sabato 14 novembre 2015

il manifesto 14.11.15
Uccidere i genitori
Verità nascoste. La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos
di Sarantis Thanopulos


Un ragazzo ha ucciso la madre e ferito gravemente il padre della sua fidanzatina, con la complicità di lei. Le vittime si opponevano al loro legame. Una ragazza ha ucciso la madre che le aveva proibito l’uso di internet, a causa del suo cattivo rendimento a scuola. In occasione di queste catastrofi affettive ci si interroga sempre sui motivi. Regolarmente le cause scatenanti appaiono del tutto sproporzionate all’enormità dell’azione in cui trovano sbocco.
Nel primo interrogarsi sull’uccisione dei genitori, nell’ambito della tragedia greca, lo sguardo si muove tra l’omicidio preterintenzionale del padre (Laio) da parte di Edipo e l’omicidio intenzionale della madre (Clitemnestra) da parte di Oreste –istigato dalla sorella Elettra. Edipo cancella dalla sua strada un padre di cui ignora l’identità, un estraneo che non l’ha riconosciuto come figlio. La responsabilità è di Giocasta: estorcendo un figlio da Laio, che ne era contrario, l’ha espulso dalla sua vita di donna/madre. Oreste elimina intenzionalmente Clitemnestra, perché lei, uccidendo Agamennone, l’ha privato del padre, delegittimandolo come uomo. Il parricidio di Edipo certifica la non esistenza del padre, il matricidio di Oreste afferma la necessità della sua permanenza.
In entrambi i casi, l’eliminazione del padre da parte della madre è un atto intenzionale che rescinde il legame di lui con il figlio. Mentre Edipo fa propria l’intenzione materna, inconsapevole del suo significato e delle sue implicazioni, Oreste afferma la propria opposta intenzionalità e elimina la madre uxoricida. Il primo precipita nel baratro della cecità, il secondo si avvia a un doloroso riscatto.
La prospettiva tragica lega l’uccisione dei genitori alla dissoluzione del legame coniugale. La dissoluzione fa diventare la madre una figura autocentrata che, ignorando la figlia, usa il figlio per annientare il padre. Per i figli –fratello e sorella– l’unica salvezza possibile è di sconfiggere la volontà autocratica che la madre/Sfinge incarna. Senza cadere nella tentazione di risposare la sua causa, restaurandola nella sua potenza (la contraddizione in cui si è perso Edipo).
La tragedia colloca il parricidio e il matricidio al centro del conflitto psichico dell’essere umano: la sua oscillazione tra l’uccisione interiore preterintenzionale del padre, che lo lascia indefinito nella sua identità, e l’uccisione intenzionale della madre autocratica, che gli consente di definirsi. L’uccisione concreta della madre e/o del padre, denuncia l’impossibilità del conflitto (il cui esito decide il grado di sanità psichica del soggetto). La sostituzione della sponda genitoriale allo sviluppo di una vera conflittualità con regole astratte, al tempo stesso restrittive e indefinite, preclude ai figli lo sviluppo di una vera intenzionalità e responsabilità. L’eliminazione fisica del genitore rende manifesto il vuoto nel luogo psichico che dovrebbe ospitarlo come autorità interna. L’esplicitazione del vuoto interno invoca l’intervento di un’autorità normativa esterna, cerca nella punizione l’argine all’indeterminatezza della propria vita.
La lezione da trarre dal matricidio e dal parricidio, è che la relazione tra genitori e figli non è naturale, né sacra, ma un riconoscimento reciproco tra soggetti desideranti. La genitorialità non è una funzione che si eredita: i genitori se la devono conquistare. Quando i genitori non riescono a impegnarsi in modo personale e si affidano a un’anonima interpretazione normativa della loro funzione, i figli possono cercare nella norma il genitore «vero» e materializzarlo nell’intervento repressivo della legge.
Corriere 14.11.15
Novant’anni fa
Le sfide che minacciano il sogno liberale di Gobetti
La rivista fondata dal giornalista-politico antifascista venne chiusa per ordine del duce
Vale la pena ricordare questa storia perché corrisponde a un tema attuale: il rischio che l’Europa, dopo un percorso democratico, si affidi al pessimo rimedio del populismo e alle sirene xenofobe
di Francesco Rutelli


Obiettivo
Lo scopo della sua vita si è realizzato nel Dopoguerra e nella nascita dell’Unione
Fragilità
Se tornasse oggi, si preoccuperebbe della sfiducia verso i nostri sistemi democratici

Caro direttore, Piero Gobetti ricevette in queste ore, 90 anni fa, il decreto definitivo di chiusura de La Rivoluzione Liberale da parte del regime fascista. L’8 novembre 1925 era uscito l’ultimo numero, sotto la diffida del Prefetto di Torino, D’Adamo. L’ordine di chiusura, «in considerazione dell’azione nettamente antinazionale esplicata», viene disposto ed eseguito negli otto giorni successivi. Comporterà la chiusura della casa editrice; «Quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca (…). Penso un editore come un creatore» aveva scritto Gobetti. E, alcune settimane dopo l’esecuzione dell’ordine di Mussolini: «In realtà, se qualcuno rimane oggi in faccia al fascismo non vinto, almeno sul terreno ideale, è il nostro gruppo. Non dico neppure che sia una consolazione: tuttavia l’onore è salvo». L’onore, e non la vita: come conseguenza delle percosse subìte, un Gobetti fiaccato da problemi cardiaci e dalla bronchite morirà a Parigi il 15 febbraio 1926.
Penso che rendere onore a questo eccezionale uomo di libertà ed intransigenza democratica, nel dolente anniversario della liquidazione delle sue attività creatrici, risponda a un tema attuale: il rischio che la nostra Europa — con prospettive depresse, e in condizioni economiche difficili — perda la fiducia nella politica democratico-liberale e si affidi al perfido rimedio del populismo. La lucidità e l’ardimento di un uomo di minoranza come Gobetti di fronte all’ascesa della dittatura sono impareggiabili: «Io sto qui, e non posso altrimenti», secondo il riassunto di Norberto Bobbio. Sopra a tutto vale il suo motto (lo porto sempre con me, nel suo Ex Libris) «Ti moi sun douloisin»; «Che ho a che fare, io, con gli schiavi?».
Certo: la capacità di formare e informare nuove generazioni e leve di intellettuali, oggi, non potrebbe essere arrestata da un ordine prefettizio. Le libertà di opinione ed espressione sono tanto vaste da rendere vertiginoso — se lo confrontiamo con le realtà di molti Paesi del mondo, e con le nostre stesse, sino a pochi decenni fa — l’accesso diretto al sapere e alle possibilità di divulgazione. Ma è vero che la testimonianza gobettiana fa riflettere su un aspetto cruciale del nostro tempo: la crescita esponenziale delle libertà individuali si associa a una perdita verticale della partecipazione democratica reale. Lo scopo della vita di Gobetti, spezzata a 25 anni, si è realizzato nel Dopoguerra e nella nascita dell’Unione Europea. Ma il suo sogno di una democrazia liberale, ovvero vigile, critica, sempre in grado di produrre anticorpi contro «il potere che corrompe» (per usare le parole di un altro grande liberale, John Acton) oggi è particolarmente minacciato. Un Piero Gobetti che tornasse tra noi, dopo aver espresso gioia per la fine della censura e della violenza della dittatura, si preoccuperebbe delle fragilità e sfiducie diffuse nei nostri sistemi democratici; dell’eccessiva personalizzazione politica; dell’ansia di semplificare — e falsificare — i temi complessi, favorendo il ritorno di sirene populiste e xenofobe. Penso che su queste sfide aprirebbe, come fece quasi cent’anni fa, «la più grande battaglia ideale del secolo».
co-Presidente del Partito Democratico Europeo
nel Gruppo liberaldemocratico in Europa
Corriere 14.11.15
Una nuova sconfitta per la sinistra antitotalitaria
Solitudine dopo la morte di Gluksmann
Con la scomparsa del grande intellettuale francese si è spenta un’altra voce critica nei confronti dell’autoritarismo russo
E anche i crimini del siriano Assad saranno ancora più impuniti
di Pierluigi Battista


Era un’Internazionale senza potere, ma con molta passione. Un’Internazionale del pensiero. Una comunità intellettuale che aveva nel ripudio di ogni totalitarismo il suo baricentro e la sua ispirazione. Era un Repubblica dell’antiautoritarismo, ovunque, sempre, e della difesa intransigente delle libertà e dei diritti, ovunque, sempre. Non era un partito con una sua linea rigida e asfissiante. Conosceva e rispettava le differenze interne, un partito in cui ognuno andava per conto suo ma poi si ritrovava sempre su un terreno comune. Era, perché adesso si è praticamente vanificata: battuta, sconfitta. Con la morte di André Glucksmann questo variegato gruppo culturale, questo partito intellettuale della sinistra antitotalitaria, ha perso un pilastro decisivo. Un altro, forse quello più importante. La sua scomparsa, così dolorosa, è il simbolo di una fine.
Oggi trionfano infatti gli aedi del realismo politico, i cantori della libertà d’espressione a sovranità limitata, gli apologeti dei dittatori e dei tiranni, purché siano i dittatori e i tiranni che garantiscono la «nostra» pace, i bilanci delle «nostre» imprese, gli interessi delle «nostre» nazioni. «Nostre», perché tanto il rimpianto Gheddafi torturava e massacrava gli altri. «Nostre», perché ci conviene: il contrario di una difesa appassionata dei diritti e delle libertà, ovunque, sempre.
C’era Christopher Hitchens, Hitch per tutti gli amici che ne apprezzavano l’irruenza intellettuale, che si batteva come un leone contro i totalitarismi, lui figlio del ’68 libertario e antiautoritario, lui che ha riconosciuto il volto dispotico del comunismo come lo descrivevano, in minoranza ma ostinati, Robert Conquest e Kingsley Amis, il padre dello scrittore Martin (che con Ian Mc Ewan è stato sommerso di improperi per aver denunciato l’illibertà assoluta dell’islamismo politico fondamentalista). Lui, Hitchens, all’avanguardia nella battaglie per difendere la vita e la libertà di Salman Rushdie mente una parte della cultura occidentale si ritraeva impaurita di fronte alle minacce degli ayatollah. Hitchens che, da sinistra e nella sinistra, ha appoggiato l’intervento degli Usa e dell’Inghilterra del laburista riformista Tony Blair, contro il Saddam Hussein che faceva strage di curdi con il gas. Hitchens amava molto un grande scrittore antitotalitario, George Orwell, il cui 1984 e la cui Fattoria degli animali , satire feroci della tirannia stalinista, fecero molto fatica ad avere un editore disposti a sfidare il conformismo dell’epoca. Glucksmann amava invece molto Raymond Aron, che aveva scritto L’oppio degli intellettuali e soprattutto Albert Camus che da sinistra, da libertario, da antifascista, da antitotalitario, denunciava l’orrore del Gulag contro l’establishment culturale della Rive Gauche che applaudiva Sartre quando sosteneva la necessità di nascondere il Gulag per non deprimere il morale degli operai di Billancourt.
Era la sinistra antitotalitaria di Pascal Bruckner, di Paul Berman che aveva raccontato quanto in cima all’odio degli islamisti fondamentalisti ci fosse il mondo liberale, l’Occidente dei diritti e delle libertà considerate peccaminose e frutto di Satana. Era l’atteggiamento baldanzoso dei nouveaux philosophes , dei Glucksmann e di Bernard-Henri Lévy soprattutto, che accese le luci sugli orrori dell’oppressione russa in Cecenia (altro che le stupidaggini sull’«islamofobia»), Grozny rasa al suolo, centinaia di migliaia di morti, nel silenzio dell’Occidente, tutto sommato soddisfatto che Putin si fosse assunto il compito di fare il lavoro sporco della repressione anti musulmana. Erano due eroi della libertà dell’Europa satellizzata e oppressa dall’Unione Sovietica. A Praga Vaclav Havel, il dissidente che aveva conquistato il Castello e che metteva in guardia l’Occidente dalle nuove pulsioni autoritarie che si muovevano in quel mondo. A Varsavia Adam Michnick, un nemico delle destre nazionaliste che si stanno prendendo la Polonia, già vittima del comunismo, già a favore dell’intervento occidentale per liberare il mondo dal terrorismo islamista.
Oggi la pattuglia dei critici dell’autoritarismo di Putin si è assottigliata fin quasi a scomparire. Nessuno si chiede più in quali circostanze sia stata assassinata la giornalista Anna Politkovskaja, uccisa nel 2006. Nessuno osa più protestare per le intimidazioni contro le opposizioni e figurarsi se qualcuno, nel mondo intellettuale americano ed europeo, ha qualcosa da eccepire sulla violazione della sovranità ucraina e sull’annessione violenta e unilaterale della Crimea. Oggi, con la morte di André Glucksmann, un’altra voce critica nei confronti dell’autoritarismo russo, che nel suo ultranazionalismo, è arrivata a rivalutare il terrore staliniano nella Grande Guerra Patriottica, è stata spenta. E anche i crimini di Assad saranno ancora più impuniti, anche nella dimensione dell’opinione pubblica. La sinistra antitotalitaria segna un’altra delle sue sconfitte. E chi vi rimane, resta anche un po’ più solo.
La Stampa 14.11.15
Otto neonati uccisi, caccia alla madre in fuga
Orrore in Germania: ricercata una commessa di 45 anni, i resti dei corpicini ritrovati in un baule In una lite con l’ex avrebbe confessato gli infanticidi. Una subaffittuaria l’ha sentita e denunciata
di Tonia Mastrobuoni


