sabato 28 febbraio 2009

Corriere della Sera 28.2.09
Englaro indagato per omicidio «Me l'aspettavo, sono sereno»
Sotto inchiesta 14 persone. La Procura: atto dovuto
Anche l'anestesista e la moglie nel mirino dei pm di Udine. A Bologna un fascicolo per un esposto di Carlo Taormina
di Grazia Maria Mottola


UDINE — Tutti in procura, a Udine. Dalle 9 alle 13. Per l'elezione di domicilio e la nomina del difensore. Da Beppino Englaro ad Amato De Monte con la moglie Cinzia Gori, in mezzo gli altri 11, finora nell'ombra ma non meno presenti nella triste storia di Eluana. Si incroceranno, ogni venti minuti, negli uffici di polizia giudiziaria, non più volontari chiamati all'appello per i turni nella stanza di Eluana, ma nell'amaro ruolo di indagati in un'inchiesta annunciata e non certo temuta: omicidio volontario. Sfileranno alla luce del sole: Dino Buiatti, Rita Maricchio, Maria Marion (consigliere comunale pd), Erika Mazzoccato, Maria Vendramini, Loris Deffendi, Elena Della Negra, Stela Fejzolli, Teresa Zanier, Caterina Degano, Cinzia Moreale. A testa alta, «perché ognuno di noi sapeva quello che faceva, conoscendo le conseguenze». Ma avrebbero preferito restare in silenzio, non far conoscere nomi e volti, mantenere il segreto su quanto accaduto nei sette giorni più drammatici della loro vita, dal 3 al 9 febbraio, fino alla morte di Eluana. Forse, invece, saranno costretti a parlare, contro se stessi e contro le promesse a papà Beppino. Ma ormai è fatta.
All'iscrizione nel registro degli indagati, seguirà una memoria difensiva dell'avvocato Giuseppe Campeis. Poi arriveranno i risultati completi dell'autopsia; nel frattempo gli interrogatori. Infine la speranza: che tutto finisca, meglio se con un'archiviazione.
Morta Eluana, la vicenda continua in procura. Non che le inchieste non fossero già iniziate (in corso quelle su presunte irregolarità delle stanze a «La Quiete», sulle cause di morte, poi sugli esposti). Eppure mercoledì il procuratore Antonio Biancardi arriva a una svolta. Forse a causa di denunce più dettagliate, come quella di «Verità e vita », forse per l'attenzione della procura di Bologna con un fascicolo aperto in base a un esposto dell'avvocato Carlo Taormina che riguarda anche l'operato dei giudici. Certo è che il gruppo Englaro viene indagato. «Un atto dovuto», precisa Biancardi. Dure le reazioni, in un senso e nell'altro. In prima linea Massimo D'Alema: «La persecuzione nei confronti di Englaro è stato uno degli eventi più incivili del nostro Paese». Di segno opposto il cardinale Barragan, ministro della Salute vaticano: «Secondo il quinto comandamento chi uccide un innocente commette un omicidio. Se Englaro ha ammazzato, è un omicida». Per il ministro Sacconi, che ieri ha ricevuto la notifica del trasferimento degli atti dell'inchiesta per violenza privata che lo riguarda al tribunale dei ministri di Trieste, «la dimensione penale, in questi casi, è molto discutibile. Dovrebbe intervenire la legge a regolare questo ambito sregolato». Tranquillo papà Beppino: «Ho lottato per 17 anni. Se vogliono tenermi in ballo per altri 17, facciamo pure, ma mi devono dimostrare cosa c'è che non va».

Corriere della Sera 28.2.09
Ronde e testamento biologico
Il ricatto della deriva
di Pierluigi Battista


Se si decide di fare una legge ci si dovrebbe attenere agli effetti che quella legge prescrive, non alle eventuali, impalpabili, inverificabili «derive» interpretative che quella legge si immagina debba comportare.

A New York e a San Francisco, a Chicago e Filadelfia — racconta la «Stampa» — non un incidente, un'aggressione, un atto di violenza, una prepotenza ha deturpato la missione dei «Guardian Angels», i volontari armati solo di telefoni cellulari e berretti rossi che aiutano la polizia nella protezione dei quartieri più disagiati delle metropoli americane. Può darsi che negli Stati Uniti siano più fortunati. Oppure che le cose possano funzionare senza necessariamente precipitare nella loro versione degenerata. E' possibile che queste forme di volontariato civico non si perdano nella cupa «deriva» squadristica preconizzata in Italia. Può darsi cioè che almeno una volta sia stato possibile superare il terrore della «deriva», l'angoscia, la premonizione della «deriva»: quella sindrome del peggio (la deriva) che paralizza ogni iniziativa per paura che la normalità si trasformi obbligatoriamente nella sua patologia.
La sindrome della «deriva » appare come il nuovo stato d'animo che attanaglia l'Italia impaurita e frastornata nei nostri giorni. «Deriva», caricato di un significato totalmente diverso da quello che campeggia sul titolo di un libro avvincente e amaro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, è diventato un termine chiave del lessico politico italiano. Si parla di deriva autoritaria e di deriva plebiscitaria, di deriva xenofoba e di deriva estremista. La deriva dilaga, si insinua negli interstizi del discorso pubblico, si impone come figura dell'allarme e dello sgomento verso l'incognito e l'inedito. Nella discussione sulle «ronde» o in quella sul testamento biologico, la sindrome della deriva autorizza a non fare niente invece di fare qualcosa di ragionevole, di utile e di giusto. Se non si imponesse la paura della deriva, l'idea che dei cittadini di un quartiere o di un rione, avendo a cuore le sorti della comunità, si adoperino per la protezione e la sicurezza di tutti, non dovrebbe essere per forza una cattiva idea. Diventa una pessima idea se prevale l'immagine di squadracce di facinorosi armati che si abbandonano ad atti di linciaggio e di rappresaglia, di giustizieri della notte che si danno a un'immonda caccia allo straniero. Ma se la legge impone tassativamente il disarmo dei cittadini impegnati, la loro rigorosa selezione, il loro controllo da parte delle forze dell'ordine, perché non pensare che le cose possano andare per il verso giusto come con i «Guardian Angels» negli Stati Uniti?
Sempre la paura, l'ansia paralizzante della «deriva ». Che si riaffaccia in modi imperiosi anche nella controversia sul «testamento biologico». Appare del tutto evidente la sproporzione tra una dichiarazione della propria volontà in merito alle cure e alle terapie cui essere sottoposti quando la vita se ne va e l'incubo di una «deriva eutanasica» sbandierato da una parte consistente del mondo cattolico. Basterebbe elencare i Paesi europei che, come la Francia e la Germania, la Spagna e il Belgio, dispongono di una legge sul testamento biologico senza essere scivolati (come l'Olanda) sul piano inclinato dell'eutanasia e del suicidio assistito. Perché noi e soltanto noi dovremmo essere condannati alla «deriva eutanasica »?
Forse sarebbe meglio, come ha autorevolmente argomentato Angelo Panebianco su queste pagine, che lo Stato frenasse la sua smania intrusiva e non invadesse quella fragile «zona grigia» dove la democrazia non dovrebbe decidere a maggioranza sulle questioni ultime della vita e della morte. Ma se si decide di fare una legge, ci si dovrebbe attenere agli effetti che quella legge prescrive o espressamente proibisce, non alle eventuali, impalpabili, inverificabili «derive» interpretative che quella legge si immagina debba comportare. E se una legge consente a un cittadino, con procedure certe e sicure, di formulare anticipatamente la propria volontà di non subire l'accanimento di cure dolorose e vane che avrebbero come unico effetto di deturpare persino la dignità della morte (oltreché della vita), cosa autorizza a equiparare questo diritto all'immagine fosca e apocalittica di un'orgia eutanasica?
Che atroce idea si ha della «deriva» morale di medici e familiari che altro non attenderebbero se non il via libera per la soppressione anticipata di pazienti e congiunti?
La «sindrome della deriva» altera i toni emotivi del dibattito pubblico, descrive esiti tragici per non contemplare nemmeno la possibilità di esiti più «normali», capaci di dare una risposta ragionevolmente efficace a problemi largamente sentiti in una comunità. La «sindrome della deriva» è l'antitesi di un approccio gradualista e riformista alle esigenze che si muovono nel corpo sociale. Ricorda Fabrizio Rondolino sulla «Stampa» che «contro la violenza sessuale, negli anni Settanta gruppi di femministe organizzavano pattugliamenti notturni delle strade, con l'intento di "riprendersi la notte" rendendola, semplicemente, un po' meno buia e deserta». E' davvero pensabile che ciò che di positivo, civicamente ineccepibile, è racchiuso nella voglia di vincere la paura e impegnarsi con gli altri per rendere pacificamente più sicure le città, venga inghiottito nello spettro di una deriva squadristica e addirittura xenofoba? Ed è davvero immaginabile che uomini e donne normali, sinceramente preoccupati per la potenza schiacciante della tecnoscienza e per l'eventualità di trascorrere periodi interminabili della propria vita al tramonto in una condizione di dipendenza assoluta da macchine sempre più sofisticate, possano dare il loro benestare a una pratica selvaggia dell'eutanasia? La «deriva» è un fantasma catastrofista di cui liberarsi. Trasforma il legittimo allarme, che le leggi hanno il compito di prevedere e di neutralizzare, in un allarme globale e incontrollabile: premessa sicura per giustificare, come sempre, l'impotenza e l'immobilismo.

Repubblica 28.2.09
Lavoratori senza diritti
di Luciano Gallino


Il disegno di legge approvato ieri dal Consiglio dei ministri persegue palesemente due finalità: rendere oltremodo difficile l´esercizio del diritto di sciopero nel settore dei trasporti, e in specie far sì che diventi pressoché impossibile per la Cgil indire da sola uno sciopero nel settore; aprire la strada a crescenti limitazioni del diritto di sciopero in altri settori.
Cominciamo da quest´ultimo punto. Tutti parlano (compreso il sito del ministero del Lavoro) del provvedimento in questione come di un disegno di legge delega per la riforma del diritto di sciopero nel settore dei trasporti. In realtà nel testo della legge delega la parola trasporti non esiste. Sia nel titolo che in vari articoli si parla sempre di «libera circolazione delle persone» e di «diritto alla mobilità». È vero che si tratta d´una revisione della legge 146 del 1990, che in tema di tutela della libertà di circolazione menziona esplicitamente i trasporti pubblici autoferrotranviari, ferroviari, aerei, aeroportuali e marittimi. Resta il fatto che insistendo in più punti sul diritto alla mobilità e sulla libertà di circolazione, senza mai far riferimento ai trasporti, la nuova legge amplia di molto il suo ambito di applicazione. Infatti è possibile che libertà di circolazione venga lesa da molte altre attività che con i trasporti pubblici, i treni, gli aerei o le navi hanno poco a che fare.
D´altra parte la legge delega non fa mistero dell´intenzione di andare molto al di là del settore dei trasporti propriamente inteso. L´articolo1, comma 2/j, prevede infatti il «divieto di forme di protesta (sic) o astensione dal lavoro in qualunque attività o settore produttivo (sic) che, per la durata o le modalità di attuazione, possono essere lesive del diritto alla mobilità e alla libertà di circolazione». Questo articolo apre alla volontà repressiva del legislatore oggi, e domani del giudice, spazi sterminati. Gli addetti ai rifornimenti d´una nave in partenza per la Sardegna, che dipendono da una società di catering e non dalla società padrona della nave, sono in sciopero e la fanno ritardare di un giorno o due? Secondo la nuova legge, è chiaro che ledono il diritto alla mobilità dei passeggeri. Sono in sciopero i tecnici dell´Airbus o della Boeing che dovevano fare determinate verifiche o briefing di aggiornamento, senza le quali gli aerei un certo giorno non possono partire? La libertà di circolazione di coloro che avevano acquistato i biglietti per quel giorno risulta evidentemente compromessa. Ergo quei tecnici, pur appartenendo a un altro settore produttivo, hanno violato il divieto dell´articolo in questione (ovvero di quelli che lo trasporranno nei decreti delegati). Può davvero portare molto lontano, l´articolo 1 del ddld sulla libera circolazione delle persone, nel limitare la libertà di sciopero.
Per quanto riguarda il settore specifico dei trasporti, è chiaro che dal momento in cui il disegno di legge delega diventasse legge e poi decreto attuativo, i sindacalisti del settore, nessuno escluso, potrebbero dedicarsi ad altre incombenze. La proclamazione di uno sciopero diventa per chiunque un´impresa improba, oltre che non poco rischiosa per le possibili conseguenze sanzionatorie. Per intanto, se vuol dichiarare uno sciopero un sindacato deve vantare a priori un grado di rappresentatività superiore al 50% «a livello di settore». Il limite pare fatto apposta per tagliar fuori la Cgil, poiché se il limite fosse di qualche punto inferiore in diversi settori dei trasporti forse ce la farebbe. Ma oltre all´ostacolo della percentuale di iscritti sussiste quello di stabilire quale sia il perimetro esatto di un determinato settore; compito diventato difficile per chiunque a causa della frammentazione di tutti i settori dei trasporti in gran numero di aziende aventi statuti differenti.
A norma del disegno di legge delega, quando il grado di rappresentatività sia inferiore al 50%, o non determinabile, è d´obbligo procedere a un referendum preventivo. A una condizione: l´organizzazione che lo indice deve avere un grado di rappresentatività superiore al 20%. Fatta una simile fatica, se mai qualcuno ci riesca, lo sciopero sarebbe sì autorizzato, ma potrebbe anche non essere legittimo. Per ricevere questo riconoscimento bisogna infatti che lo sciopero abbia ricevuto il voto favorevole del 30% almeno dei lavoratori interessati. Non basta. Lo sciopero potrebbe essere magari votato dalla quota richiesta dalla legge, e però configurarsi ancor prima di aver luogo come un solenne fiasco. Questo perché i contratti di lavoro o le regole da emanare in seguito dovranno prevedere nulla meno dell´adesione preventiva allo sciopero stesso del singolo lavoratore. Per cui ecco la sequenza: prima il lavoratore vota pro o contro la proclamazione dello sciopero, oppure si astiene; poi prende atto che lo sciopero si può fare, o no; e a questo punto trasmette a qualcuno, oppure no, una dichiarazione preventiva di adesione allo sciopero stesso. Nell´insieme, visto che l´intento del disegno di legge delega risiede palesemente nel rendere in pratica impossibile proclamare uno sciopero nei trasporti, il Cdm poteva anche risparmiarsi la fatica di varare un testo con cinque articoli e dozzine di commi e paragrafi. Bastava una riga: lo sciopero nei trasporti è vietato.
Questa cosiddetta riforma godrà presumibilmente di un vasto consenso popolare. Vari elementi portano in questa direzione. L´articolo 40 della Costituzione è insolitamente striminzito e lascia tutto lo spazio alla legislazione. La legge che regola gli scioperi nei servizi pubblici è vecchia di vent´anni. Gli scioperi proclamati troppo di frequente da alcune dozzine di autisti di autobus o qualche centinaio di ferrovieri o piloti d´aereo o assistenti di cabina hanno recato innumerevoli disagi a moltissime persone. Però il disegno di legge in questione non ha nello sfondo questi elementi. Ha invece tutta l´aria di prenderli a pretesto per ridurre gli spazi di libertà, di protesta, di manifestazione di gran parte del mondo del lavoro. E´ probabilmente tardi; ma forse bisognerebbe riuscire a dire forte e chiaro al governo che per riformare l´attività sindacale nel settore dei trasporti questa strada è sbagliata.

Repubblica 28.2.09
Il segretario Fiom: il governo tenta l’allungo come sull’articolo 18
"Strappo autoritario vogliono lo scontro"
Rinaldini: proteste già regolamentate
di Francesco Mimmo


Il 4 aprile sarà l´occasione per far sentire la nostra voce. Questo è un attacco al diritto di sciopero che cerca di dividere i lavoratori

ROMA - Uno strappo della democrazia. Un altro tassello, dopo la firma di accordi separati, per dividere il sindacato e arrivare a quel progetto autoritario che ha come obiettivo finale la modifica materiale della Costituzione. La pensa così Gianni Rinaldini, segretario della Fiom, i metalmeccanici della Cgil. Si comincia dal diritto di sciopero nei trasporti e si arriverà a interventi in altre categorie, proprio a partire dai metalmeccanici.
Che ne pensa delle modifiche nelle regole per gli scioperi nei trasporti?
«E´ paradossale che si pensi di farlo dopo aver sottoscritto degli accordi separati. Il governo vuole accordi sindacali sottoscritti solo dalla maggioranza dei lavoratori e poi interviene sul diritto di sciopero. E´ evidente che dietro c´è un progetto, una strategia. Questo disegno di legge è un altro tassello di un´operazione che ha la stessa logica degli accordi separati. E´ un´idea di carattere autoritario, quella di una modifica materiale della Costituzione. E mi pare che anche la situazione politica lo dimostri».
E della soglia minima di rappresentanza che idea si è fatto?
«Si pensa che fissare una soglia minima possa diventare di per sé un deterrente a scioperi proclamati da piccoli gruppi. Ma il vero deterrente sarebbe un altro. Facciano gli accordi con i lavoratori, si discuta delle loro piattaforme, questo sì che sarebbe un deterrente. Come nel caso Alitalia, un accordo con gli stessi lavoratori avrebbe certamente evitato questi meccanismi».
C´è il diritto di sciopero, ma anche il diritto alla mobilità dei cittadini. E´ in nome di questo diritto il governo vuole cambiare le regole nei trasporti.
«I trasporti sono un servizio essenziale. E quindi sono un settore che ha già delle regole di garanzia fissate per legge. Intervenire non serve. La verità è che il governo cerca l´allungo. Come è accaduto a suo tempo per l´articolo 18. E´ un´operazione che cerca l´impatto frontale per fare poi operazioni attraverso passaggi successivi. Ma la specificità dei trasporti, o di altri servizi essenziali che, ripeto, sono già regolamentati, non c´entra nulla».
Lo sciopero virtuale le piace?
«E´ inaccettabile. Almeno in questa formula. Non esiste che abbia il carattere dell´obbligatorietà. Non escludo che lo sciopero virtuale possa essere uno strumento sindacale, ma certo non per legge. E´ uno dei tanti strumenti ma può esistere solo se a decidere questa forma di protesta sono i sindacati».
State organizzando manifestazioni di protesta?
«Ci sarà, è già prevista, un´iniziativa come Cgil ed è la manifestazione del 4 aprile. Certamente quella sarà anche l´occasione per far sentire la nostra voce contro questo attacco al diritto di sciopero. L´obiettivo a questo punto diventa inevitabilmente anche questo. Il disagio sociale sta crescendo, l´aumento del ricorso alla cassa integrazione sta diventando una vera e propria emergenza. E ora io vedo in questa azione del governo un´iniziativa complessiva. Un altro tassello a questo progetto che certamente avrà come obiettivo quello di spezzare l´unità sindacale anche in altri settori. L´ho già detto in passato: il governo cercherà di raggiungere accordi separati anche in alte categorie, proprio a partire dai metalmeccanici».
In passato la Fiom ha avuto forti divergenze con la segreteria confederale Cgil. C´è questo rischio anche per questa vicenda?
«La Cgil non può che considerare irricevibile questa modifica del diritto di sciopero. Su questo punto sono sicuro che non ci saranno differenze di vedute. Siamo di fronte a uno strappo della democrazia».

