affare italiano e s’insinua che la disponibilità italiana avrebbe fatto aumentare i flussi dei migranti: «più la Marina ne salva, più sono quelli che si gettano in mare».
Con la fine di Mare Nostrum, gli arrivi non saranno così numerosi: perché molti moriranno in mare. Questo deve essere molto chiaro. Come si può attribuire ai salvataggi della Marina l’incentivo dei viaggi clandestini? I rifugiati vengono da paesi in fiamme: ci sono i conflitti in Iraq e Siria, la crisi endemica in Somalia, il dramma eritreo, l’anarchia in Libia e le crisi africane — come nella Nigeria di Boko Haram. Non bastano a spiegare l’aumento dei flussi? Da gennaio 2014, sono arrivati in Italia 32.681 siriani e 32.537 eritrei. Nei loro Paesi i problemi esistono, tanto che il Libano (con i suoi quattro milioni di abitanti) ospita più di un milione di profughi siriani.
L’aumento dei rifugiati sulle nostre coste è un tassello del drammatico processo determinato dal conflitto siriano e iracheno e da infuocate situazioni del Sud del mondo. Attribuire la responsabilità dell’aumento a Mare Nostrum è una comoda scusa, circolante in ambienti dell’Unione, che copre un’abissale irresponsabilità dei Paesi europei.
Da parte italiana, finora, non abbiamo condiviso tale irresponsabilità. È una situazione nuova e drammatica: dalla Seconda Guerra mondiale non si vedeva un così alto numero di rifugiati. E l’Italia è un Paese su una delicatissima frontiera. Del resto, l’azione d’emergenza e salvataggio nei confronti dei profughi andrebbe accompagnata da una politica in loco , tendente a risolvere le cause dei conflitti o a scoraggiare la follia dei viaggi di tanti africani (che portano spesso ad amare delusioni nel «paradiso» europeo), attraverso la creazione di posti di lavoro e la cooperazione. A Stoccolma esiste una trasmissione radio, seguita dagli eritrei, che spiega i pericoli del viaggio. Poi bisogna far politica nel Sud del mondo. L’evoluzione politica e la stabilità di alcuni Paesi, anche lontani, ci interessa non fosse che per il numero degli arrivi sulle nostre coste (come l’Eritrea, o il Mali con quasi 9 mila sbarchi dall’inizio dell’anno). Qui la necessità di un disegno politico al di là del Mediterraneo.
L’operazione Triton dell’agenzia Frontex è un’altra cosa: farà monitoraggio e controllo delle frontiere meridionali dell’Unione al massimo entro 30 miglia dalle coste italiane con imbarcazioni finalizzate a questa missione, ma non per il salvataggio di vite umane. Mare Nostrum ha avuto un’altra funzione e non si deve interrompere. Il prezzo dell’interruzione sarà quello di tante morti in mare. Meravigliano i silenzi — anche di cattolici — su questo. Non si fermano i flussi di quelli che fuggono la guerra. Aiutare i disperati in mare è il nostro contributo a chi soffre le guerre. D’altra parte lo spostamento di popolazione dal Sud va incanalato e gestito, ma è qualcosa d’ineluttabile. Chi è intellettualmente onesto lo sa. Poi si può gridare il contrario, ma non è la verità. Del resto, per quanto riguarda le richieste d’asilo in Europa, nel corso del 2013 ne sono state presentate 435 mila con un aumento di 100 mila rispetto all’anno precedente. Non un’invasione, ma un fenomeno gestibile nei 28 Paesi. Non si può, in piena coscienza, dire come gli svizzeri durante la seconda guerra mondiale: «la barca è piena». Anzi, senza Mare Nostrum, dovremo presto dire: «quante barche sono affondate!». E sapevamo che sarebbe successo.

Corriere 1.11.14
I due volti del sindacato
In piazza e a Roma riti e strategie del secolo scorso
In azienda scelte moderne (insieme ai «padroni»)
di Dario Di Vico


Il sociologo veneto Paolo Feltrin parte in quarta: «È mai possibile che quando un leader sindacale lascia diventi subito presidente del centro studi? È così per Bonanni, lo sarà per Angeletti come era stato per Epifani. Il rinnovamento dovrebbe iniziare anche da queste scelte».
Il sindacalismo italiano si trova davanti a un passaggio delicatissimo della sua storia. Il successo degli scioperi generali e delle mobilitazioni di piazza servono a respirare — come si dicono nel fuorionda Susanna Camusso e Stefano Fassina — ma forse c’è da inventare un nuovo posizionamento. Suggerisce Feltrin: «Vedo in difficoltà il sindacalismo che va in tv mentre nei territori la situazione è diversa».
In periferia Cgil-Cisl-Uil in qualche misura hanno già scelto: in molte aziende sono diventati partner dell’impresa. «In fondo in Luxottica che fa il sindacato se non garantire che l’assenteismo sia basso e che produttività e qualità siano le più alte possibili?». Feltrin racconta come all’Acc di Belluno, che produce compressori e che è stata comprata dai cinesi della Wanbo, i sindacalisti abbiano accettato di ridurre il salario e di rendere più efficiente l’azienda pur di salvarla. E il referendum operaio ha confermato la scelta. In verità nella totalità dei casi di accordi «dolorosi» il voto segreto ha confermato le scelte dei delegati. «Dico allora che quello che si finisce per accettare in extremis dovrebbe essere discusso e negoziato a monte, in condizioni di normalità». Un sindacato pragmatico potrebbe anche candidarsi a gestire nuovi servizi: Feltrin addirittura affiderebbe a Cgil-Cisl-Uil i centri per l’impiego piuttosto che farli morire nel pubblico impiego.
In Emilia il sindacato risulta pienamente coinvolto nel clima di rivalutazione del lavoro manuale e di relazioni industriali moderne che si respira nelle grandi aziende e nelle multinazionali. Stiamo parlando di automotive e packaging (Ducati, Lamborghini, Coesia, Ima), imprese che vanno bene e che macinano utili. Un ruolo chiave lo gioca la Fiom, che opera secondo un modello sui generis in cui un sindacato fortemente identitario produce sindacalizzazione elevata ed è però attentissimo in fabbrica a firmare accordi (ad esempio sui turni) che rispettano l’opinione di una base moderata.
Molto gioca la paura di perdere il posto di lavoro, magari anche il fatto che marito e moglie lavorino sotto lo stesso padrone e il rischio sia doppio. Fuori dalle aziende le centrali sindacali emiliane vivono sui servizi e sul patronato ma sono organizzazioni legnose, lente a capire i cambiamenti. Come quelli che avvengono nella logistica popolata da lavoratori extracomunitari. I Cobas stanno conquistando spazio tra i facchini mentre Cgil-Cisl-Uil faticano a reinsediarsi nel cuore del lavoro povero. Capita così che i lavoratori iscritti al sindacato manifestino contro gli scioperi selvaggi e il blocco dei cancelli operato dai facchini, come è accaduto prima all’Ikea di Piacenza e a Ferrara nei giorni scorsi. Sono piccole marce alla Arisio organizzate però da impiegati ed operai con la tessera in tasca.
Intervenendo a Omnibus ieri l’ex leader Cgil Sergio Cofferati ha rivendicato a sé la nascita del Nidil, la sigla rivolta ad organizzare i giovani. In verità il Nidil non ha mai carburato perché i giovani sono un altro pezzo di società non coperto dal sindacato.
I motivi sono molteplici. I rituali di Cgil-Cisl-Uil inevitabilmente riportano al secolo passato e sono incomprensibili agli occhi di ragazzi che stanno maturando una visione diversa del rapporto tra tutele e merito, tra lavoro dipendente e autonomo. I veri luoghi di aggregazione si chiamano talent garden o coworking e presentano caratteri di modernità che il sindacato non avrà mai. Sono ambiti cosmopoliti, dove i giovani costruiscono il loro futuro innovando e assumendosi rischi in prima persona. Come fa il sindacato dei congressi che durano 5 mesi, e si concludono con documenti chilometrici «elaborati dai compagni della commissione politica», a dialogare con loro? Cambiando argomento come dimenticare poi gli scioperi dei trasporti pubblici del venerdì che stanno scavando un altro solco tra confederali e società?
Giorgio Benvenuto quando guidava la Uil aveva lanciato il sindacato dei cittadini. Racconta: «Pensai che dovessimo porci obiettivi di riforma dei servizi, dai trasporti alla sanità e dovessimo autoregolare gli scioperi. Non l’abbiamo fatto e il rischio oggi è che il sindacato appaia impopolare. Il cittadino è un suddito, vorrebbe trovare un aiuto e invece aspetta inutilmente alla fermata un bus che non passa».
A mettere in fila queste valutazioni verrebbe da dire che il problema non è dunque Matteo Renzi ma Giuseppe De Rita, sorprendentemente, lega strettamente il futuro dei confederali alla sfida con il premier. «La Cgil potrebbe fare la mossa del cavallo. Invitare i suoi a iscriversi al Pd e partecipare a tutte le primarie. In molti casi le vincerebbe così a brigante risponderebbe brigante e mezzo». Se invece il sindacato non volesse invadere la politica e preferisse posizionarsi totalmente nella società civile dovrebbe diventare «il soggetto che lotta contro le disuguaglianze». Niente battaglie di retroguardia sull’articolo 18 o per salvare le fabbriche decotte ma intestarsi una nuova committenza: i cinquantenni estromessi, il Sud, gli esodati, i nuovi poveri. «Dimostrerebbe a Renzi che l’Italia non è fatta di Cucinelli e di Farinetti. L’avevo già suggerito a Bonanni ma non mi ha dato retta».

Corriere 1.11.14
Unità, da Veneziani (in società con il Pd) offerta di 10 milioni
L’asse dell’editore di «Vero» e «Stop» insieme a una fondazione. L’altra proposta da Palombo di «Latina oggi»
di Alessandra Arachi


ROMA L’Unità torna in edicola. Se tutto va bene potrebbe succedere già a fine anno, sebbene il condizionale sia d’obbligo in attesa dell’ufficializzazione. Per la prima volta, comunque, nelle mani dei liquidatori sono arrivate offerte concrete.
Ieri Guido Veneziani, della Veneziani editori, ha messo sul tavolo 10 milioni di euro per rilevare il quotidiano che fu di Antonio Gramsci e l’offerta è stata presentata insieme alla Fondazione Eyu, un acronimo che sta per Europa-Youdem-Unità e che fa capo direttamente al Pd, un’associazione che non ha eccessivo valore dal punto di vista economico (la Fondazione Eyu partecipa all’offerta con il 5%), ma certamente è un avallo politico.
Ieri nelle mani dei liquidatori è arrivata anche l’offerta di Andrea Palombo, già editore di Latina oggi , così come lui stesso ha dichiarato mostrando due buste chiuse in una conferenza stampa e parlando della sua offerta per l’acquisto dell’ Unità avvenuta in zona Cesarini, visto che ieri era l’ultimo giorno utile.
La trattativa di Veneziani, invece, va avanti da qualche settimana e il suo perfezionamento ha fatto tirare un sospiro di sollievo a Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd: «Per salvare l’ Unità il lavoro non è ancora finito, ma siamo decisamente arrivati a buon punto».
L’offerta di dieci milioni servirà per pagare una parte dei debiti, i cosidetti debiti privilegiati (che vedono in prima linea gli stipendi arretrati dei dipendenti) e far partire il giornale. Per poterlo far arrivare in edicola il prima possibile si è pensato ad un tecnicismo che è «l’affitto della testata», così da poter stampare l’Unità prima di perfezionare l’acquisto.
«Mi piacerebbe poter mettere in prima pagina Babbo Natale, ha detto Guido Veneziani, l’editore in pectore, auspicando così il rapido ritorno in edicola del giornale.
Veneziani, editore di riviste come Vero , Vero tv , Stop , appare molto contento di questa sua nuova avventura. «Se tutto va come spero, sono pronto a fare una “open” di 48 ore per scegliere il nuovo direttore dell’ Unità », ha detto spiegando di essere disposto ad ascoltare tutti coloro che si vorranno candidare alla carica e di fare perciò una selezione insieme a Laura Bozzi, la sua direttrice editoriale (nonché direttore di Vero e di Vero più ).
Intanto si tenta un salvataggio anche di Europa , il quotidiano che da oggi non sarà più su carta, soltanto online. Ma anche sulla versione online incombe la chiusura, fissata per il 15 novembre da Enzo Bianco, presidente del consiglio di amministrazione.

Corriere 1.11.14
La scadenza del Nazareno e il piano B del premier
Riforme a inizio 2015 o sarà necessario un patto con la minoranza
di Francesco Verderami


Il futuro di Renzi sembra già scritto, perché tutti oggi prevedono che succederà a se stesso quando si tornerà alle urne. Tutti tranne Renzi, che quando non ha una telecamera o un microfono puntati davanti dice che «avrò un futuro solo se vincerò la battaglia in Europa».
La confidenza, che sa di confessione, il premier l’aveva consegnata ad alcuni colleghi di governo prima che iniziasse il Consiglio dei ministri per la variazione alla nota di bilancio, mentre ancora trattava con Bruxelles sui decimali da limare alla legge di Stabilità. Privo della maschera che indossa quando appare in pubblico, Renzi era parso insolitamente severo con se stesso: «La vera sfida è in Europa, altro che nelle piazze», aveva aggiunto, sebbene qualche giorno dopo proprio lo scontro di piazza a Roma tra la polizia e i lavoratori dell’Ast di Terni lo avrebbe costretto a cambiare l’agenda.
Ma in quella confidenza, che sa di confessione, c’era un presentimento, perché sciorinando gli obiettivi da raggiungere per «fare la nostra parte fino in fondo» agli occhi dei mercati e di Bruxelles, il premier non aveva solo parlato di riforme costituzionali, di legge elettorale e di Jobs act: «Bisogna affrontare il nodo della politica industriale. A partire dal comparto siderurgico». Così dicendo, «per Terni e Taranto», aveva gettato lì l’idea di usare all’occorrenza — come rete di protezione — la Cassa depositi e prestiti, per salvaguardare un asset strategico con un «intervento pubblico transitorio».
È un concetto che nei giorni seguenti si sarebbe ritrovato nel discorso al Senato dell’ncd Sacconi e nelle conferenze stampa del leader della Fiom Landini. È un’operazione che servirebbe a Renzi per saldare un rapporto a sinistra con un approccio riformista, in attesa di «vincere la battaglia in Europa». Perché il timore del premier e dei suoi fedelissimi è che se in primavera non partisse la ripresa economica, «il futuro» sarebbe ipotecato. Attorno a questa scommessa ruota tutto il suo gioco politico nazionale: la sfida interna al Pd e l’intesa esterna con Berlusconi, le intemperanze con i compagni della minoranza di partito e la paziente attesa per chiudere l’accordo con il Cavaliere.
Perciò la riforma del Senato e della legge elettorale valgono bene l’ennesima telefonata con il leader di Forza Italia, il cui disegno a Renzi è chiaro: non vuole uscire dal gioco ma vuole allungare i tempi, nell’attesa di una «rivincita» se la Consulta dichiarasse incostituzionale la legge Severino, o — in caso avverso — di un «esito ordinato e serio della sua parabola gloriosa», come ha scritto l’Elefantino sul Foglio lunedì scorso. E dunque le riforme bipartisan non verranno varate entro la fine dell’anno come sperava il premier, che tuttavia oltre l’inizio dell’anno prossimo non vuole nè può andare.
Quindi, se per quella data Berlusconi proverà ancora a temporeggiare, Renzi si acconcerà a un altro schema: chiusi i conti nel Pd sul Jobs act, per la riforma del Senato e per l’Italicum si acconcerà a un’intesa con la minoranza della «ditta» e con la maggioranza di governo, dove il rapporto con Alfano è confermato dall’avallo offerto al titolare dell’Interno per la chiusura di Mare nostrum, nonostante le resistenze esplicite di un pezzo del suo partito e di alcuni suoi autorevoli ministri. Il Cavaliere è consapevole della deadline, e pare acconciarsi al compromesso che gli viene offerto, anche per evitare che il «patto di non belligeranza» su cui si regge l’asse del Nazareno incida sui propri e personali asset strategici.
E poco importa se intanto il sistema finisce nel frullatore, se nelle riunioni riservate Fitto evidenzia le contraddizioni del capo di Forza Italia: «Per esempio, quando alle Europee — che si svolgevano con il proporzionale — logica politica avrebbe imposto di schiacciare Ncd, Berlusconi non l’ha fatto. Mentre ora, con le Regionali — dove dovremmo privilegiare le alleanze — ha preso ad attaccarli. Allora lo dica che vuole regalare tutte le regioni a Renzi». Ma a Renzi tutte le regioni d’Italia potrebbero non bastare: «Avrò un futuro solo se vincerò la battaglia in Europa».

Stefano Cucchi
La Stampa 1.11.14
Chi è Stato?
di Massimo Gramellini


Recita il ritornello: le sentenze si rispettano. Però non possono diventare lotterie, come accade quando sugli stessi fatti il giudizio d’appello smentisce, ribaltandolo, il processo precedente. Per l’accusa Stefano Cucchi è morto in carcere di botte e di stenti. Per il primo giudice «soltanto» di fame e di sete. Per la corte d’assise neanche di quello. Ne dovremmo dedurre che sia ancora vivo. O che si sia ammazzato da solo. E infatti è questa la versione che ci vogliono apparecchiare: Cucchi si sarebbe lasciato morire di inedia. Se medici e infermieri hanno una colpa, è di non avere insistito con la forza per nutrirlo. 
Una «responsabilità morale» ammette persino Giovanardi. E le fratture? E gli occhi pesti? E il corpo preso in consegna vivo dallo Stato e restituito cadavere alla famiglia? Una famiglia che ha sempre rispettato e aiutato le istituzioni, al punto di fornire prove a carico del figlio sul possesso di droga. Toccherà alla Cassazione mettere il timbro su questa storia allucinante, dove il latinorum dei giudici è contraddetto dalla potenza persuasiva delle foto. Purtroppo abbiamo fin d’ora una certezza: che quando una delle due sentenze risulterà sbagliata, nessun magistrato pagherà per il suo errore.
P.S. Solidarietà ai poliziotti e agli agenti penitenziari che accettano di farsi odiare dal prossimo per 1200 euro al mese. Ma il portavoce di un loro sindacato che - di fronte alla morte impunita di un uomo - dichiara: «Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute e conduce una vita dissoluta, ne paghi le conseguenze», dovrebbe fare soltanto una cosa. Vergognarsi. 

Corriere 1.11.14
Se lo Stato ora scagiona se stesso
Il volto tumefatto e la resa dello Stato incapace di giustizia
di Fiorenza Sarzanini


Si devono guardare i suoi occhi pesti, il suo viso tumefatto, il suo corpo straziato. Si deve sapere che nessuno si è occupato del suo dolore fisico, né si è preoccupato che quel ragazzo, arrestato per possesso di droga, avesse smesso di bere e di mangiare. Nessuno ha dato importanza al fatto che non riuscisse più a reggersi in piedi tanto da non poter essere trasferito in carcere e dunque dovesse essere ricoverato nel centro di detenzione dell’ospedale Pertini. E ci si deve interrogare su come sia possibile che nessuno pagherà per questo. Era nelle mani dello Stato Stefano Cucchi ma ieri lo Stato si è arreso e ha mostrato l’incapacità di rendere giustizia. La scelta di sua sorella Ilaria di far vedere ancora una volta in televisione la foto di quel volto devastato dalle botte sul lettino dell’obitorio è la nuova ennesima umiliazione che questa famiglia è costretta a subire pur di conoscere la verità. Un inammissibile sopruso che la mamma e il papà di Stefano hanno dovuto nuovamente sopportare. Sembra assurdo che in una vicenda dove ci sono decine di persone coinvolte, testimoni o protagonisti, non ci sia nessuno che decida di raccontare davvero che cosa è accaduto dal momento dell’arresto fino al ricovero. Ma ancor più difficile da comprendere è che di fronte agli elementi forti già contenuti negli atti processuali i giudici non riescano a trovare i colpevoli. Stefano è stato ucciso. Lo Stato che non lo ha protetto adesso è chiamato a dire chi lo ha ammazzato. Ci sono stati tanti errori, omissioni e bugie commessi da chi era incaricato di indagare. Ma il verdetto di ieri, che ci lascia senza risposte e rende l’omicidio insoluto, è una sconfitta per tutti.

il Fatto 1.11.14
L’appello salva agenti, medici e infermieri (che si abbracciano in aula)
La madre: “L’hanno ucciso tre volte”
Giovanardi: “Giusto così”
Caso Cucchi: il solo colpevole è Stefano
di Silvia D’Onghia


Stefano Cucchi si è suicidato. O forse è morto nel sonno. O forse l’ha finito un male incurabile e nessuno di noi – neanche la sua famiglia – l’ha mai saputo. Di certo non è stato ucciso dalle botte, e se è rimasto abbandonato in un letto d’ospedale è stata solo colpa sua. Avrebbe potuto collaborare, invece di lasciarsi morire. Questo ha decretato lo Stato italiano ieri. Uno Stato che, anziché ridare alla famiglia Cucchi almeno la dignità di una sentenza capace di fare luce su quanto accaduto nella settimana tra il 15 e il 22 ottobre 2009, ha ammesso la propria incapacità, ha alzato le mani, si è arreso di fronte a se stesso. Nessun colpevole. Tutti assolti. La morte di un ragazzo di 31 anni rimane chiusa nelle quattro mura di un’aula di Tribunale che, per la seconda volta in un anno e mezzo, non è riuscito a individuare chi ha mandato in ospedale Stefano e chi l’ha lasciato morire senza prestargli le dovute cure.
NESSUN COLPEVOLE, ha dichiarato ieri la Corte d’appello di Roma, dopo neanche tre ore di camera di consiglio. Tutti assolti, per insufficienza di prove. E poco importa se mancano le prove per dimostrare chi ha ucciso un ragazzo, un cittadino. Quella morte, per lo Stato italiano, non è colpa di nessuno. Eppure i giudici, se davvero avessero avuto dubbi, avrebbero potuto annullare la sentenza di primo grado e rinviare il fascicolo ordinando nuove indagini. Non l’hanno fatto. Hanno preferito spalancare le porte dell’aula e lasciare tutti liberi. “L’hanno ucciso la terza volta”, ha sentenziato mamma Rita, sguardo basso e lacrime ingoiate. E pensare che il clima che la famiglia Cucchi aveva respirato nelle udienze di questi ultimi due mesi sembrava  – a dire di Giovanni, Rita e Ilaria – profondamente diverso da quello del primo grado. Il procuratore generale, Mario Remus, si era speso fin dall’inizio, facendo propria la tesi del pestaggio, pur posticipandone l’orario a dopo l’udienza di convalida del fermo di Stefano, il 16 ottobre 2009, e non prima, come invece sostenuto dall’accusa in primo grado e dai legali di parte civile. Condanna per tutti e 12 gli imputati, aveva chiesto Remus: i tre agenti di polizia penitenziaria che lo ebbero in custodia nelle celle del Tribunale di piazzale Clodio – Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenico –; il primario del reparto detenuti del Pertini – Aldo Fierro –; i medici – Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti –; gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Una richiesta che era anche il tentativo di ribaltare la sentenza di primo grado, che nel 2013 aveva visto condannare i soli medici e mandare assolti tutti gli altri. Quando ieri, in aula, il legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, ha srotolato la foto gigante col volto tumefatto di Stefano, in molti – anche tra i membri della giuria popolare – hanno socchiuso gli occhi. Troppo forte quell’immagine per dire che Stefano è morto da solo, magari cadendo dalle scale. E persino chi quella foto l’ha vista tante volte – dopo la scelta coraggiosa della famiglia, a pochi giorni dalla morte del ragazzo, di mostrare al mondo il dolore e la vergogna – non ha potuto non pensare che qualcuno dovrebbe, finalmente, pagare per aver ridotto così un giovane uomo. Quella foto dice tutto. E se la verità processuale non è stata in grado di mettere in fila le prove, vuol dire che la giustizia ha fallito.
Poco hanno detto, invece, due dei tre imputati tra le guardie penitenziarie, che ieri per la prima volta da cinque anni a questa parte hanno fatto sentire la loro voce rilasciando dichiarazioni spontanee prima della sentenza. “Sono stato accusato di barbarie, di aver bastonato Stefano Cucchi, di averlo picchiato – ha dichiarato Nicola Minichini –. Paragonati a nazisti spietati, non auguro a nessuno di subire quello che abbiamo subìto noi”. Chissà se si è reso conto che la famiglia Cucchi ha subìto la perdita di un figlio, di un fratello, e che poco se ne fa, oggi, della solidarietà di un imputato, per giunta assolto. Ieri in aula era tutto un abbracciarsi e tirare sospiri di sollievo. “L’effetto mediatico che qualcuno ha voluto portare alla ribalta non ha sortito alcun effetto, malgrado il grande impegno della parte civile”, ha commentato soddisfatto uno dei legali della difesa.
“BISOGNA finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli – ha affermato Gianni Tonelli, del sindacato di polizia Sap – di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”. Qualcuno gli dica che Stefano Cucchi era un pugile e che si allenava tutti i giorni. E non è mancata – poteva mancare? – la voce di un altro paladino delle forze dell’ordine, Carlo Giovanardi: “Non poteva che esserci che l’assoluzione, non essendoci stato il pestaggio”.
La famiglia Cucchi ha già annunciato di voler ricorrere in Cassazione. “Perché Stefano è a casa che ci aspetta”, ha spiegato ieri mamma Rita. Fino a quando non ci sarà giustizia, Stefano continuerà ad aspettare.

