sabato 9 aprile 2016

Corriere 9.4.16
Architettura
Senza più botteghe, ma più liberi
La scomparsa delle grandi scuole (come il Bauhaus) e dei grandi maestri (Raffaello per Giulio Romano) ha finito per privilegiare il lato tecnico-specialistico della professione rispetto a quello umanista
di Pierluigi Panza

Maestro era la parola più bella dell’architettura. Raffaello ebbe come maestro suo padre e fu maestro di Giulio Romano; Paolo dal Pozzo Toscanelli fu maestro di Brunelleschi, lo sconosciuto Bartolomeo Cavazza da Sossano quello di Palladio, il siciliano Giuseppe Vasi lo fu per Piranesi. Il maestro era un individuo carismatico che aveva conoscenza dell’intero processo dell’opera e lo trasmetteva affettivamente agli allievi in due modi: insegnando nelle accademie o dirigendo una bottega. Gli allievi che entravano in accademia erano spesso, come oggi, dei «figli di». Ma gli apprendisti di bottega non erano necessariamente dei raccomandati: Paolo Uccello era figlio di un barbiere, Andrea Del Castagno di un contadino, Filippo Lippi di un macellaio, Botticelli di un conciatore di cuoio, Tintoretto di un tintore e Pollaiolo, ovviamente, di un pollivendolo. Nemmeno i grandi conoscitori d’arte e d’architettura dovevano necessariamente provenire dall’élite: il più grande di tutti, Winckelmann, era figlio di un ciabattino.
Ma allora, perché oggi un’affermazione come «l’allievo ha superato il maestro» è divenuta impossibile? Perché un’altra affermazione come «non esistono più i grandi maestri» è diventata scontata, quanto quella sulla sparizione delle mezze stagioni?
Perché, con l’avvento del Capitalismo, la specializzazione è diventata un caposaldo dell’agire lavorativo. Ne consegue che l’universalismo del maestro, ovvero di colui che coordinava l’intero processo della creazione e della progettazione è stato svalutato e svuotato di senso. L’azione pedagogica, trasmessa anche attraverso l’atto etico dell’esempio, è venuta depotenziandosi sino a spegnersi nell’età digitale in cui l’accesso a un’informazione di carattere manualistico (come si usa? come si fa?), che è il contrario della conoscenza, è diventata anonima e aperta indiscriminatamente su siti specializzati, meglio ancora attraverso i tutorial. I tutorial assolvono, senza interrelazione umana, al compito che fu dei maestri: far vedere come si fa una cosa, acquisire una «maniera». Tecnicamente, oggi saremmo in grado di progettare «alla maniera di», seguendo dei tutorial senza dover partecipare a iter di studi o rispondere a docenti, ricevendo al termine del tutorial un attestato di partecipazione, proprio come si erogano crediti professionali attraverso dei corsi online che sono smunti nipotini dei corsi Radio Elettra di formazione professionale. Ma dove non c’è vita, bensì solo pixel, dove non c’è nemmeno la morte (tumulo, piramide, tomba), non c’è architettura.
La «scomparsa» del maestro in architettura può essere vista come un atto di liberazione, di apertura, specie se l’affiliazione al maestro avveniva per cooptazione o il rapporto implicava — come negli anni Settanta — un intero modo di pensare, parlare e agire derivato da posizioni fortemente ideologiche, da un pensiero unico che non lasciava spazio ad alcuna forma di affrancamento. Quest’ultimo aspetto, infatti, è quello che ha generato il fenomeno della cooptazione del più debole in quanto più servile e non in grado di «superare» la maniera del maestro. Con l’aggravante che il riferimento all’essere «allievo di» (o presunto tale per millantato credito) ha spalancato le porte a figure che lo non meritavano. Tuttavia, la «scomparsa della pedagogia» e della trasmissione affettiva del sapere, unita alla segmentazione delle competenze come unico orizzonte didattico, ha generato nell’architettura (e anche nella letteratura e nelle arti) un’intera generazione che si potrebbe definire della «disappartenenza». Disappartenenza da un maestro, e passi...; ma anche disappartenenza a un ruolo professionale (che mai nella sua storia ha contato politicamente così poco) e al dominio di una disciplina.
Molti degli attuali progettisti, e anche dei critici e degli osservatori, appartengono alla generazione postmoderna dei senza maestri. Questo ha sfavorito il loro accoglimento nelle sfere privilegiate delle professioni, li ha resi esposti e fragili ma, al contempo, ha consentito loro una libertà di letture, approcci, modelli, creazioni di certezze sempre rimesse in gioco. Del resto, la progressiva crisi degli statuti dell’architettura, la scompar-sa delle grandi scuole (il Bauhaus...), dei maestri del Movimento Moderno (Le Corbusier, Frank Lloyd Wright...) e l’avversità accademica a ogni approccio umanistico alla disciplina in favore dell’apprendimento di tecnologie specialistiche (che hanno generato architetti segmentati come gli architetti di impianti, gli illuminotecnici, gli strutturisti, quelli dei processi produttivi…) ha finito con il marginalizzare anche le figure dei grandi progettisti che hanno saldato prassi a contenuti pedagogici. Penso a quelle di Mario Botta, Vittorio Gregotti, Giorgio Grassi, Aldo Rossi, Paolo Portoghesi... e anche figure come quelle di Franco Purini, Marco Dezzi Bardeschi o Alessandro Mendini, che hanno cercato di mantenere i rispettivi «settori» (progettazione, restauro, design) legati a una visione universalistica e storica dell’architettura. Molto rari sono stati i casi di progettisti che hanno cercato di rinnovare i modelli didattici coniugandoli alla contemporaneità anche digitale (penso a Italo Rota alla Naba e alla Domus Academy) o che hanno cercato di far maturare allievi negli studi (il più noto è il caso dello studio di Renzo Piano con il suo impegno, anche con Marco Ermentini, per giovani e periferie).
E così, mentre l’architettura e il design avanzavano nella cultura di massa fagocitati dal sistema dello stilismo, felici di conquistare uno spazio subalterno al sistema della moda del quale hanno acquisito i metodi promozionali, il termine «maestro» ha finito con l’essere sostituito da quello di «archistar» o di altri baluginanti sostitutivi affettivi dei maestri, la cui esplosiva ma ineffabile parabola mediatica è il contrario della «lunga durata» dei maestri. E questo vale anche per le ipocrite rappresentazioni di opposizioni alla finanziarizzazione dell’arte e dell’architettura che in realtà nascono e si sviluppano all’interno del sistema stesso, divenendo dei finti anticorpi, come antibiotici presi saltuariamente. Ripartire dagli esempi dei maestri attraverso la lettura del loro pensiero e delle loro opere può essere un antidoto al selfie dell’archistar.
Corriere 9.4.16
Genio, design, passioni: il lato privato dell’archistar
di Stefano Bucci

Dallo stile british di Foster alla timidezza di Zaha, dalla pastasciutta di Niemeyer al basket di Gehry
Gary Cooper alias Howard Roark, nel film La fonte meravigliosa del 1949, sembra davvero un guerriero, proprio come lo sceriffo Will Kane di Mezzogiorno di fuoco : un architetto che, con le sue grandi vetrate e i suoi colonnati razionalistici, combatte anche fisicamente contro il gusto di un’America ormai passata (similfuturista o neoclassico che fosse), un ruolo ispirato in modo evidente al regista King Vidor da un mostro sacro della progettazione, Frank Lloyd Wright (1867-1959). Qualche anno dopo (nel 1987) il visionario Peter Greenaway metterà a sua volta in scena e filmerà nel Ventre dell’architetto le ossessioni di un altro progettista immaginario, l’americano Stourley Kracklite (interpretato da Brian Dennehy), ammaliato stavolta da Roma, dai suoi monumenti e soprattutto da Etienne-Louise Boullée (1728-1799), ancora una volta un architetto realmente vissuto, il grande maestro del Cenotafio di Newton e della Biblioteca Nazionale di Parigi.
Progettare (o almeno farlo bene) è qualcosa di eroico. Un’impresa che ogni architetto cerca di portare alla conclusione secondo il suo particolare modo di essere e il suo stile, un modo di essere e uno stile che inesorabilmente si traducono nella realtà fisico-professionale dello studio-laboratorio di ognuno di loro. Difficile, ad esempio, raccontare Renzo Piano (la Lezione di architettura e design che inaugura oggi la nuova collana del «Corriere della Sera» è dedicata proprio a lui) senza parlare dei suoi studi di Genova e di Parigi.
Il primo, a Vèsima, con un’incredibile vista mare (quasi a voler ribadire le passioni di Renzo per la sua città e per la barca a vela), sempre affollato degli studenti dei suoi workshop; una sequenza di grandi spazi (a piu livelli) pieni di luce e con una fantastica cremagliera tutta trasparente che dall’entrata porta direttamente a metà del costone di roccia. A Parigi l’atmosfera internazionale (una sorta di piccolo ateneo della progettazione) non cambia, come non cambia la pacifica invasione della luce (uno degli elementi più classici dell’architettura di Piano), mentre si trasforma logicamente la location : a ridosso della oggi borghesissima (e molto elegante) Place des Vosges e di quel Centre Pompidou inaugurato nel 1977 che ha fatto definitivamente diventare l’architetto genovese una star mondiale.
L’atelier dell’architetto può raccontare, dunque, molto più dei suoi stessi progetti. Perché ne può raccontare l’essenza personale, la cifra umana. Oscar Niemeyer (1907-2012), il mago di Brasilia (uno dei pochissimi ad aver costruito un’intera città), amava parlare ed essere intervistato seduto davanti alle vetrate del suo studio affacciato sulla spiaggia di Copacabana. Parlava spesso di donne, delle loro «linee curve» che lo avevano ispirato; donne che in continuazione disegnava sulle pareti (pochi tratti tracciati senza esitazione). E nonostante ad ogni nuovo incontro perdesse inesorabilmente un po’ del suo udito da centenario, rimaneva pur sempre il solito vanitoso, quello che si interrompeva per improfumarsi di Chanel e per controllare che la sua camicia fosse sempre adeguatamente candida. Poi, ad un certo punto, la conversazione si interrompeva: qualcuno dei suoi (pochissimi) assistenti andava in cucina e dopo un attimo era tempo di mangiare la pasta al pomodoro. Sempre con vista su Copacabana.
Gae Aulenti, nel suo studio terra-tetto milanese che guardava la chiesa di San Marco, si sedeva invece al tavolo da lavoro, al mezzanino, è iniziava a parlare, prima timidamente, poi sempre più fluently , accendendosi una sigaretta dopo l’altra: la voce era bassa, ma tutto era inesorabilmente chiaro e preciso, come la sensazione di trovarsi davanti una persona molto speciale.
Come altrettanto speciale si dimostrava Frank O. Gehry, che, una volta che eri sbarcato a Los Angeles, ti chiedeva: «Che cosa dovrei raccontare di me? Non mi sembra di avere molto da dire», inesorabile esordio di ogni conversazione con l’architetto. Quando però iniziava a mostrare quei modellini che affollavano uno studio-magazzino-deposito con più di trecento collaboratori, ecco che il grande eroe del Guggenheim Bilbao si dimostrava molto più simpatico di quanto potesse sembrare all’apparenza. E il momento migliore, quello in cui sembrava più felice, era certamente quando esibiva le sue foto da accanito tifoso dei Los Angeles Lakers.
L’istrionico Philippe Starck, quello dello spremiagrumi che ha trasformato l’idea stessa di cucina, a lungo ha ricevuto i suoi ospiti (con ostentazione) nello studio parigino all’epoca a ridosso di Place de la République (ora è invece in zona Trocadero), in un grande palazzone pieno di pied-noir: qualcosa a meta tra un grande loft abbandonato e un deposito di cianfrusaglie usate. Che, invece, altro non erano che i modellini dei suoi oggetti (un’atmosfera molto simile a quello dello studio londinese di Ron Arad).
A raccontare la passione dell’architetto (quello che Mario Sironi aveva immortalato in un suo celebre ritratto del 1922) ci sono, persino per i non addetti ai lavori, anche le loro parole e i loro modi: Massimiliano Fuksas che, con tanto di caschetto giallo antinfortunio, racconta con entusiasmo, passando da una impalcatura all’altra quasi fosse un equilibrista, la sua nuova fiera di Rho che (all’epoca) era solo un grande scavo e poco più. Oppure Vittorio Gregotti che, da buon professore, ama scavare ogni progetto e ogni idea prima di tutto con le parole. O Alessandro Mendini che di ogni progetto, con una voce sottile sottile ancora da bambino, definisce il lato più giocoso e «nuovo».
L’aristocratico Norman Foster fa parlare forse più i suoi vestiti così eccentrici e cosi molto british delle sue parole. E il giapponese Arata Isozaki, dopo avere abilmente evitato la domanda per lui più spinosa su quella mai realizzata pensilina degli Uffizi, prosegue a colpi di monosillabi o poco più (lo stesso stile della conterranea Kazuyo Sejima). Una timidezza che, invece, sembra lontana anni luce da un emergente come il britannico David Adjaye, dal cinese Wang Shu o dal cileno Alejandro Aravena, neocuratore della prossima Biennale. E a volte può sorprendere la timidezza e la fragilità dei grandi: un nome per tutti, Zaha Hadid, da poco scomparsa. L’eroina del Maxxi di Roma che, dopo una serie di dinieghi e di frasi lasciate a metà, poteva persino sorprenderti con un mezzo sorriso, pieno sempre e comunque di nostalgia e malinconia.
Repubblica 9.4.16
“Solo la musica evita le barbarie”
Colloquio con Zubin Mehta alla vigilia delle celebrazioni in suo onore a Firenze
L’infanzia in India, l’incontro con i protagonisti del 900, la critica al presente 80 anni da maestro
di Leonetta Bentivoglio

