sabato 23 febbraio 2013

l’Unità 23.2.13
«Siamo noi il futuro dell’Italia»
Bersani chiude a Roma: non serve il voto di protesta, solo noi possiamo salvare l’Italia dal disastro
Il leader Pd chiude la campagna elettorale promettendo un «governo da combattimento»
di Simone Collini


ROMA Per il bene dell’Italia, per un’Italia giusta. Con un governo «da combattimento». Pier Luigi Bersani lancia l’ultimo appello a votare Pd senza annunci a sorpresa o proposte a effetto, ma ribadendo i due concetti su cui ha costruito tutta la campagna elettorale: se si vuole allontanare definitivamente il Paese dal baratro verso cui l’aveva portato la destra, se si vogliono raggiungere gli obiettivi di crescita, sviluppo, maggiore equità che non è stato possibile ottenere in quest’ultimo anno, se si vuole chiudere definitivamente col ventennio berlusconiano e leghista, non servono voti di protesta ma una netta vittoria del centrosinistra sia alla Camera che al Senato.
Il leader del Pd passa l’ultima giornata di campagna elettorale a Roma, incontrando la mattina i lavoratori dell’Alenia, azienda del settore aerospaziale per il 33% di proprietà di Finmeccanica e per il 66% della francese Thales, parlando dell’eccellenza italiana, di come rilanciare l’occupazine, e poi nel pomeriggio all’Ambra Jovinelli a ringraziare e salutare volontari, militanti, simpatizzanti che in queste settimane si sono dati da fare col volantinaggio. Due appuntamenti simbolici, per la centralità che Bersani vuole dare al lavoro in caso di vittoria e per l’importanza che dà a chi si impegna gratuitamente per il successo del centrosinistra («è la nostra bomba atomica, che gli altri non hanno») ma anche perché con queste due iniziative si chiudono due cerchi. Bersani ha fatto partire proprio dall’Ambra Jovinelli, nel 2009, la sua campagna per conquistare la segreteria del Pd e, da un altro luogo simbolo dell’eccellenza italiana come il Cern, insieme a lavoratori e ricercatori, l’ottobre scorso, la campagna per le primarie per la premiership del centrosinistra.
PD UNICA ALTERNATIVA AL VIRUS
Ora Bersani ha davanti a sé l’ultimo traguardo, quello più importante, Palazzo Chigi. L’avversario da battere è sempre Silvio Berlusconi, ma ormai è chiaro che non c’è solo la destra a poter negare una netta vittoria della coalizione dei progressisti, a poter impedire che si chiuda definitivamente con quello che Bersani definisce il «virus» del berlusconismo che si è diffuso in questi ultimo vent’anni.
Non a caso in questi ultimi giorni il leader del Pd ha messo nel mirino anche Beppe Grillo. «A chi ingrossa le fila di questo messaggio di Grillo, da diverse direzioni, dico che io capisco benissimo chi è arrabbiato e siamo arrabbiati anche noi. Ma non è questo il punto. Il punto è dove vogliamo portarlo questo disagio e questa protesta? Se si va nella direzione di chi dice fuori dall’euro, non paghiamo i debiti, facciamo la fine della Grecia».
Però non è solo nel merito che sono pericolose le uscite del leader del Movimento 5 Stelle. È anche il metodo del comico genovese che preoccupa e indigna Bersani: «Qui c’è uno che parla dal tabernacolo e comanda. Ma noi dobbiamo pensare ai nostri figli, a che democrazia diamo a questo Paese. «È morta della gente per avere la democrazia, non si può accettare l’uomo solo al comando».
Davanti ai cancelli dell’Alenia, partecipando alle trasmissioni televisive, incontrando militanti e simpatizzanti, Bersani ci tiene a ricordare che lui è «figlio di un meccanico», che un miliardario come Grillo non è diverso da uno come Berlusconi, che abbiamo già visto quali danni può provocare al sistema politico e alla tenuta del Paese il modello dell’«uomo solo al comando». «Ora tocca al Pd costruire l’alternativa a questi 20 anni», dice Bersani riconoscendo lui per primo che non sarà facile raggiungere l’obiettivo e voltare pagina. «Non è che il giorno dopo è scomparso il contagio e gli effetti di Berlusconi e della Lega. Smacchiare dice facendo riferimento al tormentone del giaguaro è un’operazione lunga, non si smacchia in un giorno solo». E all’Ambra Jovinelli iniziano a spuntare spillette con la scritta «Anche io smacchio il giaguaro», mentre la prossima partita dovrebbe essere con il verbo al passato.
UN GOVERNO DA COMBATTIMENTO
Il leader del Pd è infatti certo della vittoria. È fiducioso, dice, che nell’elettorato farà breccia il messaggio che soltanto il centrosinistra può garantire un futuro a questo Paese, che ci sarà una ripresa economica e una riscossa morale. «Le energie civiche e morali ci sono», dice. «Il berlusconismo le ha stremate, ha puntato sul peggio, ma c’è anche il meglio e noi punteremo sul meglio».
L’ultimo avversario da battere è il senso di sfiducia e anche di rabbia che serpeggia pure in fette di elettorato che in passato hanno votato per centrosinistra. Bersani lo sa e infatti assicura che se l’esito elettorale sarà positivo poi darà vita a «un governo di combattimento», perché un cambiamento, e profondo, ci vuole. Ma solo il Pd, è il tasto su cui batte con insistenza, può farlo.
E sostegno al centrosinistra viene espresso anche da oltreconfine. Ad auspicare una vittoria dell’alleanza Pd-Sel ci sono i leader dei principali partiti progressisti europei, «Tutta la sinistra europea confida nel tuo trionfo», gli scrive il segretario dei socialisti spagnoli Rubalcaba. «Con Bersani l’Italia ha un buon candidato per proseguire il corso delle riforme, stimolare la crescita economica e lottare contro la crescente disoccupazione», dice il presidente dell’europarlamento Martin Schulz. E fanno il tifo per il Pd anche i socialisti francesi. Perché anche all’estero è chiaro che se lunedì sera non ci sarà un chiaro vincitore e un quadro di governabilità in Italia, a correre dei rischi sarà anche il futuro dell’Europa.

Repubblica 23.2.13
Bersani lancia la sfida finale “Ora la partita è tra noi e Grillo. Pd al governo per cambiare tutto”
Ma Fassina ammette: errore lasciare piazza San Giovanni ai 5 Stelle
di Goffredo De Marchis


ROMA CONTRO lo tsunami c’è solo l’argine del Pd. Lo deve aver capito anche Nanni Moretti che sale, a sorpresa, sul palco dell’Ambra Jovinelli per il comizio finale e trasforma lo schiaffo dei Girotondi in una carezza: «Io voto Pd. Nell’Italia del 2013 non si possono mettere sullo stesso piano destra e sinistra». Come fa Grillo. L’abbraccio caloroso con Bersani suggella la pace tra i delusi del centrosinistra e i dirigenti del partito. Ma si affaccia un nuovo pericolo.
Alla fine del ventennio berlusconiano, il Pd ritrova un populismo da combattere. Il punto non è il rischio di una vittoria grillina, ma il loro possibile recupero, nel giorno del silenzio elettorale e nei due giorni di urne aperte, dentro il bacino degli indecisi. Pochi punti percentuali pescati qua e là che renderebbero ingovernabile il Parlamento. A Largo del Nazareno sono convinti che Grillo abbia da tempo fatto il pieno nella metà campo del centrosinistra. Eppure avanza il timore che l’onda non si sia fermata. Arrivati al termine di una breve ma confusa compagna elettorale, il nemico non è più il ritorno della destra e del Cavaliere e il problema non sono le battute del Professore sull’affidabilità del Pd. La scelta è tra «il cambiamento del governo» e il «cambiamento della protesta». «In queste fasi finali il vero bipolarismo è tra il Pd e Grillo», avverte Bersani. Per questo, a pensarci bene, lasciare campo libero ai 5stelle per la piazza di San Giovanni è stata una cattiva idea. Tira un’aria di grande rimpianto. Se la manifestazione di ieri aiuterà il Movimento 5stelle a fare un altro passo avanti, la situazione si complicherà. Stefano
Fassina ammette, senza giri di parole: «In quella piazza dovevamo starci noi. L’effetto mediatico sarà inevitabile».
Bersani, ieri mattina, ha superato il Raccordo Anulare per parlare con i manager e i lavoratori della Thales Alenia Space, l’azienda italo-francese che “naviga” nella galassia Finmeccanica e costruisce satelliti. È l’habitat naturale del candidato del centrosinistra: la produzione e il lavoro, la competitività e i salariati. È il suo mondo, dove discute a viso aperto con l’amministratore delegato e con l’operaio della Fiom. In queste due figure, vede racchiusa la fotografia dell’Italia vera. Ma poi c’è Grillo. E i suoi elettori. «Lui dice che sono un parassita? Io sono figlio di un meccanico e non sono
un miliardario — replica Bersani —. Non ho mai fatto condoni fiscali. E ripeto: se restano le macerie, si salvano solo i miliardari come lui». Fassina accompagna il segretario nella visita all’Alenia e ragiona sugli esiti del voto: «Monti doveva spaccare il mondo. La lista dei migliori, delle élites, della società civile, dei disinteressati. Come sono finiti? Stanno precipitando e nell’area dell’antipolitica è rimasto solo Grillo». Il responsabile economico del Pd, antimontiano della prima ora, non pronuncia queste parole con soddisfazione. Oggi infatti l’alleanza con il premier è un’ancora di salvezza per la governabilità. Scelta Civica deve conquistare una pattuglia di senatori, almeno 15, per garantire un esecutivo stabile e capace di cambiare. Perché Bersani, se vince, vuole uscire dagli schemi del passato. Ha in mente «un blitz come quello che abbiamo fatto per decidere le primarie. Non farò trattative dentro al partito, non mi farò tirare per la giacca ». In questo senso l’affermazione di 5stelle può aiutarlo, così come la sfida di Matteo Renzi lo aiutò nella battaglia interna al gruppo dirigente. «La strada è quella: competenze, facce nuove, riforme radicali. Senza condizionamenti ». Ma tutto dipende dalla grandezza del risultato grillino.
Alla piazza del comico, Bersani risponde con le «piazze, i piazzali e i teatri girati in quantità. Grillo non mi fa paura. Fa paura all’Italia perché con le sue ricette ci porta oltre la Grecia». Però il segretario non ha condiviso la scelta dei dirigenti romani di rinunciare alla manifestazione all’aperto, anche in periferia. «Mi hanno spiegato che era meglio fare tante manifestazioni diffuse nei quartieri», dice con un’espressione poco convinta. Il Pd comunque non molla. Bersani sceglie di mandare Renzi a Otto e mezzo per convincere l’elettorato vicino al sindaco di Firenze. E a Largo del Nazareno si lavora anche oggi e domani. I volontari dell’ufficio elettorale sono precettati: devono fare ancora 700 telefonate a testa agli elettori delle primarie. Bisogna convincere gli indecisi, contattare gli amici e i parenti, non perdere nemmeno un sostenitore di Renzi. Sono tutti voti utili, utilissimi.

l’Unità 23.2.13
Elisabeth Guigou
Ministra della Giustizia nel governo Jospin, poi ministra delle Finanze, oggi è presidente della commissione Esteri all’Assemblea Nazionale francese
«Una sinistra più forte farà ripartire l’Europa»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Non saranno i conservatori, tanto meno i demagoghi e i populisti che faranno amare l’Europa agli europei. È compito nostro, di noi progressisti, riconciliare l’Europa con i suoi cittadini e indicare soluzioni praticabili ad una crisi strutturale. La vittoria di Francois Hollande in Francia e, ci auguriamo, quella di Pier Luigi Bersani in Italia, si muovono in questa direzione». A parlare è Elisabeth Guigou, presidente della Commissione Affari Esteri dell’Assemblea Nazionale francese.
Le elezioni presidenziali in Francia, ora le legislative in Italia, a settembre si vota in Germania. Appuntamenti cruciali che avvengono all’interno di uno scenario di crisi. Partiamo da qui: qual è la natura e la portata di una crisi tutt’altro che risolta? «Quella che stiamo affrontando non è solo una crisi finanziaria, economica e sociale, ma è anche una crisi della governance europea, ed è una crisi morale. Di fronte a una crisi di questa portata, noi progressisti in Europa dobbiamo riunirci e fare in modo di ritornare al periodo che abbiamo conosciuto quando eravamo maggioritari in seno all’Unione Europea».
Un discorso che ci porta alle sfide elettorali che nel 2013 investiranno due Paesi chiave in Europa: l’Italia e, a settembre, la Germania. La Francia ha aperto la strada del cambiamento...
«L’elezione di Francois Hollande è stata una schiarita in un cielo che vedevamo molto buio. Tuttavia vi sono tante cose da fare, tante battaglie da affrontare per determinare una svolta in Europa. E perché ciò possa avvenire, è di grande importanza che in Italia possa tornare al governo il centro sinistra e che a guidare il futuro governo vi sia un europeista convinto come Pier Luigi Bersani».
Lei in precedenza ha fatto riferimento a battaglie comuni dei progressisti europei. Da cosa cominciare?
«Dal bilancio europeo. Quello approvato non può soddisfarci. In discussione non è il rigore che deve guidare il controllo del bilancio pubblico nei singoli Paesi Ue. Ma anche per questo, se vogliamo che l’Europa ricominci a ridare qualcosa in più ai cittadini, se vogliamo che l’Europa non sia più sinonimo di punizione, allora abbiamo bisogno di rilanciare, con investimenti mirati, progetti concreti, che diano risposte alle questioni che segnano la quotidianità dei cittadini europei, siano essi francesi, greci, spagnoli, italiani...: l’occupazione, la lotta alle disuguaglianze e a tutte le ingiustizie...».
Orientare in senso progressivo il budget europeo. Su quali settori strategici puntare, orientando su di essi un impegno comune dei progressisti europei?
«Negli incontri che abbiamo avuto, l’ultimo a Torino, come in importanti documenti comuni, come il “Manifesto di Parigi”, non ci siamo limitati a indicare i principi fondanti di una visione progressista dell’Europa, Abbiamo fatto di più, indicando la possibilità di lanciare alcuni grandi progetti, nel campo delle energie rinnovabili, della green economy, così come nell’istruzione e nelle nuove tecnologie».
Quale un altro terreno di convergenza possibile tra le forze progressiste e di sinistra europee che dia il senso, concreto, di discontinuità con il ciclo conservatore? «Quello che dovremmo lanciare è un grande progetto per lottare contro tutte le forme di concorrenza sleale, contro le frodi commerciali e quelle sociali».
Qual è il limite più profondo, strutturale, sempre in chiave europea, del ciclo conservatore?
«L’aver puntato sulla deregolamentazione, i cui effetti si sono rivelati devastanti. È l’eccesso di liberalismo mascherato da critiche verso una Europa che si diceva, parole di Barroso, “troppo tecnocratica e invasiva”. Il risultato è che non ci sono state, e continuano a non esserci, iniziative forti, coordinate sulla crescita. Non c’è spirito europeo. Quando sono state prese, le decisioni sono apparse tardive e frammentarie. Senza una visione d’insieme. L’Europa ha conosciuto una deriva preoccupante nell’ultimo decennio, un decennio a guida conservatrice. Dobbiamo essere consapevoli che in gioco è la sopravvivenza a lungo termine dell’integrazione europea, e agire di conseguenza. Questo è molto di più che un sostegno alla moneta unica».
Di cosa c’è bisogno oggi?
«Serve un nuovo approccio da parte dei socialisti e dei democratici che riaffermi con forza i nostri valori e che abbia il coraggio di proporre soluzioni europee: solo così si può dare all’Europa l’energia per sostenere i suoi capisaldi, la solidarietà, l’efficienza economica e la vitalità democratica. Occorre far ripartire la costruzione di una Europa solidale, più forte nelle sue istituzioni politiche, che sappia affrontare con il necessario rigore l’indebitamento legando però il rigore a un impegno comune alla crescita. È questa la sfida del cambiamento lanciata da Hollande e che una vittoria dei progressisti in Italia e in Germania rilancerebbe con forza. Dobbiamo uscire da questa crisi con misure non congiunturali, ma per farlo occorre riflettere con serietà e capacità autocritica sugli errori commessi quando a guidare l’Europa erano i governi progressisti. E l’errore più grave è stato il deficit di europeismo, l’aver ritenuto che di fronte a problemi globali fosse possibile rispondere in ordine sparso, a livello dei governi nazionali. Oggi c’è bisogno di più politica, di una buona politica, ma perché sia tale deve muoversi sempre più a livello sovranazionale». È solo una questione di idee, di progetti o c’è bisogno anche di altro?
«Abbiamo bisogno di strumenti adeguati. E qui il discorso torna al bilancio europeo. Un bilancio che deve sostenere la crescita e l’occupazione. L’Unione Europea non è lì per sprecare denaro ma per fare investimenti nel futuro, sul futuro. Strumenti e istituzioni politiche possano decidere, avendone potere e possibilità: penso al Consiglio europeo come alla Commissione europea». Cosa significa permettere all’Europa di decidere?
«Significa anzitutto dire ciò che non vogliamo..»,
Vale a dire?
«Non vogliamo una Europa a due velocità, una Europa “su misura”, in cui ogni singolo Paese si eserciti nello smantellare le politiche europee una dopo l’altra in nome di angusti “interessi nazionali”».
L’Europa dei progressisti a cosa dovrebbe puntare, oltre che a una visione comune in materia di crescita?
«L’Europa dei progressisti dovrebbe avere l’ambizione di essere un attore globale: e ciò significa avere una politica comune nella politica estera come nel campo della sicurezza e di un sistema integrato di difesa».
Il 2014 è l’anno delle elezioni europee. Qual è l’obiettivo della «famiglia» socialista e progressista?
«Vincerle, per avere un presidente della Commissione europea che sia della nostra famiglia, quella dei progressisti. Un presidente per il cambiamento».

il Fatto 23.2.13
San Giovanni è grillina
In centomila  (lui dice, “ottocentomila”) per il leader M5S
Giornalisti italiani tenuti lontani dal palco
di Paola Zanca


In piazza San Giovanni sono in centomila (lui dice, “ottocentomila”). Indica i politici e ripete: “Per questa gente è finita”. Se la prende con le tv italiane: “Continuano a mentire”. Per allontanare i cronisti chiama i carabinieri, ma è una brutta scena. La folla lo acclama assieme a Casaleggio: “Cambieremo l’Italia” Eccoci qui, nella città dove li vedete girare nelle loro autoblu. Non hanno ancora capito che cosa sta arrivando. Arrendetevi. Siete circondati. È finitaaaaaaaaaaa! ”. Una signora di mezza età, con le stampelle si dispera: “Mannaggia a ’sto ginocchio... sennò stavo sotto al palco! ”. Vorrebbe stare lì, davanti a Beppe Grillo e a Gianroberto Casaleggio, che hanno appena fatto il loro ingresso in piazza San Giovanni, a Roma. Stracolma, “più del concertone”, dicono loro, che si contano in “ottocentomila”. Il vigile li guarda con l’aria di chi di piazze ne ha viste tante: “Ma che state a di’, il primo maggio questo se lo sogna”. Loro, più che alla festa dei lavoratori, pensano alla Liberazione: “È il nostro 25 aprile”. Solo che i partigiani a Cinque Stelle cominciano male: fuori i cronisti italiani, dentro solo quelli delle testate straniere e Sky.
UN TIRA E MOLLA di ore: prima il “no” deciso, compreso a chi si era regolarmente accreditato, tanto che arrivano i carabinieri per identificare un cronista troppo insistente, secondo i canoni di giudizio dello staff del movimento. Poi interviene l’Ordine dei giornalisti (“selezione della razza”) e la stampa estera (“libertà non rispettata”) e le transenne si aprono: tutti in fila, divisi per gruppi, pronti a raccontare il backstage. Niente da fare: venti metri e di nuovo il cordone dei volontari ferma tutti. Problemi di ordine pubblico, spiegano, che si risolvono magicamente appena arrivano due firme di Le Figaro. Lui, Beppe, nemmeno si volta quando arriva a bordo del camper che l’ha portato in giro per l’Italia, soltanto dieci minuti prima di cominciare lo show. “Dio mio cosa abbiamo fatto – dice – È tutta la notte che mi esercito per non commuovermi”. Piangono invece i candidati che uno alla volta sono saliti sul palco per presentarsi agli elettori.
OGNUNO con la sua proposta. Matteo Arena, da Latina, per esempio vuole “la vendita dei farmaci sfusi”. Da sotto qualcuno li ascolta: “Fosse vero”, dicono ogni volta che sentono qualcosa che credono potrebbe cambiare le loro vite. Altri ripetono in coro: “Tutti a casa”, “Basta casta”. Grillo li rintuzza dal palco. Contro i professori: “Nei call center ci vadano i figli della Fornero”. Contro i politici: “Bersani dice che io sono miliardario, lui è un parassita”. Gli striscioni parlano lo stesso linguaggio. Nei gazebo, invece, si fanno scoperte interessanti. Alla nursery, per esempio, si accolgono i bambini e “si intrattengono anche le mamme, ma solo se giovani”. Il merchandising, invece, ha in bella vista le solite magliette, penne e spille, eppure vendono anche la bandana: chi non vuole sentirsi un Berlusconi in Costa Smeralda stia sereno, ci sono le cinque stelle. Il “Sarà un piacere day” è costato circa 70 mila euro, raccolte con le donazioni, più il lavoro di 300 volontari. Una maratona di quattro ore: dopo Grillo, sale sul palco Federico Pizzarotti (“Vi siete addormentati? ”, chiede il sindaco di Parma alla piazza che si è spenta in un attimo), poi per la prima volta parla Casaleggio: “Cambieremo l’Italia”, dice, accennando a tutte le volte che lui e Beppe hanno pensato di “gettare la spugna” e si sono fatti forza l’un l’altro. E ancora Giancarlo Cancellieri, il capogruppo siciliano, “figlio” della traversata dello Stretto. Quando alle cinque del pomeriggio arriva in piazza San Giovanni, è letteralmente assalito dai fan e lui è diventato bravissimo a fare la faccia da foto mentre risponde alle domande.
COME STA ANDANDO in Sicilia? “L’attività legislativa si impara (cheese), il problema sono i giochetti di potere: nel sistema ci devi entrare (cheese) chi dice il contrario sbaglia: altrimenti tu che sei sanu sanu finisci fregato”. Cheese. Insieme a lui, a farsi immortalare negli scatti, ci sono persone di ogni tipo. Uno come Pasquale, 32 anni, già elettore di Berlusconi che lo ammira solo perché “se fosse un altro andrebbe in giro già con due Audi”. O un altro come Benedetto, 60 primavere, ex Pci, ex rifondarolo, ex Idv, ora “per la ghigliottina”: “Robespierre la democrazia l’ha fatta così: meglio morire che passare una vita da pollo”. Mentre lui esprime la sua teoria, una ragazza lo rimprovera: “Prima ci proviamo con le buone, poi, se non ci ascoltano, passiamo alle cattive”. Alle 22 il comizio è finito. Grillo chiede alla piazza di far sentire a Napolitano il “boom”. Poi, si chiude con la canzone con cui tutto è cominciato: “Non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini punto e basta, ognuno vale uno”. Qualche metro più in là, una giovane mamma guarda soddisfatta la bimba nel passeggino: “È riuscita ad addormentarsi con Grillo, è il massimo”.