Repubblica 1.11.14
Non è successo nulla
di Conchita De Gregorio


QUINDI non è stato nessuno. Quindi, come dice sua madre guardandoti diritto negli occhi, «visto che non è successo niente stasera torniamo a casa e lo troviamo vivo che ci aspetta».
PERCHÉ la questione è molto semplice, ed è tutta qui. Non c’è da ripercorrere le indagini, sostituirsi a chi le ha fatte, commentare la sentenza provare a indovinarne le ragioni. Meno, molto meno. Quello che rende la storia di Stefano Cucchi la storia di tutti è nelle semplicissime parole di sua madre: c’era un giovane uomo di 31 anni e non c’è più, era nelle mani dei custodi della Legge lo hanno ammazzato ma non è stato nessuno dunque non è successo niente. Vada a casa signora, ci dispiace. Suo figlio è morto mentre era nelle strutture dello Stato, una caserma poi un’altra, una cella di sicurezza poi un’altra, un ospedale poi un altro. È stato picchiato, è vero. Aveva le vertebre rotte gli occhi tumefatti: lo sappiamo, le perizie lo confermano, non potremmo d’altra parte certo negarlo. Le sue foto avete deciso un giorno di renderle pubbliche e da allora le vediamo ogni volta, anche oggi qui, ingigantite, in tribunale. Un ragazzo picchiato a morte. Ma chi sia stato, tra le decine e decine di carabinieri e agenti, pubblici ufficiali e dirigenti, medici infermieri e portantini che in quei sei giorni hanno disposto del suo corpo noi non lo sappiamo. Dalle carte non risulta. Nessuno, diremmo. Anzi lo diciamo: nessuno. Dunque vada a casa, è andata così. Dimentichi, si dia pace.
Questo è un esercizio più facile per chi voglia provare a mettersi nei panni: nessuna madre, né padre, né sorella può dimenticare né darsi pace del fatto che un figlio debole, infragilito dalla droga come migliaia di ragazzi sono, ma deciso a uscirne, un figlio amato, smarrito, accudito possa essere arrestato una sera al parco con 20 grammi di hashish, portato in caserma e restituito cadavere una settimana dopo. È anche difficile sopportare in aula l’esultanza e il giubilo dei medici e degli infermieri assolti, perché comunque quel ragazzo stava male, è morto che pesava 37 chili e quando è entrato ne pesava venti di più. Sembra impossibile poter perdere 20 chili in sei giorni ma se non mangi e non bevi perché pretendi un legale che non ti danno, se hai un problema al cuore e vomiti per le botte forse succede, di fatto è successo e qualcuno deve aiutarti a restare in vita. Uno a caso, dei cento che sono passati davanti ai tuoi occhi in quei giorni e hanno richiuso la cella. È difficile per un padre leggere il comunicato di polizia Sap che con soddisfazione dice “se uno conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze senza che altri, medici o poliziotti, paghino per colpe non proprie”. Perché, ricorda sommessamente Giovanni Cucchi, “ho rispetto per tutti, ma vorrei precisare che chi ha perso il figlio siamo noi”.
Delle immagini di ieri, sentenza di assoluzione, restano le grida di esultanza degli imputati le lacrime dei familiari e i volti chiusi dei magistrati tra cui molte donne, volti rigidi. Dicono, da palazzo di giustizia, che le prove fossero “scivolose”, le perizie e le consulenze decine, tutte contraddittorie. Dev’essere stato difficile anche per i magistrati, è lecito e necessario supporre, prendere una decisione così. Ci si augura che sia stato un rovello terribile, una via per qualche ragione patita e obbligata. Perché altrimenti diventa difficilissimo per ciascuno di noi continuare ad esercitare con scrupolo e dovizia la strada impopolare e impervia, ma giusta, della responsabilità individuale e personale. Quella che se non paghi una multa ti pignorano casa, ed è giusto, se dimentichi una scadenza sei fuori dalle graduatorie, ed è giusto, se commetti un’imprudenza o violi una norma sei sottoposto a giudizio, ed è naturalmente giusto. Bisogna però essere certissimi, ma proprio certissimi, che non esista un’omertà di Stato per cui se è chi veste una divisa o ricopre un pubblico ufficio, a violare le norme, nessuno saprà mai come sono andate le cose perché si coprono fra loro nascondendo le carte e le colpe. Bisogna essere sicuri che se sono io ad ammazzare di botte una persona inerme prendo l’ergastolo e che se lo fa un esponente dello Stato in nome del diritto prende l’ergastolo lo stesso. Perché altrimenti, se così non è, viene meno in un luogo remoto e profondissimo il senso del rispetto delle regole e le conseguenze non si possono neppure immaginare. Altrimenti vale la legge del più forte e non si sa domani in quale terra di nessuno ci potremmo svegliare, tutti e ciascuno di noi, in quale selva che ci conduce dove. Disorienta e mina le fondamenta del vivere in comunità, una sentenza così. Servirebbe un gesto forte e simbolico, comprensibile a tutti. Ci sono giorni che chiamano all’appello l’umanità e l’intelligenza di chi, sovrano, incarna le istituzioni. Questo è uno.

il Fatto 1.11.14
Battibecco
Papa Francesco e il vizio dell’ingerenza
di Massimo Fini


PAPA BERGOGLIO ha stufato. La deve smettere di intromettersi negli affari interni dello Stato italiano. La settimana scorsa, a un convegno, ha dichiarato: “La carcerazione preventiva quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso, costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità”.
Ora, per quanto si voglia dilatare il magistero della Chiesa, non solo religioso ma anche sociale, non può comprendere l'organizzazione giudiziaria di uno Stato. Sarebbe come se un ministro della Repubblica mettesse in discussione il dogma della verginità della Madonna. Non sono affari suoi. “Libera Chiesa in libero Stato” ha detto il conte Camillo Benso di Cavour che l’Italia l’ha fondata, al contrario dei politici attuali che la stanno sfondando. Il che vuol dire che la sfera statuale e quella religiosa devono rimanere ben separate e distinte. È invece da almeno trent’anni, dall'avvento di Wojtyla, che Papi, cardinali, vescovi e altre sottane hanno il malvezzo di entrare a piedi uniti nelle questioni del nostro Stato. Wojtyla arrivò a lanciare anatemi contro la Lega per le sue pulsioni indipendentiste (da che pulpito vien la predica: la Chiesa ha sempre cercato di impedire in tutti i modi, finché ha potuto, l'unità del nostro Paese) come se un popolo fosse più morale e spirituale se unito invece che trino.
Finché c’è stata la cara, vecchia e mai troppo rimpianta Democrazia cristiana, quella vera, d’antan, queste intrusioni non erano permesse, almeno su questioni così prettamente statuali (aborto e divorzio sono fatti di coscienza e quindi anche religiosi). Perché i democristiani, anche quando cattolici convinti, avevano la consapevolezza di essere classe dirigente di uno Stato laico e non teocratico.
I politici di oggi invece fanno a gara per baciare le babbucce papali, cardinalizie e vescovili convinti di procacciarsi con ciò il voto dei cattolici. Oltre a contravvenire al dettame di Cavour si sbagliano. A parte qualche nicchia in Italia non esistono più cattolici, è sparito, come in tutto l’Occidente, il senso del sacro e la sua assenza si avverte in particolare proprio a Roma, dove il Papa risiede, la città più pagana che io conosca (e questo vorrà pur dir qualcosa).
Il cattolicesimo è stato sostituito da forme di superstizione quasi medioevali.
MA PAPA Bergoglio piace. O, per essere più precisi, è un “piacione”. Io lo definisco “il Renzi della Chiesa”. È destino che i Papi, siano polacchi o argentini, quando arrivano in Italia cadano preda di forme di narcisismo e di protagonismo dove l’apparire è più importante dell’essere. Wojtyla si spinse fino a telefonare a Porta a Porta di Bruno Vespa, arrivando a un passo dal distruggere quel che resta di Santa Madre Chiesa (durante il quarto di secolo del suo Magistero Superstar le vocazioni sono crollate, i monasteri desertificati, i conventi pure e anche le vecchie, care suorine, che io rispetto profondamente perché nel momento del bisogno loro ci sono, forse l’ultimo baluardo di un credo in gravissima crisi, hanno perso colpi).
Papa Bergoglio mi pare avviato sulla buona strada. Forse, fra non molto, lo vedremo condurre un talk insieme a Renzi e a Barbara D’Urso. Che male ci sarebbe? Siamo o no moderni?

La Stampa 1.11.14
Sugli Esteri vince il compromesso tra Quirinale e Palazzo Chigi
di Marcello Sorgi


La scelta di Paolo Gentiloni come ministro degli Esteri rappresenta un compromesso, tra Renzi e Napolitano e di Renzi con se stesso. Il premier ha preso atto che il Capo dello Stato, che era già intervenuto nei giorni più difficili della trattativa con i partner europei sulla designazione di Federica Mogherini come alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, per suggerire di non impuntarsi e accettare la richiesta, che veniva da Bruxelles, di un candidato di maggiore esperienza, stavolta non avrebbe accettato il criterio della scelta sorprendente, come sarebbe stata quella di Lia Quartapelle, la trentaduenne neo-deputata che era entrata nel mirino di Palazzo Chigi.
Di qui due candidature di lungo corso, come quelle di Giorgio Tonini e Paolo Gentiloni. La scelta è caduta su quest’ultimo - rinunciando anche alla parità uomini-donne nella compagine di governo, e in questo sta il secondo compromesso - perché dei due è il più vicino a Renzi e perché ha fatto la sua scelta a favore dell’ex-sindaco in tempi non sospetti e senza chiedere né ottenere in cambio alcunché. Nato politicamente con Rutelli, per anni suo braccio destro al comune di Roma, ministro delle comunicazioni nel secondo governo Prodi, deputato della commissione Esteri e membro dell’Associazione Italia-Usa dell’Unione parlamentare, Gentiloni proviene dalla Margherita, è considerato un politico a tutto tondo e rappresenta una novità anche per tutto il mondo delle fondazioni e uffici studi di problemi internazionali che ruota attorno alla Farnesina. In questo senso offre al premier un ulteriore requisito di indipendenza.
Risolto il problema del nuovo ministro degli Esteri, per Renzi resta aperto il fronte con la Cgil, e in particolare con la Fiom di Landini. Lo sciopero generale di otto ore proclamato dal sindacato dei metalmeccanici rischia di coincidere con le giornate più calde del dibattito parlamentare sul Jobs Act. Il premier adesso deve decidere se riproporre alla Camera il testo alquanto generico della legge delega già approvata al Senato, o aprire alle richieste della minoranza Pd di una più puntuale precisazione dei termini della riforma, accogliendo anche le integrazioni venute dai bersaniani - ad esempio, il diritto alla reintegra anche per i licenziamenti disciplinati, oltre che per quelli discriminatori - nella riunione della Direzione Pd che aveva preceduto il voto a Palazzo Madama.

Repubblica 1.11.14
L’incoerenza necessaria
di Claudio Tito


COME otto mesi fa quando con un blitz è nato il governo Renzi, anche la nomina del nuovo ministro degli Esteri non è un semplice avvicendamento.
C’È QUALCOSA di più. La precisa volontà di riaffermare nella prassi un nuovo sistema, politico e istituzionale. Mettendo al centro delle scelte il primato della politica. Anche a costo di pagare il dazio di alcune profonde incoerenze e contraddizioni.
È infatti evidente che il nome di Paolo Gentiloni sia stato il risultato di un confronto serrato tra il presidente della Repubblica e il presidente del consiglio. La richiesta di Napolitano di insediare alla Farnesina un esponente del centrosinistra esperto e soprattutto in grado di affrontare immediatamente tutti i più delicati dossier di politica estera ha portato all’eliminazione delle tre candidate portatrici di quella che si potrebbe definire la «teoria del renzismo». Almeno quella della prima fase. Il capo dello Stato, dunque, avrebbe probabilmente gradito un ministro già pronto, un conoscitore della materia. Lo stesso accadde a febbraio scorso e l’allora premier incaricato si impuntò proprio sulla candidatura di Federica Mogherini.
Anche stavolta l’approdo di Gentiloni al governo si presenta come l’ennesima prova che Renzi non vuole rinunciare a nessuna delle sue prerogative. L’aver proposto — come stabilisce la Costituzione — un nome fuori dagli schemi originari è quindi il modo per rimarcare il primato della politica e dei partiti. Del resto soprattutto nel triennnio 2011-2014 — e precedentemente con gli altri governi tecnici — la crisi del sistema politico-partitico italiano aveva trasferito forza e autorevolezza verso il Quirinale e la Magistratura. Il premier vuole seguire esattamente la strada opposta. Anche forzando la mano e i tempi. E, appunto, anche piegandosi a delle palesi incoerenze. Perché nessuno può nascondere che con questa nomina vengono meno due moloch del renzismo: la parità di genere nel team ministeriale e il salto generazionale. Proprio una settimana fa il capo del governo aveva aperto l’incontro della Leopolda vantando il fatto che nessuno dei ministri dei precedenti gabinetti del centrosinistra faceva parte del suo.
Ecco, adesso uno sì. E anagraficamente appartiene pure ad un’altra generazione. Ma dopo otto mesi a Palazzo Chigi Renzi ha forse bisogno di abbandonare lo stereotipo della «rottamazione » e aprire una sorta di «Fase due». Partendo dalla necessità di ribadire che un partito del 40% non si lascia imporre scelte e orientamenti. E in questo caso farlo evitando una frattura con Napolitano e avanzando una soluzione di mediazione per il Colle. Un percorso, del resto, che rappresentava la norma nella cosiddetta Prima Repubblica.
Quando il capo dello Stato comprimeva il suo ruolo dinanzi alla forza dei partiti e quando alla Farnesina veniva spedito un “politico” e non un conoscitore della diplomazia. Perché la politica estera costituiva una delle massime espressioni della linea del governo e non un esercizio accademico. E allora non è un caso che Gentiloni sia un “renziano” della prima ora. Anzi, è forse una precondizione: quella che ha paralizzato la corsa di Lapo Pistelli.
Perché il presidente del consiglio si è sempre mosso con un obiettivo esplicito: non inoculare alcuna forma di «contropotere» nella sua compagine governativa. Probabilmente, poi, con questa nomina paga pure un debito di riconoscenza nei confronti di Gentiloni e di un mondo — quello della ex margherita — che lo ha sostenuto nei primi passi del suo impegno nazionale.
Infine c’è un ultimo aspetto. Renzi inizia a prepararsi a quella che probabilmente sarà la partita parlamentare più difficile della legislatura: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Al di là dei tempi in cui essa avverrà, il segretario del Pd ieri ha voluto confermare un metodo che varrà anche quando le Camere dovranno scegliere il successore di Napolitano. E il “modello Gentiloni” sarà per il Pd una vera e propria bussola.

Corriere 1.11.14
«Quelli della mia scuola oggi sono ancora al vertice»
Rutelli: hanno capacità di fare squadra e realizzare le cose. Io però non mi pento di aver lasciato il Pd
di M. Gu.


ROMA Francesco Rutelli, dietro alle scelte di Renzi?
«Assolutamente no, non è il governo Rutelli. Io sono amico di tutti loro, ministri e sottosegretari, ma queste decisioni le prende chi guida, non chi ha realizzato la scuola di formazione. E dico scuola in senso non ideologico».
Franceschini, Pistelli, Bocci, Giacomelli, Reggi, Gozi, Baretta, Bobba... Gentiloni è solo l’ultimo petalo della ex Margherita che va al governo.
«Sono contentissimo per Paolo, se lo merita. È colto, competente, capace. Ha equilibrio e sarà un ministro politico. Quando era con me in Campidoglio teneva i rapporti con gli Usa e col mondo, assieme a Filippo Sensi».
Il portavoce di Renzi, il celebre Nomfup di Twitter.
«Filippo, che allora era più nel backstage, ha capito tra i primi l’importanza del web».
E Luca Lotti?
«Ragazzo sveglio, ha l’età di mio figlio. A Firenze era sempre con noi. Ma non mi faccia fare la parte del fanatico».
Non è un talent scout?
«La considerazione di fondo non è che Rutelli è una brava chioccia o un buon addestratore, è che viene fuori un metodo. Tra i politici della seconda Repubblica sono quello che non ha selezionato i suoi collaboratori in base alla loro appartenenza ideologica, ma in base alle cose che bisognava fare».
Non contano le cordate?
«La politica che ho portato avanti non si faceva per ideologia o consorteria, ma per campagne. Anche chi a Roma non mi ha votato, riconosce che abbiamo fatto le cose. Io non vengo da una filiera comunista o democristiana, ma dai radicali e non ho mai avuto paura di essere in minoranza. Sono andato via dal Partito democratico ben sapendo che era una scelta scomoda, ma non me ne pento affatto».
È l’unico rutelliano che non è al governo...
«Non mi pento di aver lasciato il Pd per il terzo polo. Non mi piacciono i partiti personali, mi convince il Renzi politico, non l’approccio solitario. Sono orgoglioso di aver unito gruppi molto plurali e di aver scelto persone che hanno dimostrato di saper stare al servizio del Paese».
Persone come Delrio?
«Graziano era della scuola reggiana. Parlo di un gruppo di persone molto ampio, che non si ferma al Pd. Marcello Fiori, ora in Forza Italia, era il mio vice capo di gabinetto».
E Renzi?
«Ho scommesso su di lui. Nel 2007 a Washington gli presentai Hillary Clinton e, a Delhi, Sonia Gandhi».
Cosa unisce gli ex rutelliani diventati renziani?
«La capacità di realizzare, servire l’interesse pubblico e fare gioco di squadra. Con questi criteri, da sindaco misi l’ambientalista Chicco Testa all’Acea e poi, da ministro, scelsi Giorgio Ferrara per salvare il Festival di Spoleto e Paolo Baratta per la Biennale».
Perché Renzi ha scelto Gentiloni e non Pistelli?
«Un fatto di chimica, ma girerei la domanda a Renzi».

Corriere 1.11.14
E l’università di Bari decise: le mogli parenti dei mariti
di Gian Antonio Stella


La moglie è parente del marito. E il marito della moglie. Dopo quattro ore di discussione, il Senato accademico di Bari è arrivato infine all’agognata conclusione. A dispetto dei dubbi di qualche testa fina, moglie e marito sono parenti. Quindi non possono esser assunti come docenti.
C’è chi dirà: e ci voleva tanto? Per l’università di Bari invece è una svolta. Da decenni, infatti, era additata a simbolo del clientelismo familiare. Scrisse Attilio Bolzoni: «La stanza numero 24 è del professore Giovanni Tatarano, ordinario di Diritto privato. Suo figlio Marco insegna lì accanto, nella stanza numero 4. Sua figlia Maria Chiara riceve gli studenti di fronte a papà, nella stanza numero 12…».
Lo scontro di ieri, insomma, era cruciale. Di qua chi voleva applicare il Codice Etico interno, dove per arginare la deriva fu deciso di stoppare mogli, mariti, fratelli, sorelle, cognati… Di là chi sosteneva che la «legge Gelmini» vieta sì di reclutare «coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso», ma poiché non parla delle mogli…
Una tesi bizzarra. Come se il «nepotismo riguardasse solo i nipoti». Eppure, spiegava ieri il rettore Antonio Uricchio, c’era chi si appoggiava a un’imprecisata sentenza di un Tribunale amministrativo regionale che avrebbe sollevato dubbi sul rischio di escludere magari, in nome della lotta al clientelismo familiare, qualche fuoriclasse. In fondo non era forse la grande Marie Curie moglie di quel Pierre Curie assieme al quale vinse il premio Nobel? E le amanti? Come regolarsi, con le amanti?
Quattro ore ci hanno messo, a decidere. Manco fossero chiamati a discutere, come fra Bartolomeo de las Casas e il cronista reale Juan Ginès de Sepulveda nella disfida di Valladolid, della liceità morale della schiavitù. Alla fine ha prevalso il buon senso. Se poi dovesse restar fuori qualche Pierre o qualche Marie Curie, amen. In una università meno familista il loro genio emergerà lo stesso.

La Stampa 1.11.14
Molotov e e scontri, la “giornata della rabbia” a Gerusalemme. Abu Mazen: frenare escalation
Riaperta la Spianata delle Moschee per la preghiera del venerdì. Ma nei quartieri arabi di Gerusalemme cresce la tensione. Il ministro Aharonovich: non è una nuova intifada
di Maurizio Molinari

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La Stampa 1.11.14
Orban fa dietrofront: niente tassa su Internet
Nei giorni scorsi erano scese in piazza migliaia di persone per protestare contro la misura. Il premier ha annunciato sul tema «una consultazione nazionale a gennaio»
di Enrico Caporale

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La Stampa 1.11.14
“Ho ucciso un ebreo che collaborava con i nazisti, ma non lo rifarei”
A pentirsi è Zeev Eckstein che il 4 marzo del 1957 si appostò sulla Emanuel HaRomi Street di Tel Aviv per scaricare il revolver su Rudolph Kastner, innescando una delle maggiori tempeste della Storia moderna di Israele
di Maurizio Molinari

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La Stampa 1.11.14
“Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione culturale”
L’evoluzione biologica e culturale raccontate dal genetista Alberto Piazza
di Nicla Panciera

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Corriere 1.11.14
La tecnica guida del mondo sostituirà tutte le ideologie
Qualsiasi governo è destinato ad essere superato dal potere dell’innovazione
di Emanuele SAeverino


Alcuni mesi fa ho pubblicato sul «Corriere della Sera» un articolo: Il destino della tecnica, battere le ideologie (29 luglio). Il suo destino è cioè di porsi alla guida dei popoli: diventare tecnocrazia. Il presidente Renzi ha ribadito, anche in questi giorni, il suo rifiuto della tecnocrazia nostrana ed europea e il primato della politica. Nei due casi, che sembrano contraddirsi, la parola «tecnocrazia» ha però un significato profondamente diverso. Avevo chiarito l’equivoco anche alla fine del governo Monti («Corriere», 19 gennaio 2013), che voleva essere «governo tecnico» proprio nel senso a cui Renzi si riferisce volendosene però distanziare. La tecnica destinata a dominare il mondo è abissalmente diversa dalla tecnica dei «governi tecnici». La politica diventerebbe grande politica se lo capisse.
Il capo del governo dice di non interessarsi delle «ideologie», ma di voler risolvere i problemi concreti dell’economia e della società italiana. Ma uno dei tratti caratteristici della tecnica che i «governi tecnici» si propongono di valorizzare è appunto questo: il disinteresse per la gestione ideologica dei problemi. Il disinteresse di Renzi procede dunque in direzione di quella gestione tecnologica dei problemi alla quale egli crede di voltare le spalle.
Ma a questo punto va anche detto che sia un «governo tecnico» come quello di Monti (o quello che si ritiene oggi dominante in Europa), sia un «governo politico-non tecnico», come quello che Renzi intende promuovere, sono chiaramente e robustamente ideologici. C’è bisogno di ricordare che anche il capitalismo è un’ideologia? Sì, nonostante tutto ce n’è un gran bisogno! Il capitalismo non è la «legge naturale eterna» dei rapporti economici. Nonostante la crisi attuale, esso è l’ideologia vincente in grandi aree del Pianeta, ma non per questo i suoi principi (ad esempio autonomia e libertà dell’individuo, proprietà privata, uso della merce per aumentare il profitto, dipendenza dei consumi della gente e della ricchezza delle nazioni dall’iniziativa privata) sono verità assolute.
Ebbene, sia i «governi tecnici», sia i governi «politici non tecnici» oggi in circolazione si propongono di adottare le misure più idonee per guarire il capitalismo dalla malattia che lo sta affliggendo: per guarire ciò che è percepito come la dimensione che da ultimo determina e configura i rapporti sociali e la stessa sorte dei governi. Che quindi — siano di destra oppure di sinistra — si combattono in famiglia. L’ideologia capitalistica stabilisce pertanto anche il modo in cui la tecnica deve essere usata e usata anche dai «governi tecnici». Sì che, in quanto regolata dal capitalismo, anche la tecnica è un’ideologia.
In Italia, poi, tutti quei tipi di governo sono chiaramente e robustamente delle ideologie anche perché, oltre ad esser guidati dall’economia di mercato, sentono fortemente l’influenza dell’ideologia della Chiesa cattolica. Se poi si rifiuta la tecnocrazia e si vuole che alla guida della società stia la politica, allora il carattere ideologico dell’esecutivo cresce ulteriormente, perché la politica stessa (la politica come «arte» politica) è ideologia. Ho osservato altre volte che un agire economico è capitalistico solo se, oltre ad un insieme di altri fattori, è un agire a rischio (tanto che nel rischio la scienza economica individua uno dei principali motivi che giustificano il profitto e la sua entità); e il rischio caratterizza in modo essenziale anche la decisione di credere in un’ideologia. Ma quanto si sta dicendo del carattere rischioso dell’intrapresa capitalistica va detto anche della politica in quanto tale. Il politico rischia come l’imprenditore. Le sue decisioni non sono garantite da una competenza tecno-scientifica, anche se la tecno-scienza fornisce alla politica i mezzi con cui essa può realizzare le proprie decisioni. Sono decisioni a rischio; quindi eminentemente ideologiche.
Si può osservare che queste considerazioni sono ben poco utili a risolvere i problemi attuali, come ad esempio quello della regolamentazione del lavoro. Ma se i popoli non pensano di essere alla fine della loro esistenza, allora, ancora più decisivi dei «problemi attuali» e «concreti» sono quelli relativi alla direzione verso cui il mondo sta andando. Appunto rispetto a questo tema si fa avanti il carattere decisivo della differenza abissale tra la tecnica quale oggi si presenta sul Pianeta e ciò che essa è destinata a diventare: tecnocrazia.
Un termine, questo, da intendere tuttavia in senso del tutto diverso da quello in cui la tecnocrazia è stata concepita a partire da Saint-Simon, e poi da Thorstein Veblen fino alle analisi curate da Hansfried Kellner e da Frank W. Heuberger. In queste prospettive si ignora l’inevitabilità del processo (indicato anche in quei miei articoli) in cui la tecnica, da mezzo delle ideologie che intendono servirsene per realizzare i loro scopi, diventa il loro scopo e dunque le domina — una tematica, questa, che è stata apprezzata anche da Fabrizio Pezzani, professore di Programmazione e controllo nelle pubbliche amministrazioni all’Università Bocconi ( È tutta un’altra storia , Università Bocconi Editore, 2013).
Inoltre, le forme di sapienza della tradizione obiettano alla tecnocrazia quale è comunemente intesa che non tutto ciò che essa può fare è lecito farlo; e la tecnica, come tale, non possiede oggi una risposta capace di risolvere l’obbiezione. Infatti la risposta adeguata presuppone che la tecnica sia capace di ascoltare e di capire la voce dell’essenza (peraltro tendenzialmente nascosta) della filosofia degli ultimi due secoli, che mostra l’impossibilità dell’esistenza di Limiti assoluti all’agire umano e quindi all’agire tecnico — giacché solo la filosofia, non la scienza, può mostrare tale impossibilità e autorizzare la destinazione della tecnica al dominio.
Va richiamato anche un ulteriore motivo di tale destinazione. La gestione della produzione industriale è ideologica (capitalistica o spuria come quella cinese o araba). Servendosi della tecnica per realizzare i propri scopi, tale gestione sta distruggendo la Terra. Oggi si riconosce che questo è il pericolo maggiore per l’umanità. Ma la gestione ideologica dell’economia, distruggendo la Terra, distrugge se stessa. Quindi o va incontro all’autodistruzione, oppure, per evitarla, assume come scopo la capacità della tecnica di produrre energie alternative non inquinanti. Rinuncia cioè ai propri scopi. E anche in questo caso va incontro all’autodistruzione.
Alla guida dell’agire del mondo si pone la tecnica, l’ideologia vincente che sostituisce il capitalismo alla guida del mondo e ha come scopo l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. L’ultimo Dio.