FIRENZE PRODIGI della musica o del Dna? Zubin Mehta compirà ottant’anni il 29 aprile e insiste nell’apparire bellissimo con la sua testa regale, il piglio da seduttore e la carnagione d’ambra che testimonia la sua origine indiana. Direttore d’orchestra premiato da un consenso pluridecennale e internazionale, Mehta, per qualche strano miracolo, non condivide le bizze delle super-star, coltivando virtù quali la generosità e l’empatia. Ora è reduce dal Festival Rostropovich di Mosca, dove a capo dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino ha meritato un successone con Aida in forma di concerto. L’Opera di Firenze, cui è legato dall’85, festeggerà il suo compleanno rotondo il 24 aprile, nella serata inaugurale del 79° festival del Maggio. Zubin dominerà l’evento dalla postazione che gli è più congeniale, il podio, presentando «un programma tutto beethoveniano, col quinto Concerto per pianoforte e orchestra, di cui Andras Schiff sarà il solista, e la monumentale Nona Sinfonia ».
Eseguirà ancora Beethoven il 29, data esatta dell’anniversario, dentro la sala d’oro del Musikverein di Vienna, insieme ai Wiener Philharmoniker e con l’amico Daniel Barenboim al pianoforte per il Concerto n. 3. Poi tornerà a Firenze in giugno per un recital col soprano Diana Damrau (Strauss e Mozart) e per la Missa Solemnis di Beethoven in Duomo. Intanto l’Opera di Monaco di Baviera lo accoglie per dirigere titoli operistici, e lui ha in calendario altri appuntamenti a Israele e a Bombay, sua città natale.
Spiega che sarebbe lieto di non rammentare ogni dettaglio del suo passato, per non sentirlo così lungo. «Invece ho una memoria eccellente e ricordo tutto: il mio arrivo in Europa da ragazzo, gli studi a Vienna dove conobbi i giovanissimi Claudio Abbado e Daniel Barenboim, e il 1961, durante il quale ci sono state alcune significative “prime volte”: il debutto alla guida sia dei Wiener sia dei Berliner Philharmoniker, due orchestre con cui si è stabilita una felice intesa che ha ormai superato il mezzo secolo; l’inizio del mio forte rapporto con Israele, dove nell’81 sono stato eletto “direttore a vita” della Israel Philharmonic; e il primo incarico fisso come direttore dell’Orchestra Sinfonica di Montréal». In seguito sarebbero giunti gli impegni direttivi alla Filarmonica di Los Angeles e a quella di New York, e altri risultati ai livelli più alti del firmamento musicale d’Occidente.
Ma benché Zubin viva da tempo tra Stati Uniti ed Europa, mantiene salda l’India nel cuore: «Ho fantasticato di passare la vecchiaia nella natura del Kashmir, in una casa davanti al punto di confluenza tra Gange e Jamuna. Invece eccomi qui, a dirigere in giro per il mondo. Eppure non c’è terra che mi appartenga quanto la mia, e mi capita spesso di sognare i suoi sapori speziati. Quando sono a Bombay adoro mischiarmi a incredibili fiumane di gente per le strade, e in America mi manca la possibilità di parlare il dialetto con cui sono cresciuto: deriva dalla lingua gujarati, la stessa del Mahatma Gandhi».
Mehta discende da una nobile famiglia di tradizione parsi, i seguaci di Zarathustra che fuggirono dalla Persia per sottrarsi al dominio arabo. In India costituiscono una piccola minoranza, il che forse ha nutrito la sua profonda relazione con gli ebrei: «Sono numerose le affinità tra la cultura giudaica e la parsi, che ha una religione monoteista», osserva. «E come gli ebrei diamo molto peso all’educazione». In tale prospettiva, col fratello Zarin, ha creato a Bombay la Mehli Mehta Foundation, intitolata al padre che era a sua volta direttore d’orchestra, e votata alla formazione musicale dei bambini. È attivo in progetti pedagogici pure a Israele, malgrado il dolore che gli procura l’atteggiamento dell’attuale governo israeliano, «che mi pare interessato solo a mantenere lo status quo», sostiene, «coalizzandosi coi religiosi fanatici e diffondendo idee di massima chiusura». Americano d’adozione, Zubin è deluso anche da Obama, che a suo giudizio «non ha fatto nulla di concreto per risolvere la situazione in Medio Oriente».
Lo angoscia questo presente che definisce «bestiale e assediato da minoranze violentissime capaci di condizionare le sorti del pianeta. Intanto l’Africa soffre e sta per esplodere ma nessuno ne parla, come se il continente non esistesse». L’impresa nella quale sa di potersi adoperare con più efficacia in nome della pace e del progresso è il suo mestiere meraviglioso, «che non prevede routine e i cui capolavori non smettono mai di emozionarmi. La grande musica può elevare davvero lo spirito delle persone, oltre i confini e le differenze, grazie al messaggio di civiltà che esprime».
Corriere 9.4.16
Ipotesi sul passato (e sul futuro): Aristotele, il Big Bang, il Trono di Spade
di Ida Bozzi

Due generazioni a confronto sull’eredità della filosofia antica: quattro studenti intervistano un professore. Non solo su Platone e Aristotele, ma anche sulla giustizia, sulla felicità, sulla qualità del dibattito pubblico nell’Atene di allora e nell’Italia dei nostri giorni. Così si apre «la Lettura» #228, in edicola con il «Corriere della Sera» per tutta la settimana, al prezzo di 50 centesimi più il costo del quotidiano.
In occasione dell’uscita della nuova Storia della filosofia antica in quattro volumi, pubblicata da Carocci, «la Lettura» ha organizzato un incontro tra il filosofo Mario Vegetti, studioso di primo piano del pensiero platonico, e quattro ragazzi tra i 22 e i 23 anni, studenti di Filosofia e Lettere classiche all’Università statale di Milano.
Cultore nel suo modo scanzonato della cultura classica, che lo portava a evocare Eupalla come dea pagana del calcio, era anche Gianni Brera, il grandissimo giornalista sportivo scomparso nel 1992. Antonio D’Orrico ne ha consultato le agende personali relative ai Mondiali del 1978 in Argentina e del 1982 in Spagna (questi ultimi vinti dall’Italia). Vi si trova di tutto: meditazioni sulla vita e sulla morte, rendiconti del bilancio famigliare, bisbocce serali e letture notturne. Ne esce il ritratto di un uomo malinconico, meteoropatico, dispiaciuto del suo limitato successo come romanziere.
Dal giornalismo sportivo all’indagine sulla natura, un’anteprima su una frontiera del futuro si aspre su «la Lettura» con l’intervento dello scienziato Guido Tonelli, docente di Fisica all’Università di Pisa e tra i protagonisti della scoperta del bosone di Higgs al Cern di Ginevra: alla vigilia del congresso a Roma che raccoglierà studiosi da tutto il mondo per discutere di un nuovo acceleratore di particelle, ultrapotente. Un gigante di 100 chilometri, di potenza finora inedita, che dovrebbe consentire di osservare «in laboratorio» ciò che accadde agli albori del cosmo, quando materia e antimateria cominciarono la loro avventura.
Tra le figure della scienza di cui si parla in questo numero #228, anche due giganti del pensiero, avvicinati però dai loro destini oscuri e tragici: Alan Turing, il grande matematico che anticipò il computer e morì ucciso da una mela avvelenata dopo una vita di persecuzioni e sofferenze, e il fisico Ettore Majorana, scomparso nel nulla nel 1938. Personalità geniali che continuano a interrogare la letteratura e il cinema.
Moltissimi altri sono i temi e i personaggi di questo numero: ad esempio si può leggere uno straordinario intervento della scrittrice Hilary Mantel, sola donna ad aver vinto due volte il Man Booker Prize, che racconta la vita della collega e amica Elizabeth Jane Howard. O si può incontrare David J. Peterson, il linguista americano che ha inventato l’idioma «dothraki» per la serie tv Il Trono di Spade , e che ha tradotto per noi parole italiane come «pizza»...
Corriere 9.4.16
Stravinsky, Chagall, Calder e gli altri: musica da guardare, arte da ascoltare
Dal 20 aprile al Pompidou-Metz quaranta opere accompagnate da concerti, spartiti, video
di Sebastiano Grasso

Scimmiottando le mosse dei suonatori di klezmer (musica di tradizione ebraica con violino, violoncello, clarinetto, tromba, cimbalom) alcuni bambini, per strada, aprono la marcia nuziale de Le nozze (1910) di Marc Chagall, mentre dagli usci si affacciano i bottegai russi. Al centro, i due sposi. Sui lati, un portatore d’acqua e la madre del pittore dinanzi al proprio negozio con l’insegna in cirillico.
Un «divertente profilo umano stilizzato» con semicerchi, linee rette, angoli, un occhio rappresentato da un cerchio nero dentro uno rosso, un nastro ondulato, una bandiera danno vita a Giallo, rosso, blu (1925) di Vassily Kandinsky. Ed ecco, al Centre Pompidou-Metz (dal 20 aprile), il concerto Musicircus , con brani di Mussorgsky e Stravinsky, a cura di Emma Lavigne e Anne Horvath: 40 opere — alcuni artisti erano anche musicisti, così come taluni musicisti erano anche pittori —, accompagnate da spartiti, video, fotografie, scritti teorici e poetici, disegni preparatori. Arti visive e ritmo per «una rilettura della storia dell’arte attraverso il prisma musicale».
Le note de Il mattino di Edvard Grieg — straordinario e commovente interpretazione dell’affacciarsi della luce sulla costa norvegese della natìa Bergen — introducono la musica del Piano ortofonico (1920-23) di Wladimir Baranov-Rossiné, precursore della cosiddetta «musica cromatica» (sullo schermo ad ogni nota corrispondeva un colore).
Tutti in pista. C’è Alexander Calder ( 31 janvier ), che prima di trasferirsi a Parigi viveva fra suoni e colori dell’America primitiva, attratto dalle tende indiane, le cui composizioni vengono mosse da soffi leggerissimi, qualche filo d’aria o un lieve tocco delle dita. Nessuno meglio di lui — autore di un Circo Calder , fatto di sculturine in filo di ferro col quale a Montparnasse metteva su spettacoli per gli amici (Tzara, Léger, Cocteau, Dufy, Le Corbusier, Man Ray) poteva entrare a far parte del Musicircus .
C’è anche il ceco František Kupka ( Musica ), che per mantenersi all’Accademia di Praga aveva fatto anche il medium. Dopo avere studiato i movimenti del corpo umano e delle forme vegetali e biologiche, negli anni Venti-Trenta con le composizioni ispirate dalla macchina e dal jazz, giunge al «macchinismo»; ma anche all’astrazione totale («Vado avanti a tentoni, ma credo di poter trovare qualcosa fra la vista e l’udito che possa riprodurre una fuga a colori, come Bach ha fatto in musica»). Presenti anche Robert e Sonia Delaunay ( Ritmo ), Marcel Duchamp ( Disco ottico ), Yves Klein ( Antropometria dell’Epoca blu ), Arman ( Waterloo di Chopin ), Nam June Paik (assieme a Charlotte Moormann, interpreta una piéce di John Cage) e molti altri, influenzati dal pentagramma.
Kandinsky fa la parte del leone. Oltre a La grande porta di Kiev , Gnomus , Accento in rosa , c’è anche la ricostruzione dei suoi murales per la Jury kunstschau tenutasi al Gaspalast di Berlino nel 1922.
Giallo, rosso e blu è del 1925, s’è detto. Ma già verso il 1910 l’artista russo aveva dato un colpo di spugna al proprio passato pittorico per ricominciare tutto daccapo. Col 1910, infatti, inizia il periodo fondamentale per la sua arte: il passaggio dal figurativo all’astratto. A dicembre si apre la prima mostra del «Cavaliere azzurro». Fra gli altri, oltre a Kandinsky vi partecipano Bloch, Macke, Marc, Rousseau, Delaunay, Epstein e il musicista Schönberg. L’accostamento con la musica avviene gradualmente, quasi che l’artista volesse guadagnarsi il diritto di sprofondare in nuove e sino ad allora mai tentate avventure. Ed ecco l’alleanza con la musica: «Mi sembrava che l’anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale, quando l’inflessibile volontà del pennello strappava loro una parte di vita», annoterà Kandinsky. Armonia e ritmo lo porteranno verso una concezione del colore come suono, in cui gradualmente dominano l’azzurro, il rosso, il giallo. Nel rapporto musica-pittura, Kandinsky maturava una scoperta fatta alcuni anni prima, in qualità di spettatore, del Lohengrin di Wagner («I violini, i profondi toni dei bassi e, soprattutto di quell’epoca, gli strumenti a fiato, rendevano per me tutta la forza di quell’ora prenotturna. Vidi nella mente tutti i miei colori; erano lì davanti ai mei occhi. Linee selvagge, quasi pazze. Non mi permettevo di credere che Wagner avesse descritto musicalmente “il mio momento”. Per me divenne comunque chiaro che i miei dipinti potevano sviluppare la stessa forza che aveva la musica»). Da lì, i quadri «sinfonici» che lo faranno diventare una sorta di direttore d’orchestra della tavolozza.
Repubblica 9.4.16
Il sonno della buona borghesia che generò i mostri del Circeo
di Silvana Mazzocchi

