sabato 14 marzo 2009

Repubblica 14.3.09
"Costituzione minacciata, muoversi ora"
Allarme di Libertà e Giustizia. A Milano Zagrebelski cita Levi: se non ora quando?
di Cinzia Sasso


MILANO - «Se non ora, quando?». Va a Primo Levi, e alla citazione che ne fa il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelski, il primo applauso della serata milanese di Libertà e Giustizia. «Le tragedie accadute in Europa nell´ultimo secolo sono state la conseguenza della tendenza a spostare i problemi di un giorno avanti. C´è l´esigenza forte di aprire gli occhi subito». «Rompere il silenzio», dunque, che è il titolo dell´appello in difesa della Costituzione che l´associazione ha presentato ieri sera qui, che i suoi circoli stanno illustrando in tutta Italia e che ha raccolto su internet oltre 200mila firme. Nomi di persone, dice Zagrebelsky, che di LeG è il presidente onorario, che non avremmo mai pensato di vedere nei nostri elenchi, «segno di un bisogno forte di riconoscersi, e di immaginare anche che cosa fare da adesso in poi».
Accanto a Zagrebelsky ci sono Giovanni Bachelet e l´economista Salvatore Bragantini; in prima fila Gae Aulenti e Maurizio Pollini; tra il pubblico tante facce note ma anche tantissimi cittadini qualsiasi. Perché - come dice Sandra Bonsanti, presidente di L&G - oggi l´allarme è altissimo e non passa giorno che la cronaca politica non faccia registrare nuove punture di spillo contro la Costituzione: «La democrazia è in bilico e i rischi che la carta fondamentale sia stravolta, in un momento come questo in cui sommano crisi economica e istituzionale, si fanno sempre più elevati». Un elenco infinito di diritti violati, dalla giustizia uguale per tutti al diritto di fine vita, dalla salvaguardia del paesaggio alla corruzione, dal diritto di cronaca al disprezzo della legalità e dell´uguaglianza.
Da dove cominciare, allora? Forse da una vignetta di Ellekappa, che riesce a far sorridere pur con parole terribili: «La crisi deve essere più grave di quello che sembra»; «Berlusconi sta pensando di licenziare il Parlamento». Ed è con quella sintesi che apre il "libretto nero" di Libertà e Giustizia, un ciclostilato come si faceva ai vecchi tempi, riassunto di undici mesi di dichiarazioni, disegni di legge, proposte, piani per la sicurezza, decreti. A volte solo parole, altre realtà: dai militari per le strade ai medici che dovrebbero denunciare i clandestini. Uno scambio di battute che è un campanello d´allarme: tanto che la proposta di Berlusconi sul voto solo ai capigruppo pochi anni fa sarebbe sembrata una battuta e oggi, conclude Zagrebelsky, sembra l´esito finale di uno stato di cose.

l’Unità 14.3.09
Conversando con Giovanni De Luna
«Berlusconi ha fastidio fisico per la democrazia, e questo Pd non sa arginarlo sul territorio»
di Bruno Gravagnuolo


Sospendo il giudizio sul Pd. E con tutta la simpatia per Franceschini, non basta un buon risultato alle europee per dare ruolo e identità a un partito inadeguato a fronteggiare la crisi e la realtà di un premier che mostra fastidio fisico per la democrazia». Parole nette quelle di Giovanni De Luna, 65 anni, storico contemporaneo a Torino. Studioso di azionismo, fascismo e leghismo. E niente sconti al Pd, alla cui nascita De Luna ha sempre guardato con favore, in nome del «superamento delle ideologie novecentesche». Oggi però la destra dilaga, sull’onda di mutamenti globali che la flebile sinistra di oggi per De Luna non è in grado di cogliere, con la malcerta identità di questo Pd. Ma quali sono i mutamenti e quali risposte ci vogliono?
Professor De Luna, Italia tra paura dello straniero e depressione economica. Con una destra che si candida a custode autoritaria del paese. Può farcela questa destra a stravincere e a cambiare la nostra democrazia?
«Partirei dalle viscere della società. E dalla crisi economica, l’aspetto più clamoroso di un passaggio epocale. Mai in Italia ci siamo misurati con quanto accade oggi: l’irruzione dell’Altro, dello straniero. Prima, nel novecento italiano, era qualcosa di esotico. O di razzialmente stereotipato. Oggi l’Altro condivide lo stesso spazio simbolico di relazione. Qualcosa di sconvolgente. Di qui paura e aggressività, che nascono dal non aver elaborato un vero modello di convivenza civile. Irrompono gli istinti peggiori. E quello delle ronde è un segnale di gravità estrema: la rinuncia al patto di cittadinanza. La fine del monopolio legale della violenza. Per farsi giustizia da sé».
Baget-Bozzo scrive che Berlusconi introduce una cittadinanza costituzionale di nuovo tipo: nazionale e tradizionalista. Che ne pensa?
«Da parte di Berlusconi è la rinuncia a salvaguardare uno spazio istituzionale e civico entro il quale la vendetta e la faida vengano arginate e inibite, in nome di una condivisione pubblica e universalista. La democrazia infatti è il territorio di questa condivisione, che se viene meno cancella la democrazia. Il punto delicato da chiarire è se ciò appartenga o meno a un codice genetico del nostro popolo. Ebbene, quando Gobetti parla di fascismo come “autobiografia della nazione”, densa di tutte le meschinità, i clientelismi e i reazionarismi italici, supera sia l’idea del fascismo come parentesi, che quella di esso come reazione di classe. Tutto giusto e attuale. E però in Gobetti e Rosselli c’è anche l’invettiva contro il ceto politico, liberale e socialista. E contro la sua incapacità di rappresentare le masse. Niente di ineluttabile in quella denuncia contro l’Italia profonda. Ma indignazione contro una classe politica imbelle che crolla di fronte al fascismo. Ed ecco il parallelo: prima del voto del 2006 la sinistra aveva dieci punti di vantaggio contro Berlusconi. E ancora oggi il centrosinistra governa in 3.500 comuni su 5000. Insomma la destra non è invincibile, e non riflette in modo marmoreo un’Italia destrorsa e immodificabile. E allora c’è il problema dei guasti e dei limiti del ceto progressista oggi. Della mancanza di esempi e di pedagogia civile, per arginare la corrente negativa. E senza antidoti virtuosi e alternativa di stile politico non c’è speranza».
Non crede che il gobettismo virtuoso e antisocialista abbia dato una mano all’antipolitica ieri, proprio come ha fatto oggi un certo nuovismo maggioritario a sinistra?
«No, penso che quella critica gobettiana di ieri fosse valida. E che oggi come ieri la classe politica di sinistra sia responsabile di aver dilapidato un patrimonio di consensi, in grado di contrastare la destra profonda. Il Paese si è schierato a destra più per delusione verso la sinistra, che non per adesione alla destra. Mi rifiuto di pensare che gli italiani siano per natura egoisti e razzisti. È un discorso che non porta da nessuna parte».
Il deficit della sinistra non nasce anche dal crollo di ogni appartenenza e identità, oltre che dal mito di una classe politica scissa da ogni rappresentanza sociale?
«La difficoltà nasce dalla incapacità di rielaborare tradizione e categorie di pensiero a sinistra. Ad esempio in relazione al territorio. Per tutto il 900 la sinistra non ha mai visto il territorio, perché ai suoi occhi era solo un’appendice della fabbrica...».
In realtà socialisti e comunisti legavano fabbrica, territorio e ceti medi, dalle cooperative alle piccole imprese...
«Fino a un certo punto e non sempre. A Torino la centralità era quella della grande fabbrica, che ha messo sempre l’imprimatur su tutta la tradizione del movimento operaio italiano. Il territorio non è mai stata una risorsa identitaria, ma una mera articolazione. La destra invece ha sempre contemplato la legge del suolo e del sangue, fino alle versioni leghiste di oggi. Bisogna ripartire di qui, dal mutamento del conflitto, non più come un tempo ancorato a un progetto generale di società. Oggi i conflitti sono svincolati da ogni orizzonte globale: si esaurisco dentro i singoli segmenti. E poi sono arrivati nuovi soggetti sociali. Nuove clientele, lobby, nuove filiere del consenso sul territorio. E inedite figure del lavoro. Vince la “gelatina” non più egemonizzabile di cui parlava Augusto Monti, il maestro di Gobetti. Ovvero, la massa informe che la fa da padrona e sceglie la destra».
Rilanciare progetti e identità muovendo dai territori. E questo il compito della sinistra?
«Certo, e proprio per unificare tutti i conflitti. Ma prima occorre anche ridefinire tutti i concetti: territorio, lavoro, guerra, impresa. Cose profondamente mutate e inafferrabili. La sinistra è stata succube della continuità, teoricamente e politicamente. Mentre la destra ha dato sfogo alla discontinuità priva di forma. Le ha dato un nome, assieme alla Lega. E il risultato è stata una deriva preoccupante, un esito plebiscitario temibile per le sorte della nostra democrazia».
Ma Obama - che rivisita Keynes e ruolo dello stato dal lavoro ai consumi- non offre una sponda neonovecentesca alla riscossa della sinistra?
«Sì, però la dimensione culturale è profondamente diversa, ecco il punto. In fondo, dai fascismi a Stalin e al New Deal, le ricette erano simili: lavori pubblici. La differenza stava nell’involucro culturale e politico attorno alle ricette, nelle forme di regime. Un conto erano le autostrade di Hitler, altro i lavori della Tennesse Valley. Anche oggi contano le differenze culturali, pur nella similarità del ruolo dello stato. E lo specimen culturale di oggi è l’inclusione di cittadinanza, l’allargamento dei diritti. Oltre ai settori nuovi nei quali Obama interviene: formazione e ambiente».
Torniamo in Italia. Come vede il Pd tra il prima e il dopo elezioni europee? Resisterà, crollerà, o si trasformerà?
«Ho sempre temuto una fusione tra stati maggiori politici. Dove l’ala Ds ha funzionasse come vettore passivo dei consensi, in alleanza con una Margherita particolarmente clientelare al sud. Le cose sono andate proprio così, e il famoso amalgama non è riuscito. In realtà un vero partito nasce più da una scissione che da una fusione, come insegnano la storia del Pci e quella fallita dell’unificazione socialista. Perciò, a questo punto, meglio non esorcizzare una possibile scissione. Che veda dentro il Pd la parte meno identitaria di Rifondazione. E fuori, la parte meno laica e più centrista. Insomma, quel che conta è una nuova e più autentica identità. Un respiro e una visione generale, che sappiano parlare al paese in crisi».

l’Unità 14.3.09
Telefono Rosa, aumentano le denunce: nel 63% dei casi
il «mostro» è il marito o l’ex
di Mariagrazia Gerina


Violenze in aumento. Ma solo due vittime su cento raccontano di essere state violentate da uno sconosciuto. E anche la crisi economica, dentro le mura domestiche, rischia di trasformarsi in un fattore scatenante.