Corriere 1.11.14
Jensen e il podio al posto di Muti
«Il caos all’Opera scredita l’Italia»
A Roma con «Rusalka». «Siete la patria del melodramma, avete responsabilità culturali»
di Valerio Cappelli


Bacchetta Il norvegese Eivind Gullberg Jensen, 42 anni. A destra, una scena di «Rusalka» da lui diretta a Zurigo «Salire sul podio al posto di Muti mette i brividi. Ma sarei stato più preoccupato se avessi dovuto dirigere l’opera che era prevista, Aida , perché lui è il più grande interprete verdiano. Il teatro ha fatto una scelta del tutto diversa, con Rusalka di Dvorak, che ho già interpretato due volte. Sono onorato di aprire la stagione dell’Opera, nel mio debutto assoluto a Roma».
Eivind Gullberg Jensen, 42 anni, direttore d’orchestra norvegese, il 27 novembre, insieme con il regista Denis Krief, è chiamato a salvare l’inaugurazione dell’Opera romana. Dopo l’addio di Muti, il teatro ha percorso la strada che non spingerà a fare paragoni. Perché Rusalka è un titolo poco conosciuto, lontano dal repertorio italiano, che consentirà di confermare la cantante Krassimira Stoyanova (già prevista in Aida ), dal momento che questa fiaba tragica di Dvorak fa parte del suo bagaglio artistico.
Lo è anche per Gullberg Jensen, molto quotato, in futuro farà il suo debutto a Tokyo e all’Opera di Vienna: «Non penso di sostituire nessuno. Sono al corrente dei conflitti e degli scioperi a Roma che rischiano di screditare l’Italia all’estero. In questi casi parte delle responsabilità è della cattiva politica, la musica non è la priorità di chi ha le redini del potere. Un’idea più chiara la avrò quando sarò a Roma. Sono sorpreso perché il vostro Paese è la patria del melodramma e avete delle responsabilità storiche e culturali. Amo Rusalka , è un’opera romantica, la musica è piuttosto complicata. In molti ritroveranno il sinfonismo di Dvorak, ma senza folclore, e le impronte della tradizione germanica».
«Sarà una corsa contro il tempo», interviene il regista italo-tunisino Denis Krief, che due anni fa ha lasciato Roma per stabilirsi a Berlino, proprio per il malcostume e le cattive abitudini del sistema lirica in Italia: «Certi teatri ti derubano dei tuoi spettacoli, è capitato che abbiano preso alcuni miei vecchi allestimenti e che li abbiano messi in cartellone, col mio nome, senza informarmi, e senza compenso. Alle prove devi fare il vigile urbano, fino all’ultimo momento non sai chi c’è dei cantanti. E tanti artisti non vengono pagati, o vengono pagati in ritardo». Krief, i tredici teatri italiani hanno un debito complessivo di 393 milioni... «Lo so, bisogna approfittare della crisi per inventare: i soldi sono un falso problema».
Infatti se il costo per Aida era di 300 mila euro (ma la produzione intera arrivava a 1 milione), per Rusalka se ne spenderanno circa 60 mila. «Faccio quello che posso con quello che ho. Il palco sarà come una scatola chiusa per ridare la dimensione cameristica della storia e lavorare più sulla recitazione dei cantanti. Anche in Europa del Nord ci sono meno soldi, lì il pubblico è stato educato a non vedere allestimenti faraonici, c’è un ritorno alla musica. Io appartengo alla tradizione latina e giocherò con l’intelligenza del pubblico. Rusalka è nata all’epoca dell’astrattismo in arte. Ho pensato a un dipinto di Mondrian che simbolizza un albero, il passaggio dall’astrazione della ninfa al realismo della situazione. Il lago è una lastra di acciaio. Cerco di raccontare un sogno opprimente che finisce con la morte».
Rusalka è una ninfa che vuole diventare creatura umana e vivere alla luce del sole. Cercando l’amore di un principe, un essere mortale, andrà incontro ai guai. «È l’opera che racconta un rito di passaggio alla fine dell’adolescenza. C’è la scoperta della sessualità, il desiderio dei sensi di una ragazza che non vuole più essere bambina».
E dei licenziamenti all’Opera che idea si è fatto? «Ora sono uno straniero, non posso giudicare». L’ultima volta che Krief ha lavorato all’Opera di Roma fu per un titolo di Battistelli tratto da un profetico film di Fellini: Prova d’orchestra .

Repubblica 1.11.14
Il mondo nella rete “Da Seul a New York tre miliardi di persone connesse a Internet”
È una delle innovazioni con il più alto tasso di crescita: vent’anni fa solo l’1% della popolazione era online, oggi è il 40%
Al top Corea del Sud e Canada dove navigano nove abitanti su dieci
di Riccardo Luna


SIAMO tre miliardi. Tre miliardi di persone connesse a Internet.
Il record è stato toccato in qualche istante ieri. Ed è un record pesante. Se si pensa che il primo miliardo è stato raggiunto nel 2005, il secondo nel 2010. E adesso siamo tre. Tanti? Pochi in fondo. Appena il 40 per cento degli abitanti della Terra ma è un dato che nasconde differenze sostanziali: nove su dieci in Corea del Sud e in Canada, seguono Stati Uniti e Regno Unito mentre in Africa le percentuali sono infinitamente più basse se si fa eccezione per il Sud Africa (46 per cento) e la Nigeria (37). Ma sono tanti, se si considera che solo vent’anni fa meno dell’1 per cento della popolazione mondiale era in rete. Internet si sta rivelando una delle innovazioni tecnologiche con un tasso di diffusione più rapido della storia: più dell’automobile e del telefono, la crescita ha un andamento simile a quello che ebbe la radio.
Eppure quando è nato nessuno o quasi se ne è accorto. Anche perché non c’è stato un vero momento eureka , un attimo in cui il mondo è rimasto con il fiato sospeso e poi ha esultato. Anche perché non c’è stato nessun attimo: si può anzi dire che l’invenzione di Internet è iniziata negli anni ‘60 e dura ancora oggi con una task force mondiale di ingegneri informatici che ragiona su come sviluppare una rete che ha tre miliardi di umani ma alcuni triliardi di oggetti connessi. Internet insomma non è stato come mandare il primo uomo sulla luna. È stato l’esperimento finanziato con soldi pubblici del governo americano ma nei fatti clandestino, perché condotto nel disinteresse dell’opinione pubblica, di un gruppo di pionieri che sognava un mondo connesso. Ma rileggendo i documenti dell’epoca appare chiaro che nemmeno loro avevano idea di quello che davvero stavano facendo. Ha scritto per esempio uno dei padri della rete, Vint Cerf, in occasione di uno dei tanti compleanni (non essendoci un vero momento di nascita, il compleanno di Internet viene festeggiato praticamente ogni anno): «Non ci fu nessun festeggiamento, non c’era nemmeno un fotografo. L’unica cosa che ricordo era la spilletta che indossavamo con la scritta Sono sopravvissuto al trasferimento della rete ».
E lo stesso è accaduto una decina di anni dopo, con la nascita del world wide web che è stato il vero motore della diffusione, a quel punto sì, rapidissima della rete. In questo caso la scena si sposta in Europa al Cern di Ginevra, ai tempi guidato dal Nobel Carlo Rubbia, ma non si deve a lui l’intuizione di un linguaggio che rendesse Internet comprensibile e usabile a tutti. Si deve a uno studente di fisica inglese che era lì per fare altro e che si mise a lavorare ad uno strumento che consentisse alle persone di collaborare attraverso Internet, per condividere lavori e conoscenza. Si chiamava Tim Berners Lee e assieme all’informatico belga Robert Caillau ha fatto una delle cose più rilevanti per la storia della innovazione quasi senza accorgersene: «Non avevamo capito la portata di quello che avevamo creato». In verità all’inizio non lo aveva capito quasi nessuno: persino Bill Gates, il fondatore di Microsoft, nel suo curriculum ha anche una profezia totalmente sballata su quello che sarebbe stato l’impatto della rete. Questo per dire che era difficile immaginare quel che sarebbe accaduto perché in fondo tutti si sono fatti ingannare dall’apparenza, ovvero il fatto che Internet sia (soltanto) una rete di computer, di cavi sotterranei, di dati che viaggiano alla velocità della luce. Ma Internet è soprattutto una rete di persone che in questo modo hanno trovato una strada diversa per informarsi, apprendere, condividere, partecipare, creare, inventare, consumare e persino curarsi. E per questo ha cambiato e sta cambiando così profondamente la società in cui viviamo. Certo, un lato oscuro esiste e non è soltanto il fatto di non essere connessi come disse una volta il profeta digitale Nicholas Negroponte: è l’uso spregiudicato che alcuni governi e molte agenzie pubblicitarie fanno dei nostri dati personali. Ma in definitiva resta valido quello che una grande neuroscienziata, Rita Levi Montalcini, disse nel 2009 quando compì 100 anni: «La più grande invenzione del ‘900? E me lo chiede? Internet!».

Repubblica 1.11.14
Che passione hanno i fisici per la relatività
Nel suo ultimo saggio Carlo Rovelli spiega come la scienza sia sempre seducente: anche i buchi neri
Affrontando temi come le particelle elementari si prova la stessa meraviglia che ci sorprende davanti a un’opera d’arte
di Massimiano Bucchi


IL LIBRO Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli (Adelphi, pagg.88 euro 10)

L’ABILITÀ di artigiano nel lavorare le lenti e la competenza manuale che aveva sviluppato nel disegno e in particolare nella tecnica del chiaroscuro furono decisive nel permettere a Galileo di mettere a frutto le proprie osservazioni astronomiche. Anni di disegni tecnici e lavori manuali fecero riflettere profondamente il giovane Paul Dirac sulle forme geometriche; un’esperienza rilevante per il suo successivo lavoro di fisico, capace di concepire teorie «come statue di marmo squisitamente scolpite». Sono esempi di come la scienza si sia storicamente sviluppata in profondo rapporto con la cultura e immersa nel dialogo tra i saperi. Oggi purtroppo il discorso sulla cosiddetta “cultura scientifica” è spesso prigioniero di una retorica lamentosa che enfatizza lo stereotipo (peraltro mai “scientificamente” dimostrato) di un pubblico ottuso e di una società ostile. Una retorica che paradossalmente e artificiosamente rischia di rinforzare, anziché superare, la divisione tra culture e saperi.
Gli scritti del fisico Carlo Rovelli costituiscono una felice eccezione. In queste Sette brevi lezioni di fisica ( titolo che pare rievocare il celebre Sei pezzi facili del fisico americano Richard Feynman), sviluppando alcuni articoli pubblicati sul supplemento domenicale del Sole 2-4 Ore, Rovelli parla di relatività, meccanica quantistica, probabilità, cosmo, particelle elementari, gravità quantistica, buchi neri. Temi complessi affrontati con chiarezza e soprattutto senza alcuna supponenza verso il lettore. In questi brevi e densi saggi traspare la passione dello scienziato, il suo stupore per la grandezza di queste conquiste e la sua onestà nell’ammetterne i limiti, «quanto vasto sia ciò che ancora non sappiamo». Le pagine più godibili sono forse quelle in cui l’autore ricorda il suo personale incontro con la «Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein», avvenuto leggendo «un libro rosicchiato dai topi» su una spiaggia della Calabria. Di quell’incontro Rovelli riesce bene a rievocare la propria meraviglia. La stessa che si prova di fronte ad un’opera d’arte o ad un panorama spettacolare; paragoni che spesso ricorrono in queste lezioni. «Il calore dei buchi neri è una stele di Rosetta» scrive Rovelli «scritta a cavallo di tre lingue — Quanti, Gravità e Termodinamica — che attende di essere decifrata, per dirci cosa sia davvero lo scorrere del tempo». E poco importa che il termine quark non venga, come qui si legge, dall’ Ulisse di James Joyce, ma da un’altra opera dello scrittore irlandese, Finnegans Wake . Capita ai fisici, di sbagliare, così come agli scrittori e ai musicisti. Questo libro di Rovelli testimonia che la sfida odierna non consiste nell’iniettare più o meno forzosamente nel pubblico dosi di “cultura scientifica” a colpi di festival e manifesti, ma nel contribuire a riconoscere la scienza come parte integrante della cultura. Per questo non ci si stanca mai di leggere l’ennesima spiegazione della relatività generale (soprattutto se appassionante come quella di Rovelli), così come non ci si stanca mai di ascoltare Le Nozze di Figaro di Mozart o di guardare l’ Ultima Cena di Leonardo.

Repubblica 1.11.14
Lettera di un fiore di crisantemo
di Guido Ceronetti


HO RICEVUTO in questi giorni una sconcertante lettera che prego “La Repubblica” di ospitare integralmente, quantunque il suo argomento non sia né di cronaca né di politica, e neppure di quel che si dice cultura, e tuttavia riguarda un po’ tutti.
E IL suo accento meriti lo spazio che non si nega agli imploranti e ai disperati. La lettera è stata dettata ad un alfabetizzato da un fiore di stagione. Un fiore meraviglioso di crisantemo.
Gentile Untore, mi rivolgo a te per un aiuto urgente o almeno una parola di solidarietà affettuosa. Non sono che un povero fiore di Crisantemo che ad ogni avvicinarsi del giorno consacrato ai Morti vibra sul suo bel gambo, agita dal disgusto la sua corolla profumata e si lamenta con voce che nessuno potrebbe percepire di essere stato condannato dagli italiani ad appassire e a marcire in un cimitero. Il fiore che presso i popoli d’Estremo Oriente è il più amato, il più glorioso, il più curato nelle case dei vivi, in Italia è distribuito per convenzione e per obbligo superstizioso — e in modo spregiosissimo per i loro quietati abitatori — nelle necropoli.
Si saranno passati la voce, che il mio splendore debba sfiorire in un cimitero murato e cancellato bene? Ma da chi, e da quale mente in discreta decomposizione è stata diffusa l’oscena calunnia che io, fiore da principesse, addìto alla Falce che mi riceve in dono? I vostri vecchi ricordano sicuramente che nei tardi autunni i salotti delle case borghesi, (ci fossero nelle loro librerie Platone o romanzi di Pitigrilli) ospitavano nelle nozze e nei compleanni, per le lauree e le promozioni militari, grandi mazzi di crisantemi sui tavoli rotondi e i pianoforti ammutoliti. Fino a quando? Non li si consegnava, con bigliettino augurale, nelle portinerie degli stabili con ascensore?
E oggi — per “prevalenza del cretino”, azzeccato titolo di Carlo Fruttero — spazzatura! Cesso! Malocchio! Oltraggio agli avanzi dei pudori! Avvertimento mafioso! Maledizione verdiana! Ma, essendo annunciatissimo un mai visto Cambiamento di questa ineffabile Penisola, sarà eccessivo per me sperare in una Inversione-di-Tendenza? In una riabilitazione d’innocenza del povero crisantemo, che proclami emanare da me un’onda d’intensa vita, e che il reietto delle tombe inconsolabili è fiore dei vivi per i vivi, per case abitate da vivi? Aiutami, prezioso Untore, felicemente curvato sotto un cumulo di cause disperate! Scriverai sul tuo influente giornale che — sui morti la pace — il mio posto è tra i più vivi dei vivi? Che nelle mie frante corolle un Dio si è compiaciuto, che sono fatto per essere dono di amanti, che la Bellezza (detta dal sapiente principe Myskin “salvezza del mondo”) mi ha eletto suo messaggero e santuario, e la Vita suo predestinato segno? Ciao. Ti benedico e ti saluto. UN CRISANTEMO ANONIMO.
La causa del crisantemo, dopotutto, è facile. Esistono ancora, sia pure in forte minoranza, italiani intelligenti, che in questi giorni adornano le loro case di incantevoli crisantemi. Ma sradicare la torva superstizione del gufo uccello malaugoroso è ben più amaro e difficile! Abbiamo contrario Virgilio (Eneide IV, 462): ferali carmine bubo (il gufo, col suo funebre canto); abbiamo contrario, gigantesca ombra, Shakespeare (Macbeth, II, sc. 2: the owl... the fatal bellman ): troppo in alto per potergli dire umilmente che sono in errore. Il gufo e gli altri piccoli rapaci notturni sono più melodiosi dell’usignolo.
Tutti i rapacetti, conforto delle tristezze della notte, abitatori dei tronchi cavi, piccole divinità venerate delle foreste celtiche, hanno un suono stregato che accarezza e incanta. Il gufo contempla dall’alto, coi suoi occhi che penetrano la tenebra, la pena della vita, perciò il loro suono è una carezza triste; ma abbelliamoci con una sentenza di Lorca: “Tutto quel che manda suoni tristi contiene duende ” (lo spirito ravvivatore della musica). È così: il canto dei gufi è pieno di duende, è impregnato di Duende ( enduendado). Nel mortifero, avvelenato, gergo della politica, gufi per degenerazione semantica si è imbrattato il piumaggio nei seggi delle Aule, e purtroppo questa insipienza ha contagiato le fonti dell’informazione pubblica col bieco significato, generico e mirato, di “profeti di sciagura” (oppositori che non condividono opinioni politiche giudicate imbattibili). E questo vale la pena di indignarsi: è degrado linguistico, come l’uso ossessivo sempre più esteso di parole e locuzioni anglofone da raccapriccio. Giovani, stampatevi sulla camicia l’immagine di un gufo! Vi porterà fortuna.

Corriere 1.11.14
Eduardo celebrato in Senato: «Meritava il Nobel»
In aula il ricordo di Servillo, Lina Sastri, Orsini e Ranieri
Messaggio di Fo, disertano i parlamentari campani
di Emilia Costantini


ROMA «Non chiamatemi senatore. Ci ho messo una vita per chiamarmi Eduardo». A trent’anni dalla sua scomparsa, Palazzo Madama celebra il grande attore e drammaturgo con la «Cantata delle parole chiare» , a cominciare da quelle che l’allora senatore a vita pronunciò perorando la causa dei giovani disadattati dell’Istituto Filangieri di Napoli.
A ricordare l’episodio, avvenuto il 23 marzo 1982, il presidente Pietro Grasso, poi la voce stessa di De Filippo: «Onorevoli colleghi, a me piacciono le responsabilità che non ho mai rifiutato. Si tratta di migliorare la vita di giovani e il loro futuro. È essenziale che l’assemblea del Senato prenda a cuore i loro problemi: se si opera con energia, amore, fiducia, si può ottenere molto da loro».
Aula gremita (ma disertata dalla quasi totalità dei senatori campani: in assenza di votazioni il venerdì si scappa a casa) e commossa ieri mattina. Un folto gruppo di attori (Lina Sastri, Toni Servillo, Umberto Orsini, Mariano Rigillo, Massimo Ranieri, Silvio Orlando), il figlio Luca De Filippo, il nipote Luigi (figlio di Peppino) che, ricordando lo zio, reclama: «Eduardo avrebbe meritato il premio Nobel!». E la testimonianza registrata di Dario Fo, che il Nobel lo ebbe. Saluta l’amico e collega scomparso con un cruccio: «Mi rammarico di non aver avuto l’occasione di realizzare uno spettacolo insieme».
Una carrellata di brani tratti dalle sue opere da cui emerge la figura di un autore geniale, popolare, raffinato. «Soprattutto una persona — sottolinea Grasso — che ha dispiegato il proprio alto impegno civile e sociale». Come non rammentare, per esempio, Filumena Marturano con cui «mio padre — ricorda Luca — mise in bocca a una prostituta il pretendere certi valori familiari. A quest’opera seguì un’interpellanza parlamentare che rese possibile riconoscere i figli nati fuori dal matrimonio: Eduardo era figlio “naturale” di Scarpetta e quindi sentiva il problema».
Nel repertorio eduardiano ogni commedia è radicata nei problemi della società: il suo teatro ha sempre avuto funzione morale e pedagogica.
«Il teatro — osservava — è vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male». E rivolto agli studenti dell’Università di Roma, esordì dicendo: «Dicono che nella vita umana il punto di partenza e l’arrivo siano l’inizio e la fine della carriera. Non è così. Il punto di arrivo dell’uomo è la sua nascita, mentre il punto di partenza è la morte, che oltre a rappresentarne il congedo dal mondo, va a costruire il punto di partenza per i giovani».