Nel fluviale “La scuola cattolica”, in gara allo Strega, Edoardo Albinati rievoca la sua vita studentesca. E tra i personaggi spicca Angelo Izzo
Un quartiere, una scuola. E l’adolescenza, i turbamenti amorosi, l’insicurezza, ma anche e sempre la violenza come valore di virilità, la sopraffazione, il sesso, lo stupro, il delitto, la perdita dell’innocenza e la deriva di un cinismo crudele che sconfina da tempo e spazio. Lo scenario è il quartiere romano Trieste negli anni Settanta, con le palazzine ordinate e il San Leone Magno, l’istituto frequentato dai figli dei nuovi benestanti romani, il cuore religioso, la cornice da dove tutto parte e dove tutto ritorna.
È un racconto fiume dalle molte storie intrecciate tra realtà e fantasia, con nomi veri o del tutto inventati, La scuola cattolica (Rizzoli) il romanzo candidato allo Strega di Edoardo Albinati, scrittore e insegnante di lettere nel carcere di Rebibbia. Costruito intorno a una folla di personaggi: compagni, professori, sacerdoti, fasci stelli e ragazzi per bene, criminali e terroristi, mille e trecento pagine. Un mosaico mobile dove compare, scompare e riappare, l’evento centrale di quel magma sociale e politico, anima nera di un ambiente apparentemente innocuo e tranquillo: il delitto del Circeo, (sempre citato solo con la sigla DdC, proprio come SLM sta a evocare la scuola), l’assassinio compiuto il 29 settembre 1975 da Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido, mai citati con nome e cognome, a eccezione di Angelo, fratello di un compagno di classe dell’autore.
Albinati passa al setaccio la classe media, l’identità maschile, la famiglia borghese e percorre innumerevoli rami, con frammenti, immagini, considerazioni. Insiste sul quartiere Trieste (il QT del libro), placido e tradizionalista all’apparenza, ma «palestra preferita della violenza politica: perché esattamente come una palestra era vuoto, sgombro di reminescenze ». Un luogo dove «in quegli anni si concentrò il più gran numero di omicidi gratuiti, attentati e agguati politici, uccisioni premeditate o per errore, cacce all’uomo e rappresaglie». In quelle strade prendono vita in molti; dal suo più caro amico dell’epoca, il geniale e insostituibile Arbus, a tanti altri protagonisti e comprimari. Per puntare con insistenza sul 1975, un anno che fa «sgambettare gli altri», perché «non c’è nulla come gli abusi e gli eccessi» a far avanzare il tempo e a fissarlo. E, proprio come ondeggia la memoria e la sua percezione, Albinati spazia fra vita scolastica e famigliare, torna sulla religione che s’innesta con lo sperdimento adolescenziale, sull’amicizia, sui pomeriggi e le merende con i compagni, sui ricordi delle prime ragazze: la voglia di sesso, gli ormoni alle stelle e il rapporto con il corpo femminile che può diventare «un oggetto intercambiabile e accumulabile ». E di nuovo l’abisso, i demoni, la violenza scatenata nella villa del Circeo «prova lampante che, quando tutto è possibile, tutto, inevitabilmente avviene».
Il branco, lo stupro e l’omicidio; due povere ragazze, di 17 e 19 anni, una uccisa e una salva soltanto perché si finse morta, ambedue rinchiuse nel bagagliaio della macchina abbandonata dagli assassini in una strada silenziosa del Qt, che poi si diressero, paciosi, in pizzeria. Viene evocato più volte il delitto e le molte decine di pagine che gli sono dedicate sono sparse dall’inizio alla fine, mostrando l’altra faccia del quartiere e delle virtù borghesi, per ricomporsi in una sorta di crocevia feroce, epilogo inevitabile di uno scontro di classe e di culture nutrito di pregiudizi, privilegi e di un’ arroganza criminale compulsiva, destinata a fondere passato e futuro. All’ultimo anno, proprio come aveva già fatto l’amico Arbus, Edoardo Albinati lascia la scuola cattolica. Se ne va al vicino Giulio Cesare, dove viene destinato alla sezione M, l’ultima, quella dei ripetenti o dei “reietti”, coloro che provengono dagli istituti privati. Lì, Albinati cambia pelle ed entra in un collettivo “anarco comunista”, ha le prime ragazze, viaggia, cresce. In seguito, ritrova Arbus, conosce i destini della madre e della sorella, Leda, uno dei suoi primi amori e, attraverso la finzione dei ritrovati diari del professor Cosmo, offre una conclusiva summa di riflessioni.
Avverte Edoardo Albinati che, al di là degli episodi o dei personaggi inventati o costruiti con diverse proporzioni di finzione, la sua narrazione non ha alcuna pretesa di verità, né storica né alternativa. Neanche per il centrale delitto del Circeo di cui ha voluto, semmai, «restituire l’atmosfera decontaminata dalla retorica». Impresa riuscita, a dimostrazione dell’eterna “banalità del male”.
IL LIBRO La scuola cattolica di Edoardo Albinati ( Rizzoli, pagg. 1294 euro 22)
Corriere 9.4.16
Avventure di Skorzeny
Fra verità e qualche bugia
risponde Regio Romano

Paolo Salom, nell’articolo «La vera storia dell’SS del Duce» ( Corrier e, 29 marzo), scrive che Otto Skorzeny avrebbe ricevuto da Hitler l’incarico di liberare Mussolini, tenuto prigioniero a Campo Imperatore.
Ma in una trasmissione tv si è sostenuto che il protagonista di quella azione fu il maggiore Harald Mors, e che Skorzeny, infilatosi di prepotenza nell’aereo che portava via il Duce, si sarebbe poi attribuito il merito dell’operazione. Qual è la verità?
Vittorio Ciarrocchi

Caro Ciarrocchi,
La fonte principale, per coloro che cercano di ricostruire le spericolate peripezie dello Sturmbannführer (maggiore) Otto Skorzeny, è un’autobiografia che apparve anche in Italia nelle edizioni del Borghese con il titolo Vivere pericolosamente . Ma questo soldataccio prediletto da Hitler combinava il suo indubbio coraggio con un incontrollabile narcisismo e aveva l’abitudine di colorire vivacemente il racconto delle sue avventure. Ebbe probabilmente una parte importante nella indagine che permise ai comandi tedeschi di individuare il luogo (Campo Imperatore) in cui il governo Badoglio aveva confinato Mussolini; ma la spedizione era comandata dal generale delle forze aerotrasportate Karl Student. Skorzeny ne divenne l’eroe perché rimase incollato a Mussolini dall’inizio alla fine della operazione. L’aereo era una piccola Cicogna e il maggiore delle SS era un gigante (due metri d’altezza e 100 kg) che non avrebbe mai dovuto essere il terzo passeggero di un aereo costruito per due persone. Ma disse che stava eseguendo gli ordini di Hitler e nessuno osò impedirglielo.
Non obbediva agli ordini di Hitler, invece, quando, dopo l’attentato a Hitler del luglio 1944, creò un corpo speciale per la eliminazione fisica dei congiurati prima di qualsiasi processo. Nelle sue memorie Albert Speer racconta di averlo incontrato, nelle ore immediatamente successive all’attentato, di fronte al Bendlerblock, il Pentagono tedesco, dove le SS fucilarono il colonnello Claus von Stauffenberg, l’uomo che aveva collocato la bomba nella stanza in cui Hitler presiedeva una riunione.
L’ammirazione di Hitler per Skorzeny non era una invenzione. Poco più di un anno dopo, quando la Wehrmacht lanciò una grande offensiva contro il punto più debole dello schieramento alleato, fra il Belgio e il Lussemburgo, Hitler dette a Skorzeny il compito di organizzare e realizzare una operazione che avrebbe seminato il caos nelle file americane. Il maggiore delle SS ebbe il compito di formare una compagnia di soldati tedeschi che avrebbero indossato divise americane, utilizzato materiale americano e parlato inglese con un accento americano. L’operazione Grifone, come venne denominata, colse parecchi successi e divenne leggenda quando si diffuse la voce che tra i suoi compiti vi fosse quello di catturare il generale Eisenh ower, comandante in capo delle forze alleate. Su questa voce un magistr ato scrittore, Carlo Nordio, ha scritto un romanzo ( Operazione Grifone , Mondadori 2014) in cui la finzione diventa realtà.
Alla fine della guerra, mentre era a Norimberga in attesa di un eventuale processo, Skorzeny negò che il suo obiettivo fosse la cattura di Eisenhover. Diceva probabilmente la verità, ma in quel momento, mentre cercava di sottrarsi alla giustizia alleata, aveva interesse a non incorrere nella collera americana. Le dichiarazioni di Skorzeny, quindi, vanno prese con le molle; e questa prudenza è consigliabile anche per tutto ciò che concerne i suoi rapporti con il Mossad se non è confermato da autorevoli organi di stampa come quelli citati nell’articolo di Paolo Salom.
La Stampa TuttoLibri 9.6.16
Eppure si mosse, l’uomo del Medioevo
L’avventura di viaggiare, tra Marco Polo, mercanti e studenti e un Atlante sull’ancor giovane archeologia dell’era di mezzo
di Alessandro Barbero

Molti anni fa, quando ero studente universitario, una persona a cui raccontai che stavo per laurearmi in storia medievale commentò: «strana epoca, il Medioevo! La gente si è chiusa in casa e non è più uscita per mille anni». Fra i tanti tenaci luoghi comuni che impediscono la comprensione del mondo medievale, questo è forse il più inspiegabile. Il Medioevo non è solo l’epoca che ha visto Marco Polo arrivare in Cina: fin qui, si potrebbe obiettare che ad andare fin laggiù erano davvero in pochi (benché non fossero affatto poche, alla fine, le persone coinvolte nel lungo viaggio della seta e delle spezie che dall’estremo Oriente, per carovana e per mare, approdavano ai nostri porti). Il Medioevo è l’epoca in cui il Mediterraneo si riempie di navi e di commercianti, prima soprattutto arabi ed ebrei, poi, sempre più spesso, italiani; è l’epoca in cui convogli di cavalli e muli carichi di merci fanno la spola fra i porti mediterranei e le città del Nord; è l’epoca in cui innumerevoli cristiani si mettono in strada per andare in pellegrinaggio a Gerusalemme, a Roma, a Santiago, o almeno al santuario più vicino a casa.
Ma è anche l’epoca in cui i contadini emigrano in città, attirati dal boom edilizio e dall’industria del tessile. E’ l’epoca in cui gli studenti, per completare i loro studi, vanno a vivere per anni in lontane città, perché le Università sono poche, ma le famiglie che decidono di investire in una laurea sono sempre più numerose; e alcuni prendono gusto a una vita errabonda, tanto da essere battezzati, per scherzo ma non troppo, clerici vagantes. E’ l’epoca in cui i re e le loro corti anziché stare fermi in una capitale, concetto che non era stato ancora inventato, si spostano continuamente sul territorio del regno, perché tutti i sudditi possano vedere il re e convincersi che devono davvero ubbidirgli.
È questo il «mondo in movimento» rievocato da Maria Serena Mazzi nel suo In viaggio nel Medioevo. Ma c’è anche un altro senso in cui si può parlare di viaggio nel Medioevo: è il viaggio che gli archeologi ci invitano a compiere attraverso i resti materiali di quell’epoca. L’archeologia medievale è una scienza giovane, soprattutto in Italia. Solo da mezzo secolo si è riconosciuto che fare l’archeologo non significa necessariamente andare a scavare in Egitto o in Iraq, perché sotto le piazze delle nostre città, sulle nostre colline e nei nostri campi tutto un mondo aspetta di essere riportato alla luce, e con esso una gran quantità di informazioni che i documenti scritti, da soli, non ci permetterebbero di recuperare. Cinquant’anni sono abbastanza perché si possa tentare un bilancio: è questa la sfida di Andrea Augenti, memore dell’entusiasmo di Jacques Le Goff allorché, fra i primi, intuì le potenzialità della nuova disciplina: «Mi sembra di veder sorgere dal suolo un nuovo Medioevo...».
Il viaggio di Augenti si snoda lungo tutta la Penisola e attraversa mille anni, durante i quali, con buona pace di quel mio antico conoscente, la gente non è affatto rimasta chiusa in casa. Vede le città romane impoverirsi, gli edifici più maestosi degradarsi per mancanza di manutenzione, gli squatters installarsi nelle sale delle ville padronali, il legno sostituirsi al mattone come materiale da costruzione. E poi, con la ripresa che comincia da Carlo Magno e accelera dopo il Mille, l’apertura di innumerevoli cantieri, la costruzione di nuove cerchie murarie che non bastano mai a contenere l’esplosione della popolazione: la Firenze romana copriva 21 ettari, le mura costruite dal comune nel XII secolo ne racchiudono 85, quelle riedificate al tempo di Dante ben 436! Dopo le città, il viaggio attraversa le campagne, con le tenute dei senatori romani via via abbandonate, le case contadine dai tetti di tegole che con l’arrivo dei barbari lasciano il posto alle capanne dai tetti di paglia, e i villaggi che migrano dalla pianura malarica alle colline, e poi, intorno al Mille, la nuova edilizia dei signori, i castelli: fatti dapprima di terra e legname, poi di pietra e di mattoni. L’autore ci accompagna nei cimiteri, a visitare le tombe che dai suburbi si spostano nelle chiese cittadine quando i cristiani decidono che convivere con i morti non è più un tabù. In certi casi, ma non sempre, quei morti sono sepolti con interi corredi di armi e gioielli, e gli archeologi si interrogano: è perché quelle sono le sepolture dei barbari, o è perché è cambiata la cultura del paese e dei suoi abitanti, per cui trovare un uomo sepolto con una spada non significa affatto che sia un longobardo?
Il viaggio torna ripetutamente in luoghi emblematici, che dovrebbero diventare sempre più importanti nella geografia ideale del nostro paese, anche dal punto di vista della valorizzazione turistica: come la favolosa Crypta Balbi in via delle Botteghe Oscure a Roma, un luogo magico in cui si danno la mano l’antichità e il Medioevo, in cui il visitatore si sposta fisicamente attraverso i secoli, calpestando pietre che raccontano la continuità e il cambiamento, e l’incessante, ostinata attività dell’uomo. Non un luogo di tesori come la tomba di Tutankhamon, ma un luogo di officine, laboratori, latrine: la vita vera della gente comune, proprio quella di cui vanno a caccia gli archeologi del Medioevo.
La Stampa TuttoLibri 9.6.16
A inseguire fantasmi tra i matti di Grecia
Una giovane ricercatrice sbarca sull’isola di Leros nel manicomio-lager dove gli esseri umani sono relitti
di Paolo Di Paolo