Luciana, la chiameremo così, vive a Guidonia. Un posto alle porte di Roma ormai associato alla violenza di cui quattro rumeni in branco sono stati capaci. Il mostro, però, Luciana (41 anni, un figlio di 13), ce l’ha dentro casa: è italiano, operaio, licenza media. Suo marito. Fuori, si comporta come una persona normale. Dentro le mura domestiche, invece, usa violenze di ogni tipo: fisiche, psicologiche, sessuali. Lei, che è più istruita e lavora come impiegata, ha sopportato tutto, per anni. «Cosa l’ha spinta?». «Vergogna e debolezza», ha risposto il 14 gennaio quando ha detto basta e si è rivolta al Telefono Rosa.
Le volontarie di Telefono Rosa - un appartamento a Roma dove le vittime di violenza (di tutta Italia) possono trovare assistenza psicologica, umana e legale, telefonica o di persona - di storie così nel 2008, il ventesimo dell’associazione diretta da Maria Gabriella Moscatelli, ne hanno raccolte 1744: 4-5 donne che ogni giorno cercano aiuto, 300 in più dell’anno precedente, a evidenziare un aumento del fenomeno violenza.
Italiane (1452), straniere (287). Casalinghe e libere professioniste, istruite e no. Solo 2 ogni 100 raccontano di essere state violentate o molestate da uno sconosciuto. Tutte le altre l’autore della violenza lo conoscono bene. È l’uomo che hanno sposato: nel 53% dei casi è il marito, nel 10% l’ex marito, che non smette di tormentarle. Oppure, in un altro 9% di casi, è comunque l’uomo con cui convivono o l’ex convivente (5%). E ancora: il fidanzato, il padre, il figlio, il fratello, un parente, insomma (9%). E non c’è differenza in questo tra donne italiane e donne straniere. Se non che nel 54% dei casi le straniere sono sposate con un marito italiano.
È questa l’Italia che fotografa Telefono Rosa. Un paese in cui è la casa «il luogo meno sicuro per le donne», dove le vittime vivono a contatto quotidiano con il violento (che con il resto del mondo nel 67% dei casi si comporta come una persona normale) e dove le donne, che subiscono nell’81% dei casi una violenza ripetuta e ciclica, si sentono ancora più sole. Per questo molte di loro hanno più di 35 anni: aspettano che i figli crescano per ribellarsi. «La donna stuprata per la strada», spiega la vicepresidente Paola Lattes, «ha meno paura a denunciare perché non conosce lo stupratore: denunciare tuo marito è molto più difficile». Spesso a ingabbiarle è anche il ricatto economico. Il 35% ha lasciato il lavoro dopo il matrimonio. Le casalinghe (22%) e le disoccupate (15%) sono in aumento e sono più delle libere professioniste (5%). E la crisi - avverte Telefono Rosa - rischia di abbattersi su di loro. «Dai racconti emerge molto chiaramente, spesso la violenza scatta proprio quando i soldi non bastano».

Repubblica 14.3.09
A chi appartiene la mia vita
di Corrado Augias


Gentile Augias, leggo sgomento che la terribile legge sul testamento biologico proposta dal relatore Calabrò non sarà modificata nelle parti più importanti. Ne deduco che, pur essendo in grado di intendere e di volere, non potrò decidere di sospendere la nutrizione forzata (come se non fosse una cura).

Credo di essere un buon cittadino, ho cominciato presto a lavorare, mi sono pagato gli studi, ho fatto scelte che considero «etiche» (sono vegetariano), mi sono sbattezzato per sentirmi culturalmente libero. Ho sempre pensato di essere padrone di me stesso. Mi rendo invece conto che non lo sono. Non posso decidere, in caso di malattia grave, di morire con dignità. Non posso decidere (o delegare per me qualcuno), in caso di coma irreversibile, di far sospendere l'alimentazione. Allora le chiedo: a chi appartiene la mia vita? Visto che in questo paese non posso decidere di tutelare le mie decisioni, chiedo, apertamente e con forza, alle persone che mi amano di fare di tutto, nel caso finissi come la povera Eluana, per porre fine alla mia esistenza. Non posso accettare che la Chiesa o i politici tengano in pugno la mia vita.
Marino Buzzi aracno76@libero.it

La mossa di sostituire il prof Ignazio Marino con l'ondeggiante Dorina Bianchi nella commissione senatoriale che ha preparato le norme base per il testamento biologico, s'è dimostrata una sciagura. La lettera del signor Buzzi, che faccio mia, ne dà testimonianza. In una precedente legislatura era stata approvata un'altra legge, quella sulla procreazione assistita, ugualmente dettata dalla più angusta ideologia. Questa sulla Dat (Dichiarazione anticipata di trattamento) sarà peggio. Vero che in un caso e nell'altro si può andare quasi ovunque fuori d'Italia ma, a parte i soldi, un conto è andare per far nascere una vita, uno ben diverso far viaggiare una persona molto malata. Solo l'umiliazione, il peso di una cittadinanza mutilata, è uguale. La discussione in aula avrà un esito che considero scontato. L'orientamento di alcuni cattolici `non adulti' è evidente al di là di ogni ipocrisia. La destra, che non ha grandi idee al riguardo, si allineerà obbediente. Resta, annuncia già il senatore Marino, il referendum abrogativo. Ne diffido. Quando ci fu quello sul divorzio, la campagna era del tipo: «Donne, attente, i vostri mariti vi lasceranno, fuggiranno con le ballerine». Questo sarebbe: «Anziani attenti, i vostri figli vi uccideranno per rubarvi l'eredità», o qualcosa del genere. Troppe sono le persone largamente disinformate sulla elementare posta di libertà in gioco in un paese che di libertà non ne ha mai conosciuta molta. Sarebbe una campagna arretrata, per un paese arretrato.

il Riformista 14.3.09
Testamento biologico
Nel Pd c'è chi pensa sia cosa da «suffragette»
di Mario Ricciardi


L'incontro sul testamento biologico promosso da Libertà Eguale poteva essere un'occasione per fare il punto della situazione al termine del primo blocco di votazioni sulla legge, che sono in corso presso la commissione Sanità del Senato. In realtà, è stato più di questo. Dagli interventi è venuta fuori in controluce la diagnosi di una crisi ideale da cui non è chiaro se, e in che modo, il Partito democratico sia in condizione di uscire. Ma andiamo con ordine. In primo luogo i fatti più significativi. Sotto questa rubrica metterei certamente l'intervento di Anna Finocchiaro. Per la capogruppo del Pd al Senato quello che ormai si avvia a essere approvato è un testo «orrendo» che segna un arretramento rispetto all'art. 32 della Costituzione, finendo per vanificare la libertà di scelta in materia di trattamenti sanitari che costituisce una conquista della cultura liberale. Le riflessioni della Finocchiaro sono state la lucida e spietata ammissione di una sconfitta, resa ancora più bruciante dalla constatazione che l'idea che i cittadini dovrebbero avere l'ultima parola per quel che riguarda i trattamenti cui vengono sottoposti non è condivisa dalla gran parte dei parlamentari, e forse non è maggioritaria nel Paese. Dal testo in corso di approvazione viene fuori una concezione diversa, che vede nel medico il depositario di un potere di valutazione delle disposizioni anticipate che configura un "living wish" piuttosto che un "living will". La manifestazione di un auspicio, non l'esercizio di un diritto. Un giudizio del tutto negativo, quello espresso dalla Finocchiaro, che non trova ragioni di conforto nemmeno nel fatto, richiamato nel suo intervento da Stefano Ceccanti, che il testo approvato contiene modifiche rispetto a quello originariamente proposto da Calabrò, che aveva un'impostazione ancora più restrittiva, fino al punto di escludere completamente la libertà di scelta. Ceccanti ha osservato che il nuovo testo tutela la libertà di scelta dei pazienti coscienti, attraverso la disciplina del consenso informato. Un giudizio quindi che, al contrario di quello della Finocchiaro, vede la legge in corso di approvazione come un passo avanti rispetto alla proposta Calabrò.
Non c'è dubbio che, sulla base di una lettura del testo, le considerazioni di Ceccanti appaiano condivisibili. Tuttavia, una perplessità rimane, e porta a comprendere il pessimismo espresso dalla Finocchiaro e non smentito del tutto dallo stesso Ceccanti, che ha rilevato che l'impossibilità di disporre anticipatamente dell'alimentazione e dell'idratazione, e la mancata previsione di un vincolo di rispettare le disposizioni anticipate per la struttura sanitaria, sono probabilmente in contrasto con la Costituzione. Ciò che evidentemente non c'è nella legge è il riconoscimento di principio del diritto di ciascuno di disporre della propria vita, e di chiedere che essa non venga sostenuta artificialmente quando ciò sia contrario alla propria valutazione di ciò che vuol dire vivere - ma forse in questi casi si dovrebbe dire "sopravvivere" - in modo dignitoso. Un diritto che, è bene sottolinearlo, è compatibile con la previsione di strumenti di tutela dei soggetti deboli e di riconoscimento di un favore presuntivo nei confronti della vita che anche diversi liberali hanno invocato. L'art. 1 che sancisce l'indisponibilità - e non solo l'inviolabilità - della vita, e il 3, che esclude la possibilità che alimentazione e idratazione possano essere oggetto di disposizioni anticipate, non consentono equivoci a riguardo. Una volta approvata, la legge in discussione al Senato impedirebbe a ciascuno di noi di chiedere di non essere tenuto in vita indefinitamente in situazioni come quella in cui si è trovata per tanti anni Eluana Englaro. Su questo punto, l'arretramento di cui parla la Finocchiaro rispetto all'interpretazione della Costituzione proposta da due sentenze della magistratura c'è, e non credo si possa negarlo. Chi voleva dal Parlamento una sconfessione della giurisprudenza sul caso Englaro può ben dire ai suoi referenti d'oltre Tevere: «Missione compiuta».
Rimane aperta la questione di quale sia, e se ci sia, una posizione del Pd sul testamento biologico, e più in generale sulla libertà di scelta dei cittadini in materia di trattamenti sanitari, quando non ci siano in gioco considerazioni di salute pubblica. Evidentemente non quella della Finocchiaro. Ma allora quale? Dal tentativo di trovare un compromesso sul testo della legge viene fuori una concezione ancora paternalista della medicina e dei rapporti tra medico e paziente, che considera le rivendicazioni di libertà individuale come fastidiose stravaganze di "suffragette" - come ha detto un autorevole esponente del partito nel corso del dibattito. Forse i liberali devono rassegnarsi, ma sarebbe interessante sentire cosa ne pensa la nuova direzione del Pd.

Repubblica 14.3.09
Uniti alle europee Vendola, Sd e Ps Englaro testimonial


ROMA - Intesa a sinistra per presentarsi uniti alle europee. Sinistra democratica, Verdi, Partito socialista, Movimento per la sinistra e alcuni esponenti dell´ex Pdci saranno nella stessa lista unitaria che si chiamerà "Sinistra e libertà". Un cerchio per metà rosso e per l´altra metà bianco, con all´interno i simboli dei quattro partiti, sarà il logo. È piaciuto a tutti i leader, a Grazia Francescato, Claudio Fava, Nichi Vendola, Riccardo Nencini e a Umberto Guidoni e Katia Bellillo, ex Pdci ora di Unire la sinistra. Il simbolo sarà presentato lunedì, ma il patto è stato fatto. E avranno anche una sede comune e un portavoce. E come testimonial per i socialisti ci sarà Beppino Englaro, il papà di Eluana.
Vendola attacca il Pd: «Vogliamo rimettere in piedi la sinistra che non se la cavi con l´opposizione da talk show che si vede nel Pd». E su Franceschini: «È sicuramente più brillante del suo predecessore, Veltroni, non ci voleva un grandissimo sforzo. Il problema è che le proposte sembrano partire nella direzione giusta ma poi non colpiscono al cuore».

Corriere della Sera 14.3.09
Europee
Englaro testimonial di «Sinistra e libertà»
di A. Gar.


ROMA — Beppino Englaro, il papà di Eluana, sarà testimonial della lista per le elezioni europee «Sinistra e libertà», formata da Movimento per la sinistra (Vendola), Sinistra democratica (Fava e Mussi), Verdi, Partito Socialista e gli ex Pdci di Unire la Sinistra (Bellillo e Guidoni). Englaro ha aderito al Ps, non sarà candidato, ma prenderà parte alla manifestazione di presentazione di «Sinistra e libertà» il 21 marzo, a piazza Farnese.
Non nasce un partito, ma più di un cartello elettorale. Dopo le elezioni da qui si ripartirà per creare un partito di sinistra, laico ed ecologista. Il simbolo, rosso e verde, avrà in un cerchio le parole «Sinistra e libertà» e conterrà anche i segni dei Verdi, del Gue e del Pse, gruppi europei della sinistra e dei socialisti. Gli eletti di «Sinistra e libertà» (se si supera lo sbarramento del 4%) andranno infatti a collocarsi in tre diversi gruppi a Strasburgo.
Restano fuori dall'alleanza i radicali, che i socialisti avrebbero voluto al fianco, ma che Vendola ha bloccato. Marco Pannella però potrebbe entrare in lista senza il partito alle spalle. Fra i candidati dovrebbero esserci i leader e i deputati europei uscenti Musacchio (ex Prc) e Fassoni (Verdi), mentre sono ben avviati i contatti con nomi celebri, come Antonello Venditti, Margherita Hack, Mimmo Calopresti. A sinistra ci sarà anche la lista di Rifondazione comunista, con il Pdci di Diliberto e Sinistra critica di Franco Turigliatto. L'unica lista con falce e martello.