Repubblica 1.11.14
Domani diretta su Rai1 di “Le voci di dentro” Abbiamo visto le prove al San Ferdinando di Napoli
Domenica in... Eduardo
La tv pop s’inchina al grande teatro con Servillo&Sorrentino
di Conchita Sannino


NAPOLI. ESTERNO giorno, nell’intrico dei palazzi che diventano vicolo e viceversa. Un cane abbaia, nel basso vicino si spande un brano neomelodico, dallo stesso edificio le voci di un blando litigio domestico invadono la scala metallica dove il premio Oscar Paolo Sorrentino dirige «un omaggio » a Toni Servillo che interpreta Eduardo con la sua straordinaria compagnia di attori, nel trentennale della scomparsa. È il “micro racconto” di pochi minuti che domani apre la direttaevento tv di Le voci di dentro, che sarà trasmessa alle 16.45 su Rai 1: una della repliche di un’altra stagione teatrale di sold out.
Regia televisiva, Sorrentino, regia teatrale, Servillo.
Una sfida, anche per la rete ammiraglia: in tempi di talk show in crisi, e di zero spazio per i grandi del Novecento, la drammaturgia colta e popolare insieme, attraverso lo sguardo di uno dei nostri autori di cinema più amati, si prende il posto d’onore: occupa lo spazio di Domenica In, vuole parlare a tutti. L’altra notizia, da un’idea del produttore Angelo Curti e grazie ai vertici Rai anche di Napoli: le luci si accenderanno a Forìa, dal ventre di quel teatro San Ferdinando che fu per Eduardo approdo, ricongiungimento con Napoli, dimora artistica, delizia e croce.
«C’è qualcosa di acrobatico in quello che sto facendo — sorride Sorrentino — Un velocissimo apprendistato, la diretta televisiva è tutta da imparare. Quando curai la regia televisiva di Sabato domenica e lunedì, era diverso: mi costruii la scena voluta da Toni come un set. Qui è più difficile, stimolante. Anche perché Eduardo parla per sfumature, dettagli». «Motore. Azione!». Sorrentino indaga nel backstage, affonda nella platea vuota dove sparpaglia gli interpreti e ruba tra facce e gesti, gira dentro e fuori quel San Ferdinando che Eduardo acquistò per 6 milioni di lire nel Cinquanta: donata al Comune da Luca De Filippo, oggi spesso in ombra nonostante promesse, riti. «Non è esatto definirlo un “corto” — continua Sorrentino — Ho girato qualcosa che è attesa di uno spettacolo e omaggio a questi attori straordinari, a partire da Toni e Peppe Servillo con una compagnia di grande valore che porta con successo anche in Europa un’opera moderna, forte di Eduardo».
Osservi l’intreccio, e non sai più dove smette la vita del popolo, dove comincia il teatro di Servillo, dove s’impenna sfrontato il cinema di Sorrentino. Ma chi è Eduardo, per il regista? «Un padrone assoluto della materia narrativa. È diventato materia di studio, oltre che di godimento. È un modello cui tendere. Capace di provocare uno spettro di sentimenti larghissimo, di attivare meccanismi, macchine che sono il sogno di ogni narratore. Come ne Le voci di dentro: riesce a passare dal sinistro al ridanciano in due battute. In un istante, incute paura e fa sorridere ».
La sera cala, c’è gente e festa al San Ferdinando, atmosfera elettrica dove si solito c’è buio e degrado. Sorrentino: «Quanto tempo è che facciamo la lagna sul patrimonio che non è curato, riempito di vita? Basta guardarsi: c’è gioia in questa piazza, stasera. Questa gioia è l’antidoto agli episodi di noia, pericolo». Angelo Curti, che con Costanza Boccardi è riuscito a far passare questo evento senza un euro di fondi pubblici né del Forum delle Culture, riannoda un filo: «Nell’82 ci trovammo sul palco con Eduardo. Dalla platea chiedevano: fate una scuola! Eduardo alzò le braccia; e comme faccio a Napoli ? Ecco, il sostegno a questo spettacolo che gira il mondo, lo abbiamo trovato nel Piccolo di Milano e nel teatro di Roma». Servillo svela che vivrà un’emozione speciale, domani: «Eduardo che parla di dignità e lancia riflessioni problematiche va in tv con la scritta “in diretta dal San Ferdinando”: toccante. Questo teatro dovrebbe vivere giorno e notte: come avviene solo a Londra, si apre come segno sottile incastonato in un segmento pulsante, inserito in un continuum di artigianato, vita, botteghe, condomini». Vederli insieme, in effetti, mette un po’ di soggezione, al popolo di Forìa. Che fermano Servillo e Sorrentino: selfie, strette di mano. E poi è un garzone a strappare una risata al regista, gli parla di Grande Bellezza e gli porta il caffé. «Mi è piaciuto il film vostro, perché non tiene la trama: parla ‘nu poco ‘e tutte cose», gli dice, sparendo nell’intrico di vicoli e teatro.

venerdì 31 ottobre 2014

La Stampa 31.10.14
Francesco: il diavolo non è un mito, esiste e bisogna combatterlo
Il Pontefice mette in guardia dal demonio
Il Papa a Santa Marta: «Non ci butta addosso fiori» ma «frecce infuocate»; la vita cristiana è una continua e bella lotta contro le tentazioni; l'arma vincente è «la verità»
di Domenico Agassio

qui

Repubblica 31.10.14
La modernità del Papa “comunista”
risponde Corrado Augias


Caro Augias, ciò che mi affascina di questo Papa, è la sua carica d’amore — solare, schietto, quasi furioso! Un amore che fa sperare in un mondo più giusto, più vicino allo spirito evangelico, alle sofferenze dei poveri, e al loro riscatto, misericordioso verso gli indifesi e gli emarginati. Un amore incoraggiante, anche se scomodo, forse, come è scomoda — e paradossale — la parola del Vangelo di Cristo! L’ideale di vita evangelico sta nell’amore per il prossimo, e nell’equa condivisione dei beni, contro ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Un Papa comunista? Niente affatto! Il comunismo ha un limite metafisico — lo sa bene il francescano-gesuita — che rende impossibile risolvere davvero i problemi che investono l’essenza dell’uomo. Non bisogna prendere per marxismo un discorso di fede che pone la liberazione dell’uomo nella prospettiva della speranza cristiana, che ha un valore escatologico; non è una fuga dalla storia, o la rinuncia all’impegno politico concreto. Ma il cristiano sa che la lotta per la giustizia, per la pace e per la fratellanza è lotta, in definitiva, per il Regno di Dio.
Nuccio Palumbo

Pochi giorni addietro, nella sua risposta a chi lo accusava di essere comunista, papa Francesco ha detto con l’abituale e (apparentemente) ingenua franchezza: «Terra, lavoro, tetto … è strano che se parlo di questo ecco che dicono: “il papa è comunista”. Invece l’amore per i poveri è al centro del vangelo». Poiché l’affermazione è indiscutibile il discorso potrebbe benissimo finire qui. Invece le cose non sono così semplici per una nutrita serie di ragioni. La prima è per secoli la Chiesa cattolica è rimasta lontana dalla purità del vangelo. Quando Francesco d’Assisi scrisse la regola per il suo ordine di frati mendicanti, privi di tutto, perfino di un pane e di un giaciglio, dovette aspettare anni per vederla approvata con bolla pontificia. Perché fosse approvata dovette anche riscriverla più volte e molto attenuarla. Più in generale, i movimenti pauperistici che in quei secoli avevano avuto una certa diffusione vennero tutti disciplinati o duramente repressi. Dunque papa Bergoglio deve fare i conti con una tenace tradizione che ha dominato la Curia sia per la povertà sia per l’occhiuta conservazione della dottrina. C’è poi da fare i conti con le resistenze di coloro che concepiscono il papato solo come un potere regale, quindi ammantato dagli orpelli e dai privilegi che caratterizzano i sovrani. A tal punto arriva il rifiuto che circolano libri nei quali si contesta la stessa legittimità della sua elezione. Se a questo aggiungiamo le innovazioni di metodo dialettico di cui qui discuteva Eugenio Scalfari il 28 scorso, si vede quanto arduo sia il compito che Francesco si è assunto. Auguri, Francesco.
Corrado Augias

La Stampa 31.10.14
La Fiom annuncia lo sciopero generale
Il premier incontra Landini per archiviare gli incidenti: accerteremo le responsabilità
Ma lo scontro resta alto
di Francesco Grignetti


Il giorno dopo le manganellate agli operai di Terni, una cosa sola è chiara: il governo voleva chiudere al più presto l’incidente, ché non è proprio il caso di rinfocolare tensioni con la Cgil e la Fiom; il sindacato, a sua volta, voleva andare avanti e se la polemica Renzi-Camusso resta rovente, ha da restare sul piano politico senza però tradire la piazza. Non è un caso se il leader della Fiom, Maurizio Landini, ha proclamato otto ore di sciopero generale. Tregua armata, insomma. I protagonisti hanno comunque abbassato i toni. Renzi era stato tranchant già nella riunione con i sindacati, indetta in fretta e furia al mattino: «È imperativo morale chiudere la vicenda, saranno accertate tutte le responsabilità».
Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, in Parlamento quindi si è scusato, equanime, porgendo la sua «solidarietà» a ogni persona coinvolta nei tafferugli, che fossero agenti di polizia o operai. «È stato un brutto giorno per tutti», ha detto, riconoscendo così che non era orgoglioso per come erano andate le cose.
Ed ecco che Landini, mentre indiceva uno sciopero generale contro il governo per contrastare il Jobs Acts, riconosceva la svolta di Alfano: «Solidarietà ai poliziotti doveva darla per forza, la novità è che l’abbia espressa anche agli operai».
Pure Susanna Camusso, la segretaria della Cgil, che aveva iniziato la giornata con dichiarazioni fiammeggianti («Non capisco questo riferimento di Renzi ad abbassare i toni. Il presidente del Consiglio dovrebbe provare ad abbassare i manganelli»), a sera dimostrava un’insolita vena diplomatica. «Abbiamo apprezzato che il ministro Alfano abbia espresso solidarietà, oltre che alle forze dell’ordine, ai lavoratori. Penso sia giusto dire che bisogna avere degli elementi di “governance” delle manifestazioni, poi capiremo che cosa vuol dire concretamente. È stato fatto quel gesto che chiedevamo: scusarsi con lavoratori che sono stati ingiustamente malmenati».
Incidente chiuso, insomma, e con applausi bipartisan. Almeno dialetticamente. Il discorso di Alfano è stato applaudito dalla maggioranza, ma anche dai parlamentari di Forza Italia. E nonostante i grillini e quelli di Sel insistano nel tenere alta la polemica, annunciando una mozione di sfiducia individuale per il ministro dell’Interno, i sindacalisti guardano soprattutto al tavolo di confronto che si tiene al ministero dello Sviluppo Economico. È lì la sede della trattativa con la Thyssen, lì l’unico discorso che davvero appassiona la Fiom.
Ha raccolto attenzione, però, anche il discorso di Alfano relativamente alla novità di tavoli di confronto tra polizia e sindacato «ovviamente - ha spiegato il ministro - non per discutere i temi di merito delle relazioni industriali, ma per affrontare, secondo un metodo di condivisione, le modalità di “governance” di quelle manifestazioni che possono risultare più impegnative anche per l’ordine pubblico».
Non per caso, allora, il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ieri commentava: «Sono certo che questo problema si sta prendendo con serietà nelle sedi opportune in vista di soluzioni adeguate e incisive attraverso il dialogo delle parti».
In conclusione, il governo teme che da incidenti di percorso come quello di mercoledì, scappato di mano per colpa delle «voci» per un’ipotetica protesta alla stazione Termini, possa innescarsi una spirale di tensioni incontrollabili. Situazioni difficili ce ne potranno essere tante, purtroppo, e «nessuno immagina - dirà Alfano in Parlamento - che, nel pieno delle vertenze e dei negoziati, tutti i lavoratori attendano passivamente l’esito».

Repubblica 31.10.14
Maurizio Landini, leader della Fiom
“Di certo c’è un attacco al diritto di sciopero come in altri Paesi”
“Questo governo ha assunto il programma degli industriali”
“Torni l’acciaio di Stato così eviteremo di svendere le industrie agli stranieri”
“Basta Leopolde vuol dire basta saltare mediazioni in questo modo si riducono gli spazi della democrazia”
intervista di Roberto Mania


ROMA Tornare all’acciaio di Stato. Maurizio Landini, segretario generale della Fiom-Cgil, non ha dubbi: senza intervento pubblico non si uscirà dalla crisi della siderurgia, che riguarda la ThysssenKrupp di Terni, l’Ilva di Taranto, l’ex Lucchini di Piombino. «Se non vogliamo svendere o regalare la siderurgia agli stranieri è indispensabile che lo Stato faccia la sua parte ».
Ne avete parlato con Renzi durante l’incontro dopo le manganellate agli operai di Terni?
«Sì, abbiamo posto questo problema che è il perno di qualunque strategia di politica industriale ».
E cosa vi ha risposto il presidente del Consiglio?
«Che è disponibile a un confronto».
Tornare ai tempi dell’Iri?
«Io penso che non si possa più rinunciare a un intervento pubblico nei settori strategici, com’è quello della siderurgia, finalizzato anche a definire nuovi assetti proprietari».
Vuol dire che l’Ilva, per esempio, dovrebbe essere acquistata dallo Stato?
«Per l’Ilva questo passaggio è necessario. L’Ilva deve cambiare proprietà. Per fare questo c’è bisogno della forza dello Stato».
E per l’Ast di Terni?
«Non escludo nulla. Certo a Terni è necessario innanzitutto verificare se l’azienda è disposta a rivedere il piano industriale». Pensa di salvare l’occupazione con l’aiuto dello Stato?
«Penso di salvare l’industria italiana dove c’è un problema, oltreché di dimensioni aziendali, anche di qualità degli imprenditori. Quanto all’occupazione mi limito a far presente che nei prossimi mesi rischiano di saltare migliaia di posti di lavoro. Siamo di fronte a un’ondata di licenziamenti collettivi. Mercoledì in piazza c’erano pure gli operai della Jabil, 400 licenziamenti a Caserta, e quelli della Trw di Livorno, altri 500. Questo è quello che sta succedendo».
Anche per questo Renzi ha chiesto di abbassare i toni. La Fiom ha risposto con otto ore di sciopero a novembre. Non c’era un’altra strada?
«Lo sciopero generale non è altro che la continuazione della manifestazione di sabato. Per abbassare i toni bisognerebbe avere la possibilità di confrontarsi. Con lo sciopero chiediamo al governo di cambiare le sue politiche economiche e sociali. Ciò che ha fatto finora non è adeguato alla situazione».
Per affrontare la crisi dell’acciaieria di Terni vi ha convocati a Palazzo Chigi.. Questo non era previsto. Non le pare un gesto di disponibilità al confronto? Renzi vi ha chiesto scusa per gli incidenti di mercoledì?
«No, le scuse non ci sono state. Ma non c’è dubbio che sia stato un atto importante, di rispetto nei confronti delle organizzazioni sindacali. Resta il fatto che senza un’iniziativa di politica industriale le soluzioni delle singole crisi non sono affatto semplici».
Ci aiuti a risolvere il “giallo” della telefonata tra lei e Renzi: c’è stata?
«La telefonata c’è stata».
E perché non l’ha detto subito?
«Ho detto che io avevo chiamato Delrio mentre è stato Renzi a chiamarmi».
Va bene. Senta, lei è d’accordo con la Camusso quando dice a Renzi che prima di abbassare i toni vanno abbassati a manganelli?
«Certo che sono d’accordo: quello che è successo è di una gravità senza precedenti. Le risposte che sono arrivate dal governo fanno pensare che episodi di quel genere non si ripeteranno più».
Il ministro dell’Interno Alfano ha detto che non c’è stato alcun ordine ai poliziotti di caricare i manifestanti. Lei continua a pensare il contrario?
«Io continuo a pensare che un poliziotto che va in piazza quando c’è una pacifica manifestazione di operai non si armi di scudi e manganelli se non ha avuto un ordine di quel tipo. E se esegue una carica a freddo, come è successo, vuol dire che qualcuno quell’ordine gliel’ha dato».
Sta dicendo che Alfano ha mentito?
«No, dico quello che è accaduto. Ma prendo atto degli impegni che ha preso il governo».
Lei pensa che ci sia un collegamento tra le affermazioni del finanziere Davide Serra alla Leopolda contro lo sciopero e l’aggressione agli operai?
«No, non penso a queste cose. Di certo c’è un attacco al diritto di sciopero in Italia come in Spagna, in Inghilterra e in altri paesi europei. È in atto una pressione per mettere in discussione la contrattazione collettiva. E il governo Renzi sbaglia a ispirarsi al modello Fiat o a quello degli Stati Uniti?» Dunque condivide la tesi della Camusso secondo cui il governo Renzi è stato voluto dai “poteri forti”?
«Sul piano delle politiche sociali e sindacali questo governo ha assunto il programma di Confindustria. Non c’è solo la cancellazione dell’articolo 18, c’è il demansionamento che detto in inglese vuol dire mobbing, c’è il controllo a distanza dei lavoratori, c’è l’abolizione del reintegro anche nei licenziamenti collettivi con procedure sbagliate. C’è l’obiettivo di far saltare il contratto nazionale. Questo non è accettabile».
Cosa intendeva dire mercoledì quando ha gridato: “Basta Leopolde”?
«Vuol dire basta discussioni tra chi la pensa allo stesso modo. Vuol dire basta a un modello che salta ogni mediazione e dove chi comanda parla direttamente con il popolo senza intermediazione. Questo processo porta a una riduzione degli spazi democratici».
Renzi mette a rischio la democrazia? Non è un po’ forte?
«Non dico che è a rischio la democrazia. Penso che si in questo modo si riducono gli spazi della democrazia».

La Stampa 31.10.14
La Camusso tiene aperte le due strade: pronti a trattare, ma anche alla piazza
di Roberto Giovannini


Le scuse del governo, anche se non proprio formali, sono arrivate. Il giorno dopo l’assalto agli operai di Terni, la Cgil archivia l’aspetto «poliziesco» della vicenda, ma cerca di capitalizzare sulle battaglie politiche che sta combattendo (quella sul Jobs Act e quella sulla Legge di Stabilità) un caso che ha messo fortemente in imbarazzo il governo. E così, ieri Susanna Camusso ha offerto due opzioni all’Esecutivo: da un lato, la possibilità di negoziare un accordo, in cambio di qualche concessione. Dall’altro, subire un ulteriore innalzamento dello scontro sociale. Con lo sciopero generale proclamato ieri dalla Fiom di Maurizio Landini per novembre, e lo sciopero generale Cgil (quasi certamente senza Cisl e Uil) praticamente annunciato per dicembre.
Una linea «doppia», così come «doppia» è considerata a Corso d’Italia quella del governo. Per un verso, dicono i collaboratori di Susanna Camusso, l’Esecutivo chiede in pratica scusa per le bastonate ai lavoratori, e attraverso il sottosegretario alla Presidenza Graziano Delrio lancia messaggi di pace. «L’ambizione del governo - ha detto Delrio in un’intervista a «Repubblica» - è stringere un patto sociale con i sindacati sul modello di altri grandi paesi. Naturalmente, la Cgil ha tutto il diritto di fare i suoi scioperi e compito di tutti è abbassare i toni. Se lo sciopero non c’è però, meglio. Significherebbe che si è trovata un’intesa». Potrebbe sembrare il segnale per aprire finalmente il confronto a tutto campo. Eppure, si dice in Cgil, nel pomeriggio lo stesso Delrio ha cambiato completamente linea: nella conferenza stampa dopo l’incontro con i sindacati metalmeccanici a Palazzo Chigi è tornato sui suoi passi: «Abbiamo molto rispetto del ruolo dei sindacati nelle trattative - ha detto - ma riguardo alle riforme sul mercato del lavoro il confronto è in Parlamento».
Patto sociale, dunque, oppure con i sindacati si discute solo su singole vertenze? Susanna Camusso in mattinata aveva replicato al premier che invitava ad «abbassare i toni»: «Abbassassero loro i manganelli», aveva detto. Poi nel pomeriggio ha partecipato al comitato centrale della Fiom. «Il sindacato deve attrezzarsi per una battaglia di lungo periodo - ha detto Camusso - la partita è lunga, e le provocazioni si moltiplicheranno». La Cgil pensa a «nuove modalità per allargare le iniziative, con scioperi articolati, di categoria, territoriali e aziendali». Il 5 ci sono i pensionati, l’8 novembre manifestano i «pubblici». Seguirà, entro novembre, lo sciopero generale di otto ore proclamato dalla Fiom di Maurizio Landini contro il Jobs Act. Da subito i metalmeccanici danno luce verde a fermate e assemblee nei luoghi di lavoro. In prospettiva, c’è l’annunciato sciopero generale di dicembre che quasi certamente la Cgil proclamerà il prossimo 12 novembre. E di cui la Cisl di Annamaria Furlan non vuole saper nulla.
Ma non è detto, appunto. Al Tg3 sempre Camusso riapre la porta a una possibile intesa. Dopo aver espresso apprezzamento per le quasi-scuse di Angelino Alfano, il leader di Corso d’Italia spiega che il sindacato «è pronto a discutere e a trovare soluzioni. Noi abbiamo una piattaforma e dei contenuti: il nostro obiettivo è avere delle risposte». Insomma, «basterebbe non continuare a dire che con il sindacato non si discute».

La Stampa 31.10.14
La piazza agita la Camera
di Marcello Sorgi


Se doveva essere un tentativo di costruire una tregua dopo le cariche della polizia di mercoledì, il tavolo allestito in tutta fretta ieri mattina a Palazzo Chigi con i sindacati dei metalmeccanici s’è risolto in un nulla di fatto, anche se si delinea la possibilità che il numero dei licenziamenti a Terni possa diminuire.
Il faccia a faccia tra Renzi e il leader della FIom Landini è durato poco perchè il premier era atteso al Quirinale per discutere con il Capo dello Stato della nomina (poi rinviata) del nuovo ministro degli Esteri. La conferenza stampa congiunta tra i sindacalisti e il sottosegretario alla presidenza del consiglio Delrio è servita solo a rinnovare, da parte del sindacato, la protesta per il trattamento subito dai lavoratori delle acciaierie di Terni il giorno prima, e da parte del governo a ribadire che nessun ordine di caricare gli operai è partito da Palazzo Chigi.
Non è andato meglio il dibattito parlamentare in cui un Alfano lasciato solo sul banco del governo ha dovuto difendersi, non solo dalle opposizioni (M5S e Sel hanno presentato una seconda mozione di sfiducia personale nei suoi confronti), ma anche dalla maggioranza, e in particolare dal Pd, che per bocca di Fiano ha invitato il ministro dell’Interno a far sì che non si ripetano episodi come quelli dell’altro ieri. Alfano s’è difeso ricordando che delle cinquemila manifestazioni svoltesi sotto la sua gestione, quella sotto l’ambasciata tedesca per protestare contro la Thyssen è l’unica che sia conclusa in modo violento. Ma il clima attorno a lui era visibilmente freddo.
L’annuncio dello sciopero generale di otto ore proclamato dalla Fiom a novembre, in questa cornice, è suonato da conferma che lo scontro sul Jobs Act sia tutt’altro che finito. E una piazza in movimento per tutto il prossimo mese non potrà che ripercuotersi sull’andamento del dibattito parlamentare alla Camera sulla riforma del lavoro e sulla cancellazione dell’articolo 18, aumentando le resistenze della minoranza del Pd, divisa al suo interno eppur motivata a ottenere modifiche alla legge delega almeno nel senso in cui erano state concordate all’interno della direzione del Pd (reintegra anche per i licenziamenti disciplinari, e non solo per quelli discriminatori).
Stretto tra la piazza in crescita e la minoranza parlamentare del suo partito che promette battaglia, Matteo Renzi non ha ancora deciso cosa fare: la difesa della riforma del lavoro nei termini in cui è stata approvata al Senato sarà ardua, ma un cedimento a Cgil e ai suoi avversari interni nel partito gli riattirerebbe addosso gli strali dell’Europa.

il Fatto 31.10.14
Le botte nel paese dei furbetti
Renzi prova a cancellare le botte: “Sindacati, io con voi non discuto”
di Salvatore Cannavò


Venga qui, mi faccia vedere i punti in testa. Anzi, li faccia vedere a Delrio che è medico”. L'esordio di Matteo Renzi con i sindacati metalmeccanici, convocati per discutere delle acciaierie di Terni, è nel solito stile del premier. Quando gli si presenta davanti Rosario Rappa, dirigente Fiom con cinque punti in testa, frutto delle manganellate di giovedì, la mette in burla. “Con lui sembra sempre uno scherzo” si dicono i sindacalisti, guidati dai segretari generali di Fiom, Fim e Uilm. Maurizio Landini si è sentito con Renzi al mattino presto e avverte i suoi: “Dobbiamo andare di corsa a Palazzo Chigi, Renzi ci ha convocato”. Al tavolo non trovano solo il presidente del Consiglio e il suo braccio destro, il sottosegretario Graziano Delrio, ma anche la ministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi, e il sottosegretario al Lavoro, la pd Teresa Bellanova. L'operazione politica appare subito chiara: Renzi vuole smarcare il suo governo dai fatti di piazza, dall'immagine del manganello che gli è stata rinfacciata in mattinata da Susanna Camusso durante la trasmissione radiofonica Radio anch’io: “Il presidente del Consiglio dovrebbe mettere giù i manganelli”, dice infatti il segretario della Cgil. Renzi prova così a offrire un'altra immagine del governo, un mr. Wolf di Pulp Fiction, colui che risolve i problemi. Renzi prova a riattivare una linea di dialogo con Landini che a sua volta non si accanisce contro il governo, ma punta il dito sulla ricostruzione “falsa” della questura. Resta un “ma”: “A me di discutere con i sindacati di leggi finanziarie o di quanto decide il Parlamento non importa nulla. Di discutere delle singole vertenze, invece sì”, dice subito Renzi in tre passaggi diretti. Il messaggio non poteva essere più netto. Un rapporto à la carte con il sindacato che non piace alla Cgil. Camusso lo commenterà così nel corso del Comitato centrale della Fiom, nel primo pomeriggio: “Credo che il governo abbia provato a distaccarsi da quanto avvenuto ieri, provando a ricostruire una verginità nel confronto con i lavoratori persa ieri negli scontri”. Resta però il veleno del riconoscimento del sindacato solo quando si occupa di una vertenza aziendale e non come interlocutore sui temi del lavoro.
RENZI LASCIA la riunione dopo aver ascoltato il giro dei vari sindacati, ben cinque – “cosa che comincia a diventare un problema”, dirà dopo chi è seduto a quel tavolo – perché deve recarsi dal presidente Napolitano. Landini avrà il tempo di ribadirgli pubblicamente quanto gli ha già detto, sia in mattinata, nella telefonata di convocazione del tavolo, sia il giorno delle “botte”. Sarebbe utile chiedere scusa, quello che è avvenuto non si deve ripetere, su Terni il sindacato è pronto a trattare se c'è altrettanta volontà dall'altra parte. Il “giallo” delle telefonate tra i due leader è risolto. Quelle comunicazioni ci sono state, Landini ha davvero chiamato Renzi per fargli presente la situazione, ma senza aver avuto risposte formali ha preferito non rendere noto il fatto. Cosa che invece, in serata, aveva deciso di fare l'ufficio stampa di Palazzo Chigi con una nota minuziosa sugli orari delle chiamate e degli sms scambiati. Segno, anche quello, della voglia di non apparire ostili e nemici degli operai in piazza. In ogni caso, una volta andato via il premier, la ministra Guidi annuncia la disponibilità dell'azienda a riprendere la trattativa in cambio del riavvio, anche parziale, delle attività. La base da cui si può partire prevede il funzionamento dei due forni, e quindi l'attività piena dello stabilimento, riducendo gli esuberi da 537 a 290 di cui, però, 140 sono già pronti alle dimissioni incentivate. Si tratta quindi, di tutelare 150 operai. Come? Al momento non è chiaro. È vero, però, che ieri mattina quando si è trattato di far entrare gli impiegati in fabbrica per garantire il pagamento degli stipendi, l'amministratore delegato, Lucia Morselli, si è rifiutata spiegando che tre dipendenti sarebbero stati troppo pochi per effettuare le procedure. Le cose non sono così semplici e lo si capisce, dopo un po', dal nervosismo che i dirigenti sindacali registrano nella ministra Guidi, irritata per non aver avuto subito il via libera alla mediazione proposta. Che l'incontro con Renzi non sia servito a modificare lo stato delle relazioni sindacali è dimostrato dalla convocazione dello sciopero generale da parte della Fiom. “Come prosecuzione della mobilitazione avviata dalla Cgil il 25 ottobre”, infatti, il Comitato centrale dei metalmeccanici ha deciso di proclamare “otto ore di sciopero generale nel mese di novembre”. Uno sciopero contro il governo, contro Renzi, “per contrastare le misure contenute nel jobs act”.
GLI APPUNTAMENTI saranno due: uno il 14 novembre a Milano per il Nord, mentre il 21 novembre si terrà la manifestazione a Napoli per il centro-sud. Un orientamento approvato con 111 favorevoli e solo 6 astensioni, segno di un ricompattamento convinto interno al sindacato e dimostrato anche dall'accoglienza “ospitale” riservata a Susanna Camusso. Anche questo, frutto della fase inaugurata da Renzi.