C’è prima di tutto una giovane donna, Angela, che cerca di sfidare un segreto: quello che ha avvolto l’isola di Leros, Dodecaneso, e del suo manicomio-lager. Istituito nel 1959, negli anni Novanta ospitava ancora più di mille pazienti psichiatrici. Ancora nel 2010 ce n’erano trentaquattro. Per molti anni nessuno ha saputo o voluto sapere, nemmeno in Grecia. Angela invece vuole sapere, va a Leros, indaga. Simona Vinci è partita dalla suggestione delle fotografie di Antonella Pizzamiglio scattate nel 1989 e messe in mostra più tardi sotto il titolo «Leros, anche il nulla ha un nome»; è andata lei stessa più volte sull’isola, come il personaggio di Angela, ha cercato indizi - mossa da una ossessione che si svela prima per lampi e poi pienamente nell’ultima parte del romanzo, sincera, spietata, bellissima.
Vinci lavora su più piani temporali: ricuce storie diverse, reali, le ricalca, le reinventa. Testimonia, evoca, immagina. Insegue i fantasmi, le ombre di quei matti imprigionati: «Loro - scrive - sono ancora tutti lì. Sono lì quelli che ci sono morti e anche quelli che in un modo o nell’altro se ne sono andati. E tra quella schiera di fantasmi opachi che si trascinano avanti e indietro lungo il perimetro del cortile di cemento oppure su e giù per le rampe di scale con le lampadine fulminate, c’è anche lei». Lei, ovvero Angela, «la ragazza modello, la brava figlia, la sorella virtuosa, la studentessa affamata di giustizia, l’usurpatrice del nome idiota che portava, Angela! Come se gli angeli davvero esistessero, avessero le ali e preservassero le anime altrui! Ecco cos’era, un angelo: uno stronzo!». Lei, ovvero Simona, che dice di sé: «Fin da piccola sono stata sensibile alle dissonanze, mi saltavano all’occhio soprattutto i difetti: occhi strabici, voci acute o stentoree, modi di camminare, sproporzioni fisiche di ogni tipo». Lei, Simona, che mette in gioco la propria stessa «diversità» di bambina irrequieta, aggressiva, «ineducabile», che vedeva passare i «mattucchini» per le strade del suo paese natale, Budrio, e aveva una madre toccata forse anche lei dall’ombra nera della follia. Così la storia di Basil il gigante sull’isola di Leros dialoga da lontano con quella di Rosso Malpelo per le vie di Budrio, e quella di Teresa nella luce greca con la vita della donna detta Pecora piantata alla fermata della corriera: la membrana che separa le epoche è sottile, i fantasmi chiamano altri fantasmi - Lina, il poeta Stefanos, che adombra Ghiannis Ritsos (da un suo verso viene il titolo del romanzo), deportato a Leros insieme ad altri dissidenti politici negli anni dei colonnelli.
Il romanzo è avvolgente, Vinci tratta la scrittura come il poeta Stefanos/Ritsos dice che andrebbe trattata, «come un corpo delicatissimo» - macchie di colore, versi, accensioni liriche, il paesaggio greco che palpita, che parla; e una sensazione di stare come tra incubo e risveglio, o dentro un’allucinazione. L’autrice ci trascina in ciò che pareva indicibile, sfida sé stessa e trova il lessico per dire.
Nel solco di Tobino e accanto ai lavori più recenti di Riccarelli e Celestini, o alle indagini di Borgna, La prima verità spinge a fare di nuovo i conti con le grandi rimozioni collettive e individuali, con il concetto di normalità («La normalità non è da nessuna parte, mi diceva, e poi cosa vuol dire “essere normali»? Non c’è una risposta, perché è la domanda a essere sbagliata”), con il dolore sommerso, anonimo, negletto, cancellato. Con una prima e ultima verità che riguarda il destino di tutti: «A guardare ogni vita da vicino e con la dovuta attenzione, mi resi conto che si trovavano le tracce, più o meno evidenti ed estese a seconda dei casi, di depressioni, problemi dell’alimentazione, manie suicide, paranoie, nevrosi, disturbi della personalità e qualsiasi declinazione possa assumere la malattia mentale».ttori più giovani ha pubblicato «Corri, Matilda» (E.Elle) e «Matildacity» (Adnkronos Libri)
La Stampa TuttoLibri 9.6.16
Charlotte Brontë
Tempeste di passioni dietro la quiete
La maggiore delle sorelle è sempre stata considerata docile fu invece forte, temeraria, e usò la letteratura come un’arma
di Lyndall Gordon

«Donne schive, riservate», così Charlotte Brontë descrisse le sorelle (e implicitamente se stessa) in una nota biografica stilata per la prefazione alle loro opere pubblicate postume: «un’esistenza trascorsa in disparte ha conferito loro modi e consuetudini improntati alla timidezza».
Ma accanto a questa appropriata immagine ottocentesca di signore beneducate c’è la vita segreta delle scrittrici, in cui (ci assicura Charlotte) riposa «un potere e un fuoco nascosto».
Agli occhi dei contemporanei superficiali le sorelle non erano niente. «Un’istitutrice privata non ha un’esistenza», scrisse Charlotte a Emily nel 1839, quando lavorava per la signora Sidgwick, la quale aveva sistemato la governante al piano della servitù della sua dimora di Skipton, in Yorkshire. Quando gentiluomini e gentildonne posavano lo sguardo su un’istitutrice «pareva che fissassero il vuoto», disse Anne, che era stata licenziata nello stesso anno dal suo posto presso la famiglia Ingham.
Ma questo vuoto apparente fu lo spazio che le sorelle ricavarono per se stesse; lì, protetta dall’oscurità, la personalità di Charlotte Brontë prese forma. Le sue coperture si prendono gioco di noi: lo pseudonimo, privo di genere, Currer Bell e la figura dell’autrice minuta e dimessa che alla fine comparve a Londra a braccetto con il suo editore. La sua amica e prima biografa, la scrittrice Elizabeth Gaskell, ci ha restituito un ritratto impregnato di pathos: una donna modesta, schiava del proprio dovere, che soffre all’ombra delle lapidi per la prematura morte dei cinque fratelli. Questo non significa che Elizabeth Gaskell non ci abbia trasmesso una grande verità su Charlotte Brontë. Ma è soltanto una mezza verità. La sua Charlotte, vista attraverso gli occhi compassionevoli di una contemporanea, sarà sempre con noi. Gaskell fu fedele alla donna che era apparsa in pubblico, ma dov’è la donna forte e temeraria che, dopo la pubblicazione di Jane Eyre (1847), disse: «ce ne vuole per abbattermi»?
Nel mio libro intendo portare alla luce l’altra metà della verità, quello che Charlotte chiamava «il mio carattere domestico», che condivise con le sorelle: la sua voce acida, sarcastica; il suo fuoco creativo; il suo spirito e il suo umorismo; la sua determinata professionalità – che la portò a mettere la letteratura al centro della propria vita. Le sorelle morirono mentre stava scrivendo il suo romanzo femminista, Shirley (1849). Per quanto sofferente, il 21 settembre 1849 riuscì a scrivere al suo editor, William Smith Williams: «La facoltà dell’immaginazione mi ha tirato su quando stavo affondando, tre mesi fa; da allora il suo costante esercizio mi ha tenuta con la testa sopra il livello dell’acqua: il suo risultato ora mi rallegra...».
Elizabeth Gaskell separò la donna dalla scrittrice. Per ricongiungerle dobbiamo esplorare gli angoli invisibili della sua storia. Samuel Johnson, eminente biografo del diciottesimo secolo, ha detto: «Ci sono molte circostanze invisibili le quali sono molto più importanti dei pubblici affari». Per individuare il volto nascosto di Charlotte Brontë non dobbiamo solo andare in cerca del suo carattere domestico, ma anche esporre i buchi e le discontinuità della sua esistenza. Disponiamo di eccellenti e complete biografie che ci hanno fornito tutti i dati esteriori. Il mio interesse è rivolto però alla storia complementare della vita interiore e creativa. Questo genere di biografia pone la questione di quando ebbe inizio la sua spinta creativa – vale a dire: da dove trasse la straordinaria voce di Jane Eyre?
Una traccia si ritrova in una lettera che scrisse nel marzo del 1837 al poeta Robert Southey. Gli aveva inviato le sue poesie nella speranza di essere «conosciuta per sempre». Lui aveva risposto ammonendola che «la letteratura non può essere l’occupazione della vita di una donna, non deve esserlo». La brillante manovra della sua apparente sottomissione a Southey, cui assicurò che avrebbe smesso di scrivere, fu la prima performance pubblica di un ruolo che avrebbe fatto proprio, nascondendo un’audace vita creativa dietro la maschera della perfetta docilità. Maneggia le parole come lame con cui intaglia la caricatura dell’obbedienza femminile, rispondendo all’ingiunzione del poeta laureato che riservava la creatività ai soli uomini. Questa voce controllata ne nasconde una in contraddizione con l’immagine ottocentesca di una signora delicata e priva di passioni.
Non fu affatto priva di passioni. Gaskell oscurò quella che provò per il suo professore belga, Constantin Héger. L’esatta natura della loro relazione resta controversa. Non corrisponde alle solite categorie di infatuazione o storia. Cruciale, persino inebriante fu per Charlotte che egli fosse il suo mentore, un uomo che desiderava davvero che scrivesse, e che sembrava intenzionato a conoscerla per quella che lei stessa sentiva di essere.
Attraverso un’esile costruzione letteraria, mette a nudo la propria anima con Héger: «Milord, je crois j’avoir du Génie». Si intravede qui una relazione che ruota attorno alla libertà di parola assicurata dal maestro (in contrasto con l’intimazione al silenzio di Southey).
Se Charlotte Brontë poté presentare nei suoi romanzi la figura ingrandita del suo insegnante fu grazie alla distanza e alla natura ideale della loro relazione. La sua fu una corrispondenza di fantasia, simile a un atto dell’immaginazione. Dover immaginare la passione, piuttosto che viverla, fu in realtà un vantaggio per lei, in quanto scrittrice, perché le consentì di concepirla dal punto di vista di una donna.
La Charlotte Brontë che amava «camminare invisibile» scioccò i vittoriani dando vita a donne romanzesche giudiziose e impetuose.
La voce che intonò, energica al punto che alcuni la reputarono poco femminile, persino «volgare», avvinse chi aveva orecchie per intendere, come la futura romanziera George Eliot, che esclamò: «Che passione, che fuoco in lei!». I suoi personaggi sono così vicini che ancora oggi sentiamo battere i loro cuori.
Traduzione di Nicola Vincenzoni
La Stampa 9.4.16
Così Steve Jobs s’ispirò al design italiano Anni 60
di Chiara Beria Di Argentine