«La metro li fa sbarcare a mezzo chilometro di distanza e in fila indiana accorrono alla festa. Che è insieme una prova di forza, un atto liberatorio, un processo di analisi collettiva»
il Fatto 23.2.13
Dentro la piazza
Gli incazzati della porta accanto
Delusi e disillusi: non vogliamo testimoniare, ora vogliamo governare questo Paese
di Antonello Caporale


Fanno un po’ paura i ragazzi col giubbetto del servizio d’ordine. Sembrano infanatichiti dal loro destino di servitori del nuovo ordine: “Tu non puoi entrare, e stop! ”. Fanno tenerezza invece i loro compagni e amici che raggiungono piazza San Giovanni con un sorriso e la voglia di cambiare ogni cosa, nel più breve tempo possibile. “Mi chiamo Paolo e vengo dall’Umbria e davvero non ne posso più. Ho votato Rifondazione per tutta una vita, adesso basta: mi hanno obbligato a cambiare strada”. Paolo ha 40 anni, e con lui Andrea e Gianni. In tre da Marsciano, convinti che questa è la volta buona: “Non vogliamo testimoniare, vogliamo governare”. La palingenesi, o qualcosa di simile. Sbuca questo popolo ed è pieno di buonumore. Galvanizzato, compresso come quei fucili a pallettoni: “Ciao caro, per te è finita! ”. È lo slang grillino, nuova lingua che li accomuna per il nuovo mondo che li attende. Giulio e Maura, quarantenni disoccupati: “Devono andare tutti a casa. Aspettiamo lunedì: io ti dico che almeno il 25 per cento prenderemo. E vedrai che casino”. Casino, cioè caos. “Un momento, perchè ci dipingi così? Noi siamo gente perbene, io mi chiamo Francesco, sono di Arezzo, ingegnere informatico. Non vogliamo il caos ma il governo. Vogliamo go-ver-na-re”. “Piacere, Carmelo, sono una persona pulitissima. Sono candidato, lei vota? ”.
LA METRO li fa sbarcare a mezzo chilometro di distanza e in fila indiana accorrono alla festa. Che è insieme una prova di forza, un atto liberatorio, un processo di analisi collettiva. O anche un modo per gridare “vaffanculo! ”. Insieme. C’è in effetti il senso di una comunione, una misura dell’appartenenza più convinta di qualche settimana fa e la percezione che la “rivoluzione” è vicina. Magma rovente, lava pura che esonda nelle strade svuotate dai poster elettorali. I politici di professione si sono ritirati. Il massimo della presenza pubblica è del Pd: ha scelto per Roma il teatro Ambra Jovinelli. Un modo per dire: prego, è tutta casa vostra. Berlusconi neanche si è scomodato. Comizio annullato a Napoli. Tutti gli altri a casa, ad assistere, magari in diretta, a questo show. Spettatori forse impauriti, presi alla sprovvista da un Paese che ai loro occhi si è rivelato all’improvviso. Come quei melograni maturi il potere si apre a questa piazza, a questo mondo. Mi ferma una ricercatrice del Censis: posso sottoporle questo questionario? Indaga sui grillini: chi sono, perchè sono qui, cosa vogliono. Dal palco trasmettono un discorso di Scarpinato, procuratore di Palermo. Legge la Costituzione, la più bella e più giovane Carta che ci sia. Nella Costituzione c’è anche scritto, all’articolo 21: libertà di stampa. Invece noi giornalisti siamo, al meglio, dei “reggicoda”. “Ha fatto bene a non farvi entrare”. L’idea di Grillo è che tutti gli siano e gli debbano essere contro. Lui solo contro tutti i prezzolati dell’universo. Lui ha la verità, gli altri dei falsari. Lui probo, gli altri bleah! Chi non vota 5 stelle o è un colluso, o un fesso, o al peggio un corrotto. Urlano in piazza mentre con Matteo addentiamo un panino al salame: “Vengo da Perth, Australia. Sono tornato apposta per fare la rivoluzione”. Dici sul serio? “Dico sul serio: sono convinto che andremo al governo, che saremo il primo partito. Il nostro statuto vieta le alleanze non di sostenere singoli punti, ammesso che il Pd abbia più voti di noi”.
“Vaffanculo cialtrone! ”. Stanno rimandando il video del più famigerato discorso parlamentare che la storia consociativa ricordi. Violante, ai tempi capogruppo del Pds, che assicurava a Berlusconi l’impunità. Spiegava infatti come la sinistra, al governo, avesse evitato di promuovere le leggi sul conflitto d'interessi. Odiano il Pd per questo, traditi da un simbolo che amarono.
LA PIAZZA ALTERNA le urla alle parole piane. Rabbia concitata e riflessione serena. È un popolo antico per metà, gente che ha frequentato le manifestazioni, amica delle bandiere, delle proteste. Alcuni hanno il fazzoletto rosso. Altri hanno praticato sul fronte opposto. Incontro Luciano Lanna, ex direttore del Secolo d’Italia. Un giornalista colto, ora disoccupato. “Ho fatto il concorso nelle scuole, ma non nutro troppe speranze”. Lui e i suoi amici, camerati di un tempo forse: “Qui c’è tanta destra, militanti che hanno creduto a un governo onesto”. Grillo ha attratto, senza muoversi. Calamita inconsapevole di una insofferenza monumentale. (8- Fine)

La Stampa 23.2.13
Le mille rabbie d’Italia riunite in una piazza
Il luogo di tutte le rabbie contro la “cupola” dei cattivi
Banche, sindacati, giornalisti, finanza: l’ostilità al sistema fa da collante
di Mattia Feltri


Ore e ore sotto la pioggia Poi il boato per l’arrivo del leader trionfante come un imperatore
Spunta il taccuino del cronista e le persone si ritraggono come davanti a un fucile

Un luogo di tutte le rabbie: non ce n’è una senza diritto di cittadinanza in questa piazza piena, ma non straripante. Sgorga la rabbia, ecco. Perde come da un buchino gocce di popolo stanco di aspettare per ore sotto un cielo infido, generoso soltanto di pioggerellina. C’è chi se ne va, esausto, mentre Beppe Grillo arriva diciotto minuti prima delle nove. Salito sul palco, Beppe Grillo ha avuto un momento di commozione per la folla immensa che gli si parava di fronte Insieme Sul palco di piazza San Giovanni a sorpresa sale anche Gianroberto Casaleggio in una delle sue rarissime apparizioni in pubblico.
È che molti erano lì dalle prime ore del pomeriggio. Giravano gli stand ad acquistare le t-shirt celebrative, a bere da bicchieri di plastica una birra Forst, a mangiare tramezzini al tonno, a informarsi compiaciuti sui miracoli del volontariato che coinvolge anche i non praticanti: un caffè due euro, contributo compreso. A sera, e quando San Giovanni aveva comunque il popolo traboccante che sa accogliere, c’era chi si guardava fiaccato e sedeva sui marciapiedi umidi. E poi lui è salito sul palco, trionfante come un imperatore di due millenni fa, e sotto le braccia erano alzate al cielo, l’urlo ha infiammato l’aria. Eccolo lì l’uomo che tiene assieme tutte le rabbie, le fa combaciare come per prodigio, le moltiplica e ne fa una forza che percorre terrorizzante e inafferrabile la città della politica.
E però davvero è un bazar in cui ci si smarrisce. Si può incontrare chiunque, qua dentro, ed è un meticciato delle rivendicazioni che è il loro orgoglio. Sventolano le bandiere dei No-Tav. Esibiscono i cartelli dei comitati contro il Ponte sullo Stretto. Un tizio porta fisicamente la sua croce sui cui c’è scritta la ragione del supplizio: quarant’anni di lavoro per mantenere un milione di farabutti. Ecco, il lavoro. Lo dice Beppe Grillo, dal palco, che lungo lo Tsunami Tour è stato fermato dai sguardi imploranti lavoro, lavoro, un po’ di lavoro. Ce n’è un altro che gira vestito come D’Artagnan, in teoria un vendicatore degli ultimi, e ce l’ha con Rocco Papaleo che fa la pubblicità dell’Eni e, dice D’Artagnan, l’Eni sta devastando la Basilicata. Prima che Grillo concludesse questa lunga giornata, e questa corta e lampeggiante campagna elettorale, un piccolo imprenditore dal palco s’era commosso, pensando ai pagamenti che dallo Stato non arrivano, e ai quattro ragazzi che in settimana ha dovuto lasciare a casa. Non è per indulgere nel colore che sempre manifestazioni di questo genere offrono, e però c’è persino quello che con un amico svolge il tazebao del Movimento Uomini Casalinghi, che si pone come obiettivo il ritorno al matriarcato e ha per slogan qualcosa come «le donne a governare il mondo, gli uomini a rigovernare le case», un programma da cominciare con la raccolta di erbe e bacche spontanee a Capracotta (testuale).
Si riuniscono infine tutti per l’applauso convinto, nervoso, entusiasta. Si intonava, poco fa, una canzone che aveva per ritornello «libera l’acqua». La intonavano i ragazzi sotto lo striscione di fondazione della laocrazia, neologismo che sta per democrazia partecipata dal basso. Eccolo lì il secondo collante: la convinzione, in sbalorditivo manicheismo, dell’esistenza di una cupola oscura, cinica, crudele, mascalzona, con i partiti e la politica a tenere il vertice, e attorno certa magistratura, la grande imprenditoria, le banche, la finanza, i sindacati, il giornalismo; e sotto gli umili e i candidi che si sono riversati qui per spezzare le catene. Tutte le rabbie radunano questi buoni e di fuori tutti i cattivi, una schema caldo e consolante, stasera e sempre. Un ragazzone allegro circola vestito da cardinale e dietro c’è la bara del «vecchio politico» (una trovata vista in parecchie altre adunate). Signori attempati si schierano da uomini-sandwich, uno vuole la Siria libera, un altro vuole l’Italia fuori dalla Nato, un altro ancora la fuga dall’euro. Un banchetto vende le magliette della Guerrilla e del Che. La missione in Afghanistan, urla Grillo, è una missione del piffero. Uno striscione ancora, e bello grosso, ce l’ha con la tessera del tifoso. Niente è di troppo. Il sistema divide et impera, aveva detto un oratore molto bravo, molto sveglio, molto bellino, una specie di prodotto da X-Factor, senza offesa per lui e per chi fa il programma: il sistema ci ha reso diffidenti, scontrosi, parla della sua Milano dove nemmeno gli riesce di portare le borse della spesa alle donne, che all’assalto generoso lo scansano atterrite. Anche se poi non è che qui sia proprio il festival della simpatia: non appena vedono un taccuino da cronista si ritraggono come davanti a un fucile, occhi pieni di stupore e spavento. C’è in compenso la nursery, per cambiare i pannolini ai bimbi e allattarli, madri e piccini accolti dal cartello piuttosto, allegro, di leggera e innocua tendenza berlusconiana, e con un tocco di grammatica leghista: «Si intrattiene pure le mamme purché giovani». Non conta: conta il desiderio febbrile della fantasia al potere (copyright Gianroberto Casaleggio), la fantasia di essere normali, semplici, di accalcarsi alle transenne per fotografare il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, come fosse Calderoli a Pontida. Di essere brave persone in un mondo sozzo. La battaglia più vecchia del mondo infuria ancora.

Corriere 23.2.13
«Noi» contro «loro»
L'ultimo comizio-show su Nano e Gargamella
di Aldo Cazzullo


«Noi», e loro. «Noi»: esodati, cassintegrati, pignorati, indignati; minatori del Sulcis, senzacasa del terremoto emiliano e dell'alluvione delle Cinque Terre, maschere di «Anonymous» che non nascondono pirati informatici ma vecchiette arrabbiatissime; e tutti i No possibili, No Tav, No Gronda, No Autostrada Roma-Latina, No Inceneritori (tranne quello di Parma che si farà). Loro: l'Europa, le banche, l'Agenzia delle Entrate, «i Palazzi», le macchine blindate, la Rai, i giornali, i sindacati, i notai, i burocrati «tutti incompetenti», i partiti «tutti uguali», i politici «tutti ladri», da cui il grido: «Tutti a casa!». Di là, l'establishment, la «vasca di squali» con i suoi servitori del tutto intesi al male, e una situazione «ancora peggiore di quanto pensiate» come ammonisce Gianroberto Casaleggio all'esordio in piazza. Di qua, un «futuro nuovo, solidale, felice» in cui la democrazia è diretta, ci si informa l'un l'altro in rete, si lavorano 30 ore alla settimana anzi 20, i preti potranno sposarsi a qualsiasi età e tutti ricevono mille euro al mese dividendosi i soldi delle missioni di pace, perché tanto «non esistono missioni di pace», e quindi riprendano pure a scannarsi kosovari e serbi, Israele ed Hezbollah.
Così è nato un fenomeno senza precedenti nella storia delle democrazie occidentali (l'Uomo Qualunque prese il 5% e durò pochi mesi). E' questa la rappresentazione che Beppe Grillo ha messo in scena nel lungo tour per l'Italia, aperto cinque mesi fa con la nuotata nello Stretto — «dicevano che mi veniva l'infarto dopo 500 metri, ci ho messo venti minuti in meno del traghetto» —, proseguita con 76 comizi (lui dice «spettacoli») e conclusa con il clamoroso successo di questa notte a San Giovanni. E il fatto che sia una rappresentazione falsa e consolatoria non significa che non sia affascinante, anzi. Gli ingredienti per sedurre, trascinare, conquistare voti in ogni ceto e schieramento ci sono tutti, a cominciare da quelli offerti da partiti che hanno fallito ogni chance possibile, a cominciare dal taglio di prebende e privilegi. Lo slogan con cui si apre la manifestazione — «Nessuno sarà lasciato indietro» — è lo stesso di George W. Bush; ma il nume tutelare è il sempiterno Dario Fo. Alcune delle venti proposte accolte dagli olé del pubblico romano tipo formazione della Maggica sono identiche a quelle di Berlusconi, dall'abolizione di Equitalia all'impignorabilità della prima casa; ma se Grillo deve citare un prete buono cita un prete rosso, da padre Zanotelli a don Gallo, e Casaleggio cita il Sessantotto. Grillo scorrazza liberamente da sinistra — dov'è nato con il V-Day di Bologna e i successi di Genova e Torino — a destra, dov'è cresciuto con gli attacchi all'Imu, all'euro, al rigore finanziario, alla Merkel cui è dedicato il buu finale. Così stasera si assiste al paradosso finale: il leader della sinistra tiene il comizio conclusivo in un teatro di cabaret, e un ex cabarettista riempie piazza San Giovanni come mai si era visto dai tempi dei funerali di Togliatti (25 agosto 1964) e di Berlinguer (13 giugno 1984). Ci era andato vicino un altro uomo di spettacolo, Nanni Moretti, nel frattempo tornato all'ovile dell'Ambra Jovinelli con Bersani. Qui intanto si alternano candidati sconosciuti a gridare alla piazza frasi apocalittiche tipo «vogliono la morte dei miei figli e io non lo permetterò mai!», «noi agricoltori non abbiamo più nulla!», «siamo tutti con le pezze al culo!». Poi qualcuno si commuove e piange, tra gli applausi della piazza. Neanche lui, «il ministro dei sogni», si sottrae: «È tutta la notte che mi esercito per non commuovermi...».
Grillo prende la parola alle 9 meno un quarto di sera e spara subito al bersaglio grosso: il Pd e Bersani, che lui chiama Gargamella, «parassita che deve finire sotto processo insieme con tutti i capi della sinistra dal '95 a oggi per lo scandalo Montepaschi, il più grave della storia della Repubblica: ventun miliardi di buco!». Ecco perché il Pd non ha bloccato lo scudo fiscale, «per far rientrare le tangenti pagando solo il 5%». Peggio di Berlusconi, che lui chiama il Nano, «perché quello si vede che mente, mentre la sinistra finge di opporsi e invece hanno governato insieme, si sono passati la borraccia come Coppi e Bartali». Segue il consueto canovaccio — il «politometro», il Parlamento da aprire «come una scatola di tonno», gli 87 procedimenti penali subìti — e un'invettiva contro tutti, De Benedetti, Tronchetti, Caltagirone, Profumo, Draghi, Monti, Napolitano, la Fornero con figlia. La parte più efficace è quella in cui Grillo racconta il suo lungo viaggio nell'Italia della crisi, «le pugnalate nel cuore», le «macerie invisibili», la gente «che soffre, perde il lavoro, si ammazza», un dolore che «non riesco a tenere da solo»; e dall'altra parte i segretari di partiti «che vanno in tv a farsi intervistare dai loro dipendenti», che «tolgono i soldi alla scuola pubblica e ai malati di Sla», che «si chiudono nei loro teatrini e non capiscono la rivoluzione della rete». Come i giornalisti, ammessi solo grazie all'intervento della polizia, cui dice con voce suadente cose terribili tipo «i vostri giornali chiuderanno, il vostro mestiere è finito, non servite più a nulla». Sul palco viene fatta salire trionfalmente solo l'inviata della tv danese, e nella sua telecamera dopo un'ora e più di un discorso Grillo urla: «Siamo 800 mila, più quelli collegati con 120 piazze in tutta Italia; è il più grande evento mediatico di tutti i tempi! Li mortacci vostra quanti eravate!».
La reazione della folla è impressionante, la rabbia prevale sullo scoramento, si sventolano tricolori al grido «Italia-Italia», ragazzi che si erano persi ritrovano i genitori dietro la statua di San Francesco, l'intero quartiere è invaso da gente che non è certo qui per uno spettacolo gratuito ma è rimasta per ore in coda a tratti sotto la pioggia, e ora si scambia previsioni clamorose ma non troppo distanti dalla realtà: «Siamo sopra il 20%», «in Sicilia il premio di maggioranza lo prendiamo noi», «siamo il secondo partito forse il primo»... Poi prendono ramazze e sacchi e cominciano a pulire la piazza.