Repubblica 31.10.14
Alfano. Il re degli equilibristi
di Sebastiano Messina


PHILIPPE Petit, l’uomo che camminò su un cavo tra le cime delle due Torri Gemelle, è un dilettante rispetto al ministro Angelino Alfano, il vero re degli equilibristi. Già notato in tutto il mondo per il suo triplo salto mortale all’indietro sul caso Shalabayeva, il ministro Alfano ieri si è superato. Nel suo esercizio preferito, il cerchiobottismo, ha infatti solidarizzato sia con gli operai (i manganellati) che con gli agenti (i manganellatori), sostenendo che «il diritto a manifestare è sacro» ma nello stesso tempo «la libertà di chi manifesta non deve ledere l’incolumità fisica delle forze dell’ordine». Sospeso nel vuoto delle sue certezze, il ministro ci indica una linea che salva capra e cavoli: gli operai continuino pure a scendere in piazza, ma a patto di non prendere ancora a testate, a freddo e senza motivo, i manganelli della Celere.

il Fatto 31.10.14
Landini nel Paese dei furbetti
Evasori e nemici del fisco. Ecco l’Italia evocata dallo sfogo del leader Fiom dopo le manganellate
di Marco Franchi


Milano Il governo indiano ha consegnato alla Corte Suprema una lista segreta di 627 presunti evasori fiscali con conti all’estero. Questo succedeva il 29 ottobre a New Delhi. Nelle stesse ore, a Roma la polizia caricava coi manganelli i lavoratori della Ast di Terni che manifestavano per timore di perdere il lavoro e Maurizio Landini ruggiva contro il governo: “Siamo in un Paese di ladri ed evasori e vengono a picchiare noi? ”. A chi si riferiva il leader della Fiom? Ha straparlato per la rabbia o davvero oltre ai santi e ai navigatori l’Italia è la culla dei furbetti del fisco?
LIMITIAMOCI alla cronaca delle ultime settimane. Sempre il 29 ottobre l’ex calciatore della Juve e del Varese, Bruno Limido, e l’ex vicepresidente del Genoa, Antonio Rosati, sono stati arrestati assieme ad altre sei persone nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Milano su una presunta maxi-frode fiscale da 63 milioni. Qualche giorno prima, il 13 ottobre, la stessa procura ha chiesto il rinvio a giudizio per Renato Mannheimer e altre persone, nell’ambito del procedimento per associazione a delinquere finalizzata a reati fiscali che ruota intorno all’istituto Ispo, fondato dal sondaggista. L’elenco dei furbetti viene spesso arricchito da nomi noti, dai vip che sono passati dalle pagine di cronaca rosa a quelle di giudiziaria. Per non parlare dei tesoretti evasi o elusi dai big della moda, dell’industria, di Internet e anche del credito. Parliamo di miliardi. Spesso si tratta di nomadismo fiscale che consente di far figurare i margini mondiali di guadagno in Stati diversi dall’Italia, dalla Svizzera all’Olanda passando per l’Irlanda e il Lussemburgo. Per pagare meno tasse. C’è chi la chiama ottimizzazione. E se il fisco non ci casca ci si può sempre affidare a team legali qualificati, e ben pagati, che procedono a una transazione.
A METÀ OTTOBRE il patron di Luxottica, Leonardo Del Vecchio, ha chiuso il contenzioso con l’Erario e la Procura di Milano (che lo indagava per l’ipotesi di reato di “dichiarazione infedele”) firmando un accordo da 146 milioni sui dividendi maturati nel 2006 in Lussemburgo ma non ancora incassati.
Una soluzione – quella di transare – che era stata già scelta da altri big come Prada (ha sborsato 470 milioni, ma la procura di Milano come “atto dovuto” ha ancora aperto un fascicolo per “omessa o infedele dichiarazione dei redditi”, che vede indagati Miuccia Prada, Patrizio Bertelli, e il loro commercialista), Armani (270 milioni), Marzotto-Donà delle Rose (56 milioni), Bulgari (42 milioni) fino ai 20 milioni transati col fisco da Ezio Greggio. Anche molti vip, messi alle strette, hanno infatti deciso di pagare il loro debito: da Sophia Loren ad Alberto Tomba e Valentino Rossi. Sul fronte delle banche, si ricorda anche l’operazione Brontos che ha coinvolto Unicredit: l’istituto bancario ha già versato all’Agenzia delle Entrate 264,4 milioni, chiudendo la controversia amministrativa. Ma l’inchiesta penale è ancora in corso e vede, tra gli indagati, anche l’attuale presidente del Monte dei paschi di Siena Alessandro Profumo con l’accusa di frode fiscale. Secondo l’ipotesi della Procura di Milano, Unicredit e Barclays, tra il 2007 e il 2009
– tramite operazioni di finanza strutturata realizzate attraverso società lussemburghesi riconducibili alla banca inglese – avrebbero evaso il fisco per 245 milioni. A novembre 2013 la Cassazione ha affidato la competenza al tribunale di Roma. Riportando indietro le lancette del procedimento.
C’È CHI TRATTA e chi ne esce pulito. Il caso più recente è quello di Dolce&Gabbana. “Siamo persone oneste, W l’Italia”, hanno esultato gli stilisti milanesi al verdetto della Cassazione che li ha assolti con la formula “perché il fatto non sussiste” dall’accusa di aver evaso tasse su un giro di affari di 200 milioni spostando fittiziamente in Lussemburgo, la sede della loro società.
Sempre mercoledì 29 ottobre, a Berlino, 51 Paesi si sono impegnati a mettere fine al segreto bancario con uno scambio automatico dei dati sui conti privati a partire dal 2017. In quella occasione, il ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan ha dichiarato che “l’Italia sta diventando famosa per come contrasta l’evasione”. Ma anche, aggiungiamo noi, per le transazioni milionarie e per i condoni.

il Fatto 31.10.14
Un terzo del paese è vicino alla miseria
L’ISTAT: in Italia oltre il 28% della popolazione rischia la povertà
Al 20% solo il 7,9% del redito
di Caterina Grignani


L’Italia è un po’ meno povera. Ma di poco. Secono i dati Istat del report “Reddito e condizioni di vita” (che si riferiscono al 2013), il 28,4% degli Italiani è a rischio povertà o esclusione sociale. Il calo, rispetto al 2012, è dell’1,5%. L'indicatore è formato dalla combinazione del rischio di povertà, dalla grave deprivazione materiale (composta dagli indicatori ufficiali dell’Unione europea) e dalla bassa intensità di lavoro. La percentuale, tradotta, ci dice che un italiano su quattro è a rischio povertà. L’indagine, condotta su più di 18 mila famiglie e circa 44 mila persone, restituisce un’immagine del Paese che traduce innumeri le debolezze di sempre. Un Sud povero e difficoltà maggiori per le famiglie numerose. Anche se nel Mezzogiorno si registra una diminuzione del 3,7%, il valore del 2013 è 46,2%: più del doppio rispetto al resto del Paese. E illeitmotiv della ricchezza concentrata nelle mani di una minoranza è realtà anche nella penisola: il 20% più ricco delle famiglie residenti in Italia percepisce il 37,7% del reddito totale, mentre al 20% più povero spetta solamente 7,9%. Il calo dell’1,5% è un dato motivato dalla diminuzione della quota di persone in famiglie gravemente deprivate, che è passata dal 14,5 al 12,4%. Una definizione che si spiega, nella quotidianità, con l’impossibilità di permettersi un pasto proteico almeno ogni due giorni, di affrontare una spesa imprevista di 800 euro o di scaldare adeguatamente la propria casa. Rimane stabile la quota di persone in famiglie a rischio di povertà (19,1%) e in leggero aumento sono quelle che vivono a bassa intensità lavorativa, passate dal 10,3 all’11,0%. Il capitolo redditi racconta un’Italia in cui la metà delle famiglie ha un reddito netto che non supera i 24.215 euro annui, che equivalgono a una busta paga mensile di circa 2.000 euro. Cifre che precipitano nel Sud dove il 50% delle famiglie percepisce 1.663 euro mensili per un reddito netto annuo di poco meno di 20 mila euro. La disuguaglianza, nel rapporto Istat, è misurata dall’indice di concentrazione di Gini che traduce il divario nella distribuzione del reddito. Un dato che è rimasto stabile rispetto agli anni precedenti. Altri dati sulla distribuzione della richezza arrivano dall’Oxfam, una confederazione di 17 organizzazioni non governative: dal 2009 i super-ricchi sono più che raddoppiati (le 85 persone più ricche al mondo hanno collettivamente aumentato la loro ricchezza di 668 milioni) e sono 805 milioni le persone che non soddisfano bisogni primari come l’alimentazione.

Repubblica 31.10.14
La politica dimentica i più poveri
di Chiara Saraceno


IL DATO della, piccola, riduzione del numero di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale avvenuta tra il 2012 e il 2013 va accolto con molta cautela, non solo per la sua esiguità e perché si riferisce alla situazione di un anno fa, ma perché nasconde fenomeni divergenti, che nel loro insieme segnalano un rafforzamento delle disuguaglianze.
In primo luogo, l’unico dei tre indicatori che è diminuito riguarda la deprivazione grave, perché è calata la percentuale di persone che non può avere un pasto adeguato almeno ogni due giorni, che non ha mezzi per riscaldare a sufficienza l’abitazione e non avrebbe neppure 800 euro di risparmi per fronteggiare un’emergenza. Si tratta di situazioni al limite della sopravvivenza. Non vi è stato, invece, nessun miglioramento per quanto riguarda la percentuale di coloro che si trovano in condizione di povertà relativa e di coloro che vivono in una famiglia in cui nessun adulto (esclusi gli studenti e i pensionati) è occupato.
In secondo luogo, il miglioramento è distribuito in modo molto diseguale tra le varie aree del Paese e tra i diversi gruppi sociali. È stato molto più sostanziale nel Centro- Nord, dove il fenomeno della povertà e dell’esclusione sociale è relativamente contenuto, che nelle regioni meridionali, dove è tradizionalmente molto più diffuso ed era maggiormente aumentato negli anni della crisi. Come ha documentato anche il recente rapporto Svimez, il gap tra le condizioni di vita nel Mezzogiorno e il resto del Paese si sta ampliando, senza che ciò riesca ad entrare nel dibattito politico. Allo stesso tempo, il Mezzogiorno si conferma anche l’area del Paese in cui le disuguaglianze economiche sono maggiori, segnalando l’inefficienza e l’insostenibilità di un sistema economico e sociale locale e dei suoi rapporti con il sistema nazionale complessivo.
Il gap si sta ampliando anche tra vecchi e giovani e tra famiglie senza figli o con un solo figlio e famiglie con tre figli e più. Il miglioramento è concentrato tra gli anziani e le famiglie senza figli (conviventi) o con un figlio solo. Viceversa, la situazione è peggiorata per le famiglie con tre o più figli. Ciò è vero in tutte le aree geografiche, ma nel Mezzogiorno il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda ormai più del 40 per cento delle famiglie.
Il peggioramento dei nuclei famigliari numerosi significa che siamo di fronte ad un peggioramento della povertà minorile, un fenomeno che costituisce una caratteristica distintiva del nostro Paese, e che tuttavia raccoglie ancora meno attenzione nel dibattito pubblico e da parte dei policy maker rispetto alla questione meridionale e certamente non trova neppure l’inizio di una risposta nel bonus triennale per i nuovi nati introdotto con la legge di stabilità. Qualcuno potrebbero persino dire che è irresponsabile incentivare le nascite con misure di breve periodo se non si affronta prima in modo sistematico e coerente la questione della povertà minorile, che dipende in larga misura dalla combinazione di insufficiente reddito da lavoro e insufficienti, o assenti, trasferimenti che tengano conto del costo dei figli lungo tutto il percorso di crescita.
In ogni caso, forse non è comunicativamente attraente e pagante nell’immediato a livello politico, ma se c’è un tema che richiede un orientamento al futuro e non al passato, è proprio quello della povertà minorile: se non sul piano dell’equità, certo per i suoi effetti negativi di lungo periodo.

Repubblica 31.10.14
Leoluca Orlando, sindaco di Palermo e presidente dell’Anci Sicilia:
“Costretti a tagliare i servizi ai cittadini”
intervista di Alessandra Ziniti


PALERMO . «La settimana prossima, a Milano, il congresso nazionale dell’Anci sarà una polveriera. Lo dico chiaramente, se a livello nazionale si continuerà con questa inaccettabile subalternità al governo, noi adotteremo iniziative in autonomia». Leoluca Orlando, sindaco di Palermo e presidente dell’Anci Sicilia, è sul piede di guerra per i nuovi tagli alle finanze dei Comuni previsti dalla legge di Stabilità.
Sindaco, il sottosegretario Delrio dice che il contributo chiesto ai Comuni è sopportabile.
«E’ assolutamente insopportabile così come assolutamente inaccettabile è l’atteggiamento del governo, in continuità con il governo Monti e con quelli successivi, che scarica sui Comuni tagli sconsiderati costringendoci a far ricorso alla fiscalità locale». A chi gli ha fatto questa osservazione, Renzi ha risposto che l’aumento delle tasse locali sarebbe stata una “provocazione”.
«E’ un atteggiamento che mortifica le autonomie locali e i Comuni, come il mio, che sono diventati virtuosi con sacrifici e quelli che vorrebbero diventare virtuoso e non lo diventeranno mai. Palermo è un esempio da scuola: dopo due anni di sacrifici abbiamo oggi un bilancio in ordine, l’unico Comune da Roma in giù ma con questi tagli annunciati rischieremo di nuovo il dissesto».
Facciamo degli esempi: con i nuovi tagli quale sarà il conto che pagheranno i
cittadini?
«Bisogna dire chiaramente che i due miliardi di tagli che riguarderanno le Regioni non potranno riguardare le spese sanitarie. Quindi finiranno indirettamente sui Comuni andando ad aggiungersi al taglio diretto da 1,2 miliardi che poi in realtà sono 1,5 miliardi perché i 300 milioni di un taglio precedente che il governo si era impegnato a reintegrare non sono mai arrivati. Quindi alla fine alle casse dei Comuni verranno meno 3,5miliardi, il che vuol dire che non ci saranno i soldi per gli autobus, per l’assistenza domiciliare, per gli anziani, per le case, per le scuole e cosi via. Se a questo aggiungiamo che dal prossimo anno entra in vigore la nuova contabilità locale che ci obbligherà a segnare in bilancio il 50% (e non più il 20 o il 30) dei crediti esigibili, si capisce come la situazione a cui andiamo incontro è davvero insostenibile».
Tutte cose che Fassino ha fatto presente nell’incontro ma che il premier non sembra intenzionato a prendere in considerazione.
«Lo ripeto. Credo che nel congresso di Milano dovremo adottare delle iniziative forti contro questo governo che ha già mortificato i Comuni con quella scandalosa riforma del Senato delle Autonomie con i rappresentanti dei Comuni scelti dalle Regioni in aperto contrasto con la carta costituzionale che dà pari dignità alle istituzioni locali».

il Fatto 31.10.14
Senza pudore
Serra, il leopoldino dei debiti altrui
di Dav. Ve.


Davide Serra oltre all’amicizia con Matteo Renzi ha un tempismo perfetto per gli affari. Proprio quando Monte dei Paschi di Siena tenta di liberarsi di 1,2 miliardi di euro di crediti problematici – i cosiddetti non performing loan (Npl) – il finanziare residente a Londra dal 1995 decide di aprire una filiale a Milano del suo fondo speculativo Algebris per occuparsi proprio dei crediti problematici. E visto che può vantare una buona confidenza con il premier, essendone anche un generoso finanziatore (Serra e la moglie hanno versato 175 mila euro alla fondazione Open, cassaforte dell’ascesa renziana), può suggerirgli di fare una leggina per velocizzare il recupero dei crediti non onorati dai clienti delle banche. La proposta l’ha avanzata direttamente dalla Leopolda, dove Renzi gli aveva affidato il tavolo sul rilancio delle pmi in Italia.
Sostiene Serra che sia necessaria una “norma a costo zero” che permetta di ridurre i tempi di recupero dai sette attuali ai tre. “La banca che ti ha finanziato perde automaticamente ogni anno il 10% perché questo è quanto le costa in termini di liquidità e sofferenza, in dieci anni una banca ci rimette tutto”. Quindi “nel momento in cui uno non paga più, la banca è morta, dato che può sbagliare un prestito su 100. Una casa che magari valeva 100, le banche aspettano 8 anni, la vendono magari a 30. Poi arriva la Bce, ti fa l’esame della prostata e ti dice di chiudere”, chiaro riferimento a Mps, bocciata domenica dagli stress test.
Lui si dice pronto a rastrellare tutto, partendo con ogni probabilità proprio da quel miliardo di Rocca Salimbeni, ma per farlo suggerisce a Renzi una legge che gli consenta di recuperare il credito. Gli amici servono a questo: Monti per tentare di salvare Mps emise 4 miliardi di bond, ad aiutare Renzi arriva Serra.

il Fatto 31.10.14
Renzi paga i conti con 4 miliardi destinati al Sud
3,5 coprono lo sgravio Irap, 500 milioni fanno contenta la Ue sul deficit
di Marco Palombi


Ora che la manovra di Matteo Renzi è in Parlamento e comincia a essere analizzata nel dettaglio, si scoprono una serie di cosette non proprio commendevoli. Lo Svimez, per dire, ha appena parlato del deserto industriale e persino della natalità che è il volto della crisi nel Mezzogiorno e dalla legge di Stabilità viene fuori che il governo ha appena scippato al Sud 4 miliardi di euro per pagare i suoi conti: “Si rispettano le regole di bilancio Ue coi soldi del Mezzogiorno – ha dichiarato ieri Francesco Boccia, deputato Pd pugliese che siede nella non secondaria poltrona di presidente della commissione Bilancio – Dicevano che il Sud non avrebbe perso un euro, invece sono saltati 4 miliardi: difendo le misure redistributive con i denti, dalla diminuzione dell’Irap agli 80 euro, ma dobbiamo capire chi paga che cosa e come”.
ECCO, IL TAGLIO dell’Irap sulla componente lavoro – di cui beneficeranno per ovvie ragioni soprattutto le imprese del Centro-Nord – lo paga il Sud: 3,5 miliardi in tre anni, infatti, sono “distratti” proprio dai fondi destinati alle aree svantaggiate. Un altro mezzo miliardo, invece, servirà a placare la sete di austerità del commissario europeo Jyrki Katainen: fa parte di quei 4 miliardi e mezzo che dovranno portare il rapporto deficit-Pil al 2,6% dal 2,9 inizialmente previsto. Ancora Boccia: “Mi pare un’idea creativa, nella migliore delle ipotesi, della redistribuzione delle risorse necessarie al rilancio degli investimenti pubblici”. Tutto questo al netto della decisione di ridurre dal 50 al 25% la quota di cofinanziamento dello Stato rispetto ai fondi comunitari, che decurta a monte la cifra disponibile per il prossimo ciclo di programmazione. Curioso, infine, che in questo contesto si tenti di infilare nella manovra il contributo da 100 milioni per i lavoratori socialmente utili di Napoli e Palermo: la classica mancia per tenere sotto controllo i territori (meglio, la loro rabbia), che però è stata stralciata ieri alla Camera perché incompatibile con l’impostazione macro che dovrebbe avere una legge di Bilancio.
Oltre allo scippo, peraltro, bisogna registrare pure una sorta di beffa. Dai fondi europei 2007-2014, che vanno spesi entrol’anno prossimo, ai tempi dei governi Berlusconi-Monti si decise di dirottare la bellezza di 12 miliardi (su 60 totali programmati) verso una cosa chiamata “Piano di azione coesione”. L’idea era che, se regioni e enti locali erano troppo lente o incapaci di spendere bene i soldi, sarebbe stata l’amministrazione centrale ad aiutarli e indirizzarli. Ottima idea, ma i risultati sono pessimi: secondo la Ragioneria generale dello Stato, a oggi, di questi 12 miliardi sono stati effettivamente spesi solo 656 mila euro. È appena il caso di ricordare che negli ultimi due governi, compreso questo, la delega sulla materia è stata dell’attuale sottosegretario Graziano Delrio. Questo, però, non ha impedito la sottrazione di risorse. Torniamo al deputato pd Boccia: “La favola per la quale si dice che è colpa delle Regioni incapaci non regge più. Servono nomi e cognomi. Sanzioni e azioni conseguenti. Ma i soldi devono andare a quei territori. Qui utilizzando l’incapacità di alcune classi dirigenti, si nasconde la sottrazione di risorse al Sud”.
IERI, PERÒ, è stata anche la giornata in cui ha cominciato a scricchiolare una delle colonne propagandistiche che Renzi e il Pd (tranne rare eccezioni) hanno eretto a difesa della legge di Stabilità: questa manovra è espansiva, cioè dà ai cittadini più di quanto gli tolga (poi chi paga e chi prende, dentro il corpo sociale, è un’altra questione). Falso. Lo dice, con le cautele del caso, una fonte assai autorevole: Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, una sorta di autorità di controllo sui conti pubblici. Così Pisauro, in audizione in commissione Bilancio, ha risposto a una domanda sul tema: “Dal punto di vista economico questa manovra è restrittiva perché migliora il saldo strutturale. Convenzionalmente stiamo ragionando rispetto al tendenziale e rispetto a quello è espansiva”. Tradotto: di fatto il deficit scende (dal 3 di quest’anno al 2,6% del 2015), quindi la manovra è recessiva; il governo parla di manovra espansiva rispetto agli impegni che aveva assunto Enrico Letta in Europa e confermati da Renzi in aprile (cioè un deficit-Pil al 2,2% l’anno prossimo). La verità, dunque, è che questa manovra è recessiva, ma meno di quanto avrebbe dovuto essere se avessimo dato retta a Bruxelles. Ricorda quella vecchia battuta su Achille Occhetto: “Lei non sa chi sarei stato io”.

il Fatto 31.10.14
Claudio Fantoni L’ex assessore al Bilancio
“Balle sui conti e patti a destra Matteo era così già a Firenze”
Claudio Fantoni, che si dimise dal Bilancio: “Litigò con la Camusso pure sul 1° maggio. Vuole zittire il diritto di critica”
di Davide Vecchi