Liberazione 14.3.09
Dibattito con Bertinotti, Castellina e Tronti
Ex vendoliani nel Prc: critica all'identitarismo


Di come «stare» nel partito, di cosa fare subito dopo il voto, ne discuteranno stamattina. E già si sa che proporranno un congresso straordinario, dopo la tornata elettorale. Dove (re)immaginare le possibili forme di unità della sinistra. Questo farà quella parte di Rifondazione che a Chianciano votò la seconda mozione ma che ha scelto, a differenza di Vendola e di tanti altri, di restare nel partito di Ferrero e Grassi. Ma tutto ciò riguarda l'orizzonte dei prossimi mesi. Con un problema, però. Che oggi la sinistra deve misurarsi con questioni gigantesche e per molti versi inedite, oggi la sinistra deve fare i conti con un vuoto enorme: il suo. Una «terribile assenza», come è stato detto: non c'è sinistra davanti a questa crisi.
Ecco perché l'area della «Rifondazione della sinistra» del Prc prima di dar vita all'assemblea di stamattina ha voluto, ieri pomeriggio, confrontarsi con esponenti delle culture, dei movimenti che animano la sinistra.
Una sorta di seminario-assemblea che non ha prodotto conclusioni. Nel senso tradizionale della parola. Anzi, a voler fare i pignoli, ha riproposto quasi in ogni intervento una diversa prospettiva, una diversa spiegazione dei perché del fallimento della sinistra in questo avvio di millennio. L'unico elemento in più è la voglia - dichiarata da tutti, ma proprio da tutti tutti - di cercare lo spazio, le sedi per avviare una ricerca comune. Fatta insieme.
Scorrendo gli appunti della giornata, in realtà, viene fuori un altro elemento che accomuna gran parte dei partecipanti alla tavola rotonda: una critica, dura, profonda, quasi spietata, alle forme tradizionali in cui si è organizzata la sinistra. Al suo attaccamento ai simboli, a tutto ciò che antepone l'«identità» alla ricerca di soluzioni nuove.
Si parte comunque dalla crisi. Stefano Zuccherini - che, detto per inciso, comincia con un'«autocritica»: troppo poco hanno fatti tutti, compresa quest'area, per arrivare ad una lista unitaria per le europee - parte da un dato: la previsione degli organismi internazionali secondo i quali la crisi, fra i suoi effetti, avrà anche quello di far crescere la mortalità infantile. Da un milione e mezzo a tre milioni di bambini in più. Parte da qui, per denunciare come la crisi finanziaria porti con sè i rischi di una crisi di civiltà, di democrazia. E spiega come, nel nostro paese, tutto sia funzionale al progetto delle imprese: uscire dal tunnel, liquidando definitivamente tutto ciò che resta di conquiste del lavoro.
Di conquiste del lavoro. Ma anche di conquiste in termini di diritti individuali. Vogliono uscire dalla crisi liquidando tutto ciò che hanno prodotto i pensieri critici nei decenni scorsi. E il tutto, aggiunge Bianca Pomaranzi, esponente dei movimenti femministi e pacifisti, nella completa abulia della sinistra. Lei, anche lei, è convinta della necessità di arrivare a disegnare un nuovo soggetto politico. Lei, anche lei, è convinta che la prospettiva di una sinistra radicale, di massa capace però di leggere la contemporaneità, sia uscita sconfitta dagli «orribili congressi dell'estate scorsa». E ora si augura solo che «passi la nuttata».
Già, ma come? Luciana Castellina crede che sia necessaria una nuova idea forza: e la intravede in un nuovo modello economico. Che ripensi il rapporto fra uomo e natura. E incalza: la Cgil, l'ultimo baluardo di opposizione, ha presentato pochi giorni fa, un progetto di lavoro scritto assieme alla Legambiente. A discuterne non c'era però un dirigente della sinistra che fosse uno, pronti invece a farsi i loro bei convegni di partito sull'argomento. Anche Mario Tronti, il filosofo dell'operaismo, un'idea ce l'ha. In pillole: cogliere le potenzialità della crisi. Innanzitutto lui teme che ad un comportamento sbagliato di sottovalutazione della crisi ne corrisponda uno analogo. Ugualmente errato: la sua enfatizzazione. «Dobbiamo pensare che il nostro obiettivo è il superamento di quest'ordine e quindi non spaventarci del disordine». Tronti è convinto anche che - ironia della sorte - questa crisi riconsegni alcuni degli elementi del '900: il ruolo dello Stato, il ruolo della politica. E quindi il ruolo della sinistra.
E' un'analisi esatta? Fausto Bertinotti la pensa esattamente al contrario. Crede che la sconfitta della sinistra non abbia motivi contingenti, meglio: non solo motivi contingenti, ma venga proprio da lì: dal '900. Ma tutto ciò può e deve essere approfondito insieme. Come? Bertinotti propone tre cose da fare. Subito. Stare nelle lotte: che non vuol dire partecipare ai cortei o dare solidarietà. Significa andare a capire perché i movimenti sociali di questi mesi scelgano l'«indipendenza» dalla politica. Significa stare nei movimenti. Secondo: varare un piano per il lavoro. Terzo: andare alla ricerca delle origini della crisi. E scoprire che il dramma di questo periodo non è un frutto accidentale del liberismo. E' la sua essenza. Comprenderlo, significherebbe già aver ridisegnato la sinistra. O almeno aver fatto tanta parte di quel lavoro.

il manifesto 14.3.09
Paolo Ferrero è on line.
Le risposte ai nostri lettori
di Iaia Vantaggiato


L'argomento riguardava Dario Franceschini e la sua proposta di tassare, una tantum, i redditi più alti. Ma nel mirino è finito soprattutto Paolo Ferrero. Molti dei post inviati a commento del nostro articolo sulla proposta Franceschini, infatti, se la sono presa con il segretario del Prc e con le critiche da lui rivolte al collega segretario del Pd. Per l'occasione, gli internauti del “manifesto”, hanno coniato un brillante neologismo - “benaltrismo” - per definire l'abitudine a disprezzare ogni piccolo passo impugnando la necessità di fare molto di più: “ben altro”, appunto. Inevitabile, dunque, chiedere anche al leader del Prc, oltre che a quello del Pd, di rispondere direttamente alle critiche. Ferrero ha risposto subito. Fanceschini è titubante, ma lo attendiamo fiduciosi.
Cosa risponde Paolo Ferrero a Roberto Grienti, che per criticare Ferrero risale addirittura al Lenin secondo cui “tutto ciò che riusciamo a strappare alla borghesia lo pigliamo come acconto di quanto ci è dovuto”? A mettere in discussione Lenin, il segretario di Rifondazione comunista non ci pensa neppure. Però precisa: “L'elemosina è meglio di un calcio nello stomaco ma la pesantezza della crisi è tale che, se anche una proposta di questo tipo fosse realizzata, avrebbe effetti limitati. All'origine della crisi c'è la cattiva distribuzione del reddito.Per uscirne è necessario proporre misure continuative e non la solita 'una tantum'. Essere solidali con i più poveri non basta”.
Ma sul leader rifondatore piovono accuse ben più pesanti, prima fra tutte quella di essere stato succube di Padoa Schioppa e “della scellerata politica antipopolare del governo Prodi”. La risposta, qui, è immediata: “Ho sempre contrastato le politiche di liberismo moderato del governo, tant'è che non ho votato il Dpf , nemmeno quello del 2006. Ma ci tengo anche a sottolineare che non è vero che Rifondazione, come dice qualcuno, si è pronunciata contro il salario sociale ai disoccupati. Al contrario: l'abbiamo riproposto. E tuttavia, almeno in parte, condivido la provocazione implicita nell'accusa: la nostra partecipazione al governo Prodi è stata fallimentare proprio perché non siamo riusciti a far rispettare il programma e dunque a ottenere risultati concreti”.
Fede (si firma così) giura di “non capire” Ferrero: “Non gli è bastata la batosta elettorale? Devono sempre rilanciare perchè loro sono 'veramente' di sinistra? Questo è il modo per ricevere il massimo consenso con una richiesta popolare ma non troppo onerosa. Ma a noi di sinistra ci fa veramente schifo vincere?”. “Ma Berlusconi – risponde Ferrero - ha fatto il contrario”. Il contrario? “Certo, ha fatto cose molto più radicali, dalla legge 30 al federalismo alla demolizione del contratto nazionale di lavoro. Berlusconi si muove in modo più radicale e, sul terreno minimalista, vince perché non c'è differenza tra la proposta di Franceschini e la 'social card', neanche dal punto di vista quantitativo. Lo voglio ripetere: sulla gestione minimalista della crisi vince Berlusconi perché è il più radicale. Quanto alla batosta elettorale, secondo me è derivata dal non essere riusciti a portare a casa nulla nei venti mesi del governo Prodi”.
Sia chiaro, c'è anche chi, come Ida, concorda con la tesi di fondo del segretario di Rifondazione: “Anch'io sono convinta, come Ferrero, che sono indispensabili riforme strutturali”. Però, aggiunge, “ci sta cadendo addosso qualcosa di talmente grande e spaventoso che qualunque misura va bene. Quella di Franceschini “in fondo è una proposta che toglie ai ricchi per dare ai poveri”. Insomma, come commentava Alberto Piccinini, sulle pagine del manifesto di oggi, “E' finito il tempo del benaltrismo”. Benaltrismo? E che vuol dire? Lo spiega, tra gli altri, Guido: “Bravo Ferrero, continua così, 'il problema è un altro', bisogna sempre sentirsi più a sinistra degli altri, oltre, nel blu dipinto di blu”. Ma Ferrero si sente almeno un po' 'benaltrista'? Proprio no: “Io penso solo che bisogna porre in modo radicale il tema della redistribuzione del reddito, magari ottenendo risultati limitati ma avendo sempre chiara la grandezza del problema. Questo voi lo chiamate 'benaltrismo'?” Scusi segretario, ma per una volta siamo innocenti: il termine l'hanno coniato i nostri lettori.
Neologismi a parte, c'è davvero una differenza rilevante tra quel che fa la Rifondazione di Ferrero e la proposta del segretario piddino? In fondo, chiede Adolfo Miglio, “cosa voleva fare lui di diverso con la vendita del pane ad un prezzo politico?” . “In quell'iniziativa – risponde il segretario di Rifondazione comunista – giocava un principio di organizzazione popolare di tipo mutualistico. Il mutualismo sta assieme e non al posto delle lotte radicali per il reddito e per il potere. Se domani la proposta di Franceschini venisse approvata ci troveremmo di fronte a un fatto positivo e non negativo. Però sempre di elemosina si tratta, perché dietro quella proposta manca una piattaforma di redistribuzione strutturale del reddito. Per amore di cronaca vorrei, inoltre, aggiungere che anche noi proponemmo la tassazione delle rendite finanziarie. Un provvedimento che il governo Prodi aveva approvato, ma che proprio Franceschini bloccò in aula quando era capogruppo del Pd”.
Non sarà che Ferrero teme – come scrive Gianni 46 – che il Pd diventi di sinistra? Macché: “Io spero che il Pd diventi di sinistra e che, ad esempio, appoggi la Cgil per difendere il contratto nazionale di lavoro che vale un po' di piu di 500 milioni di euro”.
L'ultima provocazione arriva da Carlo M. : “Ferrero è contrario alla proposta? Che dire? Anche Berlusconi è contrario. Del resto Ferrero era quello che da ministro manifestava contro il proprio governo...”. A provocazione secca, risposta secca: “Non ho mai manifestato contro il governo. A differenza di Mastella e di Fioroni. Resto tuttavia convinto che se durante quel governo ci fossero stati più scioperi e più manifestazioni sindacali forse sarebbe andata meglio”.
La parola, se vuole, a Franceschini.