Corriere della Sera 28.2.09
Multe di 5 mila euro a chi blocca strade e ferrovie
Stretta sugli scioperi, approvato il disegno di legge
di Enrico Marro


Le nuove regole entreranno in vigore entro un anno Sacconi: ci confronteremo con le parti sociali

ROMA — Il disegno di legge delega sulla riforma del diritto di sciopero approvato ieri dal Consiglio dei ministri è limitato al solo settore dei trasporti, ma contiene anche una norma volta a impedire tutte quelle manifestazioni che bloccano strade, autostrade, ferrovie e aeroporti. Questi illeciti, dice l'articolo 2 del provvedimento, saranno puniti con multe a carico dei responsabili da un minimo di 500 a un massimo di 5 mila euro. Non solo, la riscossione delle multe, che verranno decise dalla «commissione per le relazioni di lavoro» (sarà questo il nuovo nome della commissione di garanzia, che si ridurrà da nove a 5 membri), verrà affidata ad Equitalia, la società pubblica di riscossione, che attraverso le cartelle esattoriali garantirà l'efficacia delle sanzioni. Queste norme, ha precisato il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, saranno valide anche per l'autotrasporto, che quindi non potrà più mettere in atto le iniziative tipo «Tir selvaggio » o «Tir lumaca» per bloccare la circolazione.
Il provvedimento è passato in Consiglio dei ministri all'unanimità, mentre continua la polemica tra governo e Cgil, con la Cisl che parla invece di testo «equilibrato». Le nuove regole, per entrare in vigore, hanno bisogno di essere tradotte in decreti legislativi, che il governo emanerà dopo una consultazione con le parti sociali e che dovranno ricevere il parere di entrambi i rami del Parlamento. L'iter dovrà concludersi, dice il disegno di legge, entro un anno.
Queste le principali novità che, ripetiamo, saranno limitate ai trasporti. Potranno proclamare lo sciopero solo il sindacato o i sindacati che insieme superano il 50% di rappresentatività. Potranno farlo anche quelli che superano il 20%, ma solo se la loro proposta di sciopero riceverà il 30% di voti in un referendum tra i lavoratori interessati. In alcuni servizi o attività «di particolare rilevanza» i lavoratori dovranno dichiarare in anticipo la loro adesione allo sciopero. La contrattazione disciplinerà lo sciopero virtuale (i dipendenti lavorano, il servizio funziona, ma lavoratori e azienda devolvono il corrispettivo economico dello sciopero).
Per evitare l'effetto annuncio, la revoca dell'agitazione sarà possibile solo con un «congruo anticipo».
Positivo il giudizio del presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia: «Evitare blocchi stradali è una necessità in un Paese civile». Critico invece Massimo D'Alema (Pd) che boccia il ricorso allo strumento della delega mentre il leader di Rifondazione per la Sinistra, Nichi Vendola, parla di «forzatura pericolosa della Costituzione».

Corriere della Sera 28.2.09
Una sfida culturale che divide il sindacato e radicalizza lo scontro
di Massimo Franco


Pd e Di Pietro critici soprattutto sul metodo scelto dal governo

Sta diventando un braccio di ferro culturale fra diritto di sciopero, e limitazione delle astensioni dal lavoro che creano disagi; e un'altra puntata della spaccatura del sindacato. È possibile che la legge delega approvata ieri dal governo per regolare le agitazioni nei trasporti pubblici sia una forzatura. Nel merito, però, si intravede uno schieramento più frastagliato di quello governativo. Comprende anche l'Udc; e include Cisl, Uil e Ugl. Il Pd sembra critico soprattutto sul metodo. Idv, estrema sinistra, Cgil ed estrema destra sono totalmente contro: le prime tre, preoccupate che Silvio Berlusconi stia riducendo la libertà sindacale, se non peggio; l'altra, allarmata dai conflitti sociali.
L'iniziativa di Palazzo Chigi e le reazioni dicono che è stato toccato un tabù. La paura di una limitazione del diritto di scioperare, garantito dalla Costituzione, appare più forte di ogni altra considerazione. Fa passare in secondo piano la rabbia e l'indignazione dell'opinione pubblica per quanto è accaduto nel trasporto aereo e ferroviario nei mesi scorsi: interruzioni selvagge, spesso decise da minoranze che hanno scavalcato le stesse confederazioni. E tende a presentare la Cgil come l'ultima trincea del diritto di sciopero: anche se sindacalisti come Raffaele Bonanni, leader della Cisl, la considerano una ridotta ideologica.
Ma l'opposizione confida nei rischi che la legge può correre dal punto di vista della costituzionalità; e soprattutto sulla gravità della crisi economica e la radicalizzazione della protesta. Antonio Di Pietro ieri ha ammesso che «una regolamentazione ci deve essere», criticando piuttosto la mancanza di discussione in Parlamento. L'Idv, però, va oltre e sostiene che la legge «sequestra e uccide il diritto». Prefigura una «violazione costituzionale » simile a quella che fece fallire il tentativo di modificare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sui licenziamenti.
L'avversario più irriducibile, tuttavia, rimane Guglielmo Epifani. La sua Cgil vede nella legge presentata dal ministro Maurizio Sacconi non la voglia di regolamentare gli scioperi nei trasporti pubblici, ma un attacco che prefigurerebbe «svolte autoritarie ». Nel sindacato di sinistra prevale, dunque, una lettura politica e di sistema, che va al di là del provvedimento. Il fantasma evocato è quello di Berlusconi; e la Cgil si appella implicitamente all'opposizione. Il centrodestra chiede al Pd di non essere subalterno alla Cgil. Lo vede come un errore che aumenta le distanze fra sinistra ed opinione pubblica.
Ma la scelta della maggioranza di procedere comunque dà spazio a chi accredita un'offensiva antisindacale dai contorni costituzionali almeno ambigui. E la vicinanza con le elezioni europee azzera i margini di manovra. D'altronde, la strategia del neosegretario del Pd, Dario Franceschini, archivia il dialogo col premier abbozzato all'inizio del 2008 da Walter Veltroni. E insegue un recupero su parole d'ordine radicali, fatte su misura per arginare l'emorragia di voti a favore dell'Idv. La difesa degli scioperi nei trasporti pubblici può essere impopolare nel Paese; ma probabilmente non per l'elettorato che continua a considerare l'antiberlusconismo come una stella polare.

Liberazione 28.2.09
«È incostituzionale legare la protesta alla rappresentatività»
di Roberto Farneti


Fabrizio Tomaselli Coordinatore nazionale di SdL Intercategoriale

Un vero e proprio «attacco alla democrazia», un «colpo di mano che va sventato sul nascere». Questo il duro giudizio dei sindacati di base Cub, Confederazione Cobas e SdL Intercategoriale sulle nuove regole per gli scioperi contenute nel disegno di legge delega varato ieri dal Consiglio dei ministri. Un attacco che ha come obiettivo quello di «imporre per legge la pace sociale» e che necessita di una risposta immediata, a partire dallo sciopero del trasporto aereo del 4 marzo. La difesa del diritto di sciopero e della democrazia sindacale saranno inoltre al centro della manifestazione nazionale del 28 marzo a Roma contro la politica economica del governo e dello sciopero generale indetto dalle tre organizzazioni per il 23 aprile.

Fabrizio Tomaselli, coordinatore nazionale di SdL. La Costituzione tutela il diritto di sciopero «nell'ambito delle leggi che lo regolano». Non è quindi incostituzionale proporre nuove regole. Perché sostenete il contrario?
Perché quando una legge di fatto impedisce l'esercizio del diritto di sciopero, questa è una violazione della Costituzione. Con queste norme in alcuni settori non si potrà più scioperare. Legare la possibilità di indire uno sciopero alla rappresentatività più o meno ampia di chi lo propone, di fatto trasforma il diritto individuale del lavoratore in un diritto esclusivamente prerogativa delle organizzazioni sindacali. Oggi come oggi anche gruppi di lavoratori non inquadrati in una specifica organizzazione sindacale possono promuovere scioperi. E' il caso di tanti coordinamenti di base: basti ricordare l'ultimo sciopero per la sicurezza effettuato dall'assemblea nazionale dei ferrovieri. Queste norme non solo sono incostituzionali ma anche inapplicabili, perché a tutt'oggi non esiste una legge sulla rappresentanza in grado di misurare la rappresentatività delle singole organizzazioni ai vari livelli: aziendale, di settore e nazionale. Nelle aziende dove gli iscritti ai sindacati sono meno del 50% dei lavoratori - e sono tantissime - ogni sciopero dovrebbe essere preceduto da un referendum, mentre in quelle dove la sindacalizzazione fosse più bassa del 20% il diritto di sciopero verrebbe di fatto abolito.

La questione della rappresentatività è stata sollevata anche da Antonio Martone, presidente della Commissione di garanzia. Martone cita l'esempio di uno sciopero Alitalia che avrebbe provocato la cancellazione di oltre 200 voli pur avendo ottenuto poche decine di adesioni...
Quello che dice Martone non è vero. L'equivoco nasce dal fatto che quando c'è uno sciopero nel settore dei trasporti, spesso l'adesione di molti lavoratori non viene conteggiata a causa delle cancellazioni preventive di treni e voli operate dalle aziende, al fine di evitare disagi ai passeggeri.

Misurare in via preventiva il livello di adesione agli scioperi non può essere un modo per venire incontro alle esigenze dei cittadini?
In qualsiasi parte del mondo l'esercizio dello sciopero è libero. Un lavoratore ha il diritto di decidere il giorno stesso se scioperare o meno. Anche perché, dal giorno della proclamazione, lo stato della vertenza può cambiare. L'adesione preventiva individuale espone invece il singolo lavoratore a forme di intimidazione da parte delle aziende, soprattutto in quelle piccole.

Si parla di sciopero virtuale. Ma per quale motivo un lavoratore dovrebbe dichiararsi in sciopero e lavorare gratis?
Parlare di sciopero "virtuale" è una contraddizione in termini. E' evidente che in questo modo si rischia di creare un forte squilibrio tra quello che ci rimetterebbe il lavoratore, pur lavorando, e il danno subito dall'impresa. Inoltre, specie nei trasporti e nei servizi, l'efficacia dello sciopero è legata anche al danno di immagine per le aziende.

Intanto il Codacons si schiera con voi e la Cgil e al governo manda a dire «di non utilizzare la scusa dei consumatori per violare la Costituzione». Una solidarietà inaspettata?
Questa contrapposizione con l'utenza spesso è strumentalizzata. Basti ricordare le battaglie comuni tra pendolari e lavoratori per l'efficienza dei servizi di trasporto ferroviario. Ci sembra che questa volta il Codacons abbia colto correttamente l'incostituzionalità delle norme proposte dal governo.

il Riformista 28.2.09
Troppo e troppo poco
di Giovanni Di Cagno


Se ce ne fosse stato bisogno, gli scioperi dei mesi scorsi nel settore aereo hanno ampiamente dimostrato l'esigenza di una riforma della legge che regola l'esercizio del diritto di sciopero nei servizi essenziali. Esigenza cui, purtroppo, si erano sinora dimostrate sorde le maggiori confederazioni sindacali. Oggi, dopo mesi di annunci, ecco finalmente il disegno di legge-delega del Governo sullo sciopero. Un testo per alcuni versi dirompente, e per altri al di sotto delle necessità, limitato com'è al solo settore dei trasporti.
Un mezzo pasticcio, dunque, cui è facile pronosticare un cammino parlamentare accidentato.
Per cominciare, si porranno problemi di costituzionalità. È corretto modificare attraverso lo strumento della delega una legislazione incidente su diritti costituzionali primari dei cittadini? Il dubbio è lecito. Soprattutto quando si vede che il Governo pretende una sorta di delega in bianco «ad apportare all'ordinamento vigente ogni ulteriore modifica o integrazione». L'eccesso di delega appare macroscopico!
Ulteriori gravi dubbi di costituzionalità pone la norma più rilevante del progetto governativo, secondo cui potranno proclamare uno sciopero nei trasporti solo i sindacati che rappresentino almeno il 50% dei lavoratori interessati (dal testo finale è sparito anche il referendum, che almeno consentiva una chance ai sindacati minori). Una soglia di sbarramento altissima, come si vede, che inibirebbe anche a sindacati fortemente rappresentativi la possibilità di proclamare scioperi, se non in condominio con altri; tanto per fare un esempio, la Ccil, pur essendo il sindacato maggiormente rappresentativo, non potrebbe quasi mai proclamare scioperi da sola. Per essere applicata, peraltro, la norma richiederebbe criteri di misurazione certi del grado di rappresentatività di ciascuna organizzazione; questione su cui il Governo, invece, incredibilmente glissa (forse per non urtare le note "sensibilità" della Cisl sulla materia). In realtà, sarebbe giusto privilegiare i sindacati maggiormente rappresentativi. Ma solo nel senso di attribuire loro una precedenza nell'effettuazione degli scioperi rispetto ai sindacati minori; il che, ridurrebbe sensibilmente il numero delle astensioni senza bisogno di vietare lo sciopero a milioni di lavoratori.
Quanto allo sciopero virtuale, a parole tutti lo vogliono ma nei fatti ne rifuggono. Prova ne sia che oggi l'unico accordo sindacale che lo prevede è quello per il settore dell'elisoccorso. La verità è che i veri nemici dello sciopero virtuale sono non tanto i sindacati quanto le aziende, e segnatamente proprio quelle di trasporto. Aziende che operano in genere in perdita (vedi quasi tutte le aziende di trasporto locale) e a cui, dunque, lo sciopero conviene, visto che risparmiano tanto sulle retribuzioni quanto sul servizio. Con lo sciopero virtuale, che secondo il Governo andrebbe introdotto "per via contrattuale", le aziende dovrebbero sia versare l'equivalente delle retribuzioni a un apposito fondo, sia far circolare i mezzi: un vero salasso economico. Voglio proprio vederli, questi accordi sindacali sullo sciopero virtuale!
Altre norme del disegno di legge, poi, sono assolutamente oscure. Che vuol dire, ad esempio, «divieto di forme di protesta o astensione dal lavoro che, per la durata o le modalità di attuazione, possono essere lesive del diritto alla mobilità»? La durata massima di un "primo sciopero" nel trasporto aereo è già oggi contenuta in quattro ore; comprimerla ancora significherebbe inibire lo sciopero tout-court. Quanto alle modalità di attuazione, par di capire che il Governo intenda riferirsi a blocchi stradali e simili. Ma questi sono comportamenti che non c'entrano nulla con lo sciopero in sè, e che già oggi possono essere repressi sulla base del codice penale. Che significa, allora, questa norma? Si vuole forse reintrodurre la sanzione dello sciopero sul piano penale? Basterebbe questo inquietante interrogativo a sconsigliare l'approvazione di una delega al Governo sul punto.
Ma a non convincere è anche il complessivo impianto del disegno di legge. Il concetto omogeneo di "servizio pubblico essenziale" fa ormai parte della nostra tradizione giuridica e sindacale. E i diritti alla salute o alla sicurezza non sono certo meno importanti di quello alla mobilità. Perché allora, per fare un esempio, la dichiarazione di adesione preventiva allo sciopero dovrebbe concernere solo i trasporti? Comportando un'oggettiva limitazione della possibilità di adesione allo sciopero, la dichiarazione preventiva si giustifica solo in funzione della tutela di categorie di utenti particolarmente deboli. E non v'è dubbio che un bambino, o comunque un minore, sia utente più debole di un vacanziere o di un manager. La dichiarazione preventiva, dunque, andrebbe estesa quanto meno a scuole e asili-nido. La scelta riduttiva del Governo è apparentemente incomprensibile, a meno che non si sia inteso accontentare sindacati fortemente radicati nel pubblico impiego. Come si sa, a pensar male qualche volta ci si azzecca …
Il disegno di legge-delega del Governo, insomma, andrebbe per un verso potato e per altro verso implementato. Non resta che augurarsi che la delicatezza della materia consigli all'Esecutivo di favorire un'ampia riflessione sia in Parlamento sia tra le parti sociali. E che il maggiore sindacato italiano, la Ccil, non si limiti alla condanna ma concorra alla discussione con fattive proposte, nella prospettiva di un effettivo contemperamento tra il diritto di sciopero e gli altri diritti costituzionali dei cittadini.

Corriere della Sera 28.2.09
Il questore: «Non sono i volontari autorizzati da Maroni, dobbiamo vigilare». Il sindaco protesta
Padova, ronde scortate dalla polizia
In strada quattro gruppi, da An alla Lega. Tafferugli con i no global
Agenti e carabinieri controllano i vigilantes Poi alla stazione arrivano gli autonomi e volano schiaffi e pugni
di Marisa Fumagalli


PADOVA — Ormai tutto fa ronda. Ogni occasione è buona per improvvisarsi guardiani del territorio, in nome della sicurezza. Ieri sera, a Padova, i gruppi organizzati scesi per le strade del capoluogo, a presidio delle cosiddette zone calde (leggi spaccio, degrado, clandestini molesti), erano addirittura quattro, dislocati in tre aree della città.
In prima linea, i cittadini leghisti di Veneto sicuro — precursori del «genere», con le ronde padane — alla stazione ferroviaria; poi, gli extracomunitari per la legalità (guidati da un giornalista di colore di Retenova), sostenuti, a quanto pare, da An, nel quartiere caldo della Stanga. Là dove il sindaco Flavio Zanonato fece erigere il muro anti-spaccio.
Anche a Padova, come altrove, i neri rondisti sono un fenomeno emergente, che fa notizia. Nelle vicinanze della Stanga, infine, vigilava il Comitato di cittadini di via del Pescarotto.
Risultato? Per badare ai rondisti, sono stati allertati agenti e carabinieri. «Che avrebbero potuto essere utilizzati meglio altrove — sibila Zanonato —. Stiamo sfiorando il ridicolo: siamo alle guardie dei guardiani».
Sostanzialmente, sulla stessa linea è il questore, Luigi Savina. Dice: «In verità, qui si tratta di manifestazioni autorizzate. Le ronde prospettate dal ministro dell'Interno, Maroni, sono di là da venire. Invece, troviamo persone che si muovono in alcuni punti della città, munite di pettorina gialla, dicendo di voler fare sorveglianza civica. Preavvisato, ho dato il benestare. Non posso permettermi, però, di non tenerle d'occhio. Le provocazioni sono dietro l'angolo».
Com'è successo, ieri sera, dopo l'esordio in sordina. Alla stazione, dove c'erano più cronisti che rondisti (meno di dieci), a un certo punto hanno fatto capolino gli autonomi del Centro sociale Pedro, guidati da Max Gallob. Risultato? Sono volati schiaffi e pugni, ma i tafferugli sono stati sedati sul nascere, con il pronto intervento dei celerini.
«È chiaro — spiega il questore — che la politica c'entra, e subito c'è chi coglie la palla al balzo. «Per inciso — continua — nei giorni scorsi, un gruppetto che fa capo a Rifondazione comunista ha messo su, a mo' di sberleffo, non le ronde bensì le "rondinelle"».
La sicurezza, allora, è un pretesto? A Padova, come in altre città, il problema esiste ed è sentito. «Ma — nota il sindaco, — vedo più speculazione politica che altro. Per quanto mi riguarda, attendo che il decreto Maroni diventi legge. Poi, mi regolerò di conseguenza, secondo le indicazioni chiare e certe. Le ronde, posso assicurarlo, saranno apartitiche».
Il questore Savina ci dà un dato, piuttosto confortante: «Padova ha chiuso il 2008 con il 20 per cento in meno di reati rispetto all'anno precedente ». «Tuttavia — precisa subito —, la sicurezza percepita è un'altra cosa».