Scene di caccia in Alta Baviera, per parafrasare un vecchio, magnifico film. Decine di poliziotti stanno setacciando ogni millimetro di Wallenfells, un ameno paesino della Franconia di duemila e ottocento anime, alla ricerca di una donna di 45 anni, Andrea G. sospettata di aver compiuto una strage. Nell’anonima casetta grigia, monofamiliare dove viveva con i cinque figli, il marito e la suocera, gli inquirenti hanno trovato otto cadaveri di bambini in avanzato stato di decomposizione. Alcuni potrebbero essere morti da molto tempo. E non è neanche detto che siano otto: Martin Dippold, il magistrato che sta conducendo le indagini, ha dichiarato che potrebbero essere di più. I corpicini dei bimbi sono «in cattivo stato», ha spiegato, tanto che all’inizio la polizia aveva parlato di sette cadaveri, ma nella giornata di ieri pare che e ne sia aggiunto un altro. La donna, nel frattempo, è sparita nel nulla.
Gli abitanti sconvolti
Apparentemente, in questo tranquillo paesino della cosiddetta «corona verde» della Baviera, meta prediletta degli escursionisti di tutto il mondo, una tragedia paurosa si è consumata nel segreto più totale. Nel «nostro piccolo mondo» ha detto con aria sconvolta il sindaco, Jens Korn, «tutti si conoscono, tutti si aiutano a vicenda». Korn si è detto «senza parole» per l‘accaduto, ha adombrato il sospetto che l’assassino possa aver avuto dei complici, ha ammesso di conoscere bene la famiglia ma non ha voluto fornire altri dettagli. I vicini sostengono che gli omicidi possano essere persino avvenuti all’insaputa del marito, che un conoscente descriveva ieri in uno «stato terribile». E i vicini di casa, come da copione, parlavano di Andrea G., sparita ora nel nulla, come di una donna «tranquilla e gentile», sempre «disponibile a dare una mano» e che si occupava «amorevolmente» degli altri cinque bambini. Tre, di dodici e tredici anni, erano figli dell’attuale marito, gli altri due erano nati da rapporti precedenti.
Tutti sono sconvolti. Eppure, nella testa di Andrea G. qualcosa non andava da molto tempo. Un vicino interpellato dai media tedeschi ha raccontato che aveva ammesso di aver avuto quattro aborti, ma di essere «tranquilla», perché gli altri bambini erano sani. Altri vicini ammettono di averla vista spesso incinta. La donna faceva la commessa e lavorava saltuariamente alla piscina comunale del paese.
La scoperta
Gli inquirenti sostengono che la stanno cercando «in quanto potenziale madre» dei bimbi morti, e aggiungono che ufficialmente non è ancora accusata di nulla. Il medico legale ha anche spiegato che per gli esami sui cadaveri ci vorranno giorni, anzitutto per capire la causa della morte. I risultati saranno pronti al più presto all’inizio della prossima settimana. Ma il retroscena del ritrovamento sembrerebbe lasciare poco spazio ai dubbi.
Da qualche settimana, secondo la ricostruzione della Bild, la donna si era separata dal marito ed era andata a vivere in un altro appartamento.
Le liti con l’ex marito
Durante alcune liti furibonde con l’ex, da ubriaca, aveva urlato all’uomo la sua terribile verità, aveva ammesso di aver nascosto dei cadaveri in casa. Una delle discussioni era stata ascoltata da una subaffittuaria, Diana W., che aveva cominciato a cercare indizi nell’appartamento. Giovedì scorso, alle quattro di pomeriggio, la macabra scoperta. In un baule nascosto in un ex sauna che la famiglia usava ormai come ripostiglio, la donna ha trovato i cadaveri in decomposizione dei bambini e ha lanciato l’allarme. Un medico del pronto soccorso non ha potuto far altro che contare i morti.
il manifesto 14.11.15
Anche l’Austria progetta un muro
Al confine con la Slovenia. «Solo per gestire meglio i flussi di migranti»


La crisi dei profughi sarà uno degli argomenti all’ordine del giorno del consiglio Ue degli Affari esteri che riunirà lunedì a Bruxelles. Si parlerà delle conclusioni del vertice tenuto a Malta con i leader dei paesi africani, dei conflitti siriano e libico, ma soprattutto dei tanti scricchiolii alla tenuta di Schengen che si sentono sempre con maggiore frequenza. Gli ultimi arrivano dall’Austria, paese che da settembre a oggi ha visto arrivare 450 mila profughi, circa 6 mila al giorno, e che adesso, come l’Ungheria e la Slovenia, sta pensando di costruire anche lei un muro di filo spinato alla frontiera con la Slovenia (che ieri ha annunciato un temporaneo limite di sorvolo sopra il confine con la Croazia». L’idea è stata accantonata, ma solo per il momento, hanno spiegato le autorità di Vienna confermando però un aumento dei controlli ai confini. «Non ci sarà un’orbanizzazione dell’Austria», ha assicurato il ministro della Difesa Gerald Klug riferendosi alla barriera costruita al confine con la Serbia dal leader ungherese Viktor Orban. Klug ha spiegato, ripetendo quanto già detto dalla Slovena, che l’eventuale barriera servirà solo a regolare il flusso dei migranti e comunque sarà realizzata in accordo con Lubiana. Costruzione solo sospesa, dunque, ma le autorità austriache hanno comunque deciso di intraprendere i lavori di preparazione del muro — filo spinato lungo 25 chilometri di confine — in modo all’occorrenza da poterla innalzare nel giro di 48 ore.
Anche l’Austria si aggiunge così all’elenco di Paesi decisi a fare da soli pur di fermare i migranti in arrivo lungo la rotta balcanica. Ieri la Svezia ha ufficialmente comunicato alla Commissione europea il ripristino temporaneo, fino al 21 novembre, alle frontiere, alcuni porti del sud e dell’ovest del paese e al ponte di Presund che collega la Svezia alla Danimarca. Salgono così a tre (Austria, Svezia e Germania) i paesi che hanno riattivato i controlli, mentre due (Ungheria e Slovenia) hanno costruito della barriere in filo spinato. Anche la Francia sospenderà Schengen a partire dal 30 novembre in occasione della conferenza dell’Onu di Parigi sui cambiamenti climatici. Decisioni che ieri sono state definite «preoccupanti», che «non lasciano molto spazio all’ottimismo» dal commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks, che ha criticato anche la Germania per la decisione di riattivare il regolamento di Dublino per i profughi siriani. «Il fenomeno migratorio è sicuramente complesso da affrontare — ha detto Muiznieks — ma gli Stati Ue non dovrebbero usare queste difficoltà come una scusa per evitare l’obbligo di proteggere chi fugge dalla guerra e dalle persecuzioni
il manifesto 14.11.15
Firenze, l’aeroporto impossibile
Ambiente e sicurezza. Sull'aeroporto intercontinentale che Carrai, Renzi e Riggio di Enac vogliono fare nella Piana fiorentina, arriva la (ri)bocciatura dell'Università, dei tecnici regionali e anche della Rete dei comitati per l'ambiente, oggi in assemblea all'Affratellamento.
di Riccardo Chiari


FIRENZE Continua ad essere un tema caldissimo l’aeroporto intercontinentale che Marco Carrai, Matteo Renzi e Vito Riggio di Enac vogliono fare nella Piana fiorentina. A riprova, anche la Rete dei comitati per la tutela dell’ambiente, che si ritrova oggi al circolo Affratellamento (via Orsini 73, ore 10), ha già anticipato che l’assemblea si concluderà con due mozioni: una sul progetto del nuovo aeroporto, e l’altra sul sottoattraversamento Tav.
Tanto interesse è più che giustificato, almeno a giudicare dalle notizie che si rincorrono sul futuro del Vespucci. Le ultime sono le “controdeduzioni” assai critiche dell’Università di Firenze al teorico nuovo masterplan dello scalo, che ha già ottenuto l’approvazione dell’Enac, ed è ora sottoposto alla Valutazione di impatto ambientale del ministero.
In quasi 200 pagine di integrazioni, gli ingegneri dell’ateneo si occupano di tutti gli aspetti incongrui del maxi ampliamento dell’aeroporto. In particolare vengono denunciati i rischi di incidenti per il Polo scientifico di Sesto; la presunta monodirezionalità dei voli da e verso Prato, che all’ateneo continua a non risultare; infine la parte legata alle aree di rischio, sulle quali continua un silenzio di tomba. A tal punto che l’Università segnala: “L’Enac non ha ritenuto necessario compiere alcuna valutazione dell’impatto sulla popolazione del rischio di incidenti aerei, anche in seguito a richieste esplicite, dettagliatamente motivate e ripetute”.
A dar manforte all’ateneo i consiglieri regionali di Toscana a Sinistra: “Il progetto è sbagliato – ricordano Tommaso Fattori e Paolo Sarti – perché la nuova pista di Firenze sarebbe l’unica al mondo ad essere costruita e disposta in posizione perpendicolare rispetto ai venti prevalenti. Un’assurdità, oltre che una violazione delle raccomandazioni dell’Organizzazione internazionale per la sicurezza dei voli. I dati forniti dall’ateneo mostrano come l’intero progetto sia stato costruito in modo fraudolento, e dal punto di vista tecnico sia del tutto infondato”.
Anche i tecnici della Regione Toscana hanno bocciato il masterplan: in 50 dense pagine, il Nucleo valutazione impatto ambientale ha inviato alla giunta di Enrico Rossi il suo parere. Consultivo, ma con un giudizio secco: ci sono “criticità e incompatibilità” del progetto. Un progetto che Paolo Baldeschi, portavoce della Rete, boccia senza appello: “Si tratta di un concentrato di illegalità. Abbiamo un masterplan, cioè un progetto preliminare, presentato alla Via al posto del progetto definitivo. Uno studio di impatto ambientale lacunoso, e su dati non completi o non aggiornati. Una Valutazione ambientale strategica su una pista di 2.000 metri e non di 2.400, come quella sottoposta a Via. Un piano di utilizzo delle terre di scavo assente, nonostante che per legge la sua presentazione deve avvenire prima della Via. E queste sono solo alcune delle forzature che Enac e Aeroporto di Firenze stanno perpetrando. Nel colpevole silenzio della Regione, che così anticipa la ‘riforma Boschi’: quando le opere di interesse nazionale saranno di esclusiva competenza dello Stato”.
il manifesto 14.11.15
Tagli da morire, è la cura Renzi per la Sanità
Welfare. Il 18° rapporto Pit Salute dal Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva accusa. Aumentano i ticket e i rifiuti delle prestazioni, difficoltà di accesso ai farmaci. Per una Tac attesa fino a 13 mesi
di Roberto Ciccarelli