Corriere della Sera 14.3.09
Centrodestra Irritazione in An per le critiche «azzurre» al presidente della Camera
Attacchi a Fini sul sito di Forza Italia «Silvio scaricalo, sta dall'altra parte»
A giorni lo statuto del Pdl, via il nome del leader dal simbolo
di Lorenzo Fuccaro


Il congresso sceglierà la Direzione (80 componenti) Ufficio di presidenza con Berlusconi, i coordinatori, i capigruppo e i loro vice
ROMA — Attacchi a Gianfranco Fini sul sito di Forza Italia. Aprendo la pagina «Spazio Azzurro » ci si imbatte subito in una sequenza di inviti, minacce, suggerimenti rivolti al Cavaliere affinché scarichi il presidente della Camera. Parole che rappresentano lo stato d'animo di quel mondo alla vigilia della nascita ufficiale del Pdl. Eccone alcuni, tra i più significativi. «Presidente Berlusconi — scrive Franz — Fini è peggio di Follini. Se sfortuna vuole che un giorno questo signore diventerà leader del Pdl voterò Diliberto». «Ma Fini — si domanda Gabriella — da che parte sta? Se continua così tornerà al suo angolino nascosto a destra e la smetterà di fare il bastian contrario solo per farsi notare! Ci pensi bene». «Vorrei ricordare al signor Fini — scrive Ivonne — che se ora può permettersi di fare dei distinguo lo deve solo allo sdoganamento che fece di lui Berlusconi alle Comunali di Roma». E ancora. «Ma Fini — si interroga Emilio — da che parte sta? Quando c'è da scegliere è sempre dalla parte dei cattocomunisti. Non è ora che se ne vada dall'altra parte che forse gli è più congeniale». Un altro navigatore che si firma Destini obietta: «Nascono DelFini... muoiono tonni». Giovanni gli suggerisce di cambiare casacca: «Meglio Silvio! Fini è giusto che guidi il Partito democratico, mi sembra che le sue idee possano coincidere perfettamente». «So che Fini a
Porta a Porta ha spiegato i suoi distinguo da Berlusconi — scrive un ex dirigente di An — non ha capito che il 90 per cento dei votanti di An ora è con Berlusconi, lui è amato dai sinistri, vada con loro». Ed Enrico D'Urso aggiunge: «Fini bisogna cancellarlo dal nuovo partito, io non capisco come si possa stare dentro il Pdl senza accettare che le idee e le decisioni vengono da uno solo: Silvio!». E Mauro esorta: «Qualcuno dica al signor Fini che non è bello azzannare la mano di chi ti ha dato il cibo. Fini è alla Camera per merito del Pdl e dei suoi elettori, che li rispetti». «Basta — tuona Alan — Fini sta esagerando. Vada con i suoi simili che sono quelli di sinistra. Una volta il suo motto era: Dio, Patria, Famiglia. Ora invece: sono ateo». Sintetizza un elettore del Pdl: «Casini è già stato sistemato... è ora di sistemare Fini. Non è necessario un altro commento. Silvio sbrigati». A tutti replica Casi: «Grande Fini, un politico maturo, serio un professionista preparato che ha sviluppato il suo pensiero come solo una persona di profonda cultura può fare». E uno che si firma "cielostellato" invita a guardare altrove: «Io non mi preoccuperei di Fini. Più che altro mi spaventa il Senatur che va a pranzo con Franceschini. Che stiano pensando di allearsi?».
Mentre il mondo del web si interroga, procedono i lavori in vista del congresso che il prossimo 27 marzo darà il via ufficiale al Pdl, con la confluenza di An e Forza Italia. In quella sede sarà approvato lo statuto che ha avuto diverse stesure e ora pare sia giunto a quella finale. Sempre il congresso sceglierà la Direzione (si parla di un'ottantina di componenti), poi sarà eletto l'ufficio di presidenza formato dal presidente Berlusconi, dai tre coordinatori (Bondi, La Russa e Verdini) e dai quattro capigruppo di Camera e Senato (rispettivamente Cicchitto e Bocchino, e Gasparri e Quagliariello). Rispetto al simbolo attuale (che non cambierà) la novità principale è che dal logo, secondo alcune indiscrezioni, scomparirà la scritta «Berlusconi presidente».

il Riformista 14.3.09
Io, sessantottino
Come si sta a dar ragione a Fini
di Piero Sansonetti


Nel 1968 avevo 17 anni e facevo quello che facevano tutti i ragazzi assennati, di diciassette anni, nel sessantotto: il sessantottino. L'anno dopo, a 18 anni, andai davanti ad alcune sale cinematografiche a fare i picchetti per impedire che la gente entrasse a vedere un orrido film con John Wayne, "Berretti verdi". Era un film sulla guerra del Vietnam nel quale gli aggressori americani erano dipinti come eroi, e i vietcong come belve. Unico - forse - film reazionario di successo partorito da Hollywood in quella stagione (che io ricordo come meravigliosa stagione politica e culturale). Raccontano le cronache che un ragazzo destinato a diventare assai più importante di me, e che aveva giusto un anno meno di me, in quello stesso 1969 cercò di andare a vedere il film "Berretti verdi", perché gli piacevano i film di guerra e gli piaceva John Wayne. Ma all'ingresso del cinema fu respinto dai picchetti dei ragazzi sessantottini, e allora si infuriò, e per la gran rabbia, lui che non si era mai occupato di politica, diventò fascista. Si iscrisse al Msi di Almirante, e poi alla Giovane Italia (organizzazione giovanile del Msi) e un po' dopo fu nominato capo del Fronte della Gioventù, sigla che aveva preso il posto della Giovane Italia e raggruppava ragazzi molto agguerriti e abbastanza maneschi.
Quel ragazzo, lo avete già capito, si chiamava Gianfranco Fini. In quegli anni si trasferì a Roma e si dice che frequentasse soprattutto la sede del Fronte della Gioventù di via Sommacampagna, vicina alla stazione Termini, e la sede del Msi di via Livorno, vicina a piazza Bologna. Mi ricordo perfettamente che in quel periodo giravo molto per Roma, e c'erano due soli luoghi della città dai quali mi tenevo alla larga: via Sommacampagna e via Livorno. Avevo paura di passare in quelle strade: avevo paura dei fascisti. E odiavo i fascisti.
Essendo un coetaneo di Fini, per anni e anni l'ho considerato il simbolo di tutto quello che era l'opposto da me. Opposto nei valori, nei principi, nelle idee, negli stili di vita, nei gusti culturali, nella moralità. Mi dava persino fastidio - negli anni 90 - sentire che Fini fosse considerato un giovane intelligente, molto saggio, originale, mentre per me lui era solo l'allievo di Almirante, lo squallido allievo di Almirante, e non concepivo nemmeno l'idea che un allievo di Almirante potesse essere qualcosa di diverso da uno squadrista in carriera.
Ho scritto tutto questo per raccontarvi dello stupore e dell'angoscia che mi prendono oggi, quando seguendo le giornate politiche - le dichiarazioni, le grida, le interviste - mi accorgo che l'unico a provocare la mia istintiva approvazione è Gianfranco Fini. Mi capita di sentire un fremito, quasi di amicizia, quasi di simpatia verso di lui, che da solo - senza alleati, sfidando il vituperio dell'opinione pubblica di destra - supplisce alle assenze mostruose dell'opposizione e della sinistra e tuona contro la Chiesa sul caso Englaro, o contro i razzisti sul caso Caffarella, o a difesa del Parlamento contro il centrodestra. L'altro giorno Fini è tornato all'attacco, contro la Lega, opponendosi a quell'emendamento al decreto-sicurezza che trasforma i medici in "spioni" e li invita a denunciare i clandestini ammalati. Ha detto che è una idea che confligge con l'etica e viola la moralità dei medici.
Non credo di essere l'unica persona di sinistra che si trova in questa curiosa situazione. Spesso, però, quando esprimo - pubblicamente o privatamente - frasi di apprezzamento per il presidente della Camera, mi si risponde osservando che probabilmente Fini si comporta in questo modo per un machiavellico disegno personale che non si sa bene quale sia. A parte il fatto che se ogni volta che un politico si schiera devo andare a cercare quale sia il disegno personale che c'è dietro, smetto di occuparmi di politica e passo alla Settimana enigmistica. Ma poi qualcuno mi deve spiegare una cosa: quale disegno personale, per un leader di destra, può passare attraverso lo scontro col potere gigantesco del Vaticano. Conoscete qualche leader di destra che sia mai andato in rotta di collisione col Vaticano? (E conoscete molti leader di sinistra che lo abbiano fatto?).
Fini in questi ultimi due anni ha dimostrato un enorme coraggio politico, e nessun altro leader di primo piano ha fatto altrettanto, e per questo - mio malgrado e a malincuore - gliene sono abbastanza grato.
P.S. Sono sicuro che se oggi proiettassero di nuovo, in una sala di Roma, "Berretti verdi", io non andrei più a picchettare, ma Fini, dopo averlo visto, commenterebbe: che schifezza di film!

Repubblica 14.3.09
Bertone: "Il Papa non è solo" ma ora scoppia il caso Brasile
Aborto, dietrofront dei vescovi: "Scomunica atto brutale"
Sulla vicenda della bimba violentata a Recife, in rivolta anche la Chiesa francese
di Marco Politi


CITTÀ DEL VATICANO - «Il Papa non è solo». Di prima mattina il cardinale Segretario di Stato Bertone lancia la parola d´ordine e nel corso della giornata arriva l´ondata delle manifestazioni di solidarietà. Cento vescovi partecipanti a un convegno sulla comunicazione ecclesiale, che si svolge a Roma, scrivono una lettera a Ratzinger per manifestargli «vicinanza, fiducia e fedeltà». Giovedì sera si erano già fatti vivi il cardinal Vicario della diocesi romana Vallini e la presidenza della Cei. Ieri si sono susseguite le attestazioni solidali dei vescovi francesi, belgi, tedeschi, austriaci, svizzeri e inglesi. Ma certe puntualizzazioni rivelano che c´è tensione nel rapporto tra papato ed episcopati del mondo.
Il malessere esplode a sorpresa con nuovi colpi di scena in Brasile e in Francia. Il portavoce della conferenza episcopale brasiliana ha sconfessato il vescovo di Recife, mons. Sobrinho, che aveva scomunicato la madre di una bimba stuprata e poi fatta abortire. Un conflitto tra vescovi mai visto. Dimas Laras Barbosa, portavoce dell´episcopato del Brasile, ha dichiarato che la madre non può essere colpita dalla scomunica in quanto ha agito «sotto pressione» e con l´intento di salvare la vita alla figlia. Contemporaneamente dalla Francia si sono levate pubblicamente voci di vescovi contro il vescovo scomunicatore di Recife e anche contro il cardinale Re, prefetto della Congregazione vaticana per i Vescovi, che lo aveva sostenuto. Parecchi presuli francesi hanno lamentato la severità e la «brutalità inaccettabile della scomunica». Più indignato di tutti, il vescovo di Nanterre mons. Daucourt ha scritto al vescovo di Recife e al cardinale Re: «Io so che in questa tragedia avete aggiunto del dolore al dolore, avete provocato della sofferenza e dello scandalo presso molte persone in tutto il mondo». I vescovi, sottolinea Daucourt, devono anzitutto «manifestare la bontà di Gesù Cristo il solo vero Buon Pastore».
In un clima così eccitato il Segretario di Stato Bertone chiama a fare quadrato intorno a Benedetto XVI. I collaboratori di Curia, ha affermato, «sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente uniti a lui a partire dai capi di dicastero e dal segretario di Stato». Bertone ha lodato la «comunione di tanti vescovi del mondo», criticando poi «qualche voce stonata, forse dovuta proprio a mancanza di fiducia nel Papa e nelle decisioni che compie». Ma le voci fuori dal coro sono di episcopati e ieri dalle conferenze episcopali europee negli attestati di fedeltà al papa si sono udite anche precisazioni che pesano. In Germania mons. Zoellitsch ha specificato che la lettera del pontefice segnala che il «Papa desidera entrare in colloquio con i vescovi». In Francia mons. Vingt-Trois rimarca che tra pontefice e vescovi è giusto vi siano «scambi sostanziali e ricchi». In Austria i vescovi rammentano che oltre al dolore del Papa vi è quello «provato da molte Chiese locali e da persone al di fuori della Chiesa». In Svizzera mons. Grampa elogia lo stile di «umiltà e fraternità del Santo Padre», chiedendo che lo stesso stile «possa entrare nel governo ordinario della Chiesa».
Nota sconsolato il cardinale Ruini, dalle pagine dell´Osservatore Romano, che si è indebolito il senso di appartenenza ecclesiale e che nella vicenda si è rivelato il «gusto amaro di cogliere in fallo l´avversario». E ancor più: «In molte parole, gesti o silenzi» intorno al pontefice è affiorata un´ostilità interna alla Chiesa.