Repubblica 23.2.13
E in piazza la rockstar del populismo seduce la folla di delusi e arrabbiati
di Curzio Maltese


ROMA A MENO che non abbia preso anche lui un master a Chicago a nostra insaputa, Grillo apprezza soltanto la stampa che non è in grado di leggere. Un vantaggio nel suo caso, perché i giornali stranieri, da Le Monde a Figaro, da Guardian alla Faz, ne hanno scritto come di un guitto populista, l’ennesimo fenomeno da baraccone della politica all’italiana. Al confronto la stampa nazionale è stata molto più prudente e gentile, soprattutto da quando i sondaggi sono in crescita. Ma che importa? Lo spettacolo non è il palco, il guru che abbraccia e benedice i discepoli e poi sale a fare l’ultimo tonitruante show del genere solo contro tutti. Lo spettacolo è la piazza.
Le piazze sono di solito migliori o peggiori dei partiti, movimenti o sindacati che le convocano. In questo caso, ha invece l’aria di essere perfettamente uguale. Uno specchio fedele, una fotografia mossa dell’Italia che voterà 5 Stelle. Molto maschile, abbastanza giovane, ma non troppo. Tutti questi ragazzi non si sono visti. Una larga prevalenza di trenta e quarantenni, con molti anziani, i più entusiasti. Slogan di destra e di estrema sinistra. Se c’è una novità nel popolo di Grillo, addirittura l’annuncio di una rivoluzione politica italiana e forse mondiale, io non l’ho trovata. Sembra a prima vista la solita Italia in buona fede, che ama le semplificazioni, le teorie del complotto e i venditori di sogni, ingovernabile e contenta di esserlo, tenuta insieme dal risentimento. Se chiedi a cinquanta persone perché voteranno Grillo, quarantotto rispondono perché gli altri fanno schifo, rubano e sono tutti uguali, destra e sinistra. Uno parla di inceneritori e un altro di precariato giovanile e salario garantito. E’ chiaro che il programma non se l’è letto nessuno. Com’è del resto per tutti gli altri partiti.
Grillo si fa attendere come una rock star e quando è il suo turno non delude. Un animale da spettacolo come pochi. La campagna elettorale è stata la tournèe capolavoro di una vita. Ha usato la piazza e Internet, ma soprattutto la televisione, dov’è nato. Meglio di chiunque altro nella storia, da far impallidire d’invidia Silvio Berlusconi che
per quanto padrone qualche volta ha dovuto rispondere, accettare regole e domande. Grillo mai. Compare soltanto in comizio, senza contraddittorio, come e quando vuole. Tanto fa audience. Non deve mai rispondere di quello che ha detto, ma neppure affannarsi a smentire, come il povero Berlusca: è colpa dei giornalisti. Però a vederlo in mezzo a quest’avventura, unico punto di riferimento di una folla così indistinta, individualista, Grillo fa un po’ tenerezza. Che ne sarà di lui dopo questo travolgente successo? Fra sei mesi, un anno? E’ già incredibile, «pazzesco» direbbe lui, che sia arrivato qui. Ho visto Grillo la prima volta a metà anni Ottanta, sul set di un film di Dino Risi. Cercava di imitare Coluche, un vero genio comico che aveva progettato di candidarsi alle presidenziali francesi dell’81, mandando in tilt i sondaggi. La carnevalata era durata pochi mesi, con in mezzo la tragedia dell’assassinio del collaboratore Renè Gorlin. E’ curioso come le forme influenzali della democrazia francese sbarchino a distanza di anni in Italia, diventando epidemie ventennali. Dopo il comico in politica, i francesi hanno avuto il partito azienda di Bernard Tapie, ultra miliardario, proprietario di tv e squadre di calcio, ma anche quell’esperimento era durato in tutto un anno e il capo era finito in galera. Considerato che l’ultimo fenomeno transalpino è la figlia di Le Pen e il suo movimento xenofobo, c’è da toccare ferro. Grillo poi l’ho seguito in tutte le sue mille vite, da protagonista della dolce vita anni Ottanta, con Ferrari fiammante, a profeta anti tecnologico e sfascia computer nei Novanta, quindi guru della Rete e ora capo del secondo o terzo partito d’Italia.
Ma lo spettacolo continua a non essere lui. Lo spettacolo è la folla di San Giovanni e il paese alle spalle, che ascolta in religioso silenzio, interrotto da scoppi di idolatria, lo sgangherato comizio di un bravo comico con diploma da ragioniere che discetta di fine del lavoro e modelli energetici futuribili, come fosse la sintesi di Marx ed Einstein, mescolando accenni sull’universo e i destini del capitalismo con considerazioni sulle spese di rappresentanza del Quirinale e l’infame Equitalia. Bisogna soltanto sperare che la stampa estera, così ben accolta, sia clemente col nostro povero Paese e la sua inesausta, per quanto a oggi non fortunatissima, vocazione a fare il laboratorio politico della minchiata.
Si tratta anche di sperare nel buon senso e nell’onestà dei cento grillini destinati a entrare in Parlamento, alla fine di tutta ‘sta rivoluzione. Finora è andata abbastanza bene. A Parma la giunta 5 Stelle non ha realizzato una singola promessa elettorale, dal no all’inceneritore al taglio dell’Imu agli aiuti alle famiglie povere, ma almeno non ha fatto i danni dei precedessori. Alla Regione Sicilia, dov’è primo partito, il movimento sostiene la giunta Crocetta, una volta compreso che non è proprio uguale a Cuffaro e Lombardo. Se i cento grillini servissero poi da pungolo per far approvare quei due o tre provvedimenti di decenza e riforma della politica, dal dimezzamento dei parlamentari al taglio dei vitalizi, allora che siano i benvenuti.

il Fatto 23.2.13
Rai. Circolare bavaglio
Instant pool, pasticcio Rai
di Sara Nicoli


La paura di Grillo fa novanta. Soprattutto, fa paura agli sponsor politici dei dirigenti Rai. Giovedì pomeriggio, dopo lunghe discussioni al settimo piano di viale Mazzini, un solerte Antonio Marano, vicedirettore generale per il prodotto, ha vergato una circolare interna destinata ai direttori di rete e di testata, nella quale s’informava che i previsti instant poll, targati Nicola Piepoli (in foto) per la giornata di lunedì, sarebbero stati annullati a causa del Movimento 5 Stelle. E del pericolo del suo “impatto” mediatico. “Cari Direttori – ecco il testo della circolare – alla luce dell’evoluzione della situazione elettorale, che a ridosso del voto si presenta ancora più incerta soprattutto per effetto della dinamica che riguarda il Movimento 5 Stelle e il suo impatto sul sistema politico complessivo, d’accordo con l’Istituto Piepoli e la Direzione Generale abbiamo deciso di non procedere alla realizzazione degli Instant poll per le prossime consultazioni elettorali politiche e regionali”. Perché questa decisione? Il vero cruccio di Marano pare fosse il voto in Lombardia. Dove la forbice che separa i due candidati principali al Pirellone, Maroni e Ambrosoli è davvero esigua. Il dubbio che è sorto è che Marano (uomo di stretta osservanza maroniana) volesse in qualche modo mettere la sordina alla possibile débâcle del centrodestra in Lombardia. Ed è un dubbio che è rimasto soprattutto dopo che la decisione è rientrata in seguito alle rimostranze di alcuni parlamentari, a partire da quelli del Pd e di Sel che hanno chiesto ufficialmente alla Rai di ripensarci.
IL DIRETTORE GENERALE della Rai, Luigi Gubitosi, è stato più volte disturbato a Cortina da numerose telefonate di politici, ansiosi di ottenere un ripensamento. Che è stato immediato. Alle 14,44 di ieri, dopo che la notizia del blocco era trapelata da viale Mazzini solo giovedì sera, Piepoli ha ricevuto una lettera di conferma dell’incarico. Dove però, al punto 3, si fa comunque espresso invito alla cautela nel fornire dati in quelle regioni “specie la Lombardia” dove il risultato non sarà chiaro fino all’ultimo. Marano, dopo la scivolata, ha giustificato il dietrofront con il fatto che “tanto i Cinque Stelle che Rivoluzione Civile di Ingroia sono delle new entry nel panorama delle consultazioni politiche e non offrono una base di riferimento per poter mettere nero su bianco dei sondaggi”. “Ma oggi - ha aggiunto Marano - la forbice si sta riducendo e quindi gli instant poll saranno proposti”.

La Stampa 23.2.13
La forza della verità
di Franca D’Agostini


«Gli eletti non devono essere migliori degli elettori» dichiarava qualche tempo fa il senatore Longo (Pdl). Longo rispondeva così alle perplessità di chi si chiedeva: ma è ragionevole che ad approvare una legge sulla corruzione siano chiamati deputati e senatori inquisiti per corruzione e reati affini? Intesa nel senso forte del verbo «dovere» l’affermazione è bizzarra: implica che gli eletti debbano essere peggiori degli elettori. Certo può capitare che lo siano, ma sostenere che debba essere così è stravagante oltre che fallace, scambiando il fatto per il diritto.
Quel che il senatore però voleva dire (almeno credo) è che i rappresentanti non devono necessariamente essere migliori dei rappresentati: possono essere peggiori. Io sono un sant’uomo, ma ignaro di cose politiche, e pur non vedendo esperti politici santi uomini miei pari, posso adattarmi a votare qualcuno: in fondo, perché un idraulico dovrebbe credere in Dio o nei valori morali, ed essere fedele a sua moglie, se è un buon idraulico? Perché un politico deve essere un sant’uomo, se è un buon politico?
Ma è davvero così? In realtà la seconda versione della tesi è tanto sbagliata quanto la prima. I rappresentanti devono essere migliori dei rappresentati, proprio nel senso che non possono essere peggiori. E non si tratta tanto della «questione morale», ma di una questione ben nota ai greci: per far funzionare la democrazia occorre l’aristocrazia, ossia i migliori, gli àristoi, devono governare, eletti dai cittadini proprio in quanto àristoi, vale a dire rappresentativi del meglio.
Già, ma in che cosa consiste il meglio democratico? Qui la questione sembra farsi più intricata. Posto che forse non è augurabile porre delinquenti sospetti o acclarati alla guida di un governo, o all’interno di un dibattito parlamentare, il politico deve avere speciali competenze empiriche, cioè essere quel che si dice un tecnico? Deve essere un abile mediatore, capace di sedurre e convincere non soltanto il popolo, ma anche i suoi colleghi? Ma allora che cosa occorre, almeno in linea preliminare, per essere un buon politico democratico?
Una risposta chiara e semplice si trova nell’analisi della democrazia greca che fa Michel Foucault in «Il coraggio della verità», il suo ultimo corso al Collège de France (Feltrinelli, 2010). La democrazia, spiega Foucault, ha tre aspetti caratterizzanti: il fatto che tutti gli individui del demos possono prendere la parola; il fatto che alcuni (i rappresentanti) hanno uno speciale «ascendente» sugli altri, e dunque hanno maggior voce in capitolo; il fatto che tale ascendente è dovuto a un solo requisito: la parresia, ovvero: il dire la verità. Ecco dunque il semplicissimo criterio del meglio democratico: gli «eletti» si distinguono dagli altri perché sono capaci di dire la verità, che evidentemente vuol dire: sono capaci di vederla, sono capaci di esprimerla, quindi sanno farla valere pubblicamente, creando convincimento, e convergenza di decisioni. Tre operazioni non facili, ma questo è il requisito, che lo si voglia o no: il concetto di verità potrà pure essere antipatico, ma se ci troviamo in democrazia va tenuto in considerazione, tanto dai politici quanto dai cittadini che li eleggono. (Un punto piuttosto noto nelle democrazie più mature.) Naturalmente, la verità di cui si tratta è verità politica: riguarda la ricerca della vera giustizia, e del vero benessere condiviso. Naturalmente, per scegliere il meglio devo conoscerlo, dunque io stessa devo avere una certa consuetudine con la verità, e vaste competenze.
Quindi l’insieme non è così semplice. Ma il principio di partenza è ineccepibile: se scelgo senza verità, ossia senza tenere conto di come realmente stanno le cose, poi dovrò fare i conti con la realtà, e non ci sarà alcun accordo democratico a salvarmi.
Si noti però: i politici dovrebbero dire la verità e non dire che dicono la verità, e neppure esaltare il concetto di verità come tale, rivendicandone l’importanza. È questo un punto che nella civiltà dell’apparenza in cui viviamo si tende a dimenticare. In effetti, nella campagna elettorale abbiamo sentito un po’ tutti dire che la verità è importante, un tema caro soprattutto (evidentemente) ai politici-magistrati, e a Grillo e ai grillini, che vedono nel Web il trionfo del vero, contro le menzogne del potere. Tema però non estraneo al Pdl, visto che il suo creatore ha esordito nel 1994 dicendo «la gente deve fidarsi solo di chi dice la verità», e ancora nel 2010, sotto processo per varie questioni, ha ribadito «sono tranquillo: la verità vince sempre».
In effetti, capire, esprimere, e far valere la verità sono tre operazioni estremamente diverse da quelle consistenti nel dire che si dice la verità, o che bisogna dire la verità. La democrazia degenera, spiega ancora Foucault, quando emergono i mentitori «di secondo grado»: quelli che fanno un gran parlare di verità senza averla mai praticata nella loro vita.
Quando compaiono questi falsificatori-manipolatori nasce la filosofia, che dovrebbe contrastarli, dice Foucault: la filosofia però si presenta come sapienza degli aristoi, e non può mai essere sapienza del demos.
È davvero così? No, credo di no. Niente ci dice che la competenza relativa al funzionamento del concetto di verità debba essere requisito dei soli «filosofi» e degli aristoi in quanto filosofi per professione. Ma qui incomincia un’altra storia: la storia di una rinnovata consapevolezza collettiva circa i concetti fondamentali che guidano il ragionamento democratico: realtà, verità, bene (se volete la classica triade unum, verum, bonum, e volendo anche pulchrum).
Si tratta, molto banalmente, di diventare (noi tutti, filosofi, idraulici, politici e cittadini) esperti del concetto di verità, e di altri concetti, come «bene», e «realtà»; sapere come funzionano, e sapere i rischi che corriamo quando li usiamo, e particolarmente sapere: che un formidabile falsificatore, un esperto violatore di fatti, un individuo ossessionato dal proprio bisogno di potere, può incantarci (e incantare se stesso) con le parole «realtà», «verità», «giustizia». È questa l’arte della skepsis democratica, a cui dovremmo essere stati educati fin da bambini. Ma ovviamente e purtroppo, non è così. Longo rispondeva così alle perplessità di chi si chiedeva: ma è ragionevole che ad approvare una legge sulla corruzione siano chiamati deputati e senatori inquisiti per corruzione e reati affini? Intesa nel senso forte del verbo «dovere» l’affermazione è bizzarra: implica che gli eletti debbano essere peggiori degli elettori. Certo può capitare che lo siano, ma sostenere che debba essere così è stravagante oltre che fallace, scambiando il fatto per il diritto.
Quel che il senatore però voleva dire (almeno credo) è che i rappresentanti non devono necessariamente essere migliori dei rappresentati: possono essere peggiori. Io sono un sant’uomo, ma ignaro di cose politiche, e pur non vedendo esperti politici santi uomini miei pari, posso adattarmi a votare qualcuno: in fondo, perché un idraulico dovrebbe credere in Dio o nei valori morali, ed essere fedele a sua moglie, se è un buon idraulico? Perché un politico deve essere un sant’uomo, se è un buon politico?
Ma è davvero così? In realtà la seconda versione della tesi è tanto sbagliata quanto la prima. I rappresentanti devono essere migliori dei rappresentati, proprio nel senso che non possono essere peggiori. E non si tratta tanto della «questione morale», ma di una questione ben nota ai greci: per far funzionare la democrazia occorre l’aristocrazia, ossia i migliori, gli àristoi, devono governare, eletti dai cittadini proprio in quanto àristoi, vale a dire rappresentativi del meglio.
Già, ma in che cosa consiste il meglio democratico? Qui la questione sembra farsi più intricata. Posto che forse non è augurabile porre delinquenti sospetti o acclarati alla guida di un governo, o all’interno di un dibattito parlamentare, il politico deve avere speciali competenze empiriche, cioè essere quel che si dice un tecnico? Deve essere un abile mediatore, capace di sedurre e convincere non soltanto il popolo, ma anche i suoi colleghi? Ma allora che cosa occorre, almeno in linea preliminare, per essere un buon politico democratico?
Una risposta chiara e semplice si trova nell’analisi della democrazia greca che fa Michel Foucault in «Il coraggio della verità», il suo ultimo corso al Collège de France (Feltrinelli, 2010). La democrazia, spiega Foucault, ha tre aspetti caratterizzanti: il fatto che tutti gli individui del demos possono prendere la parola; il fatto che alcuni (i rappresentanti) hanno uno speciale «ascendente» sugli altri, e dunque hanno maggior voce in capitolo; il fatto che tale ascendente è dovuto a un solo requisito: la parresia, ovvero: il dire la verità. Ecco dunque il semplicissimo criterio del meglio democratico: gli «eletti» si distinguono dagli altri perché sono capaci di dire la verità, che evidentemente vuol dire: sono capaci di vederla, sono capaci di esprimerla, quindi sanno farla valere pubblicamente, creando convincimento, e convergenza di decisioni. Tre operazioni non facili, ma questo è il requisito, che lo si voglia o no: il concetto di verità potrà pure essere antipatico, ma se ci troviamo in democrazia va tenuto in considerazione, tanto dai politici quanto dai cittadini che li eleggono. (Un punto piuttosto noto nelle democrazie più mature.) Naturalmente, la verità di cui si tratta è verità politica: riguarda la ricerca della vera giustizia, e del vero benessere condiviso. Naturalmente, per scegliere il meglio devo conoscerlo, dunque io stessa devo avere una certa consuetudine con la verità, e vaste competenze.
Quindi l’insieme non è così semplice. Ma il principio di partenza è ineccepibile: se scelgo senza verità, ossia senza tenere conto di come realmente stanno le cose, poi dovrò fare i conti con la realtà, e non ci sarà alcun accordo democratico a salvarmi.
Si noti però: i politici dovrebbero dire la verità e non dire che dicono la verità, e neppure esaltare il concetto di verità come tale, rivendicandone l’importanza. È questo un punto che nella civiltà dell’apparenza in cui viviamo si tende a dimenticare. In effetti, nella campagna elettorale abbiamo sentito un po’ tutti dire che la verità è importante, un tema caro soprattutto (evidentemente) ai politici-magistrati, e a Grillo e ai grillini, che vedono nel Web il trionfo del vero, contro le menzogne del potere. Tema però non estraneo al Pdl, visto che il suo creatore ha esordito nel 1994 dicendo «la gente deve fidarsi solo di chi dice la verità», e ancora nel 2010, sotto processo per varie questioni, ha ribadito «sono tranquillo: la verità vince sempre».
In effetti, capire, esprimere, e far valere la verità sono tre operazioni estremamente diverse da quelle consistenti nel dire che si dice la verità, o che bisogna dire la verità. La democrazia degenera, spiega ancora Foucault, quando emergono i mentitori «di secondo grado»: quelli che fanno un gran parlare di verità senza averla mai praticata nella loro vita.
Quando compaiono questi falsificatori-manipolatori nasce la filosofia, che dovrebbe contrastarli, dice Foucault: la filosofia però si presenta come sapienza degli aristoi, e non può mai essere sapienza del demos.
È davvero così? No, credo di no. Niente ci dice che la competenza relativa al funzionamento del concetto di verità debba essere requisito dei soli «filosofi» e degli aristoi in quanto filosofi per professione. Ma qui incomincia un’altra storia: la storia di una rinnovata consapevolezza collettiva circa i concetti fondamentali che guidano il ragionamento democratico: realtà, verità, bene (se volete la classica triade unum, verum, bonum, e volendo anche pulchrum).
Si tratta, molto banalmente, di diventare (noi tutti, filosofi, idraulici, politici e cittadini) esperti del concetto di verità, e di altri concetti, come «bene», e «realtà»; sapere come funzionano, e sapere i rischi che corriamo quando li usiamo, e particolarmente sapere: che un formidabile falsificatore, un esperto violatore di fatti, un individuo ossessionato dal proprio bisogno di potere, può incantarci (e incantare se stesso) con le parole «realtà», «verità», «giustizia». È questa l’arte della skepsis democratica, a cui dovremmo essere stati educati fin da bambini. Ma ovviamente e purtroppo, non è così.