Il braccio di ferro con i sindacati, il denigrare i critici, la distanza tra parole e fatti: il modus renziano per qualcuno non è una novità. “L’abbiamo già visto a Firenze”. A ricordare gli anni da primo cittadino dell’oggi premier è Claudio Fantoni, ex assessore al bilancio di Palazzo Vecchio fino al 2012, quando lasciò l'incarico “perché era evidente che il sindaco usava la città come laboratorio per il suo di futuro”. Fantoni è, assieme a Pier Luigi Vigna, l’unico ad aver abbandonato il carro del vincitore nel momento in cui c’era la corsa a salirci. Dopo due anni ha scelto di rompere il silenzio perché è “preoccupato, posso parlare da cittadino”.
Per cosa?
Chi lavora con Renzi non può non riconoscerne le straordinarie capacità. Ciò che mi preoccupa è capire per cosa vengono impiegate. Se su tutto prevale il consenso, ci troviamo in una campagna elettorale permanente. Credo che il Paese abbia bisogno d'altro. Le faccio un esempio: Renzi si è sempre vantato di aver ridotto di un punto percentuale l’addizionale Irpef, è vero: firmai io il bilancio. La mossa portò 9 milioni in meno nelle casse del Comune e mettemmo 80 milioni di euro in più di Imu. Non si può certo lasciare intendere che abbassammo la pressione fiscale. Credo che i cittadini abbiano bisogno e diritto alla chiarezza.
Quindi gli 80 euro ai redditi bassi e quelli a sostegno dei neonati del 2015 porteranno nuove tasse?
C’è differenza tra carità e interventi strutturali. Il punto è capire se queste misure sono espansive o dispersive. Il bonus bebè, ad esempio, funziona comunicativamente ma è tutt'altro che una riforma. La priorità non è vincere le elezioni è mettere in sicurezza l'Italia, farla riprendere e funzionare. Non abbandonare la fascia più debole della popolazione. Possibile che la parola ‘povertà’ sia sparita? Capisco che occorra infondere ottimismo ma così si finisce per replicare quel signore che parlava di ristoranti e voli sempre pieni.
Da sindaco non dispensava annunci ottimistici?
Sì, appunto: nessuno è andato a controllare. I 100 punti delle primarie, i 100 progetti: pochi si sono tradotti in realtà. Anche in questo Firenze è stato solo un laboratorio.
In cos’altro?
In tutto. Le ostilità con la Cgil erano già aperte. Come l'auspicio di una scissione nel Pd in favore di un'alleanza con la destra. O l'idea di un Pd liquido, al punto da assomigliare molto ad un comitato elettorale personale, non è una novità. Come non lo è il fatto che noi non stiamo semplicemente conquistando gli elettori di centrodestra, cosa sacrosanta, noi stiamo portando il Pd in quel campo che è cosa assai diversa.
Ora è troppo tardi?
Mi pare che ormai ci abbia proprio piantato la tenda, dall'altra parte.
Lei è stato, fra l’altro, responsabile cultura del Pd: è ancora iscritto?
Non ho ancora rinnovato la tessera, mi sono preso qualche settimana di tempo per capire con chi è in che modo posso condividere l'idea di una partito che ponga al primo posto i contenuti. Il contenitore è importante ma non si giura fedeltà a quello. Voglio capire se permane ed è possibile uno spazio di democrazia interna effettivo oppure no. Se l'uguaglianza è al centro della nostra iniziativa. Se chi critica e ha un'idea diversa lo si denigra chiamandolo ‘gufo’ o se ci si ragiona e si risponde nel merito. Se ai partiti e ai sindacati gli si chiede di migliorare o se li si vuole neutralizzare per non avere impicci.
E nel partito della nazione si ritroverebbe?
Condivido la vocazione maggioritaria, ma non vorrei che questa si trasformasse in una pseudo vocazione totalitaria. Non condivido per nulla la propensione a ricercare e a proporsi come uomini della provvidenza. Il messianismo in politica ha sempre portato male. L'idea dell'uomo solo al comando non funziona. Ci vuole una squadra e non basta dire noi, bisogna esserlo. Ho l'impressione, invece, che quando Renzi usa il 'noi' sia un plurale maiestatis, una sorta di ipertrofia del singolare. Lui sa che le parole sono importanti, detta l’agenda, regala nuovi titoli e molto finisce presto dimenticato. Prendiamo l'articolo 18: pochi mesi fa disse che non era il problema, ora è diventato l'unico ostacolo all'economia. Delle due l’una: mentiva prima o mente ora? E perché?
Secondo lei perché?
Non saprei. Io so solo che l'ho visto all'azione. Come ho detto: l’uomo solo al comando. Guardi i membri del governo: ci sono ministri inesistenti, se non si fa mente locale alcuni neanche ce li ricordiamo: Alfano, Lupi, Madia. C'è solo Renzi.
Sono giorni caldi.
Quello che è successo ieri in piazza con gli operai è gravissimo. Un uomo che perde il lavoro deve andare incontro alla solidarietà non alle manganellate. Vanno velocemente individuate le responsabilità. Per quanto riguarda la Picierno credo si commenti davvero da sola. Accusare Susanna Camusso di avere vinto con le tessere false è fuori luogo ed anche imbarazzante. Vorrei sommessamente ricordare che un po' di caos lo abbiamo avuto noi nel Pd con le tessere delle primarie 2013. Io starei quantomeno più attento. Dopodiché su Serra dico che ciò che ha detto è semplicemente inaccettabile.
Renzi è intervenuto dicendo che alla Leopolda ciascuno può esprimersi liberamente.
Serra è stato invitato e ha coordinato uno dei tavoli della Leopolda, non passava di lì per caso. Ha fatto dichiarazioni sul diritto di sciopero che nemmeno la destra solitamente si concede e contestualmente ha annunciato che si iscriverà al Pd a Londra. Io penso che il segretario avrebbe dovuto dire che a uno con le opinioni di Serra la tessera del Pd non sarà concessa.
Renzi non ha tempo da perdere: vuole rinnovare il Paese.
Su questo sono d'accordo. Non c'è tempo da perdere. Come non c'è spazio per una conflittualità pretestuosa. La crisi c'è davvero. Ciò che non vorrei è che finissimo per mettere in campo l’hard love, quello che la destra repubblicana americana evoca per giustificare che ai più deboli non si dà una mano. Quello per cui, con la scusa di premiare il merito si dice che uno si deve arrangiare da solo, così da dare il meglio di sè stesso. È giusto che ciascuno cammini con le proprie gambe ma è altrettanto vero che non si parte tutti dallo stesso punto. Se un partito di sinistra non si occupa primariamente di questi tradisce se stessa.

il Fatto 31.10.14
Democratici attacchi
Tutti contro Zoggia


Il premier “vuole il voto”. I manganelli? “Alla Leopolda, Davide Serra dice cose gravi e inaccettabili sul sindacato e sul diritto allo sciopero e poi, tre giorni dopo i poliziotti vedono gli operai, abbassano la visiera del casco e caricano...”. Così ieri Davide Zoggia, bersaniano di ferro, ex responsabile Enti locali Dem, al Corriere della Sera. La conseguenza temporale è inoppugnabile, la violenza delle dichiarazioni di Serra, guest star della kermesse renziana, anche. Eppure, ecc pronta l’alzata di scudi dei renziani e non solo. Quasi Zoggia non fosse dello stesso Pd di cui il premier è segretario. In tre senatori gli replicano così: “Ci aspettiamo una smentita da Zoggia. Mettere in relazione le opinioni espresse a titolo personale da Davide Serra alla Leopolda con quanto è successo in piazza a Roma, è una provocazione non degna di un autorevole dirigente del Pd”, dicono Cantini, Morgoni e Scalia. Mentre i renziani Collina e Moscardelli: “Non ci sono le elezioni dietro l’angolo”. E Orfini: “Dichiarazioni discutibili e sbagliate”.

il Fatto 31.10.14
Silvio sente Matteo: il patto del Nazareno va


IL PATTO DEL NAZARENO procede senza intoppi. Lo ha detto, a quanto raccontano, Silvio Berlusconi nel corso di una riunione con i coordinatori regionali. L’ex Cavaliere ci avrebbe tenuto a dire che non c’è nessuna frenata sulle riforme e che non arretra nemmeno sulla legge elettorale. E si sarebbe lamentato degli articoli stampa che lo descrivono titubante sull'Italicum e pronto a frenare sulla riforma del sistema di voto per evitare che Matteo Renzi vada al voto anticipato.
A sostegno di questa tesi, fonti azzurre ci hanno tenuto a riferire che per rinsaldare l’asse ci sarebbe stata una telefonata tra il premier e B. martedì. E che anzi i due si sarebbero lasciati con l’intenzione di vedersi a breve.
L’ex premier ha fatto capire che Fi non ha intenzione di rallentare i provvedimenti ma avrebbe spiegato al suo interlocutore di dover discutere anche con il suo partito eventuali modifiche agli accordi. L’intenzione di Berlusconi, spiegano, è quella di ricevere assicurazioni che l'approvazione delle riforme non rappresenti per il leader del Pd uno strumento per andare a votare.

il Fatto 31.10.14
Greco: “Con queste leggi la corruzione vince”
Il Procuratore di Milano attacca sulla riforma annunciata da Orlando
“Quelle norme non risolvono i preoblemi. Serve una rivoluzione culturale
di Sandra Amurri


La domanda del procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, coordinatore del pool reati finanziari, ai partecipanti del Convegno di Res Magnae “Emergenza corruzione: analisi e prospettive future”, è: “Si è mai fatto qualcosa di serio per combattere la corruzione? ”. La risposta è: no. “Non si combatte la corruzione con l’attuale legislazione. Non esiste una vera legge sul riciclaggio, una vergogna” spiega.
RICICLAGGIO che “è cambiato nel corso degli anni. Prima era solo l’ingresso di capitali illegali nell’economia pulita. Ora accade che la sottrazione degli utili, denaro pulito, finisce nei conti off-shore”. Ma “in quanto a norme in Italia”, parafrasando un noto allenatore di calcio, “siamo a zero tituli. Non esiste una legge sul riciclaggio che non si combatte di certo con l’attuale legislazione, compresa la norma approvata dal Parlamento”. Greco punta il dito sulla prescrizione che dai 15 anni degli anni ’90 è stata via via ridotta. “Siamo stati gli inventori dello scudo fiscale, ne abbiamo avuti tre con un totale di sbiancamento anonimo per quasi 500 miliardi di euro”. Evidenzia “una sensibilità spiccata a questi problemi degli elettori che pagano le tasse, mentre gli eletti evidentemente non ce l’hanno”.
FALSO IN BILANCIO, “il mio pallino, anche qui la situazione è ridicola”. Occorre “raddoppiare le pene per i reati contro la pubblica amministrazione. Parificare la corruzione pubblica a quella privata. Guardare con maggiore attenzione ai centri di spesa come le Regioni. Ai grandi gruppi dove gli ad e i presidenti vengono nominati dalla politica”. Premette di non voler fare polemica con il ministro della Giustizia Orlando, però tuona: “Le norme non risolvono i problemi, serve una rivoluzione culturale, tuttavia sono necessarie. Ho prestato molta attenzione ai decreti delegati sugli abusi fiscali che prevede sei anni di pena, risibile per uno che ha rubato un miliardo e seicento milioni”. Altro scandalo, le Fondazioni che ci vedono totalmente disarmati. Come si controllano? Chi lo deve fare? Vi rendete conto che ci sono fondazioni che gestiscono milioni e non è prevista nemmeno la revisione contabile? ”. Raffaele Cantone, Presidente di Autorità nazionale anti corruzione, invia un video messaggio in cui chiede al ministro per gli Affari Regionali, Lanzetta, “perché non viene esteso lo scioglimento per mafia dei consigli comunali anche a quelli regionali? ” Lei risponde: “Condivido, dobbiamo lavorarci”. Cantone si dice d’accordo con il collega Greco ed esprime fiducia nella collaborazione di Confindustria che deve allontanare i corruttori e uscire “dalla logica della punizione per passare a quella del premio, ora c’è chi paga un danno per essersi comportato bene”. Chiede attività sinergica, una prevenzione e una repressione che funzionino. “Centrale è il tema culturale affinchè il corruttore non sia più visto come piu intelligente degli altri”.
MENTRE la direttrice delle Agenzie delle entrate Rossella Orlandi propone una legislazione speciale simile a quella americana con agenti infiltrati, rilevatori della frode fiscale: “Scovare la corruzione è difficile perché c’è un patto fra corrotti e corruttori. Falcone diceva segui i soldi, un grande insegnamento. Basta con l’ipocrisia sul segreto bancario, chiedo maggiore trasparenza e l’accesso agli archivi finanziari”. Promotrice dell’iniziativa, la senatrice civatiana Lucrezia Ricchiuti che a microfoni spenti si sfoga: “La corruzione mina il patto di fiducia tra cittadini e istituzioni... ma certo che se facciamo le riforme con Verdini... ”, sospira. E sulla riforma Orlando promette battaglia.

Repubblica 31.10.14
I costi della politica
“Partiti spa” sull’orlo del fallimento senza fondi pubblici buco di 80 milioni
Il finanziamento statale è sceso dai 290 milioni del 2010 ai 40 previsti quest’anno Raddoppiano i contributi dei parlamentari, ma non basta. Il due per mille non decolla
di Ettore Livini


MILANO Le salamelle della Festa Democratica (lunga vita a loro) e i maxi-assegni di Silvio Berlusconi a Forza Italia & C. non bastano più. Il taglio del finanziamento pubblico ai partiti – sceso dai 290 milioni del 2010 ai 40 previsti quest’anno – ha colto la politica italiana in contropiede. E l’ex-Eldorado della “Partiti Spa” è sull’orlo del crac. Carta canta: i bilanci 2013 delle maggiori formazioni tricolori si sono chiusi in rosso per 82 milioni, 70 in più di due anni fa, malgrado la rocambolesca spending review avviata da tutti in zona Cesarini. Il raddoppio a 35 milioni della raccolta di contributi individuali – buona parte dei quali sborsati di tasca loro dai Parlamentari – è servito appena a limitare i danni: le donazioni con il 2 per mille non decollano, le campagne di tesseramento – complice la crisi – non tirano più, lo Stato chiuderà del tutto i rubinetti nel 2017. E la politica italiana si prepara a un 2014 ancora più nero dove si è già capito che ci sarà ancora da tirare (e molto) la cinghia.
Il piatto piange per tutti. Il taglio del tetto ai rimborsi spese individuali da 670mila a 170mila euro l’anno (scenderà a 80mila nel 2014) imposto dal Pd a senatori e deputati non ha impedito ai conti di Largo del Nazareno di chiudere in rosso per 10,8 milioni. Il Tesoriere Francesco Bonifazi, fedelissimo di Matteo Renzi, ha sforbiciato le spese per il personale (-20%), ridotto dell’80% quelle informatiche e sta provando a disdire in anticipo gli affitti di via del Tritone e via Tomacelli. Gli onorevoli democratici hanno versato nelle casse del partito 5,48 milioni, molto più dell’anno scorso (21mila euro Pierluigi Bersani, 18mila Rosy Bindi, 14.250 Maria Elena Boschi). L’orizzonte però resta buio visto che dallo Stato arriveranno quest’anno solo 12 milioni (erano 57 tre anni fa) e far quadrare i conti sarà un’impresa.
Le cose vanno ancora peggio nel centro-destra, totalmente Berlusconi-dipendente, salvo il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano che, nato a fine 2013, non ha presentato rendiconto. Forza Italia (in rosso per 25,5 milioni) è stata tenuta a galla da una «donazione liberale» di 15 milioni dell’ex-Cavaliere, che garantisce con fideiussioni personali gli 83 milioni di disavanzo accumulati dal partito. Tutte le altre formazioni dell’area dipendano a filo doppio da San Lorenzo in Lucina. Fi ha donato 500mila euro al Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo, 750mila a Fratelli d’Italia e 1,2 milioni al Movimento grande sud di Gianfranco Miccichè.
Il peggio, tra l’altro, rischia di dover ancora arrivare. Il bilancio del Popolo della Libertà (cui Forza Italia ha “condonato” un credito di 14 milioni) si è chiuso in passivo per 15,5 milioni e dice papale papale che sarà «impossibile far fronte» ad altri 13,9 milioni di debiti con Fi, malgrado il partito abbia chiuso 76 sedi locali, tagliato 70 posti di lavoro e ridotto le spese per 5,6 milioni. La rottamazione dell’ex Pdl, ormai politicamente una scatola vuota, rischia di essere complessa come quella di Rifondazione Comunista e Alleanza Nazionale, finite in liquidazione, sparite dall’arena politica ma capaci di macinare milioni di perdite anche post-mortem. Stessa sorte toccata all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, fuori dal Parlamento, in perdita per 9 milioni («servirà una profonda spending review», ammette la relazione di bilancio) e travolta pure dalla richiesta di parcelle arretrate per 2,5 milioni dello Studio legale di Sergio Scicchitano, ex consigliere giuridico del magistrato.
In acque agitate, finanziariamente parlando, naviga pure la Lega di Matteo Salvini. Il popolo padano, forse a causa degli scandali di Trota & C., ha perso un po’ della sua passione. Le entrate da tesseramento si sono dimezzate, così come quelle delle feste di partito. I tagli alle spese (-20%) sono stati mangiati via dai 3 milioni di spese legali per il caso Belsito. E la voragine nei conti si è allargata a 25 milioni in due anni.
Un po’ meglio va alla meteora Scelta Civica che grazie ad alcune robuste donazioni (100mila euro dall’ex manager Parmalat Enrico Bondi, 60mila da Alberto Bombassei) e a 2,4 milioni di rimborsi elettorali è riuscita a consolarsi dei 2.234 euro incassati con il tesseramento chiudendo i conti in sostanziale pareggio.
Una storia a parte sono i conti del Movimento5Stelle. Grillo & C. hanno rinunciato a 42 milioni di finanziamento pubblico e i parlamentari pentastellati hanno versato oltre 7 milioni al Fondo garanzia per le Pmi rinunciando a parte dello stipendio. I gruppi di Camera e Senato hanno percepito 6,2 milioni come contributo omnicomprensivo del Parlamento e le pure spese di funzionamento della rappresentanza parlamentare hanno regalato un bilancio in attivo per 2,7 milioni. Manca però all’appello (a parte le auto-certificazioni del Blog dell’ex- comico) una reale fotografia certificata di tutte gli altri costi elettorali e per l’attività fuori dal Parlamento. Ma il fundraising all’americana tra elettori e sostenitori dei 5Stelle – nel profondo rosso di una politica italiana orfana di 250 milioni di aiuti pubblici – è forse davvero l’unica strada per riportare un po’ d’ossigeno alla disastrata ditta Partiti Spa.

Repubblica 31.10.14
La decisione dell’Avvocatura generale dello Stato
“Revocare il vitalizio ai parlamentari condannati”


PALERMO Revocare la pensione da parlamentare quei deputati e senatori che sono stati condannati in via definitiva a pene superiori ai cinque anni. È il senso di una lettera scritta dal presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Giovanni Ardizzone, a Piero Grasso e Laura Boldrini. La lettera li informa di un parere durissimo dell'avvocatura generale dello Stato. «La vicenda che ha riguardato l'onorevole Salvatore Cuffaro - scrive Ardizzone - ha avuto riflessi di natura amministrativa. In considerazione della complessità della questione questa Assemblea ha richiesto un parere all'avvocatura generale dello Stato». Per l’Avvocatura «il vitalizio dei deputati, pur potendo assumere connotati di tenore previdenziale non trova titolo in un rapporto di lavoro bensì in un mandato pubblico elettivo assimilabile per certi versi alle funzioni onorarie e ad avvisto della scrivente la perdita dell'assegno vitalizio a favore del deputato del deputato regionale condannato in via definitiva ad una pena superiore ai 5 anni trova fondamento nel codice penale, rappresentando l'effetto automatico ex lege della pena accessoria della interdizione in perpetuo dai pubblici uffici». In sintesi, secondo il parere dell'avvocatura, non occorre varare alcuna norma ad hoc per togliere il vitalizio agli ex parlamentari condannati. A rischiare sono Marcello Dell'Utri, Nino Strano, Giuseppe Ciarrapico.

il Fatto 31.10.14
L’Unità tra l’uomo del gossip e l’ex Pdl
Oggi si decide sulla nuova proprietà
Ai dipendenti mancano 4 mesi di salarioe un pezzo di Tfr
di Tommaso Rodano


Per l’Unità è il giorno decisivo. Oggi scade il termine fissato dal commissario liquidatore per presentare offerte d’acquisto. Entro poche ore si saprà qualcosa di concreto sul fallimento o la rinascita del quotidiano fondato da Antonio Gramsci nel 1924. Per i lavoratori del giornale le ultime settimane sono state l’apice di un lungo periodo di tensione e incertezza. In questi giorni hanno assistito allo sgombero della redazione di viale Ostiense, a Roma, per la scadenza del contratto d’affitto. Oltre al danno di 4 mensilità di stipendio in arretrato, hanno scoperto un’altra beffa: l’azienda è inadempiente anche per una parte dei contributi. L’ultima tranche del Tfr del fondo complementare non è ancora stata versata a causa dei debiti accumulati con l’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti. Mentre il premier/segretario Renzi promette di portare il Tfr in busta paga, una parte dello stesso Tfr scompare dalle tasche di chi lavora nel giornale di partito.
PER IL RILANCIO del “brand” Unità (Renzi dixit), la giornata di oggi è cruciale. Dopo le manifestazione d’interesse più improbabili - compresa quella di Daniela Santanchè e Paola Ferrari - è il momento delle offerte vere. L’eredità di Matteo Fago e della sua Nuova Impresa Editoriale, sommersa da circa 30 milioni di debiti, dovrebbe essere raccolta dall’editore del gossip Guido Veneziani. Il patron dei rotocalchi (Vero, Top e Stop, tra gli altri) avrebbe incassato l’investitura del Pd e del tesoriere Francesco Bonifazi, al punto da rilasciare interviste come proprietario in pectore. Al Corsera, Veneziani ha garantito che non trasformerà il quotidiano di Gramsci in una rivista di cronaca rosa, ma “se becchiamo nuda la fidanzata di Berlusconi, la pubblichiamo”. Queste le intenzioni, mentre di offerta e piano di rilancio ad oggi non si sa nulla.
Veneziani, però, non è solo. Ieri s’è presentato un nuovo pretendente, l’imprenditore Andrea Palombo. Consigliere comunale a Latina, eletto nel 2011 col Pdl prima di passare al gruppo Misto, il 34enne Palombo ha già all’attivo un’avventura poco fortunata. Nel 2012 ha acquistato le quote della Nuova Editoriale Oggi di Giuseppe Ciarrapico, editrice di Latina Oggi, sull’orlo del fallimento. La gestione Palombo è durata poco: la Neo è stata dichiarata fallita all’inizio di quest’anno. Con un rocambolesco cambio di testata (rinominandosi Il quotidiano di Latina) il quotidiano ha continuato ad andare in edicola, per poi cambiare proprietà due volte nel giro di poche settimane: prima a un fedelissimo dello stesso Palombo, poi a un editore di Anzio. Cosa possa spingere un piccolo imprenditore, con precedenti poco incoraggianti e unaformazione politica lontana dalla sinistra, a farsi avanti per l’Unità, è tutt’altro che chiaro: “È un’idea che m’è venuta in ferie - dice al Fatto - I miei consulenti studiano questo investimento da un mese e mezzo. Non c’è nessuna cordata, solo io e la mia famiglia. Non sono di sinistra, ma sono un editore puro, abbiamo un piano industriale solido”. Lo presenterà oggi pomeriggio all’Hotel Nazionale di Roma. Dopo tanti bluff, per lui e gli altri che hanno parlato dell’Unità, è tempo di mostrare le carte.

il Fatto 31.10.14
Com’era facile quando erano solo delinquenti
di Bruno Tinti


ALMENO con quelli di prima, tutto era chiaro. Erano delinquenti. Lui, B., si faceva fare dai suoi associati le leggi che gli servivano per non finire in galera: falso in bilancio depenalizzato di fatto, prescrizione abbreviata, processo breve, immunità per il presidente del Consiglio, legittimo impedimento, tutti i tentativi per bloccare le intercettazioni. E noi, i cittadini, protestavamo: sono leggi fatte per non andare in prigione! Ma con quelli di adesso non si capisce niente. Che nella compagnia bivacchino delinquenti non si ha notizia. Ignoranti, arroganti, anche un po’ stupidi sì; ma corrotti o corruttori non sembra ce ne siano. Eppure un progetto destabilizzante e antidemocratico ce l’hanno di sicuro.
Siccome, l’ho già detto, sono anche stupidi, lo dicono a chiare lettere (da non confondere con la casa editrice Chiarelettere, socio de Il Fatto Quotidiano spa).
Relazione del ministro Orlando al ddl contenente, tra l’altro, modifiche alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati: “Il governo intende intervenire sul delicato tema della responsabilità civile dei magistrati, destinato a riemergere nelle fasi, come quella attuale, in cui si avverte l'esigenza di un riequilibrio delle posizioni politico-istituzionali coinvolte e del superamento definitivo di un conflitto ancora in corso. ” Traduzione: le modifiche alla legge 117/1988, che regola la responsabilità civile dei magistrati, non servono a meglio garantire i cittadini vittime di errori dei giudici, ma a “riequilibrare” il rapporto tra la politica e la magistratura. Ulteriore traduzione: “c’è un conflitto ancora in corso” cagionato (evidentemente) dal fatto che i giudici pretendono di applicare il codice penale al malaffare politico e quindi di fare indagini e processi e infliggere condanne (o assolvere se del caso), proprio come si fa per ogni altro cittadino. Traduzione finale: serve un “superamento definitivo”; non ci basta un sistema che impedisce di fatto che qualcuno (e dunque anche i politici) finisca in prigione (leggi svuota-carceri, ordinamento penitenziario infarcito di benefici, permessi e riduzioni di pena, prescrizione abbreviata). Noi vogliamo proprio che i politici non siano processati; e, se i giudici insistono a provarci, la nuova legge gli insegnerà a pensarci due volte prima di farlo.
UN SINTOMO importante di questo nuovo corso, più sfacciato ed esibito del precedente, è l’incredibile comunicato del ministro per le Riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento, Boschi, emesso il giorno stesso della sofferta deposizione del Presidente Napolitano. “Ancora una volta, oggi, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha dimostrato il suo profondo rispetto per le istituzioni repubblicane e l'alto senso dello Stato. Al Presidente della Repubblica va tutta la nostra gratitudine per la dedizione e la fedeltà alla Costituzione”.
Cioè: Napolitano è citato come testimone, ha l’obbligo di testimoniare (l’unica peculiarità legata alla sua carica consiste nel fatto che i giudici devono andare da lui e non lui dai giudici), fa una melina micidiale prima che sia possibile finalmente sentirlo, sembra che non menta e non sia reticente (ci mancherebbe altro) ; e Maria Elena scioglie un peana perché il primo cittadino italiano ha rispettato la legge.
Come dicevo, casi di delinquenza manifesta (alla B&C) non sono emersi. Ma allora perché lo fanno?