Steve Jobs ci chiese di presentargli il lavoro di Marco Zanuso per Brionvega. Negli Anni 60 Zanuso era stato il primo a usare linee curve, morbide, che davano ai nostri prodotti una carica sensuale. Jobs li conosceva ma, 20 anni dopo, voleva entrare nello spirito Brionvega. «Non c’è dubbio: Apple e poi Samsung ci hanno imitato!», sorride Ennio Brion.
Milano. Tra l’apertura della XXI Triennale internazionale (Titolo «Design after design». Commento di Brion: «Lei ha capito cosa vuol dire?»), il Miart e il Salone del mobile («Ma il design non è solo arredamento. Sono auto, treni e così via»), incontro Ennio Brion, 76 anni, l’imprenditore illuminato committente d’architettura e design d’autore. Ispirato per sua ammissione dagli Olivetti («Adriano è stato un esempio, suo figlio Roberto un carissimo amico»), per 30 anni Brion ha guidato una fabbrica d’iconici oggetti elettronici (radio e televisori firmati da designer come Zanuso, Richard Sapper e i fratelli Castiglioni esposti al MoMa); allo stesso Zanuso affidò il progetto della fabbrica di Asolo mentre con sua mamma, Onorina, commissionò a Carlo Scarpa il complesso monumentale in memoria del padre, Giuseppe. E ancora. Su incarico dell’amico Marco Brunelli, re della grande distribuzione, Brion è stato il regista della riconversione dell’area Portello-Fiera (200 mila mq, 100 mila di costruito) degli architetti Gino Valle, Cino Zucchi e Guido Canali: una delle mega operazioni che hanno cambiato il volto di Milano. «Portello, Garibaldi-Repubblica di Hines e CityLife delle Generali hanno il pregio, caso per caso, d’avere una regia unitaria», sostiene l’imprenditore.
Rewind. «Avevo 17 anni, ero solo uno studente ma volevo aiutare i miei genitori. Allora nelle radio dominavano i tedeschi, nei televisori gli americani. Su una rivista vidi le macchine da cucire disegnate da Zanuso per la Necchi. Tutto ha avuto inizio così». Altri progettisti, altro stile. «Marco Zanuso, i Castiglioni, Franco Albini, Ignazio Gardella, Vico Magistretti... Ho operato con tutti i più grandi architetti. Ognuno aveva la sua peculiarità ma tutti avevano classe e generosità umana. Da loro non ho mai sentito parlar male di nessuno. Erano un’élite anche moralmente diversa. Lo dico perché certe polemiche mi hanno ferito. Enormemente».
Retroscena. Vigilia di Pasqua cena dal finanziere Francesco Micheli per Giovanna Melandri, presidente del Maxxi di Roma, il museo d’arte contemporanea progettato dalla celebre Zaha Hadid che aveva vinto un fior di concorso. Presentando agli amici del museo i futuri programmi, Melandri accenna alle critiche rivolte all’architettura di Hadid. Parlano vari ospiti. Interviene Brion: «Non ti preoccupare, Giovanna, certe critiche sono frutto di un atteggiamento perlomeno provinciale». Non fa nomi ma i presenti ben ricordano le violente polemiche su CityLife (si è parlato di «architetture riciclate» per le torri firmate oltre che da Hadid da Daniel Libeskind e Arata Isozaki) o le dichiarazioni sul Maxxi dell’architetto Vittorio Gregotti («Pura calligrafia senza senso. E con errori elementari», disse a «Sette», 15 marzo 2012,ndr).
All’improvviso giovedì 31 marzo Zaha Hadid muore. Cordoglio planetario. Brion ora sottolinea: «Di Zaha Hadid ho sempre pensato tutto il bene possibile. Aveva grande forza e un carisma naturale; non a caso vinse il premio Pritzer. Il Maxxi? Certo che mi piace. È uno spazio difficile? Può essere. Le cose sono perfettibili non perfette. Quello stesso argomento fu usato per il Beaubourg. Chiamarono Gae Aulenti e Gae con la sua grande sensibilità ne parlò a Renzo Piano. Quanto al resto, la nuova Milano è frutto di un processo inarrestabile. I grandi committenti oggi sono i fondi. Cambiato il mercato della committenza è finita l’epoca dei concorsi tra i soliti accademici e dell’architetto che facilitava le autorizzazioni. Così, mr Hines ha voluto César Pelli (è suo il grattacielo Unicredit, nuovo simbolo della città ndr) che aveva già lavorato con lui da Londra a Kuala Lumpur. Etica, qualità, internazionalizzazione e, soprattutto, trasparenza. A Milano certe cose non avvengono più. Non è lo stesso nella Roma dei palazzinari, altro che sparlare del Maxxi!».
Corriere 9.4.16
Cameron a picco
I Panama Papers aiutano la Brexit
Sondaggi giù per l’ammissione sui soldi offshore
di Fabio Cavalera

LONDRA Indeciso. Reticente. Ambiguo. E ora paga. Il premier britannico David Cameron in quattro giorni ha cambiato versione sui Panama Papers per cinque volte. A caldo, di fronte ai primi documenti sul fondo offshore del padre Ian, si era limitato a dire che «è una questione privata».
Da ultimo, giovedì, ha ammesso in televisione di avere beneficiato di una partecipazione nella società panamense poi trasferita in Irlanda ma di averla venduta (valore 30 mila sterline) alla vigilia del suo insediamento a Downing Street nel 2010 e di avere saldato col Fisco i conti dovuti.
Giravolte che gli macchiano l’immagine nel momento più delicato della sua carriera.
E il risultato è che la sua popolarità nei sondaggi va a picco: YouGov certifica che solo 34 britannici su 100 ritengono positiva l’azione di governo del premier mentre 58 lo bocciano.
E quel che è peggio per lui, sale l’indice di gradimento per Jeremy Corbyn il terribile, leader laburista che guadagna il 30% di consensi e il 54 delle disapprovazioni.
Forse le rilevazioni statistiche hanno il difetto di essere state effettuate sull’onda emotiva creata dai titoli sui Panama Papers ma lo stesso leader conservatore ammette che la «situazione è seria», come non mai da che siede a Downing Street. Anche perché la questione in realtà non è affatto chiusa.
Incalzano le opposizioni dei laburisti cavalcando l’immagine di un primo ministro screditato che ha «ingannato gli elettori» (affondo di Corbyn) e che «merita di essere arrestato» (cartolina di Ken Livingstone, per otto anni sindaco rosso di Londra).
Si agitano gli indipendentisti scozzesi che gli rimproverano la mancanza di credibilità e di stile, si muovono gruppi di base che convocano manifestazioni (per oggi) davanti a Downing Street e anche su Twitter raccoglie proseliti la parola chiave «Cameron dimettiti».
Persino Edward Snowden, l’informatico americano che alzò il sipario sulla sorveglianza di massa operata dai servizi di intelligence degli Stati Uniti, invita i cittadini del Regno Unito a scendere in piazza e a mandare a casa il capo del governo.
Se si aggiunge che, aldilà della solidarietà formale, molti conservatori a cominciare dal numero uno del fronte Brexit, il rivale Boris Johnson, si divertono all’idea di vedere un Cameron in difficoltà, il quadro appare piuttosto traballante.
Al punto di convincere Downing Street a pubblicare la settimana prossima le dichiarazioni dei redditi degli ultimi anni per dimostrare che non è vi è mai stata alcuna evasione o elusione delle imposte.
Un Cameron isolato e «amareggiato» (come ha confessato) che sarà con ogni probabilità trascinato a dare qualche spiegazione alla Camera dei Comuni e che, per la prima volta, si ritrova contro tutto il fronte della stampa un tempo «amica», dai fiancheggiatori tabloid (il Sun dell’ex amico Murdoch e il Daily Mail ) al serio e moderato Daily Telegraph . Alleati fedeli che lo hanno abbandonato.
Lo scossone provocato dai Panama Papers qualche ricaduta rischia di averla sul serio. Sia nelle prossime elezioni amministrative del 5 maggio, con Londra che può tornare in mano ai laburisti (in vantaggio nelle rilevazioni sulle intenzioni di voto), sia nel referendum sull’Europa del 23 giugno.
Gli umori sulla Brexit non volgono al meglio. Il fronte europeista per la maggioranza dei campionamenti effettuati è ancora avanti ma le certezze si indeboliscono.
Le ambiguità di un primo ministro che impiega quattro giorni per ammettere di avere avuto soldi offshore (cosa che per altro non è vietata, a meno che la schermatura non copra dei reati finanziari) sono un regalo inaspettato per la composita schiera degli euroscettici.
La campagna per il sì all’Europa è in salita, con il suo primo sostenitore (David Cameron) in deficit di popolarità e di credibilità, sbeffeggiato pure dal profilo ufficiale della serie tv «House of Cards» che richiama le vecchie parole del premier contro i paradisi fiscali e gli dà dell’ipocrita.
Se si tiene pure conto del possibile effetto di trascinamento del referendum olandese che ha bocciato l’accordo Ue-Ucraina, risulta evidente che la Brexit è un fantasma con cui ormai è necessario misurarsi. Da qui al prossimo 23 giugno il premier Cameron si gioca tutto .
il manifesto 9.4.16
Podemos dà la parola ai militanti
Spagna. Appoggiare o meno un patto di governo Psoe-Ciudadanos? Decida la base
Una maniera abile per schivare l’accusa di aver fatto saltare l’accordo. E il ritorno alle urne sembra sempre più probabile
di Luca Tancredi Barone

Hanno aspettato di sbollire la rabbia tutta una notte prima di parlare in pubblico. Cancellata la conferenza stampa prevista giovedì sera dopo l’incontro con Ciudadanos e Psoe, Pablo Iglesias e i suoi si sono riuniti ieri mattina in parlamento con tutto il gruppo parlamentare e con gli alleati galiziani di En marea e quelli catalani di En comú podem. E hanno reso pubblico quello che tutti si aspettavano: il patto a tre, il «199» come lo chiama Pedro Sánchez riferendosi al numero di seggi corrispondente alla somma di Psoe, Ciudadanos e Podemos, è impossibile.
Ma Podemos non ci sta a prendersi la colpa. E rilancia: vogliamo essere «molto chiari e onesti con i cittadini spagnoli», ha detto. Per questo sottoporrà ai suoi 400mila militanti due domande vincolanti: una maniera abile per schivare l’accusa di aver fatto saltare l’accordo. «Vuoi un governo basato sul patto Rivera-Sánchez?» e «Sei d’accordo con la proposta di governo del cambiamento difesa da Podemos – En marea – En comú podem?». Iglesias ha detto che appoggia una risposta negativa alla prima domanda e una positiva alla seconda, e che se i militanti la pensassero in modo diverso ne «assumerà le responsabilità politiche».
In realtà le cose non sono cambiate dal 20 dicembre. Il Partito socialista aveva due opzioni davanti: lavorare con Ciudadanos e il Pp da un lato per una specie di Grosse Koalition iberica, appoggiata direttamente o indirettamente dal Pp; o una soluzione portoghese, inevitabilmente appoggiata indirettamente anche dai partiti indipendentisti o da Ciudadanos con una astensione tecnica. Ma invece di tentare un accordo a sinistra per poi trovare il modo di convincere Ciudadanos e qualcun altro ad astenersi, Sánchez, con le mani legate dall’ampio settore immobilista e centralista del partito, ha scelto di fare prima un patto con Ciudadanos, che aggiungeva solo 40 seggi ai suoi 90, per poi cercare di costringere Podemos ad accettarlo. Una possibilità che Podemos non ha mai preso in considerazione.
D’altra parte, Podemos è stato subito molto aggressivo con i socialisti, dando loro l’alibi perfetto per iniziare le negoziazioni a destra invece che a sinistra, nella disperazione di Izquierda Unida e dei valenziani di Compromís, che hanno cercato in tutti i modi di far sedere allo stesso tavolo Podemos e Psoe. La sceneggiata dell’incontro pubblico fra Iglesias e Sánchez alla fine c’è stata subito dopo Pasqua, ma fuori tempo massimo.
Dati i colpi di scena di queste settimane ancora tutto è possibile. Ma sembra che ormai il copione sia stato scritto. Tra giovedì e sabato i militanti di Podemos rigetteranno il governo rosso-arancione, il che implica che si dovrà tornare a votare nonostante i sondaggi prevedano uno stallo bis (a meno che stavolta il Podemos non accetti di allearsi con Izquierda Unida a livello nazionale, nel qual caso la legge elettorale potrebbe consentire il sorpasso sul Psoe).
Iglesias ha chiesto polemicamente al Psoe di essere altrettanto chiaro coi suoi militanti, a cui invece aveva sottoposto una domanda molto generica. «Magari il Psoe chiedesse ai suoi militanti se preferiscono un’alleanza con Podemos o Ciudadanos, sarebbe bellissimo», ha detto.
Per il sempre più probabile voto a giugno, ancora una volta la Catalogna sarà chiave. Pur avendo messo da parte nei negoziati degli ultimi giorni la questione referendum, Podemos (assieme a Iu) rimane pur sempre l’unico partito nazionale a difendere il diritto all’autodeterminazione. E nell’incontro di ieri fra Iglesias e il presidente catalano Puigdemont inevitabilmente uno dei temi sul tappeto è stato proprio questo.
il manifesto 9.4.16
È Nuit Debout, in place de la République
Oggi nuove manifestazioni dei giovani. Il governo ha paura
Il movimento Nuit Debout ha raggiunto altre 23 città
di Anna Maria Merlo