ROMA Liste di attesa in aumento, ticket gravosi, assistenza territoriale in affanno, servizi per la salute mentale in crisi. Ritratto della sanità italiana al tempo del governo Renzi che ha rinunciato all’incremento del fondo sanitario di due miliardi previsto dal decreto enti locali approvato solo tre mesi fa e ha approvato il decreto sull’appropriatezza che riduce le prestazioni del sistema sanitario nazionale. La 18° edizione del rapporto Puit-Salute «Sanità pubblica, accesso privato», presentato ieri a Roma dal Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva descrive un mondo angosciante: quello della sanità che sarà tagliata per 2,35 miliardi quest’anno, 1,33 miliardi saranno i tagli sull’acquisto di beni e servizi e dispositivi medici. Il resto delle risorse dovrebbero derivare dalla stretta su 180 prestazioni di specialistica ambulatoriale (in totale sono 1.700): tac, risonanze magnetiche agli arti e alla colonna, test di colesterolo e trigliceridi, medicina nucleare, dialisi, test di genetica e allergologici, odontoiatria. Inoltre con il decreto 78, approvato il 4 agosto scorso, nei prossimi anni si attendono 4 miliardi alle regioni programmati dal governo Renzi con la legge di Stabilità del 2015.
«I costi saranno spostati ancora una volta sulle famiglie – sostiene Tonino Aceti coordinatore del tribunale per i diritti del malato/cittadinanzattiva – Il Servizio sanitario nazionale è considerato sacrificabile come i diritti. Con il Ddl sulla responsabilità professionale e la conseguente inversione dell’onere della prova sul cittadino, sarà ancora più complicato avere accesso al diritto al risarcimento del danno subito, scaricando sul soggetto più fragile il peso di dovere dimostrare la dinamica dei fatti pur sapendo che non ha gli strumenti per farlo». Dal punto di vista dei cittadini, e dei malati, questa è la conseguenza dell’austerità praticata dal governo Renzi sulla vita realmente vissuta. Non quella che si nutre di annunci e spopola sul twitter dello spaghetto-liberismo.
Il rapporto sostiene che dal 2013 è aumentata la difficoltà di accedeere alle prestazioni sanitarie. Per un’ecografia si aspetta fino a nove mesi, tempi insostenibili anche per esami delicati come risonanze magnetiche e Tac. Alle sedi nazionali e locali del tribunale per i diritti del malato sono aumentate le segnalazioni sui tempi delle liste d’attesa aumentati del 58,4% in un anno. L’aumento contestuale dei ticket del 31,4% corrisponde alle tasse sulla salute pagate dalla popolazione per garantire alle regioni la chiusura dei bilanci sempre più in sofferenza.
I ticket rappresentano un «ostacolo all’accesso alle prestazioni: un peso sempre più insostenibile per i redditi delle famiglie, nonché un paradosso del Servizio pubblico che respinge i cittadini e li indirizza verso il privato o l’intramoenia, talvolta persino più convenienti per costi o per attese». Per il 2014, il 42% segnala problemi legati ai costi elevati e agli aumenti dei ticket per diagnostica e specialistica. Il 29,3% delle segnalazioni evidenzia difficoltà a ottenere informazioni corrette e complete sulle esenzioni dal pagamento della compartecipazione alla spesa sanitaria; il 17,8% (12,9% nel 2013) segnala invece che esistono prestazioni troppo care, e troppo numerose, non oggetto di esenzione.
Sempre più critica la situazione degli ospedali alle prese con la riduzione dei servizi e del personale. I problemi di ritardi riscontrati per le visite specialistiche o esami di diagnostica, oggi sono il pane quotidiano degli ambulatori. Tutto è causato dai tagli agli acquisti dei macchinari, dalla mancanza dei fondi per il personale, l’acquisto di un macchinario. Altro aspetto inquietante: crescono le segnalazioni sui rifiuti dei medici di base di effettuare visite a domicilio. I dinieghi sono passati dal 23,3% del 2013 al 28,3% del 2014, i rifiuti di effettuare prescrizioni da parte del medico di medicina generale dal 17,8% del 2013 al 24,5% del 2014. Negati anche i ricoveri, a volte ritenuti «non necessari perché la prestazione può essere erogata dai servizi territoriali, che non sono sempre in grado di offrirli». Molto più spesso i rifiuti sono causati dai tagli ai servizi che producono «mancanza posti letto, chiusura reparti, accorpamenti presidi, scarso personale». Il 31,7% sulle oltre 24 mila segnalazioni ricevute dal tribunale sostiene di avere incassato un diniego all’accesso alle proprie informazioni cliniche, cartella clinica e referti. In altre parole, i tagli alla sanità producono anche il rifiuto delle prestazioni.
Il Rapporto Pit Salute «descrive un sistema sanitario sempre più in affanno che non riesce a garantire il diritto alla salute. Le responsabilità del governo sono evidenti e frutto di una chiara scelta politica» Una realtà alla deriva» commentano i parlamentari del Movimento 5 stelle in Commissione Affari sociali della Camera.
il manifesto 14.11.15
Il Jobs Act ha il suo primo licenziato
Udine. Messo alla porta dalla cartiera Pigna: lettera di 11 righe, subito fuori. L’azienda aveva usufruito degli incentivi. La Cisl punta al reintegro, ma non sarà facile. E intanto il governo chiude a fine anno i sussidi destinati ai collaboratori
di Antonio Sciotto


«Riorganizzazione della turnistica dovuta a un persistente calo di lavoro». Basta questa scarna motivazione, annegata dentro una lettera di appena 11 righe, per poter licenziare una persona al tempo del Jobs Act. Il dipendente è a tempo indeterminato, ma senza articolo 18 e protetto solo dalle «tutele crescenti», quindi avrà diritto solo a un piccolo indennizzo monetario, mentre l’azienda ha goduto ampiamente degli sgravi contributivi concessi dal governo. Soldi pubblici ben investiti, se non creano posti stabili? Devono esserselo chiesto alla cartiera Pigna Envelopes srl di Tolmezzo (Udine), dove — come spiegava ieri il Messaggero veneto — si è registrato il primo licenziamento di un lavoratore assunto con le norme “made in Renzi”.
Assunto 8 mesi fa — quindi tra i primi in assoluto in Italia (il Jobs Act è entrato in vigore il 7 marzo) — il dipendente della Pigna ha ottenuto un benservito lampo: l’amministratore delegato della cartiera, infatti, gli ha scritto che la decadenza del suo posto era da intendersi «con decorrenza dal ricevimento della presente lettera». Un trauma che — almeno in questi termini — viene risparmiato perfino ai precari, visto che con tutti i problemi che hanno, conoscono pur sempre la scadenza naturale del contratto.
Lo spiega bene Massimo Albanesi, segretario regionale della Fistel Cisl, intervistato dal quotidiano veneto: «I lavoratori “a tutele crescenti” — dice — vengono trattati allo stesso modo dei precari. Anzi, direi anche peggio: nei contratti a tempo determinato le regole sono chiare, il lavoro c’è ed è a tempo, condizionato all’attività dell’impresa. Non ci sono illusioni, né si alimentano».
In questo caso, invece, prosegue il sindacalista Cisl, «assistiamo a un licenziamento che lascia a casa un lavoratore che, per essere assunto alla Pigna e avvicinarsi alla famiglia, una moglie e due figli piccoli, aveva lasciato un’altra occupazione. Dall’altra parte abbiamo un’azienda che ha beneficiato della decontribuzione prevista dalla legge per aver assunto un lavoratore a tempo indeterminato (e non sarà nemmeno costretta a restituire il vantaggio contributivo incamerato per i mesi di assunzione), e che oggi scarica sulla collettività lo stesso lavoratore che dovrà fare domanda per accedere agli ammortizzatori sociali. Per l’azienda nessun conto da pagare; per il sistema Paese un doppio costo sociale».
Il sindacato annuncia che ricorrerà alle vie legali per un reintegro del lavoratore, anche se il Jobs Act — per come è scritto, e avendo come caratteristica proprio lo “smontaggio” dell’articolo 18 — lascia pochi margini.
La Cisl teme anche per gli altri dipendenti della Pigna di Tolmezzo, circa 90, perché la cartiera è inserita in un percorso di ristrutturazione, in vista di una probabile cessione a un gruppo tedesco. E se pure i licenziamenti non arrivassero adesso, si chiedono al sindacato, non è che gli assunti con il Jobs Act rischiano di essere messi alla porta una volta che si saranno esauriti gli incentivi triennali legati alle tutele crescenti?
Crudele Naspi, addio Dis-coll
E proprio in fase di discussione della legge di Stabilità, ci accorgiamo che i già risicati ammortizzatori renziani (la riforma del governo ne ha ridotto la copertura) rischiano di essere ulteriormente tagliati. La denuncia viene dalla Cgil, e riguarda Naspi e Dis-coll.
Quanto alla Naspi, si è aperto un problema per i lavoratori stagionali e discontinui del turismo, dell’industria alimentare e dello spettacolo. Diverse centinaia di migliaia di addetti penalizzati dalla nuova indennità di disoccupazione che non riconosce la strutturalità della loro condizione lavorativa, non a loro imputabile. La Cgil e la Filcams chiedono quindi un correttivo alla legge, che permetta loro di usufruirne.
E poi c’è la mancata proroga della Dis-coll (il sostegno ai collaboratori), che scadrà il 31 dicembre. La Commissione bilancio del Senato ha bocciato l’emendamento che prolungava la copertura anche per il prossimo anno.
«Si tratta di una marcia indietro grave — sostiene Serena Sorrentino, segretaria confederale Cgil — soprattutto considerando che a molti collaboratori, come assegnisti di ricerca e dottorandi, la tutela prevista dalla Dis-Coll non è stata mai riconosciuta, come abbiamo denunciato nella campagna #perchenoino di Cgil, Inca, Flc Cgil e Adi». Per il Nidil Cgil «nella lotta alla precarietà si dimostra la distanza tra gli annunci del governo e i fatti».
Repubblica 14.11.15
Primo assunto col Jobs Act e licenziato: “Altro che tutele crescenti”
Mario, 31 anni, operaio, con contratto a tempo indeterminato alla cartiera Pigna
L’azienda ci ha sempre detto che potevamo stare tranquilli, almeno per i primi tre anni
Aveva ragione chi difendeva l’articolo 18, la riforma del lavoro è una falsa promessa di miglioramento
di Matteo Pucciarelli


MILANO «Preferivo finire sul giornale per una storia migliore eh», scherza Mario B., operaio trentunenne, due figli di 12 e 3 anni. È il primo licenziato con il contratto a tempo indeterminato versione “Jobs Act” — questa la denuncia dal sindacalista della Cisl Massimo Albanesi raccolta dal Messaggero Veneto.
Dopo soli otto mesi dalla firma della lettera di assunzione. Per paura di ritorsioni («non è che poi non mi assume più nessuno?») aveva preferito non esporsi. Ma alla fine questo lavoratore della Pigna Envelopes (quella dei bloc-notes) di Tolmezzo, in provincia di Udine, decide di raccontarsi, «dopotutto di cosa dovrei vergognarmi?».
Partiamo dall’inizio: quando e come viene assunto?
«Allora, io facevo il camionista e stavo molto tempo all’estero. Vedevo poco la mia famiglia. Dopo quattro anni di questa vita, decido di provare ad avvicinarmi a casa».
E com’è entrato in contatto con l’azienda?
«Sapevo che cercavano operai e io avevo già fatto esperienza anni fa in una cartiera. Presentai domanda nell’estate del 2014. A inizio 2015 mi chiamano per dirmi “ci siamo, venga lunedì”. Ma poi rimandano di qualche settimana, perché aspettavano il varo della nuova riforma del lavoro. Così il 16 marzo ho firmato il contratto».
Era felice?
«Di più, felicissimo. Fabbrica a 200 metri da casa, ci andavo a piedi. Due mesi di prova e poi l’indeterminato. Lo stipendio, facendo anche i turni di notte e con gli assegni familiari, era di 1.400 euro».
Ma non sapeva che il contratto a tutele crescenti prevede la possibilità di un più facile licenziamento?
«No, l’azienda ci aveva sempre detto di stare tranquilli, e che per tre anni stavamo sicuri. Poi non sono un tipo politicizzato, mai fatto uno sciopero in vita mia, non sono di sinistra. Vedevo Renzi in tv, parlavano tutti di “tutele crescenti”... Ecco sulla mie pelle ho visto che quella dizione è una barzelletta».
Come le hanno detto che restava a casa?
«Mercoledì, erano le 17,30. Stavo facendo il turno pomeridiano, dalle 14 alle 22. Mi hanno chiamato i superiori: “Mario, c’è un calo di lavoro, non possiamo più tenerti, quindi da venerdì il contratto è risolto”».
E lei?
«Non ci credevo. Se sei precario, te lo puoi aspettare. Se sai di essere a tempo indeterminato, no. E invece ho scoperto così che ero precario lo stesso. Da un momento all’altro a casa, l’ho trovato ingiusto, una mancanza di rispetto dal punto di vista umano. E ho ripensato all’articolo 18...».
Cioè?
«Aveva ragione chi lo difendeva. Qui è finito tutto, la riforma è
una falsa promessa di miglioramento ».
Non aveva avuto neanche delle avvisaglie che qualcosa non stesse andando bene? «Sapevamo che c’erano difficoltà, sì, ci eravamo consumati le ferie apposta. Ma da qui a vederti lasciato così...».
Non è che per caso l’hanno licenziata per altre ragioni legate al suo operato?
«No, oggi (ieri, ndr) hanno fatto lo stesso con altri due tempi indeterminati a tutele crescenti, forse non è finita qui».
Senta, quando è tornato a casa con la lettera di licenziamento cosa le ha detto la sua compagna?
«È rimasta senza parole anche lei. Un fulmine a ciel sereno. Se ti parlano di “tutele crescenti” e firmi un indeterminato, vivi con una certa tranquillità. Ti fidi no? Invece scopri che era tutto frutto della tua immaginazione, o della propaganda».
E adesso?
«Avrò la disoccupazione per qualche mese e intanto cerco un nuovo impiego; ma se lo avessi saputo prima che andava a finire così non avrei mai lasciato il lavoro di camionista. Mi ero anche fatto licenziare dal vecchio datore di lavoro, così risultando disoccupato l’azienda ha potuto usufruire degli sgravi fiscali assumendomi...».
il manifesto 14.11.15
Anno santo e ricco
Giubileo. Con il decreto «happy days» il governo stanzia 200 milioni per Roma e per il grande evento sacro, 50 per Bagnoli, 150 per la Terra dei fuochi
Ma niente dream team, decide Renzi. Con la commissione bilaterale
L’ex sindaco Marino: «Prima niente soldi, ora cosa è cambiato?» Vaticano soddisfatto anche sulla sicurezza
di Eleonora Martini