Corriere 23.2.13
Timori (e speranze) di una nuova ondata di «cambi di casacca»
Si teme un'ondata di cambi di casacca
di Francesco Verderami


Sta tramontando un sistema, non un partito o una maggioranza. Le urne diranno se la governabilità verrà garantita, e chi e in che modo guiderà il Paese. Ma non c'è dubbio che avesse ragione Casini quando — alla vigilia della campagna elettorale — confidò come questo sarebbe stato «comunque l'ultimo giro per tutti». «È finita un'epoca», disse il leader centrista: «Una generazione arriva al capolinea».
È «finita un'epoca», ma siccome l'altra deve ancora iniziare, forse (forse) toccherà agli epigoni della Seconda Repubblica gestire la fase di transizione. È chiaro però che — più o meno rapidamente — cambieranno il volto e i volti della politica, che ci sarà un processo di scomposizione e ricomposizione delle forze in campo. E se così stanno le cose, il passaggio sarà traumatico, aprirà profonde faglie nelle coalizioni che si sono presentate alle elezioni, dando corso a vere e proprie transumanze in Parlamento.
Al termine della prossima legislatura, insomma, la geografia del potere non sarà più la stessa, sebbene Bersani sia convinto che il centrosinistra non verrà toccato dal terremoto, «resterà stabile al contrario delle altre coalizioni». Più che una certezza, la sua è una scommessa, avvalorata dalla fragilità degli schieramenti avversi. C'è l'idea che il fronte montiano, «un taxi più che una alleanza» secondo il segretario del Pd, si sbriciolerà, e che una parte dei suoi componenti tornerà verso l'area dei Democratici, da cui è partita.
Certo, un risultato modesto del Professore potrebbe avviare una diaspora per certi versi già iniziata, se già oggi i centristi accusano sottovoce Monti di averli cannibalizzati, e se i montiani denunciano i centristi di far campagna solo per se stessi, elevando a prova un sms diffuso da Cesa, e in cui c'è scritto: «Mobilitiamoci tutti per voto Udc alla Camera». Sembrano scene da un divorzio di un'alleanza che pure si era proposta (e formalmente si propone ancora) di diventare un magnete per attirare pezzi del mondo berlusconiano in uscita dal Pdl.
In effetti anche per il Cavaliere è suonata la campana, e per quanto abbia militarizzato le liste, in caso di sconfitta farebbe fatica a tenere unite le truppe. Se poi Grillo dovesse superarlo nelle urne, il declino potrebbe essere anche brusco oltre che rovinoso, e difficilmente manterrebbe la presa sui propri gruppi parlamentari oltre che sugli alleati. Già ma verso quali lidi si dirigerebbe questa carovana? Perché Alfano — che continua a confidare nel successo — sottolinea come Monti abbia «perso la sua forza attrattiva»: «Non solo la vis del Professore è finita, ma molti di quelli che sono andati con lui si sono già pentiti». E tra le rovine di un centrodestra comunque da ricostruire, stare in una forza del 20% sarebbe ben diverso che migrare verso un accampamento in disarmo, se così andasse davvero il voto.
Le elezioni non si sono ancora tenute e già si discute delle future transumanze, quasi che il terremoto preannunciasse il cambio di era geologica. Ma è possibile che da un simile cataclisma il Pd possa restare immune? C'è un motivo quindi se Alfano punta il dito contro «lo scouting» che Bersani intende fare tra i grillini: «È un inglesismo dietro cui si cela un tentativo di calciomercato per garantirsi i numeri», qualora dovessero vincere. Si tratterebbe di un'«opa ostile» verso M5S, che non è detto abbia successo, oppure sarebbe «il tentativo di applicare nel Parlamento nazionale il metodo Crocetta», il governatore che in Sicilia «è dovuto scendere a patti con i Cinque Stelle per farsi approvare dall'Assemblea regionale il bilancio»: in entrambi i casi, secondo il segretario del Pdl, «è una manifestazione di debolezza».
Sta tramontando un sistema, non un partito o una maggioranza. Quanto difficile sarà il processo, lo fece capire Napolitano a Washington, parlando del suo «ultimo compito» prima di passar la mano. Si prospetta un periodo difficile, fin dall'inizio della legislatura. E i timori di una lunga gestazione per la nascita dell'esecutivo sono vissuti come il minore dei problemi, quasi si volesse esorcizzare il vero rischio, e cioè che i numeri delle future Camere non siano componibili, e che nemmeno la pronosticata alleanza tra Bersani e Monti abbia la maggioranza al Senato.
È un'ipotesi che nel Pd quotano «al dieci percento», e che viene vissuta come un incubo, perché «a quel punto — come spiega un autorevole dirigente democratico — tornare al voto sarebbe un suicidio, ma anche dar vita a una grande coalizione con il Pdl sarebbe un suicidio». Ecco il fantasma che il leader dei democrat vuole scacciare prima delle urne: «Sarà impossibile un accordo con la destra». Commento di Casini: «Consiglierei a Bersani maggior prudenza». E Grillo è lì che aspetta, dentro e fuori il Parlamento.
Francesco Verderami

Corriere 23.2.13
Maggioranza non vuol dire governo
di Paolo Franchi


Chiusa — finalmente — una bruttissima campagna elettorale, il rischio che le urne ci consegnino un Paese ingovernabile (con tutto quello di grave, e anche di drammatico, che può conseguirne) è molto, molto concreto. Incrociamo pure le dita nella speranza che questo rischio non si trasformi in realtà. Ma cominciamo anche a chiederci come abbiamo fatto a cacciarci in una trappola simile.
Se il problema è capire, non basta prendersela con chi della governabilità se ne infischia e — inneggiando alla protesta contro tutto e tutti, o inducendo schiere di pensionati a mettersi in fila a caccia dei moduli per la restituzione dell'Imu — fa il suo mestiere di populista di nuovo o di più antico conio. E inutile è pure soffermarsi adesso, dopo averle disattese per decenni, in dotte analisi sul come e sul perché, nel tempo di una crisi che morde ferocemente le condizioni materiali di esistenza di milioni di persone, i populismi (ma anche sul significato di questa parola passepartout bisognerebbe intendersi) dilaghino in modo almeno all'apparenza inarrestabile: anche stavolta le leggeremo, a tempo scaduto, all'indomani del voto, un po' come avvenne, vent'anni fa, con l'exploit della Lega. Già adesso è più interessante cercare di ragionare sugli errori (chiamiamoli così) di chi, tutto al contrario, l'ingovernabilità la teme, o fa mostra di temerla, come la peste: non solo perché alla prospettiva di governare tiene assai, ma anche perché sa, per formazione, cultura, esperienza nazionale e internazionale, che la politica, l'economia, la società hanno orrore del vuoto sempre, e tanto più in tempi calamitosi come questi.
La cosa potrà dispiacere i nostalgici dell'alternativa secca, di qua la destra, di là la sinistra, chi vince governa e chi perde sta all'opposizione preparandosi per la gara di ritorno. Ma a chiunque si sia occupato anche a giorni alterni di politica avrebbe dovuto essere chiaro da tempo che, finita alla scadenza (quasi) naturale della legislatura l'esperienza di Mario Monti, del governo dei tecnici e della «strana maggioranza», di possibilità ne sarebbero rimaste due sole. O una grande coalizione, resa però a torto o a ragione impraticabile dal fatto stesso che alla guida del centrodestra c'era e (guarda caso) c'è un signore di nome Silvio Berlusconi. O, più realisticamente, l'alleanza tra un vasto centro moderato e riformatore e una sinistra riformista anch'essa la più larga e plurale possibile. Evidentemente, però, si trattava di una prospettiva troppo chiara, persino troppo banale, per essere perseguita facendo per tempo i conti con le indubbie difficoltà del caso. E ben poco deve aver pesato l'ovvia constatazione che altre prospettive non ce n'erano e non ce ne sono.
Le cose, dunque, sono andate in tutt'altro modo. Nel migliore dei casi, se Pier Luigi Bersani non avrà da solo la maggioranza al Senato, è presumibile che i voti di Monti e dei suoi alleati trovino il modo di sommarsi a quelli della sinistra, dando luogo così a una maggioranza. La qual cosa (per nulla scontata) potrebbe bastare per formare comunque un governo. Non per assicurare una governabilità reale. Perché si tratterebbe quasi certamente di una maggioranza striminzita e dal fiato corto, appesantita già in partenza dalle polemiche, dai veleni e dai sospetti reciproci di una campagna elettorale in cui i potenziali alleati, piuttosto che competere all'interno di un progetto comune, hanno dato l'impressione, e qualcosa di più, di combattersi duramente l'un l'altro, contribuendo così non poco alla crescita di una protesta ipocritamente liquidata come «antipolitica» persino nel loro elettorato potenziale. Bersani e i suoi alleati, quasi fossero sotto l'effetto ipnotico del successo delle primarie, ci hanno messo innegabilmente del loro, muovendosi troppo a lungo come chi le elezioni pensa di averle già vinte. Ma, per apparente paradosso, Monti, che della governabilità nella tempesta è stato, in Italia e in Europa, una specie di icona, da quando è sceso, pardon, da quando è salito (con qualche ardore da neofita di troppo) in politica, ci ha messo ancor più del suo, via via fino alle ultime gaffe sulla signora Merkel o su un secondo mandato di Giorgio Napolitano. Mai con Berlusconi, mai con questa sinistra è una parola d'ordine buona per chi ragionevolmente presume di poter puntare alla maggioranza assoluta, o giù di lì. In caso contrario, anche in tempi di crisi catastrofica del bipolarismo, a chi decide comunque di partecipare alla contesa tocca dire, magari solo in linea generale, con chi, e a quali condizioni politiche e programmatiche, reputa possibile governare, e con chi no. Logica avrebbe voluto che lo si chiarisse all'inizio. Continuare a non farlo sino alla fine non è soltanto sbagliato. È pericoloso.

Repubblica 23.2.13
Il voto e l’Europa
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini


Le elezioni politiche di domani e dopodomani sono influenzate dalla recessione in cui si trova l’economia e potrebbero provocare effetti imprevedibili sui futuri rapporti tra l’Italia e l’Europa.
Oggi assistiamo ad una situazione paradossale poiché l’euro si sta rivalutando nei confronti del dollaro e dello yen, mentre l’economia continua a ristagnare. Questo fenomeno è la conseguenza delle politiche monetarie nettamente espansive praticate negli Stati Uniti e in Giappone e sta penalizzando i paesi meno competitivi del sud Europa aggravandone le difficoltà.
In Italia è la prima volta che circa la metà della popolazione si trova su posizioni antieuropee. Infatti, se diamo per buoni gli ultimi sondaggi, vediamo che le forze che rappresentano posizioni fortemente critiche verso l’Europa a guida tedesca hanno un consenso paragonabile a quello delle forze europeiste costituite dal Pd e dalla Lista Monti. La coalizione di centrodestra, il Movimento a 5 Stelle e Rivoluzione Civile sono aggregazioni incompatibili le quali, però, riscuotono il favore di un gran numero di cittadini contrari ad un’Europa autolesionista, fonte di povertà e disoccupazione.
Occorre perciò cambiare strada per salvare il progetto della moneta unica e per rilanciare un’Europa integrata e solidale che sia in grado di garantire benessere e giustizia sociale. Ma per far questo è necessario che si formi una larga alleanza di paesi su obiettivi condivisi, che comprenda l’Italia, la Spagna e la Francia, la cui economia è in netto peggioramento. Crediamo che questa alleanza debba avere le seguenti priorità.
1. La modifica dello statuto della Banca centrale europea che permetta in modo automatico l’acquisto dei titoli pubblici dei paesi in difficoltà e che consenta anche di intervenire sul mercato delle valute.
2. L’aggregazione dei debiti dei paesi europei per proteggere gli stati in difficoltà dagli attacchi della speculazione finanziaria e per porre fine alla concorrenza distruttiva che avvantaggia le aree forti e penalizza quelle meno competitive.
3. L’abolizione del fiscal compact che sancisce l’obbligo del pareggio di bilancio e, inoltre, il lancio degli Eurobond per finanziare un grande piano per la crescita e l’occupazione. Il fiscal compact è un trattato di diritto internazionale che si trova in contrasto con il Trattato di Lisbona del 2009, il quale recepisce alla lettera il Trattato di Maastricht e consente di raggiungere un rapporto tra deficit e Pil pari al 3%. Per questo motivo, al fine di garantire l’applicazione del fiscal compact, è stata necessaria una frettolosa modifica della Costituzione, in Italia come in altri paesi europei. Ma in tal modo non sarà possibile attuare quelle politiche economiche espansive che oggi sono necessarie per avviare un nuovo ciclo di crescita e per poter risanare le finanze pubbliche.
4. Sarebbe inoltre necessaria la creazione di quattro dipartimenti centrali del Tesoro, della Difesa, degli Affari Esteri e della Giustizia, sull’esempio di quanto fu fatto nella Federazione Americana alla fine del 1700.
Se l’Europa non cambia strada e non esce dalla paralisi che la attanaglia, sarà molto difficile che possa sopravvivere sia alle tensioni interne – oggi la disoccupazione ha superato il 25% in Grecia e in Spagna e continua ad aumentare negli altri paesi – sia agli attacchi della speculazione finanziaria, sia al paradosso di una moneta che si sta rafforzando mentre l’economia non accenna a migliorare.

il Fatto 23.2.13
Alfio Marchini. Candidato sindaco a Roma
“Qui comandano sempre i soliti amici degli amici”
di Chiara Paolin


Alfio Marchini è come si vede in tivù: bello. Sorridente. Gentile. Dopo una vita passata a gestire imprese e banche, ha deciso di candidarsi a sindaco di Roma con la sua lista civica. Dice che la città è piena di guai, che vince la mentalità mafiosa dove tutto finisce in mano agli amici degli amici, e lui ha deciso di reagire. Monti gli aveva offerto di fare il capolista in Lazio al Senato, e anche il Pd l’avrebbe candidato volentieri. “Io ho un’altra idea in testa: ripartire da una città per inventarsi un’Italia nuova - spiega Marchini col suo caban di lana blu -. Quando vado in giro trovo perle di genio accanto a degrado da terzo mondo. Sa cosa farei io da sindaco? Nominerei un responsabile del decoro per ogni quartiere, sottoposto periodicamente al giudizio dei cittadini. Se le cose migliorano, bene. Sennò si cambia”.
Abitudine al comando?
Vengo da una famiglia ricca. Ho avuto opportunità straordinarie. Ma dico sempre ai miei figli: nella vita conta la fatica che si fa nel percorso, non da dove si parte.
Lei partì da un nonno partigiano che le mise in mano un impero dell’edilizia a soli 22 anni. Bel privilegio, non crede?
Fu un apprendistato molto duro, col nonno. Mi disse: “Se sei sopravvissuto a me, sopravviverai a tutto”. L’azienda usciva da un periodo difficile, sono riuscito a farla fruttare, ho lavorato sodo.
Continua a sembrare il bravo ragazzo di famiglia importante che adesso si butta in politica.
Lo so, e lo capisco. Se racconto che da bambino potevo fare amicizia solo con quelli della scorta, perché era il periodo dei rapimenti e una nostra parente fu sequestrata, faccio la figura del signorino. Se dico che voglio cambiare il mondo, sembro stupido. Se qualcuno invece mi sostiene è chiaro che si tratta di un adulatore, di uno che vuole da me denaro, lavoro, chissà.
E allora chi glielo fa fare?
È successo che negli ultimi anni mi sono posto una domanda: cosa mi serve per essere felice? Risposta: non essere solo.
Cinque figli, un’ex moglie, un’ex compagna, tanti colleghi, amici importanti come Caltagirone, D’Alema e Casini: non le bastava?
Caltagirone fa affari da sempre, non ha certo bisogno di me al Comune per continuare. Massimo lo frequentavo nei primi anni ‘90, ho apprezzato la sua voglia di innovare il partito e l’Italia. Pier Ferdinando invece ha una sana consapevolezza di sé, e gliela invidio.
Cioè Casini è un politico vero, sulla breccia da trent’anni. Anche lei vuol stare al centro? La indicano come spalla moderata di Paolo Gentiloni sindaco Pd.
Allora non ci siamo capiti: non m’interessano destra e sinistra. Sto con chi rompe le regole. Ho sempre avuto un debole per le rivoluzioni.
Infatti, insieme all’Unità, editava le figurine di Che Guevara.
Appunto. Quello che propongo io è un’operazione di rottura del vecchio consociativismo. La politica deve ripartire da cose piccole e concrete per arrivare a cambiare il sistema.
Sembra Grillo.
Me lo dicono spesso. Ci sono cose che apprezzo di lui. La voglia di ripartire.
Alemanno sostiene lei sia un parvenu, un dilettante.
Pazienza.
Un modello: Pisapia o De Magistris. Quale sceglie?
Pisapia.
E alla Regione Lazio per chi vota?
Zingaretti. Persona in gamba.
Facciamo 31: alle politiche chi sceglie?
Non ho ancora deciso.
Che fa, pretattica?
Davvero non ho deciso. Ma avrei preferito votare tanti mesi fa, subito dopo l’uscita di Berlusconi: abbiamo perso tempo prezioso.
Nel 1994 lei si dimise dal cda Rai pur di ostacolare l’invadenza del Cavaliere.
Soprattutto scrissi una lettera a Taradash, allora presidente della Vigilanza, per dirgli che, senza regole nuove, i partiti avrebbero continuato a dominare la Rai.
Sognatore recidivo?
Ho fatto le scelte che ritenevo giuste nelle varie occasioni della mia vita. Adesso tocca a questa, che considero l’avventura più bella: impegnarmi per gli altri.
Snob, come ipotesi di lavoro.
Dico che mi voglio impegnare e sono un annoiato dalla vita: non vi va mai bene niente.
Allora una domanda facile: che diritti per le coppie gay di Roma, lei che si professa cattolico?
Legittimo riconoscimento del rapporto. Per l’adozione invece sono contrario, ma è un argomento così delicato che merita una valutazione più profonda.
Mica tanto rivoluzionario.
Seguo Sant’Agostino: “Ama e fa ciò che vuoi”. L’amore è la cosa più grande della vita. Nel 2009 mio figlio è andato in coma. Allora ho cominciato a pensare che, dopo tutte le cose belle e brutte del mio destino, fosse ora di fare qualcosa io, in prima persona, per tutti. Per avere intorno una famiglia ancora più grande, una comunità.
All we need is love?
Assolutamente.

Repubblica 23.2.13
Ceccuzzi: “Lascerò la corsa a sindaco”
Lo scandalo Mps scuote il Pd di Siena
di Andrea Greco e Francesco Viviano


SIENA — «Lunedì si ritira». Nell’entourage di Franco Ceccuzzi, candidato sindaco del Pd a Siena, l’avviso di garanzia per concorso in bancarotta per dissipazione sul crac Amato piove come un meteorite. Porta sospiri, sconforto e qualche lacrima. Il vincitore delle primarie del partito che ha sempre retto la città del Palio è abbattuto e provato. Molto. Anche per «tutti i fastidi creati al partito in un momento delicato come questo». Ora silenzio, ci sono le elezioni. Lunedì alle 15 a urne appena chiuse Ceccuzzi terrà la conferenza stampa dove, salvo un’affermazione Pd alle politiche che qui pochi sperano, uscirà dall’agone per le comunali di fine maggio. «Prendo qualche ora per riflettere — ha detto — personalmente ho già maturato un orientamento, su cui sto ragionando con il partito nell’interesse prioritario di Siena e dei senesi». Il partito, già. Quel partito che avrebbe già deciso che è meglio cercare di ricompattarsi su un altro candidato, magari con nuove primarie. Si sonda l’ex deputato Pd Fabrizio Vigni, presidente di Sienambiente. Si cerca un esterno, che potrebbe conciliare le due anime divise — laica e cattolica — che spodestarono Ceccuzzi da sindaco nel 2012.
Tra chi con passione lo accompagna tra settimane difficili, accreditandolo come uomo del rinnovamento (lui che fu testimone di nozze e socio politico di Giuseppe
Mussari, ma infine lo abbandonò puntando su Alessandro Profumo presidente Mps) l’idea del complotto serpeggia: «Lunedì l’uscita del papello, palesemente falso, del patto Ceccuzzi-Verdini per spartirsi poltrone in Toscana, ora nel pieno della campagna questi avvisi da Salerno, indagine chiusa a metà 2012 con 37 avvisi». I suoi tre legali sarebbero «basiti». I colpi bassi, comunque, erano nel conto di questa campagna senese, invelenita dall’affaire Mps. Può essere che proprio gli interrogatori dei pm locali - che indagano Mussari e altri 13 fra ex manager e intermediari della banca - abbiano portato elementi nuovi sul fido da 19 milioni di Mps Capital Service alla Amato Re, immobiliare nata ad hoc per una speculazione edilizia con cui, si legge nelle indagini del Nucleo polizia tributaria della Gdf di Salerno, «gli indagati dissipavano il patrimonio alienando lo storico pastificio Amato, anche al fine di porlo al riparo dai creditori nell’ambito di procedure fallimentari».
L’impresa fallì il 20 luglio 2011. Nei nuovi avvisi di garanzia, oltre a Mussari e Ceccuzzi, ci sono l’ex deputato Udeur Paolo Del Mese (presiedente Commissione finanze di Prodi) e l’ex manager Mps Marco Morelli. Tutti chiamati a rispondere al pm Vincenzo Senatore, il 28 a Salerno. A Ceccuzzi è attribuito un ruolo di mediazione tra Mussari e Del Mese (accusato d’essere a libro paga degli Amato). «Ma io non conoscevo le condizioni della Amato ribatte lui -. E dopo quella cena del 2006 non ebbi più rapporti. Se l’accusa è basata sulla partecipazione a una cena conviviale in casa Amato, con 40 invitati e le mogli... non certo un summit». Ma a Siena vi è chi ricorda i legami stretti con Del Mese, che in extremis inserì anche le 17 contrade del Palio nella legge 296/2006, che dispensa qualche centinaio di soggetti dal pagare l’Ires. «Mussari comunque non l’ho risentito. Non ci sentiamo più». Mussari, il passato che ritorna. E i suoi detriti ora portano a valle la rivincita di Ceccuzzi sotto la Torre del Mangia.

l’Unità 23.2.13
Il Papa allontana Balestrero
Seguiva il dossier sullo Ior
Vice ministro degli Esteri, il genovese nominato nunzio in Colombia
Vicino al tradizionalista cardinale Piacenza, grande rivale di Bertone
di Roberto Monteforte