Corriere della Sera 14.3.09
Benedetto XVI e la lettera ai vescovi
Sfidato dalla storia
di Ernesto Galli Della Loggia


Questo universo cattolico si è diviso in due tronconi: i cauti e i radicali, che da 40 anni si combattono
Il Pontefice ha una sola arma per superare l'ostilità del partito cattolico che gli si oppone

Per il suo carattere eccezionale e per le parole che contiene la lettera di Benedetto XVI ai vescovi cattolici dice molto di più delle personali ambasce di un Papa il quale, a proposito del caso Williamson, si è visto attaccato e insidiato anche dai suoi, e che vede, in generale, come anche nella Chiesa — nella stessa Curia, ha fatto capire il direttore dell'Osservatore
romano — «ci si morde e ci si divora».
La lettera e il suo contenuto tradiscono sentimenti di sconcerto e di disappunto che lasciano intravedere qualcosa di ben più importante, in realtà: e cioè una complessiva difficoltà di direzione che oggi grava sugli stessi vertici della Chiesa.
Da molti sintomi sembra, in effetti, che stiano venendo al pettine alcune contraddizioni accumulatesi nell'ultimo mezzo secolo intorno al ruolo del papato via via che questo ha conosciuto una profonda trasformazione storica. Tale trasformazione ha avuto due aspetti principali con i quali la figura del Pontefice ha dovuto fare i conti: l'avvento della televisione e il Concilio. L'avvento della televisione ha voluto dire la virtuale trasformazione del Papa da capo della Chiesa di Roma in una figura della scena mondiale quotidianamente alle prese con l'opinione pubblica planetaria, per lo più non cattolica e neppure cristiana. Alle prese cioè con i media, che di tale opinione sono i servi-padroni. Giovanni XXIII, eletto alla fine degli Anni 50, cioè in coincidenza con la piena diffusione planetaria della Tv, è stato il primo Pontefice che ha potuto godere dell'indubbia opportunità offerta da questo cambiamento: diventare di fatto un leader etico-carismatico universale, in certo senso meta-religioso (il papa «buono», quasi che i predecessori fossero «cattivi»: ma in certo senso così essi venivano fatti indirettamente apparire dalla potenza dei media, e di fatto così divenivano).
Ma naturalmente questa intrinsichezza con l'opinione pubblica mondiale e con i media rappresenta per il Pontefice un vincolo non da poco. Specialmente perché è un vincolo che non ha sostanzialmente alcuna natura religiosa (neppure spirituale, forse), e però esso influenza non poco la popolarità del Papa nello stesso mondo cattolico, alle cui divergenze interne i media mondiali, tra l'altro, non mancano mai di offrirsi puntualmente come sponda interessata, quasi sempre, tra l'altro, definendo e enfatizzando quelle divergenze nel modo ideologicamente più banale. Il Papa rischia così di divenire prigioniero da un lato dell'obbligo del carisma, dell'obbligo di «venire bene» in tv, di avere una congrua propensione scenica, di essere «simpatico », dall'altro dell'obbligo del politicamente corretto da cui il conformismo mediatico fa dipendere di solito il proprio consenso. Insomma una specie di Dalai Lama con i paramenti pontificali.
La seconda trasformazione gravida di tensioni l'ha arrecata, al ruolo istituzionale del papato, il Vaticano II. In pratica, infatti, il Concilio ha voluto dire la nascita dei partiti all'interno della Chiesa. Intendiamoci, nella Curia ci sono sempre stati dei «partiti»: ma nella Curia, appunto, ai vertici dell'organizzazione e con tutta la felpata cautela del caso, non tra i fedeli, non nell'universo cattolico in generale.
Con il Vaticano II, e intorno ad esso, intorno ai suoi dettami e al suo «spirito », invece, questo universo cattolico si è diviso in due grandi tronconi: i cauti e i radicali. I quali da quarant'anni si combattono apertamente e incessantemente, ognuno avendo i propri capi e rappresentanti più o meno autentici e più o meno interessati dentro la Curia. I cui «partiti» in questo modo, però, potendo contare su un effettivo retroterra diciamo così di «seguaci», sono diventati ben più battaglieri, e quindi ben più riottosi e insidiosi, che nel passato.
Fino al punto, a quel che si capisce, di opporsi apertamente o di boicottare dietro le quinte la stessa autorità del Papa quando questi appartiene per caso al partito avverso.
E' a questo punto che si configura in pieno la contraddittoria situazione che la storia ha creato. Il Pontefice in realtà ha oggi una sola arma per superare l'ostilità del partito cattolico che gli si oppone, per affermare nel suo stesso regno la propria indiscutibile autorità di sovrano assoluto: l'arma dell'appeal carismatico-mediatico, del consenso metareligioso della platea mondiale, del gesto e della parola che bucano lo schermo della Cnn, che arrivano sulla prima pagina del New York Times. Ma per farlo egli rischia di perdere un tratto essenziale del retaggio che si accompagna storicamente al suo ruolo: l'indipendenza spirituale. Quell'indipendenza che non garantisce certo dagli errori, anche dai più riprovevoli, per carità, ma che almeno serve a tenere sempre aperta la possibilità di dare voce a qualcosa di diverso dai comandi del secolo. Una cosa sembra certa: nella ricerca di una difficile via che possa conservare la libertà della Monarchia assoluta tra i partiti da un lato e l'opinione pubblica mediatico-mondiale dall'altro, tra queste due tipiche creature della modernità, Benedetto XVI appare dolorosamente, irrevocabilmente solo.

Repubblica 14.3.09
X-Phi, filosofi del domani nella caverna del nuovo pensiero
Il fenomeno dell´ "experimental philosophy"
di Massimiliano Panarari


Nata in Inghilterra considera il dato empirico non un sostegno alla teoria ma il suo stesso fondamento
Una tendenza che combina la riflessione con esperimenti sondaggi e questionari
In controtendenza rispetto all´analisi tradizionale,sceglie di esprimersi sui blog e internet
Studia attraverso le neuroscienze l´attività mentale alle prese con problemi concettuali

Suona un po´ come X Files, ma non è esattamente la stessa cosa, anche se il metodo scientifico rivendicato con forza dall´agente Dana Scully, tutto sommato, potrebbe trovarvi agevolmente il suo posto.
X-Phi è l´acronimo che designa la experimental philosophy, una tendenza filosofica molto giovane, che si è fatta largo nella cultura anglosassone e che combina la dimensione della riflessione e dell´elaborazione concettuale con una serie di esperimenti pratici e di ricerche quantitative condotte mediante sondaggi e questionari. A rilanciare il dibattito sulla X-Phi, presentata come la corrente più trendy della filosofia contemporanea, è, tra gli altri, un lungo articolo dei filosofi David Edmonds e Nigel Warburton apparso sul numero di marzo di Prospect, la prestigiosa rivista politico-culturale londinese, in cui gli autori prendono le mosse dai test di una neurobiologa tedesca, Katja Wiech, che ha dimostrato come la somministrazione di scariche elettriche a cattolici osservanti in atto di contemplare un´immagine della Madonna risulti meno dolorosa di quanto accade nel caso di un ateo o di un agnostico. Esiti sperimentali su cui la giovane scienziata si è confrontata successivamente con un gruppo di pensatori convinti che il dato empirico non fornisca un semplice sostegno alla filosofia, ma sia, in qualche modo, il fondamento stesso del fare filosofia.
La X-Phi si colloca così nettamente in controtendenza rispetto all´egemonia, sinora incontrastata, esercitata dall´analisi concettuale, e si scontra, quindi, con la tradizione di filosofia analitica dominante nel mondo anglosassone. Ragion per cui si esprime molto attraverso blog e siti (oltre che libri), e viene avversata o liquidata malamente da vari mostri sacri del pensiero angloamericano, suscitando, invece, entusiasmi tra i filosofi più giovani e alimentando una polemica culturale dove anche l´anagrafe gioca la sua parte. Anche se, a onor del vero, pure una star del livello del filosofo del "cosmopolitismo" (e molto altro) Kwame Anthony Appiah mostra parecchio interesse, dopo avere pubblicato un libro di "esperimenti di etica", ed essendosi spinto a definirla sul New York Times come la "nuova nuova filosofia". La filosofia sperimentale vanta una "scuola" molto dinamica che conta tra i suoi esponenti di punta Joshua Knobe, Shaun Nichols, Neill Levy, al lavoro tra Princeton e Oxford, figure, di cui si parlerà sempre più, che si muovono nei tre ambiti fondamentali, chiaramente interdisciplinari, che ne compongono lo scenario attuale. Ovvero, lo studio, mediante le tecnologie a disposizione delle neuroscienze, dell´attività mentale che si sviluppa quando gli individui si trovano alle prese con un problema di natura filosofica; l´utilizzo, uscendo dalle aule e dagli uffici universitari, di questionari per comprendere le intuizioni e le modalità di ragionamento nella vita quotidiana; e, infine, gli "esperimenti sul campo", con l´osservazione dei comportamenti e delle reazioni a specifiche situazioni da parte di un individuo, osservato a sua insaputa.
Tutto molto anglosassone, per l´appunto. E in Italia? Queste tematiche ricevono una certa attenzione da parte di Res cogitans (www.rescogitans.it), "sito di filosofia applicata" dedicato a Marco Mondadori, che annovera tra i suoi collaboratori Telmo Pievani, Maurizio Ferraris, Mario De Caro e Nicla Vassallo. A dirigerlo è Simona Morini, docente di Teoria delle decisioni razionali e dei giochi allo Iuav di Venezia (e autrice, con Pietro Perconti, di Email filosofiche, edito da Cortina), che nota come la X-Phi rappresenti «una sorta di interessante ritorno al passato, alla filosofia morale e alla tradizione del Sei-Settecento. Basti pensare, infatti, che il famosissimo Trattato sulla natura umana di David Hume aveva come sottotitolo: Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali. Dunque, vari sono gli aspetti positivi: da un lato, i filosofi ricominciano a fare scienza (superando lo specialismo introdotto nell´Ottocento) e, dall´altro, tornano a occuparsi di fatti reali, soprattutto in Italia dove la produzione filosofica negli ultimi tempi è stata orientata per lo più verso l´ermeneutica e la storia. Questi esperimenti, inoltre, tornano al senso comune, ma confutano anche i luoghi comuni. E sprovincializzano la disciplina, attribuendole una dimensione veramente mondiale, mostrandoci, per esempio, come la filosofia del linguaggio contemporanea risulti molto collegata alle lingue occidentali. Naturalmente, ci sono anche i limiti: gli scienziati si rivelano oggi ancora piuttosto deboli sotto il profilo filosofico, e viceversa. Come diceva Robert Hooke: "La vera filosofia inizia dalle mani e dagli occhi, ma deve procedere con la memoria e continuare con la ragione". È così che dovrebbe accadere, tornando davvero all´idea del filosofo naturale seicentesco». E, quindi, se son rose (filosofiche), magari fioriranno anche in Italia�

Repubblica 14.3.09
Due tradizioni a confronto
Se il modello britannico batte l’Europa continentale


Attaccata alle proprie tradizioni come una cozza al suo scoglio, la filosofia continentale ha mostrato finora scarsa propensione al rinnovamento. Sta iscritto nel suo codice genetico storicista.
Eppure, qualcosa si sta muovendo. Proprio in seno alla filosofia britannica, fermentano irregolarità e provocazioni che infrangono i canoni tradizionali. È la New British Philosophy, recita il titolo di un libro che raccoglie le voci dei «nuovi filosofi» inglesi. Alcuni, come Ray Monk, Stephen Mulhall e Aaron Ridley, tutti del Center of Post-Analitic Philosophy di Southampton, cercano di capire quale sarà il futuro paradigma, dopo analitici e continentali. «La filosofia dovrà impegnarsi in problemi concreti», sostiene da Edinburgo la femminista Rae Langton, e si applica coerentemente alla comprensione di fenomeno di cui tutti fanno uso ma nessuno sa cos´è: la pornografia. Altri, come Simon Critchley, che da Essex è passato a dirigere la New School di New York, propone nel suo Libro dei filosofi morti una divertente versione moderna � si fa per dire � dell´antica meditatio mortis. Intanto, nelle vecchie roccaforti continentali, francesi e tedesche, si soffre per il vuoto lasciato dalla scomparsa dei maîtres-à-penser. È ancora possibile riempirlo con un grande gesto di sintesi? Ci hanno provato Marcel Gauchet e, passando a Oriente, François Jullien. E soprattutto Peter Sloterdijk, prima con una Critica della ragione cinica, poi con la trilogia Sfere, una vera e propria filosofia della globalizzazione. Ma oggi � si chiede la più diffusa rivista tedesca di filosofia � il vero Meisterdenker non è forse il controverso e richiestissimo Giorgio Agamben? È la riprova, ha commentato un lettore, che in filosofia il metodo migliore per avanzare è girare sempre intorno allo stesso punto.

Repubblica 14.3.09
Il furto e la sua storia
Un saggio dello storico Paolo Prodi
di Adriano Prosperi


"Settimo: non rubare" ribalta l´idea che la Chiesa medievale sia stata avversa al mercato e indaga le leggi e le predicazioni contro il ladrocinio
La necessità di mettere d´accordo il settimo comandamento col crescente benessere
Un modello di ricerca che punti a capire il presente partendo da distanze lontane

La violenza e il disordine dei mercati finanziari riempiono oggi le cronache di tutto il mondo di storie di truffe gigantesche, arricchimenti smisurati di pochi e miseria di molti. È difficile immaginare che tutto questo abbia un rapporto con lo spirito evangelico e con le virtù cristiane. Eppure da quando Max Weber propose nel 1905 la sua celebre tesi di un nesso fra l´etica protestante e lo spirito del capitalismo non c´è questione storica più dibattuta di questa. Il problema nei suoi termini più semplici è quello di capire perché proprio in Europa abbia avuto origine la rivoluzionaria espansione del sistema capitalistico destinata a rompere le catene che avevano fino ad allora legato le energie prometeiche della specie umana. La proposta di Weber suscitò uno straordinario interesse perché spostava la questione dal capitale di cui aveva parlato Marx allo spirito capitalistico, cioè sul terreno della cultura e della religione. Ma quale religione? E perché proprio il calvinismo? Nel 1934 un giovane professore dell´Università Cattolica destinato a un grande futuro politico, Amintore Fanfani, candidò il cattolicesimo a vero padre del capitalismo. Poi gli studi si sono spostati sull´etica economica medievale.
Oggi l´intera questione è riproposta in termini nuovi nell´ultimo libro di Paolo Prodi: Settimo: non rubare. Furto e mercato nella storia dell´Occidente (Il Mulino, pagg. 396, euro 29). Il comandamento biblico dà il titolo a una ricerca di grande respiro e di robusta costruzione che abbraccia l´intero Occidente cristiano dall´XI al XIX secolo. La storia che vi si racconta è quella delle discussioni e delle regole tese a fissare i confini tra il furto e il guadagno legittimo da quando nelle città dell´Europa si avviò lo sviluppo delle moderne attività mercantili. Lo sforzo di disciplinare gli spiriti animali del mercato dominò da allora le riflessioni sui rapporti tra guadagno privato e bene comune, ricchezza individuale e benessere della città, frode commerciale e corruzione politica. Dopo le regole fissate dalla Chiesa vennero quelle della repubblica internazionale del danaro e le leggi degli stati. Ma quali furono le precondizioni della rivoluzione commerciale avviatasi nelle città medievali? La tesi di Prodi è che il mercato come realtà autoregolantesi, dotata di una propria capacità di espansione, vide aprirsi per la prima volta uno spazio di libertà nel contrasto fra papato e impero. Fu quella la via che gli permise di sfuggire al controllo di un potere politico tendente per sua natura a coartare le straordinarie potenzialità di sviluppo del mercato.
Il successo dell´Europa medievale spicca al confronto del mancato sviluppo del mercato dell´agorà ateniese dove, osservò una volta Karl Polanyi, era stata proprio quell´antica democrazia a soffocarne l´espansione. Invece, secondo Prodi, grazie al dualismo istituzionale di papato e impero si installò nel cuore dell´Europa quella fibrillazione o rivoluzione permanente che doveva sostentarne l´ascesa come centro propulsore dello sviluppo mondiale.
È dunque dalla «rivoluzione papale» che nasce la rivoluzione commerciale, in sincronia con altri macroprocessi che ebbero un identico scenario: la piazza, luogo del giuramento costitutivo del patto politico ma anche luogo simbolico della giustizia e luogo infine del mercato, terzo e ultimo oggetto di questo volume che conclude una serrata trilogia. I caratteri originali della storia europea sono ricondotti alle comuni radici cristiane e agli spazi di libertà aperti dalla dialettica tra Chiesa e poteri politici. E non c´è solo questo. Viene qui messo in luce il contributo intellettuale degli uomini di Chiesa e in particolare dei nuovi ordini francescano e domenicano all´elaborazione delle regole del mercato con lo sviluppo dei concetti di tempo, prezzo, moneta, con le nuove definizioni del reato di furto, con l´esercizio della guida delle coscienze attraverso la predicazione e la confessione: ma anche, infine, con la creazione di moderne istituzioni bancarie (sotto il segno, ricordiamo, di un violento attacco a un protagonista di questa storia che qui rimane piuttosto in ombra, l´ebreo).
Quelle ricchezze accumulate che inquietavano le coscienze di uomini come il celebre mercante di Prato Francesco di Marco Datini imponevano la necessità di mettere d´accordo il settimo comandamento col flusso di benessere portato dal commercio. La ricostruzione del lavoro intellettuale e pratico svolto a tal fine dagli uomini della Chiesa ha impegnato l´autore di queste pagine in una ricerca di cui affiora qui anche la sensazione di una grande fatica.
L´esito è chiaro. Finora il contributo della Chiesa allo sviluppo del mercato è apparso in genere negativo, per le condanne del prestito a interesse come peccato di usura che alimentarono l´antigiudaismo cristiano e che nascevano dalla considerazione del tempo come qualcosa che apparteneva solo a Dio. Ma Prodi contesta la tesi formulata da Jacques Le Goff di un´opposizione fra l´immobile «tempo della Chiesa» e un «tempo del mercante» aperto all´azione umana e a valori laici e sottolinea invece l´importanza del volontarismo francescano e di teologi come Pietro di Giovanni Olivi.
Non è possibile qui seguire l´intero disegno dell´opera, scandito dalle metamorfosi del furto da peccato religioso a colpa morale e a crimine e articolato nelle fasi di una storia dominata agli inizi dalla teologia e dalla casistica di coscienza, poi dalla autonomia delle leggi di mercato, infine dall´affermarsi nell´800 del dominio dello Stato sulla vita sociale con l´alleanza di potere politico e potere economico. Vediamo in prospettiva la globalizzazione dell´economia, quando la «repubblica internazionale del denaro» cancellerà i confini degli stati insieme ad ogni ricordo di quelle norme etiche dell´equità e del bene comune che la tradizione cristiana aveva lungamente elaborato.
Sui temi e sulle tesi di questo libro ci sarà modo di discutere. Qui si dovrà almeno osservare che ancora una volta Paolo Prodi oppone a un consumo della storia oggi dominato dai contemporaneisti un modello di ricerca storica che punta a capire il presente partendo da distanze lontanissime: o meglio, partendo verso l´esplorazione di quelle terre lontane da una propria intuizione dei problemi del presente. Di fatto, è il ritorno conclusivo su questi problemi che è il presupposto e il premio del ricercatore.
Ed è ai propri tempi che l´autore dedica l´ultimo capitolo di «riflessioni attuali» sui rapporti tra economia e politica, finanza e stato, etica e giustizia. La crisi economica mondiale in cui siamo immersi è l´esito, a suo avviso, di una dislocazione tettonica affiorante da profondità secolari, di cui solo una ricerca storica di adeguata ampiezza può rintracciare le cause profonde. Ma se i mali sono evidenti, se è vero che i confini tra il furto e il non furto sono diventati evanescenti e che nell´attuale situazione di dominio della finanza sulla politica le leggi della democrazia liberale esistono solo in apparenza, se è indiscutibile che la fragilità istituzionale dell´Italia rende più visibili qui da noi i disastri della privatizzazione del pubblico e la gravità del conflitto di interessi, la cura resta incerta e problematica: come si potrà reintrodurre l´auspicata distinzione fra il sacro, la politica e l´economia? Dobbiamo forse tornare a leggere la Rerum Novarum e a riflettere sulla dottrina sociale cristiana, secondo l´auspicio che chiude questo libro?

Corriere della Sera 14.3.09
Nei suoi rapporti i dettagli sul campo nazista. Dopo la guerra fu in missione clandestina oltre la Cortina di Ferro
Una spia nell'orrore di Auschwitz
Il capitano polacco Pilecki rivelò i segreti dell'Olocausto. Ucciso dai sovietici
di Guido Santevecchi


La resistenza polacca
È il movimento armato clandestino che durante la Seconda guerra mondiale combatté contro l'occupazione militare della Polonia da parte della Germania nazista.
L'Armia Krajowa (AK), fedele al governo polacco in esilio a Londra e braccio armato dello Stato clandestino polacco, venne formata nel 1942 e fu in competizione con l'Armia Ludowa (AL), appoggiata dall'Unione Sovietica e controllata dal Partito Operaio Polacco.
La «liberazione russa»
Nell'agosto del 1944, con l'avvicinarsi delle forze sovietiche a Varsavia, il governo in esilio sollecitò la rivolta della città. Dopo 63 giorni di lotta selvaggia la città fu ridotta ad un cumulo di macerie dalle SS. La rivolta di Varsavia permise ai tedeschi di distruggere l'AK come forza combattente, ma ad avvantaggiarsi della situazione fu Stalin che riuscì a imporre un governo comunista alla Polonia del dopoguerra