ROMA Tutto sotto il suo controllo, ora gli «happy days» possono cominciare. Matteo Renzi annuncia «12 novità cruciali, buone notizie che aspettiamo da tempo» e vorrebbe coniare un apposito hashtag per l’occasione. Ma dal cilindro tira fuori soprattutto la quadra al caos dei due commissari messi a tiro incrociato sulla Capitale e accontenta pure il prefetto Franco Gabrielli che di dream team e poteri speciali da accollarsi per trasformare l’Anno santo in un nuovo «successo Expo» non ne voleva proprio sapere.
A gestire i 200 milioni stanziati ieri «per Roma e per il Giubileo» con il decreto legge approvato in Consiglio dei ministri (per investimenti complessivi di 900 milioni) non serve una nuova squadra: «Saranno messi a disposizione del commissario Francesco Paolo Tronca, che è espressione del governo», e «c’è un tavolo di concertazione, la commissione bilaterale Italia — Santa Sede» — felice invenzione del sottosegretario De Vincenti per mimetizzare la bufala del dream team — di cui fa parte anche lo stesso presidente del Consiglio. «Se sarà necessario — ha spiegato Renzi in conferenza stampa — saremo disponibili a prendere in considerazione ogni tipo di intervento».
Accantonata dunque la super squadra per il Giubileo: «Non c’è una modifica dei poteri di Gabrielli — puntualizza il premier — Metteremo a disposizione sua e di Tronca tutte le risorse e le persone necessarie perché l’evento funzioni bene, nelle forme che saranno concordate con i diretti interessati». E la commissione bilaterale infatti si è riunita subito, ieri: con il premier anche i due prefetti, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti e, per il Vaticano, monsignor Rino Fisichella. Una parte dei 200 milioni, ha spiegato il sottosegretario Claudio De Vincenti, «sono a carico della Regione, per potenziare il trasporto Roma-Fiumicino». Per il resto saranno investiti, a detta del premier, da Comune e Regione «sulla sanità, sul trasporto, sul decoro e sulle iniziative per il grande evento».
Ma non c’è solo Roma, nel decreto varato ieri in Cdm: 50 milioni sono stati stanziati per «chiudere le bonifiche dell’area di Bagnoli e rilanciare lì un progetto strategico simile a quello per l’Expo»; 150 milioni per bonificare la Terra dei Fuochi, altrettanti per la riconversione dell’area utilizzata per l’Expo a Milano; 25 milioni per l’edilizia popolare, «bloccata perché mancano i denari per mettere a posto piccoli lavori sotto i 50 mila euro»; 100 milioni per realizzare impianti sportivi in periferia («la regia di questo intervento sarà a palazzo Chigi, in pieno concerto con il Coni, cui spetterà individuare le priorità d’intervento» mentre la «manutenzione resterà in mano alle realtà territoriali»). E poi ancora, tra le voci più importanti: 30 milioni da investire sulla continuità territoriale della Sardegna, 10 su Reggio Calabria, 50 per l’emergenza maltempo, 100 milioni per il servizio civile, 25 per il tax credit e 10 per l’export.
Ma è su Roma che si concentra lo sforzo politico maggiore di Renzi. Il quale «ha voluto essere presente alla commissione bilaterale — ha riferito a fine riunione monsignor Fisichella — per darci la sicurezza che il governo segue con molta attenzione questo evento spirituale». A tranquillizzare il Vaticano anche il fatto che «il prefetto Tronca, in quanto responsabile della verifica dello stato degli appalti, ci ha assicurato che il tempo che è andato perduto finora sarà recuperato».
La crisi politica è acqua passata. Ma non per tutti: «Dopo avermi eliminato per poter gestire direttamente 200 milioni, il presidente del Consiglio continua a mentire agli italiani», attacca l’ex sindaco Ignazio Marino definendo «singolare» il comportamento di Renzi. «La mia giunta ad Aprile 2015 sottopose al governo diversi e dettagliati progetti immediatamente cantierabili per migliorare la vita quotidiana dei romani (trasporti, strade, decoro, ecc.) e accogliere al meglio i pellegrini — scrive su Fb l’ex marziano dem — Tuttavia esaminando, solo molti mesi dopo, le nostre richieste il 27 agosto a conclusione del Cdm il sottosegretario De Vincenti e il ministro Alfano dichiararono che il governo non avrebbe stanziato nemmeno un euro per il Giubileo, al di là delle risorse di Roma stessa. E poi cosa è cambiato?».
Sarà un miracolo dell’Anno santo, ma in realtà è cambiato tutto, perfino il «rischio terrorismo» non fa più paura: «Non ci sono particolari elementi per allarmare — assicura Fisichella — c’è quella normale forma di sicurezza che è stata di nuovo ribadita e che viene garantita, e di cui devo dire siamo più che contenti». Anche Alfano sarà contento. Holy and happy days
La Stampa 14.11.15
Marino: “Mi hanno fatto fuori e ora arrivano anche i soldi”
Il sarcasmo dell’ex sindaco: “Di colpo tutto scorre”
di Francesco Maesano


Per ora niente dream team agli ordini del prefetto Gabrielli: qualche defezione e i possibili conflitti di competenze hanno consigliato a Renzi di soprassedere dal fare nuove nomine.
Ma per il Giubileo a Roma verranno assegnati 200 milioni di euro. Il premier l’ha annunciato ieri; una delle 12 slide di quello che ha battezzato «decreto Happy Days».
L’ex sindaco Marino ha reagito con rabbia: «Hanno messo fine in maniera traumatica e prematura alla mia esperienza amministrativa e, di colpo, arrivano anche i soldi da spendere».
In effetti il 27 agosto di quest’anno il sottosegretario De Vincenti aveva annunciato che i fondi per il Giubileo sarebbero arrivati «dal bilancio del Comune e della gestione commissariale sul debito». Ora invece il Governo ha deciso di impegnarsi finanziariamente.
Un sospiro di sollievo lo ha tirato il Vaticano, che ora spera di vedere un’accelerazione immediata nei lavori e parteciperà attivamente alla cabina di regia che sarà installata, anche fisicamente, a palazzo Chigi. Il vertice di ieri pomeriggio tra Gabrielli, Tronca, il presidente della regione Lazio Zingaretti e monsignor Fisichella è stato aperto dallo stesso Renzi, che dopo un breve cappello introduttivo si è congedato, lasciando i quattro a una riunione non priva di tensione.
Il Papa non sarebbe affatto contento che sulla stampa italiana gli sia stata attribuito un peso rilevante nella cacciata del sindaco di Roma.
Inoltre, solo un mese fa, il Vaticano aveva fatto filtrare la preoccupazione che i lavori per garantire il trasporto e la sicurezza dei pellegrini fossero ancora in alto mare. Poi è arrivata la crisi politica che ha deposto Ignazio Marino e il tempo a disposizione si è ulteriormente ridotto.
Ora Oltretevere si attendono risposte sui tempi. Gabrielli ieri ha sottolineato come «il primo di maggio l’Expo o si apriva o non si apriva, non sarà così per il Giubileo perché naturalmente noi guardiamo all’8 dicembre ma poi abbiamo una tempistica che avrà soprattutto in primavera gli appuntamenti più significativi».
Fisichella ha reagito: «Le stagioni si stanno abbreviando e nel 2016 Pasqua sarà alla fine di marzo, il che vuol dire che per tanti lavori che dovranno essere realizzati la data di Pasqua è piuttosto in alto». Il prefetto gli ha risposto: «Se il calendario non mi tradisce, la primavera inizia il 21 di marzo e noi in primavera dobbiamo essere prontissimi».
La Stampa 14.11.15
Dopo mesi di rinvii Renzi si “prende” Giubileo e riflettori
Stanziati i 200 milioni che da tempo Roma aspettava
di Fabio Martini

La sequenza, in tre «scene» è eloquente. La prima, all’ora di pranzo: il Consiglio dei ministri approva lo stanziamento di 200 milioni per il Giubileo, ad appena venticinque giorni dall’inizio dell’Anno santo e dopo che per otto mesi era stato negata qualsiasi erogazione al Comune di Roma. Seconda scena. Nel primo pomeriggio il presidente del Consiglio partecipa (e lo fa sapere) ad una riunione della Commissione bilaterale Stato-Vaticano per il Giubileo che si riunisce già da mesi: per il premier è la prima volta. Questa sera, sempre Matteo Renzi, per ospitare il presidente iraniano Hassan Rohani, ha scelto a sorpresa palazzo Caffarelli, la residenza di proprietà del Comune di Roma con vista sui Fori, nella quale non era mai entrato prima. La sequenza racconta una novità: da quando il sindaco Ignazio Marino non c’è più, Matteo Renzi è diventato affettuoso con Roma.
Limitandosi a commentare l’inatteso stanziamento governativo per il Giubileo, il sindaco uscente Marino si compiaciuto per la città che ha appena finito di guidare, ma si è anche affrettato a scrivere su Facebook: «Sono stato eliminato» da Renzi, che vuole «gestire direttamente i 200 milioni». Certo, una lettura hard e auto-centrata di tutta la vicenda e che trascura il «contributo» dello stesso Marino alla propria defenestrazione, ma indubbiamente la sequenza delle ultime ore segnala un deciso cambio di atteggiamento da parte del premier. Renzi è come se avesse deciso di «prendersi» Roma e gli imminenti riflettori del Giubileo, naturalmente sfruttando abilmente le circostanze e le debolezze altrui.
Seguendo la «strada dei soldi» emerge il primo indizio. Dopo la prima riunione operativa della apposita Commissione per il Giubileo che si svolse ad aprile e alla quale parteciparono Vaticano, governo, Regione Lazio e Comune, i progetti presentati del Campidoglio incontrarono la silenziosa indifferenza del governo, che via via fece slittare il proprio responso per ben quattro mesi: a fine agosto il Cdm decise di non stanziare un solo euro per il Giubileo e confermò il precedente orientamento, quello di concedere al Campidoglio uno slittamento nella restituzione del debito storico, potendo quindi contare su 50 miloni per alcune opere essenziali: strade marciapiedi, verde, bagni pubblici. Ora, appena due settimane dopo le dimissioni di Marino, il governo scova improvvisamente 200 milioni, soldi freschi per interventi di varia natura che il presidente del Consiglio ha sintetizzato così: «Decoro e trasporto».
Il secondo indizio riguarda la squadra che Renzi aveva annunciato di voler affiancare al commissario prefettizio: «Sarà un dream team», aveva detto il premier nei giorni nei quali Marino ancora tentennava, incerto se dimettersi o meno. Un annuncio-spot ad uso dell’opinione pubblica o un auspicio sincero? L’unica cosa certa è che ieri sempre Renzi ha comunicato: «Dream team o no, metteremo a disposizione di Gabrielli e Tronca tutte le risorse e le persone necessarie». Dunque, per ora, niente squadra da sogno, Questo aiuterà a concentrare i riflettori su Renzi o li allontanerà? Sicuramente la coesistenza di ben due prefetti sulla stessa piazza - il commissario Paolo Tronca e quello di Roma Franco Gabrielli, oltretutto sprovvisti di «dream team» - contribuirà a concentrare i meriti sull’autorità politica.
In attesa che il Giubileo cominci, il premier si è rapidamente riavvicinato a Roma. L’altro giorno è andato a dare uno sguardo alla Fontana di Trevi, appena restaurata e questa sera Renzi ha scelto la terrazza Caffarelli con vista mozzafiato sui Fori per una cena importante, come quella col leader iraniano Rouani. Per due anni e mezzo il sindaco Marino ha ricevuto qui gli ospiti di riguardo: sono bastate due settimane per cambiare il capotavola.
La Stampa 14.11.15
Orlando “Da reati non puniti a multe sicure”
di Fra. Gri.