Questa mattina Benedetto XVI concluderà la settimana di esercizi spirituali della Curia romana per la Quaresima. Ringrazierà per le meditazioni tenute dal cardinale Ravasi. Ma mentre si contano i giorni per la fine del pontificato, governa la Chiesa. Con serena e lucida fermezza, come seguendo un percorso definito nel dettaglio, effettua le sue scelte.
Se ancora non ha emesso il «Motu proprio» per chiarire le parti incerte della «Sede vacante» che partirà dalla sera del 28 febbraio, ieri ha deciso di inviare come nunzio in Colombia il sottosegretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, monsignor Ettore Balestrero che è il vice del «ministro degli Esteri» vaticano, monsignor Mamberti. Una scelta di peso, alla vigilia del Conclave perché quella di monsignor Balestrero è da molti considerata come figura brillante ed emergente nella struttura di governo della Santa Sede. Il monsignor, elevato ora alla carica di arcivescovo e quindi «promosso», ha 46 anni ed è di Genova.
IL MONSIGNORE IN CARRIERA
Avrebbe goduto della fiducia e dell’apprezzamento del segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, che di Genova è stato arcivescovo. Ma in curia il suo riferimento sarebbe un altro ligure. Un’altra figura di peso, perché prefetto della Congregazione del Clero: il cardinale Mauro Piacenza, tradizionalista come il suo grande maestro, il cardinale genovese Giuseppe Siri. Forse, tra i porporati italiani di curia, Piacenza è il vero antagonista possibile dell’attuale segretario di Stato in cerca di una riconferma. Sul porporato genovese pare abbiano puntato i settori più tradizionalisti d’Oltrevere e forse anche altri avversari dell’attuale segretario di Stato che Papa Ratzinger ha voluto sino all’ultimo come suo braccio destro. Non ha mai voluto raccogliere gli inviti numerosi, a rimuoverlo. Certo è che con il suo gesto Benedetto XVI ha finito per denunciare oggettivamente i limiti dell’azione concreta di governo.
Dopo la nomina del presidente dello Ior e la conferma per cinque anni del cardinale Bertone a capo della commissione cardinalizia di vigilanza sull’istituto finanziario della Santa Sede, è arrivata questa scelta. Può esserci un nesso. Visto che dello Ior e di finanze vaticane il giovane monsignore genovese si è occupato. Quasi un anno fa, era il 24 febbraio 2012, è stato proprio monsignor Ettore Balestrero a spiegare ai giornalisti in un brefing il punto di vista della Santa Sede sulla pubblicazione del rapporto Moneyval di valutazione sulle misure di prevenzione del riciclaggio del denaro e del finanziamento del terrorismo adottate dalla Santa Sede/Stato della Città del Vaticano che hanno portato a un parziale riconoscimento della trasparenza dello Ior.
Un percorso contrastato, come è emerso dai documenti resi noti da Vatelinks, che ha visto il cardinale Attilio Nicora ora a capo dell’Autorità di vigilanza finanziaria della Santa Sede ed «estromesso» dalla commissione cardinalizia sullo Ior, aveva puntato ad una maggiore trasparenza.
Nella decisione del pontefice potrebbero aver pesato i contrasti tra settori della curia attorno al nodo della gestione delle finanze vaticane. Ma sulla scrivania di Balestrero sono passati anche altri dossier «delicati» come quello della trattativa per l’accordo tra Santa Sede e Stato d’Israele. Vi può essere anche un’esigenza opposta. Garantire al neo arcivescovo un’esperienza significativa lontano da Roma e dal Vaticano, in un paese snodo per la Chiesa dell’America latina come la Colombia. Quindi il vice di Mambertì, lascia. Al suo posto «sale» il maltese monsignor Antoine Camilleri.
Sembra quasi una pena del «contrappasso» per Balestrero. Segue quasi il percorso del suo predecessore. Il molto stimato monsignor Pietro Parolin, formatosi alla scuola di Agostino Casaroli, che dal 2009 è stato inviato nunzio in Venezuela. È nella logica dello «spoil system» che segue il cambio di pontificato con l’azzeramento dei vertici della Curia romana. In questo caso, però, è stata una decisione anticipata.
Presa al termine dal suo pontificato da Papa Ratzinger. «Ma decisa comunque da tempo» ha chiarito il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi. «La nomina è diventata operativa ha spiegato dopo che il governo colombiano ha accettato la designazione. Quindi ha aggiunto non si tratta di una cosa di questi giorni». Una precisazione non banale. Visto che monsignor Balestrero è stato chiamato in causa questi giorni dalla stampa come il «plenipotenziario» per conto di Bertone nelle vicende dello Ior coinvolto nella gestione di alcune operazioni delicate.
La decisione del Papa sembrerebbe indebolire il prestigio del segretario di Stato, Bertone. Potrebbe, invece, al contrario finire oggettivamente per indebolire il suo antagonista cardinale Piacenza e chi in Curia lo appoggia.
Oltre all’atteso «Motu proprio» che potrebbe anche prevedere una possibile deroga sui tempi di inizio del Conclave su quelli fissati dalla Costituzione apostolica «Universi domini gregis», sino al 28 febbraio ci si possono attendere altre importanti decisioni da parte di Benedetto XVI. Lunedi 25 febbraio potrebbe ricevere i tre cardinali incaricati di indagare su Vatileaks, Julian Herranz, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi. Potrebbe chiedere loro di illustrare nelle Congregazioni Generali anche se in termini generali, il loro lavoro. Potrebbe anche definire i modi di una consegna del loro «rapporto» integrale al futuro Pontefice.

il Fatto 23.2.13
Bertone regna in Vaticano
La strana nomina Ballestrero
di Carlo Tecce


IL SUO SOTTOSEGRETARIO – CHE SI OCCUPAVA DI IOR – DIVENTA NUNZIO IN COLOMBIA E UN ALTRO SUO UOMO NE PRENDE IL POSTO

Tarcisio Bertone non indosserà mai la papalina, entrerà in conclave con i gradi di cardinale e ne uscirà con la stessa autorità: quel che resta, sempre immutabile, è l’enorme potere. Il segretario di Stato ha messo in sicurezza, come se fosse un'operazione d'acquisto, le sue influenze in Vaticano, le sue fitte maglie di rapporti e compromessi. Non ha esitato, mai, durante il lungo addio di Benedetto XVI. L'ultimo tassello: la nomina di Ettore Balestrero, 46enne ligure già promosso arcivescovo, che sarà ambasciatore in Colombia. Bogotà è un comodo e ambito rifugio per l'ex sottosegretario vaticano che, su mandato proprio di Bertone anche se più vicino a Mauro Piacenza, ha curato le pratiche più scottanti per l'Istituto per le Opere religioso (Ior): le (blande) norme contro il riciclaggio di denaro sporco, la (finta) rivoluzione trasparenza, le valutazioni internazionali e le inchieste dei magistrati italiani.
Balestrero è un protagonista principale di Vatileaks, non perché giovane mano che direzionava l'ex maggiordomo Paolo Gabriele, ma perché interrogato – e dunque al centro di quelle profonde lotte interne in Curia – dai cardinali incaricati da Joseph Ratzinger di indagare su fughe di documenti e regolamenti di conti. Per intenderci: la Colombia – seconda diocesi più numerosa dopo quella brasiliana – non è una punizione. E non è nemmeno una gentile concessione del pontefice: a Ratzinger toccava firmare il trasferimento, e l'ha fatto molto volentieri. Se il racconto fosse concluso qui, Bertone avrebbe una pedina in meno. Sbagliato. Perché il cardinale ha gestito il passaggio di consegne: il ruolo di Balestrero sarà ricoperto dal maltese Antoine Camilleri, consigliere del ministro per gli esteri, il cardinale Dominique Mamberti. Il porporato francese e il segretario di Stato, nonostante la diversa estrazione, il primo del gruppo dei diplomatici e il secondo di matrice curiale (romano), si sopportano felicemente da sette anni. Non si possono definire alleati, ma nemmeno concorrenti: il potere non ha colore né odore se distribuito. E Bertone è un maestro del genere. L'apertura a Mamberti, potenziale prossimo segretario di Stato, è una garanzia sugli anni a venire. Lo scambio Balestrero-Camilleri celebra il controllo totale di Bertone sul forziere santo, lo Ior. Il cardinale piemontese si è assicurato la guida sino al 2015 di quella commissione di porporati che seleziona i laici: il 2015 è una data che va ben oltre la permanenza del 78enne Bertone al governo vaticano che, a un passo da una storica sede vacante con il pontefice vivente, ha puntellato il Cda Ior con il tedesco Ernest von Freyberg. Dal 1 marzo, il cardinale sarà anche camerlengo, cioè avrà a completa disposizione le finanze straordinarie e l'amministrazione ordinaria. In questi giorni di interregno, Bertone è riuscito anche a rispolverare il vecchio (e già bocciato) progetto di un polo sanitario cattolico: fallito l'aggancio al morente San Raffaele di Milano, il Vaticano si è gettato verso l'istituto dermopatico Idi, travolto da scandali, indagini e debiti. Anche la partita Idi sta per terminare: prima è stato spedito il cardinale (bertoniano) Giuseppe Versaldi e poi il commissariamento è finito al discusso Giuseppe Profitti, direttore generale del Bambin Gesù, ex dirigente regionale ligure condannato in appello a sei mesi per concorso in turbativa d’asta per un appalto in una mensa all’Asl di Savona.
La prossima settimana, però, inizierà la campagna elettorale in Vaticano per l’elezione del nuovo Papa: i cardinali stranieri vogliono leggere la relazione su Vatileaks, gli italiani vanno di fretta e preferiscono ripararsi in Conclave.

Repubblica 23.2.13
Scandalo in Vaticano saltano le prime teste
Promozioni e allontanamenti il decisionismo di fine regno che cambia il volto della Curia
Dal pantano Ior alla grana Caritas: la parabola dell’enfant prodige
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO L’ASTRO nascente della diplomazia vaticana, monsignor Ettore Balestrero – giovane, bello, capace – promosso, ma spostato dal cuore della Segreteria di Stato alla remota Colombia. Un classico caso di promoveatur ut amoveatur di un uomo chiave, fra i più chiacchierati ultimamente, del Vaticano?
OPPURE l’atto del Papa cela altre intenzioni, dopo la sua clamorosa decisione di rinunciare al sacro soglio? L’ennesimo colpo di scena che riserva la fine del pontificato di Benedetto XVI sembra uscire da una scatola delle magie, dove ogni giorno si scarta una nuova sorpresa. E l’incarico a sorpresa assegnato a monsignor Balestrero è una nomina che fa rumore, perché giunge a soli 7 giorni dalla conclusione del regno di Joseph Ratzinger su Santa Romana Chiesa. Davanti a un Vaticano immerso in una crisi senza precedenti, con un pontefice dimissionario ufficialmente per motivi di salute, e di fronte all’apertura di un Conclave lambito dalla vicenda delle carte trafugate dall’Appartamento del Papa.
Balestrero era fino a ieri a mezzogiorno il “golden boy” della Segreteria di Stato, il governo vaticano. Quarantasei anni, cresciuto a Levanto, nello spezzino, ottima famiglia di imprenditori, sacerdote a 26 anni. Il padre accolse bene la sua scelta di fede, benedicendolo così: «Se devi fare il prete, almeno fallo bene». Insegnamento che don Ettore ha seguito alla perfezione. Incardinato presule a Roma, si è laureato in Diritto canonico, e 3 anni dopo è entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede. Poliglotta (5 lingue), ottima presenza, grande versatilità, Balestrero ha prima lavorato all’estero nelle Nunziature in Corea, Mongolia e Paesi Bassi. E nel 2009 è tornato a Roma come “vice ministro degli Esteri”. Una carriera folgorante.
Decisionista (e criticato all’interno per questo), a diretto contatto con il “ministro degli Esteri” Dominique Mamberti, in alto don Ettore è sempre stato apprezzato dal Segretario di Stato, Tarcisio Bertone.
Ma, abilissimo, ha intessuto rapporti di amicizia con molte eminenze. Anche con colui che i media hanno poi considerato come l’antagonista di Bertone, il cardinale Mauro Piacenza, genovese, prefetto della Congregazione per il Clero. In mezzo, trattative condotte con successo con Israele, Palestina, Cina. E dossier scottanti, come quello relativo alla trasparenza e all’antiriclaggio. Balestrero, pur non maneggiando direttamente le questioni riguardanti lo Ior (che spettano al Sostituto, monsignor Angelo Becciu) ha guidato la delegazione vaticana all’assemblea dell’organismo europeo di controllo Moneyval. Promosso l’arrivo alla guida dell’Aif (l’Autorità di informazione finanziaria del Vaticano) dello svizzero René Bruelhart. Si è fatto amici (nell’Appartamento papale) e nemici (allo Ior e in qualche ambiente istituzionale italiano). E in questi giorni in cui gli intrecci tra finanza e scandali emergono in Vaticano, il nome dell’influente monsignore ligure è stato più volte tirato in ballo, pur senza imputargli alcunché.
«Balestrero allontanato», esultavano ieri alcuni. Ma la lettura è doppia. C’è una promozione chiara: «Nunzio apostolico», cioè ambasciatore, con elevazione alla «dignità di arcivescovo» decisa da tempo, prima delle dimissioni papali, perché le procedure di accreditamento richiedono mesi per il gradimento da parte del governo ospitante. Però la Colombia è per l’appunto un Paese lontano, e non di primissima fila (non è né il Brasile, né gli Stati Uniti). «È una nomina anomala — giudica un osservatore navigato di cose vaticane — ma ad essere anomalo qui, oggi, è tutto il contesto». La firma apposta è quella del Papa. Che ha lasciato per un momento gli esercizi spirituali di questa settimana per promuovere/ sostituire un uomo che agiva su un tavolo fondamentale. Perché, fra gli altri suoi compiti, Balestrero era anche la persona chiamata a compiere scelte importanti su enti e organismi collegati con la Segreteria di Stato. Come la Caritas, ad esempio, obiettivo di una riforma della gestione relativa alle donazioni non ancora andata in porto. E conseguenti accuse alla Segreteria di Stato di voler accentrare ancora di più i suoi poteri.
Un Papa che sta reagendo, dopo le sue dimissioni, con forti segnali quotidiani. Prima la nomina del tedesco Ernst von Freyberg alla presidenza dello Ior, poi quella del bertoniano Calcagno alla commissione cardinalizia di vigilanza dell’Istituto, dopo quella dell’altro bertoniano Versaldi come commissario nella crisi in cui versa l’Istituto dermatologico di Roma, e ora Balestrero. Quale sarà la mossa di domani? Sono indicazioni precise quelle che sta dando il pontefice, che si rammarica di non essere riuscito a riformare la Curia. E nell’aria di spoil-system che si respira ormai in Vaticano, gli ultimi colpi di fine regno puntano a consegnare al suo successore un quadro più definito. Compreso il lascito di un viaggio.
Balestrero, infatti, in Colombia dovrà preparare la visita del Papa, prevista a sorpresa da Benedetto assieme a quella già programmata in Brasile a luglio per la Giornata mondiale della Gioventù. Perché il suo successore, il nuovo pontefice, se sarà d’accordo, oltre al viaggio a Rio, quest’anno andrà anche a Bogotà. L’America Latina sta sempre più a cuore alla Chiesa.

Corriere 23.2.13
Dietro la scelta un messaggio alla Curia italiana
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Ha meditato e programmato tutto per tempo, Benedetto XVI. Fino a definire, con l'acribia dello studioso, pure dettagli significativi come le modifiche all'Ordo rituum per l'inizio del nuovo pontificato: quando il successore prenderà solennemente possesso della cattedra di Roma, in San Giovanni in Laterano, l'«atto dell'obbedienza» al pontefice dovrà essere eseguito da tutti i cardinali presenti, uno per uno, per dare «dimensione pubblica» al gesto già compiuto nella Sistina. Padre Lombardi aveva definito la «rinuncia» di Ratzinger «un grande atto di governo della Chiesa». E fin dall'11 febbraio Oltretevere avvertivano che ci sarebbero state «altre sorprese» perché il Papa resta tale fino alle 20 del 28 febbraio. L'invio del neo arcivescovo Ettore Balestrero come nunzio in Colombia rientra in questo quadro. I tempi sono importanti: la nomina non dipende da veleni e polemiche di questi giorni e precede l'annuncio delle dimissioni, l'agreement diplomatico richiede diverse settimane. La scelta è ponderata come tutti gli atti e i gesti del Papa in questo periodo. L'annuncio in Quaresima e prima della settimana di «silenzio» degli «esercizi spirituali» a tutta la Curia. L'inizio della sede vacante in modo che il nuovo pontefice celebri la Pasqua. L'udienza ai tre cardinali che hanno indagato su Vatileaks, probabilmente lunedì, per trasmettere al successore il dossier segreto sui veleni interni, un «segnale forte» agli elettori della Sistina, spiegano Oltretevere: «Non finisce qui». E ora questa sorta di spoil system anticipato: un altro segnale alla Curia, e in particolare agli italiani, che va oltre la persona ed è rivolto anche al conclave. Certo Balestrero, a 46 anni, è un enfant prodige della diplomazia vaticana: bilingue (sua madre è americana) e poliglotta, si è occupato delle trattative più delicate. La Colombia è considerata una sede prestigiosa, nella Chiesa, ha ben 102 vescovi. E la promozione a nunzio è abituale per chi è stato «numero tre» della Segreteria di Stato. Non è però abituale che sia avvenuta ora, e non quando il nuovo Papa nominerà nuovi vertici. Si tratta quindi di guardare agli equilibri interni al Vaticano. Balestrero è stato ovviamente uno stretto collaboratore del cardinale Tarcisio Bertone, come del resto lo è anche il maltese Antoine Camilleri, già braccio destro del «numero due» nella Terza Loggia, Dominique Mamberti. Ma Balestrero è anche e soprattutto legato, in Curia, a un altro cardinale di grande peso, il prefetto della congregazione per il clero Mauro Piacenza, 69 anni, considerato tra i «papabili» o, già dall'anno scorso, tra i possibili successori di Bertone. Pupillo del cardinale Giuseppe Siri, che lo ordinò sacerdote, Piacenza è il vertice della parte «genovese» o «ligure» nella Curia cui faceva riferimento anche quel Marco Simeon che ha lasciato di recente la direzione di Rai Vaticano. Nel pre-conclave i «liguri», «conservatori» in Curia, hanno un ruolo importante. Ma i veleni degli ultimi anni non saranno smaltiti presto. Sono vicende considerate dai cardinali del resto del mondo come tutte «italiane», una percezione che i «papabili» italiani rischiano di scontare. Tra le parole e i gesti di Ratzinger, si fa notare la circostanza straordinaria del concistoro di novembre: sei nuovi cardinali e neanche un italiano o europeo. Il che non va letto tanto nel senso di considerare «papabili» non europei, ma come l'indicazione al prossimo Papa e alla Chiesa ad aprire porte e finestre e guardare sempre più «oltre l'Europa». Il nuovo pontefice, ha detto Ratzinger, dovrà avere il «vigore» per proseguire la «riforma» della Chiesa. Con il passare dei giorni, si riflette Oltretevere, acquista spessore la sua rinuncia: «Una lezione di libertà, morale e spirituale».

Corriere 23.2.13
il Giustizialismo ecclesiastico
Pedofilia, l'arma (impropria) anti-papabili
Così i sospetti e il giustizialismo ecclesiastico mirano ad azzoppare i candidati
di Massimo Franco


La pedofilia rischia di diventare l'arma impropria usata per modificare la fisionomia e i rapporti di forza fra i 117 cardinali che eleggeranno il nuovo Papa; e per offrire un'immagine caricaturale del vertice della Chiesa, seppure indebolita e disorientata dalla rinuncia di Benedetto XVI. Vicende oscure estremizzate fino a trasformare gli scandali in scandalismo sono un grimaldello usato per aprire un varco sia dall'esterno, sia all'interno del Vaticano. Sta spuntando una sorta di «giustizialismo ecclesiastico», una «Mani pulite» vaticana a livello globale.

«Io penso che il cardinale Roger Mahony parteciperà al Conclave. Perché sta diventando chiaro che l'arcivescovo emerito di Los Angeles non è il vero bersaglio degli attacchi. Mahony è solo il pretesto per colpire i papabili e destabilizzare il Conclave». La voce che arriva dal cuore del potere vaticano può apparire controcorrente, al limite dell'«impopolarità». Sembra la parola d'ordine dei difensori d'ufficio di tutto e di tutti, di fronte all'indignazione di famiglie segnate in profondità dalla pedofilia di una minoranza di sacerdoti, che un tempo veniva percepita e trattata come un orribile peccato; e oggi, giustamente, è affrontata come un crimine. Eppure, il modo in cui l'offensiva contro Mahony è montata, proprio dopo le dimissioni di Benedetto XVI, lascia intravedere anche un gioco a «bruciare» qualcuno dei suoi potenziali successori; e il rischio di una involontaria deriva omofobica.
Il problema non sono naturalmente le vittime, ma quanti hanno deciso di sfruttare la loro indignazione. La pedofilia rischia di diventare l'arma impropria usata per modificare la fisionomia ed i rapporti di forza fra i 117 cardinali che eleggeranno il nuovo Papa; e per offrire un'immagine caricaturale del vertice della Chiesa, seppure indebolita e disorientata dalla rinuncia di Benedetto XVI. Vicende oscure estremizzate fino a trasformare gli scandali in scandalismo sono un grimaldello usato per aprire un varco sia dall'esterno, sia all'interno del Vaticano. Da tempo si prevedeva che l'eco dei casi di abusi sessuali iniziatisi nel 2002 nella Boston del cardinale Bernard Law, prima sottovalutati dalla Santa Sede come «un problema statunitense», poi presi di petto dal pontefice tedesco, avrebbero avuto contraccolpi durevoli. Il Conclave improvviso non soltanto li rilancia, ma ne moltiplica l'effetto dirompente.
Sta spuntando una sorta di «giustizialismo ecclesiastico» che tende a mettere sotto accusa ora l'uno, ora l'altro «grande elettore» papale: una «Mani pulite» vaticana a livello globale, con una miscela di verità e forzature. È interessante registrare il commento di uno di loro, il cardinale Angelo Comastri, vicario del Papa per il Vaticano. «I processi non si fanno nelle piazze», ha protestato nei giorni scorsi. E nella sua affermazione si avvertono gli echi dell'Italia non religiosa, indignata e sbrigativa, che vuole azzerare tutto senza andare troppo per il sottile: la somiglianza fra le due realtà salta agli occhi in modo imprevisto e piuttosto preoccupante. Ma soprattutto si intuisce il rifiuto da parte dei vertici della Santa Sede di cedere alle pressioni di spezzoni di opinione pubblica. Eppure, quanto accade è anche il riflesso di una Chiesa «costretta a fare i conti sempre più con critiche che vengono dal basso, e sono dirette e poco deferenti», spiega un personaggio-chiave per capire i rapporti fra vescovi e opinione pubblica negli Usa.
Cautamente, a bassa voce, si rilancia la tesi di un complotto internazionale che parte dall'esterno ma può trovare sponde all'interno del Conclave. Si tratta di un teorema tutto da dimostrare. L'idea che si voglia condizionare, se non determinare l'esito dell'elezione del nuovo pontefice «tagliando» o delegittimando alcuni cardinali, però, è piuttosto diffusa in Vaticano. Può suonare come una spiegazione autoconsolatoria per una Chiesa che paga il fatto di non avere capito in tempo i cambiamenti culturali in atto in Occidente; di avere coltivato colpevolmente una «cultura del segreto» negli Anni Ottanta e Novanta, durante la stagione di Giovanni Paolo II; e dunque di non essersi accorta che la percezione della pedofilia aveva assunto contorni diversi rispetto al passato: in particolare a confronto con gli anni della guerra fredda, quando il Vaticano era parte del sistema di sicurezza dell'Occidente e, in qualche misura, il suo «braccio morale»; e dunque godeva di un margine di indulgenza anche rispetto ad alcuni reati sessuali commessi da religiosi.
Ma il crescendo di accuse vecchie, riproposte adesso, è sospetto. L'ombra di polemiche alimentate strumentalmente è pesante. Dietro il caso Mahony, con la posizione della lobby online dei «Catholics United» che chiedono la sua esclusione dal Conclave, si intravedono altre sagome; e il tentativo di abbatterle una ad una. E pensare che, a sentire chi ha letto le tredicimila pagine dei documenti della diocesi di Los Angeles, Mahony sarebbe tra i cardinali che hanno capito prima gli errori del passato. Ed ha messo a punto una serie di misure all'interno della diocesi, anche con l'aiuto di agenti dell'Fbi, per combattere e prevenire gli abusi: sebbene all'esterno abbia difeso il diritto a non rilasciare tutte le informazioni riservate, perdendo la sua battaglia nei tribunali Usa. Ma la gamma degli accusati in pectore è molto più ampia. Oltre a Sean Brady, irlandese, accusato per vicende di oltre trent'anni fa, così dolorose e traumatiche da aver portato alla chiusura dell'ambasciata d'Irlanda presso la Santa Sede un anno e mezzo fa, c'è il cardinale belga Godfried Danneels, per un brutto scandalo che ha colpito l'episcopato del suo Paese.
Poi è stato tirato in ballo il presidente della conferenza episcopale Usa, Timothy Dolan, bersagliato per il solo fatto di essere stato sentito come testimone dai magistrati per alcuni abusi nella diocesi di Milwaukee. E qualcuno tenta di accreditare come possibile «macchia» anche quella di uno dei tanti fratelli del cardinale canadese Marc Ouellet, considerato «papabile» come e più di Dolan. Il fratello è un ex insegnante che nel 2003 molestò due ragazze minorenni, e questo viene considerato possibile motivo di imbarazzo per il cardinale. Se si apre un varco così arbitrario, però, non è da escludersi che di qui al Conclave facciano capolino altre «incompatibilità morali». Non solo per la questione della pedofilia ma magari per altre vicende più o meno controverse, riguardanti «eminenze» italiane. In Vaticano sostengono che assecondando queste pressioni ci si troverebbe di fronte ad una specie di «lame duck syndrome», la sindrome dell'anatra zoppa. O, nello scenario peggiore, dei «dieci piccoli indiani». Nel romanzo giallo omonimo della scrittrice inglese Agatha Christie, uno ad uno muoiono tutti i protagonisti.
Ma in vista del Conclave, se le accuse fossero prese per buone e tradotte in veti, gli «indiani» in panni cardinalizi a rischio di autoesclusione saranno di più. Tutti travolti da simbolici «avvisi di garanzia» che il tribunale di settori dell'opinione pubblica consegna attraverso scorciatoie controverse. «Mai come in questi giorni capiamo l'importanza che il Conclave sia a porte chiuse e organizzato in modo da evitare qualunque contatto e condizionamento esterno», si fa notare. Forse, l'idea di anticiparlo di una settimana nasce anche dalla preoccupazione di fare presto: non ad eleggere il nuovo Papa, ma a cominciare il Conclave in modo tale che i cardinali siano soli con se stessi; e soprattutto che ci siano tutti, perché «quanto sta accadendo rischia di far saltare le procedure», si sottolinea. «Per i cardinali la partecipazione «non è facoltativa: è un obbligo. Sono nominati dal Papa proprio in vista dell'elezione del successore. È impensabile che le pressioni possano impedire a qualcuno di esserci». Eppure, il passo indietro di Benedetto XVI ha già dimostrato quanto sia diventato insondabile il destino della Chiesa.