l’Unità 28.2.08
Per le ronde il nemico è lo zingaro
di Dijana Pavlocic


Ho ricevuto una telefonata da un Sinto. Mi dice che devo smettere di dire che Rom e Sinti sono lo stesso popolo, che loro non c'entrano nulla con i rom stupratori e che per colpa nostra i gage se la prendono anche con i Sinti. Non capisco. Poi mi arrivano notizie di alcuni amici preoccupati : in diverse città italiane prossime alle elezioni amministrative esponenti del Popolo delle Libertà hanno offerto ai Sinti - cittadini italiani- 50€ per voto in cambio di protezione dopo una eventuale vincita. È già successo - mi dicono - anche con altre formazioni di destra. Gli "zingari" allora non sono proprio tutti da buttare via e da prendere a "calci nel culo"? Ce ne sono che servono per una manciata di voti e così si esporta un po' del proprio razzismo nelle comunità che ne sono anche l'oggetto e scatenare un'altra guerra: Sinti, cittadini italiani, votanti, contro i Rom stranieri, "tutti stupratori e ladri" e non votanti.
Mi chiedo che protezione possono offrire a queste persone terrorizzate? Forse le ronde selezioneranno in che campo andare? E come potranno spiegare questo ai loro elettori che in ogni campo senza distinzione vedono solo zingari e basta? Come la prenderanno quegli elettori che sul Facebook hanno creato un gruppo che si chiama ACCENDI ANCHE TU UN FIAMMIFERO ... PER DARE FUOCO A UN CAMPO ROM!!! e che ha 14400 iscritti che ripetono nella loro chat, le parole i concetti dei vari Borghezio e che non vedono l'ora di iscriversi alle associazioni "civili e innocue" che faranno le ronde "armati solo di telefonini"? Tanto per non lasciare dubbi uno di questi aspiranti rondisti si firma con un nome tragicamente famigerato: Himmler. Questi sono gli allievi di Gentilini che con la stessa camicia verde e dallo stesso palco di Bossi e Maroni invoca l'eliminazione dei bambini zingari. La Lega, come l'apprendista stregone di Paul Dukas (per chi avesse visto Fantasia di Disney) ha innestato con la sua campagna di terrore contro immigrati e rom una deriva razzista che trova nelle norme del pacchetto sicurezza legittimità e giustificazione e soprattutto scava nella coscienza delle persone il solco incolmabile dell'odio. Io vengo da un paese distrutto dall'odio e Ivo Andric, grande scrittore serbo, ci aveva ammonito: "Io so che l'odio e la collera hanno una loro funzione nello sviluppo della società. Ci sono ingiustizie e soprusi che solo i vortici dell'odio e della collera possono annientare. Ma non si tratta dell'odio che rappresenta un momento nel processo di sviluppo della società, la tappa inevitabile di un'evoluzione storica, ma di un odio che si manifesta come una forza autonoma, che trova in se stesso la propria ragione di essere. È l'odio che fa scontrare l'uomo con un suo simile e poi li rigetta entrambi nella miseria e nella disgrazia, o li sotterra."
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

Corriere della Sera 28.2.09
Non basta deprecare i tagli alle biblioteche
di Giovanni Belardelli


Qualche giorno fa, in una lettera al Corriere (23 febbraio), alcuni storici hanno denunciato la grave situazione di biblioteche e archivi italiani, dove sta diventando sempre più difficile consultare libri o documenti a causa di limitazioni di vario genere (anzitutto di orario) dovute al taglio delle risorse.
A prima vista è impossibile non associarsi alla denuncia di Andrea Graziosi, presidente della società dei contemporaneisti italiani, e degli altri firmatari della lettera. Eppure in ciò che scrivono c'è qualcosa che non convince. Non certo i fatti, che stanno esattamente come li riferiscono. Quel che non convince, in questa come in altre analoghe denunce dei tagli operati nel campo della cultura, è il tono unicamente deprecatorio. Come se il centro del problema stesse nel ricordare all'esecutivo l'importanza della cultura (così che allarghi i cordoni della borsa) e non nella circostanza che i soldi in realtà non ci sono, o meglio non ci sono più.
Il fatto che in Italia il debito pubblico superi di qualche punto percentuale l'intero ammontare del Pil cos'altro sta a significare, se non che quei soldi un po' tutti abbiamo consentito che venissero spesi con leggerezza? Perché quando in passato si sono prese certe decisioni — che so, mandare tanti cinquantenni in pensione — nessuno o quasi ha ricordato che quell'uso della spesa pubblica avrebbe reso necessari, prima o poi, dei tagli a danno della cultura (e non solo)? Dopodiché, certo, ora dobbiamo cercare di non mandare in malora il nostro patrimonio archivistico e bibliotecario; ma se ci ricordassimo, oltre che degli effetti di oggi, anche delle cause di ieri, la denuncia non suonerebbe più convincente?

l’Unità 28.2.09
Precari della scuola in mobilitazione
Fioroni: «Si ignorano tutti i loro diritti»
di Maristella Iervasi


«Non si presta attenzione ai precari della scuola. Non c’è alcuna tutela, alcun ammortizzatore sociale», dice Bebbe Fioroni, responsabile Educazione del Pd, dopo la storia della prof che ha scelto di fare la bidella.

Gli studenti sono tornati nelle piazze con il «Surging Day», un assaggio dell’Onda anti-Gelmini d’autunno che sta riorganizzandosi. 50 mini cortei in diverse città del Paese. E altre mobilitazioni sono già in calendario perchè sulla scuola tutta, la battaglia non è finita con l’approvazione definitiva dei regolamenti sul primo ciclo e la riorganizzazione scolastica. Proprio su questi provvedimenti di governo pende la spada di Damocle dei ricorsi: del Cidi e della Flc-Cgil, che ha anche impugnato davanti al Tar la circolare sulle iscrizioni. Già la scuola. Proprio oggi i presidi informeranno il ministero di viale Trastevere sull’esito della scelta delle famiglie: maestro unico o tempo pieno? Secondo indiscrezioni, sarebbe stato sconfitto proprio il maestro imposto dalla Gelmini. E non finisce qui. In commissione alla Camera c’è il disegno di legge Aprea con la trasformazione delle scuole in fondazioni, mentre è già sul piatto la partita pesante dei tagli organici: 42mila cattedre in meno nel 2009. E a restare a bocca asciutta saranno almeno 30mila supplenti annuali e 10mila prof di ruolo in esubero.
Il precariato della scuola è diventato un tema sociale. 240mila sono le persone coinvolte. È la drammatica testimonianza a l’Unità di Amalia Perfetti, la prof di italiano che ha deciso di fare domanda per diventare bidella, è solo una delle tante storie ordinarie. Antonio Bucciarelli, ad esempio, sono 25 anni che è precario. Insegna educazione fisica in 2 scuole a Tivoli. Guadagna 1200 euro per 10 mesi l’anno e ne spende 150 al mese di benzina per salire in una «cattedra» a tempo. «Sono un precario preistorico: ho 57 anni, 4 abilitazioni. Non chiedo l’elemosina o una raccomandazione, ma i diritti guadagnati sul campo con il lavoro e la preparazione». Domenica 1° marzo la mobilitazione: a Napoli e Bologna con una assemblea pubblica.
Bebbe Fioroni, neo responsabile Educazione del Pd, è profondamente amareggiato. «Si ignora l’esistenza dei precari. Si ignorano i loro diritti e la loro professionalità per avviare progressivamente un sistema non di razionalizzazione ma di depauperamento sistemantico del nostro sistema di istruzione».
I tagli alle cattedre che la Gelmini ha accettato senza batter ciglio sono pesantissimi: già dal prossimo settembre verranno soppresse 42mila posti docente. «Purtroppo la storia di Amalia a breve rigurderà qualche centinaia di migliaia di docenti e decine di migliaia di Ata - precisa Fioroni -. La cosa che più dispiace è che non c’è alcuna tutela, alcun ammortizzatore sociale per i precari della scuola. Non si presta alcuna attenzione per coloro che hanno svolto da 10-15 anni non un lavoro abusivo, senza capacità e preparazione, ma professionisti che hanno istruito, cresciuto ed educato i nostri figli».
Per i precari della suola non si è presta alcuna tutela, alcuna ammortizzatore sociale, nessuna attenzione per coloreo che da 10-15 anni non hanno svolto lavoro abusivo, senza capacità e preparazione, si tratta di professionisti che hanno istruito cresciuto educato i nostri figli».
Il governo Prodi (Fioroni ministro) ha messo in ruolo 75mila precari. «Nel triennio - sottolinea il responsabile del Pd - avevamo previsto l’assunzione di 150mila. È ingeneroso lo s tudio della Fondazione Agnelli: non si tratta di immissione in ruolo di persone che non hanno mai lavorato. Sostenere che sono anziani quindi poco competenti è inaccettabile. non degno di un paeste civile».

Repubblica 28.2.09
"Accordi con chi accoglie le nostre idee"
Elezioni europee, Pannella guarda anche a destra


CHIANCIANO - Il grande vecchio dei radicali è di nuovo sul mercato. Pronto a tutte le alleanze per le europee. Anche con il centrodestra. Marco Pannella: «Siamo aperti a qualunque accordo sensato. Vedremo chi raccoglie le nostre richieste. A occhio, magari è più difficile che ci tenda la mano un intellettuale organico progressista come Gasparri...». Però il messaggio al Pd parte chiaro e forte: fateci una proposta o guardiamo altrove. I radicali dedicano il loro congresso alla lotta contro la partitocrazia, «regime peggiore del fascismo». Ma fra i delegati non si parla d´altro che di liste. Ieri è arrivato Pierluigi Bersani, a tessere la sua tela "dalemiana" delle alleanze. Grandi aperture di credito a Pannella e alla Bonino, con operazione-simpatia verso i congressisti: «Tutti si mettano in testa che i radicali non sono biodegradabili». E oggi pomeriggio, un arrivo inatteso: Francesco Rutelli, ex vicesegretario del Pr negli anni '70.
Pannella, dopo l´uscita di scena di Veltroni, nutre qualche speranza in più verso il Pd. «Aspetto di capire le intenzioni di quel gran democristiano di Franceschini». Ma si tiene aperta anche la porta dell´accordo con socialisti, verdi e dissidenti del Prc: «Vendola è gay, e va bene, solo che è anche catto-comunista». Se salta tutto? «O soli o non ci presentiamo: siamo abituati a restare fuori dai parlamenti».

Corriere della Sera 28.2.09
Oggi Rutelli al congresso dei Radicali
Pannella tra Pd e «Sinistra delle libertà»
di A. Gar.


CHIANCIANO — Con chi va il Partito radicale alle elezioni europee? Marco Pannella dice che è pronto «a qualsiasi sennato accordo politico-elettorale». Con tutti? No, «solo con chi vuole, dopo 60 anni, la fine del Regime partitocratico». Quindi è possibile un'alleanza con il Partito democratico, come alle ultime politiche?
«Vediamo cosa farà il democristiano Franceschini. Sarà sempre meglio del partito del nulla di Veltroni».
A Chianciano Pannella ha riunito il Partito Radicale transnazionale e ieri è venuto in visita Bersani, area dalemiana, invitato perché oppositore di Veltroni. Bersani è in sintonia con i radicali soprattutto sul tema liberalizzazioni. Ma dice: «Non so nulla di liste». Allora, i radicali faranno una lista con l'area di Nichi Vendola (ex Rifondazione), Sinistra democratica di Mussi e Fava, Verdi e Socialisti? «Può essere — dice Pannella —, Vendola è gay e quindi dovrebbe esserci vicino sui diritti civili, ma è pure cattocomunista, purtroppo...». E' possibile perfino un accordo con la Destra? . C'è pure chi pensa che i radicali potrebbero correre da soli, come Marco Cappato. O che si potrebbe non correre, come Marco Beltrandi.
Deciderà Pannella, all'ultimo momento utile, nel modo più utile per i radicali. Oggi a Chianciano ci sarà un evento, il ritorno davanti a un'assemblea radicale di Francesco Rutelli, che lasciò il partito nel 1990, partendo verso sponde molto meno laiche.
Mentre Pannella valuta le opzioni, la coalizione Vendola-Sd-Verdi e Socialisti ha quasi chiuso il patto elettorale. Sulla scheda si chiameranno Sinistra per le Libertà, con un nome che riecheggia il Popolo delle libertà. «Ma in questo modo facciamo tornare a sinistra la parola libertà», spiega Riccardo Nencini, segretario socialista. Pochi e chiari i temi della campagna: un nuovo statuto del lavoro, diritti civili (testamento biologico e unioni di fatto), no al nucleare. Un sondaggio Nexus, fatto prima delle dimissioni di Veltroni, accredita a questa formazione il 4,6 per cento, senza i radicali.

Corriere della Sera 28.2.09
America Latina E' l'area in cui resistono le maggiori concentrazioni di indios minacciate dal «progresso»
Oriente Dall'India a Papua sono vittime della violenza politica e dello sfruttamento delle risorse naturali
Popoli indigeni, rischio estinzione
Sono ancora 370 milioni in tutto il mondo In Brasile ogni due anni scompare una tribù
di Alessandra Coppola Stefano Rodi


Genocidio. Un titolo di una sola parola a caratteri cubitali tra le pagine del Sunday Times Magazine svela ai lettori britannici una realtà a lungo nascosta: lo sterminio dei popoli indigeni, avviato nei secoli delle conquiste, non si è mai arrestato. Il reporter Norman Lewis si immerge nelle carte di un'inchiesta della procura generale brasiliana e porta a galla uno scenario da incubo: assassinii di massa, torture, morbi atroci come il vaiolo deliberatamente inoculati, veleni, riduzione in schiavitù, abusi sessuali, furti e soprusi di ogni sorta. Una «tropical Gomorrah», scrive in un passaggio Lewis: «La tragedia degli indiani di America si sta ripetendo, ma compressa in un tempo più breve. Dove dieci anni fa c'erano centinaia di indios, ora ce ne sono poche decine».
Era domenica 23 febbraio 1969, avrebbe potuto essere ieri. A quarant'anni esatti da quell'articolo choc che provocò grande reazione e la nascita di una delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti dei popoli indigeni, «Survival», lo scenario non è cambiato di molto. Francesca Casella, direttrice di «Survival International Italia», fa il punto: «Un progresso importante c'è stato: è cambiato l'atteggiamento dell'opinione pubblica. L'estinzione dei popoli indigeni non è più data per scontata ma gli ostacoli restano tantissimi: violenze, usurpazione delle terre, presunzione che si tratti di popoli rimasti primitivi, che hanno bisogno del nostro aiuto per svilupparsi e cambiare stile di vita. Senza essere consultati».
Le cifre non sfigurerebbero sotto il titolo «Genocidio»: nel secolo scorso in Brasile è scomparsa una tribù ogni due anni, 87 solo tra il 1900 e il 1957. I casi raccontano ancora di una Gomorra nascosta nel fitto della vegetazione. Gli Enawene Nawe, del Mato Grosso, in Brasile. Al principio una storia di speranza: contattati nel 1974 dai missionari gesuiti, erano 97; protetti e lasciati in condizione di prosperare, oggi sono quasi cinquecento. Ma rischiano l'estinzione. La vita della tribù, che ruota intorno al fiume Yuruena, rischia di essere soffocata da un progetto di 77 dighe destinate alla produzione di energia elettrica per i grandi coltivatori della zona, primo tra tutti il magnate della soia Blairo Maggi. Che è anche il governatore dello Stato, cioè colui che firma il via libera al progetto.
La terra usurpata resta il primo problema. Così a Nord del Brasile, nel Marañhao, gli Awà non possono che arretrare davanti alle ruspe e alle motoseghe. In fuga da decenni sono ormai ridotti a trecento, rifugiati ai margini di quella che un tempo era la loro foresta, minacciati dal mondo «civilizzato» che avanza portando malattie, depressione, alcol. Una campagna internazionale era riuscita a vincolare finanziamenti della Banca mondiale destinati allo sviluppo alla demarcazione della loro terra: il Brasile ha eseguito, ma poi non impedisce che la riserva sia costantemente invasa.
Amministrazioni conservatrici o, come nel caso di Lula a Brasilia, progressiste, poco cambia. L'unica differenza la fa la volontà politica. A volte c'è, più spesso manca. Le regole in questi anni sono state fissate; anche l'Onu, il 13 settembre 2007, ha approvato la Dichiarazione sui Diritti dei popoli indigeni. Quanto ai Dongria Kondh, ottomila superstiti asserragliati sulle colline di Niyamgiri, Stato indiano dell'Orissa, più che nel governo puntano sul sostegno della popolazione locale, e sulle campagne internazionali. Da mesi sulle loro terre sono al lavoro gli operai di una delle più grandi compagnie minerarie britanniche, la «Vedanta», che progetta un'immensa miniera di bauxite. Per fermarli «Survival» sta cercando di fare pressione sugli azionisti di «Vedanta».
Sembrano vicende lontane, si scopre che sono anche italiane. Roma, come membro Ue, contribuisce agli aiuti destinati al Botswana (nel 2001 un accordo da 10 milioni di euro) per «salvaguardare le riserve protette». Il governo dello Stato africano però ha un'idea originale della salvaguardia, in particolare del deserto del Kalahari, terra ancestrale dei Boscimani. Una sentenza dell'Alta corte del Botswana riconosce il diritto degli indigeni di vivere in quell'area, ma l'amministrazione li ha ormai sfrattati — con il pretesto di inserirli nella società — e rende impossibile il rientro: cementato l'unico pozzo d'acqua che dava sostentamento all'intera tribù, vietato riaprirlo. Al tempo stesso però è stata autorizzata la perforazione di altri tre pozzi destinati alle attività minerarie, alle strutture turistiche e ad abbeverare gli animali. Una ragione c'è: diamanti. All'inizio offerti (al 50%) alla De Beers, che però dopo la campagna internazionale ha venduto a Gem Diamonds.
A volte è il bisogno di affermare la sovranità, come nel caso dell'Indonesia nella Papua Occidentale, dove gli indigeni sono vittime di una violenta repressione, induritasi nelle ultime settimane. Altre volte ancora è la guerra. In Colombia, per esempio, dove gli indios sono schiacciati negli scontri tra guerriglia, paramilitari ed esercito. È di questi giorni l'allarme per l'uccisione ancora da chiarire di 27 indigeni Awa (nessuna parentela con i brasiliani), secondo una delle ricostruzioni ammazzati dalle Farc perché sospettati di essere collaborazionisti delle forze armate. Il caso colombiano di recente è diventato una lettera preoccupata di 22 europarlamentari al presidente di Bogotá, Álvaro Uribe. Le denunce di violenze e minacce non si contano. Terribile la storia di Aida Quilcue, uccisa il 16 dicembre scorso a un posto di blocco dell'esercito. Laura Greco, una dei fondatori dell'organizzazione italiana «A Sud», lavora anche in Colombia. In particolare è responsabile di un progetto nel Guaviare con il popolo dei Nukak, spinti dal conflitto oltre le proprie terre fino alla periferia della capitale dello Stato, San José. «A Sud» cerca di provvedere a un minima assistenza sanitaria: «Era una popolazione nomade di cacciatori — spiega Laura —. Sedentarizzati in maniera forzata, hanno dovuto radicalmente cambiare abitudini e prima tra tutte l'alimentazione. Il che ha provocato nuove malattie: muoiono anche semplicemente di dissenteria. Di loro non si occupa il governo, né l'amministrazione locale che dice di aver bisogno del via libera da Bogotá. Hanno problemi di integrazione, in pochi sanno lo spagnolo, i bambini non vanno a scuola». Ai margini di tutto, in attesa di estinguersi. Non è molto diverso da quello che Lewis chiamava «genocidio».