Erano reati di minima entità, di quelli che secondo il codice penale si possono sanzionare non con il carcere, ma con una ammenda. Il governo intende ora depenalizzarli, trasformando un’aleatoria sanzione pecuniaria in una multa sicura. Il trasferimento dal versante penale a quello amministrativo - ha spiegato ieri il ministro Andrea Orlando, al termine del consiglio dei ministri - ha l’obiettivo di sanzioni «più rapide, incisive ed efficaci, producendo quindi entrate che vengono effettivamente incassate dallo Stato e risparmi per i costi dei tanti procedimenti; decongestionare la giustizia penale da migliaia di procedure lunghe, spesso inutili e costose; assicurare una più efficace repressione dei reati socialmente più gravi».
Una misura molto richiesta sia dai magistrati, sia dagli avvocati. La Lega Nord è però immediatamente insorta: «È l’ennesima decisione infame di un governo che premia nuovamente criminali e delinquenti», dice il capogruppo in commissione giustizia alla Camera, Nicola Molteni.
«Populismo giudiziario», li liquida l’Unione delle Camere penali. Ma il ministro Orlando si attendeva polemiche: «Non vorrei che qualcuno raccontasse che stiamo rendendo meno duro questo tipo di illeciti. Al contrario, per la prima volta le sanzioni saranno effettive. Spesso questi reati cadevano in prescrizione, oppure si arrivava a una condanna soggetta alla sospensione condizionale della pena e la multa non veniva mai pagata. Ora la sanzione si realizzerà».
Un esempio, per capire la portata del provvedimento: depenalizzando il reato di omesso versamento di contribuiti previdenziali e assistenziali, ove l’importo non superi 10mila euro annui, saranno annullati migliaia di procedimenti. Il datore di lavoro non sarà punito nemmeno sul piano amministrativo nel caso provveda al versamento delle ritenute entro 3 mesi dalla contestazione. Altrimenti scatta anche la multa.
Resteranno reato penale gli illeciti in materia di edilizia e urbanistica, di ambiente, di alimenti, di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, di sicurezza pubblica, di giochi d’azzardo, di armi ed esplosivi, di elezioni e di finanziamento ai partiti, di proprietà intellettuale e industriale. Rinviato al dibattito parlamentare il quesito, non sciolto dal governo, se abrogare anche il reato di immigrazione clandestina.
La Stampa 14.11.15
Si può estendere la legittima difesa?
Comincia alla Camerala discussione della proposta di legge leghista: chi spara per difendere dai ladri casa o negozio non deve dimostrare la propria innocenza. I partiti alla prova sul sensibilissimo tema.Il Pd e il governo però frenano
di Carlo Bertini


Esulta Salvini per la grazia ad Antonio Monella, proprio mentre alla Camera Nicola Molteni, il front man della battaglia leghista sulla legittima difesa, spiega la proposta di legge che terrà banco alla Camera dalla prossima settimana in Commissione Giustizia; legata però soprattutto agli ultimi casi di cronaca che hanno scatenato polemiche. Che sia il tema che il Carroccio cavalcherà per tutta la campagna elettorale, Salvini lo ha fatto capire chiaramente.
Ieri ha provato a stoppare la polemica di un’Italia trasformata in «un paese di sparatori. No, il modello è la Svizzera, non gli Stati Uniti. Hanno 4 milioni di armi su 8 milioni di abitanti. Non è che si prendano a pistolettate a Zurigo». E che questa sia una delle sfide difficili da fronteggiare per il governo lo dimostra la dialettica interna all’esecutivo, dove Ncd preme per aggiornare le norme e il Pd frena. Certo i dati aiutano i leghisti: in dieci anni i furti in appartamento più che raddoppiati, gli ultimi numeri del Censis di febbraio 2015 fotografano un boom di un fenomeno, (oltre 250 mila furti denunciati nel 2013), che investe soprattutto il Nord-Ovest, il 20% sono nelle tre province di Milano, Torino e Roma. E se a questi si somma la crescita del 200% delle rapine in casa, cioè i furti «con violenza o minacce ai proprietari», si capisce perché gli ultimi episodi che hanno fatto clamore sono solo un tassello del problema che si pone all’esecutivo: che non a caso ha aumentato le pene per furti in casa e rapine.
La proposta leghista
Cosa chiede la Lega? Che ci sia sempre la presunzione di legittima difesa per chi protegge la propria abitazione o negozio dai ladri, spiega Molteni. Tradotto, l’inversione dell’onere della prova. Un solo articolo che introduce una norma aggiuntiva all’art. 52 del Codice penale. «Si presume che abbia agito per difesa legittima colui che compie un atto per respingere l’ingresso, mediante effrazione o contro la volontà del proprietario, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di persona travisata o di più persone riunite, in un’abitazione privata, o in ogni altro luogo ove sia esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale».
E cosa dice il governo? Chi ha parlato col ministro Orlando dice che «lui frena». Invece Enrico Costa, sottosegretario alla Giustizia di Ncd, che seguirà in commissione l’iter, dalle audizioni ai voti, definisce quella leghista una proposta «troppo estrema». Ma spiega che «la criminalità negli anni ha cambiato pelle, un volta c’era il topo di appartamento che entrava d’estate, oggi ci sono bande pronte a neutralizzare i proprietari e la percezione dello stato d’ansia e paura conta». Dunque? «La normativa va calata sull’attualità e verificheremo come le singole situazioni dove si invoca la legittima difesa vengono applicate nei tribunali». Insomma, bisogna «tutelare chi reagisce in stato d’ansia, ma non pensare di legittimare la vendetta e pensare di dare licenza d’uccidere». Tradotto, Ncd non chiude la porta a modifiche.
La Stampa 14.11.15
La prima grazia di Mattarella
Il presidente della Repubblica ha concesso la grazia parziale, 2 anni, ad Antonio Monella, l’imprenditore in carcere dall’8 settembre 2014 perché condannato a 6 anni per l’omicidio del ladro che gli stava rubando il suv in giardino
Il Quirinale non sposa l’autodifesa illimitata
di Ugo Magri


Il caso molto controverso di Antonio Monella, l’imprenditore di Arzago D’Adda da oltre un anno in carcere per avere sparato a un giovane ladro albanese, uccidendolo, su cui la Lega aveva montato una campagna di protesta in nome della libertà di difendersi, ha trovato ieri una soluzione con il provvedimento di grazia firmato dal Capo dello Stato. Monella potrà presto tornare a casa. Ma non si tratta di un via libera alla giustizia fai da te, una legittimazione di ronde, sceriffi e cittadini che impugnano le armi: prendere a fucilate dal balcone di casa i malviventi che tentavano di rubargli il suv, come fece l’imprenditore nel 2006, rimane un reato gravissimo, punito come tale. Contrariamente a quanto sostengono, stranamente concordi, una certa destra e una certa sinistra, l’atto di clemenza presidenziale non lo giustifica minimamente. Prova ne sia che Mattarella ha condonato solo due dei rimanenti cinque anni da scontare dietro le sbarre, quanto basta perché il Tribunale di sorveglianza sia messo nella condizione di applicare (sempre che lo ritenga opportuno) l’istituto dell’affidamento in prova ai servizi sociali.
Se il presidente avesse considerato Monella nel giusto, o addirittura un eroe del nostro tempo come ama presentarlo Salvini, glieli avrebbe scontati tutti e cinque.
Ma non è andata così. Fonti vicine al Colle segnalano che la grazia, come si è detto parziale, Mattarella l’ha concessa alla luce di circostanze che la legge nella sua astrattezza non può sempre prevedere in anticipo. All’epoca dei fatti Monella era una brava persona incensurata, si era immediatamente pentito del suo gesto, aveva risarcito i familiari del diciannovenne Ervis Hoxa, durante il processo non aveva mai tentato la fuga o altro, confidando sempre nella giustizia. Inoltre ha già scontato in carcere una parte della pena e, durante la detenzione, ha mantenuto un comportamento irreprensibile. In tal senso si è espresso con apposita relazione il giudice di sorveglianza, interpellato dal ministero della giustizia che ha svolto l’istruttoria richiesta dalla legge. Il Presidente ha firmato il provvedimento di grazia solo dopo che ieri mattina il ministro Orlando aveva dato il suo via libera.
Insomma: Monella potrà tornare libero solo ed esclusivamente in ragione della sua condotta esemplare, non per effetto delle minacce di Salvini («Per liberarlo occuperemo le prefetture») che anzi, secondo chi frequenta il Colle, nelle scorse settimane aveva rischiato addirittura di diventare controproducente per Monella, in quanto la troppa insistenza poteva creare l’impressione sbagliata che la grazia venisse concessa dal Quirinale per quieto vivere, o addirittura come forma di cedimento alle pressioni «padane».
La formula di clemenza adottata da Mattarella è tale che non giustifica affatto l’esultanza (abbastanza sguaiata) della Lega. Per certi versi, anzi, ne sgonfia la propaganda perché va incontro a certi stati d’animo presenti soprattutto al Nord, dove la paura per la delinquenza è tanta, però al tempo stesso taglia la strada alle proposte di legge che mirano ad allargare le maglie della legittima difesa. Accoglie quanto è di buon senso, respinge tutto il resto in nome di un calcolo politico che, se esistesse, sarebbe sottile e raffinato. Ma di cui sul Colle negano l’esistenza, pure con toni piuttosto netti. Si assicura da quelle parti che Mattarella ha ragionato da giurista quale egli è, mettendo nel conto le polemiche poi puntualmente esplose, però nella più totale osservanza della legge e appellandosi al foro interiore della propria coscienza. Di qui il primo atto «sovrano» del suo settennato.
Repubblica 14.11.15
Il sottosegretario all’istruzione Davide Faraone
“In piazza gli ultimi giapponesi a protestare ormai sono pochi”


ROMA Sottosegretario Davide Faraone, le manifestazioni contro la Buona scuola sono state affollate. C’è un nocciolo “anti” che non demorde.
«Un nocciolo, dice bene. Di fronte a oltre 90mila assunzioni già effettuate e altre 90mila da fare nel 2016 c’è veramente poco materiale per protestare. Con le ultime 48mila proposte di nomine per il potenziamento abbiamo ricevuto solo attestati di ringraziamento. L’ultima manifestazione di piazza è figlia di un blocco ideologico che si scontra con l’evidenza dei fatti. I Cobas e i docenti disobbedienti della Cgil sono come gli ultimi giapponesi nella Seconda guerra mondiale, per capirci».
Una bandiera del Pd bruciata. I docenti, storicamente bacino della sinistra italiana, vi abbandonano?
«Sono certo che quello che brucia una bandiera in piazza non è un docente. Nessun timore per il voto. Gli insegnanti sanno che stiamo lavorando nella stessa direzione: fornire risorse economiche e professionali che la scuola non aveva mai avuto per offrire alle nuove generazioni un futuro all’altezza delle loro aspettative».
Martedì prossimo studenti in piazza da soli. Teme un autunno di opposizione e occupazioni?
«Non sono contro le occupazioni studentesche, sono stato criticato per questo. Attenzione, però, a non strumentalizzarle contro la Buona scuola. Le proteste hanno senso e dignità quando servono a ribellarsi a una stortura, a un sopruso. E non tutte le piazze sono uguali: c’è chi si è messo in gioco e chi protesta in modo ideologico e improduttivo. Gli studenti sono al centro di un percorso che li vede protagonisti, la delega sul diritto allo studio l’abbiamo costruita insieme e sarà la prima ad essere attuata nel 2016».
Negli istituti la Buona scuola è boicottata?
«Il contrario. Dopo una demonizzazione dei test Invalsi, oggi la quasi totalità degli istituti ha pubblicato il Rapporto di autovalutazione e i risultati Invalsi. Le scuole vanno avanti spedite anche grazie a risorse arrivate per la prima volta a inizio anno: i 233 milioni del fondo di funzionamento, raddoppiato, i 500 euro della card del docente, i soldi per la scuola digitale. Ora il piano d’inclusione, poi i nuovi asili 0-6 anni».
Le scelte sul Pof sono state spostate a gennaio.
«Abbiamo dato la possibilità alle scuole di lavorare con più tranquillità. È un anno ponte».
La data del concorsone?
«Sarà bandito a inizio dicembre».
Ci sono ancora 80mila precari che insegnano, dice la Cgil. Quanto tempo serve per guarire dalla supplentite?
«In tre anni assumeremo 180mila docenti, 20mila in più rispetto alle stime. La Cgil non lo dice, il Paese lo sa».
( c. z.)
il manifesto 14.11.15
Buona scuola di manganelli
Caricati dalla polizia a Milano e Napoli nel giorno dello sciopero dei sindacati di base. Sangue sulla protesta contro la riforma del sistema scolastico di Renzi e Giannini. I sindacati, Rifondazione e Sinistra italiana condannano la repressione del governo
Il ministro degli Interni Alfano chiamato a risponderne in Parlamento
di Roberto Ciccarelli