Corriere 23.2.13
Caso Orlandi, le intercettazioni del prete amico del boss
di Giusi Fasano


Filmati e intercettazioni inedite. Interviste e ricostruzioni che mettono a fuoco le debolezze e le contraddizioni di un caso mai chiuso. Parliamo di Emanuela Orlandi e della sua misteriosa scomparsa, il 22 giugno del 1983.
Stasera, su La7 alle 21.30, il giornalista e scrittore Gianluigi Nuzzi riapre una volta di più il fascicolo Orlandi con una trasmissione dedicata interamente alla cittadina vaticana, sparita quando aveva 15 anni nel percorso fra lo Stato pontificio e la scuola di musica che frequentava, in piazza Sant'Apollinare, a Roma.
Gran parte della puntata è riservata ai filmati: soprattutto le scene mai viste della polizia scientifica durante il sopralluogo nella basilica di Sant'Apollinare, alla ricerca di frammenti ossei di Emanuela. Si vedono gli agenti illuminare con le torce la tomba del capo della Banda della Magliana, Enrico De Pedis, sepolto nella cripta della basilica. Li si vede abbattere un primo muro, poi un secondo, e arrivare nella sottocripta che custodiva pile di cassette di zinco. In ognuna resti umani: 250 mila reperti recuperati e poi selezionati e analizzati dall'Istituto di medicina legale di Milano e dalla polizia scientifica di Roma.
La dottoressa Cristina Cattaneo, scienziata delle ossa, spiega in un'intervista le tappe dell'enorme lavoro di analisi che è stato necessario per restringere il campo a un numero limitato di frammenti sui quali sono in corso adesso le comparazioni. Il vicecapo della polizia Luca Armeni, in un altro colloquio con Nuzzi spiega invece quanto e perché la pista dell'aggressione sessuale resti ancora oggi la più verosimile. E parla dell'uomo più discusso dell'inchiesta, don Pietro Vergari, ex rettore della Basilica di Sant'Apollinare fino al 1991 e dal maggio 2012 indagato per il caso Orlandi. Reato: concorso in sequestro di persona. Armeni lo definisce una «figura chiaroscura». E la trasmissione di stasera prova ad allacciare i fili che legano don Vergari a De Pedis e alla scomparsa di Emanuela. Altra «missione» dichiarata di Nuzzi: individuare i punti che non tornano nel racconto che don Vergari ha messo a verbale con gli inquirenti nelle sue tre deposizioni. Quando si erano conosciuti lui e De Pedis? Chi ha voluto la sepoltura del boss nella cripta della basilica? Com'è stato ottenuto il nulla osta della sepoltura? Domande che hanno risposte diverse se a parlare è il monsignore oppure la vedova di De Pedis.
E infine le intercettazioni: conversazioni inedite dal contenuto erotico fra don Vergari e un seminarista (scovato e intervistato anche lui), fra don Vergari e la vedova del Boss alla quale chiede consigli sulla versione da dare agli investigatori e, ancora, fra lui e una non identificata «eccellenza» (quindi un vescovo) che il monsignore chiama quando scopre di essere indagato. L'«eccellenza» lo liquida in modo brusco: «Non si rivolga a me, stia calmo (...) Il suo telefono è sotto controllo».

Repubblica 23.2.13
Da don Georg alle Memores domini la “famiglia” rimane con Benedetto XVI
Eredi degli antichi assistenti pontifici, andranno con lui in monastero
di Agostino Paravicini Bagliani


ORMAI è ufficiale. Il segretario del papa, Monsignor Georg Gaenswein accompagnerà Benedetto XVI nella sua nuova residenza in Vaticano. Nel monastero Mater Ecclesiae, dove il papa verrà assistito da quattro suore, che già prestavano servizio al Santo Padre. «Il nucleo fondamentale della “famiglia pontificia” — ha dichiarato Padre Lombardi — continuerà ad accompagnare Benedetto XVI e a stargli vicino ».
Ma perché Lombardi ha definito “famiglia pontificia” il gruppo di persone che assisteranno l’ex papa nella sua nuova dimora? Un gruppo di cui non fa parte nessun parente del papa. Come mai?
Il fatto è che il termine “famiglia” usato per definire l’entourage di un sovrano — in questo caso il papa — è antichissimo, e risale al Medioevo. I membri della “famiglia” del papa — ma così era anche per i vescovi e per i sovrani laici — erano chiamati familiares, titolo che i papi davano anche onorificamente a persone di alto rango che non vivevano alla corte papale. E pure i cardinali avevano la loro “famiglia”. Fino a uno o due secoli fa, la corte papale era di fatto un insieme di “famiglie”, comprendenti sovente decine di persone: dal cappellano al medico, dallo speziale allo scutifero, dal barbiere al cuoco. Insomma tutte le persone che, con le più varie mansioni, assistevano il papa e i cardinali nella loro vita quotidiana. Anche quella liturgica. Ed è per questa ragione che Padre Lombardi ha accennato alla cappella.
Anche il titolo di cappellano è antichissimo e ha una storia illustre. Durante il Trecento, la cappella papale si trasformò in Cappella musicale. E quando i papi tornarono a Roma nel Quattrocento costruiranno varie cappelle come la Sistina, che non è soltanto un luogo ma anche un Coro. E che ha avuto compositori celeberrimi, primi fra tutti Palestrina.
Nei cerimoniali antichi si legge spesso che il papa «entra nella sua camera» o «ritorna alla sua camera ». Per secoli, la camera del papa servì da camera da letto, ma era anche una sorta di ufficio, dove il papa poteva dare udienza. La camera del papa veniva anche chiamata cubiculum, e così le persone che la accudivano erano detti cubiculari. Sono un po’ gli antesignagni del Segretario, termine che si afferma soltanto dalla fine del Medioevo in poi.
I cubiculari erano generalmente due e dormivano davanti alla camera del papa: Giotto li raffigura in quel suo affresco di Assisi dove vediamo Innocenzo III steso sul letto mentre gli appare in visione San Francesco che sostiene il Laterano, ossia la Chiesa. Seduti davanti al letto del papa, due cubiculari sono come assorti in meditazione.
Quando, nel 1303, Guglielmo Nogaret fece irruzione nel palazzo del papa per aggredire Bonifacio VIII, il papa era circondato da «frati templari e ospedalieri, i suoi cubiculari».
E figure come quella del pincerna non esistono più. Eppure Giovanni XXIII, poco dopo la sua elezione al pontificato (1958) ne reintrodusse il titolo, in senso onorifico. Il pincerna o coppiere papale doveva servire il vino al papa. Era un onore, ma anche un compito di responsabilità. La paura del veleno era diffusa in quei secoli. E i cuochi della “piccola cucina” (quella riservata al papa mentre la “grande” serviva tutta la sua “famiglia”), dovevano «fare l’assaggio di tutto ciò che era presentato al papa». Gli strumenti erano lingue o unicorni che avevano, si credeva, il privilegio di far apparire la presenza dei veleni. Li si utilizzava per toccare gli alimenti.
Così il barbiere del papa usava tenere presso di sé la cassetta contenente i rasoi e la bacinella d’argento che erano serviti per radere il papa. Anche chi aveva il compito di allestire la mensa si tratteneva la tovaglia sulla quale aveva pranzato il papa. Erano modi antichi che ci raccontano e spiegano come chi stava vicino al papa fosse legato al suo signore da legami di fedeltà.
I tempi sono ora diversi. La vita in Vaticano non è più una vita di corte, come fu fino al Settecento. Ma il termine di “famiglia pontificia” è sopravvissuto, con tutto quel suo profondo significato simbolico di fedeltà e di servizio.

l’Unità 23.2.13
Custode della storia
A colloquio con Carla Gobetti che tiene viva la memoria della sua famiglia
di Stefania Miccoilis


CARLA NOSENZO GOBETTI PORTA INSIEME AI SUOI 84 ANNI L’IMPORTANZA E L’ONORE DEL COGNOME GOBETTI; VIVE A REAGLIE, UNA FRAZIONE DI TORINO, SU DI UNA COLLINA, IN UNA VILLETTA CHE FU DI ADA PROSPERO, la moglie dell’eroico intellettuale Piero Gobetti. È una anziana signora, e sembra quasi la custode di questa grande casa piena di ricordi e di memorie, in cui fra mobili antichi e i tanti libri spuntano foto con Paolo Gobetti (suo marito), di Ada e Piero Gobetti, di Benedetto Croce e di Sandro Pertini.
Con atteggiamento schivo ha sempre sfuggito le interviste; oggi, non priva di quel vigore che l’ha accompagnata per tutta la vita, è molto più disponibile a dialogare. Il suo è un carattere forte, fiero e orgoglioso: ha vissuto negli anni del fascismo, l’ha combattuto ed ha continuato a lottare perché rimanesse in vita il ricordo e l’esempio di uno dei più intransigenti intellettuali antifascisti, Piero Gobetti, stroncato a soli 25 anni dalla violenza e dalla codardia fascista. Ha alimentato e curato il Centro Studi Gobetti, in via Fabro 6 (dove vivevano Ada e Piero Gobetti), nel cuore della elegante e colta città di Torino, che vanta oltre a Gobetti, i nomi di Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Massimo Mila, Franco Antonicelli e di tanto impegno politico legato ai valori di giustizia e libertà. «Non me ne andrei mai da Torino – racconta è la mia città, dove ho sempre voluto vivere».
Neanche Sandro Pertini riuscì a convincerla a trasferirsi: «Una volta andai a Roma perché volevo ritrovare le bandiere dei lavoratori che per sfregio erano state sottratte dai fascisti alle camere del lavoro nel ‘22 ed erano state interrate da qualche parte. Doveva essere l’‘80, non si riusciva a sbloccare la situazione. Pertini, allora Presidente della Repubblica, telefonò davanti a me e a Bobbio perché si risolvesse questa ricerca. Le bandiere vennero ritrovate negli interrati della Camera, e l’emozione fu tanta quando cominciarono a sventolarle davanti a me. Pertini voleva che rimanessi a Roma a lavorare. Avrei potuto insegnare nelle scuole e raccontare del fascismo e di tanti personaggi che lo avevano combattuto. Rifiutai, la mia città è Torino».
La signora Carla è nata nel 1929 in una famiglia di umili origini. Racconta: «Mia madre era sarta, mio padre un tecnico che non si è mai, mai iscritto al partito fascista, ma era così competente che i fascisti lo chiamavano ad aggiustare gli aerei militari». Finita la guerra, dopo il liceo, si iscrive alla facoltà di lettere, ma non riesce a laurearsi: «Avevo avuto la fortuna, quando vennero gli alleati, di fare una scuola e imparare la loro lingua; volevano portarmi addirittura in America ma i miei non lo permisero».
Comincia però subito a lavorare per L’Unità. «Sono ancora oggi iscritta all’ordine dei giornalisti, dovevo insegnare anche ai giovani che venivano in sede, ed è lì che è cambiata la mia vita. Ho conosciuto Paolo Gobetti: era un giornalista e veniva sempre in redazione a portare le sue critiche cinematografiche. Era molto insistente, organizzò il nostro matrimonio in Comune; sua madre, che era vice sindaco, e che mi aveva visto alla festa dell’8 marzo che organizzavo ogni anno al giornale, aveva incoraggiato la nostra unione. Ada era una figura molto forte – continua -, era contenta che ci sposassimo, secondo me voleva sistemare il figlio. Mi stimava molto, ci volevamo bene; ora è sepolta al cimitero di Sassi, qui sotto, vado sempre a trovarla e tengo pulita la tomba».
Questo incontro è stato fondamentale per la nascita nel 1961 del Centro Studi Gobetti, che contiene un patrimonio documentario e bibliotecario di oltre 65.000 volumi, le riviste, migliaia di opuscoli ed estratti. L’archivio di Piero Gobetti si è formato per gradi, per acquisizioni successive e non sarebbe stato possibile senza l’aiuto di tanti amici e compagni. «Era necessario che nascesse, perché con Ada Prospero e mio marito Paolo avevamo visto quante persone venivano a trovarci, ed erano interessate a studiare l’opera di Piero Gobetti. Ada era riuscita a salvare dalle scorribande fasciste i documenti, li teneva qui a Reaglie, e nel tempo ne saltarono fuori tanti, anche a noi sconosciuti. Molti amici erano venuti a portarci le lettere che possedevano di Gobetti, e questo permise ancor più di valorizzare quel patrimonio. Decidemmo poi di girare l’Italia con una telecamera e riprendere testimonianze, e ne venne fuori un bellissimo film documentario: Racconto interrotto».
Oggi tutto il materiale del Centro Studi è catalogato e a disposizione degli studiosi, dei ricercatori, del pubblico. Dal 2002 ospitano anche l’archivio e la biblioteca di Norberto Bobbio. Ada Prospero ha mantenuto il Centro Studi, spendendovi tutta la sua energia, fino alla morte nel 1968, poi è subentrato come presidente Norberto Bobbio, poi Bianca Guidetti Serra. «Dal 2002 sono io presidente. La prima cosa che ho fatto sin dalla fondazione – racconta è stata quella di cercare soldi, chiederli alle banche, alla regione, agli enti, e ai soci. Nonostante la crisi il Centro Studi Gobetti resisterà sempre. Gli studiosi e gli amici che l’hanno frequentato, i ricercatori italiani e stranieri, che ancora oggi studiano nelle sale dell’Istituto, non permettono che muoia».
Lo dice con convinzione Carla, così come quando per sintetizzare la figura di Gobetti, utilizza questa espressione: «Un uomo che è stato ammazzato per difendere le sue idee. Questi – sottolinea – sono quei valori elementari che tutti capiscono» Per questo ci tieni a dire che il 25 aprile si farà una commemorazione al cimitero di Père Lachaise sulla tomba di Gobetti; così come è importante che il suo nome e il suo esempio vengano ricordati nelle scuole. Un piccolo segnale incoraggiante ce lo dà il comune di Milano: dopo oltre mezzo secolo, finalmente, la targa di una piazza a lui dedicata è stata corretta e nella declaratoria si legge «Intellettuale liberale e antifascista».

l’Unità 23.2.13
Hannah Arendt eroina al cinema
L’ultimo film di Margarethe von Trotta dedicato alla filosofa si concentra sul processo a Eichmann e la nascita della «Banalità del male»
di Gherardo Ugolini


BERLINO FA DISCUTERE «HANNAH ARENDT», L’ULTIMO FILM DI MARGARETHE VON TROTTA, DA POCO USCITO NEI CINEMA DELLA GERMANIA. La regista conclude con questa pellicola una sorta di «trilogia al femminile» su grandi donne della storia tedesca, i cui primi due capitoli erano dedicati rispettivamente a Rosa Luxemburg (film Rosa L. del 1985) e alla monaca medievale Ildegarda di Bingen (Vision del 2009). Girare un film su un filosofo ricostruendone biografia e pensiero non è per nulla facile; si rischia nella migliore delle ipotesi di produrre un documentario, e nella peggiore una fiction noiosa e inguardabile. Margarethe Von Trotta ha evitato entrambe le cose, sfornando una pellicola fresca e ricca di tensione dalla prima all’ultima sequenza. Merito anche del soggetto, visto che Hannah ha avuto una vita quanto mai interessante, dalla giovinezza trascorsa tra Königsberg e Berlino fino all’esilio americano. In mezzo l’approdo a Marburgo dove andò appositamente per studiare filosofia con Martin Heidegger, il legame sentimentale col grande pensatore, poi il trasferimento a Heidelberg dove si addottorò con Karl Jaspers, l’espatrio a Parigi in seguito all’avvento del nazismo e dopo l’occupazione tedesca della Francia la prigionia in un campo di raccolta e da lì la rocambolesca fuga negli Stati Uniti, dove Arendt cominciò una nuova esistenza lavorando come docente in alcune università americane. Senza contare le polemiche suscitate dalle sue principali pubblicazioni, a partire dallo studio sulle Origini del totalitarismo del 1951 in cui tracciava un rischioso parallelismo tra dittatura nazista e staliniana.
Ebbene, Margarethe von Trotta, che sul suo personaggio si è documentata accuratamente leggendo biografie e parlando con testimoni diretti, ha scelto di concentrarsi su un solo segmento del percorso biografico di Hannah, un segmento breve ma decisivo, ovvero gli anni tra il 1960 e il 1964. L’evento fondamentale di quel periodo, che assorbì interamente le passioni e le energie della filosofa, fu il processo contro Adolf Eichmann, l’architetto dell’Olocausto che dopo la guerra era riuscito a trovare riparo in Argentina, ma che nel 1960 fu sequestrato dal Mossad e portato in Israele. Arendt seguì da cronista il processo a Gerusalemme raccontando le sue impressioni in una serie di reportage per il giornale The New Yorker e raccogliendo poi il materiale nel pamphlet La banalità del male, destinato a diventare celebre.
Interpretata da una bravissima Barbara Sukowa, attrice prediletta della regista, la Arendt che vediamo sullo schermo fisicamente non assomiglia molto a quella storica, ma ne riproduce perfettamente lo stile comunicativo, la tempra ostinata fino a sfiorare l’arroganza, l’arrovellarsi continuo della mente, l’umorismo sottile. La si vede protagonista, insieme col marito, il poeta Heinrich Blücher, della scena intellettual-mondana newyorkese, in particolare nei circoli dell’emigrazione ebraico-tedesca; la si vede nelle aule universitarie in cui dibatte coi suoi studenti in inglese con forte accento tedesco e con la sigaretta sempre accesa. Se la relazione giovanile con Heidegger viene solo rievocata attraverso rapidi flashback, al centro del film c’è costantemente la questione del nazismo e del suo significato. È evidente che il processo Eichmann di cui sono anche mostrati spezzoni reali rappresentò per la filosofa una specie di resa dei conti con la storia e con la propria esistenza.
Pensava di trovarsi davanti un mostro bestiale e invece scoprì che Eichmann era un normale e grigio burocrate che aveva architettato deportazioni e massacri eseguendo gli ordini ricevuti e senza neppure pensare a quello che faceva. Non agiva per odio o per cattiveria, ma solo per obbedienza e senza domandarsi mai se ciò che faceva era bene o male. Nacque da lì la teoria della «banalità del male», ovvero l’idea che in un contesto totalitario si verifichi nell’individuo una scissione totale tra pensiero e morale, fino al compimento di crimini atroci senza rendersene conto. Ma all’epoca quell’interpretazione non fu per nulla compresa. Anzi, Arendt si attirò veleni e inimicizie, soprattutto da parte delle comunità ebraiche, di cui pure faceva parte. Fu accusata di giustificazionismo nei confronti del nazismo, ricevette minacce pesanti e rischiò perfino di essere sospesa dall’insegnamento. Destarono scandalo in particolare le sue osservazioni sulla «passività» degli ebrei di fronte alla Shoah.
Non era facile, ma con Hannah Arend la regista di Anni di piombo e di Rosenstrasse è riuscita non solo a consegnarci un prezioso ritratto di colei che è considerata la più acuta pensatrice del secolo scorso, ma anche a toccare un nervo scoperto della storia tedesca, senza sbavature retoriche e senza ideologismi precostituiti.