PARIGI Ieri era il 39 marzo in place de la République. Nuit Debout, il movimento che si è manifestato nella piazza parigina il 31 marzo scorso (e che da allora conta i giorni con un nuovo calendario), che è nato in realtà il 23 febbraio alla fine di una serata alla Bourse du Travail, è alla vigilia di un giorno importante: oggi, ci saranno di nuovo numerosi cortei in Francia contro la riforma del lavoro, liceali e studenti in testa, ma con la partecipazione anche di alcuni sindacati (che hanno già previsto un’altra giornata di lotta a fine mese). C’è una prima vittoria: l’idea era di “uscire da place de la République”, portare il progetto della “convergenza delle lotte” fuori da questo luogo simbolico. Già in 23 città francesi di provincia ci sono delle Nuit Debout, iniziativa sbarcata ormai anche a Bruxelles. Attorno ai licei di banlieue ci sono stati ieri momenti di tensione, finiti con 38 fermi.
Hollande e il governo sono preoccupati. Lunedi’ i sindacati degli studenti e dei liceali saranno ricevuti a Matignon, sede del primo ministro. Giovedi’ ci sono stati incontri con la ministra dell’Educazione nazionale, Najat Vallaud-Belkacem, la responsabile del Lavoro, Myriam El Khomri, che ha dato il nome alla legge contestata, e della Gioventù, Patrick Kanner, ma è stato un dialogo tra sordi. Le organizzazioni chiedono misure concrete contro “il precariato dei giovani”, ma il governo risponde che sono già state fatte molte cose, tra riforma della scuola, assunzione di insegnanti, 250mila “impieghi d’avvenire”, “garanzia giovani” ecc., per attuare una delle principali promesse di Hollande, fare dei giovani la “priorità” del quinquennato. Il governo puo’ ritoccare ancora i dispositivi in atto, ma non ci sono segnali per un reale cambio di marcia.
Cosi’, giorno dopo giorno, la protesta si organizza. Rémy Buisine, un community manager, continua a filmare e passare sull’applicazione Periscope quello che succede a place de la République. Ormai c’è anche una radio, che trasmette la parola di chi protesta (giovedi’ molto tempo è stato dato ai migranti). Le reti sociali svolgono un ruolo importante. L’economista Frédéric Lordon, che scrive su Le Monde Diplomatique, segue da vicino il movimento, partecipa alle assemblee. Ma non c’è un leader, anche se alcune personalità sono più impegnate di altre, alcuni sono militanti del Front de Gauche o di formazioni della sinistra della sinistra. Alcuni politici hanno già messo il naso in piazza (è venuto persino il segretario Ps, Jean-Christophe Cambadelis, c’è stato Pierre Laurent del Pcf), Jean-Luc Mélenchon spera di “farsi recuperare” dai militanti (pensando alle presidenziali 2017).
“La legge lavoro è la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, spiega Benjamin, della Boite militante. “La legge lavoro cristallizza i problemi, oggi la situazione è matura”, conferma un militante di Podemos, gli spagnoli sono tra i principali consiglieri a Place de la République. Di “convergenza delle lotte” aveva parlato il regista-giornalista François Ruffin, caporedattore della rivista Fakir e autore del documentario Merci patron! (che incastra Bernard Arnault, pdg del gruppo di lusso Lvmh). Bisogna “far loro paura”, afferma Ruffin. Per il momento, ad aver paura è soprattutto il governo, mentre il padronato ignora il movimento e continua a fare pressione per arrivare all’approvazione definitiva della legge El Khomri (la piccola e media impresa ha ottenuto, grazie a un emendamento, una ancora più grande facilità di licenziare in caso di difficoltà economiche).
Il comune di Parigi adotta la mano leggera. Il Dal (Droit au logement, Diritto alla casa), Attac e Sud-Solidaires hanno presentato una regolare domanda di autorizzazione per occupare la piazza. Ma al mattino, la polizia interviene regolarmente, sgomberando il materiale. “La polizia viene ogni giorno a sloggiarci – spiega una ragazza – non sappiamo dove immagazzinare le cose, ma dobbiamo tenere la piazza, siamo abbastanza numerosi per farlo”. Ogni giorno ci sono discussioni, assemblee. L’organizzazione avviene in diverse “commissioni” (mensa, musica, coordinamento, azione, logistica ecc.), il modello sono gli Occupy della California. Su una lavagna sono segnate le “iniziative collettive” per la convergenza delle lotte. “Il movimento si amplifica” constata un militante del Dal, “prenderà una svolta politica? Non ci sono leader, ma dei militanti che emergono”. Contro la deriva a destra del governo, contro una democrazia “negata”, per “un altro sistema”, Nuit Debout, spiega uno spagnolo, vuole “attirare i saperi”, anche se, aggiunge un ragazzo, “non vogliamo definirci troppo rapidamente”.
Ieri, alla Défense c’è stata una manifestazione europea con lavoratori anche dall’Italia, della General Electric, che ha in programma 6500 licenziamenti in Europa, in nome del recupero della “competitività”.
Corriere 9.4.16
La stanza segreta dei pennini
Montblanc compie 110 anni e apre le porte del suo quartier generale di Amburgo, posto accanto al museo che racconta la penna stilografica. E, insieme, un pezzo del Novecento
di Luisa Pronzato

Un 8 che scorre e scorre nel silenzio. E spinge, e prova, ogni rotazione della scrittura. All’accenno di un suono, brusio, Gisele scarta il pennino. È nella stanza insonorizzata del quartier generale di Amburgo che si concentra la micro-ingegneria Montblanc. Il gesto d’infinito è il giudizio implacabile. Misura la perfezione. Dal calibro della barra d’oro in cui vengono tagliate le sagome, due per dare lo spessore che dialoga con l’alimentatore, all’incisione che rende riconoscibile ogni collezione e al nib, la goccia a cuore che suggella la punta, servono cento passaggi tra le mani degli artigiani perché un pennino sia degno della sua storia.
«La funzionalità è la pietra angolare di un oggetto — dice Jérôme Lambert, chief executive di Montblanc, uomo di business e anche maratoneta e filosofo —. Gli strumenti da scrittura appartengono a un sistema a tre punte: la stilografica, la carta e l’inchiostro. Al centro c’è il piacere». Lambert intende il piacere di scrivere, ma anche quello estetico, l’«aspirazione» alla bellezza che nel Dna della maison tedesca è strettamente correlato all’utopia del progresso d’inizio Novecento. È nel decennio della fiducia tecnologica di cui siamo figli che un imprenditore di Amburgo, Alfred Nehemias, un ingegnere, August Eberstein, e un agente di commercio, Claus Johannes Voß, decisero di investire sulla rivoluzionaria invenzione della stilografica con serbatoio di inchiostro incorporato. Era 110 anni fa. «Per un’azienda significa essere stata parte della storia, essere nelle relazioni della storia, aver partecipato alla costruzione della cultura — dice Lambert —. I fondatori partirono con spirito pionieristico rispetto all’impresa, c’era la volontà di iscriversi nell’idea di progresso e sviluppo che in quell’epoca significava anche una dimensione artistica e creativa».
Il logo con la stella a sei punte, sintesi delle vette del Monte Bianco, le strategie commerciali di Grete Gross, disegnatrice aderente della Bauhaus, che affidava il marchio al volo di aerei o ad auto dotate di una gigantesca penna sul tetto, sono state le chiavi del messaggio innovativo del marchio nascente. «Sono ancora i motori della mission e della strategia aziendale: una relazione costante con l’arte, l’ambizione di liberare la creatività delle nostre équipe, produrre qualcosa destinato a durare: e questo è il lusso o quella luce, come in un quadro di Caravaggio, che ci stupisce ed emoziona ogni volta».
Montblanc è nata per il lusso. La vita al bureau, antesignana del business style, i viaggi in transatlantico della gente d’affari, erano i lifestyle di rifermento. Un mondo aperto all’avanguardia delle idee, di cui i consumi sono status rigoroso. Anche rispetto alle costruzioni sociali. Le donne, per esempio, che entravano in quei mondi e per le quali vennero ideate forme e dimensioni di stilografiche. Il marketing di Montblanc, quando ancora non si chiamava così, parlava di futuro. Lo raccontano le stilo, gli astucci, e le pubblicità raccolti nel museo riaperto e rinnovato da pochi mesi al lato dell’ingresso del quartier generale fatto di zone semi industriali, laboratori artigianali, studi artistici e di design, accademia di formazione per i dipendenti e una scuola professionale che diploma quaranta specializzati ogni quattro anni.
«Fabbricanti di stilografiche d’oro d’alta qualità», la storia di Montblanc inizia con una dichiarazione di fiducia nelle proprie capacità. E le strategie commerciali e del marchio sono nelle bacheche. Le Limited Edition, pochi esemplari creati completamente a mano ispirati dalle atmosfere culturali, da Picasso a Verne a Virginia Woolf, da Andy Warhol a Kennedy ad Alfred Hitchcock, a Gandhi, a Leonardo. Non sono solo i preziosi, diamanti, zaffiri e rubini, incastonati dai maestri orefici a farne oggetti da collezione e da aste. Ma gli intagli, le fresature su pennino, cappuccio, corpo: ognuna con il racconto di una storia. Quelle storie vivono nel museo accanto ai pezzi storici le prime Rouge e Noir, le Meisterstück che hanno cambiato materiali, forma, tecnologia del caricamento diventando icona del marchio, e simbolo di accordi mondiali, quasi che firmare con una Meisterstück149 dia, e prenda, la stessa forza simbolica di un trattato storico.
Nella reception, nei corridoi tra le isole di produzione, nei laboratori, si sviluppa una galleria d’arte contemporanea, nata negli ultimi 15 anni in collaborazione con la Kunsthalle, il museo di Amburgo, 180 opere di artisti all’avanguardia, anche se non noti, nel momento in cui i quadri vengono commissionati come Thomas Demand, Liam Gillick, Jonathan Meese, Sylvie Fleury, Jorge Pardo, Ugo Rondinone, Michel Majerus, Fang Liju, che nel frattempo sono cresciuti di fama. È un viaggio lungo 110 anni quello in Montblanc che può sintetizzarsi in due degli ultimi modelli. La Montblanc M creata da Marc Newson, il designer delle ultime tendenze industriali, a cui è stato riconosciuto il Red Dot Award 2016 per il « Best of the Best » del design. E la serie Rouge e Noir con cui la maison celebra i 110 anni. In lacca, rossa e nera come la prima. Una tensione al futuro e un affondo nel patrimonio storico.
Repubblica 9.4.16
“Multe e visite serali, la ricetta emiliana”
Così il presidente della regione ha tagliato i tempi
Nelle Ausl emiliane visite anche la sera e di domenica
intervista di Rosario Di Raimondo