Proteste contro la riforma della scuola macchiate di sangue. Quello degli studenti. Manganellate hanno colpito chi manifestava a Napoli e a Milano contro la riforma Renzi-Giannini definita “Buona Scuola”, mentre il corteo dei sindacati di base e degli studenti a Roma – tra sette e diecimila i manifestanti secondo gli organizzatori — è sfilato senza subire violenze. Studenti delle superiori a Torino hanno occupato un deposito Gtt in corso Tortona per protestare contro il caro abbonamenti ai mezzi pubblici e poi hanno proseguito fino al Campus Einaudi dove il corteo si è sciolto.
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Foto Luca Prizia / La presse. Docenti contro la buona scuola, 13 novembre 2015 a Roma
Le immagini riportano il momento in cui è stata bruciata una bandiera del Pd. A Milano, in una carica della polizia contro il corteo che ha deviato dal percorso prestabilito sono state ferite due persone, una studentessa appena maggiorenne e un docente 50enne. «Non ho lanciato nessuna provocazione all’indirizzo delle forze dell’ordine perché – ha detto il docente D. G. a Repubblica Tv — non è nella mia attitudine attaccare loro in prima persona, nemmeno a livello verbale. Sono arrivato a volto scoperto e quando il contatto è stato troppo ravvicinato sono partiti loro, senza nessun lancio di oggetti, senza che da parte del corteo fosse stata fatta alcuna provocazione. Sono partiti loro con i loro manganelli». Nel pomeriggio una ventina di studenti con docenti dei Cobas e della Cub scuola hanno manifestato all’ingresso dell’Accademia di Brera dove hanno esposto uno striscione di protesta in attesa dell’arrivo della ministra dell’Istruzione Stefania Giannini. Lo slogan: «contro gerarchie e scuole azienda resistiamo al buona scuola». «Su questo striscione – ha detto un manifestante — ci sono le macchie di sangue dei nostri compagni e degli insegnanti caricati dalla polizia. La polizia non ci fa entrare, le università così diventano caserme».
Testimonianze raccolte da Napoli descrivono quanto avvenuto tra il teatro San Carlo e l’ingresso di via Chiaia. I manifestanti, protetti da scudi di gommapiuma con la scritta «Jatevenne» intendevano raggiungere la sede di Confindustria in via Chiaia, seguendo un percorso diverso da quello verso Piazza dei Martiri. La carica è stata violenta. Due gli studenti fermati e identificati, quattro feriti. Sono giovanissimi, il più vecchio ha 22 anni, con ferite al capo, alla bocca, agli occhi. “Come si fa a parlare di «cariche di alleggerimento», quando il corteo visibilmente non aveva nessuno strumento atto a offendere? Siamo davvero curiosi di vedere almeno una foto che spieghi come siano possibili i quattro agenti contusi di cui parlano le forze dell’ordine – sostengono gli studenti napoletani — La verità è che è stato un pestaggio. Una studentessa è in osservazione in ospedale per trauma cranico dopo aver vomitato per le botte in testa. Qualcuno ci dica se Confindustria in Italia è fuori dalle dinamiche democratiche e non può essere contestata». Molti cartelli della manifestazione, ricordano gli studenti, erano contro il lavoro gratuito e contro la riforma della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro».
Jatevenne. Le violenze sono state condannate dalla sinistra: “Repressione intollerabile – ha detto Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista – La protesta è sacrosanta: il Pd vuole demolire la scuola pubblica». «Invece di far manganellare studenti e professori, Palazzo Chigi dovrebbe occuparsi dei problemi seri del Paese» sostiene Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana). La chiusura di ogni dialogo con la scuola produce tensioni, sostiene Stefano Fassina che chiede al ministro degli interni Alfano di riferire al parlamento. «Il no alla legge sulla scuola è stata la causa principale della mia uscita dal Pd ma bruciare bandiera Pd è fuori da Costituzione» riferendosi ai fatti di Torino. Solidarietà agli studenti dalla Cub, tra i sindacati che hanno indetto lo sciopero.
Piero Bernocchi dei Cobas sostiene che il 25% dei docenti e del personale Ata abbiano scioperato «dell’unico appuntamento di lotta possibile per impedire l’applicazione delle parti più deleterie della legge Giannini, contro l’esclusione di 100 mila precari dalle assunzioni e il vergognoso aumento medio di 8 euro lorde al mese nel rinnovo contrattuale». Bernocchi giudica «incredibile e inspiegabile la defezione dalla protesta di Cgil-Cisl-Uil, Snals e Gilda che a maggio hanno scioperato con noi e ci hanno seguito nel blocco degli scrutini. Si sono limitati a convocare una manifestazione del pubblico impiego a fine novembre senza sciopero dove la lotta della scuola svanisce e hanno inviato al governo e alla scuola un segnale di resa incondizionata»
Repubblica 14.11.15
Scuola, sfila la rabbia dei prof scontri e feriti a Milano e Napoli bruciata la bandiera del Pd
In migliaia ai cortei dei Cobas, tra loro gli “irriducibili” delusi dalla Cgil Contro la riforma mobilitati anche studenti. Lezioni saltate in vari istituti
di Corrado Zunino


ROMA Cariche e manganelli della celere a Milano, bandiere del Pd bruciate a Torino. La scuola scalda ancora un autunno. Gli irriducibili prof contro la Buona scuola, nonostante la legge 107 sia in Gazzetta ufficiale da quattro mesi, ieri mattina hanno affollato i cortei Cobas. Erano tanti, sopra le attese. A Roma diecimila almeno. C’erano iscritti ai sindacati di base, all’Anief, all’Usi, ma anche docenti della Cgil delusi dal fatto che il loro sindacato, dopo le lotte di primavera, non abbia voluto confondersi. «Hanno alzato le braccia al premier », commentava un insegnante di lettere della Foscolo di Trastevere. Venticinque per cento di adesione allo sciopero, era la stima generosa dei Cobas. In strada, dietro lo striscione “No all’applicazione della legge 107, al preside-padrone che valuta, assume e licenzia”, hanno sfilato precari di seconda e terza fascia, “tieffini” non ancora entrati nella macchina delle assunzioni, docenti di sostegno e delle scuole materne rimasti al palo e «tanti cinquantenni timorosi di chiudere la loro carriera sballottati ogni tre anni in una scuola diversa », diceva Piero Bernocchi, leader dei Cobas scuola.
Il corteo di Roma ha assediato prima il ministero dell’Istruzione e poi Montecitorio, senza tensioni. Una prof a un dirigente di polizia: «Le leggi se sono sbagliate non si rispettano». A Milano, tremila in marcia, la polizia ha respinto a manganellate un tentativo di insegnanti e ragazzi di bucare in via Pola il cordone che impediva l’accesso all’Ufficio scolastico regionale. Un professore del professionale Vespucci con un taglio sul viso, cinque ragazzi contusi e medicati sul posto. Dopo lo scontro, lancio di oggetti sulla polizia. Nel pomeriggio trenta studenti hanno atteso il ministro Stefania Giannini all’Accademia di Brera: volevano contestarla, lei era a Shanghai in missione. A Torino alcune centinaia di studenti: vernice sui muri di una banca e uova sul provveditorato mentre in piazza Castello due ragazzi hanno bruciato una bandiera del Pd. Ancora, a Napoli contatto tra manifestanti e forze dell’ordine: due giovani e quattro poliziotti feriti. Due ragazzi, 18 e 22 anni, sono stati fermati e poi denunciati per resistenza e violenza. A Firenze solo duecento in piazza, ma lì si registra la prima scuola occupata nel paese: il liceo artisitco di Porta Romana. Altre tre occupazioni sono in corso a Palermo.
Il sindacato appare ancora in difficoltà sulla vertenza scuola, e ancora diviso. I Cobas hanno dato ampia scelta di date e modalità alla Cgil, che però non ha voluto sfilare preferendo un appuntamento unico e confederale sul pubblico impiego: sarà sabato 28 novembre. Unicobas ha voluto manifestare da solo, ieri pomeriggio. I comitati di base vogliono far saltare i tavoli che, istituto per istituto, i presidi stanno organizzando per formare i comitati di valutazione, vogliono provare a fermare il “bacino territoriale” da cui i dirigenti scolastici, dal prossimo anno, preleveranno i nuovi insegnanti e soprattutto a incidere su un rinnovo del contratto che ad oggi prevede un aumento di cinque euro nette al mese per tutti i lavoratori della pubblica amministrazione. Il sindaco di Bari, Michele Emiliano, è tornato sulle proteste per dire: «Non ci siamo fatti capire e adesso la scuola ha in odio il Pd, che sente ostile».
Martedì di nuovo piazza, solo per gli studenti. Aderiscono a una mobilitazione internazionale: “Vogliamo tutto per tutti, privilegi per nessuno”.
Corriere 14.11.15
Segreteria e congresso
La scossa del leader per rinnovare il partito
di Francesco Verderami


Roma Renzi nel 2016 vuole fare le elezioni anticipate. Ma non nel Paese, nel partito. Convocazione del congresso e primarie si terrebbero prima della scadenza naturale, subito dopo il referendum costituzionale, che confida di vincere. Il fatto è che nello storytelling di Renzi il Pd è un capitolo zeppo di sgrammaticature e di errori di ortografia. E se questa parte va riscritta è perché il premier-segretario si è concentrato solo sull’azione di governo, incurante delle critiche, di quanti gli imputavano da tempo di aver «ridotto il partito a un comitato elettorale», di aver trasformato la direzione in un votificio dove «ti danno tre minuti per parlare, tanto poi decide la maggioranza, cioè lui».
Però finora il racconto sembrava scorrere, grazie alla trama su Palazzo Chigi. L’anno scorso — appena diventato presidente del Consiglio — Renzi aveva dato 80 euro in Finanziaria e aveva ricevuto il 40% alle Europee. E anche quest’anno confidava in un’altra plusvalenza politica, per aver messo a bilancio la riforma elettorale e la ripartenza del Pil. Se la storia si è inceppata è per le pagine sul partito, dove in periferia a volte è dovuto ricorrere — così dice — a «mediazioni al ribasso», e altre volte ha dovuto subire le scelte di reduci e riservisti.
È il segno di un’assenza nella gestione degli affari interni del Pd, che pure gli compete, è lo spettacolo sul territorio segnato dall’eterna crisi siciliana, dall’incompiuta pugliese, dalla sconfitta ligure, dalla «non vittoria» campana. Per glissare su Roma. Tutto questo finisce per negare o quanto meno annegare il messaggio renziano, l’immagine improntata all’ottimismo, all’efficienza, ai risultati. E invece, nei giorni in cui veniva approvata la riforma costituzionale al Senato, Renzi ha visto i tg impegnati a inquadrare Marino asserragliato in Campidoglio. E ora, piuttosto che ricevere domande sulla legge di Stabilità e sul taglio delle tasse, deve rispondere sullo scandalo che lambisce il governatore De Luca.
Il leader sa e infatti dice «così non funziona», che è come ammettere uno strafalcione da matita rossa e blu. Perciò metterà subito mano al Pd, per far capire di averci messo la testa, per rispondere agli avversari interni ed esterni, alle operazioni di chi è andato fuori accusandolo di «guida cesarista», e di chi è rimasto dentro criticandolo di non aver riformato il partito, e chiedendo la separazione delle carriere: «Chi fa il premier non può fare allo stesso tempo il segretario». È la tesi di D’Alema, è il precetto che Bersani avrebbe applicato a se stesso se fosse andato a Palazzo Chigi. È una storia di cui Renzi non vuol sentire parlare.
Piuttosto, prima delle feste di Natale, «darò un segnale forte», interverrà cioè sulla segreteria innestandola con forze nuove che riflettano «autorevolezza». In ogni caso «dovrò occuparmi di più del partito», che è una creatura complicata, perché sul territorio i problemi al nord e al sud non sono uguali e vanno affrontati in modo diverso. Se ha deciso di muoversi è per non fare alle Amministrative gli stessi errori delle Regionali, sebbene la crisi di Roma e il caso in Campania prospettino nella Capitale e a Napoli una sconfitta nelle urne, che solo la conquista di Milano e Torino mitigherebbe.
Perciò il nodo di volta resta sempre il referendum costituzionale che per il premier-segretario rappresenta tutto. Il capo democrat è convinto della vittoria, e — se avrà avuto ragione — sull’onda del successo chiamerà il partito a esprimersi sulla sua guida, come fosse un altro referendum. L’avvio della fase congressuale e il voto delle primarie verrebbero anticipati a cavallo tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, prima cioè delle scadenze prestabilite. Così Renzi pensa di regolare i conti con quanti — da Rossi a Emiliano — si preparano a contendergli la leadership, e immagina di normalizzare ciò che resta della minoranza interna.
Ma la storia è ancora da scrivere, se è vero che nel Pd tendenza Renzi iniziano ad affiorare preoccupazioni sull’esito del referendum costituzionale. Il timore è che al blocco delle forze di opposizione — stimato attorno al 45% — possa saldarsi un pezzo di voto d’opinione, che una parte del Paese — delusa e influenzata da vari fattori, non ultimi gli scandali — possa voltare le spalle al premier e cambiare l’esito del risultato. Che finale da thrilling.
Corriere 14.11.15
Il premier stretto nella morsa del caso Campania e dell’economia
di Massimo Franco