Corriere 31.10.14
Università, vietato assumere i parenti. Tranne le mogli
Bari, 31 assunzioni all’università. La legge vieta congiunti dei professori fino al quarto grado. Ma il rettore annuncia: «L’interpretazione non è univoca»
di Gian Antonio Stella

qui

Corriere 31.10.14
Pugni in strada agli sconosciuti
La violenza gratuita dagli Usa a Milano Una 30enne aggredita in centro: ha il naso rotto. Spesso un complice filma la scena
di Andrea Galli


MILANO L’ultima moda comincia in strada, finisce in ospedale e lascia segni che possono essere indelebili. Ad esempio c’è una ragazza, italiana, 30 anni, con il setto nasale frantumato che una sera, in un orario tranquillo (erano le nove d’un lunedì di due settimane fa) in un luogo affollato e trafficato (piazzale Loreto) è caduta a terra. Sangue e urla. E nulla di sua proprietà, dalla borsetta al computer, dal cellulare al portafoglio, che è stato portato via. Un colpo secco in volto e la fuga dell’aggressore. Roba da pugili e non da rapinatori. Un colpo preciso da knockout.
E infatti così si chiama il «gioco», che poi consiste nella folle azione di stendere i passanti con le mani e a volte anche con i calci: knockout game . Eccolo a Milano. L’abbiamo importato dall’America e ci stiamo specializzando. Anzi no, attenzione: importato fino a un certo punto. Una decina d’anni fa, in varie città, da noi c’erano stati agguati simili per modalità e per conseguenze. Dopodiché la moda era stata accantonata e adesso, da Torino a Roma, da Napoli a Genova, è tornata d’attualità, forse per il richiamo, la potenza e la «spinta» dei telefonini.
Sul knockout game ci sono state indagini, che rimangono difficili. Prendiamo il caso in questione. Una delle caratteristiche degli agguati è che ci siano dei testimoni, che i posti siano affollati: la violenza dev’essere «ammirata», documentata, filmata magari da un complice con un telefonino per riversare le immagini su Internet. Scegliere piazzale Loreto, dando per scontato che non sia stata un’aggressione a scopo di rapina oppure la vendetta di un conoscente della ragazza, come peraltro non pare ai carabinieri che hanno raccolto la denuncia, ha «preteso» una scelta precisa; è stato messo in conto il rischio legato alla presenza di telecamere esterne, ad esempio delle banche. I carabinieri sarebbero in possesso di una «diretta» della scena: al momento poco cambia.
C’è un ragazzo che sbuca da una macchina e sullo slancio colpisce la 30enne. D’accordo. Però chi è quel ragazzo? Come riuscire ad acquisire elementi per arrivare alla sua identità? Può aver commesso magari l’errore di esser sceso nella stazione del metrò di Loreto e di essere rimasto «memorizzato» nei filmati delle telecamere dell’azienda dei trasporti. Può essere. Ma potrebbe non bastare. La vittima ha affidato il racconto alla voce di un amico. Lei fa sapere che proprio non se la sente, che ormai — giura — ha paura a passeggiare per strada perfino in pieno giorno e lui ricostruisce: «Camminava dietro ad altre due ragazze che parlavano tra loro. Quelle hanno svoltato a un angolo e la mia amica ha proseguito. Ha notato un’ombra sgusciare dalle macchine parcheggiate e s’è ritrovata al suolo».
C’è il video delle telecamere di piazzale Loreto e potrebbe esserci in giro il video girato da un complice. Ma il confronto con l’America è ancora fortunatamente impari: negli Stati Uniti la moda è diventata una mania e la mania un vizio, ci sono centinaia di immagini di ragazzi e adulti colpiti, incapaci di difendersi, le mani che si muovono tardive per coprire le parti del corpo doloranti.

il Fatto 31.10.14
Atac, pignorati 77 milioni. Servizio trasporti a rischio


ALL’ATAC, l’azienda di trasporto pubblico romana, sono stati pignorati 77 milioni di euro in seguito a un contenzioso con Roma Tpl, un consorzio di aziende private. Una notizia che arriva proprio all’indomani della presentazione del piano industriale che dovrebbe portare, nel 2016, l’azienda capitolina all’equilibrio finanziario. Il Campidoglio ha dichiarato che ci sono rischi per il servizio e per questo garantirà le risorse necessarie per scongiurare il blocco. Il pignoramento riguarda il servizio reso dal Consorzio di trasporti nel periodo tra il primo gennaio 2006 e il 31 dicembre 2010. L’udienza è fissata per il 25 novembre. Per Atac, che resisterà in giudizio e che il 28 luglio di quest’anno ha presentato ricorso in Cassazione, il lodo arbitrale è stato pronunciato, nel 2009, da arbitri che ritiene privi di potere e non legittimati a giudicare la controversia.

La Stampa 31.10.14
Chiusa la Spianata, palestinesi in rivolta
Attentato a un rabbino, Israele blocca l’accesso: scontri e feriti
Abu Mazen: dichiarazione di guerra
di Maurizio Molinari


Guerriglia palestinese nelle strade di Jabel Mukaber, scontri fra soldati e ultranazionalisti ebrei al Muro Occidentale, palloni aerostatici sopra i quartieri arabi e il tam tam sulla «terza Intifada» davanti alla Via Dolorosa: a Gerusalemme l’atmosfera è rovente attorno alla Spianata delle Moschee, chiusa dalla polizia dopo l’agguato a mano armata contro il rabbino Yehudà Glick. Glick è uno dei leader dei gruppi ebraici che vogliono costruire il «terzo Tempio» sulla Spianata dove sorgono la Cupola della Roccia e la moschea di Al Aqsa. Si batte per difendere «il diritto degli ebrei di pregare» sul luogo del Tempio di Salomone e accusa il governo Netanyahu di «accettare il controllo di Hamas sulla Spianata».
Mercoledì illustra le sue tesi al Centro Begin e all’uscita apre il cofano dell’auto per mettervi il materiale illustrato. Gli si avvicina un motociclista che in ebraico con forte accento arabo chiede: «Sei tu Glick?». Al segno di assenso viene raggiunto da più colpi. Gravemente ferito, è ricoverato allo Shaarei Zedek e la notizia si trasforma in una scossa per Gerusalemme: è il primo tentativo di assassinio politico in città da quando nell’ottobre 2000 Rehavam Zeevi, ministro del Turismo e leader della destra, venne ucciso all’Hyatt da un killer del Fronte popolare di liberazione della Palestina.
Gli agenti dello Shin Bet, il controspionaggio, danno la caccia all’attentatore di Glick che viene trovato nella sua casa di Abu Tor all’alba di ieri. Si tratta di Muataz Hijazi, 32 anni di cui dieci passati nelle carceri israeliane per terrorismo. Le unità speciali gli chiedono la resa, lui combatte dal tetto e viene ucciso in un conflitto a fuoco di cui la città ha sentore, svegliandosi con il suono degli elicotteri che pattugliano i cieli. La reazione del governo di Benjamin Netanyahu è immediata. «Chiudiamo la Spianata delle Moschee» annuncia il ministro della Polizia Yizhak Aharonovich, spiegando che «né ebrei né arabi potranno accedervi per evitare ulteriori tensioni». Il timore è che l’agguato a Glick si trasformi nella miccia di scontri fra nazionalisti degli opposti campi.
Ma impedire l’accesso alle moschee incendia gli animi dei palestinesi. Abu Mazen, presidente palestinese, tuona da Ramallah: «Questa decisione equivale a una dichiarazione di guerra«. Il portavoce Nabil Abu Rudeineh aggiunge: «Nuocere ai luoghi santi è una linea rossa, non permetteremo a Netanyahu di superarla». L’unica chiusura della Spianata risale al settembre del 2000, per la visita dell’ex premier Ariel Sharon che suscitò una sollevazione popolare. A questo precedente si richiama Ahmed Tibi, parlamentare arabo-israeliano, in un comizio improvvisato davanti alla Porta dei Leoni. «Chiudere Al Aqsa è una provocazione nei confronti dell’intero Islam» dice, con a fianco il Mufti Mohammed Hussein e il capo del movimento islamico Sheik Abu Dabes, accusando Netanyahu di «voler innescare una guerra religiosa esacerbando la rabbia di Gerusalemme Est».
Mentre Tibi parla nei quartieri arabi inizia un domino di attacchi: petardi a Jabel Mukaber, sassi a Silwan e anche nella Città Vecchia, dove una turista viene ferita. Sulla Via Dolorosa un gruppo di militanti palestinesi grida «Allah-u Akbar» quasi in faccia ai militari israeliani. «Preghiamo qui perché non possiamo andare ad Al Aqsa, se vogliono la terza Intifada la avranno - dice Hussen, 50 anni, di Silwan - perché dall’inizio dell’occupazione nel 1967 nessuno aveva osato tanto». Il riferimento all’Intifada moltiplica grida e insulti ai soldati. È una sorta di parola d’ordine. Tensione c’è anche al Muro del Pianto, dove un folto gruppo di ultranazionalisti ebrei tenta di sfondare i cordoni della polizia e raggiungere la Spianata: «È il Monte del Tempio, ce lo hanno rubato» cantano. Il corpo a corpo si conclude con alcuni arresti.
Ma resta la sensazione che gli opposti estremi si preparino alla battaglia per Gerusalemme. Ecco perché dopo il tramonto il presidente israeliano Reuven Rivlin, chiede di «sradicare il terrorismo dalla capitale» adoperando un linguaggio che accomuna tutti i gruppi più violenti. Oggi la Spianata sarà riaperta, limitando però l’accesso ai più anziani. Le violenze a Gerusalemme sono una sfida difficile per Netanyahu, incalzato anche dall’offensiva diplomatica di Abu Mazen: la Svezia ha riconosciuto ieri lo Stato palestinese e Israele ha ritirato l’ambasciatore.

il Fatto 31.10.14
Gerusalemme
Sangue e scontri sul luogo di preghiera
di Roberta Zunini


Nemmeno di notte si ha l'illusione che il Monte del Tempio, per gli ebrei, o Spianata delle Moschee, per i musulmani, sia solo un luogo di culto e non di ricatto politico e scontro, anche fisico. A sorvegliarlo armati fino ai denti, mentre brilla la luna o scende la neve, rimangono gli uomini delle forze di sicurezza israeliane che di fatto dal 1967 “custodiscono” questo sito cruciale per l'islam, anche se sulla carta spetterebbe ai giordani. Ma questa notte ce ne sono stati più del solito a causa di ciò che era accaduto durante il giorno: la chiusura della spianata ai fedeli musulmani dopo che Yehuda Glick, un rabbino con l'ossessione del ritorno dei fedeli ebrei su quello che anche per l'ebraismo e il cristianesimo è un punto di riferimento religioso, era stato ferito da colpi di pistola sparati da un giovane palestinese. Il ragazzo, ucciso qualche ora dopo il tentato omicidio dalla polizia israeliana, era di Gerusalemme Est, la parte della Città Santa che dovrebbe diventare la capitale dello Stato palestinese, ma che Israele considera unica e indivisibile. Prima di ieri la Spianata delle Moschee era stata chiusa solo una volta, 14 anni fa, quando Ariel Sharon, leader del Likud, fece l'ormai storica e infausta passeggiata verso la cupola dorata del duomo della Roccia, scatenando la seconda intifada. Come allora anche oggi i palestinesi e i giordani hanno reagito con rabbia e definito l'iniziativa del governo di Bibi Netanyahu “una dichiarazione di guerra”, un “atto terroristico”, frasi pronunciate rispettivamente dal portavoce del presidente dell'Anp Abu Mazen e del ministro degli Esteri giordano.
SI TRATTA in effetti di una decisione che getta benzina sulla tensione ardente tra israeliani e palestinesi dovuta a una incalzante sequenza di brutalità, a cominciare dal rapimento e omicidio dei tre giovani coloni israeliani l'estate scorsa, l'atroce ritorsione contro un ragazzino palestinese, fino alla sanguinosa guerra a Gaza e quindi altre morti di adolescenti palestinesi durante gli scontri di queste ultime settimane con i soldati israeliani a Gerusalemme Est e nel resto della Cisgiordania per la decisione di Israele di confiscare terra del “futuro” stato palestinese e costruire decine e decine di nuovi alloggi negli insediamenti ebraici, considerati illegali dalla comunità internazionale. Disappunto che si è trasformato in critica anche da parte dell'Amministrazione Obama. La Casa Bianca è di nuovo in rotta con il premier israeliano e i suoi falchi per la questione dell'ampliamento delle colonie che ha fatto fallire il tentativo del segretario di Stato Kerry di riaprire i negoziati di pace diretti. La situazione è difficile, complicata e i palestinesi si rendono conto che i falchi del governo israeliano stanno rendendo impossibile la nascita di uno Stato palestinese perché ne hanno compromesso la contiguità territoriale. Per questo la Svezia, proprio perché “già tardi” ha annunciato il riconoscimento dello Stato palestinese. Un annuncio storico che ha fatto andare su tutte le furie sia Naftali Bennet, il potente ministro dell'economia santo protettore dei coloni e il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che ha subito richiamato a Gerusalemme l'ambasciatore a Stoccolma, Yitzhak Bachman per consultazioni. Il neo presidente israeliano Reuven è molto preoccupato per lo sfilacciamento dei rapporti con il loro più forte alleato, gli Stati Uniti dove è nato Glick, l'invasato rabbino che con le sue incursioni proibite sulla Spianata potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso pieno di frustrazione dei giovani palestinesi. Domani Israele riaprirà la spianata per la preghiera del Venerdì ma solo a musulmani che hanno più di 50 anni.

La Stampa 31.10.14
Lizzie Doron
«Governo miope. Gli arabi non sono cittadini a metà»


Lizzie Doron è la scrittrice israeliana che ha vissuto a lungo nel quartiere di Silwan per raccontarne gli abitanti arabi. Che atmosfera si respira a Gerusalemme Est?
«Si vive in un limbo. Gli abitanti arabi sono una via di mezzo fra i palestinesi e gli israeliani. Hanno le carte di identità israeliane ma non possono avere il passaporto. Hanno pensioni, servizi sociali e sanità come tutti gli altri israeliani ma vivono in quartieri dove elettricità e luce sono garantite assai meno».
È questa la genesi delle proteste a cui assistiamo?
«La genesi è nel non aver voluto affrontare e risolvere i problemi dell’occupazione, che non è una questione concernente soprattutto la terra quanto invece le persone. Il problema, e la rabbia, nasce dalla situazione di incertezza che permea ogni attimo della vita degli abitanti di Silwan come dei altri quartieri arabi di Gerusalemme. Israele sta pagando il prezzo di aver chiuso gli occhi davanti a questa situazione, considerando i residenti arabi di Gerusalemme israeliani solamente a metà».
Cosa le dicono i suoi amici di Silwan in questi giorni?
«Sono stata a Gerusalemme per incontrarne alcuni, ci siamo dati appuntamento nella lobby di un hotel del centro. Sono arrivati e vedevo che erano in imbarazzo. Gli ho chiesto se temevano di causarmi problemi per il fatto di essere arabi e la risposta è stata: “La maggioranza dei dipendenti di questo hotel è di Silwan come noi e non vogliamo che in un momento come questo ci vedano seduti sui divani a prendere il caffè con israeliani”». [m. mo.]

La Stampa 31.10.14
La Svezia riconosce la Palestina come Stato, scoppia la crisi diplomatica con Israele

qui

La Stampa 31.10.14
Passata ’a nuttata, cosa resta del suo Teatro
A trent’anni dalla morte di Eduardo De Filippo, ecco l’eredità di un maestro del nostro tempo
di Masolino D’Amico


Cosa rimane di Eduardo trent’anni dopo la sua scomparsa? La risposta è, moltissimo. Le sue opere sono in stampa e si vendono; le registrazioni televisive dei suoi spettacoli, riprodotte prima in VHS e adesso in DVD, continuano a circolare. 
Interpreti di prim’ordine ripropongono regolarmente le sue commedie, chi nel segno della continuità (Carlo Giuffrè, il suo stesso figlio Luca) chi in quello della rilettura garbatamente adattata ai tempi nuovi (Toni Servillo e altri, tra cui il Marco Sciaccaluga di un recente, ammirevole Sindaco del rione Sanità). Le registrazioni curate dallo stesso Eduardo per la Rai-TV (con l’eccezione di una prima serie sciaguratamente distrutta dall’Ente) hanno consegnato alla posterità il documento di allestimenti in una veste molto vicina a quella per cui furono concepiti, il che smentisce il tradizionale assioma secondo il quale il teatro è scritto sull’acqua: anche se dell’attore, che fu immenso, nessuna pellicola può rendere il senso di comunione col pubblico. I famosi silenzi, le famose esitazioni di Eduardo, sempre dettati dal momento e dal clima che si era venuto a creare, qui non ci sono né ci potrebbero essere. Le registrazioni tuttavia sono preziose, sia perché spesso assai godibili in sé, sia come precedente col quale l’interprete moderno può confrontarsi, valutando se e come sia il caso di prenderne le distanze. Nella sua evoluzione Eduardo - l’Eduardo «serio» - da un realismo molto legato al momento passò all’esplorazione, talvolta con risvolti un po’ surreali, di temi più sottili, nascosti nel profondo della psiche umana. Non si può sradicare un capolavoro come Napoli milionaria! dalla città massacrata da quella guerra. Ma l’ambientazione letterale, per quanto gustosa, non è indispensabile ai due ancora più grandi capolavori dell’Eduardo «pirandelliano» - o meglio, postpirandelliano - vale a dire Le voci di dentro e Sabato, domenica e lunedì, due non-storie del non-detto, dove un avvenimento minuscolo (il sogno di un personaggio, il malumore di una brava casalinga) rivela ai membri di un gruppo familiare tensioni nascoste e odi repressi, con conseguenze che minacciano di diventare addirittura tragiche. E fuori dal suo tempo e buona in ogni contesto, non per nulla tradotta e replicata in tutto il mondo, è la materia di Filumena Marturano, col suo discorso sulla paternità che neanche l’odierna possibilità di risolverlo prosaicamente mediante il ricorso al DNA riuscirà mai a togliere dal repertorio. 
Non c’è dunque bisogno di sottolineare il valore di Eduardo. Il teatro queste cose le decide da sé. Finché i lavori «chiamano», impresari e interpreti li mettono in scena. Quando ciò smette di accadere, passano nelle collezioni dei classici e sono offerti solo alla lettura. Qui importa piuttosto sottolineare il fatto, primo, che ciò avvenga - ossia, che le pièces siano allestite - e secondo, che ciò avvenga, e con tanta frequenza, oggi, ossia in un’epoca sempre più dominata dal predominio dell’immagine sulla parola, e del medium (cinema, Tv, web) sul contatto con la persona in carne e ossa. Se esiste tanta gente che, magari dopo aver fruito delle predette registrazioni, compra un biglietto per recarsi ad ascoltare il dettato di quei testi pronunciato da altri, vuol dire che non è ancora morto quello che una volta era considerato un bisogno primario: avere davanti un individuo che narra. Spesso sentiamo anche rimpiangere la decadenza della nostra lingua. Ma esiste, ancora, tanta gente che a quanto pare apprezza il suono di un parlato vivo, tanto più vivo quando non è koinè più o meno artificiale, ma schiettezza. Non sarà il nostro dialetto (come riduttivamente una volta lo si chiamava), ma la sua autorità ci mette in contatto con un passato nel quale non possiamo non riconoscerci. La nostra (il napoletano, NdR), disse una volta Luca De Filippo, è una lingua di cui non ci dobbiamo vergognare in Europa. Dove Eduardo (peraltro anche in inglese, io ricordo bene Laurence Olivier nella parte di nonno Antonio, «creata» dall’impagabile Enzo Petito), non ha mai smesso di commuovere, divertire e fare riflettere.

Corriere 31.10.14
Edoardo mio padre
Luca tra ricordi e nostalgia
«Sapeva osservare l’anima»
colloquio con Maurizio Porro


Siamo orfani inconsolabili di Eduardo da trent’anni giusti giusti e il teatro, senza far retorica, da allora ha un posto vuoto. Per il lancio della collana di dvd che raccoglie tutte le commedie di De Filippo riprese dalla Rai, Luca, il figlio d’arte di una famiglia d’arte, ci regala un ricordo del padre. Ricorrenza di onore e gloria con serate, studi, convegni in università, libri (uno nuovo di Moscati), memorie, un bel ciclo su Rai5, l’unica rete nel cui vocabolario c’è la parola Teatro e quel magnifico Le voci di dentro , bestseller di Toni Servillo di nuovo a Milano.
«Mi fa piacere. L’interessamento vuol dire sensibilità e voglia di approfondire. L’attualità di Eduardo sta non nell’essere veggente ma fine osservatore dell’animo umano e della società: l’uomo non cambia mai».
Lei ha iniziato a lavorare con lui a 8 anni, il Peppeniello di «Miseria e nobiltà». Come vedeva il suo lavoro?
«Un lavoro di pazienza, ma con una forte intelligenza. Ricordo proprio all’Odeon di Milano con la commedia di Scarpetta, la prima ripresa diretta Rai di un evento dal vivo, il 30 dicembre ’55. Lui amava Milano ma per alcuni anni non ci andò perché diceva che aveva quasi tutti i teatri con sale e camerini sotto terra, compreso il Manzoni dove fece l’ultima apparizione nel 1980».
Strehler allestì una memorabile «Grande magìa»: che rapporto aveva con suo padre?
«Una sera al Lirico facevo un recital, lo invitai a partecipare e lui accettò e disse una poesia di mio padre, Palcoscenici . Ho un ricordo magnifico: dietro le quinte mi abbracciò, si mise a piangere. Pare che Strehler si nascondesse a veder le prove al Piccolo di Ogni anno punto e a capo con Parenti e la Colli».
Per chi aveva riconoscenza suo padre?
«Eduardo, Peppino e Titina dicevano sempre che il definitivo lancio della compagnia lo dovevano al critico del Corriere , Renato Simoni, che aveva scritto benissimo di loro».
E del suo repertorio cosa preferiva?
«Credo che Napoli milionaria fosse tra i suoi lavori più amati. Descrive il disfacimento morale in quel momento conseguenza della guerra ma che da allora si è incancrenito. Oggi lo viviamo appieno. Del resto la divisione tra Cantate dei giorni pari e dispari sta proprio qui: la diga, l’irrimediabile confine che c’è tra prima e dopo la Seconda guerra mondiale».
Quali furono i suoi amici di palcoscenico?
«Ho detto di Strehler, anche se purtroppo non ha visto La grande magia con l’amico Franco Parenti, che recitò Uomo e galantuomo , per cui conobbe poi e divenne amico di Andrée Shammah, sostenendone la causa e il teatro dove andrò a Natale».
Col cinema ci fu un rapporto di odio amore, interruptus.
«Ci sono titoli belli e riusciti, derivazioni del palcoscenico come Non ti pago e Napoli milionaria , altri venuti male come Spara forte più forte non capisco con Mastroianni, da Le voci di dentro . Per lui il cinema era qualcosa di utile ma non necessario come il teatro, molti film li aveva fatti solo per comprare e restaurare il teatro san Ferdinando a Napoli».
Tutti i grandi vengono dal varietà, dall’avanspettacolo.
«Per Eduardo e la famiglia è verissimo. Al varietà divenne amico e partner di Milly e Ogni anno punto e capo era il riassunto di questo felice periodo di gioventù in cui scriveva sketch per la rivista. Così nacque, col secondo atto, Natale in casa Cupiello , cui poi aggiunse il primo e il terzo in forma di commedia».
Com’erano i rapporti con Totò?
«Magnifici e profondi per merito del varietà che avevano frequentato insieme in lunghe tournée “scavalcamontagne”».
Suo padre aveva un ingegno multiforme: ma c’è uno stile?
«C’è ma è abbastanza unico, nel senso che ogni commedia ha una sua particolarità: riconosci che è lui, ma all’interno ciascuna ha un suo modo d’essere. Ciò che le unisce poi è che alla fine nessuna è davvero realistica«.
Eppure in «Sabato, domenica e lunedì» si cucinava il ragù in scena e al Nuovo si sentiva il profumo entrando.
«Con quel testo si divertì enormemente perché chiese alla sua sarta, Evole, ex ballerina che aveva sfilato orgogliosa con le Bluebell inglesi, di cuocere ogni sera le cipolle perché nel secondo atto si mangiavano le zite al ragù: una disperazione per gli attori che cenano dopo teatro».
Mai visto suo padre depresso, non motivato?
«Non ho visto una sola volta Eduardo senza voglia di andare in scena, anche col mal di denti, sempre con un senso di dovere e rispetto. Anche quando aveva paura, come con Filumena Marturano , anche quando alcuni lavori non andarono bene, tanto che alcuni titoli devono ancora trovare una loro collocazione storica».
Oggi c’è richiesta dei suoi testi, non solo per il trentennale.
«C’è richiesta e anche dall’estero, pur sapendo che il lavoro della traduzione è difficile e arduo, ma a Parigi hanno inserito alla Comédie Francaise La grande magìa con regista inglese e attori francesi, a Londra Judy Dench ha recitato Filumena. Con l’America il rapporto è più difficile, speriamo che in futuro si ravvedano».
Lei sta portando in giro «Sogno di una notte di mezza sbornia»: la prossima mossa?
«Ho in mente due titoli ma mi concedo qualche mese per decidere: La paura numero uno e Non ti pago ! . La paura di cui parla mio padre è quella della guerra. Così nella storia si decide, per placare la paura che blocca la vita quotidiana di una famiglia, di far scoppiare una finta guerra con una finta trasmissione radio: insomma, si parlava già della realtà virtuale, attualissima».