BOLOGNA. Dieci milioni di euro sul piatto, 150 assunzioni tra medici e infermieri, ambulatori aperti la sera e nei weekend. Da qualche giorno, pure una “multa” a chi prenota la visita e poi non si presenta all’appuntamento, togliendo il posto a un altro paziente. Così l’Emilia-Romagna è riuscita a ridurre le liste d’attesa in sanità. «Quando ci siamo insediati, le prestazioni venivano garantite entro 30 o 60 giorni soltanto nel 54% dei casi. Oggi sfioriamo punte del 97%» dice il governatore Stefano Bonaccini, intervistato in diretta sulla pagina Facebook di Repubblica assieme al suo assessore alla Salute Sergio Venturi. Un controllo oculistico o una risonanza magnetica non sono più impossibili: «E anche il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, ha chiesto di conoscere il nostro piano».
Presidente Bonaccini, c’è un modello emiliano per l’abbattimento delle liste d’attesa?
«Ieri ho sentito Cantone, al quale trasmetteremo il nostro piano per ridurre i tempi. Credo che i risultati siano sotto gli occhi di tutti».
Qual è la ricetta?
«Per prima cosa abbiamo aggredito il problema investendo subito 10 milioni di euro e assumendo 150 nuovi professionisti, che stabilizzeremo entro l’anno».
Una promessa non semplice da mantenere.
«Avevamo detto che se la sperimentazione fosse andata bene li avremmo assunti. Abbiamo preso l’impegno anche con i sindacati».
Le altre misure?
«Abbiamo rotto il tabù delle visite la domenica e nelle ore serali. E dal 4 aprile facciamo pagare il ticket a chi non disdice per tempo la visita».
Non rischia di essere un nuovo balzello?
«L’anno scorso un milione e mezzo di persone ha prenotato una visita o un esame senza poi presentarsi. Per alcune prestazioni si superava addirittura il 20% di “evasione”. Abbiamo detto basta, per una questione di giustizia sociale».
Adesso viene la parte forse più difficile: mantenere questi standard.
«Io lo dico fin dal primo giorno: abbiamo la sanità migliore del mondo ma bisogna guardare anche i nostri difetti. Tutte e 14 le Ausl stanno dando risultati straordinari e i manager saranno valutati in base a questo impegno. In caso di disservizi ai cittadini diciamo: scriveteci».
In questi giorni è riemerso con forza il tema della corruzione in sanità. Vi sentite esenti?
«Mi auguro di sì, ma come in tutte le buone famiglie bisogna stare attenti. Servono elementi di controllo che prevengano la corruzione o, in caso, che intervengano immediatamente».
Servono anche soldi. E la sanità teme sempre i tagli. Si fida del governo?
«Io, come presidente della Conferenza delle Regioni, ho firmato un aumento del fondo sanitario di 1 miliardo e 200 milioni per il 2015. E c’è un preaccordo per aumentarlo ancora. Ho fiducia».
Repubblica 9.4.16
Lo scandalo
Parla la sorella di Angelo, un paziente dell’ospedale di Salerno. I pm: le liste d’attesa saltate in cambio di mazzette
“Il medico mi disse: mi dia 2mila euro e suo fratello sarà operato subito”
intervista di Dario Del Porto

«È chiaro che se uno riceve soldi in contanti senza rilasciare neppure una ricevuta qualcosa non torna.
Quando hai accanto una persona cara che sta male non pensi ad altro. Avrei dato anche di più. Poi ho capito»

SALERNO. «Il dottore ci chiamò in disparte. Disse che mio fratello doveva essere operato d’urgenza. Spiegò che le liste d’attesa erano lunghe, che era in procinto di partire per gli Stati Uniti e avrebbe potuto operarlo solo al rientro. Non fece alcuna pressione, non rivolse alcuna minaccia. Aggiunse solo che con duemila euro lo avrebbe operato subito». La foto di Angelo Di Giacomo è proprio all’ingresso di casa. Un bell’uomo che ha lottato come un leone, per due volte, contro il cancro ed è morto il 2 dicembre del 2015 a 49 anni. La sorella Teresa, dipendente dei servizi sociali del Comune, è uno dei testimoni dell’inchiesta dei carabinieri che ha portato agli arresti domiciliari per concussione il primario di Neurochirurgia dell’ospedale San Giovanni Di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno Luciano Brigante.
Accanto a Teresa, nell’appartamento del rione Pastena, c’è la figlia Agata Ruotolo, che aggiunge: «Ho seguito personalmente il calvario di mio zio. Non è morto per l’operazione al cervello ma perché, in precedenza, aveva subito un trapianto di fegato. Il dottor Brigante si è comportato con grande umanità. Lo ha operato due o tre volte, io stessa gli ho telefonato in centinaia di occasioni ed è stato sempre disponibile. Ecco, se potessi, vorrei chiedergli perché ha fatto questo. Che cosa lo ha spinto. Da una persona come lui non me lo sarei mai aspettato ».
Nella stessa indagine, ma in filoni diversi da quello in cui sono vittime i familiari di Di Giacomo, è ai domiciliari anche il docente universitario di Pisa Gaetano Liberti che ieri, alla presenza dell’avvocato Giulia Padovani, ha respinto tutte le accuse davanti al gip, mentre è indagato a piede libero il luminare giapponese Takanori Fukushima, lo stesso del presunto consulto per il Papa poi smentito dalla Santa Sede. Lunedì Brigante potrà replicare alle accuse nell’interrogatorio di garanzia. Nelle parole della sorella e della nipote di Di Giacomo, non c’è acrimonia ma solo amarezza.
Signora Teresa, quando vi siete rivolti al dottor Brigante?
« Mio fratello si è sentito male il 16 aprile 2015. È arrivato in ospedale con l’ambulanza. Pensavamo fosse una crisi di rigetto legata al trapianto, invece dagli esami è emersa una massa al cervello. Il dottor Brigante era il primario, aveva già avuto in cura un a nostra conoscente».
Anche in quella occasione vi aveva chiesto di pagare per l’intervento?
«No. E quando si è trattato di Angelo non ci ha mai detto che lo avrebbe operato solo se avessimo pagato. Ha spiegato che i soldi non sarebbero andati solo a lui ma a chi lo avrebbe affiancato in sala operatoria. Pensavamo fosse un normale intervento in intramoenia, anche perché il pagamento è avvenuto dopo l’intervento ».
Non le è venuto il dubbio che quel denaro non gli spettasse?
«Sinceramente no. Ho pensato solo ed esclusivamente ad Angelo. Anche perché durante questo calvario che ha riguardato anche un altro dei miei fratelli, abbiamo visto, purtroppo, tanti medici davvero cinici e venali. E non è il caso del dottor Brigante».
Avevate quei duemila euro?
«Siamo una famiglia numerosa, composta da tredici fratelli. Ci siamo tassati tutti».
Il pagamento come è avvenuto?
«Dopo le dimissioni di Angelo, in ospedale. Gli ho consegnato il denaro in una busta. Non li ha neppure contati. A quel punto ho cominciato a capire che qualcosa non quadrava».
Perché?
«È chiaro che se un medico riceve soldi in contanti, chiusi in una busta bianca, senza rilasciare neppure una ricevuta, qualcosa non torna».
Tocca ai giudici, adesso, valutare la veridicità del suo racconto e quello degli altri testimoni e decidere sulla condotta contestata agli indagati. Ma lei, signora Teresa, rifarebbe tutto?
«Con il senno del poi è tutto più semplice. Ma quando hai accanto una persona cara che sta male, non pensi ad altro. Se mi avessero chiesto di più, avrei pagato di più. Volevo solo che mio fratello smettesse di soffrire».
il manifesto 9.4.16
La Lombardia deve risarcire Englaro
di Marco Cappato

Questa è la fine dell’inizio», ha commentato Beppino Englaro. «Questa è la sentenza chiave, che chiude il cerchio definitivamente. Ci ho messo un quarto di secolo della mia vita e ora la strada è stata tracciata affinché siano rispettati i diritti fondamentali delle persone. Dal 1992 a oggi ho sempre avute chiare la libertà e il diritto di mia figlia a decidere della propria vita, concetti che lei aveva ben definiti e che aveva manifestato in più occasioni. L’inizio è che da oggi chi vuole autodeterminarsi, qualunque decisione assuma, sa che cosa deve fare e di certo non dovrà patire quello che ho patito io».
Il Tribunale amministrativo regionale ha condannato la Regione Lombardia a risarcire Englaro con 142 mila euro. I fatti risalgono al 2008, quando Roberto Formigoni, allora Presidente lombardo, impedì di far rispettare la sentenza del Consiglio di Stato sull’interruzione delle terapie di Eluana. Formigoni obbligò Englaro a spostarsi in Friuli per ottenere il rispetto della volontà di Eluana. Il risarcimento stabilito dal Tar copre il costo del trasporto di Eluana alla clinica “La Quiete” di Udine, e il piantonamento della struttura, reso indispensabile dai continui attacchi di gruppi fondamentalisti. A Formigoni e alla Regione Lombardia è contestata «la natura dolosa del rifiuto regionale, che ha reso ancora più gravosa la condizione esistenziale» di Beppino Englaro e della moglie Saturna, deceduta qualche mese fa dopo anni di malattia.
Già nel settembre 2014, il Consiglio di Stato dichiarò illegittima la decisione della Regione Lombardia, perché la Regione era «tenuta a fornire la cure a Eluana, e il diritto ad avere una cura comprende, anche, il diritto di interromperla».
La sentenza del Tar arriva a confermare una giurisprudenza consolidata dal caso Welby in poi nel seguire un principio fondamentale: nessuno può negare a un paziente il diritto costituzionale a sospendere le terapie, nemmeno nel caso di sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione e nemmeno se la persona che ha espresso la scelta non è più in grado di intendere e di volere.
C’è da sperare, a questo punto, che la politica ne voglia tenere conto. In particolare, i parlamentari impegnati nella discussione sulle proposte di legge in materia di fine vita (tra le quali la proposta di iniziativa popolare dell’associazione Luca Coscioni) dovrebbero considerare l’urgenza di far fare un passo avanti al nostro Paese fornendo un quadro giuridico certo, all’interno del quale si possano esprimere le volontà del paziente. Nella scorsa legislatura, attraverso il disegno di legge Calabrò, la maggioranza di allora tentò l’operazione opposta, cioè il tentativo di minare la giurisprudenza e la stessa Costituzione, riducendo le direttive anticipate di trattamento a mere «dichiarazioni» non vincolanti e sottraendo l’alimentazione e l’idratazione dal novero dei trattamenti rinunciabili. Una siffatta legge, “contro” e non “per” il testamento biologico, farebbe probabilmente la fine della legge 40: finirebbe cioè smontata dai tribunali e dalla Corte costituzionale, naturalmente a prezzo di grandi sacrifici personali dei malati e dei loro parenti.
La strada parlamentare è la più importante, ma non l’unica. Proprio la Regione Friuli ha approvato una legge regionale che introduce la possibilità di inserire le direttive anticipate di trattamento nella tessera sanitaria regionale, rendendo così molto più agevole la consultazione delle volontà del paziente da parte degli operatori sanitari. Il governo Renzi ha bloccato tutto con un ricorso alla Corte costituzionale, ma altre regioni potrebbero seguire. In Lombardia, nei giorni scorsi, con diverse associazioni e gruppi abbiamo depositato ben oltre le 5.000 firme necessarie su una legge regionale di iniziativa popolare con lo stesso obiettivo della legge friuliana.
Che sia bene non arrendersi, ce lo spiega lo stesso Beppino Englaro: «Il mio calvario, attraversato perché lo dovevo a mia figlia, dimostra che il cittadino qualunque può davvero cambiare le cose dal basso. Il regalo di Eluana, il più grande, è che oggi chiunque potrà rivendicare il diritto fondamentale di disporre della propria vita, libertà che nessuno può toccare».
* Presidente Radicali italiani, tesoriere Associazione Luca Coscioni e candidato sindaco di Milano
«La sentenza del Tar condanna la Regione Lombardia a risarcire i danni subiti dagli Englaro, valutati in circa 150mila euro, perché - parole dei giudici - «si è rifiutata deliberatamente e scientemente di dare seguito» alle sentenze, «ponendo in essere un comportamento di natura certamente dolosa».

Repubblica 9.4.16
La rivincita di Englaro “Adesso nessuno soffrirà più come noi”
La Regione Lombardia dovrà risarcire il papà di Eluana Maroni: accetto la sentenza. Ma la giunta si spacca
intervista di Piero Colaprico

«Noi chiedevamo rispetto, loro si sono accaniti contro una famiglia che si era mossa nella legalità, dentro la società.
Non mi sarei perdonato di non essere andato fino in fondo, ma non sfido nessuno: ero e resto un padre»