«Il presidente della Campania governi se ne è capace, come ho detto in un’altra occasione». L’«altra occasione» alla quale allude Matteo Renzi è la crisi della giunta capitolina. E quell’ipotetica, «se ne è capace», finisce per associare Vincenzo De Luca all’ormai ex sindaco di Roma, Ignazio Marino. Stesse parole per due crisi diverse del Pd. Potrebbe essere un benservito ma anche soltanto un pre-ultimatum. Non a caso, gli avversari accusino il premier di avere preteso le dimissioni di Marino ma non quelle di De Luca.
Ma la vicenda va oltre questi personaggi minori, rimbalzando su Palazzo Chigi. Il problema è per quanto tempo Renzi il rapporto irrisolto tra il premier e i suoi riuscirà a non logorare quello con un’opinione pubblica che nel 2014, alle Europee, gli aveva dato ampio credito; ma alle Regionali del maggio scorso è già apparsa più tiepida. Non si tratta più di casi singoli, ormai, ma di un contesto che mostra un Pd minato dalle lotte interne e dalla credibilità della sua classe dirigente. Per questo non si può escludere che il capo del governo decida di intervenire per correggere una deriva potenzialmente devastante.
Le Amministrative di giugno lo metteranno di fronte ad una sfida nelle maggiori città, che nasce sotto cattivi auspici. I commissariamenti, le inchieste giudiziarie, la ricerca di candidati spendibili costituiscono un groviglio difficile da districare. Renzi può rivendicare le riforme istituzionali, da quella elettorale al Senato. E non smette di ricordarle in ogni occasione, in Italia e all’estero. Gliene dà atto ieri anche Standard & Poor, una delle maggiori agenzie statunitensi che valutano le prospettive economiche dei Paesi.
Il presidente del Consiglio continua a riversare milioni di euro tra Giubileo papale e «terre dei fuochi» in Campania. E rivendica in polemica con i sindacati l’assunzione di 48 mila professori precari. Insomma, alimenta con la legge di Stabilità e con i fondi agli enti locali la narrativa di un’Italia in ripresa, vicina ad archiviare la crisi. Ma l’enfasi con la quale Palazzo Chigi sottolinea ogni segnale positivo, è a doppio taglio. Finisce per enfatizzare anche i dati negativi, per quanto minimi.
Così, quando l’Istituto di statistica fa sapere che nel terzo trimestre il Pil è cresciuto poco, rispunta l’incertezza.Un modesto 0,2 per cento in più. «Speravo in uno 0,3», ammette Renzi. Il Tesoro, tuttavia, sostiene che l’Istat ha sottostimato il Pil. E prevede una correzione al rialzo. Ma l’opposizione è meno disponibile alle sfumature. Registra il dato, e conclude che «l’effetto Renzi è già finito», scolpisce Deborah Bergamini di FI. Si grida all’azzardo perdente del premier, rilanciando previsioni fosche. Certo, il caso De Luca in Campania e le proiezioni dell’Istat non ci volevano, a distanza di due giorni. Perché la narrazione renziana abbia successo, occorreranno altri sforzi.
Repubblica 14.11.15
Le intercettazioni
Ecco le telefonate in tribunale tra l’avvocato Manna e la moglie magistrato per evitare la sospensione di De Luca
“Operazione fatta ho parlato con Anna state tranquillissimi puoi avvertire gli amici”
di Dario Del Porto, Liana Milella e Conchita Sannino


NAPOLI. «Ho finito di parlare con Anna, puoi tranquillizzare tutti»: così l’avvocato Guglielmo Manna rassicura l’amico e collega Gianfranco Brancaccio alle 21 e 56 del 16 luglio. Siamo alla vigilia dell’udienza fissata davanti al tribunale civile di Napoli sul ricorso degli avvocati del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca contro la sospensione imposta dalla legge Severino. Il giudice relatore del fascicolo è Anna Scognamiglio, la moglie di Manna che proprio in quei giorni si sta muovendo per ottenere una nomina di prestigio nella sanità campana. Secondo la Procura di Roma, l’ambizioso avvocato utilizzerà per questo obiettivo proprio la funzione della moglie.
Non a caso un paio di settimane prima, parlando con un amico, Manna aveva detto: «Ma tu hai capito la barzelletta qual è? Indovina chi è il giudice relatore sulla causa di De Luca? Anna, mia moglie». Manna e Scognamiglio sono ora indagati dalla Procura di Roma con l’ipotesi di corruzione per induzione, insieme a De Luca, all’ex braccio destro del governatore, Nello Mastursi, all’ex coordinatore delle liste di De Luca Giuseppe Vetrano e ad altre due persone: Brancaccio (solo omonimo dell’amministrativista che assiste il governatore) e Giorgio Poziello. Dall’ultima informativa, spunta anche un sms che sembra chiudere il cerchio: lo invia Vetrano a Mastursi, anticipandogli il deposito della decisione su De Luca.
«L’ANESTESIA DEFINITIVA»
Il 4 luglio, Manna e Poziello parlano in maniera criptica di un intervento chirurgico «complicato ». Secondo gli investigatori della squadra mobile di Napoli, si tratterebbe di una metafora per alludere alla manovra legata all’udienza del 17 luglio.
Manna: «Tu glielo hai spiegato bene?»
Poziello: «Gli ho detto: “Peppino, ma tu...ha detto lui...si sì ho capito questo fatto...tutto è rimandato al 17 con la sentenza del giudice ».
Manna: «Quindi Peppe ha capito bene che deve fare l’anestesia definitiva?». Più avanti, Poziello commenta che «sono tutti quanti preoccupati». E Manna rileva: «Fanno bene perché l’intervento è complicato, con l‘anestesia sbagliata tu lo sai meglio di me... l’intervento si sbaglia facilmente ».
«LA NORMALE ASPETTATIVA»
Mancano dieci minuti alle tre del pomeriggio del 17 luglio, il giorno dell’udienza. Il giudice Anna Scognamiglio è in tribunale. Al telefono parla con il marito.
Manna: «Ma è tutto a posto?».
Scognamiglio: «Devono parla- re ancora metà degli avvocati. Tu che hai fatto col preside?»
Manna: «Tutto a posto, ho il nulla osta in tasca».
Scognamiglio: «Ah».
Manna: «Lei sarà giudice ma io non sono fesso, tengo il nulla osta in tasca».
Scognamiglio: «No il nulla osta, devi tenere la disponibilità ».
Manna: «La disponibilità e il nulla osta in entrata e tutto, Anna ».
Scognamiglio: «Poi devo andare a scuola a chiedere il nulla osta e poi glielo devo portare».
Manna: «Senti, eh».
Scognamiglio: «Funziona così ».
Manna: «Sì, sì, devi portarla tu mo’ lunedì ai Salesiani e ti pigli il nulla osta da loro in uscita, poi vai dalla preside, dalla signora è tutto a posto. Tutto fila secondo la normale aspettativa».
Scognamiglio: «Ci sono 50 avvocati e praticamente».
Manna: «Cinquanta avvocati, ma hanno fatto pure costituzione in giudizio adesso».
Scognamiglio: «Sì, sì sì».
I due si salutano con affetto:
Scognamiglio: «Devo rientrare, un baio ciao».
Manna: «Un bacino, amore».
A cosa si riferivano i coniugi quando parlavano di «nulla osta» e dicevano «tutto a posto»? A questioni familiari oppure ad altro? Lo dovranno accertare gli investigatori coordinati dalla Procura di Roma.
L’SMS A MASTURSI
L’ordinanza sarà depositata in cancelleria il 22 luglio.
La sera del giorno precedente, Manna chiama Brancaccio.
Manna: «Fai subito una telef... un avviso...una telefonata... insomma...chiama l’avvocato, l’altro avvocato...che è stato depositato stasera...diciamo la delibera e che quindi domani mattina è ufficiale».
Brancaccio: «Ah...perfetto, ok, ora mi spiego tutto...va benissimo ».
Manna: «Fallo subito perché la delibera è in data di oggi...e verrà numerata domani mattina...è di oggi pomeriggio...proprio di adesso».
Brancaccio avvisa via sms Vetrano: «Ciao collega, buonasera scrive - come concordato la notifica è stata disposta oggi ultimissima ora per cui domani sarà formalmente eseguita. A risentirci per gli esiti. Grazie». Alle undici di sera, Vetrano invia a sua volta un sms a Nello Mastursi, capo della segreteria politica di De Luca fino alle dimissioni rassegnate lunedì scorso, dopo il suo coinvolgimento nell’indagine della Procura di Roma. «Caro Nello, ho consegnato in serata i documenti, per cui domattina sarà data formale notizia». Il 22 luglio, rilevano gli agenti della squadra mobile di Napoli, viene depositata l’ordinanza collegiale con cui viene sospesa la sospensiva applicata nei confronti di De Luca in base alla legge Severino. Manna e Brancaccio commentano la notizia quando è già on line, e il marito del giudice commenta: «Mo’ dobbiamo aspettare lo step successivo ».
«UN PROCESSO MEDIATICO»
Assistita dall’avvocato Giovambattista Vignola, il giudice Anna Scognamiglio ha replicato ieri nuovamente alle accuse dicendosi «preoccupata ed enormemente amareggiata dal fatto che, mentre io sono totalmente ignara degli atti di causa e posta, quindi, nella impossibilità di difendermi, si celebri un processo mediatico ai miei danni con relativa condanna definitiva». Il magistrato esclude «in maniera assoluta » di aver potuto «comunicare a terzi, e quindi anche a mio marito, che era stata già presa una decisione favorevole a De Luca » e ribadisce di non aver mai pronunciato l’espressione «è fatta » che, rileva, «non appartiene al mio modo di esprimermi». Il 17 luglio, sottolinea, «al termine dell’udienza mi trattenni ancora un po’ di tempo con i miei colleghi ma certamente, in tale occasione, non scrivemmo né il dispositivo, né la motivazione dell’ordinanza anche perché vi erano ancora da esaminare le questioni illustrate. Il deposito avvenne il 22 luglio e fino a tale data era ben possibile rivalutare in tutto o in parte le questioni da decidere ».
il manifesto 14.11.15
Lunedì De Luca in aula. Il Pd azzera la segreteria regionale
Campania. Il governatore dovrà spiegare al consiglio il caso Mastursi. Area riformista accusa chi ha sostenuto la candidatura dell’ex sindaco di Salerno.
di Adriana Pollice


«Sono rilassato come un monaco buddista. Non do neanche un’occhiata ai giornali per non farmi distrarre dal programma di lavoro»: il governatore campano Vincenzo De Luca rassicura Renzi: non ha intenzione di mollare e incassa soddisfatto i fondi stanziati per la Terra dei fuochi e Bagnoli. Resta però la freddezza del Nazareno: 48 ore di spiegazioni non sono bastate per chiarire la posizione di De Luca rispetto all’inchiesta della procura capitolina in cui è indagato, con altri sei, per il reato di concussione per induzione. Ieri ha ricominciato a perorare la sua difesa da Lira Tv, il canale in cui ha una rubrica fissa.
In ballo c’è anche la sua credibilità politica dopo il comunicato di lunedì in cui si annunciavano le dimissioni del capo della segreteria, Nello Mastursi, causa stanchezza dovuta al doppio incarico (in regione e all’organizzazione del partito) quando Mastursi era già indagato in qualità di intermediario in un ricatto: la sentenza favorevole al governatore sul ricorso per bloccare gli effetti della Severino, grazie al giudice Anna Scognamiglio, in cambio di un incarico nella sanità per Guglielmo Manna, marito del giudice. De Luca fino a martedì pomeriggio ha insistito nel raccontare di non saperne nulla: «Con un’indagine in corso il riserbo era dovuto», è stata la sua difesa.
Il governatore tira dritto pure sulle due sentenze a lui favorevoli, in entrambe delle quali è coinvolta Anna Scognamiglio: «Quanto deciso non faceva altro che ripetere la stessa decisione presa per de Magistris e non si poteva sconfessarla». In un’intercettazione agli atti, Manna spiega che una collega della moglie «ha fatto in modo di gestire le carte in modo che ad Anna tocca praticamente il ricorso abbinato come relatore e praticamente Anna già adesso la settimana prossima deve fissare l’udienza sul giudizio principale». Giorgio Poziello, amico di Manna, in un’altra intercettazione racconta di aver detto a Giuseppe Vetrano, coordinatore delle liste a sostegno di De Luca nell’avellinese: «Vedete che c’è una persona che rischia di morire…tra due giorni…la moglie di questo mio amico la può salvare… volete accettare questa cosa? senti questi sono i fatti…e infatti dopo che io ho detto questa cosa… baci e abbracci con l’avvocato». De Luca è tranquillo («Io e la regione Campania siamo parte lesa») e sottolinea: «Giudicheranno i magistrati senza guardare in faccia nessuno. La politica politicante non mi tollera. In tre mesi abbiamo fatto più di quanto non sia stato fatto in tre anni sul piano della trasparenza e del rigore».
Lunedì dovrà presentarsi in consiglio regionale a spiegare la vicenda dimissioni Mastursi. Le opposizioni, a cominciare dai 5 Stelle, vogliono sfiduciarlo per tornare al voto. La resa dei conti nel Pd locale è stata anticipata a domani mattina: «A stretto giro nominerò la nuova segreteria regionale, che ho deciso di azzerare — ha spiegato ieri il segretario regionale, Assunta Tartaglione -. Il rapporto tra il Pd e il presidente De Luca sia nel solco di un normale rapporto tra il governatore e il suo partito». Alla riunione parteciperanno i consiglieri regionali, i parlamentari e gli europarlamentari. Probabilmente saranno loro a entrare nella nuova segreteria, in una sorta di commissariamento informale, per affidare la ditta a chi ha un ruolo e un suo consenso in modo da arginare il governatore.
L’imperativo è evitare che il partito venga travolto dalle vicende di De Luca, che fino ad ora ha tirato dritto senza ascoltare nessuno. Ma è anche un modo per Assunta Tartaglione di evitare di fare da capro espiatorio. Giovedì sera a Roma l’Area riformista l’ha messa sotto accusa (insieme al sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti) per aver sostenuto la candidatura dell’ex sindaco di Salerno. Una candidatura alla quale però si sono rassegnati tutti, vista l’incapacità di convergere su Andrea Cozzolino o Gennaro Migliore. Per adesso i renziani della prima ora e dell’ultima ondata danno fiducia a Tartaglione per arginare Area riformista che, a Napoli, è attraversata da molte anime, a cominciare dall’ex segretario regionale Enzo Amendola.
Il comitato di salute pubblica dovrà gestire la direzione del 20 novembre, in cui si decideranno le modalità delle primarie per le elezioni comunali di primavera. Antonio Bassolino è ufficiosamente in campo: difficilmente, dopo il caso De Luca, il partito vorrà schierare un altro pezzo del vecchio apparato.
il manifesto 14.11.15
Renzi e De Luca stanno sereni
Campania. Il presidente del consiglio: «Governi se è capace»
Ma le assonanze con il caso Marino finiscono qua. L’indagato stavolta non si può toccare. Se salta la regione va a rischio la maggioranza del senato
di Daniela Preziosi