Due serie di foto segnaletiche: la prima è del 1940, l'uomo indossa l'uniforme a strisce dei detenuti nei lager nazisti; la seconda serie è del 1947, scattata dalla polizia segreta del regime comunista di Varsavia. Il prigioniero è lo stesso: il capitano di cavalleria Witold Pilecki.
L'ufficiale si era offerto volontario per una missione all'inferno: si fece catturare dai tedeschi sapendo che sarebbe stato rinchiuso ad Auschwitz, per raccogliere informazioni su quello che succedeva all'interno del campo di concentramento.
Il Konzentrationslager presso la cittadina polacca di Oswiecim (in tedesco Auschwitz) era stato costruito dai nazisti nell'estate del 1940 e all'inizio i detenuti erano polacchi e soldati russi. La resistenza aveva bisogno di notizie. Pilecki preparò il piano: aspettò che la Gestapo mettesse in atto uno dei ricorrenti rastrellamenti a Varsavia, si mise in tasca un documento di identità falsificato a nome dell'operaio «Tomasz Serafinski» e si lasciò arrestare con altri duemila civili. Era la mattina del 19 settembre 1940, due giorni dopo si ritrovò ad Auschwitz. Il campo non era ancora organizzato per lo sterminio sistematico, ma i detenuti venivano decimati già all'arrivo. All'internato sotto il nome di Serafinski fu tatuato sul braccio il numero 4859. Il capitano Pilecki cominciò ad organizzare militarmente un gruppo di resistenti. E cominciò anche a scrivere messaggi per il comando dell'Esercito clandestino polacco.
Il suo rapporto comincia così: «Mi è stato ordinato di descrivere i semplici fatti, senza commenti. Ci proverò, ma non siamo di legno, nè di pietra e debbo confessare che stando qui dentro qualche volta mi è sembrato che anche la pietra possa sudare...».
Con il passare dei mesi Auschwitz fu allargato su una superficie di 40 chilometri quadrati e trasformato nel centro del progetto di annientamento degli ebrei, al servizio della Soluzione Finale. La resistenza a Varsavia ricevette un altro rapporto da Pilecki fatto filtrare attraverso i reticolati: «La gigantesca macchina del campo che vomita cadaveri ha portato via molti dei miei amici... Abbiamo inviato messaggi al mondo esterno, alcuni sono stati trasmessi da stazioni radio straniere. Adesso le guardie del campo sono furiose».
Nel 1942 il gruppo del capitano si assicurò che le informazioni sullo sterminio degli ebrei arrivassero a Londra e Washington, cominciò ad invocare che gli aerei alleati bombardassero le installazioni di Auschwitz e la linea ferroviaria che alimentava il trasporto dei deportati, o che organizzassero un lancio di paracadutisti della Brigata polacca per liberarlo.
Non successe niente. Solo orrore quotidiano. A quel punto il capitano Pilecki decise di tentare la fuga: la notte del 26 aprile 1943 riuscì ad evadere. Arrivato a Varsavia riprese il suo posto nell'Esercito clandestino, partecipò alla Rivolta del 1944. Poi andò in Italia, con le forze polacche del generale Anders. Finita la guerra con i nazisti l'Europa fu spaccata dalla Cortina di Ferro. Pilecki fu inviato a Varsavia: di nuovo in missione clandestina, per raccogliere informazioni sui gulag sovietici e la repressione comunista. Lo arrestarono. E (secondo nuovi documenti pubblicati dal Times) l'uomo che era entrato volontariamente nell'inferno e aveva documentato lo sterminio degli ebrei, scoprì che l'agente della polizia segreta comunista che lo stava torturando era un ebreo. Potè incontrare un'ultima volta la moglie e le disse che Auschwitz per lui era stata meno atroce di quello che stava passando nel carcere del regime a Varsavia.
Witold Pilecki fu condannato a morte per «crimini contro lo Stato e spionaggio agli ordini dell'imperialismo straniero». Il 25 maggio del 1948 gli spararono un colpo alla nuca nel sotterraneo del comando della polizia e lo gettarono in una fossa comune.
Poi, fino al 1989, il suo nome fu cancellato dalla storiografia ufficiale della Polonia. La vicenda del «volontario di Auschwitz», delle sue informazioni sull'Olocausto e dell'aiuto alleato che non arrivò ai disperati dei lager continua ad agitare gli storici britannici: perché Winston Churchill non ordinò l'azione? «Perché a nessuno importava di salvare gli ebrei», disse Chaim Weizmann, primo presidente di Israele. Sir Martin Gilbert, biografo di Churchill, sostiene invece che il leader inglese era sempre stato amico e sostenitore della causa ebraica e in realtà non seppe di Auschwitz fino al 1944.
Ora un gruppo di eurodeputati polacchi ha presentato una mozione a Bruxelles chiedendo che il 25 maggio, anniversario dell'uccisione del capitano, sia dichiarato «Giorno degli Eroi della Lotta contro il Totalitarismo ». Dagli archivi sono usciti nuovi documenti che nei decenni della Cortina di Ferro erano stati censurati e a Varsavia è stata organizzata una mostra in cui le foto segnaletiche del detenuto 4859 di Auschwitz sono affiancate a quelle dell'«agente imperialista» Witold Pilecki scattate dalla polizia segreta comunista.

Corriere della Sera 14.3.09
Intervista sulla ricerca: il piano per scegliere le aree di investimento, la riforma degli enti e l'assunzione di nuovi addetti
«Grande opera per attirare cervelli stranieri»
Il ministro Gelmini: nascerà in Italia sul modello del Cern e rilancerà i nostri scienziati
di Giovanni Caprara


Le risorse deriveranno dalla cancellazione di piccoli progetti senza utilità
Recupereremo il lavoro precario sulla base del merito e delle necessità

Ministro Mariastella Gelmini, per alcuni lei ha dimenticato il mondo della ricerca scientifica che assieme alla pubblica istruzione e all'Università è il suo terzo compito....
«Stiamo lavorando e per giugno sarà pronto il piano nazionale della ricerca in occasione del G8»
E che cosa prevede?
«Stabiliamo delle priorità per trasformare la situazione di crisi in cui ci troviamo in un'opportunità di rilancio. Le risorse non sono certo ampie ma il settore, grazie anche all'intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, non ha subito tagli».
Quali sono le priorità scelte?
«Innanzitutto è da valorizzare il settore agroalimentare e ad esso si affiancano l'ambiente e l'energia con le cosiddette "tecnologie verdi", la biomedicina e lo spazio. In quest'ultimo abbiamo maturato alcune competenze da difendere ed esistono già sulla Penisola realtà internazionali importanti, come il centro dell'agenzia spaziale europea di Frascati impegnato proprio sulla ricerca ambientale. Dobbiamo, inoltre, ripensare la programmazione della ricerca adesso inesistente. Ogni ente ha il suo piano ma la loro somma dimostra solo una frammentazione improduttiva. Voglio arrivare ad un progetto ricerca Paese in cui si concentrano gli interessi tenendo conto delle esigenze della realtà industriale dove i giovani troveranno lavoro».
Un'impresa ardua, altre volte tentata senza grandi risultati. Lei come pensa di materializzare questa ambizione?
«Attraverso una serie di interventi. Ad esempio, dobbiamo realizzare in Italia una grande infrastruttura di ricerca, come del resto ci chiede l'Unione. Un centro, per capirci, come il Cern di Ginevra, un modello a cui far riferimento per diversi motivi».
Quali sarebbero?
«Prima di tutto perché è un luogo dove si fa ricerca al top della conoscenza attraendo i cervelli da altri continenti. Al Cern la costruzione del nuovo acceleratore Lhc, al quale hanno dato il contributo centinaia di ricercatori italiani attraverso l'Istituto nazionale di fisica nucleare, si è rivelata la giusta via per alimentare la ricerca, creare innovazione tecnologica nelle aziende coinvolte e sviluppare conoscenze applicabili in altri settori della vita quotidiana. Dagli studi al Cern, oltre all'invenzione del Web è nata anche la nuova macchina adronica con la quale si curano a Pavia i tumori».
Con che risorse, se non ci sono, può nascere una nuova grande infrastruttura di ricerca?
«Recuperando fondi da piccoli progetti poco utili eliminabili e da mille accordi di programma che rispondono a necessità lontane dalla scienza. Ma vorrei pure utilizzare a tale scopo i fondi Fas gestiti dalla Presidenza del Consiglio che magari finiscono in accordi clientelari. Insomma, eliminando degli sprechi e concentrandoci in una direzione precisa evitando di moltiplicare inutilmente le iniziative».
Ma quali sono per lei i problemi più gravi della ricerca italiana: i fondi scarsi, il ridotto numero dei cervelli, le infrastrutture inadeguate....
«Certo, senza soldi è difficile lavorare, ma già nei finanziamenti attuali esistono margini in cui si possono effettuare degli interventi e rendere più efficaci le disponibilità. Ma più necessario ancora è gestire con managerialità. Entro dicembre completeremo il riordino degli enti di ricerca proprio per arrivare ad una migliore gestione e valorizzare i buoni cervelli che oggi sono mortificati e sono numerosi ».
I cervelli appunto. Esiste una differenza abissale nel numero con altri Paesi europei. Che cosa intende fare?
«Intanto con il recente decreto abbiamo creato quattromila nuovi posti per ricercatore che sono slegati dalla sistemazione dei precari. E non è poco, per cominciare». E i conti con i precari, come li fa. Lavorare in questa condizione non aiuta certo l'entusiasmo. E poi è un'esercito ormai?
«Infatti, tra università e ricerca, non sappiamo nemmeno noi quanti siano. Per questo abbiamo avviato un censimento al fine di avere una fotografia precisa della realtà sulla quale incidere. Certo è che con la mancata approvazione della "norma dei 40 anni" si è persa un'importante occasione perché avrebbe consentito, attraverso dei prepensionamenti, di liberare posti nei quali inserire appunto i precari. Però bisogna tener presente che non è possibile stabilizzare tutti, è una proposta demagogica perché non ci sono le risorse necessarie e poi non sarebbe neanche giusto ».
Perché non lo sarebbe?
«Anche qui bisogna distinguere. Non tutti sono precari allo stesso modo. Ed è opportuno valutare qualità e profili tecnici in base agli indirizzi».
Un altro male riconosciuto è la scarsa ricerca privata nel nostro Paese. Non c'è più la Montecatini capace di sostenere Giulio Natta al Politecnico di Milano che scopre il Moplen e conquista il Premio Nobel per la chimica, ultimo Nobel nato nella Penisola. Era il 1963. Ha iniziative su questo fronte?
«Qualche incentivo, concedere crediti d'imposta come già stiamo facendo e finalizzare meglio le risorse a disposizione. Di più non si può. Le agevolazioni fiscali sono comunque uno strumento utile ».
Per stimolare il rapporto tra ricerca pubblica e privata negli ultimi anni sono stati creati i distretti tecnologici. I risultati, tuttavia, non sono stati gratificanti e in qualche caso ci si chiede se i fondi siano andati nel posto giusto....
«Affronteremo anche i distretti e taglieremo i progetti che si sono rivelati inadeguati valutando l'impatto avuto sul territorio. L'intervento sarà attuato dall'Agenzia per le nuove tecnologie e non sarà indolore. Ma non si può continuare a finanziare senza un risultato: la selezione è necessaria ».
Sempre su questa difficile prima linea c'è l'idea del presidente del CNR Luciano Maiani di rilanciare i progetti finalizzati nati negli anni Settanta proprio alla scopo di creare un ponte tra ricerca pubblica e privata fornendo a quest'ultima occasione di nuovi brevetti. Condivide?
«Bisogna farli partire: li approvo perché saranno un aiuto prezioso. Ma dovranno seguire gli indirizzi del piano che stiamo preparando».
Di tutti gli ostacoli si parla da tempo, ma ce n'è uno forse ancora più grande: i giovani da noi non vedono la ricerca come un mondo per il loro futuro. Coltiva una risposta?
«E' forse il problema più grave e anche quello più arduo da risolvere. Per questo bisogna cambiare la scuola e motivare gli insegnanti. E diffondere, soprattutto, la cultura scientifica come stiamo facendo con la commissione presieduta da Luigi Berlinguer con cui sono in perfetto accordo. E i media devono raccontare di più le magnifiche storie dei nostri scienziati».