La Stampa TuttoLibri 23.2.13
Alle radici del mito
Euridice muore perché il poeta era «assente nella vita» e il verso alla fine è distruttivo
Più dell’amata Orfeo ama l’arte
L’intreccio vita­ morte­ arte­ rinascita da Virgilio a Ovidio, da Platone alla Cvetaeva
di Ferdinando Camon


Giulio Galetto «Lo scacco di Orfeo» prefazione di Claudio Magris Bonaccorso pp. 128, € 12

Sta per uscire il film su Steve Jobs, sarà un’apoteosi, Steve ha cominciato l’impresa nel famoso garage insieme con un amico, lui è morto ma l’amico è vivo, sarà contento l’amico della gloria che gli piove addosso? Nient’affatto: appare nei tg e protesta, il film è un inganno, lui meriterebbe ben altro. Noi pensavamo: Bassani ha immortalato Ferrara, Ferrara amerà Bassani. Moravia ha immortalato una Ciociara, la Ciociaria lo amerà. Non è così. Io pensavo: Carlo Levi, mandato al confino a Grassano, in provincia di Matera, ha dedicato a quella terra Cristo si è fermato a Eboli, e così ha fatto di quella terra (altrimenti sconosciuta) una delle grandi terre dello Spirito. Sono grati, gli abitanti, al grande ospite che hanno avuto in casa? Il parroco mi chiama a ricordare l’autore e il libro, in chiesa, la chiesa è piena, prima delle prime parole il prete scappa via alcuni minuti, quando torna gli chiedo: «Ma reverendo, dov’è andato? », «A portar lontano le ostie», «E perché mai? », «Perché lei parlerà di Carlo Levi», «Certo, m’ha chiamato per questo e questo farò», «Sì, ma ho paura che i parrocchiani si mettano a bestemmiare, e le ostie non devono sentire le bestemmie».
Resta in me il più forte esempio di un autore che dedica un libro immortale a una comunità, e la comunità non lo ama. Per la comunità, lui non ha amato la comunità ma se stesso. A tutto questo penso leggendo l’acuto e profondo libro di Giulio Galetto, scrittore, saggista e critico letterario, che vive a Verona. È un libro sul mito di Orfeo ed Euridice. L’ho già detta qui, molti anni fa, in un articolo su Platone, ma poiché è importante, il lettore
mi permetta di ripetere la definizione che faccio mia di mito. La ricavo dal libro di una studiosa tedesca, un vecchio libro: Paula Philippson, Origini e forme del mito greco, Einaudi. Noi viviamo nel tempo che passa, e la nostra conoscenza è l’opinione. Gli dèi vivono nel tempo che è, e la loro conoscenza è la verità. Se il tempo che passa attraversa per un attimo il tempo che è, nasce un incontro, in greco simbolo, e la forma di conoscenza del tempo simbolico è il mito. Il mito è il nostro modo di conoscere ciò che fu, che è e che sarà. Ogni figlio è un Edipo, come Freud ci spiega. Ogni artista che suona o canta o scrive per l’amata, è un Orfeo.
Il libro di Galetto ha in copertina la riproduzione a colori di un marmo del Museo Archeologico di Napoli: il gruppo Orfeo-Euridice-Ermes nel momento in cui Orfeo perde Euridice. Orfeo era sceso nell’Ade, placando con la lira gli dèi e gli animali ìnferi, e la dea della morte gli consente di riportare in vita Euridice, a patto di non voltarsi mai indietro nel viaggio di risalita. Lui si volta e la perde. L’intreccio vita-morte-arte-rinascita è raccontato da tanti autori antichi e moderni, e Galetto qui scava nei loro racconti (tra gli altri, Virgilio, Ovidio, Platone, Boezio, la Cvetaeva).
Magris, che a questo libro dedica una alta e partecipe introduzione, e Rilke, che pare scriva i suoi versi proprio osservando il marmo di Napoli, lo stesso che noi, scorrendo le pagine, torniamo continuamente a osservare sulla copertina). Rilke nota che Orfeo stringe la lira e non la donna. Il mito dice che cerca la vita, non la poesia. In realtà sta sempre con la poesia. Euridice è morta perché un serpente l’ha morsa, ma dov’era Orfeo? Non a proteggerla. Il poeta è «assente nella vita, ma presente nella vita trasformata in canto». Nel marmo Euridice tocca con la mano sinistra la spalla di Orfeo. Lo stringe, lo attira? No, lo respinge. Non si sente amata, se non come figura del canto. L’artista, quando scrive versi per l’amata, ama l’arte più che l’amata. L’arte, anche quando sembra celebrativa, in realtà è distruttiva.

La Stampa TuttoLibri 23.2.13
Un dialogo Mainardi Ceserani
Il bacio dell’innamorato discende dalle scimmie
di Antonella Mariorri


Remo Ceserani Danilo Mainardi «L’uomo, i libri e gli altri animali» Il Mulino, pp. 238, € 16

«Vorrei chiederti di parlare un po’ della comunica­zione fra gli animali e anche della comunicazione fra gli animali e noi appartenenti alla specie uma­na». Due signori, uno della cultura e uno della scienza, di quel­ la scienza che studia i nostri «compagni di specie» come li chia­mano gli animalisti: l’etologia. Remo Ceserani e Danilo Mai­nardi, amici fin quasi dall’infanzia, si incontrano a discutere anzi a dialogare ­ scrivono loro ­ sulle interazioni più profonde tra noi e «loro».
L’uomo i libri e altri animali è uno scambio di pensieri, consi­derazioni, emozioni «ricordi» e dissertazioni sulla cultura «umana», sulla storia e l’evoluzione del mondo che cammina retto su due gambe e tutto ciò che sta intorno. Così per esem­pio sulla nascita del bacio profondo tra innamorati, la disserta­zione spazia fino ad arrivare alla considerazione che pare esse­ re l’evoluzione dell’atto della madre che nutre il suo cucciolo con il cibo masticato. Comunicazione amorosa. L’etologo rac­conta della pavoncella, che marca il territorio facendo finta di mangiare quando un altro dei suoi simili si avvicina, un esem­pio perfetto di comunicazione per evitare gli scontri. Un rito. Ceserani risponde all’amico, come fosse seduto nella poltrona di fronte ed entrambi davanti a un camino, la poesia provenza­le e il verso «Quando l’usignolo canta»: due amanti che all’alba devono separarsi. Il volume nelle sue oltre 230 pagine scorre tra dialoghi leggeri e appassionati, confrontando «lo stile e il metodo delle discipline scientifiche con quelli degli studi uma­nistici». Non manca spazio per l’arte con «dipinti di scimpanzé, cavalli ed elefanti». Ma se si parla di «analogie e differenze tra vita umana e vita animale, di società umana e società animale» si affronta «il tema della cultura», che, spiega Mainardi, nel regno animale solo pochi possiedono: quelli definiti sociali, cioè che apprendono «socialmente e non individualmente».
Attenzione però all’antropomorfizzazione in cui si casca per «inadeguatezza semantica», come dire: rendiamo umani gli animali perché non sappiamo capirli abbastanza. Il dialogo prosegue sui sogni, umani e animali, sulle paure dei gatti e del­ le papere attraverso l’analisi dei sogni raccontati da Calvino e Jack London, dinosauri feriti e uomini alberi. Ma ridere e so­gnare non sono solo caratteristiche umane, come la consape­volezza della morte, propria e altrui. E poi ancora sui diritti de­ gli animali e la sperimentazione scientifica. I dialoghi tra Cese­rani e Mainardi regalano un grande affresco attraverso la let­teratura e la scienza, delle differenze e delle molte somiglianze tra uomini e «altri» animali, senza mai convincerci troppo ad appartenere a una o all’altra categoria.

La Stampa TuttoLibri 23.2.13
Il classico di Pierre Janet
Per scoprire l’inconscio servì anche lo spiritista
di Augusto Romano


Pierre Janet «L’automatismo psicologico» Cortina pp. 519, € 37

Non di rado accade che un paziente racconti all’analista che gli sta accadendo qualcosa. «Mi capita – egli dice – di provare l’impulso a uccidere mia madre, che pure amo moltissimo, tanto che ho messo sotto chiave i coltelli e le forbici di casa». La morale che si può trarre da questi casi è ormai ben nota: «L’Io non è padrone in casa propria». L’identità forte, l’Io eroico della storia di Occidente, è contrastato e talvolta soppiantato da impulsi senza nome che lo lasciano acciaccato e sgomento. Jung diede a queste entità il nome di «complessi», intendendo indicare l’esistenza, all’interno della psiche, di strutture indipendenti dall’Io. La dissociazione della psiche, di cui i complessi sono testimonianza, e il fatto che l’Io non ne abbia coscienza, dipendono per lo più da esperienze traumatiche precoci e intense. Ne consegue che ogni stimolo è differentemente decodificato dalle diverse soggettività che ci costituiscono. E così, se il portinaio non ci saluta, il nostro Io sarà portato a pensare che fosse distratto, ma il nostro eventuale complesso di inferiorità ci suggerirà che non l’ha fatto perché non valeva la pena salutare proprio noi.
Nel presentare la teoria dei complessi Jung si dichiarò più volte tributario del lavoro pionieristico svolto da Pierre Janet (1859-1947), di cui esce finalmente in una completa e accurata edizione italiana uno dei testi fondamentali, L’automatismo psicologico , apparso originariamente nel 1893. Janet, filosofo e medico, insegnante alla Sorbona e al Collège de France, fu autore un tempo notissimo; la sua fama declinò poi soprattutto a causa della insufficiente elaborazione delle cause dei disturbi psichici, che egli attribuiva prevalentemente a un deficit costituzionale. Oggi però le sue azioni risalgono, giacché i suoi studi sullo sdoppiamento di personalità precorrono le recenti ricerche sulle personalità borderline e sui disturbi post-traumatici da stress. Janet era uno scienziato positivista. Gli automatismi psicologici, oggetto della ricerca, sono appunto tutti quei comportamenti che si sottraggono al controllo dell’Io. Tra essi si collocano sia le più elementari situazioni nelle quali il soggetto sperimenta quella che potremmo chiamare una «coscienza senza Io» (è il caso della catalessia), sia la complessa strutturazione di personalità alternanti, ciascuna dotata di tratti particolari.
L’interesse del libro è duplice. Anzitutto, nel suo insieme, esso rappresenta un’ampia, argomentata, convincente dimostrazione dell’esistenza dell’inconscio e della dissociabilità della psiche, e dunque è il fondamento sperimentale della teoria dei complessi. Il fascino del libro sta però anche nei metodi e nei soggetti con cui Janet lavorava. Per le sue dimostrazioni egli si serviva infatti abitualmente dell’ipnosi; i fenomeni osservati riguardavano per lo più catalessia, sonnambulismo, scrittura automatica e ogni genere di disaggregazione della personalità; le persone su cui operava erano quasi tutte delle grandi isteriche, alcune dai tratti francamente beckettiani («Rose è anestesica e paraplegica»; «Marie ha una emianestesia, è cieca da un occhio e sorda da un orecchio…»). Con garbo aneddotico, ma senza alcun compiacimento, Janet apre le porte della nostra immaginazione e ci introduce in un mondo ora quasi scomparso, di ipnotizzatori e spiritisti: personaggi che, a seconda dei casi, sembrano imprestati dal vaudeville o dal Grand Guignol. Chi abbia una qualche sensibilità letteraria coglierà in quell’aria (in quell’aura) una strana, inquietante contaminazione di due scrittori apparentemente agli antipodi, quali Hoffmann e Zola. In ogni caso, al di là delle elucubrazioni del recensore, il libro unisce l’interesse scientifico al pungente esotismo (non certo voluto dall’Autore) delle procedure e dei personaggi.

Corriere 23.2.13
Tutto è sempre politico dai greci antichi a oggi
Una lezione per scienza, filosofia, arte e religione
di Luciano Canfora

Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, il maggiore studioso del mondo greco a cavallo tra Otto e Novecento, dopo del quale non è ancora apparsa, nei più di ottant'anni che ci separano dalla sua morte, una figura che possa stargli alla pari, di origine prussiano e nobile, organicista e filo-platonico in politica, spregiatore del parlamentarismo e del culto occidentale per tale istituzione, interprete profondo delle ragioni della Germania nel primo conflitto mondiale, assertore esplicito del dovere, per i colti, di fare politica quando è colpa grave restare a guardare, continua a creare imbarazzo (com'è caratteristico dei personaggi ricchi di sostanza) sia agli ammiratori che ai detrattori. È un peccato che non si sia ancora potuta realizzare l'edizione in lingua originale dei suoi molti articoli di giornale degli anni 1914-1920. È un errore che andrebbe sanato: grazie a quelle prose scritte per i giornali si capirebbe meglio la capacità del «reazionario» Wilamowitz di accorciare le distanze tra scienza e realtà politico-sociale; si ammirerebbe la sua capacità di divulgare (di farsi capire anche dal profano), virtù che scarseggiano anche nell'intellighenzia «democratica». E si vedrebbe meglio quanto egli stesso fosse sensibile alle questioni ricorrenti che investono il lavoro degli storici in generale e in ispecie di quelli che studiano le civiltà antiche: a) a che serve tale studio? b) è davvero neutrale e senza presupposti?
Diego Lanza, grecista di larghissima dottrina ben oltre i cosiddetti e deprecabili «confini disciplinari», ha raccolto, con una pungente e nuova introduzione, i suoi saggi degli ultimi quarant'anni sui grandi «antichisti» dell'Otto e Novecento (Interrogare il passato, Carocci, pp. 256, 19). E ha incluso tra gli altri il suo saggio su Wilamowitz (Il suddito e la scienza) che tanta eco suscitò a suo tempo. Non so se oggi egli si riconosca in toto in quel peraltro efficace «ritratto» del barone di Wilamowitz: oggi che alcuni dei bersagli di quello spigoloso «Junker» (la democrazia parlamentare di tipo occidentale) sono giunti al termine del loro ciclo storico e hanno rivelato quanto appropriate, non contingenti né effimere, fossero le critiche a tale modello che vennero, nel fuoco del primo conflitto mondiale, dal versante che possiamo chiamare per brevità «prussiano».
Ma il lato più coinvolgente della questione — utilità e non neutralità — (messo bene in luce dal Lanza sin dalla prima pagina dell'«Introduzione») è che proprio il cammino intellettuale e il lavoro dei grandi studiosi del mondo antico (Jaeger, Vernant eccetera, oltre, s'intende, allo stesso Wilamowitz) è stato un continuo cimentarsi con quelle due questioni. Esse tornarono (chi degli anziani non lo ricorda?) nella vampata «sessantottesca». L'ape e l'architetto, che fu allora un libro-culto, brandiva con forza la bandiera della non-neutralità di qualsiasi scienza (fisica inclusa). Ma quasi nessuno ricordò allora che quella era stata anche la posizione dei grandi e meno grandi esponenti della cultura nazional-socialista.
Ricorderemo qui soltanto un minore, Friedrich Ferckel (Lisia e Atene, Würzburg 1937), che stigmatizzava la benevolenza degli studiosi anglo-francesi, tutti «democratici» in politica, verso l'oratore filodemocratico Lisia (V a.C.), e da ciò traeva ulteriore conferma del suo principio generale: «Non si dà scienza senza presupposti»! Wilamowitz per parte sua disprezzava Lisia «assertore della democrazia radicale ateniese, grazie alla quale — scrive il barone — sperava di ottenere la cittadinanza». Lisia era un meteco. E in lui Wilamowitz vedeva l'analogo di quegli ebrei tedeschi che dopo la sconfitta del '18 furono additati come corresponsabili del disastro perché a torto «incistati» nella piena cittadinanza del Reich. Tesi che peraltro è sottintesa nel suo importante saggio del marzo 1918 pronunciato al circolo ufficiali tedesco nella Bruxelles occupata, Popolo ed esercito negli Stati dell'antichità (recente edizione a cura della Libreria Editrice Goriziana). Anche Arnaldo Momigliano del resto, in un non dimenticato seminario pisano su Wilamowitz, mise l'accento sulla implicita non neutralità di tutta o quasi la produzione maggiore di quel grande.
Lanza apre il suo libro con la scena degli allievi che nel '68 irrompono rispettosamente nell'aula di un docente, in piena lezione, e non ottengono risposta alla loro domanda (all'epoca alla moda) «a che ci serve la scienza che ci insegni?». L'utilità è questione «gastronomica» avrebbe tagliato corto Bertolt Brecht. (L'utilità dei suoni musicali sarebbe divertente da argomentare, fanfare patriottiche a parte).
L'introduzione di questo libro è velata di pessimismo intorno al senso e alla tenuta — tra l'altro rispetto ai pubblici poteri — del lavoro degli studiosi di antichità. Giustamente Lanza scrive che la domanda intorno all'utilità di tale lavoro non viene più dall'effervescenza studentesca ma «dall'alto». Ma serpeggia anche nelle sue pagine l'idea che noi non si abbia più una convincente risposta al quesito intorno all'utilità. Lanza liquida come insufficiente l'elogio dell'«inutile» (che però non è argomento vile). E mette anche, giustamente, in guardia dai banali corti circuiti passato/presente che ci perseguitano (ad opera — direi — di un giornalismo semicolto, frettoloso, animato da curiosità superficiali).
Io credo però che proprio dall'«esame di coscienza» cui Lanza ci sprona (quanto del passato «vive nella memoria» perché «socialmente significante»?) possa venire una rinfrancante risposta positiva, se solo si abbia la forza di guardare in profondità quel grande esperimento storico (la civiltà greca ed ellenistico-romana) che ci si para davanti e dentro cui molti (pur tecnicamente insegnanti) si aggirano come colui che si aggira per la foresta senza vedere la foresta. Quella civiltà è tutta politica. Si entra in quella civiltà non per gusto o diletto o esercizio, ma perché lì vediamo meglio ciò che, aggirandoci nel presente, non sempre capiamo: e cioè la integrale politicità di ogni espressione intellettuale. Ciò vale nella parola politica in tutta la sua seduttiva falsità, e vale nella poesia (anche la più apparentemente impolitica), nel teatro, nell'arte figurativa, nella scienza, nella filosofia, nella religione come nell'ateismo degli antichi.
Quella politicità latente e onnipresente è una straordinaria sfida intellettuale, è il laboratorio privilegiato di ogni sapere critico. È l'esatto contrario dello stolto ritornello «nulla di nuovo sotto il sole». La posta in gioco è la comprensione della sottigliezza e pervasività di quell'attività intellettuale e pratica che unifica l'agire umano e gli dà un senso. E che indusse Aristotele ad una formulazione poi abusata ma che è un'altissima conquista concettuale: il politikòn zoòn («animale politico»).