«La magistratura faccia il suo corso, noi abbiamo molta fiducia verso i magistrati e al tempo stesso De Luca ha la titolarità, il diritto e il dovere di governare. Siamo assolutamente certi che il mandato sia pieno e quindi De Luca lavori se capace». Le parole del presidente del consiglio dedicate al caso De Luca, durante la conferenza stampa sulle decisioni dei ministri e sul decreto Giubileo, continuano a essere poche, pochissime. In quelle poche frasi però, si potrebbe riconoscere un’assonanza con quelle che Renzi pronunciò nel giugno scorso a proposito del sindaco di Roma Marino: «Governi, se è in grado, se no a casa». Era già una sentenza di morte (politica, s’intende).
Ma il parallelo finisce qui. Per il presidente del consiglio Vicienzo non è Ignazio. Per lui De Luca non era un impresentabile, con buona pace della lista della commissione antimafia (contro la quale furono infatti i renziani a fare fuoco). Così come è un intoccabile: la fiducia nella magistratura è giusto una formula di rito. «Io sono sempre pronto a farmi carico di discussioni politiche, ma non di discussioni autoreferenziali tra addetti ai lavori», dice ancora il premier, pattinando fra un’argomentazione e l’altra. «Se ci saranno atti giudiziari ne prenderemo atto, ma fino a quel momento piena, totale incondizionata fiducia a magistratura e volontà di fare le cose». La dimostrazione è che nel paniere di palazzo Chigi c’è un provvedimento indirizzato proprio al governatore nella bufera: 150 milioni per la bonifica della Terra dei Fuochi e 50 per Bagnoli. Renzi lo annuncia e gli vota platealmente la fiducia del governo: «De Luca ha delle grandi sfide davanti a sé. Se c’è una persona che può fare della Terra dei Fuochi una grande sfida quello è proprio De Luca».
Ma il caso Campania, sul quale Renzi non si sbilancia né da premier né da segretario del partito, è un bubbone dalla nascita, e dalla nascita era destinato a scoppiare. La minoranza prepara l’artiglieria. Sorvolando sul fatto di aver a lungo beneficiato dell’asso De Luca, almeno finché all’ultimo congresso, quello del 2013, l’allora sindaco di Salerno non ha rivolto la sua preferenza (sarebbe il caso di dire: la sua valanga di preferenze) all’astro nascente di Matteo Renzi. Era successo dopo un lungo contenzioso con Enrico Letta, che aveva inutilmente cercato di farlo dimettere dal governo — era sottosegretario alle Infrastrutture — alzando alla fine bandiera bianca, e riducendosi a non dargli alcuna delega.
Grazie a De Luca al congresso cittadino Renzi aveva preso il 97,3 per cento degli oltre 12mila voti. Il risultato ai limiti della realtà era persino finito in procura: il giovane responsabile della mozione Cuperlo (che evidentemente nella zona non era riuscito neanche a toccare palla) era stato convocato dal magistrato antimafia dopo aver rilasciato una serie di dichiarazioni su presunti brogli ai gazebo. Nel corso di perquisizioni per un’indagine in corso all’epoca, in un capannone della zona erano stati trovati pacchi di tessere del Pd anno 2012. Il magistrato si era incuriosito della coincidenza. La cosa finì lì. Fatto sta che se nel 2013 il plebiscito per Renzi era stato esagerato, al congresso precedente, nel 2009, anche a Bersani De Luca non aveva portato la sua acqua. Un mare, un oceano: l’82,66 per cento dei voti.
Oggi Bersani stende un velo su questa lunga storia e se la prende con Renzi: «Il quadro giudiziario ce l’ha la magistratura, il quadro politico ce l’ha o meglio spero lo abbia il Nazareno e Palazzo Chigi. Facciano tutte e due per il meglio. C’è stato comunque un errore iniziale molto grande: o cambi la Severino o cambi il codice etico del Pd», attacca. Gli fa eco il presidente della commissione bilancio della Camera Francesco Boccia: «De Luca non andava candidato allora. Fatta quella scelta infausta, ed è stato un errore del Pd, ti gestisci le conseguenze. E queste sono solo le conseguenze di una scelta sbagliata».
Nel gelo imbarazzato del Partito democratico, che dopo il caso Roma e le inchieste di Mafia Capitale ora rischia di nuovo l’osso del collo in Campania, qualche voce critica si fa sentire. Come quella del ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha ammesso al Corriere della sera che in Campania avrebbe «sostenuto un altro candidato, ma De Luca ha vinto le primarie». Altre bocche dem restano cucite, però. E se ne capisce il delicato motivo. De Luca è legato a doppio filo (politico) con Denis Verdini, il nuovo ago della bilancia della maggioranza del senato della Repubblica. I suoi uomini siedono nel consiglio regionale campano sotto le insegne della lista «Campania in rete». Le due maggioranze si tengono sugli stessi amici verdiniani: se cadesse una, anche l’altra sarebbe a rischio.
Repubblica 14.11.15
Partito democratico
Anche la minoranza dem non sta affondando i colpi sul caso Campania
Il premier non scarica il governatore “Impossibile aprire un altro fronte”
di Francesco Bei


ROMA Per Matteo Renzi «il caso è chiuso». Un atteggiamento che potrebbe sembrare sbrigativo, o eccessivamente confidente, ma la rotta scelta dal premier sull’inchiesta De Luca-Mastursi è ormai tracciata. E si sostanzia in una blindatura di fatto del governatore della Campania, a cui con grande munificenza ieri il Consiglio dei ministri ha staccato un assegno da 200 milioni di euro per il risanamento di Bagnoli e della Terra dei fuochi. Preceduto da un amichevole sms del premier allo stesso De Luca per avvertirlo della decisione.
Il Pd, a parte qualche voce critica della minoranza come Bersani, mugugna ma non affonda il colpo. Tanto che Renzi ieri in consiglio dei ministri, consapevole della debolezza del fronte interno al partito, ha potuto maramaldeggiare con il Guardasigilli Andrea Orlando, che il giorno prima si era permesso di prendere le distanze da De Luca. «Andrea - gli ha detto il premier ad alta voce - tu sei quello del “non c’ero”, “non lo conosco”. Come San Pietro con Gesù ». Di fatto, per Renzi, non c’erano alternative rispetto al sostegno politico al governatore. «Non possiamo permetterci di aprire un altro fronte». Dopo aver aspettato tre giorni in silenzio, per capire l’effettiva portata dell’inchiesta e il livello del coinvolgimento di De Luca, il premier ha deciso di agire. «Tra poco - ha confidato ai suoi - tutto questo polverone finirà». Una convinzione diffusa nel gruppo dirigente dem. Tanto che ieri in un corridoio della Camera il vicesegretario Lorenzo Guerini, certo non un estimatore del presidente campano, con un collega di partito si lasciava andare a un’ammissione: «De Luca si salva».
Un membro della minoranza azzarda un paragone con un lontano passato: «Questo Mastursi è più tosto di Primo Greganti. Non parlerà mai. De Luca lo sa benissimo». Insomma, il sentire diffuso nel partito è questo: l’inchiesta non coinvolgerà direttamente il governatore. Il problema quindi torna a essere politico prima che giudiziario. Non è un caso allora se proprio Bersani ci tenga a separare il «quadro giudiziario» in mano alla magistratura, da quello politico che «ce l’ha in mano o meglio spero lo abbia il Nazareno e Palazzo Chigi». Perché per l’opposizione interna al premier il caso De Luca non è limitato alla Campania, ma rappresenta un anello di quella catena che porta su su fino al partito della Nazione. «C’è un rapporto - sostiene Miguel Gotor - tra la costruzione del partito della Nazione dal basso, in Campania, attorno a De Luca, e il gioco a Roma con “Ala” di Verdini e degli amici di Cosentino. Ma un grande partito come il Pd non può farsi condizionare in questo modo». Anello dopo anello la teoria dei bersaniani porta a palazzo Madama, dove si anniderebbero diversi amici di Cosentino nel gruppo Ala, convinti sostenitori e alleati di Vincenzo De Luca. Davvero Renzi si è schierato a difesa del governatore per paura di una ritorsione dei senatori verdiniani? La teoria è suggestiva, ma non regge alla prova dei fatti. Anche perchè i cosentiniani sono troppo pochi - al massimo tre o quattro - per costituire un problema al Senato. «E poi osserva Ignazio Abrignani, uno dei fondatori di Ala - diciamoci la verità: se dovessimo scegliere tra De Luca e Renzi, noi sceglieremmo Renzi». Vincenzo D’Anna, il primo dei sospettati al Senato, è anche il primo ad ammettere che «De Luca non ha alcun peso parlamentare, non si è mai creato una sua corrente ».
Scartata l’ipotesi del ricatto parlamentare, per capire la blindatura di Renzi su De Luca non resta che la politica. Perché il premier, già ammaccato dal caso Marino, davvero non poteva permettersi l’apertura di un altro fronte. Per di più in una regione con milioni di elettori che vedrà Napoli andare al voto tra pochi mesi. Il Pd in Campania è sprofondato in un buco nero e l’unico punto fermo è proprio il governatore. A Montecitorio, parlando ad alta voce al telefono, la segretaria regionale dem Assunta Tartaglione ieri dava una fotografia realistica della situazione: «Dobbiamo dare subito una risposta politica, sennò alle prossime amministrative qua c’accappottiamo ».
Corriere 14.11.15
Renzi: De Luca? I giudici lavorino. Ma ha il diritto-dovere di governare
«Il mandato è pieno, agisca se capace». E lui: sereno come un monaco buddista
di Alessandra Arachi


+ROMA Il presidente del Consiglio Matteo Renzi è deciso: «Rispetto alle vicende della Campania, la posizione mia, del governo e del partito è molto chiara: la magistratura deve fare il suo corso, ma il governatore ha la titolarità, il diritto e il dovere di governare. Siamo assolutamente certi che il mandato sia pieno e quindi De Luca lavori, se capace».
Renzi ieri è arrivato nella sala stampa di palazzo Chigi subito dopo il Consiglio dei ministri, e i primi provvedimenti che ha illustrato, sono stati quelli per la Campania. Il più cospicuo , destinato alla bonifica della Terra dei fuochi, (450 milioni nel 2015-2017) ma ci sono anche altri 50 milioni per Bagnoli. Ed è convinto che con De Luca queste sfide potranno essere vinte.
Il governatore Vincenzo De Luca è stato molto contento di questo finanziamento: «Ringrazio il premier per questa decisione di straordinaria importanza: con quasi mezzo miliardo fa partire il risanamento ambientale della Campania». De Luca è indagato dalla procura di Roma, insieme ad altre sei persone, con l’accusa di concussione, ovvero di aver promesso una promozione in cambio di una sentenza a lui favorevole sull’applicazione della legge Severino.
C’è anche un magistrato tra gli indagati, Anna Scognamiglio. «Abbiamo attivato le procedure necessarie per gli accertamenti preliminari su questo giudice», ha annunciato Andrea Orlando, ministro della Giustizia, mentre Antonello Ardituro, magistrato della prima commissione del Consiglio superiore della magistratura ha spiegato: «Il Csm ha tempestivamente aperto una procedura per valutare l’eventuale profilo di incompatibilità ambientale del giudice coinvolto e farà le sue valutazioni in pochissime settimane».
Vincenzo De Luca continua a respingere al mittente ogni addebito («mi sento sereno come un monaco buddista») e a rilanciare, con decisione: «Ho la sensazione che dopo questa vicenda, dopo questa montagna di polemiche giornalistiche e di attenzione mediatica, alla fine, avremo solo una montagna di chiacchiere. Oppure l’emergere di qualcosa di preoccupante, cioè di un tentativo di pressione e di ricatto nei confronti della Regione. In ogni caso, io e la Regione siamo parte lesa». Intanto il segretario regionale del Pd, Assunta Tartaglione, ha annunciato l’azzeramento della segreteria convocando un vertice di partito per domani mattina.
La vicenda De Luca investe il Pd, diversi i mal di pancia. Per Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera: «Candidare De Luca in Campania fu una scelta infausta» e anche Michela Marzano è convinta che tutta la vicenda «sia stata un errore fin dall’inizio». L’ex segretario Pier Luigi Bersani ha sostenuto che per De Luca c’è stato un errore iniziale «molto grande», e aggiunge: «Quando si è deciso di candidarlo si doveva decidere: o si cambiava la legge Severino o si cambiava il codice etico del Pd». Intanto il Movimento cinquestelle ha presentato una mozione di sfiducia contro il governatore illustrata alla Camera da Roberto Fico, firmata da sette consiglieri regionali m5s, in testa il capogruppo in Regione Valeria Ciarambino.