Corriere della Sera 28.2.09
Isolati dal resto del mondo, più di cento gruppi etnici difendono le loro tradizioni fuggendo da ogni contatto con la «civiltà»
Gli «invisibili»: una vita sempre in fuga
di A. Co. S. Ro.


Tre anni fa in Rondônia, regione dell'Amazzonia brasiliana al confine con Perù e Bolivia, furono due funzionari governativi a vedere l'ultimo appartenente alla tribù dei Tumaru. Se lo ricordano bene, visto che puntò contro di loro il suo arco, da non più di dieci metri, prima di fuggire. Di lui non si è più saputo nulla. I due uomini del Funai, l'ente governativo per i diritti degli Indios, erano sulle sue tracce da molti giorni all'interno della foresta, da quando una tribù vicina li aveva avvisati che dei Tumaru era rimasto un solo individuo. Lo volevano trovare, per suggerirgli di unirsi a qualche altra tribù della zona. Ma quell'indio non ne ha voluto sapere. La sua scelta è stata quella di puntare l'arco e correre.
La sua è, o era, una delle circa 230 tribù conosciute che abitano nell'Amazzonia brasiliana, per un totale di 460 mila persone. Prima che arrivassero gli occidentali erano circa sette milioni gli Indios che popolavano la foresta brasiliana. Ma dopo secoli di stragi e devastazioni nel loro territorio, operate prima dai coloni, poi dai grandi allevatori e dalle multinazionali che hanno disboscato, costruito strade e dighe, c'è ancora qualcuno che manca all'appello: sono una quarantina di tribù. Sono quelle definite «no contact»: isolati, mai nessun incontro con altri uomini diversi da loro. Un mondo sconosciuto che vuole rimanere tale. Una vita in fuga, in luoghi sempre più remoti. Di loro non si sa nulla, se non il fatto che esistono.
E già questa è un'impresa che riesce solo agli altri indios che vivono nel fitto della foresta e che, volenti o nolenti, hanno invece contatti con il resto del Paese. Sono loro a riferire ritrovamenti di strumenti da caccia sconosciuti, o di aver visto nativi che non parlano la loro lingua darsi alla fuga nella boscaglia. Si sa in che zona vivono, ma non quanti sono o come sono organizzate le loro comunità.
La tribù dell'Amazzonia brasiliana degli Orowari, che nella loro lingua significa «il gruppo », vive nella riserva di Igarapé Laje, in una zona dello stato di Rondônia al confine con quella chiamata Musacanava, dove si sa che vivono tre diverse comunità di indios isolati. Gli Orowari hanno grande venerazione per questi loro vicini misteriosi: li chiamano «Ko Om Tan Krik Nana», «quelli che si nascondono», e che quindi non sono a conoscenza di un progetto ormai in fase di realizzazione che prevede la costruzione di un sistema combinato di dighe sul fiume Rio Madeira, per realizzare centrali elettriche. Il piano prevede che parte dell'area Musacanava diventi un lago artificiale. «Noi possiamo almeno provare a difendere i nostri diritti, farci sentire. Loro no— spiega Jesse Waram Xijeijn, 32 anni, capo di uno dei quattro villaggi Orowari che si trovano nella riserva di Igarapé Laje —. Li ammiriamo, perché continuano a vivere secondo tradizioni che erano anche nostre. Se saranno costretti a uscire da Musacanava, ammesso che sopravvivano alle ma-lattie e all'alcol, saranno uccisi dai grandi proprietari terrieri che sono ai confini della loro zona. E chi anche riuscirà a sopravvivere avrà perso per sempre il suo modo di vivere». Su come difendere quel mondo anche gli stessi Orowari si dividono. C'è chi ritiene giusto avvicinare «quelli che si nascondono», conoscere le loro tribù, il loro numero, le loro abitudini, perché così si può provare a tutelare meglio la loro area, e chi invece, come Waroi Jexian, uno degli insegnanti della scuola del villaggio, la pensa in modo opposto: «Nel momento stesso in cui avviene la conoscenza, anche da parte di altri indios, è l'inizio della fine delle tribù isolate. È accaduto un'infinità di volte e non basta dire che adesso si fanno subito le vaccinazioni e non muoiono più come un tempo per un semplice raffreddore. Molti muoiono lo stesso e poi il problema non si può ridurre semplicemente a quello della sopravvivenza. Loro vogliono continuare a vivere nella foresta come hanno sempre fatto».
A metà degli anni '80 un gruppo di aderenti alla «Missione delle Nuove tribù», un'organizzazione missionaria fondamentalista con sede negli Usa, organizzarono una spedizione non autorizzata dal governo brasiliano, per entrare in contatto con un gruppo allora sconosciuto, gli Zo'è, nello stato del Pará. Una volta individuati dall'aereo i villaggi, distribuirono regali e costruirono una base a pochi giorni di cammino. Poco dopo il primo contatto, avvenuto nel 1987: decine di Zo'è morirono di influenza, malaria e malattie respiratorie. Di casi come questo ce ne sono stati a decine.
A essere convinto che non esista un modo corretto per entrare in contatto con gli indigeni che scelgono di vivere isolati c'è anche Sydney Possuelo, esploratore, antropologo e primo direttore del Funai, responsabilità che lo ha portato per anni nella foresta a seguire tracce di popoli sconosciuti. Ne ha contattati diversi, e si è pentito di averlo fatto: «Anche se si arriva da loro con le migliori intenzioni, li si introduce in una vita che non è loro. Regaliamo coltelli, pentole, forbici, e in questo modo creiamo bisogni che non avevamo mai avuto prima, rompendo un'armonia che è molto delicata. Gli attrezzi che noi abbiamo lasciato nelle loro mani prima o poi si rompono e a quel punto lo sarà anche il loro equilibrio». Del resto questi popoli incontattati, proprio perché privi di tecnologia moderna, sono in grado di vivere in equilibrio in mezzo a una natura dove tutti gli altri non sarebbero in grado di sopravvivere una settimana. La loro storia, ma in generale quella di tutti gli indios, non sta scritta nei libri. Uno di loro, ormai integrato nella società, Daniel Munduruku, che coordina la collezione «memorie ancestrali» per un'importante casa editrice brasiliana, ha spiegato che «per noi scrivere un libro è una novità: le storie vivono dentro di noi. È più facile che avere a che fare con un libro, il libro pesa».

Corriere della Sera 28.2.09
Gli studi di un team del San Raffaele: la prova viene da simboli senza significato che attivano l'area di Broca
Come si parla? Il cervello lo sa già
Il linguaggio è innato: conosciamo la sintassi prima di costruire le frasi
di Edoardo Boncinelli


Nel nostro cervello c'è una regione capace di utilizzare la sintassi anche in assenza di parole. La sintassi, cioè la capacità di disporre le parole secondo una schema definito e significante, è ritenuta il nucleo concettuale fondamentale del linguaggio. Tale capacità appare innata nell'uomo, mentre è assente negli altri animali anche i più vicini a noi ed è codificata in una regione specifica della nostra corteccia cerebrale sinistra: è la famosa area di Broca, necessaria per poter parlare. Questo fatto è noto dall'Ottocento e la sua scoperta è merito del dottor Paul Broca appunto, che localizzò con maestria la lesione cerebrale di un paziente che pur avendo tutte le altre facoltà intatte, quando voleva parlare emetteva solo un monotono «Tantantan».
Funzione superiore
In anni recenti si è mostrato che tale area è coinvolta anche nella retta articolazione del linguaggio dei segni, quello usato dai sordomuti ad esempio, come pure in un particolare sistema di comunicazione, detto silbo gomero, a suon di brevi fischi, tipico dell'isola de La Gomera, una delle Canarie. L'area sovrintende quindi al controllo della corretta disposizione sintattica dei segni, al di là e al di sopra del linguaggio vero e proprio. Un gruppo di ricerca del San Raffaele di Milano ha mostrato adesso che la stessa area può controllare anche un mezzo di espressione astratto costituito di simboli visuospaziali inventati. Si tratta quindi di una vera e propria «sintassi senza parole», di una funzione superiore che si estrinseca soprattutto nel linguaggio, ma che si estende anche ad altri domini funzionali della nostra mente.
Nocciolo fondamentale
L'uomo si è sempre chiesto che cosa caratterizzi il suo linguaggio; che cosa faccia, in altre parole, del linguaggio il linguaggio. Molti ling uisti, sulla scia di Noam Chomsky, hanno indicato nella sintassi il nocciolo fondamentale di questa facoltà e localizzato nel-l'area di Broca la regione cruciale per il suo espletamento. Nelle lingue naturali esiste un'enorme varietà di regole sintattiche, ma non vi sono rappresentate tutte quelle pensabili. Esistono infatti regole che non si trovano in nessun linguaggio naturale. Sono regole per così dire «proibite» dalla nostra facoltà di linguaggio. Un lavoro precedente del gruppo del San Raffaele che si avvale della consulenza linguistica di Andrea Moro, collaboratore di Chomsky, ha mostrato che un cervello che utilizza una regola sintattica «permessa», cioè che si può trovare in una lingua naturale, utilizza per farlo l'area di Broca, mentre quando maneggia regole sintattiche diverse, costruite artificialmente ma non presenti in nessuna lingua naturale, non la usa. Come dire che l'area di Broca può funzionare solamente seguendo certe regole, ma non certe altre. In altre parole, le regole della nostra sintassi sono scritte nel cervello, probabilmente dalla nascita.
Quello che riguarda la lingua sembra adesso vero anche per altri sistemi di combinazione dei segni. In un lavoro di Marco Tettamanti e collaboratori che uscirà sulla rivista
Cortex, il gruppo di ricerca che fa capo ad Andrea Moro per la parte linguistica e a Stefano Cappa per le metodiche di neurovisualizzazione delle aree cerebrali ha mostrato come tale distinzione vale anche per una composizione visuospaziale di pura invenzione.
Prerequisito essenziale
Si tratta di mettere in fila simboli visivi astratti che non hanno alcun significato, ma lo si deve fare rispettando certe regole dettate dallo sperimentatore. Ebbene, quando queste regole corrispondono a quelle che sarebbero permesse in un linguaggio naturale, nel cervello di chi lo fa si attiva l'area di Broca, mentre quando non corrispondono, questa area non si attiva e se ne attivano altre. Come dire che per il nostro cervello la sintassi viene prima del linguaggio e ne costituisce il prerequisito essenziale. Parlare vuol dire scegliere vocaboli, metterli in un ordine locale grammaticale e in un ordine globale sintattico, secondo trame coesive e ricorrenti ma non rigide.

l’Unità 28.2.09
Il segreto dei Della Robbia
Luca, Andrea, Giovanni e Girolamo
Omaggio toscano alla famiglia delle ceramiche «glassate»
di Renato Barilli


Arezzo. È nozione alquanto scolastica e abusata che la Firenze del primo Quattrocento, nella scultura, abbia visto lo scontro tra Donatello (1386-1466), con le sue creazioni aspre, arrembanti, vivacissime, e invece Luca Della Robbia (1400-1482), calmo, pacioso, tranquillizzante. Non che ci fosse un dissidio personale tra i due, anzi, il più giovane crebbe forse alla scuola dell’altro, e anche di quella del Ghiberti e del Brunelleschi, come attesta una mostra scrupolosa ora allestita a Lucca, i cui primi pezzi vedono appunto una collaborazione tra Luca e i suoi maggiori. Ma certi luoghi comuni, anche se sono tali, nondimeno risultano puntualmente verificabili. Proprio tra le prime opere esposte a Lucca c’è una Madonna col Bambino, di non sicura attribuzione a Donatello, sul cui conto però non ci sarebbe da dubitare. Le mani della Madonna si allungano adunche a cingere con stretta possessiva il figlio, che leva il visino in alto aprendo la boccuccia, abbozzando una smorfia che già anticipa i grafismi duri e dolenti del Mantegna. E il manto della Madonna asseconda queste tensioni scattanti descrivendo pieghe contorte. Si veda, sempre di Donatello, La creazione di Eva, in cui il corpo della prima donna attraversa la formella tracciandovi un’obliqua tesa come una lacerazione. Al confronto, Luca viene per smorzare quegli impeti, immobilizzando le figure al centro della composizione, e disegnandone i volti quasi col compasso, in tante versioni statiche, «centriche», gonfie, paffute. Si potrebbe dire, in termini odierni, che Donatello sceglie per sé l’anoressia, mentre il Della Robbia appare favorevole alla bulimia. Ma poi scatta il ben noto segreto tecnico di Luca, che stava nell’invetriare le ceramiche, cioè nel glassarle con un’epidermide lucida, riflettente, inossidabile, quasi in anticipo su certe caratteristiche dei materiali plastici di sintesi dei nostri tempi, con cui gli artisti rendono le immagini «più vere del vero».
GRAZIE ORNAMENTALI
Si pensi alle nature morte di Piero Gilardi, o ai personaggi rifatti a grandezza naturale da Dwane Hanson. Per di più, quelle ceramiche invetriate erano capaci di assorbire e restituire avidamente il colore, certi azzurro cobalto intensi, oppure il giallo dei fiori, il dorato delle aureole, il verde delle piante. E dunque, quello che Luca perdeva nelle sue immagini a livello di carica energetica, di espressione tesa e drammatica, lo acquistava a livello di grazie ornamentali, correndo in avanti fino a rasentare gli esiti che nel Novecento avrebbe conseguito l’Art Déco. A un certo punto, Luca passò la mano a una schiera di discendenti, il nipote Andrea, e i figli di lui, tra i quali si distinsero Giovanni e Girolamo, tutti ben documentati in mostra, ma via via più sterotipati, sempre più lontani dagli ideali intensi degli inizi del secolo. Con la curiosa conseguenza che, pur ormai assestati su una routine così conformista, parteggiarono per la causa del Savonarola, ma forse nel nome di un medesimo culto del tempo antico.
I Della Robbia. Il dialogo tra le arti nel Rinascimento A cura di G. Gentilini
Arezzo, Museo statale d’arte medievale e moderna Fino al 7 giugno - Catalogo: Skira

venerdì 27 febbraio 2009

Repubblica 27.2.09
Quando la legge è invasiva
di Stefano Rodotà


Senza la ferma e argomentata critica alla proposta sul testamento biologico in discussione al Senato, e al sostegno venuto a questa posizione da un numero crescente di cittadini, non vi sarebbero stati i dissensi all´interno della maggioranza che lasciano intravedere la possibilità di una discussione non scandita soltanto dalla violenza del linguaggio e dalla povertà degli argomenti.
Da questo è legittimo trarre una lezione politica. La nettezza delle posizioni paga, la critica al proibizionismo legislativo incontra il consenso sociale, le mediazioni tutte interne alle logiche di partito non servono a nulla. Si fanno strada, insieme, la consapevolezza che si stanno mettendo in discussione le libertà fondamentali della persona e la percezione dell´inadeguatezza degli strumenti giuridici ai quali si vuole ricorrere.
Forse non tutti se ne accorgono, ma stiamo ridefinendo il ruolo del diritto (e di riflesso della politica) nel mondo contemporaneo, più precisamente il rapporto che lo lega alla vita nelle sue diverse manifestazioni. Veniamo da una fase in cui si era duramente affermato che la regola giuridica doveva tenersi lontana dalla vita economica. Deregulation, appunto, era divenuta la parola d´ordine, tradotta in politiche deliberate di ritirata dello Stato, di rinuncia ad un diritto di fonte pubblica, lasciando così il mercato alle regole liberamente create da soggetti economici, dal sistema delle imprese. Un´opposta linea è progressivamente emersa, con particolare forza in Italia, per quanto riguarda la vita privata. Qui, complice la difficoltà sociale di metabolizzare i cambiamenti profondi determinati dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, si è fatta strada un´idea autoritaria di ricorso al diritto che, caduti una serie di vincoli naturali che governavano il nascere e il morire delle persone, dovrebbe imporre alle persone vincoli artificiali nel governo del corpo.
Ora gli effetti catastrofici della crisi finanziaria fanno invocare non solo un ritorno del diritto, ma la messa a punto, per la vita economica, di un sistema interamente rinnovato nelle istituzioni e nelle modalità d´azione dei diversi soggetti pubblici e privati. Parallelamente, sull´onda assai emotiva del caso Englaro, si è aperta una pubblica discussione sul grande tema del rapporto tra la vita e le regole che, proprio perché molti sono i fraintendimenti e le strumentalizzazioni, merita un´attenzione non legata alla contingenza.
E´ necessario liberarsi da un modo semplificato di guardare al diritto, di cui la forza delle cose ha messo in luce l´inadeguatezza. Bisogna esercitare la virtù della distinzione: solo così si può giungere alla radice vera dei problemi. Infatti, mentre nella dimensione economica la regola giuridica serve ad impedire sopraffazioni da parte di chi esercita un potere altrimenti incontrollabile, riconducendo così le stesse negoziazioni dei privati "all´ombra della legge", quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza proprio quella regola può divenire essa stessa sopraffazione. Qui l´interrogativo si fa radicale: diritto o non diritto? E, comunque, che tipo di diritto?
Per rispondere a questi interrogativi non si può rappresentare la situazione attuale come lo scontro tra opposti estremismi, rimanendo prigionieri della logica del "clash of absolutes", di quel conflitto tra "assoluti" al quale ha dedicato riflessioni penetranti uno studioso americano, Lawrence Tribe, mettendo tra l´altro in evidenza come ormai la questione capitale sia quella di evitare che lo Stato possa imporre il ricorso ad una tecnologia, sacrificando così la libertà della persona. Proprio seguendo gli itinerari del diritto si può cogliere un cammino di progressiva liberazione delle persone da vincoli impropri, che implica anche un ridimensionamento del ruolo del diritto, non più strumento autoritario, ma custode dell´autonomia di ciascuno. Così, avvicinandosi alla vita, la regola giuridica incontra il suo vero limite.
Seguiamo qualche tratto di questo cammino. Quando si è attribuito un valore prioritario al consenso informato della persona, si è operata una redistribuzione di poteri, si è individuata un´area intangibile dall´esterno, si è sottratta la vita alla prepotenza del potere politico e alla dipendenza dal potere medico. Non sto dicendo che tutto sia stato risolto. Scrivendo su questo giornale, Carlo Galli e Roberto Esposito hanno ricordato come nelle situazioni critiche, il morire appunto, la biopolitica torni con la sua pretesa di impadronirsi del corpo: non dimentichiamo che due libri come il "Trattato sulla tolleranza" di Voltaire e "Sorvegliare e punire" di Michel Foucault si aprono con una descrizione di corpi, del supplizio di Jean Calas e dell´esecuzione di Damiens. Stiamo assistendo a un ritorno di questa pretesa, accompagnata da una restaurazione del potere medico nelle forme di una asimmetrica "alleanza terapeutica", dove il morente e i suoi familiari non sono lasciati soli nel fiducioso dialogo con il medico, ma consegnati all´esecutore di una impietosa volontà legislativa che cancella la rilevanza della volontà degli interessati.
Proprio perché di tutto questo rimane piena la consapevolezza, non ci si può limitare a invocare l´assenza della legge. Bisogna allontanare dalla vita una regola giuridica invasiva, portatrice di fondamentalismi e autoritarismi, e al tempo stesso sottolineare che vi è un ruolo del diritto come guardiano di un confine invalicabile, perché tracciato attraverso la "costituzionalizzazione" della persona. Non entriamo in una zona grigia, ma in uno spazio di libertà dove si arresta la stessa pretesa del diritto di dettare alla vita le sue regole.
Questo non è un risultato da conquistare, ma una acquisizione da difendere. Ribadire la libertà di scelta, il diritto al rifiuto di cure, allora, non è affermare una posizione di parte, bensì segnalare il punto a cui è giunto un cammino civile e giuridico, che oggi si vuol rimettere in discussione. Infinite volte, in questi tempi difficili, si è ricordato che i principi fondamentali del nostro sistema già offrono tutti gli strumenti per garantire non solo al morente, ma a tutti noi, la libertà in quella fase estrema del vivere che è appunto il morire. Qui serve il rispetto, non la pretesa di impadronirsi della vita altrui, magari invocando in modo largamente abusivo il principio di precauzione o capovolgendo il significato delle previsioni dell´Onu su alimentazione e idratazione forzata.
Da questo nesso sempre più intenso tra vita e libertà scaturisce per la vita un senso più profondo, e il diritto trova una sua più discreta misura. Si mette al servizio del "mestiere di vivere", e così può essere oggetto di apprendimento, luogo dell´uomo e non del potere, strumento più umile e disponibile e non imposizione inammissibile.