Corriere 23.2.13
Siamo tutti dislessici? I rischi di un'iper-diagnosi
Trentamila nuovi casi all'anno solo in Italia
«Ma spesso sui ragazzi si sbaglia»
di Franca Porciani


«Un tempo erano bambini discoli, disattenti, disordinati; oggi, tramontata l'epoca delle punizioni, si chiamano dislessici, discalculici, disgrafici. Finalmente la definizione corretta di un disagio che, attenzione, non è una malattia». Giacomo Stella, psicologo clinico, docente all'università di Modena e Reggio Emilia, una sfilza di libri e una vita dedicata alla dislessia, è soddisfatto: in Italia c'è una nuova sensibilità al disturbo, c'è una legge (la 170 del 2010) che gli dà piena identità e stabilisce quali strumenti di appoggio ed esenzioni debbano essere adottati, c'è la presa in carico degli insegnanti. Ma oggi le scuole sembrano traboccare di dislessici; non c'è classe dove almeno un ragazzino non sia in crisi con la lettura, l'ortografia o le tabelline. Le cifre ufficiali parlano del 5 per cento della popolazione scolastica e i nuovi casi superano i trentamila all'anno. È una nuova epidemia, oppure l'attenzione ha preso la mano a tutti? Difficile dirlo anche perché si sospetta che la «trasparenza» dell'italiano, ovvero il fatto che si legga come si scrive, abbia per troppo tempo occultato la reale incidenza del disturbo in Italia, problema prorompente nei paesi anglosassoni, dove sfiora l'8 per cento. Spiega Valentina Bambini, ricercatrice del centro di Neurolinguistica e sintassi teorica della Scuola superiore universitaria IUSS di Pavia: «Se ci esprimiamo in termini di fonemi e grafemi (le unità della lingua parlata e scritta, ndr), la differenza è impressionante: l'italiano ha circa 25 fonemi e 33 grafemi, fra la fonologia e l'ortografia la sovrapposizione è pressoché totale; l'inglese ha 40 fonemi e 1.120 grafemi, una lingua ostica, inevitabilmente, per chi ha problemi con la lettura. Già nel 1985 su mille studenti americani e italiani, una ricerca mise in evidenza una frequenza della dislessia negli Stati Uniti doppia che in Italia». E i metodi di studio del cervello sofisticati, in grado di scoprire quali aree cerebrali sono attive mentre si svolgono certe azioni e compiti, che cosa hanno aggiunto alla conoscenza della dislessia? Qualcosa hanno spiegato di quella che un tempo gli stessi scienziati chiamavano con un'espressione colorita, ma spia di grande ignoranza, la «cecità delle parole», dimostrando, ad esempio, che c'è una diversa densità della materia grigia a livello del lobo temporale sinistro del cervello, quello più implicato nel riconoscimento e l'elaborazione visiva del linguaggio. Una «neurodiversità», la definisce Giacomo Stella. Presente in uguale misura in dislessici adulti inglesi, francesi e italiani stando a uno studio pubblicato sulla rivista Brain da vari ricercatori tra i quali Daniela Perani, neuroscienziata dell'università del San Raffaele di Milano. Diversità che deve essere sostenuta, ma non guarisce «visto che in età adulta — precisa Stella — la dislessia è ancora presente nel 75 per cento di quelli che ne hanno sofferto da piccoli». Confermando l'ipotesi che qualcosa di ereditario ci sia. Il bambino oggi viene aiutato con vari strumenti: registratore, programmi di videoscrittura con correttore ortografico, calcolatrice. «La normativa non prevede l'insegnante di sostegno, per cui il lavoro aggiuntivo può diventare un carico pesante per l'insegnante — ci informa Francesca Conti, professoressa di scienze in una scuola media dell'hinterland milanese —. Fortunatamente cominciano ad essere disponibili, offerti in omaggio dalle case editrici in questa fase sperimentale, libri studiati per i dislessici, che facilitano la lettura attraverso espedienti di colore, di maggiore distanza fra le frasi, di sottolineatura di parole chiave. Ma nel corpo insegnante c'è tanta paura di sbagliare». Fenomeno confermato da Jubin Abutalebi, docente di neuropsicologia all'università del San Raffaele di Milano che vede molti di questi bambini (per legge sono le Asl e gli ospedali che devono fare la diagnosi): «Spesso arrivano alla nostra osservazione ragazzini definiti dislessici dagli insegnanti, che ad un esame approfondito si rivelano normali». Dove sta la verità? Secondo Abutalebi (e non solo) solo studi ulteriori chiariranno meglio questa «diversità» dei dislessici.

Repubblica 23.2.13
Il Faust digitale del nuovo capitalismo
di Ulrick Beck


SULL’HOMO oeconomicus, sull’ideologia neoclassica o neoliberale è stato detto tutto – ma non da tutti. Già nel 1832 Goethe, il poeta tedesco prediletto, aveva preconizzato – in versi! – nella seconda parte del suo Faust il dominio mondiale del denaro. Eppure, all’inizio del XXI secolo dobbiamo aggiungere qualcosa di essenziale, di nuovo, di originale: il “Faust digitale” o, più precisamente, la temerarietà e la cecità “faustiani” dell’ego-capitalismo.
Frank Schirrmacher, condirettore della Frankfurter Allgemeine Zeitung, nel suo libro Ego, appena uscito, descrive come l’implementazione di questo “nuovo” egoismo acquisti un carattere normativo e dopo la guerra fredda suggelli la vittoria della teoria della rational choice fin nei più piccoli dettagli del mondo della vita. Anzi, addirittura fin nell’anima digitale dell’“homo novus”. Perfino la formula della mauvaise foiconiata da Jean-Paul Sartre non va abbastanza a fondo, poiché presuppone pur sempre la libertà della scelta di se stessi. L’Io colonizzato dal capitalismo ha però perduto questo orizzonte di alternatività. Naturalmente, gli economisti dicono quello che dicono sempre: si tratta soltanto di modelli. L’homo oeconomicus non è altro che un’ipotesi. Chiaramente, lo era prima di diventare un soggetto che agisce mediante sistemi operativi.
Il real drama dal finale aperto, di cui noi tutti siamo oggi attori e spettatori, vittime e complici, ruota attorno a come l’“homunculus oeconomicus” – un cyborg, un androide, una figura artificiale, un essere uomomacchina – sia uscito dai “laboratori frankensteiniani di Wall Street”. Questa narrazione drammatica trae forza anche dalla brutale semplicità con la quale all’ipercomplessità del mondo si reagisce con 1 e 0, sì e no, accendere e spegnere; questo, per le persone ridotte a codici informatici, significa “agire” in base alle leggi degli economisti. L’individuo individualizzato, astratto, è altrettanto poco complesso e altrettanto poco sociale quanto i pezzi degli scacchi, che servono a ingannare strategicamente l’altro.
Non si crede più a nulla, ma solo a ciò che si vuole. Da qui la sfiducia di tutti nei confronti di tutti, dalla quale si diffonde ovunque il male. Qui sta il paradosso: nel momento storico in cui le istituzioni del welfare, i mercati finanziari e il rapporto con l’ambiente naturale sono entrati in una crisi fondamentale, nascono le “ego-monadi”. La loro funzionalità non consiste soltanto nel mettere in ombra le conseguenze del proprio agire per gli altri. Esse vanno anche decifrate come strategia di schivamento del rischio in un mondo di rischi globali — come patologia sociale dell’ego- capitalismo. La crisi finanziaria e dell’euro dischiude soltanto un primo sguardo su questo accecamento del Faust digitale. I mercati finanziari sono soltanto i primi mercati automatizzati. Ma altri ne seguiranno. Comunicazione sociale, big data, i servizi segreti, il controllo dei consumatori, i veri o presunti terroristi, le università nella vertigine delle riforme neoliberali, le relazioni d’amore digitalizzate, gli scontri tra le religioni mondiali nello spazio digitale, ecc.
Cosa c’è di nuovo nel Faust digitale? Nel Medioevo gli alchimisti cercavano di trasformare metalli non nobili in oro. Gli odierni “alchimisti del mercato” (Schirrmacher) trasformano ipoteche tossiche e altamente rischiose in prodotti di prima classe, classificati come tanto sicuri da venire acquistati dai fondi-pensione. Si può comperare una casa senza denaro e continuare a spendere il denaro che non esiste? Sì, si può, ribattono i giocolieri neoalchimisti delle banche too-big-to-fail che operano in tutto il mondo.
Quanto al resto: la religione, Freud, la poesia – tutto nel museo delle idee morte dell’umano! Dinanzi a noi sta il nuovo mondo della manipolazione digitale dell’anima. L’hybris di potenza faustiana confina con il filisteismo. Innumerevoli, spesso stolidi attori digitali sono così innamorati delle loro idee da non accorgersi che da ingredienti come il proprio tornaconto, la ricerca del profitto ad ogni costo e la capacità di escogitare trucchi nascono mostri. Anche mostri politici. La politica del risparmio, con la quale attualmente l’Europa risponde alla crisi finanziaria scatenata dalle banche, viene percepita dai cittadini come una mostruosa ingiustizia. Per la leggerezza con la quale le banche hanno polverizzato somme inimmaginabili essi devono pagare con la moneta sonante della loro esistenza.
I tecnocrati della finanza, questi interpreti della mostruosità, hanno sviluppato un linguaggio curiosamente terapeutico. I mercati sono “timidi” come caprioli, dicono. Non si lasciano “ingannare”. Ma gli inappellabili giudici economici, chiamati “agenzie di rating”, che professano anch’essi la religione mondana della massimizzazione dei profitti, emettono, in base alle leggi dell’ego-capitalismo, sentenze che colpiscono interi Stati al cuore della loro economia – perlomeno quella dell’Italia, della Spagna e della Grecia.
“Ognuno deve diventare il manager del proprio Io” (Schirrmacher). È passato il tempo nel quale gli imprenditori erano imprenditori e i lavoratori lavoratori. Ora, nello stadio dell’ego-capitalismo, è sorta la nuova figura sociale dell’“imprenditore di se stesso”; ossia, l’imprenditore scarica sull’individuo la coazione all’autosfruttamento e all’autooppressione e questo dovrebbe suscitare entusiasmo, poiché questo è l’uomo nuovo, generato nel bel mondo nuovo del lavoro. L’imprenditore di se stesso diventa, per così dire, la “pattumiera” dei problemi insoluti di tutte le istituzioni. E deve trasformare a sua volta la pattumiera, questo garbage can a cui è stasione to ridotto, in un processo creativo di se stesso.
E tuttavia l’“individualizzazione”, intesa in senso sociologico, è ben più di questo: è “individualismo istituzionalizzato”. Non si tratta soltanto di un’ideologia sociale o di una forma di percezione del singolo, ma di istituzioni centrali della società moderna, come ad esempio i diritti civili, politici e sociali fondamentali, che hanno tutti per destinatario l’individuo. Nasce così una generazione global, interconnessa in una rete transnazionale e avviata a sperimentare come l’individualismo e la morale sociale possano tornare ad accordarsi tra loro e come la libera volontà e l’individualità si possano conciliare con il mettersi a disposizione degli altri.
Molti ragazzi non sono più disposti a essere soldati che eseguono le direttive gerarchiche delle organizzazioni assistenziali o a dare, o meglio a consegnare il loro voto come soldati di partito che devono soltanto fare numero. Al contrario: le istituzioni – sindacati, partiti politici, chiese – stanno diventando cavalieri senza cavalli. La ribellione e la critica contro il capitalismo che si stanno diffondendo nel mondo nascono da entrambi questi fattori e dalla loro collisione:l’individualizzazione dei diritti fondamentali e la mercatizzazione dell’Io, conseguenza di regole economiche cristalline.
Al più tardi a partire dalla fusione del nocciolo del capitalismo finanziario il messaggio con il quale l’ideologia neoliberale aveva conquistato il mondo dopo il crollo del comunismo è andato in pezzi. I profeti del mercato non predicavano semplicemente l’economia di mercato, ma promettevano il socialismo migliore. Questa visione così ambiziosa dell’ego-capitalismo sopravvive soltanto nei circoli degli incrollabili fondamentalisti del mercato. E anche qui non è più così monolitica, come dimostrano i recenti contrasti tra i repubblicani negli Usa, alcuni dei quali si stanno convertendo a una regolazione statale dei mercati finanziari. Il rischio sempre più palpabile del crollo ha anche ridestato il sogno di una nuova Europa. “Unione bancaria” è una delle parole di speranza. L’idea-guida si basa sull’assunto che la catastrofe anticipata comporti l’imperativo cosmopolitico: applica regole internazionali, cambia l’ordine esistente del politico! Ovunque sono all’opera rivoluzionari part-time che lavorano in questa direzione – mi limito a citare Mario Monti, impegnato nel far cambiare rotta alla Banca centrale europea.
Viviamo in un’epoca nella quale è accaduto qualcosa di inimmaginabile fino a poco tempo fa, ossia che i fondamenti del capitalismo globale allora “razionale” ma adesso “irrazionale” siano diventati sempre più politici, cioè problematici, cioè politicamente configurabili. Esistono versioni radicalmente differenti del futuro dell’Occidente, dove ormai è in corso quasi una guerra fredda interna: da un lato c’è chi vuole un capitalismo regolabile, che cerca il compromesso con i movimenti sociali ed è aperto alle questioni ambientali e dall’altro c’è chi punta sull’autoregolazione dell’ego-capitalismo globalizzato e su un’intensificazione degli interventi militari, nel tentativo di creare la coesione nazionale mediante schemi amico-nemico – questo è il nocciolo del conflitto.
I rischi globali sono una sorta di memoria collettiva forzata – del fatto che il potenziale di annientamento a cui siamo esposti reca in sé le nostre scelte e i nostri errori. Essi compenetrano ogni ambito della vita, ma nello stesso tempo dischiudono nuove opportunità per riorganizzare il mondo. Questo è il paradosso dell’incoraggiamento che viene dai rischi globali. Qui sta l’opzione europea: nel porre sistematicamente la questione dell’alternativa all’ego- capitalismo digitale. Ossia la questione di come siano possibili una maggiore libertà, una maggiore sicurezza sociale e una maggiore democrazia grazie a un’altraEuropa.
Traduzione di Carlo Sandrelli

Repubblica 23.2.13
Storia del pensiero senza la persona
Da un testo di Simone Weil fino all’arte contemporanea
di Roberto Esposito


C’è qualcosa di enigmatico e di urtante – che cozza inevitabilmente col senso comune – nello straordinario frammento di Simone Weil La persona e il sacro, adesso edito da Adelphi, a cura di Maria Concetta Sala, con una postfazione di Giancarlo Gaeta intitolata Il passaggio nell’impersonale.
La questione è proprio quella racchiusa in quest’ultimo termine. Cosa è l’impersonale e in che senso interpella il pensiero? In quali scaturigini affonda e in quale direzione muove? Per rispondere a queste domande bisogna partire dalla tesi più radicale avanzata dalla Weil con il coraggio che le era proprio. Appena prima della fine della guerra, nel momento in cui più forte soffiava il vento del personalismo, rilanciato dagli interventi di Mounier e di Maritain, subito recepiti nella Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani del 1948, Simone, solitariamente, afferma che «la nozione di diritto, proprio per la sua mediocrità, trascina naturalmente al suo seguito quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali. È posto a questo livello». Concludendo che «ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale».
Cosa voleva dire? Come osava sfidare il più potente totem della cultura democratica? Per capirlo bisogna leggere le pagine che, non solo in questo testo, aveva dedicato al diritto romano e alla funzione escludente che in esso giocava la categoria di persona. Tale termine, a Roma, non designava per nulla il singolo individuo. Rimandava, piuttosto, secondo l’etimo, alla sua maschera sociale, ad uno stato giuridico che, pur comprendendo in astratto tutti gli esseri viventi, li discriminava, ponendo gli uni nella piena disponibilità di altri. Al punto che la maggioranza dei romani – esclusi i maschi liberi e adulti – finiva per oscillare tra la categoria di persona e quella di cosa posseduta. In tal modo proprio quel concetto, oggi assunto a garanzia del rispetto per ogni individuo, è stato a lungo, e per certi versi continua ad essere, un dispositivo di discriminazione tra “persone vere e proprie” e semplici appartenenti al genere homo sapiens, come filosofi liberali quali Peter Singer e Hugo Engelhardt continuano a teorizzare. Del resto, se forse nessun altro ha colto la questione con la nettezza provocatoria di Simone Weil, il riferimento, implicito o esplicito, all’impersonale, come punto di unificazione dell’uomo con se stesso, attraversa l’intero Novecento. Che rilievo abbia avuto nella nozione freudiana di inconscio, volta appunto a decostruire le ingenue pretese di autodominio del soggetto personale, è fin troppo evidente. Ma si può ben dire che l’intera arte contemporanea – assai più pronta della filosofia a recepire gli umori profondi del tempo – si costituisca nella critica della nozione classica di soggetto. Basti pensare alla decostruzione della figura in tutta la pittura novecentesca, almeno a partire dal cubismo. Per non parlare della letteratura. Quando Maurice Blanchot sostiene che «scrivere equivale a passare dalla prima alla terza persona» (L’intrattenimento infinito, Einaudi 1977), si riferisce appunto a quel processo sotterraneo che disloca tutta l’esperienza letteraria novecentesca verso la terra dell’impersonale. E cosa di diverso intendeva, il protagonista dell’Uomo senza qualità, quando affermava che «poiché le leggi sono la cosa più impersonale del mondo, la personalità non sarà ben presto che l’immaginario punto d’incontro dell’impersonale» (Einaudi 1965)? Essendo venuta meno l’identità personale – tanto che a distanza di qualche anno si assomiglia più agli altri che a se stessi – il mondo ha assunto una configurazione eccentrica rispetto alla classica bipartizione tra soggetto e oggetto.
Quanto al cinema e alla musica contemporanea, se ne capirebbe ben poco fuori dal riferimento all’impersonale. Da Ejzenstejn a Pelesjan l’immagine cinematografica passa dietro o davanti il soggetto – lo attraversa e lo sfonda. Non diversamente da come il suono pieno si spezza, o si interrompe, nella dodecafonia. Rispetto a tutto ciò può apparire che il pensiero sia in grave ritardo. Solo da poco, in connessione con la critica del dispositivo giuridico della persona, ha aperto una interrogazione radicale sul significato dell’impersonale. Eppure una vena profonda – che si può far partire dall’averroismo – percorre, come una trama nascosta, la storia del pensiero. Autori come Giordano Bruno, nettamente avverso alla categoria teologica di persona, o come Spinoza, già avevano posto le domande decisive su ciò che significa oltrepassare il lessico antropocentrico, in una prospettiva che ricollochi l’uomo in una relazione costitutiva col mondo e con le altre specie viventi.
Proprio l’attuale ripresa della categoria di vita – diversamente dalle filosofie del soggetto e dell’oggetto – costituisce il centro focale di un nuovo pensiero che, soprattutto in Francia e in Italia, taglia in maniera trasversale il dibattito filosofico.
Una vita… è il titolo dell’ultimo testo, interamente affacciato sul bordo dell’impersonale, che ci ha lasciato Gilles Deleuze (adesso in Due regimi di folli e altri scritti, Einaudi 2010). Cosa altro è la vita, se non quanto abbiamo di più impersonale, perché non ci appartiene in proprio, e di più singolare, perché assolutamente irripetibile?

Repubblica 23.2.13
Se l’ingiustizia si mangia la libertà
Un libro intervista di Nadia Urbinati sulla diseguaglianza
di Chiara Saraceno


«L’a democrazia non ci promette di realizzare un ordine superiore di vita o una società perfetta. Non ci promette neppure di dare vita a una società di eguali. La sua funzione consiste nel tenere insieme libertà e pace sociale, di far sì che, diventando cittadini, persone che sono diverse nelle opinioni e nelle situazioni sociali, nelle credenze e nelle aspirazioni, vivano insieme rispettandosi, all’interno di un sistema di diritti e di doveri ugualmente distribuiti». Se la prima metà del Ventesimo secolo ci ha insegnato quanto possa essere devastante un’idea di uguaglianza senza libertà individuale, oggi, nelle nostre democrazie consolidate, a essere a repentaglio sono l’uguaglianza e l’universalismo.
La cultura, prima ancora che le politiche, neo-liberista che dagli anni Ottanta del Novecento ha incrinato il consenso insieme keynesiano e socialdemocratico che aveva guidato le democrazie capitaliste occidentali, ha infatti presentato la regolazione dei mercati e i sistemi di welfare sviluppati nel dopoguerra come inciampi indebiti alla libertà economica e all’accumulo di ricchezza. Nonostante i molti segnali di fallimento sul loro stesso terreno delle politiche neo-liberiste degli ultimi decenni (allontanamento del sogno della piena occupazione e del benessere per tutti), la delegittimazione delle politiche universalistiche e degli interventi di contrasto alle disuguaglianti escludenti e squalificanti è continuato, trovando nuova linfa nei processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. Questi hanno eroso le basi sociali dell’economia e il senso di responsabilità per il bene comune di chi ha di più. A differenza, o molto più, dell’industria e delle cosiddetta economia reale, la finanza non ha né patria né territorio; e chi la manovra non ha particolari interessi nello stato di uno o l’altro paese e di chi ci vive, salvo che quando lo sente come un ostacolo da rimuovere, come successe in Cile con Pinochet contro Allende.
Di più, la straordinaria escalation della globalizzazione economica e finanziaria rende gli stati meno democratici, perché riduce la loro sovranità di decisione proprio nelle scelte politiche più ampiamente e socialmente democratiche, ovvero in quelle che riguardano appunto la regolazione dei mercati e la redistribuzione via welfare state. Alla globalizzazione e de-territorializzazione dell’economia fa da contraltatare quasi speculare un rafforzamento della richiesta di politiche identitarie, che circoscrivano “gli uguali” — quelli che “hanno diritto ad avere diritti” — rispetto ai “diversi”, le cui domande di appartenenza comune vanno respinte — che si tratti dello slogan “prima il nord”, o del rifiuto a riconoscere pari dignità alle persone omosessuali. Se il primo fenomeno provoca una sorta di secessione dell’economia non solo dagli Stati, ma anche dagli organismi internazionali, il secondo provoca una sorta di secessione interna, con il prevalere delle identità nazionali, etniche, religiose, (etero) sessuali, e così via sulla comune appartenenza statuale. Sotto questa doppia spinta secessionistica, la democrazia sta conoscendo una mutazione tanto silenziosa quanto insidiosa dei meccanismi che la fanno vivere e riprodurre.
È questo il filo conduttore della densa e articolata riflessione che Nadia Urbinati svolge nel suo ultimo libro in uscita da Laterza (Mutazione antiegualitaria), scritto in forma di intervista con il giornalista Arturo Zampaglione. Una riflessione che spazia da una sorta di ricostruzione della sua autobiografia intellettuale ad analisi puntuali di fenomeni sociali e politici quali la Lega o Occupy Wall Street e che incrocia la tradizione intellettuale e pratica della democrazia statunitense con quella europea continentale, con il ruolo diverso che in esse gioca l’atteggiamento verso lo stato. Ma il tema centrale, cui Urbinati continua a tornare, è che la crescita delle disuguaglianze e la de-solidarizzazione dei ricchi in una economia globalizzata rischiano di far cadere il fragile equilibrio tra libertà, solidarietà e uguaglianza dei diversi su cui si è retta, almeno idealmente se non sempre nei fatti, la democrazia occidentale. Una mutazione che, per non diventare fatale, richiederebbe la capacità di sviluppare nuove narrazioni, che rimettano in moto la disponibilità a operare per un bene comune consensualmente definito.
La mutazione antiegualitaria di Nadia Urbinati (Laterza a cura di Arturo Zampaglione pagg. 176 euro 12)