La Stampa 31.10.14
Castoriadis, il ribelle che ispirò i liberali francesi
Filosofo radicale, psicanalista, economista: una biografia in Francia rivaluta un pensatore influente e misconosciuto
di Massimiliano Panarari


Cornélius Castoriadis, chi era costui? A riscoprire una delle più interessanti (e misconosciute) figure di intellettuale del secondo Novecento (anche se lui per primo rigettava l’etichetta di intellò) ci pensa la sua prima biografia appena uscita in Francia. E anche il fatto che sia stato necessario attendere tanto tempo, persino nel Paese dove l’originale (e per certi tratti visionario) filosofo dell’«immaginario sociale» e del «fare pensante» ha vissuto e scritto, prima dell’uscita di un volume che ne ricostruisse integralmente esistenza e pensiero molto ci dice della sua «irregolarità».
A colmare tale lacuna, e a raccontare quanto, al di là delle apparenze, questo eccentrico pensatore di origini greche sia stato importante per la scena culturale transalpina, ci pensa nel suo Castoriadis. Une vie (La Découverte, pp. 532, euro 24) lo storico delle idee François Dosse.
Castoriadis (1922-1997) fu filosofo e psicanalista (disciplina che esercitò anche professionalmente), lavorò come economista al segretariato internazionale dell’Ocse ed ebbe (alla fine) riconoscimenti accademici rilevanti (negli anni Ottanta divenne directeur d’études all’École des Hautes Études di Parigi), ricevendo gli apprezzamenti di protagonisti importanti del mondo scena culturale come Edgar Morin (che lo definiva un «titano dello spirito») e Pierre Vidal-Naquet (che lo considerava un «genio»). Ma rimase sempre marginale perché troppo «fuori dalle righe»: quindi una sorta di eminenza grigia (o, meglio, rossissima) della sinistra eterodossa, la cui influenza fu sotterranea e carsica, e assai meno evidente di quella dei filosofi-star della French Theory (da Foucault a Derrida, passando per Lacan). E che, però, si rivelò durevole e, soprattutto, trasversale, arrivando a toccare intellettuali politicamente molto distanti dalla matrice delle sue concezioni. Che era quella del socialismo di sinistra novecentesco e del filone dell’autogestione e delle repubbliche dei consigli, ovvero quel peculiare intreccio di marxismo libertario e anarchismo che aveva messo al centro della propria teoria e (difficoltosissima) prassi una certa nozione di autonomia, nella quale il pensiero di Castoriadis troverà il proprio fulcro. Ed era precisamente quella che gli attirò appunto l’interesse, a partire dagli anni Ottanta, della pattuglia di intellettuali liberali (e social-liberali) che avrebbero riorientato la battaglia delle idee in Francia, da François Furet a Pierre Nora, da Bernard Manin a Marcel Gauchet, da Jacques Julliard a Luc Ferry e Alain Renaut. E, in primis, del filosofo politico Claude Lefort che ebbe nel corso degli anni una «conversione» liberaleggiante e con cui Castoriadis aveva condiviso una giovanile militanza trotzkista e fondato, nel 1947, la rivista Socialisme ou barbarie, alla quale questo libro attribuisce una rilevanza addirittura superiore, nella preparazione del clima intellettuale del Sessantotto, a quella del situazionismo.
Il testo di Dosse si incarica innanzitutto di ricostruire le ragioni di questo mancato riconoscimento pubblico in seno a una nazione che ai suoi intellettuali «impegnati» ha sempre eretto monumenti (trasformandoli pure in merce di esportazione). E di svelare il «mistero» di un pensatore che, pur essendosi collocato su prospettive politiche assai lontane, entrò tuttavia in sintonia profonda e venne riconosciuto come riferimento a cui guardare proprio dagli artefici della revanche del liberalismo. La ragione – secondo lo studioso – consiste nella ricollocazione al centro del dibattito (e delle discipline) di quella filosofia politica (seppur, in qualche modo, rivisitata e contaminata) che il «Sessantotto pensiero» e il post-strutturalismo avevano emarginato. Nonché, la critica serrata e intransigente (da sinistra) di Castoriadis al socialismo reale e al totalitarismo comunista, che si affiancò a quella dei nouveaux philosophes e della deuxième gauche e circolò moltissimo tra gli esponenti della rinnovata cultura politica liberale, cementando, a suo modo, una «comunità di pensiero». D’altronde, la stessa idea di rivoluzione, così centrale nelle sue teorizzazioni, nulla ha a che fare con la violenza politica, ma costituisce l’accelerazione di quel progetto di «auto-trasformazione esplicita» delle istituzioni da parte della società (e, dunque, in nome dell’autonomia) che, a ben guardare e mutatis mutandis, non poteva dispiacere al gruppo di intellettuali che avrebbe contribuito all’affermazione del neoliberalismo in Francia.
Sliding doors, per così dire. Ben differenti da quelle, molto solide e tanto tipiche di un certo gusto architettonico, dell’appartamento di Castoriadis a rue de l’Alboni, nel XVI arrondissement della capitale, che, a inizio anni Settanta, Bernardo Bertolucci trasformò in set ambientandovi il suo celeberrimo Ultimo tango a Parigi.

Repubblica 31.10.14
L’ultima ferita della Grande guerra “L’Italia riabiliti i militari fucilati”
Venivano da zone di confine, erano invisi ai superiori: a centinaia furono
giustiziati per piccole disobbedienze e dopo processi sommari
L’appello nel centenario del conflitto: “Siamo l’unico Paese a non averli perdonati”
di Paolo Rumiz


REINTEGRO a pieno titolo dei fucilati del ‘15-’18 nella memoria nazionale. Vittime come gli altri. Soldati che hanno sofferto come gli altri. Manca questo riconoscimento perché possa dirsi completa in Europa la partecipazione dell’Italia alle onoranze ai Caduti della Grande guerra. I principali Paesi belligeranti — Francia, Germania, Inghilterra — ci hanno pensato da tempo, con atti politici, interventi presidenziali, monumenti, e l’aggiornamento delle liste dei Caduti. Quasi ovunque i condannati sono stati tolti dal ghetto della vergogna e della rimozione. Manca il nostro Paese, quello che ha fatto più largo uso della giustizia sommaria: 750 fucilati con processo, 200 colpiti da decimazione per estrazione a sorte, e un numero incalcolabile di soldati uccisi per le vie brevi dai loro ufficiali o dai carabinieri per codardia, ribellione o episodi di pazzia.
«Se non ora, quando?», si chiede il sostituto procuratore di Padova Sergio Dini, ex magistrato militare, che ha già chiamato in causa il ministro della difesa Pinotti. «Assistendo a luglio al concerto di Redipuglia, dove il maestro Muti ha radunato orchestrali di tutti i Paesi belligeranti, il presidente Napolitano ha fatto un passo importante di riconciliazione con l’ex nemico. Ora manca solo la riconciliazione con noi stessi, l’abbraccio ai ragazzi della mala morte. Le Forze armate dovrebbero capirlo, a meno che non vogliano negare che quelle esecuzioni — dal loro punto di vista — siano servite a qualcosa. Se i fucilati ebbero una funzione, essa sia riconosciuta. Non farlo sarebbe accanimento. Anche perché si fucilarono solo soldati semplici, povera gente. Vogliamo portarci dietro ancora questo anacronismo di classe?».
E dire che l’Italia è stata uno dei primi Paesi a porre il problema con film ( Uomini contro , di Francesco Rosi), con libri e ricerche storiografiche. Ed è stato anche il primo in Europa a erigere un monumento ai fucilati. È accaduto diciotto anni fa a Cercivento, sui monti della Carnia, sul luogo di una delle più ingiuste esecuzioni, il pra dai fusilâz, un prato che per decenni i valligiani rifiutarono di falciare in segno di protesta. Una memoria tenace, passata di bocca in bocca, che ha dato vita a un corpus di memoria orale ancora vivissimo e al quale nel ‘96 il sindaco Edimiro Della Pietra, mettendosi contro le autorità militari e rischiando una denuncia di apologia di reato, ha voluto dar forma di monumento.
Quella di Cercivento è una storia che riassume le altre. È il giugno del ‘16. Gli austriaci stanno sfondando su Vicenza con la Strafexpedition. Nella zona del Monte Coglians c’è il battaglione alpini Tolmezzo, considerato infido dagli ufficiali «forestieri» per via dei cognomi mezzi tedeschi dei carnici arruolati e dei tanti di essi che hanno lavorato da emigranti in terra d’Austria. Hanno una perfetta conoscenza del terreno, ma gli alti comandi non si fidano a sfruttarla e insistono a ordinare azioni suicide. Quando viene deciso un attacco alle rocce della cima Cellon in pieno giorno e senza supporto di artiglieria, alcuni soldati suggeriscono di compiere l’assalto col favore della notte. È quanto basta perché il comandante, un napoletano di nome Armando Ciofi, coperto dal tenente generale Michele Salazar, comandante della 26ª divisione, gridi alla «rivolta in faccia al nemico» e ordini la corte marziale.
Il processo si svolge di notte, in una cornice lugubre, nella chiesa che il prete di Cercivento, terrorizzato, è obbligato a desacralizzare. Sul processo incombono le circolari Cadorna, che chiedono «severa repressione», diffidano da sentenze che si discostino «dalle richieste dell’accusa» e ricordano il «sacro potere » degli ufficiali di passare subito per le armi «recalcitranti e vigliacchi». Gli accusati sono decine, e ciascuno ha nove minuti per l’autodifesa.
Un’ora prima dell’alba, la sentenza. Quattro condanne alla fucilazione. Tutti carnici: Giambattista Corradazzi, Silvio Gaetano Ortis, Basilio Matiz e Angelo Massaro, emigrante in Germania che ha scelto di rientrare «per servire la patria». Mentre lo portano via grida: «Ecco il ringraziamento per quanto abbiamo fatto». Il prete, don Zuliani, confessa i morituri. È sconvolto, propone inutilmente di sostituirsi ai soldati davanti al plotone. Dopo, non vorrà più rientrare nella chiesa «maledetta » e diverrà balbuziente a vita. La prima scarica uccide tre condannati, solo Matiz è ferito e si contorce urlando. Lo rimettono sulla sedia. Nuova scarica e non basta ancora. Perché sia finita ci vogliono tre colpi di pistola alla testa.
La gente assiste senza parole. Solo un vecchio grida: «Vigliacchi di italiani, siete venuti a portare guerra! Con gli austriaci abbiamo sempre mangiato, e voi venite ad ammazzarci i figli!». L’ufficiale risponde secco: «Vecchio taci, che ce n’è anche per te». L’intero reparto sarà trasferito per punizione sull’altopiano di Asiago e lassù, un po’ di tempo dopo, il comandante Ciofi sarà fatto secco in zona non battuta da fuoco nemico, quasi certamente per vendetta. Settant’anni dopo, il nipote di Gaetano Ortis, un militare di carriera, chiederà la revisione del processo, ma il tribunale militare di sorveglianza di Roma risponderà con una beffa che resterà nella storia: la domanda non può essere accettata «perché non presentata dall’interessato».
Pure Caporetto sarà pagata da soldati semplici. L’allora vescovo di Treviso, Longhin: «Se i tedeschi saranno come questi nostri sciagurati italiani, cosa ci resterà? Qui si fucila senza pietà. Preghiamo». E intanto nessuno toccherà i veri responsabili della disfatta, i generali Capello o Badoglio. Il secondo sarà addirittura promosso. Diversa la sorte di Andrea Graziani, noto per avere fucilato uno che l’aveva guardato con la cicca in bocca. A guerra finita sarà trovato morto lungo la ferrovia dopo il passaggio del suo treno. Ma molto più a lungo si trascinerà nella memoria nazionale il senso di un’irrisolta ingiustizia.

Repubblica 31.10.14
Se Leopardi al cinema diventa un supereroe
di Valerio Magrelli


Il successo di Mario Martone sta nell’aver ridato vita a un archetipo romantico trovandolo, però, dentro i compiti in classe dei ragazzi

LA NOTIZIA è di quelle da non credersi: Il giovane favoloso supera i 3 milioni di euro al box office ed è già diventato il film italiano più visto della stagione. Se all’inizio si era parlato di un possibile duello con il Pasolini di Abel Ferrara, adesso le sue ambizioni sono cresciute. Altro che scontro fra poeti.
LEOPARDI mira assai più in alto, fino a insidiare l’Empireo dei Supereroi. Siamo di fronte a cifre da blockbuster, che consentono all’opera di Martone di confrontarsi con corazzate internazionali. Basti dire che ieri il numero dei suoi spettatori è stato superiore a quello di chi ha seguito i Guardiani della galassia , basato sui personaggi della Marvel Comics (che fra l’altro poteva contare su un numero di copie più che doppio, oltre allo sfruttamento di una sola settimana).
Come non stupirsi, scoprendo che Rocket, procione geneticamente modificato, Groot, alieno simile a un albero umanoide, e Groot, creatura rinata da un ramoscello e tenuta in un vasetto, si scontrano contro l’autore della Ginestra? Sono bastate le prime due settimane di programmazione perché la pellicola, interpretata da un gran- de Elio Germano, superasse il mezzo milione di spettatori. Registrando una media sala che è sempre stata e continua ad essere la più alta dal giorno di uscita, Leopardi mostra un trend di crescita che ha visto aumentare gli incassi del secondo week-end rispetto a quelli del primo, segno di un clamoroso effetto tam-tam. Fra chi? E qui arriviamo alla seconda sorpresa: soprattutto fra i giovani.
Aneddoto: trascinato al cinema da mia figlia ventiduenne, sono rimasto stupefatto nel trovare solo due posti in prima fila, circondato da un pubblico undertrenta. Non c’è molto da aggiungere: sbarazzatosi di Pasolini, liberatosi dei guardiani di ogni galassia possibile, Il giovane favoloso aspetta ormai di battersi giusto con L’uomo ragno.
L’accostamento, si badi, non è casuale, e chiama in causa le ragioni di un simile, benemerito successo (perché è superfluo dire quanto dobbiamo esultare per l’arrivo di un paladino italiano e poeta). Infatti, Spiderman è “uno scolaro attento e studioso, ma anche timido ed impacciato” (Wikipedia dixit), trasforma- to in imbattibile paladino della giustizia dalla puntura di un animale velenoso. E chi è Leopardi, se non un tranquillo bambino che diventa gobbo per la sua dannosissima passione della lettura? La forza nel primo, l’intelligenza nell’altro, appaiono entrambi prodotti di una mutazione e insieme di un dolore. Inutile spiegare quanto la malinconia della New York a fumetti o ripresa nei film, somigli a quella Recanati illustrata da Martone. Il punto focale, tuttavia, sta altrove, ossia nel celibato cui si votano questi due autentici cavalieri templari. Né cambia molto il fatto che la ragione dipenda ora dalla necessità dell’anonimato, ora dalla calamità della bruttezza. Ciò che più conta è l’atroce solitudine, sentimentale e erotica, di entrambi. Solitudine che, del resto, fa tutt’uno con la loro rivolta verso il conformismo della società. Nel suo feroce odio per l’ipocrisia cattolica e progressista, Leopardi (peraltro esperto nel tradurre La guerra dei topi e delle rane) va incontro all’Uomo Ragno e alle sue battaglie in difesa dei deboli, degli oppressi, degli irregolari. Ora, però, bisogna svelare l’arcano di questa alquanto bizzarra congiunzione. Per farlo, occorre convocare un terzo personaggio, avvicinando il poeta deforme al Gobbo di Notre Dame. Ciò che li unisce (e unisce Spiderman al Cavaliere della Valle Solitaria, a tanti vendicatori senza donna, a Superman o a Batman, per non dire del Corvo, addirittura tratto da E. A. Poe), sono elementi comuni a ogni eroe romantico, primi fra tutti proprio quelli esaltati da Victor Hugo.
In breve, Leopardi è semplicemente L’uomo che ride ( altro romanzo di Hugo), il bambino prodigio, nobile e sensibilissimo, rapito dagli zingari e sfigurato, per diventare un fenomeno da baraccone. Vogliamo aggiungere Elephant man? Il gioco è chiaro. Il meritato successo di Martone sta nell’aver ridato vita a un secolare archetipo romantico, trovandolo, però, dove nessuno l’aveva mai cercato: dentro i compiti in classe di ragazzi i quali, rifiutando un Paese prostrato, sperano nella voce di uno storpio favoloso e ribelle.

Corriere 31.10.14
Il dj con il grembiule che odia Masterchef
Da bambino voleva fare il prof di Economia poi è partito per un tour nelle cucine d’Italia
di Alessandra Dal Monte


Chi è il «barbuto» celebrato dal Nyt «Un barbuto e chiassoso dj che è anche uno dei più creativi attivisti del cibo in Italia». La definizione è del New York Times . Il dj in questione è Daniele De Michele alias Donpasta, 40 anni, da venti in giro per il mondo a mixare musica e cultura (gastronomica). Durante i suoi spettacoli suona la consolle e poi cucina. Oppure spiega perché un piatto corrisponde a una certa melodia. Tutto è cominciato per sbaglio a Parigi, quando Daniele era uno studente Erasmus. Per mantenersi faceva il dj in un locale senegalese. Lo chiamavano tutti «don» perché era italiano, e alla fine della performance gli chiedevano un piatto di pasta.
Così è nato il nomignolo, così è nato il binomio musica-cucina. Che negli anni è diventato il suo lavoro a tempo pieno (da bambino sognava di fare il prof di Economia): prima gli spettacoli «culinarmusicali» in Europa, poi il libro «Food sound system» (Kowalski, 2006), 30 ricette mediterranee collegate a una canzone, subito diventato un tour mondiale. E nel 2013 è arrivato «La parmigiana e la rivoluzione» (Stampa alternativa): un omaggio alla cucina popolare ispirato a nonna Chiarina, che le melanzane le comprava solo in agosto, quando sono di stagione. Ora sta per uscire «Artusi remix» (Mondadori Electa, dal 4 novembre), un viaggio di oltre un anno nell’Italia delle campagne, delle periferie e dei porti, ospite a casa di famiglie numerose, di signore anziane, di coppie giovani, di genitori single. Con il beneplacito e la collaborazione di Casa Artusi, il centro di cultura dedicato al grande «tutore» della cucina italiana. «Ho raccolto 250 ricette popolari. Praticamente un censimento della cucina domestica», spiega Donpasta. E cosa si scopre, a girare tra i fornelli degli italiani nel 2014? «Che la gente comune sa cucinare benissimo e ha una sapienza nel costruirsi un’alimentazione bilanciata sconosciuta a qualsiasi altro popolo al mondo. Per questo ce l’ho con Masterchef e con l’alta cucina: fanno credere alle persone che in Italia per saper cucinare si debba essere dei tecnici. Non è vero: gli italiani sanno cucinare perché glielo hanno insegnato le nonne».
E così «Artusi remix» diventerà anche una serie web in 20 puntate, prodotta da Treccani e pubblicata da Corriere Tv: titolo, «Nonne d’Italia (in cucina)». «Una signora della periferia romana — ricorda Daniele — ha preparato come se niente fosse una pasta fatta in casa con maggiorana e olio a crudo. Quale cuoco si metterebbe in gioco con un piatto così povero e così complesso?». Mentre racconta, il dj si infervora. E diventa l’attivista celebrato dal New York Times : «La cucina italiana è tanto amata nel mondo perché chi la assaggia capisce subito che dietro c’è un patrimonio. Cucinare per gli italiani è un atto di generosità, un dono per il prossimo». Una conclusione a cui Donpasta è arrivato dopo aver visto all’opera tutto il Paese. Oltre che nel libro, le ricette sono state raccolte anche sul sito ( donpasta.it ): dal riso in cagnùn lombardo alle purpette e ricotta calabresi, dentro c’è l’Italia. «Artusi remix» verrà presentato il 4 novembre al Cinema Palazzo di Roma con chef Rubio e la band Il muro del canto. La musica non poteva mancare. L’attivista del cibo più creativo d’Italia, in fondo, è pur sempre un dj.

Corriere 31.10.14
Viaggio nei segreti delle nonne cuoche
Venti donne venti ricette
Donpasta quarantenne performer barese e la serie web online su Corriere.it dall’11 novembre
di Angela Frenda


A Roma l’incontro con Marisa e Mirella di Testaccio. Ospiti di un centro anziani hanno cucinato una perfetta coda alla vaccinara. A Reggio Emilia Marinetta, che impasta lo gnocco fritto. In Irpinia Ornella, che per tutta la sua vita ha fatto il pane a Montemiletto. Ancora nel suo grande forno di famiglia, tra le galline che gironzolano. A Bari Vecchia Carmela, una delle donne che nel borgo antico producono orecchiette.
Sono alcune delle protagoniste della serie web «Nonne d’Italia (in cucina)». Realizzata dal 40enne barese Daniele De Michele, in arte Donpasta, in parallelo con il suo libro Artusi remix (Mondadori). Il progetto (regia di Antonello Carbone, prodotto da Treccani, online dall’11 novembre su Corriere.it con La Cucina del Corriere ) è semplice: venti donne per venti regioni. Venti ricette. Venti storie. Un unico grande racconto popolare di quel che resta dei nostri ricordi gastronomici. Che a volte appaiono così stridenti con un certo modo di fare e intendere la cucina moderna. Cosa c’entra, ad esempio, la tecnica sifonata di Adrià con la sfoglia di Rosa? Secondo il grande chef italiano Massimo Bottura, molto... se si sa interpretare. Se come lui, ad esempio, riesci a fare una pasta e fagioli tenendo insieme Adrià, Ducasse e la propria mamma. Ma è da lì, ammette anche il cuoco stellato, che parte tutto.
Ne sa qualcosa Jessica Theroux. Quando ha cominciato il suo viaggio non sapeva dove l’avrebbe portata. Ma sapeva che sarebbe andata in Italia. «La nazione che più di tante altre conserva un forte rapporto con la tradizione locale gastronomica. Grazie a loro, alle nonne. La generazione che custodisce i segreti del nostro cibo. Come mia nonna Honey...». È nato così un libro-reportage, vincitore del prestigioso James Beard Award, dal titolo: Cooking with italian grandmothers (Cucinare con le nonne italiane, edito da Welcome Enterprises ). Dodici mesi trascorsi da Jessica, cuoca californiana della scuola di Alice Waters, nelle regioni italiane a raccogliere le testimonianze di queste donne, i loro ricordi, le loro esperienze in cucina. In pratica la loro vita.
E poi c’è l’aspetto della memoria. Anche chi scrive è quasi ossessionato all’idea di poter perdere gli appunti della brioche della nonna... Perché in quelle ricette c’è la storia di una famiglia. Un tema così sentito che il fotografo toscano Gabriele Galimberti ha realizzato da poco un grosso lavoro per la factory svizzera Riverboom , la serie fotografica Delicatessen with love , 34 immagini che sono un omaggio a 34 nonne (e ai loro piatti simbolo) in giro per il mondo: dai ravioli di Marisa al pollo con couscous dell’algerina Lebgaa. Nonne e cucina come binomio indissolubile di qualità e tradizione.
Non a caso a Berlino ha da poco aperto Mother’s mother , un supper club dove una volta ogni due, tre settimane viene invitato un cuoco internazionale con la missione di cucinare il suo «piatto della nonna». Si mette ai fornelli mentre spiega la ricetta e la storia che nasconde la pietanza. I commensali sono chiamati su invito e alla fine della cena lasciano un’offerta, «che poi è il compenso per il servizio del cuoco». Il progetto ha già visto sfilare una trentina di cuochi. Dal napoletano Achille Farese, che ha riproposto la parmigiana di melanzane al cioccolato di sua zia, a quello indonesiano (con il piatto a base di maiale alle spezie con latte di cocco).
I video di Donpasta sono invece un viaggio artusiano nella cucina italiana e in quel che rimane delle sue origini. Attraverso i volti e le voci delle nonne d’Italia. Un racconto che offre delle sorprese inaspettate: il baccalà, ad esempio, è una costante: ci sono ben 223 ricette. Così come la pasta a a mano (tortellini e cappelletti su tutto). Classici da replicare con amore. E senza paura.