Repubblica 27.2.09
Il Pd e l’obbligo di scegliere
di Massimo L. Salvadori


Nel discorso di Dario Franceschini all´Assemblea del Pd di sabato 21 febbraio vi è stato un punto di netta discontinuità rispetto alla linea con cui Veltroni si era presentato alle ultime elezioni politiche: l´atteggiamento di fronte al Cavaliere. Veltroni aveva scelto una posizione soft, nell´illusione che fosse giunto il momento di lasciar cadere la carta logorata dell´antiberlusconismo, contribuendo così a ripristinare un clima di normalità nel confronto politico e a creare le condizioni per uno sfondamento al centro. L´errore fu duplice. In primo luogo di non voler trarre le conseguenze dal dato che punti essenziali del programma di Berlusconi sono un´alterazione degli equilibri tra i poteri dello Stato a favore del potere esecutivo da lui dominato, una modifica della Costituzione che questo squilibrio sancisca, un rapporto spiccatamente plebiscitario sia col suo partito sia con l´elettorato, una concentrazione crescente nelle sue mani del potere economico, politico e dell´informazione. In secondo luogo di non aver capito che la sua linea nei confronti del Cavaliere apriva uno spazio via via maggiore all´iniziativa di Di Pietro.
Nel suo discorso di investitura a segretario del Pd Franceschini ha per contro riconosciuto e denunciato con vigore la natura autoritaria della strategia di Berlusconi, avvalorando le ragioni di quanti (e la memoria corre al salveminiano Sylos Labini) gettarono per tempo l´allarme sull´ "emergenza democratica" che il berlusconismo andava creando in Italia. Un´emergenza, che è aggravata dal presente sbandamento delle forze di opposizione, dal Pd alla sinistra detta radicale, a cui il Cavaliere guarda con tale compiacimento da esercitarsi nella conta dei birilli avversari che ha fatto cadere l´uno dopo l´altro. E diciamo pure che dal suo punto di vista ha buone ragioni.
È uno sbandamento strategico, organizzativo, culturale e politico. Strategico, per le divisioni interne all´opposizione, che per troppi aspetti oppongono le sue componenti le une alle altre; organizzativo, perché il Pd, i socialisti, Sinistra Democratica, i Verdi, il gruppo di Vendola, i neocomunisti sono tutti variamente e affannosamente impegnati nella ricerca di una indefinita ristrutturazione; culturale e politico, perché su aspetti importanti come i nuovi diritti civili, i problemi attinenti alla laicità, l´atteggiamento da assumere in relazione ai sindacati (e altri se ne potrebbero citare), esprimono posizioni anche contrastanti, perché, di fronte ai modi di affrontare lo schieramento avversario non trovano un comune denominatore e perché, a pochi mesi dalle elezioni di maggio, non sono ancora in grado, salvo i comunisti, di dare risposte sicure circa la loro collocazione nel Parlamento europeo. Si deve davvero sperare che l´attuale sbandamento non ne prepari uno persino maggiore; e si può capire che gli occhi siano puntati anzitutto sul Pd, il quale ha alle sue spalle il mancato sfondamento al centro, ripetuti insuccessi elettorali, le acute tensioni con la semi-alleata Idv, i ponti rotti con le deboli forze alla sua sinistra, e dovrà senza dubbio tornare a misurarsi con le sue divisioni interne.
Divisioni, che Veltroni ha messo a nudo impietosamente nel suo discorso d´addio, e che Franceschini, assumendo il ruolo di "decisionista", ha affermato di voler finalmente porre sotto controllo. Egli ha anche personalmente espresso posizioni non chiarissime ma nondimeno impegnative in temi controversi come la fine vita e la collocazione del suo partito nel Parlamento europeo. Il bilancio negativo costituito dal correntismo, dalla contrazione del consenso, dalle dimissioni del primo segretario hanno avuto l´effetto di ricompattare dietro a Franceschini quasi tutto il partito, che ha detto un deciso no alla minaccia di un precoce scollamento. Il nuovo segretario capitalizza la consapevolezza dei delegati da cui è stato eletto a grandissima maggioranza che occorre fare argine e voltare pagina.
Fatto è che agli ex diessini, agli ex democristiani e agli altri ex del Pd, è più facile pronunciare dei no che dei sì, e che la ritirata dietro le quinte dei capicorrente è stata talmente improvvisa da suggerire un arretramento solo temporaneo causato da uno stato di shock. Contro le correnti Franceschini ha innalzato con energia la bandiera dell´unità. Sennonché, una volta scontato l´effetto iniziale, anch´egli sarà costretto, come Veltroni, a fare difficili conti con un modo strutturale di essere del Pd, insito nelle sue stesse radici. Le correnti del partito non sono principalmente espressione di vizi esteriori, di velleità di potere di singoli e di gruppi, insomma di cattive abitudini che possano essere superate con migliori costumi, ma di divergenze non contingenti su questioni fondamentali come anzitutto quelle della laicità (che sono destinate ad assumere nella società contemporanea un rilievo ancor più cruciale che nel passato), delle alleanze da mantenere o non mantenere con Di Pietro, da stabilirsi o non stabilirsi con l´Udc da un lato e i gruppi della Sinistra radicale dall´altro, del rilancio dell´Ulivo o del persistere nella linea dell´autosufficienza fattasi estremamente problematica, del qualificarsi il Pd come un partito di sinistra oppure un partito con un baricentro a prevalenza centrista. Su tutte queste questioni il Pd non è stato finora in grado di decidere; e per mantenere la sua precaria unità ha deciso di non decidere. Ora esso dovrà compiere scelte ineludibili; e si vedrà in futuro quale ne sarà il prezzo per il mantenimento della sua unità. Se la sfida dell´unità sarà vinta, il Pd continuerà a vivere, su presupposti da verificare; altrimenti lo scenario cambierà inevitabilmente. E allora a entrare in ballo sarà lo stesso schema bipolare, secondo gli auspici di Casini e non solo suoi.
Ciò che è certo è che il rafforzamento enorme di Berlusconi e lo stato quanto mai precario delle opposizioni stanno determinando una nuova, ennesima crisi del sistema partitico in Italia. Il Pd, l´Idv, la Sinistra radicale sono chiamati a fare i conti ciascuno al proprio interno e tutti l´uno con l´altro. E se dovessimo assistere all´incapacità di trovare quel tanto di intesa necessaria tra le parti nell´opporre un´efficace resistenza al disegno autoritario del Cavaliere, allora dovremmo mettere in conto con una forte probabilità un´accelerata fuoriuscita, i cui segni si sono delineati non da oggi, del nostro paese dal contesto politico e civile dell´Europa più progredita.

l’Unità 27.2.09
Basta cure: la scelta di papa Wojtyla
Il diritto di dire no
di Mario Riccio


Il Professor Proietti, in una intervista ad Avvenire è intervenuto ieri sull’impossibile analogia - a suo dire - tra il “lasciatemi morire” di Papa Wojtyla e una legittima rinuncia ai trattamenti sanitari. Ammnetto di essere stato il primo, nel febbraio 2007, a formulare un tale paragone per spiegare la vicenda Welby. Soprattutto la sua legittimità giuridica e deontologica al rifiuto della ventilazione, in quel tempo fortemente contestate. Paragone poi più volte ripreso da altri autorevoli interventi e sostenuto attraverso l’analisi delle dichiarazioni ufficiali della stampa vaticana.
Andiamo per ordine. È noto che Papa Wojtyla da anni era affetto da una sindrome parkinsoniana. Pertanto era inevitabile che sarebbe andato incontro a una progressiva insufficienza respiratoria e una incapacità a deglutire. Il dott. Melazzini in una occasione pubblica - Cremona, febbraio 2007 - ha addirittura sostenuto che Papa Wojtyla avrebbe rinunciato fin dall’inizio alla terapia farmacologica contro il Parkinson. Non avendo motivo di dubitare della parola del Melazzini, devo credere che il paziente Wojtyla avesse iniziato già da molto tempo a rinunciare a quella terapia (sicuramente in grado di rallentare la malattia), esercitando pertanto il suo legittimo diritto al rifiuto o alla limitazione della terapia stessa e contribuendo - con quella scelta - al peggioramento delle sue condizioni generali. Condizioni generali che già molti mesi prima della sua morte stavano progressivamente e visibilmente deteriorandosi.
L’articolata intervista al Prof. Proietti - nel tentativo di mascherare l’ulteriore, chiaro e legittimo esercizio al diritto di rifiuto di terapia - non fa altro che confermarne i principi stessi. Si continua a non comprendere per quale motivo si sia praticata una tracheotomia se non vi era indicazione o volontà del paziente stesso ad essere connesso a breve al ventilatore. Così come risulta perfettamente inutile posizionare un sondino nasogastrico a un paziente se poi non si intende nutrirlo artificialmente. Solo per permettergli una sopravvivenza di poche ore o un paio di giorni? Motivazioni che lo stesso Proietti nell’intervista ritiene giustamente insensate? Non credo che si possa invece definire “futile” o “inutile” ventilare o nutrire artificialmente un paziente che non riesce a farlo autonomamente.
Tutte le persone affette da patologie neurologiche degenerative - come era Papa Wojtyla - si trovano a dover decidere se sottoporsi ad una terapia nutrizionale e ventilatoria quando viene meno rispettivamente la capacità muscolare di deglutire o di muovere i muscoli respiratori. Forse al solo Papa è riservata la possibilità al rifiuto dei trattamenti sanitari? Sicuramente si tratta di quei casi particolari, prudentemente ricompresi nella “terza via” proposta da Rutelli.

l’Unità 27.2.09
Conversando con Giulio Giorello
«Un’Italia malata, tra destra che non ha senso dello Stato e sinistra debole sulla laicità»
di Bruno Gravagnolo


A parole in Italia siamo tutti liberali. Quel che invece è egemone da noi è un comunitarismo d’accatto, e uno statalismo corporativo. Con la destra e la Lega in prima linea e la sinistra purtroppo afona e divisa. A cominciare dalla laicità». Conversazione polemica con un torrente in piena quella con Giulio Giorello, filosofo della scienza, da marxista già allievo di Ludovico Geymonat, milanese, classe 1945. Oggi libertario impenitente e di sinistra: tra Popper, Feyerabend e Stuart Mill. Ma senza tenerezze per destra e sinistra. Alla destra «statalista» Giorello imputa assenza di senso dello stato e integralismo strumentale. E alla sinistra? Divisioni, debolezze laiche, identità fragile. Nonché incapacità di cavalcare le vere questioni del paese. Che nell’ordine per Giorello sono: «precarietà del lavoro, disservizi, degrado urbano e scuola a pezzi». E però, per lo studioso, tutto ruota attorno alla questione per lui fondamentale. La laicità. Cartina di tornasole di tutte le insufficienze del paese. Quasi un dna malato, che impedisce all’Italia di essere una nazione, e di avere un baricentro civile. Vediamo.
Professor Giorello, da un’inchiesta Swg emerge che il 62% degli italiani nei grandi centri teme crisi economica e precarietà del lavoro. Solo il 24% è in ansia per l’immigrazione. Pochissimi credono alle ronde. E il 37% lamenta inefficienze e crisi della giustizia. La destra al governo ci racconta favole?
«Se il sondaggio è attendibile, ne vien fuori un ritratto del paese molto significativo. E cioè che il malessere attuale poggia su tre fattori. L’insicurezza economica e la precarietà del lavoro. Le inefficienze dei servizi, molto più gravi di certe violenze. Infine il degrado dell’ambiente, non solo dei beni culturali, ma in rapporto alla buona vivibilità dei centri urbani, del tutto degradati e insicuri. Sono tre parametri molto più veri del cosiddetto rischio immigrazione, tema gonfiato ad arte e che genera paradossi e doppi binari. Se un italiano violenta una romena, nessuno se ne accorge. Se un romeno violenta un’italiana, allora è un’emergenza nazionale».
A suo avviso anche i dilemmi della «sacralità della vita» e del testamento biologico generano ansie artificiali?
«Questione delicata, da chiarire bene. Premesso che non ho nulla contro il sacro, reputo bizzarro definire sacro ciò che ci piace. Ed empio quel che non rientra nella nostra scala di valori. Qui non parliamo del sacro in un quadro antropologico o religioso, ma siamo di fronte a slogan ideologici, che qualcuno erige a verità scientifiche. Basterebbe leggere quel che scrive uno scienziato serio come Edoardo Boncinelli, per capire che la “sacralità della vita” non è altro che una retorica per poter prevaricare le libere scelte di coscienza di cittadini e cittadine. E prevaricatrici sono alcune istituzioni e agenzie politiche, impegnate a comprimere la libertà individuale, sia che si parli di interruzione di gravidanza, che di testamento biologico. Non è che questi temi di per sé siano ansiogeni, o fonte di precarietà esistenziale. La verità è che c’è chi li rende tali e li usa in tal senso. E il discorso concerne purtroppo sia la destra e che la sinistra, cioè persone dell’uno o dell’altro schieramento. Le quali ogni volta che arriva un messaggio dal Vaticano, corrono a genuflettersi. Sì, anche nel fronte progressista ci sono raggruppamenti - come i teodem- che su questo fanno a gara con la destra, fino a bloccare l’intero Pd. Condivido perciò l’insofferenza intelligente di Veronesi, che non ha esitato a denunciare la debolezza profonda dei democratici».
Intravede tentazioni confessionali e autoritarie trasversali in tutto questo?
«Sì, le intravedo eccome. E all’insegna di una matrice ben precisa: un certo cattolicesimo italiano. Che fa riferimento a una struttura autoritaria e gerarchica, “derivata” dallo Spirito Santo, e da chi in suo nome prescrive credenze e stili di vita. Non sto polemizzando col dogma dell’infallibilità del Papa in materia squisitamente religiosa. Denuncio un autoritarismo piramidale più generale di tipo religioso, e con pretese civili».
La sponda più immediata di questa tendenza è però senza dubbio la destra al governo...
«Certo, e ciò che mi colpisce a riguardo è la totale mancanza di senso dello stato nella nostra destra, per nulla una destra seria come quella francese. Nondimeno - insisto - anche a sinistra c’è acquiescenza. E non è solo la Binetti ad essere zelante, ma ahimè anche altri, e provenienti da altre storie. Penso alle molte cautele di tanti ex Ds. Quanto ai cattolici progressisti, gente stimabilissima, sono in una condizione difficile. Schiacciati come sono dal clericalismo da un lato, e da cautele di ogni tipo dall’altro».
Non la persuade la netta posizione d’esordio di Franceschini sulla libertà bioetica di scelta?
«Massimo rispetto. Franceschini conosce bene il clericalismo italiano e le sue abitudini. E fa di tutto, generosamente, per contrastarli. Ma mi chiedo: ce la farà? Non c’è solo Franceschini nel Pd, un partito dentro il quale se ne sentono di tutti i colori. Tipo: la vita appartiene alla collettività. L’ultima che ho sentito dire, da una teodem. No, davvero è ora di riscoprire Gramsci e il suo vigore logico nei Quaderni del carcere. Quando mostrava a quali compromessi inaccettabili ci ha condotti la Questione vaticana, ad esempio con il Concordato fascista, purtroppo reinserito da Togliatti all’art. 7 della Costituzione italiana. Attenzione però. Un conto è la burocrazia dello spirito vaticana, altro il ruolo dei cattolici democratici, che in Italia e altrove si sono battuti per i diritti civili e per una società aperta. Franceschini, che mi è molto simpatico, appartiene a questa schiera».
La liquidazione congiunta, tramite fusione, del cattolicesimo democratico e dell’eredità del movimento operaio, non ha aggravato le cose da un punto di vista laico e politico più generale?
«Sì, e da entrambi i punti di vista. Le proprie tradizioni infatti si revisionano, si riesaminano. Ma non si svendono acriticamente. E sarebbe stato bene farlo anche rispetto al Pci, misurando con più attenzione luci e o ombre. Per far emergere il capitale spendibile di una gloriosa tradizione, e sostituire ciò che era inaccettabile. Penso ad esempio ai torti di Togliatti, dalle posizioni sull’Urss al Concordato. Bene, è mancato quel che invece c’è stato nelle grandi socialdemocrazie europee, che si sono lacerate, hanno vissuto aspre lotte interne. Ma alla fine hanno fatto i conti con la loro tradizione, senza liquidazioni sommarie. Ecco, anche per questo deficit interno al post-comunismo, il Pd non può che essere e risultare un’amalgama confuso. Con tutto ciò che ne consegue per l’identità e la forza dell’opposizione».

l’Unità 27.2.09
Sciopero, Cgil contro governo
Epifani: stiano molto attenti
di Oreste Pivetta


In Consigliodei ministri il testo che regolamenta i «conflitti collettivi di lavoro» nel trasporto
Protesta il sindacato di corso Italia, per il ministro Sacconi sono già «veti inaccettabili»
Il ministro del Lavoro, Sacconi, annuncia che il governo affronterà (nel consiglio dei ministri in programma oggi) una nuova regolamentazione degli scioperi, per ora limitata al settore dei trasporti. Altolà della Cgil.