Corriere della Sera 14.3.09
Arriva in libreria da Bompiani un saggio inedito di Isaiah Berlin, sintesi definitiva del suo lavoro scientifico e didattico
E un giorno l'uomo creò la libertà
La nascita dei valori: così la rivoluzione romantica ha aperto la strada alla modernità
di Isaiha Berlin


In passato, i valori umani — i fini della vita, quelli in nome dei quali vale la pena di creare o di promuovere o di distruggere le altre cose, in nome dei quali vale la pena di fare tutto, ed esistere è considerato esser fatto così — questi fini o scopi o valori ultimi erano creduti degli ingredienti dell'universo, da scoprire in esso, per mezzo di qualsiasi facoltà gli investigatori avessero impiegato per inventariare il mondo. Dire che una cosa era buona o cattiva, giusta o sbagliata, bella o brutta, nobile o ignobile, degna d'esser conquistata o scoperta o fatta, era considerata una formulazione descrittiva — e registrava che quella cosa in questione possedeva tali qualità. Quale valore esistesse in essa dipendeva, naturalmente, dalla filosofia adottata. Con ciò, alcuni intendevano le qualità oggettive esistenti nel mondo, fossero percepite o no, come delle proprietà naturali, o delle caratteristiche normali individuate nell'esperienza quotidiana — colori, gusti, proporzioni. Altri pensavano magari che un valore consistesse nell'essere parte dello scopo generale della vita nel mondo, un valore creato da Dio o auto-generato. Oppure, poteva essere ciò che soddisfa un qualche mio bisogno, o della società in cui vivo, un bisogno che va identificato per mezzo della introspezione psicologica o della osservazione sociologica; o ciò che mi piace, o approvo, o ritengo capace di darmi probabilmente piacere o di condurmi alla gloria — in breve, il valore poteva essere analizzato in termini di inclinazioni soggettive o in quelle di gruppi umani, in un momento specifico o attraverso un periodo considerato. Ma quale che sia la visione abbracciata, oggettiva o soggettiva, assoluta o relativa, naturalistica o metafisica, a priori o a posteriori, individualistica o sociale, una formulazione di valore o scopo descriveva fatti e rappresentava una realtà. Ovviamente, era cruciale — in effetti, una questione di vita o di morte — scoprire quale fosse la verità in materia di condotta, cioè quali fossero i valori veri. Gli uomini morivano, le guerre si combattevano, proprio per le differenze di visione in questo senso.
Fu durante l'età romantica che, per la prima volta, cominciò a emergere la nozione che i giudizi di valore non sono affatto delle proposizioni descrittive, che i valori non sono scopribili, che essi non sono ingredienti del mondo reale come lo sono i tavoli o le sedie o gli uomini o i colori o gli eventi passati, che i valori non vengono scoperti, ma inventati, creati dagli uomini come le opere d'arte, e riguardo ai quali non ha senso chiedersi dove si trovassero prima. Laddove i filosofi, da Platone in avanti, sembravano concordare che interrogativi del tipo «Cos'è bene? », «Come devo vivere?», «Cosa rende giusto l'atto?», «Perché devo obbedire?», avessero delle risposte che una saggezza poteva scoprire, benché potessero esservi opinioni molto diverse su come e dove le risposte andassero trovate, e quindi in cosa consistesse la saggezza, la nuova dottrina riteneva invece, o sottintendeva, che questo era un approccio privo di senso, come di chi si metta in testa di scoprire dove stesse la sinfonia prima che il compositore la ideasse, dove fosse la vittoria prima che il generale la ottenesse. Gli ideali e i fini non andavano cercati, essi erano creati.
La rivoluzione che sarebbe venuta partendo da questo punto di vista — la trasformazione di valori, la nuova ammirazione per l'eroismo, l'integrità, la forza di volontà, il martirio, la dedizione a cio che si è concepito dentro di noi senza badare alle sue proprietà — fu la più decisiva dei tempi moderni. Essa rappresentò certamente il passo più grande nella coscienza morale dell'umanità sin dalla fine del Medioevo, forse fin dalla nascita del Cristianesimo. Dopo di allora, non vi fu passo di grandezza comparabile — si trattò dell'ultima grande «transvalutazione dei valori» della storia moderna.
Uno degli scopi di questa riflessione è di attirare l'attenzione sulle conseguenze di ciò — di considerare in che grado esso modificò gli atteggiamenti esistenti, e la reazione contraria che stimolò, e quale abisso esso abbia creato tra le generazioni — quelle generazioni che sono venute dopo, che hanno accettato quei cambiamenti, talvolta poco consapevoli di quanto grandi e stupefacenti essi dovessero invece sembrare agli osservatori più accorti e acuti del tempo, e le generazioni le cui parole e i cui pensieri, semplicemente perché venivano prima, paiono antiquati e banali, talvolta per quella ragione soltanto. Il nostro stesso pensiero è in grande misura il prodotto e il campo di battaglia della vecchia concezione «pre-rivoluzionaria» e della nuova «post-rivoluzionaria »; nessuna vera sintesi tra le due è stata effettuata dal semplice passaggio del tempo o dal semplice processo di cambiamento. Le controversie presenti, di tipo sia morale sia politico, riflettono lo scontro di valori iniziato dalla rivoluzione romantica. È arrivato forse il tempo di definire la sua importanza intrinseca e le sue vaste conseguenze.
Durante il grande fermento di idee che precedette la Rivoluzione francese e seguì a essa, l'esperienza venne a modificare quelli che Collingwood era solito chiamare «i presupposti assoluti» dell'esperienza. Le categorie e i concetti che erano dati per scontati ed erano stati dati per scontati anche in passato, e che sembravano troppo solidi perché fosse possibile scrollarli, troppo familiari perché si potesse pensare di indagarli, furono rovesciati. Le controversie del nostro tempo sono il prodotto diretto di questa «trasformazione del modello», e basterebbe soltanto ciò per rendere il periodo in questione, e i suoi pensatori, degni di tutta la nostra attenzione. Potrebbe venirci detto che non si deve magnificare il ruolo delle idee, che le idee sono create da «forze sociali» e non viceversa, che mentre le idee, com'è ovvio, di Locke e di Montesquieu giocarono un loro ruolo nella rivoluzione americana e nel documento costituzionale che da essa uscì, questo avvenne solo perché la struttura economica o sociale dell'America coloniale somigliava all'ordine europeo di cui Locke e Montesquieu erano i «rappresentanti ideologici» — degli araldi o portavoce, ma non degli artefici. In questa convinzione c'è senza dubbio molta verità, ma coloro che la sostengono con fervore partigiano a me sembrano voler sfondare porte aperte: dicono qualcosa che corrisponde senz'altro a verità, ma che è troppo ovvio per essere interessante. Naturalmente, è improbabile che i fondatori della Repubblica americana siano stati influenzati nelle loro idee da Bossuet o da Bolingbroke, o dai gesuiti — dove non c'è terreno adatto ad accoglierlo, difficile che il seme attecchisca. Ma il terreno può restare fertile senza tuttavia che cada alcun seme, o viceversa può accadere che una pianta adatta a un clima totalmente diverso venga messa in sito e avvizzisca o non riesca a crescere fino alla maturità. E non esiste legge sociale in grado di garantire che la domanda crei inevitabilmente l'offerta per rispondere alle esigenze umane. Gli americani erano senz'altro pronti a essere influenzati dalla dottrina di Montesquieu sulla divisione dei poteri, ma questa dottrina era il prodotto di un genio intellettuale, e se Montesquieu fosse morto alla nascita, o si fosse limitato a scrivere satira elegante, o libri di viaggio, questa idea avrebbe potuto non vedere mai la luce nella forma in cui ebbe poi così profonda incidenza. Robespierre si comportò come si comportò, perché era impregnato delle idee di Rousseau e di Mably, ma Rousseau e Mably avrebbero potuto non aver scritto, ed Helvétius e Montesquieu avrebbero potuto prendere il loro posto, e in quel caso il corso della Rivoluzione francese sarebbe stato forse differente, e Robespierre sarebbe, chissà, vissuto e morto in modo differente da quello in cui effettivamente morì. Il più grande evento del nostro tempo è rappresentato sicuramente dalla Rivoluzione russa, e tuttavia è difficile immaginare quale piega diversa avrebbe preso, se Lenin fosse stato ucciso da una pallottola vagante nel 1917, o se non avesse incrociato, durante i suoi anni sensibili, le opere di Marx o di Chernyshevsky.
Gli individui influenzano effettivamente gli eventi. Le idee nascono in circostanze favorevoli al loro sorgere, anche se lo specificare quali siano, nei singoli casi, quelle circostanze è così azzardato da rischiare di trasformare tali leggi in tautologie. Talvolta queste idee risultano di scarso effetto pratico; talaltra, il genio ordinativo di coloro che le creano o che si identificano in esse rende possibile farsi un'idea degli uomini e delle loro relazioni in termini di un singolo modello, e di trasformare la visione dei loro contemporanei — e talvolta anche dei loro oppositori — per mezzo di quel modello.
© RCS Libri S.p.A. / Bompiani 2009 Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara «L'albero della libertà» in una stampa del 1789. Sotto, Isaiah Berlin (1909-1997) in un ritratto di Sophie Bassouls (Corbis)

l’Unità 14.3.09
Furore astratto e graffiti
Cy Twombly: celebrato alla Gnam l’artista americano che ebbe un rapporto speciale con Roma
di Renato Barilli


Lo statunitense Cy Twombly (1928) è il segno vivente dello stretto rapporto che, a partire dagli anni ‘50, si venne a stabilire tra Roma e gli Usa, rapporto di cui hanno dato chiara prova al loro tempo Afro e Toti Scialoja, protagonisti della scena romana ma pronti a innestarvi le vivide tracce della Scuola di New York. Twombly, in un certo senso, ha restituito il favore, portando presso di noi, in quei medesimi anni, i doni, i tesori dell’Espressionismo astratto, ma mostrandosi pronto d’altra parte a compiere le giuste mosse per ambientarli sotto il sole abbacinante del Mediterraneo. In altre parole, non bastano certo i legami personali, pur intensi, che l’artista nordamericano ha stabilito nel nostro Paese, a motivare questa sua opzione quasi unilaterale verso di noi, bisogna cogliervi qualche ragione cogente anche a livello stilistico. Il fatto è che Twombly veniva con più di un decennio di ritardo, rispetto al pieno divampare dell’Action Painting di Pollock e compagni, e allora, come comportarsi? Portare quei frutti preziosi ma un po’ tardivi a esalare in uno spazio protetto, o invece aprire a una stagione successiva, e quasi di segno opposto? Si sa che nelle sue prime peregrinazioni a Roma e sulle coste del Mediterraneo Cy non procedeva da solo, gli era a fianco il quasi coetaneo Rauschenberg, ma quest’ultimo ben capiva che la stagione dei furori astratto - informali era ormai finita, e bisognava aprire le porte all’incalzare degli oggetti. Ne venne il suo New Dada, in cui l’esuberanza cromatica cercava un difficile compromesso con i reperti tratti dal mondo dell’industria, e da lì sarebbe seguita la stagione della Pop Art, su cui fu pronta ad allacciarsi una nuova Scuola romana, con Mario Schifano in testa.
VERSO BASQUIAT
Twombly invece, per parte sua, fu riluttante a compiere quel passo, ad accogliere la scontrosa durezza delle «cose di pessimo gusto», e dunque le coste laziali gli servirono come serra protetta, in cui appunto esalare gli ultimi profumi dell’Action Painting, come fiori che la troppa luce abbacina e quasi incenerisce. Nello stesso tempo egli è sempre stato ben consapevole che bisognava sostenere quella vegetazione gracile al di là di un destino di putrefazione incalzante, ed ecco allora il capitolo delle sue sculture, su cui giustamente insiste la bella retrospettiva organizzata da Nicholas Sirota per la Tate Modern di Londra, ed ora approdata alla Gnam di Roma, inserendole quasi alla pari con le enormi tele e le carte sottilmente graffite. È come se da quegli stagni incanutiti per sovraesposizione ai raggi del sole si innalzasse una vegetazione magra, spettrale, peraltro contaminata con la presenza di reperti oggettuali, in un amalgama unico, in cui gambi e steli si mutano in tralicci di poveri oggetti gettati nella spazzatura. Per questo verso Twombly dialoga da lontano con la civiltà Pop, ma in definiva la supera, punta in direzione di astri successivi, dal tedesco Kiefer ai Graffitisti del suo Paese, Basquiat primo fra tutti.

Cy Twombly, A cura di Nicholas Sirota, Roma Galleria Nazionale d’Arte Moderna Fino al 24 maggio Catalogo: Electa