MILANO. Dice di sentirsi «alla fine dell’inizio». E, per la prima volta, Beppino Englaro parla di «intima gioia», forse perché si è arrivati a un punto fermo. Era il 18 gennaio 1992 quando sua figlia Eluana, dopo una sbandata sul ghiaccio, finì in “stato vegetativo”, senza alcuna relazione con il mondo esterno.
Era il 9 febbraio 2009 quando, alla clinica “La Quiete” di Udine, dopo le sentenze della Cassazione e dei giudici milanesi, Eluana si spense per sempre. Ed è dell’altro giorno, esattamente del 6 aprile, la sentenza del Tar che condanna la Regione Lombardia a risarcire i danni subiti dagli Englaro, valutati in circa 150mila euro, perché – parole dei giudici - «si è rifiutata deliberatamente e scientemente di dare seguito» alle sentenze, «ponendo in essere un comportamento di natura certamente dolosa».
Ricevuta copia della sentenza, l’attuale presidente, Roberto Maroni, pensa di «non ricorrere », anche se la decisione sarà presa in giunta dopodomani. Invece Raffaele Cattaneo, presidente del Consiglio regionale, legato a Cl, insiste per tornare in giudizio, in nome, sostiene, della lotta all’”eutanasia”.
Signor Beppino Englaro, tanto tempo e dolore per arrivare a...?
«Almeno alla fine dell’inizio. Quando la nostra famiglia si è mossa, eravamo in un deserto di leggi. Adesso invece, dopo le varie sentenze, compresa l’ultima, ciascuno, se vuole, ha una strada tracciata per non entrare nelle zone grigie della medicina e della giurisprudenza e non soffrire come abbiamo sofferto noi. Abbiamo insomma un inizio, un cambiamento, anche se per ottenerlo c’è voluto un quarto di secolo».
Sua figlia, in una lettera per Natale, esattamente un mese prima dell’incidente, aveva scritto: «Noi tre formiamo un nucleo molto forte basato sul rispetto e l’aiuto reciproco… ».
«Aveva messo in chiaro chi eravamo. Questa lettera l’avevo data soltanto ai giudici della Cassazione e avevo rinunciato a usarla, anche se un presidente del Consiglio, due rami del Parlamento che hanno sollevato il conflitto d’attribuzione, un ministro che ha vietato di concedere l’uso degli ospedali e una Regione Lombardia, per non parlare di alcuni giornalisti, hanno detto e fatto cose inenarrabili, ingiuste, feroci».
È per questo che ha voluto insistere?
«Se Eluana avesse potuto parlare, avrebbe rifiutato sin dal primo giorno le cure che non portano a nulla, avrebbe detto lei che esiste nella Costituzione italiana il diritto di non accettare le terapie. Noi genitori, Beppino e Saturna, dicevamo le stesse cose. E nonostante la magistratura al suo massimo livello avesse accettato questa possibilità, ecco la Regione Lombardia chiudermi le porte di ogni ospedale in faccia. Con quale diritto? Come rispondere a questa violenza inaudita? Ecco perché ho insistito ».
L’allora Presidente della Regione, Roberto Formigoni, usò la parola coscienza.
«Gli ha risposto bene il Consiglio di Stato. La coscienza è delle persone, la coscienza delle istituzioni dello Stato è rispettare le leggi e le sentenze. Cosa che non è stato fatto, si sono accaniti contro una famiglia che s’era mossa nella legalità dentro la società. Più che chiedere, uno che cosa deve fare? Abbiamo cristallizzato l’abuso subito, perché altri non lo subiscano. Le ultime sentenze usano le nostre parole».
Che cosa prova?
«Mi ridà linfa, sono stato devastato. Eppure, esiste una gioia intima nel vedere queste idee semplici riconosciute, almeno un po’ ripaga delle incomprensioni. Abbiamo lottato, aiutati dagli avvocati come Cristina Morelli, Giuseppe Campeis, Vittorio Angiolini, e quelli che dicevano “lei non capirà mai”, quando capivo, hanno avuto torto. Non mi sarei perdonato di non essere andato sino in fondo, ma non sfido niente e nessuno, ero e resto un padre».
Ora che cosa cambia?
«Il cittadino che ha le idee chiare può farsi rispettare da medici e magistrati. E non è questo, come falsamente dicono, il “diritto di morire”, o “l’eutanasia”. Si tratta più semplicemente di essere lasciati morire quando le cure non servono. È “lascia che la morte accada”, lascia perdere le cure, le rifiuto. Tutto qui. Oggi una legge ancora non c’è, ma si può dire “no, grazie” all’offerta terapeutica dichiarando prima quali sono le proprie volontà e facendosi seguire da un avvocato».
Lei ha espresso le sue volontà?
«Sì, ho lasciato scritto che “Se non posso decidere io, lasciatemi morire”».
La Stampa 9.4.16
Gli inquilini a canone zero della reggia di Caserta:
“Non siamo degli abusivi”
Pagavano affitti da tre euro ma contrattaccano: “Se ce ne andiamo il parco diventa una discarica”
di Maria Corbi

Dodici inquilini e affitti ridicoli per appartamenti affacciati sulla storia. Ma anche sul degrado. Tre euro, cinque ero, cinquanta euro al mese per aprire le finestre sull’ambizione di Carlo III di Borbone che voleva a Caserta la sua Versailles e su un parco, riconosciuto come Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, ad oggi è senza manutenzione. Difficile fare una graduatoria dei comportamenti scandalosi.
Quella scenografia di panorami, grotte, laghi, piccole cascate, alberi secolari, 120 ettari di superficie, è abbandonata a se stessa. Erba alta, tronchi caduti, piante selvatiche che prendono il sopravvento, sterpi che sembrano pronti per un barbecue. Incuria colpevole. «Ma anche pericolo», ci dice una delle 12 inquiline sotto tiro dalla Corte dei Conti. «Oggi noi siamo i “cattivi”, che vivono qui senza averne titolo. Ce ne andremo, ma i problemi della Reggia di Caserta non saranno risolti, perchè almeno noi qui ci occupavamo di tenere in ordine».
La signora, scuote la testa, alza la voce e poi la abbassa, è vedova di un ex dipendente della sovrintendenza e ripete come un mantra: «non siamo abusivi». È una delle poche che accetta di spiegare senza aggredire. Il suo affitto? 84 euro dopo l’aumento. E adesso lo sfratto: «entro giugno ce ne andremo, ma io mi porterò le piante che ho piantato, i termosifoni che ho messo, tutto...». Non c’è riconoscenza per una vita passata in un luogo magico, nel quartiere dei Liparoti fatto costruire nella reggia da Ferdinando IV di Borbone per ospitare i marinai dell’isola di Lipari che dovevano condurre la sua barca nei giochi di battaglia navale che si svolgevano nella peschiera, il lago vicino al bosco. E non è la sola «ingrata» visto che nessuno, a iniziare da chi si è occupato fino ad oggi della reggia, stuoli di dirigenti sedimentati nel tempo, sembra averne, di riconoscenza, per questa meraviglia. Il giardino inglese è usato come una discarica, quello italiano è abbandonato a se stesso. Non si taglia l’erba figuriamoci se si potano le siepi. E il verde che ti accoglie quando arrivi davanti alla facciata maestosa è vergognoso. «Purtroppo non c’è manutenzione del parco», ammette Leonardo Ancona, responsabile della tutela e della valorizzazione del parco e dell’acquedotto carolino. Perchè? «Perché siamo all’anno zero e dobbiamo iniziare le gare di affidamento dei lavori. Per quanto riguarda il verde davanti alla reggia è del demanio in consegna al Comune». «Ci stiamo impegnando per cambiare le cose», dice. «A iniziare proprio dal sanare occupazione non legittime degli spazi».
La pasionaria dei «residenti a canone zero» è Rosa, dipendente della sovrintendenza che non ci sta a farsi chiamare abusiva. «Non lo siamo, ci hanno concesso di vivere qui e abbiamo pagato quanto richiesto». Ossia 86 euro contro i quasi 600 che avrebbe dovuto secondo il ricalcolo. «E a tutti gli inquilini questa differenza verrà richiesta», assicura Ancona.
E caro dovranno pagare i due fratelli che occupano «in eredità» - il padre era un custode della reggia - l’appartamento accanto al Teatro di Corte, l’unica sala del palazzo portata a termine dal Vanvitelli. Per entrare in casa varcano ogni giorno un maestoso portone a due ante con fregi dorati.
Un parco storico abbandonato dove risiedono da anni famiglie che non hanno mai pagato neanche l’acqua. E che ospita anche la Pro loco, «pezzi» di Forze dell’ordine come i Nas e i Ros. Nel passato qui hanno studiato generazioni di aspiranti ragionieri. Alla Faccia di Vanvitelli e dei suoi capolavori.
il manifesto 9.4.16
Virgilio, la ministra Giannini prende le difese della preside sceriffo
Educare e punire. Una telefonata di solidarietà da Viale Trastevere fa uscire dall'angolo la discussa dirigente scolastica Irene Baldriga: "Un atto importante per la scuola italiana"
E ha ragione: nel liceo romano si sta giocando una partita importante: dopo l'arresto di uno studente per spaccio di 2,5 g di hashish, ora si vuole legittimare la "normalità" dell'intervento della polizia a supporto del preside-manager
Le reazioni dei genitori democratici accusati dalla preside di avere "aizzato" la contestazione
di Roberto Ciccarelli

ROMA La ministra dell’Istruzione Stefania Giannini sposa il modello legge & ordine al liceo Virgilio di Roma. Silente dal 22 marzo, quando un diciannovenne è stato arrestato dai carabinieri della stazione Farnese per la vendita di 2.5 grammi di hashish a un altro studente minorenne, ieri è intervenuta a favore della preside Irene Baldriga, facendola uscire dall’angolo.
E la preside, sollevata, ha riconosciuto l’”importanza” di un gesto che legittima un modello educativo che si sta estendendo in molte scuole italiane: affrontare la diffusione della cannabis tra gli studenti con la loro criminalizzazione. Il risultato sarà probabilmente quello di provocare un costante aumento del consumo di sostanze di stupefacenti soprattutto da parte dei più giovani. Invece della prevenzione e del dialogo, educare e punire.
È il circolo vizioso del proibizionismo e della reaganiana “guerra alla droga” adattate alla scuola italiana. Su questo modello oggi si sta giocando una partita politica importante: legittimare l’idea che i conflitti con i presidi manager nella “Buona Scuola” di Renzi possano essere risolti con la polizia.
«La ministra Giannini ha ribadito l’impegno da parte del ministero sul fronte della prevenzione e dell’aiuto alle scuole” ha detto Baldriga. In mancanza di una dichiarazione diretta del ministro, la fonte è la discussa preside del Virgilio.
La “solidarietà” di Giannini è a un modello repressivo che, nei primi tre mesi del 2016, ha imposto la perquisizione degli studenti in decine di classi da Arzachena alla Brianza, da Pontedera a Teramo, da Udine a Marsala. Ormai si dà per acquisito che le forze delle ordine, con i cani anti-droga, possano entrare negli istituti a qualsiasi ora per effettuare operazioni come negli stadi, ad esempio. Nel modello “educare e punire” l’ora di educazione civica sarà sostituita con quella delle perquisizioni personali agli studenti-ultras e potenziali devianti.
Questo è il cuore del dibattito al Virgilio, diventato nelle ultime settimane il palcoscenico della politica scolastica. Prima un’interrogazione di Sinistra Italiana alla ministra Giannini sull’opportunità dell’arresto di un giovane in una scuola e su un corso anti-droga organizzato da una fondazione vicina a Scientology; poi un rosario di interventi delle destre scatenate con Meloni e Giovanardi. Poi il candidato sindaco a Roma Marchini e il sindacato di polizia Cosap. Ieri la lista “Noi con Salvini” ha organizzato un flash mob davanti all’istituto. Nemmeno l’associazione nazionale dei presidi ha fatto mancare l’appoggio al modello “educare e punire”. È stato promosso sui media, anche nazionali, il “caffé solidale” con la preside Baldriga.
L’offensiva è a tutto campo e va avanti come uno schiacciasassi.  L’istituzione scolastica sembra avere rinunciato a ogni forma di mediazione e non intende recuperarla attraverso strumenti della partecipazione e del dialogo. Si aprono così nuovi scenari del controllo, dell’esibizione della forza e di una dura reprimenda contro i genitori degli studenti e del collettivo del Virgilio che criticano il modello securitario.
I genitori, rappresentati dalla lista maggioritaria “Insieme” in Consiglio di Istituto, ieri hanno rifiutato l’accusa di “essere conniventi con l’illegalità. Non abbiamo sentito nessun genitore difendere il consumo di droga, il fumo nella scuola. Ci siamo, invece, confrontati sulle metodologie più efficaci e stiamo ovviamente riflettendo su quello che è successo e come si sarebbe potuto evitare – continua il comunicato – preservando la specificità dello spazio educativo. È importante non fomentare i conflitti tra buoni e cattivi genitori o studenti”.
La posta in gioco in questo conflitto, pieno di emotività e di tensione, emerge nella lettera personale che Francesca Valenza, che fa parte della lista “Insieme” ha inviato ieri alla ministra Giannini: “La preside sceriffo che risolve tutto, ma che lascia indietro gli studenti, che non la seguono, che abbandonano la scuola, la repressione che dovrebbe risolvere il problema della droga. Gli studiosi dicono che questi metodi sono inefficaci e in Italia, più si aumenta la repressione più aumenta il consumo. Non staremo sbagliando qualcosa? – scrive – Qualcuno ha strumentalizzato con molta abilità questa faccenda squallida, a spese di una riflessione sana e utile alla comunità”.
“La scuola non può essere un luogo dove opera la forza pubblica – sostiene Angela Nava, presidente dell’associazione nazionale genitori democratici – Dobbiamo ragionare su quello che la scuola è, perché nel momento in cui si chiamano i carabinieri e la polizia vuol dire che si sta alzando bandiera bianca, chi lo fa segnala la sua impotenza. Come associazione Genitori Democratici pensiamo che la scuola possa essere un luogo invalicabile dove vivono concretamente pratiche e percorsi educativi e non meramente repressivi”.
“Educare con la repressione non è mai stata una strada da perseguire e non è per nulla efficace – sostiene il deputato di Possibile Pippo Civati – Al Virgilio si è assistito a una reazione eccessiva del dirigente scolastico che pensa di colmare un disagio facendo entrare la polizia a scuola e accusando i ragazzi e le famiglie di essere estremisti solo per aver contestato gli agenti nel liceo e l’uso eccessivo e disinvolto delle telecamere. Si torni al dialogo e si cerchino insieme gli strumenti per affrontare il tema senza irrigidirsi”.