Arriva lo stop a Sacconi. Non solo da Epifani. Persino da Umberto Bossi: «Gli scioperi selvaggi non vanno mai bene, ma bisogna trovare un compromesso tra il diritto allo sciopero, garantito dalla Costituzione e che è frutto della nostra storia, e lo sciopero selvaggio che porta via altri diritti ai cittadini».
Epifani è pronto a discutere. Ma precisa i “limiti” di qualsiasi riforma: «Il governo stia attento. In materia di libertà di sciopero costituzionalmente garantito bisogna procedere con attenzione... Si potrebbe porre un problema di democrazia, se qualcuno pensasse di forzare ciò che dice la Costituzione».
Niente forzature
«Se intende, partendo dal problema del rispetto dei diritti degli utenti, ridurre una libertà fondamentale, la Cgil si opporrà ora e dopo». Ma è cauto Epifani: «Tutto dipende da ciò che il governo deciderà e dalle questioni che porrà». E delle questioni annunciate entra nel merito: «Non si può decidere con il 51 per cento uno sciopero, perchè così l'altro 49 non potrà mai scioperare. Lo sciopero virtuale non può essere mai sostitutivo ma aggiuntivo. Il fatto poi di dichiarare prima individualmente la propria adesione può essere un modo di rendere inutile lo sciopero. Attorno ai questi nodi ruoterà il confronto se il governo intende aprirlo...». E s’arriva al primo punto, che è poi la strada che il governo vorrà percorrere per raggiungere il suo obiettivo di nuova regolamentazione. Spiega Epifani: «Su materie come queste, se il governo decide, nella sua bontà, di decidere con le organizzazioni sindacali, noi siamo pronti a discutere. Cercheremo ovviamente di raccordarci con ciò che pensano le altre organizzazioni sindacali». Non sembra questa la prima preoccupazione del ministro Sacconi, l’ex socialista che sembra invece si sia posto l’obiettivo di smantellare e rompere. Tanto è vero che prima smorza, poi manda avanti i suoi nell’attacco ad Epifani, tutti improvvisamente paladini degli utenti, che hanno già da soffrire per conto loro l’arretratezza del sistema dei trasporti e i tagli ben più che gli scioperi dei lavoratori (in un’annata tutto sommato di bassa conflittualità, Alitalia è ovviamente una storia a parte). Assicura Sacconi che non ci saranno forzature, ma «niente veti». Ricorda che consultazione c’è stata, che erano stati richiesti anche contributi scritti, che sono state recepite le indicazioni... Si tratterà «ovviamente di un disegno di legge, e non di un decreto legge, contenente deleghe...».
All’assalto muovono i vari Capezzone, Valducci, Pasquali. In nome naturalmente di chi deve viaggiare. Angeletti (Uil) commenta che gli piace molto lo sciopero vituale: «Ci stiamo ponendo il problema da anni». Bonanni (Cisl) è disponibile, ma vuole che si parli solo di trasporti. Stessa linea quella di Renata Polverini (Ugl). Fabrizio Solari (Cgil Trasporti) ricorda a tutti che la legge italiana è la più severa in Europa. È cauto il presidente della Camera, Fini. «Armonizzare» invita.
Visto il paesaggio e considerato quello che si sta preparando (dal sindacato alla giustizia) c’è da temere che il governo voglia andare ben oltre i trasporti e che Sacconi stia tentando un altro passo verso il traguardo che si pone da anni: la divisione del sindacato, l’emarginazione della Cgil.

l’Unità 27.2.09
La ricetta della destra: bavaglio ai sindacati
di Bruno Ugolini


L’iniziativa del governo sul diritto di sciopero nei servizi ignora le cause del conflitto e punta a dividere le organizzazioni per isolare la Cgil

Ricordiamo bene i venerdi neri dei trasporti. Quando le metropoli andavano in tilt per gli scioperi. Perché avevano luogo? Non per smanie selvagge ma per contratti scaduti da mesi e anni. Ora sarebbe arrivato il toccasana, la bacchetta magica capace non di far rispettare gli accordi, ma di riportare l'ordine, la quiete, mettendo il bavaglio all’iniziativa sindacale.
È questo il messaggio che il centrodestra diffonde attraverso quasi tutti i mass media. E chi critica appare come un mentecatto nemico dei cittadini. Una sceneggiata che nasconde il vero obiettivo: non andare alle cause delle agitazioni sindacali, non risanare il sistema dei trasporti, ma demolire il diritto di sciopero qui, oggi, per attaccarlo, domani, ovunque.
Vogliono superare l’anomalia italiana e fare del sindacato un organismo burocratico staccato dal mondo del lavoro. Cercano di gettare cunei tra le diverse sigle, puntando tra differenziazioni esistenti, per tentare di isolare la Cgil. Non siamo al codice penale voluto dal fascismo che considerava lo sciopero un reato, ma si sente traballare il precetto costituzionale.
Costituzione in bilico. Nessuno può certo ignorare il fatto che nel settore di servizi delicati come i trasporti – ma anche la sanità – si fronteggiano diritti diversi: quelli degli operatori obbligati a rivendicare quanto dovuto, quelli di altri lavoratori bloccati nelle loro possibilità di movimento. Ecco perché nel passato e non a caso con governi di centrosinistra si cercò di dar vita ad una specie di patto di civiltà che difendesse i secondi senza opprimere i primi. Era la legge varata nel 1990 sotto il nome di «regolamentazione del diritto di sciopero per gli addetti ai servizi pubblici o di pubblica utilità». Qui, con l’accordo tenacemente cercato con Cgil, Cisl e Uil si scelse la strada del preavviso di dieci giorni per lo sciopero, un minimo di presenza per servizi essenziali, procedure di conciliazione, la possibilità di precettazione.
Perché ora si è giunti a questa impennata? Perché quelle norme non hanno funzionato? L’argomento che si porta in primo piano in queste ore è quello della disastrosa frammentazione sindacale che permette anche a una minuscola organizzazione di proclamare lo sciopero, puntando sull’effetto annuncio e sulla conseguente fuga dei viaggiatori. Se il problema è questo perché non si affronta il problema davvero serio della rappresentanza sindacale? Eppure qui si poteva, si possono fare importanti passi avanti.
Patti di civiltà. Nei giorni scorsi un seminario promosso da Cesare Damiano (Pd) ha visto il convergere di volontà diverse tra Cgil, Cisl e Uil, verso un progetto da concordare tra le parti sociali, premessa ad una legge. Una buona notizia da non lasciar cadere.
Non è così, però, che s’intende procedere. Al centrodestra non piacciono i «patti di civiltà». I ministri Sacconi e Brunetta sono spinti da un'unica missione: perseguire patti di divisione, spaccare il fronte del lavoro. Profittare delle stesse debolezze sindacali per riportare i rapporti di lavoro nel pubblico impiego al sistema delle leggi e del clientelismo politico. Ed ora si minaccia di interdire anche le proteste per strada. Magari domani anche i picchetti alle portinerie delle fabbriche, oppure gli scioperi articolati e le assemblee in azienda. Stanno riscrivendo la storia sindacale a colpi di mannaia. Non sono abbastanza soddisfatti del fatto che oggi si può dire di tutto di questo nostro Paese ma non che viva una fase di conflittualità esasperata. Semmai c’è troppa pace e indifferenza sociale mentre le sorti dell’economia e del lavoro rotolano. Solo la Cgil scende in campo ieri con i metalmeccanici e il pubblico impiego, la prossima settimana con i pensionati, in aprile con tutte le categorie. Per cercare di indicare una via d’uscita diversa.
Siamo con tutta probabilità solo agli inizi di uno scontro duro. Guglielmo Epifani ha citato un rischio: «il muro contro muro». Perché è chiaro che di fronte a interventi del genere la Cgil non può rimanere inerte, ripudiando la propria storia. Sarebbe necessaria quella che Vittorio Foa aveva chiamato in un libro, prendendo a pretesto il linguaggio degli scacchi, «La mossa del cavallo». Ma ci sono i giocatori in grado di agire?

Repubblica 27.2.09
Epifani: temo svolte autoritarie contro la libertà dei lavoratori
Le nuove regole nei trasporti possono aprire la strada a interventi in tutto il settore privato
intervista di Roberto Mania


"Rinunciate alla delega e parlate con tutti i sindacati"

ROMA - «Sul diritto di sciopero non ci possono essere ambiguità, mentre Berlusconi sta imboccando la strada sbagliata, pericolosa per il sistema democratico, per le libertà delle persone, e per l´alterazione che può determinare nei rapporti tra imprese e lavoratori. Oggi interviene nel nome dei cittadini-utenti, domani potrebbe fare la stessa cosa in tutti i settori. Ma allora sarebbe il diritto stesso a essere compromesso». Ecco perché il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, chiede al governo di trasformare la legge delega del ministro Sacconi in un disegno di legge. Sarà così il Parlamento a riappropriarsi pienamente della sua potestà legislativa e ai sindacati sarà data la possibilità di un confronto.
Innanzitutto ci dica se lei è a favore o contro una nuova legge sullo sciopero nei trasporti.
«Guardi, se si volesse fare seriamente si dovrebbe cominciare con una verifica attenta, di governo e sindacati, su come ha funzionato l´attuale legge sugli scioperi nei servizi pubblici. Bisognerebbe distinguere caso per caso, in modo da intervenire, per proteggere i cittadini, là dove effettivamente ci sono stati abusi. Su una materia come questa non si possono fare operazioni né ideologiche né autoritarie».
Non è esagerato parlare di "operazione autoritaria"? Mica è vietato aggiornare la legge sugli scioperi, né attuare l´articolo 40 della Costituzione.
«Mi ha allarmato non poco il fatto che, sia pure per ipotesi, sia balenata l´idea di una legge per limitare il diritto di sciopero nel settore privato. Questo sarebbe un intervento che limiterebbe esclusivamente lo spazio di azione del sindacato e dei lavoratori».
Insomma lei crede che la legge sui trasporti possa rappresentare il "cavallo di Troia" per poi limitare dovunque lo sciopero?
«Certo. Per questo dico che si deve sgombrare il campo da qualsiasi ambiguità. E l´unico modo per farlo è che il governo rinunci a una delega indeterminata e indistinta su una materia così delicata. La mia opinione è che quando si interviene sui diritti di libertà garantiti dalla Costituzione non ci possono essere né rimandi né ambiguità. Spetta al Parlamento definire nel complesso la norma. In secondo luogo, c´è sempre stato un raccordo tra la legge e l´accordo di tutti i sindacati. Dico: tutti. D´altra parte Sacconi è troppo accorto per non sapere che non è una questione di veti: su un terreno come questo serve il consenso, altrimenti il conflitto può sfuggire di mano, infilarsi in mille rivoli e diventare incontrollabile».
Anche questa volta la Cgil ha una posizione diversa dagli altri sindacati che invece hanno apprezzato gli orientamenti del governo. Secondo lei la Cisl, sempre contraria alla legge in campo sindacale, ha cambiato linea?
«Spero che la Cisl abbia la mia stessa posizione: prima l´intesa tra i sindacati, poi la legge. Cosa che dovrebbe riguardare anche la rappresentanza sindacale. Certo se non fosse così assisteremmo a un rovesciamento consistente della cultura cislina. Tuttavia non mi permetto di giudicare gli altri. Ricordo, in ogni caso, che i governi passano e che è nell´interesse dei soggetti sociali mantenere la propria autonomia di proposta. In questo governo vedo troppo statalismo e invece bisogna lasciare spazio ai tanti attori che si muovono nella società, non si possono scavalcare tutti».
Lei è favorevole allo sciopero virtuale?
«È un´idea vecchia di quindici anni. Penso che in alcuni casi limitatissimi sia una soluzione perseguibile ma non può sostituire le altre modalità di sciopero».
Cosa pensa della possibilità che vengano sanzionati gli operai che durante uno sciopero bloccano un´autostrada?
«Che è davvero una cosa strana. È come se si incitassero gli operai a farlo per poi poterli reprimere. Ma bloccare una strada è già reato, perché aggiungere la sanzione? Pensi al caso dell´Alitalia».
Appunto.
«Lì c´era un gruppo di lavoratori in cassa integrazione che non percepiva l´indennità perché l´azienda s´era dimenticata di comunicare i loro nomi all´Inps. Io non ho condiviso la scelta di bloccare l´autostrada, ma quale altro modo avevano per protestare? E perché bisogna colpire sempre i più deboli e mai le aziende? Che idea di giustizia sociale si ha?»
Lo dica lei.
«È una logica di un governo profondamente di destra, di una destra anti-sociale».
La bozza di legge delega fissa un limite del 51 per cento della rappresentatività perché i sindacati possano proclamare lo sciopero. Favorevole o contrario?
«Ma perché può scioperare il 51 per cento e il 49 no? Che senso ha? È un principio che non va bene».
Ma non va bene nemmeno che un piccolo sindacato possa bloccare gli aerei solo annunciando uno sciopero. O no?
«Allora si intervenga sull´effetto annuncio».

Corriere della Sera 27.2.09
Dentro la confederazione I sospetti su esecutivo, Cisl e Uil
Il sindacato si prepara alla piazza: c'è una strategia per escluderci
di Enrico Marro


ROMA — Il 13 febbraio, in piazza San Giovanni, nel suo comizio davanti ai metalmeccanici e agli statali in sciopero, il leader della Fiom-Cgil, Gianni Rinaldini, lo disse chiaro e tondo: «Ho il sospetto che per attuare l'accordo separato del 22 gennaio hanno bisogno di intervenire sul diritto di sciopero. Ecco perché è in atto questa operazione autoritaria». I sospettati di voler imbavagliare la piazza, ovviamente, sono il governo, la Confindustria e Cisl e Uil che hanno firmato l'intesa sulla riforma della contrattazione contro la quale la Cgil è mobilitata.
Dopo la rottura dell'unità sindacale e con la crisi del Pd, la Cgil di Guglielmo Epifani è diventata il catalizzatore della protesta sociale e politica. Allo sciopero del 13 febbraio seguiranno due manifestazioni per il Sud, la prima oggi a Brindisi e la seconda il 18 marzo a Palermo, entrambe con Epifani. Sempre il 18 si svolgerà lo sciopero della scuola mentre giovedì prossimo, a piazza Navona, la manifestazione dei pensionati, conclusa anche questa da Epifani. Infine, il 4 aprile l'appuntamento clou: la grande manifestazione al Circo Massimo, luogo che evoca la giornata del 23 marzo 2002 quando la Cgil rivendicò di aver portato in piazza «tre milioni» di persone in difesa dell'articolo 18.
In questa prospettiva è fin troppo semplice per la Cgil sostenere che la stretta sulle regole dello sciopero (inizialmente prevista per tutti i servizi pubblici e poi limitata ai soli trasporti) è la mossa del governo per arginare la protesta. Ma si tratta di un argomento buono per la piazza, come gli stessi dirigenti della Cgil sanno, visto che il provvedimento che dovrebbe uscire oggi dal Consiglio dei ministri è un disegno di legge delega, che prima di diventare operativo richiede un iter di parecchi mesi e quindi non interferirà con la mobilitazione in atto. In realtà, il timore della Cgil è un altro, come spiega Fabrizio Solari, il membro della segreteria che sta seguendo tutta la partita della legge sullo sciopero, venendo tra l'altro proprio dalla Cgil Trasporti. In sostanza, la paura è che, con «l'accordo separato » del 22 gennaio si sia rotta la diga e, a cascata, siano in arrivo una serie di riforme, da quella sugli scioperi a quella sul pubblico impiego a quella sulle pensioni, a prescindere dal consenso della Cgil. E così, anche un moderato come Solari, che vuole sedersi al tavolo del governo per discutere dei decreti delegati, parla di una «strategia di lungo respiro» e di uno «scambio politico volto ad escludere la Cgil». «Il punto è — continua — che per far vivere l'accordo del 22 gennaio devono sostenerlo anche con la modifica delle regole del gioco. Devono cioè arrivare a una legittimazione delle forze sindacali non sulla base della verifica della loro rappresentatività ma sulla forza che viene riconosciuta loro dalle controparti ». E non è quindi un caso, osservano in Cgil, che la previsione del referendum tra i lavoratori per proclamare lo sciopero, che tanto preoccupava il leader della Cisl Raffaele Bonanni, già ieri veniva messa in forse da Sacconi. Ecco perché, comunque la si veda, un eventuale ricompattamento del fronte sindacale potrà ora avvenire solo a una condizione: che Cgil e Cisl trovino un accordo sulla rappresentanza e la democrazia sindacale. Oggi sembra lontano.

l’Unità 27.2.09
Prof «cacciati» dalla scuola
Storie del tempo presente
di Virginia Lori


42.100. Sono i professori che non ci saranno più a scuola dal 2009/2010
25.600. La Finanziaria di Tremonti tanto prevede di tagliare dal 2010

La dimensione classi. Lavorando su questa voce in tre anni verranno ridotti 12.803 professori. Si evinche che il numero di alunni per classe crescerà e molto.
La riconduzione a 18 ore. Con questa voce si taglieranno 5.220 insegnanti solo nel 2009. Nessuno potrà fare qualche ora in più, ma non ci saranno supplenti.

Come era prevedibile il Consiglio di Stato ha espresso un pronunciamento favorevole sui regolamenti attuativi della riforma Gelmini: riorganizzazione della rete scolastica e gli ordinamenti riguardanti la scuola dell’infanzia e del primo ciclo.
La Conferenza unificata delle regioni aveva respinto lo schema di regolamento sugli ordinamenti, come anche i consiglieri della Gelmini, mentre le Regioni hanno proposto modifiche sulla riorganizzazione della rete scolastica.
Adesso tali regolamenti attuativi dell’art.64 della legge 133 del 2008, tornano in Consiglio dei ministrie per il varo definitivo. Poi la firma di Napolitano e la pubblicazione in G.U.

Gli studenti bocciano i tagli alla scuola. Il Consiglio nazionale dei presidenti delle consulte studentesche critica i «tagli indiscriminati» e la «riduzione drastica delle ore di lezione».

Oggi l’onda fa il surf. L’Unione degli studenti sarà oggi in piazza con «Surfing day», studenti sull’onda della crisi. A Roma, Milano, Napoli, Firenze, Cagliari, Salerno...
Il nostro sistema scuola non è competitivo. Lo denuncia Conferenza degli Assessori alla Cultura: alto tasso di abbandoni, alta l’età media dei docenti, a differenza degli altri paesi d’Europa.

Uno scenario nient’affatto isolato quello raccontato nella lettera che pubblichiamo qui a fianco. È l’Italia della recessione, della cultura, della formazione e quindi del futuro dei nsotri figli diventata contabilmente merce di taglio. E così non si dice se un professore serve, ma si parte dal mazzo e si decide che le carte sono troppe e si devono buttare via. La partita scolastica, così, si continuerà a giocare, ma come meglio si può, anche se il governo, il ministro Gelmini vogliono far credere che andrà sempre meglio.
I costi futuri
Non è così, non sarà così. Il costo futuro si vedrà quando si raccoglieranno le macerie di questa scelta dissennata, di trasformare la scuola snaturandone il senso e disprezzando i suoi attori.
I costi presenti, eccoli. Famiglie gettate nell’emergenza di chi sta vivendo un travaglio personale, professionale, anche infine familiare. Su quali soldi far conto dal prossimo anno scolastico? A cosa è servito studiare, specializzarsi, credere, anche, che per uno stipendio spesso inferiore a quello di un metalmeccanico valesse la pena?
E finire poi con il pensare che l’ancora di salvezza a 46 anni può essere ricominciare inquadrato come personale Ata, bidello? Quante storie di riconversione di mezza età dovremmo raccontare ancora in questo tunnel recessivo senza fine e senza storia, in cui chi ha in mano il potere spesso peggiora il quadro esistente come accade in Italia?
La scuola paga per prima, colpe proprie, riforme dette e contraddette, l’essere comunque sempre la Cenerentola della cosa pubblica, spesso anche per il centrosinistra. Lettere dal vostro disagio, professori, inviatele all’Unità per rendere pubblico un avvilimento rinchiuso per ora nelle quattro mura di casa.
Un problema non solo vostro, certo. Il problema di una scuola depressa è di tutti.

l’Unità 27.2.09
Da insegnante a bidella. Ma sempre precaria


La testimonianza di una professoressa di italiano che resta a mani vuote dopo 10 anni di lavoro all’università più 11 da docente. Grazie al taglio delle cattedre

Dal prossimo primo settembre sarò, con buone probabilità, non più insegnante precaria, ma semplicemente disoccupata! A giorni compio 46 anni e dopo 10 anni di precariato nell'università e 11 nella scuola, a mia figlia dovrò dire che forse dovrò rinunciare a parecchie cose, visto che in casa entrerà uno stipendio in meno. Sarò infatti una delle vittime del taglio drastico delle cattedre d'italiano, Storia e Geografia alle medie. Molto drastico, perché si tratta, grazie ai provvedimenti Gelmini/Tremonti, del 25% delle cattedre, che sugli alunni avranno l'effetto di 2 ore in meno d'Italiano la settimana (le ore scenderanno a 5, lo stesso numero propongono per Inglese).
Quest'anno non sono diventata di ruolo per tre posizioni in graduatoria e questo perché mentre per tutti gli altri insegnamenti sono state fatte immissioni in ruolo pari al 48% dei posti vacanti, per la mia classe di concorso si sono limitati al 24% in previsione dei tagli. E tutto questo nel silenzio più assoluto... In tutto siamo stati 2000 a condividere la stessa sorte... 2000 persone destinate per quest'anno ancora alla precarietà e per il prossimo, insieme purtroppo a tante altre (svariate migliaia), alla non occupazione.
Ho passato un'estate nello sconforto, con mia figlia che vedendomi piangere (sono, ti assicuro, una donna risoluta e pratica, ma sono stata presa da una disperazione che mi ha disarmato) mi ripeteva «ma dai mamma, vedrai che le cose andranno meglio».
In una di queste giornate nere mi sono decisa a presentare la domanda come collaboratrice scolastica, bidella per capirci. E due settimane fa sono uscite le graduatorie definitive e ho ricevuto moltissime chiamate per incarichi annuali fino al 30 giugno. Ho risposto che per quest'anno ancora facevo la prof, ma di tenermi in considerazione per il prossimo anno. Da una scuola mi hanno risposto «Mi scusi, ma non pensa che una laureata dovrebbe avere altre aspirazioni?», da un'altra «Poverina ha ragione, abbiamo appena verificato che qui l'anno prossimo si perderanno 4 posti della sua classe di concorso». Una possibilità di occupazione? No, neanche su questo posso farmi illusioni, la iattura dei tagli sarà terrificante anche per il personale Ata e quindi, neanche la bidella mi faranno fare.
Sono stanca, molto stanca... Nel frattempo mia figlia cresce e da grande vuole fare la professoressa come me, ma ormai aggiunge «se me la faranno fare». L'anno prossimo inizierà il liceo... verrebbe da chiedere se fosse possibile farle ereditare la mia posizione in graduatoria, almeno il mio infinito precariato avrebbe un senso... Tutte queste vicende mi hanno anche allontanato dal sindacato, il »Mai più precari» è stato uno slogan che non ha trovato seguito. Siamo utili come bandiera, ma difficili da gestire... Quest'estate poi non ho trovato nemmeno una riga sulla sorte di 2000 insegnanti di Italiano, ovviamente la cosa avrebbe meritato una qualche iniziativa di protesta, ma mi sarei accontentata anche di un qualche comunicato.
Quello che però mi ha più ferito è stato il fatto che le persone con cui in sindacato collaboravo più direttamente, non si sono degnate di farmi una telefonata, almeno di solidarietà... E questo dopo tanto lavoro fatto con passione e sacrificio, iniziative, assemblee, consulenza... Pazienza, la mia tessera è lì, nel borsellino. Ogni tanto ho voglia di ritirare la delega e anche qui mia figlia ha un ruolo fondamentale.
È fiera, nonostante abbia solo 13 anni, di far parte di una famiglia di sinistra ed è affezionata alla Cgil, che con passione vede come una condivisione di ideali alla quale non si può rinunciare...
So di essere stata prolissa, ma so anche di essermi limitata all'essenziale, o per meglio dire al personale. Perché precariato a parte, cosa vogliono fare della scuola italiana? Ci lamentiamo delle carenze in italiano dei nostri giovani e cosa facciamo per risolvere il problema, diminuiamo le ore dedicate alla nostra lingua? E ancora, chi farà l'ora alternativa all'insegnamento della religione cattolica?
Questa era affidata agli insegnanti di italiano nelle loro ore a disposizione, sacrificate sull'altare dei tagli. Metteremo i ragazzi che non si avvalgono dell'insegnamento della religione cattolica in attesa sui corridoi? Sembra che la cosa non riguardi nessuno, nemmeno la Cgil, che su questo argomento potrebbe costruire una bella battaglia di principi, una di quelle che però, a quanto pare, nessuno vuole più combattere...

l’Unità 27.2.09
Trentamila docenti a spasso da settembre
di Maristella Iervasi


Situazione drammatica Con le famiglie che stanno rifiutando in blocco il maestro unico
I dati delle iscrizioni e le scelte si sapranno tra qualche settimana
Le famiglie hanno tempo fino a domani per scegliere dove iscrivere i figli, dalle elementari alle superiori. Qualsiasi scelta sarà però sottoposta ai tagli di prof che comunque ci saranno. Il terribile quadro di settembre.

Il maestro unico terrà banco o sarà «bocciato»? Le famiglie hanno scelto: hanno iscritto i loro figli a scuola. Domani si chiudono le iscrizioni per l’anno scolastico 2009/2010: l’anno orribilis della scuola Gelmini. Una controriforma dagli effetti boomerang per tutti: famiglie, studenti, ma soprattutto per i docenti, i precari e il personale Ata (collaboratori scolastici, segretari e ammnistrativi) per via della mannaia Tremonti che sta per abbattersi senza pietà.
Istruzione massacrata
I bambini e i ragazzi che siederanno per la prima volta sui banchi - (nell’anno in corso c’è stato un trend di crescita di alunni intorno alle 10mila unità) - troveranno una scuola più povera, massacrata in ore di lezione, indirizzi, compresenze e contenuti. E più povera di lavoratori: 57mila i tagli imposti in Finanziaria per il 2009. Vale a dire in termini di personale: 42mila docenti e 15mila Ata. Oltre 30mila supplenti annuali saranno licenziati in tronco; oltre 10 mila saranno i docenti di ruolo in esubero, rivela il sindacato Flc-Cgil. Un taglio imposto da Tremonti che la Gelmini si appresta ad eseguire senza batter ciglio. E per il quale anche la Gilda degli insegnanti minaccia lo sciopero. I tagli agli organici avranno conseguenze drammatiche, soprattutto nel primo ciclo d’istruzione, dove la cosidetta riforma Gelmini debutta dal prossimo settembre. Alle scuole medie i sindacati prevedono una riduzione drammatica di 16mila posti in meno, concentrati per lo più nella classe di concorso di Italiano, Storia e Geografia ed Educazione tecnica. Uno scenario ancora più terribile si prospetta alle elementari (la scuola primaria italiana che fino ad oggi era vista come un modello d’eccellenza all’estero): qui i posti in meno che salteranno per via della cura dimagrante imposta all’istruzione si attestano intorno ai 20mila.
Maestro unico «bocciato»?
Un effetto-conseguenza del ritorno del maestro unico voluto dal ministro dei grembiulini, dei voti in numero in pagella e del 5 in condotta. Un ritorno al passato - che secondo indiscrezioni pubblicate dall’agenzia di stampa Dire ma confermate anche da Tuttoscuola, il portale sempre bene informato su quel che accade all’istruzione - le famiglie avrebbero ampiamente «bocciato», battendo tutti i record con la richiesta di tempo pieno. Soprattutto nelle metropoli del Nord e del Centro del paese. Ma anche il Sud, dove la scuola fino al pomeriggio non è mai decollata pare invece che si verifichi una inversione di tendenza. Se così sarà, Berlusconi in primis e la stessa Gelmini verranno travolti: hanno ribadito più volte: «Il tempo pieno verrà potenziato». Nulla di tutto questo accadrà dal prossimo settembre. Semmai verrà confermato solo laddove il modello di 40 ore esiste già.
Tagli all’istruzione
La Finanziaria 2008 prevede una mannaia consistente in 3 anni: 87mila posti docenti e 42mila Ata. Per il 2009 la cura dimagrante è concentrata solo sul primo ciclo d’istruzione con una sforbiciata che provocherà una profonda ferita alla scuola conteggiata in 57mila posti in meno. Un risparmio che la Gelmini realizzerà non solo «eliminando» 42mila posti-cattedra. Per non scontentare Tremonti, l’obiettivo-Tremonti il resto del taglio è determinato dall’aumento degli alunni per classe (da 25 a 27-28), la riconduzione delle di tutte le cateedre a 18 ore.
Materie ridotto all’osso
L’insegnanto dell’italiano perde 2 ore. Tecnolgia un’ora. Arte e immagine 2 ore ogni corso di tempo prolungato. Idem per musica ed educazione motoria. Nessun taglio invece per la religione cattolica, mentre viene aggiunta un’ora di approfondimento in materia letteraria di cui non si sa la sorte: cosa e chi dovrebbe insegnarla.
Via tutte le compresenze.
Il modulo è stato cancellato. Via anche tutte le compresenze dalle classi. E resta aperto il problema di chi sorveglierà i bambini a mensa nel tempo normale dove ci sono rientri pomeridiani. Gli organici verranno assegnati solo per le ore di insegnamento.

l’Unità 27.2.09
«Servono ammortizzatori sociali per chi resterà fuori»
Intervista a Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil
di Maristella Iervasi


Da insegnante a bidella? Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, stenta a crederci e parla di «grave mortificazione professionale». E aggiunge: «Il precariato è il tema centrale del nostro sciopero del 18 marzo».
Dalla Gelmini ai precari, il sindacato è preso di mira. Il ministro vi accusa di essere arroccati allo status quo. I precari della scuola lamentano che non fate abbastanza. È così?
«I tagli all’istruzione sono stati confermati e avranno delle ripercussioni drammatiche: si comincia dal primo ciclo, elementari e medie, poi seguiranno le superiori. Il filo conduttore del governo è una drastica riduzione degli organici».
E come state reagendo?
Stiamo lavorando affinché ci siano delle stabilizzazioni e per chi rimane fuori l’estensione degli ammortizzatori sociali.
Nel frattempo, per il precariato e la scuola in generale, cosa state facendo?
Lo sciopero del 18 marzo di scuola, università, ricerca e Afam (Alta formazione artistica e musicale) va in questa direzione. L’unica strada possibile è quella di una straordinaria mobilitazione contro lo sfascio della scuola. È necessario che si crei un ampio fronte per costringere il governo a fare marcia indietro».
Intanto c’è chi come l’insegnante precaria Perfetti, cerca un posto da bidella per tirare a campare.
Sarebbe una drammatica mortificazione professionale. Purtroppo però anche tra il personale Ata sono previsti tagli pesanti: 15mila lavoratori nel 2009. Anche qui verrà tagliata quella già esistente. La precarietà dei settori settori pubblici è il vero dramma sociale. La Cgil ha messo la questione al centro senza distinzioni di settore».

l’Unità 27.2.09
«Salvare la storia dell’arte». Un appello
di Giuseppe Vittori


Presentato ieri dall’Anisa. Rutelli si è impegnato a portare
una mozione in Parlamento. Sostegno da parte del Pd

L’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole superiori «non deve essere ridimensionato: va difeso», perché è un ponte tra «identità, innovazione e intercultura» e uno strumento per la formazione dei giovani italiani, «per renderli speciali nel mondo». È l’appello dell’Associazione nazionale degli insegnanti di storia dell’arte (Anisa), che ha raccolto 3.700 consensi con un documento per la difesa dell’insegnamento della storia dell’arte contro la «bozza dei nuovi quadri orari, che riducono o riconfigurano il monte ore settimanale, mai smentita dal ministero dell’Istruzione». Il documento non è «una difesa corporativa» a favore degli insegnanti e ha ottenuto, tra gli altri, il consenso di Italia Nostra, Fai e dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte. «In un momento di crisi come questo - ha affermato la presidente di Anisa, Clara Rech - bisogna puntare sulla cultura, come hanno fatto Obama e Sarkozy». Il Pd aderisce alla manifestazione a sostegno dell’insegnamento della storia dell’arte. «Aderiamo all’iniziativa dell’Anisa, Associazione nazionale insegnati di storia dell’arte, di cui abbiamo sottoscritto anche “l’Appello per la storia dell’arte nella scuola” promosso per scongiurare la drastica riduzione delle ore di insegnamento della storia dell’arte nella scuola secondaria. Si tratta di una scelta sbagliata e - osserva la capogruppo del Pd nella commissione Cultura Manuela Ghizzoni - ancor più grave per un paese che vanta il patrimonio storico artistico di maggior rilievo mondiale e che rischia però di essere sconosciuto proprio alle future generazioni di italiani». Francesco Rutelli al riguardo «presenterà una mozione in Parlamento».

l’Unità 27.2.09
Allarme dei rettori, tagli indiscriminati
Il prossimo anno dottorati a rischio
di G.V.


«Gli effetti saranno devastanti, soprattutto sui giovani», avvertono gli atenei dell’Aquis. Che aggiungono: «Bisogna introdurre il merito come bussola per assegnare i fondi, che vanno riequilibrati».

Sessantacinque milioni di euro quest’anno, ma ben settecento nel 2010. Quasi il dieci per cento del totale. Una mazzata, insomma. Che rischia di abbattersi, si accettano scommesse, soprattutto sui giovani. I tagli al Fondo di finanziamento ordinario delle università previsti dal governo, avvertono i rettori, «saranno devastanti se resteranno quelli previsti oggi».
Dottorati a rischio
Dopo l'allarme del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scatta anche quello di Aquis, l'Associazione per la qualità delle università italiane statali. I cui rettori invitano il governo a «rivedere» le decurtazioni e, soprattutto a non «calare la mannaia» in modo «indifferenziato» su tutti gli atenei. Altrimenti, avvisano, si metteranno a rischio anche «le borse di dottorato». In questo modo, per cambiare, «le conseguenze della crisi le pagheranno i giovani». E la ricerca stessa, «perchè sono proprio i dottorati a permettere di ottenere le migliori performance».
Piuttosto che togliere fondi a tutti, spiegano i rettori - in una lettera aperta al ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini - si «passi dalle parole ai fatti» e si lavori per suddividere le risorse a disposizione, tante o poche che siano, sulla base di «criteri di merito». Mettendo a punto «al più presto» un efficace sistema di valutazione dei risultati raggiunti nella didattica e nella ricerca. Più soldi a chi fa meglio, insomma.
il merito come bussola
Nel chiedere un riequilibrio nell’assegnazione dei fondi, i rettori virtuosi (i loro atenei sono in regola con i bilanci) puntano il dito contro «una anomalia tutta italiana». Il punto è, dicono, che «non esiste un meccanismo serio e adeguato di valutazione delle università». Da quindici anni, infatti le università sono autonome nella gestione del proprio bilancio: ricevono finanziamenti ministeriali, scelgono come collocare queste risorse, «ma le scelte che fanno non hanno alcuna conseguenza su come verranno ripartiti l'anno successivo i fondi pubblici. Che la gestione sia oculata o meno, che i conti siano sotto controllo o siano in deficit, che la qualità delle performance sia più o meno buona tutto ciò non incide sui meccanismi di ripartizione delle risorse», denunciano i rettori di Aquis.
atenei sottofinanziati
Nel chiedere al ministro Gelmini di tenere conto, anche bilanci alla mano, di chi ha «i conti in regola», i rettori presentano anche una mappa dalla quale risulta che, per via del «non più accettabile» sistema di ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario - effettuato per il 93 per cento su base storica - «il sottofinanziamento accumulato da alcune regioni è diventato ormai tale da creare una situazione iniqua e insostenibile». Sottofinanziate sono per esempio la Lombardia, che riceve 1.050 milioni di euro, il Piemonte, che può contare su 614, il Veneto (541), l’Emilia (485), ma anche ma anche le Marche (75) o il Molise (4). Tra le Regioni sovrafinanziate, c’è la Sicilia con 1.090 milioni di euro, il Lazio (871), la Campania (554), ma anche la Toscana (91) e la Liguria (317). E nel frattempo, peraltro, l’università attrae sempre meno: e immatricolazioni del 2009 hanno toccato quota 312.104, record negativo da sette anni a questa parte.

l’Unità 27.2.09
«Inutili e dannose, le ronde diseducano i cittadini»
intervista di Vladimiro Frulletti a Pier Luigi Vigna


Per l’ex procuratore nazionale antimafia il governo farebbe meglio a dotare le forze di polizia dei mezzi e uomini. Il pericolo più grave è che siano strumenti di forze politiche

Le ronde? Inutili e dannose. Meglio mettere lampioni, rendere vivili le città e far crescere il senso civico dei cittadini per evitare che quando vedono qualcosa si girino dall’altra parte». Pier Luigi Vigna, già procuratore nazionale antimafia e oggi onorario della Corte di Cassazione, non è affatto convinto che le ronde faranno aumentare la sicurezza nelle città italiane. Anzi si corre il rischio non solo che siano inefficaci, ma che diventino espressione di forze politiche (come già sta succedendo al nord per opera della Lega) e quindi orientabili politicamente e pregiudizialmente verso alcuni «magari gli emarginati o gli immigrati» e non verso altri.
Con lo Stato che contemporaneamente arretra dalla sua funzione esclusiva e «neutrale» di garantire la sicurezza dei cittadini.
Dottor Vigna cosa non la convince della misure varate dal governo?
«Che mentre si assiste a una mancanza di mezzi e di uomini nelle forze di polizia si pensa, con le cosiddette ronde, di attivare una partecipazione di gruppi di cittadini alla tutela del territorio. Sarebbe preferibile completare gli organici delle forze di polizia e dotarle degli strumenti per il controllo del territorio».
I favorevoli dicono che le ronde, garantendo un controllo più largo del territorio, dovrebbero aiutare le forze di polizia a garantire più sicurezza.
«Però si prevede che solo “in via principale” possano essere utilizzate persone che facevano parte o delle forze armate o delle forze di polizia. E questa è una pecca».
Perché?
«Perché se non sono solo ex militari o poliziotti si può aprire la via a associazioni di persone che non hanno esperienza nel controllo, direi, prima di tutto di se stesse. Che garanzia c’è che sia un’efficace salvaguardia nei confronti di atti di criminalità. In più c’è il rischio che in certi luoghi le ronde possano anche essere espressione di forze politiche».
Sta già succedendo. Ma qual è il pericolo?
«Che se mosse da idee politiche le ronde potrebbero “fare attenzione” nei confronti di certi soggetti piuttosto che altri. Ad esempio gli emarginati o gli immigrati presi potrebbero essere simbolo di qualcosa che non va. Così viene così meno il principio di neutralità che deve essere garantito dalle forze di polizia. In più, dato che sarà possibile che su uno stesso territorio operino più ronde, non è da escludere che nascano frizioni fra di loro.
Una concorrenza fra ronde che potrebbe sfociare anche in attività non commendevoli».
Ma almeno potrebbero essere utili a prevenire i crimini?
«Ne è sicuro? Facciamo un esempio. Si prevede che debbano avvisare con un telefono le forze di polizia. L’intervento delle forze di polizia ovviamente richiede dei tempi. E intanto queste persone delle ronde, a differenza delle guardie giurate, non possono intervenire. Così, probabilmente, quando arriverà la polizia il misfatto sarà già stato compiuto e la persone che l’ha fatto si sarà già data alla fuga. Ma il rischio più grande è quello di produrre diseducazione civica».
In che senso?
«Tutti i cittadini dovrebbero avere un senso civico solidale, così invece possono essere indotti a dire “tanto c’è qualcuno che ci pensa” voltandosi dall’altra parte».
Insomma lei delle ronde ne farebbe a meno?
«Queste associazioni non servono. Al contrario serve che ogni cittadino,ognuno di noi, sia pronto a denunciare all’autorità quanto avviene sotto i suoi occhi. Mentre spesso siamo portati a svolgere lo sguardo da un’altra parte. Perché il vero controllo del territorio è dato dal fatto che ogni cittadino lo viva come proprio».
Ma cosa c’è da fare per garantire più sicurezza?
«Gli interventi da fare non sono tanto quelli “rondeggianti”, ma per esempio dare al territorio un assetto che dia sicurezza: più illuminazioni, magari telecamere e vivibilità dei luoghi. Invece con le le ronde c’è un cedimento, mi sembra, della riserva agli organi statali della tutela delle persone e del territorio».

l’Unità 27.2.09
Nostri mali culturali
di Stefano Miliani


Duemila custodi se ne sono andati e altri 600 seguiranno. Le biblioteche e gli archivi non riescono a distribuire libri
A corto di archeologi, restauratori, storici dell’arte, niente turn over Ogni settore arranca

Dagli addosso alle ideologie e loro cantori che impediscono ai cittadini di godere della nostra arte e allo Stato di ricavar fior di quattrini dai musei. È con questa litania che il ministro dei beni culturali Sandro Bondi ha giustificato le dimissioni - fortemente caldeggiate da un suo articolo uscito lunedì sul Giornale - di Settis da presidente del consiglio superiore dei beni culturali. Eppure Bondi l’anno scorso, davanti alle commissioni cultura di Camera e Senato, suscitò interesse anche nell’opposizione perché disse di voler tener alta la bandiera, e le casse, della cultura. Ha risposto alle aspettative? Vi segnaliamo qualche situazione concreta per valutare. E scusate se non si farà poesia.
Custodi in calo. Negli oltre 450 musei statali sono in servizio 4mila custodi. Negli ultimi quattro anni - dati Cgil - se ne sono andati in 2mila e non sono stati rimpiazzati. Altri 600 andranno in pensione. Il centro nord soprattutto ne soffre. Un concorso per assumerne 396 è ancora lontano dalla prova finale. E molti istituti riducono gli orari di apertura. All’isola d’Elba i Napoleonici ora chiudono mezza giornata e i festivi. A Firenze al Polo museale - che pure funziona e guadagna - hanno 500 custodi circa, ma ne servirebbe un 30-40% in più per non dover sbarrare qualche sala - lascereste in una stanza incustodita e frequentatissima non diciamo un Leonardo ma pure un Simone Martini o un Andrea del Sarto? - come sono costretti a fare agli Uffizi. Detto tra parentesi: il manager Resca lamenta che nessun museo italiano sia tra i primi 10 per numero di visitatori al mondo. Gli Uffizi, prima Galleria in Italia, ne accolgono un milione e mezzo. Ma se si rapporta il dato con la superficie delle sale balzano al 2° posto. Non conta? All’Archeologico di Napoli, un gioiello, chiudono sale a rotazione perché questa è oggi la tendenza. E ancora: il museo di Reggio Calabria - lo riportava il Tempo - con i suoi bronzi di Riace è trascurato e non ci va nessuno. Cosa s’inventa il premier? Spedire le due statue - delicate - alla Maddalena per il G8. Bondi non protesta. Investimenti sul posto? Mah. Ancora: Resca si rammarica per i musei chiusi il 1° maggio. Saprà però bene che così vuole un decreto ministeriale per Natale, Capodanno e festa dei lavoratori. Come segnalava la Uil poco tempo fa, in una decina d’anni e fino al 2007 gli incassi sono balzati da 25 miliardi di lire a 106 milioni di euro con aperture lunghissime. Senza supermanager. Sia detto sussurrando: chi dirige museo prende 1.700-1.800 euro al mese.
Archivi e biblioteche soffrono. Alle biblioteche nazionali Nazionale di Firenze e Roma hanno il fiato grosso per distribuire i libri e documenti richiesti. Gli Archivi di Stato, esempio quelli di Lecce e Terni, arrancano per aprire il portone.
Archeologi globe trotter. Dovranno diventarlo, i soprintendenti: a fine anno ne rimarranno 6 per 24 soprintendenze. Un concorso per 11 dirigenti si è arenato per presunte irregolarità nelle commissioni. Gli archeologi in servizio sono 356, sarebbero 455 quelli in pianta organica, cioè necessari a compiere sopralluoghi, scavare, eccetera eccetera. Il ministero in 5 anni ha perso 6mila dipendenti - chi va in pensione non viene rimpiazzato - ed è sceso a 20.750.
Tagli micidiali. Bondi si era impegnato a far da baluardo. Settis ha quantificato: un miliardo di euro in meno nel prossimo triennio. La cifra, nei piani di Tremonti, pare molto superiore. E come mai il ministro non si è più fatto vedere al Consiglio superiore dei beni culturali dopo che a luglio 2008 un ordine del giorno votato all’unanimità lo invitava a controbattere a Tremonti e Brunetta? Altro interrogativo: Settis a luglio 2008 su Repubblica scrisse che la gestione dei beni culturali non funzionava, che i tagli avrebbero distrutto le soprintendenze e, con 761 milioni in meno, la tutela. L’ha ripetuto ora ed è successo il finimondo. Qualcuno dietro le quinte aspettava l’occasione per farlo cacciare?
Restauro, l’eccellenza dimenticata. Lo segnala periodicamente sul Giornale dell’arte Giorgio Bonsanti, ex soprintendente dell’Opificio delle pietre dure: qui l’Italia eccelle. Non a caso, sotto la guida del direttore generale Proietti, archeologo, il nostro Paese ha dato una bella mano alla riapertura del Museo nazionale di Baghad. Il ministero aiuta paesi come la Cina. Eppure la scuola dell’Opificio fiorentino sta per perdere 5 restauratori, non vede concorsi all’orizzonte, la scuola di alta formazione aspetta da 2 anni un regolamento per ripartire, per i restauri del 2009 il soprintendente Bruno Santi - che lascia il 1°marzo - denunciava fondi per appena 60mila euro.
Commissari civili. La prossima settimana arriverà quello alle soprintendenze archeologiche di Roma e Ostia. Dalla Protezione civile. A Pompei ne inviano uno nuovo, dalla Protezione civile, perché dopo un anno e mezzo di incarico rimuovono il precedente, Profili. La Protezione - rammentava Settis - rimedia ai cataclismi naturali. Non è che il cataclisma, per taluni, sia il giudizio affidato ai tecnici competenti in materia?

Repubblica 27.2.09
Il dogma capovolto
Una finanziaria radicale, coraggiosa ma assolutamente indispensabile
di Vittorio Zucconi


La rivoluzione imposta dal naufragio così il presidente ha seppellito Reagan
Crollato il dogma liberista, il rilancio affidato alla spesa pubblica

La nuova rivoluzione americana, promessa e coronata dal trionfo elettorale, arriva un mese dopo l´insediamento di Obama e si realizza attraverso il solo strumento legittimo che le democrazie moderne offrano a chi le governi.
La spesa pubblica, la leva fiscale, la redistribuzione della ricchezza nazionale dal portafoglio di chi più ha alle tasche di chi non ha. Una rivoluzione imposta dal naufragio spaventoso del mercato finanziario.
Chi aveva temuto o sperato che Obama fosse soltanto una novità ricca di simboli e povera di sostanza, e non avrebbe fatto davvero niente "di sinistra", oggi legge con sbalordimento un budget, una finanziaria diremmo noi, che chiude un´era della storia americana cominciata una generazione fa con la rivoluzione reaganiana e ne apre un´altra, non per "far piangere i ricchi sulle loro barche", ma per raddrizzare la barca nazionale che sbanda e salvare, dopo la bufera, anche i ricchi, motore e carburante indispensabile di una economia equa e sviluppata.
Il progetto di bilancio che ieri la Casa Bianca ha presentato al Parlamento per una discussione che sarà furibonda, perché non esistono nel Congresso degli Stati Uniti partiti di proprietà e ricatti di voti di fiducia, non è soltanto ciclopico nelle cifre: 3 mila e cinquecento miliardi di spesa totale, mille e trecentocinquanta miliardi di disavanzo (praticamente l´intero Prodotto Interno italiano), 318 miliardi di nuove entrate fiscali imposte al reddito di chi guadagna oltre 250 mila dollari l´anno per creare un fondo di riserva per la futura copertura sanitaria universale che ammonta a 634 miliardi. Cifre, come si vede, inconcepibili per altre nazioni che devono misurare in qualche decina di miliardi al massimo le proprie "manovre".
L´enormità dei conti che il nuovo "pater familias" ha presentato alla famiglia americana va ben oltre l´entità della cifre, talmente grandi da avere indotto il repubblicano sudista Eric Cantor, della Virginia, a definirle «danaro immaginario». La sostanza del budget obamiano è nel capovolgimento di una cultura politica che dall´elezione di Ronald Reagan nel 1980, e ancor prima, nelle periferie degli stati, vedeva nel governo centrale non la soluzione dei problemi, ma "il" problema. E aveva postulato il dogma del togliere ai poveri per dare ai ricchi, nella speranza che dal boccale traboccante sgocciolasse verso il basso ricchezza per dissetare anche gli altri.
Il dogma dominante della trickle down economy, che aveva attraversato indenne anche la presidenza Clinton grazie alla presenza di una radicale maggioranza repubblicana in Parlamento, e si era rilanciato nella grande detassazione voluta da George W Bush, ha finito, come tutti i dogmi e le ideologie, per divorare sé stesso, producendo quella bolla di arricchimento speculativo, non soltanto «disonesto» come vogliono i giustificazionisti, che è esplosa lo scorso anno.
È stata dunque la realtà a decretare la fine di quell´epoca, così come la stagnazione e l´inflazione degli anni �70 avevano segnato il tramonto del keynesismo rooseveltiano. Obama ne ha tratto le conseguenze, oltre che averne subito gli effetti, ereditando da Bush un "buco" di mille miliardi di dollari, un mercato immobiliare decomposto e un mondo finanziario a pezzi.
La sua scelta è stata radicale. Non giocare al Robin Hood, ma abbattere per ricostruire. «Ci sono momenti nei quali ci si può limitare a una mano di bianco, altri, come questo, nel quale di devono rifare le fondamenta». La quota di ricchezza nazionale spinta verso l´alto dalla "rivoluzione reaganiana" che aveva trasformato la società americana da una "mela", nella quale il grosso del reddito stava all´equatore della nazione, lasciando ai due poli opposti ma sottili ricchezza e povertà, in una "pera", dove sempre più persone sono scivolate verso il fondo del frutto, demolendo la classe media.
Forzare, attraverso la leva fiscale che si farà più dura con chi sta sulla cima del reddito, è soltanto il ritorno alla classica "tassazione progressiva", allo strumento inventato per garantire, senza espropri o violenze, la circolazione della ricchezza, ingolfata verso l´alto.
Un´operazione difficile, perché aumentare le tasse, sia pure a pochi, nei momenti di crisi acuta è sempre rischioso, perché avviene sul corpo di un malato grave. Ma un´operazione indispensabile, perché la fede nella capacità autoequilibrante del mercato cara ai teologi del liberismo assoluto come Alan Greenspan, si è schiantata nei giorni di settembre, quando il mercato ha presentato il conto del proprio naufragio proprio a coloro che disprezzava: al governo, dunque ai contribuenti, rimasti a reggere il sacco vuoto di un´illusione finita.

Repubblica 27.2.09
Una psiche votata alla distruzione
Una lettura psicoanalitica della struttura mentale e dei comportamenti dei gruppi che in Italia hanno scelto l’annientamento fisico dell´"altro"
di Carol Beebe Tarantelli


Per le ideologie violente la vittima diventa puro corpo già morto prima di essere soppresso
Far vincere il loro ideale uccidendo corrisponde a un progetto di immortalità

Nelle loro autobiografie, i fondatori delle Brigate Rosse si presentono come guerrieri che hanno lottato per un progetto politico realistico che è stato sconfitto. Questo ci induce a giudicarli secondo il famoso adagio di Bismarck nel quale la politica è l´arte del possibile, dove l´idea del possibile indica la rilevanza intrinseca al progetto politico della valutazione delle realtà … Il modo in cui in ultima analisi le Brigate rosse giustificavano il loro ricorso alla violenza era una visione dello stato italiano come un oggetto malvagio incontrollabile, sopraffattore e primitivo: dopo la strage di Piazza Fontana, era evidente che lo stato repressivo mirava a reprimere il dissenso nella società e bisognava armarsi per combatterla.
Esiste ovviamente il problema di stabilire se questa visione di uno stato malvagio e repressivo corrispondesse alla realtà: era possibile che dopo un periodo di conflitto sociale spesso violento questo genere di disordini venisse represso, mentre così non è avvenuto in Italia, né negli altri paesi dell´Occidente. In altre parole, la visione dei terroristi di uno stato totalitario volto a compiere atti di repressione assoluta non scaturiva da un esame della realtà politica dell´Italia.
Per di più, se si esamina anche superficialmente la realtà della società italiana negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, non si potranno più accettare le affermazioni delle Brigate rosse come un´analisi della situazione sociale, dato che nel corso di quegli anni i governi non solo non avevano represso tutti i conflitti, ma il persistere del conflitto aveva prodotto significative trasformazioni nella società e nella cultura italiana…
Assenza della politica. In effetti i brigatisti non si sono mai posti interrogativi di carattere politico. Era possibile che si creasse un clima di consenso tale da offrire loro qualche ragionevole probabilità di riuscire a scatenare e a vincere una guerra civile, come pensavano? Considerando la posizione dell´Italia nella rete internazionale delle alleanze politiche e dei legami commerciali nati nel clima della guerra fredda sulla scia degli accordi di Yalta, lo stato rivoluzionario vittorioso avrebbe avuto la forza di contrastare l´inevitabile reazione degli alleati dell´Italia? Nel maturare una decisione politica i ragionamenti di questo genere sono necessari, perché servono a misurare il rapporto di forza fra le due parti in conflitto, a valutare le mosse tattiche da intraprendere e in ultima analisi le prospettive di riuscita di un´impresa politica. E in effetti, chi non ha un´esatta percezione della situazione politica non riesce mai nel proprio intento e rischia di essere manipolato da parte di altri protagonisti della scena politica. Ma per una simile mentalità la realtà è irrilevante. In termini psicoanalitici, il gruppo sconfessa la realtà sociale e politica per entrare in quella che Anzieu chiama l´illusione gruppale, uno spazio generato dal gruppo dove scompaiono i limiti e le costrizioni della realtà, dove l´impossibile sembra possibile, uno stato di delirante onnipotenza. Infatti era l´attrazione verso la violenza reale, e l´essersi votati interamente a organizzarne la messa in atto, a costituire l´elemento strutturante del gruppo, il legame comune a quanti aderivano al collettivo terrorista.
Infatti il gruppo terrorista è vivo solo nella misura in cui commette azioni violente, e finché quelle azioni sono ingigantite dai mezzi di comunicazione di massa. La distruzione era una necessità intrinseca alla vita dell´organizzazione terrorista: per vivere (ossia, per avere un´eco mediatica) l´organizzazione doveva distruggere. In definitiva la lotta armata, anziché trovare il proprio fondamento nella situazione politica (il che avrebbe presupposto il contatto con la realtà), innanzi tutto costituiva la maniera di proiettare sull´arena politica stati psichici primitivi condivisi dal gruppo.
Così il ciclo della violenza diventa teoricamente senza fine: incapace di esprimersi se non tramite azioni violente, incapace di contenere pensieri riguardanti strategie e obiettivi realistici, il gruppo produce inevitabilmente una sequenza senza fine della violenza che costituisce la sua essenza.
Il terrorismo come progetto di immortalità. L´Io fatica ad accettare come possibile la propria non esistenza, e nasce da qui l´anelito all´immortalità. Le creazioni culturali e religiose del genere umano sono progetti di immortalità: voglio sopravvivere alla morte del mio io. I progetti di immortalità tradizionali implicano uno scambio tra la vita organica e la vita simbolica, in cui la perdita della vita organica (la morte del corpo: il mio, il tuo) è compensata dalla sopravvivenza simbolica in una delle molte versioni possibili (la fama; l´ingresso nella vita eterna; la vittoria della nostra religione, razza, cultura, sulla religione, razza, cultura vostra). Gli immortali sono altresì morti; la vita nella morte.
Anche il terrorismo è un progetto di immortalità. Secondo i terroristi il massacro delle loro vittime è giustificato; infatti i terroristi stessi sono i detentori e gli interpreti di un sistema simbolico che coincide con il bene assoluto, e dunque far prevalere il loro Ideale diventa una questione di vita o di morte: per loro stessi, per il loro gruppo, e - come nel caso delle ideologie di redenzione - in ultima analisi per l´intera umanità. Ossia, nelle parole di W. B. Yeats, per riuscire a far sembrare che chi consegna un altro alla morte fisica compie un atto di "tremenda bellezza" e non di puro e semplice annientamento, l´Io deve aderire in modo assoluto al sistema di significati che distribuisce l´immortalità.
Come hanno dimostrato gli eventi estremi del XX secolo, quando si tratta di frenare l´impulso degli esseri umani a usare la violenza per imporre un sistema ideologico l´etica è una barriera insufficiente. Per usare le parole di Elie Wiesel: "Il proprio retaggio spirituale non fornisce uno schermo, le concezioni etiche non offrono protezione. Si può torturare il figlio sotto gli occhi del padre e continuare a considerarsi una persona di cultura e di religione".
Per di più la condanna morale non ha nessuna rilevanza per i terroristi, operanti al di fuori del sistema di valori che la pronuncia. Anzi, il paradosso è che la condanna morale rispecchia la mentalità dei terroristi, perché mentre afferma la superiorità del complesso di valori che rifiuta la violenza, trasforma quel rifiuto nella potenziale scintilla da cui si avvia un nuovo ciclo repressivo, mentre i due sistemi di valori entrano in competizione per assicurarsi il primato.
È nello spazio della mia differenza dall´Altro - là dove l´altro è assente - che i pensieri trovano un luogo in cui prendere forma ed essere pensati. La non esistenza dell´Altro in quanto diverso - in quanto fonte alternativa di significato - è parte integrante nei progetti di immortalità della "tremenda Bellezza". Sono progetti fondamentalisti. Se le ideologie addotte a giustificazione degli atti violenti possono anche mutare (basate sulla purezza razziale, o su ideologie politiche totalizzanti, o sulle promesse salvifiche di religioni assolute), ciò non si verifica nelle modalità con cui proclamano le loro verità: ossia non riconoscono un esterno dal quale possa provenire qualsivoglia valore. Quindi, la vittima del terrorista diventa puro corpo, ricettacolo inanimato della proiezione, già morta prima di essere soppressa. Come affermava lo psicoanalista Wilfred Bion, i veri problemi sorgono quando il gruppo fondamentalista pensa di agire sulla base della propria ideologia.
Gli individui creano progetti di immortalità - aspirano alla fama, a sopravvivere oltre la morte fisica - ma la struttura simbolica da cui i progetti scaturiscono è sempre collettiva: possiamo pensare l´immortalità solo all´interno di un gruppo (magari puramente virtuale). Come sostiene Robert Lifton, "se esiste una struttura di significato che giustifica le azioni più malvagie, diventerà possibile compierle con un senso di colpa minimo".

Corriere della Sera 27.2.09
Crisi, la protesta diventa globale
Dall'Islanda alla Russia la recessione agita le piazze Le previsioni: una primavera di manifestazioni
di Federico Fubini


I numeri. Nell'ultimo mese centinaia di migliaia di persone sono scese in strada per urlare il loro disagio e chiedere interventi
Le stime. Secondo l'associazione internazionale dei sindacati nel 2009 50 milioni di lavoratori rischiano di restare senza posto

Sul calendario, la polizia di Londra ha già marcato in rosso le date che potrebbero incendiare la primavera dello scontento. Ed è un'ironia amara per Gordon Brown che il giorno segnato come il più infiammabile sia quello che, nei piani, doveva assicurare l'apoteosi del premier in vista delle elezioni. Il 2 aprile, vertice dei leader del G20, rischia invece di dimostrarsi l'opposto: secondo David Hartshorn, capo dell'ordine pubblico alla polizia londinese, potrebbe innescare una stagione di disordini, picchetti, regressione allo scontro sociale dei primi anni di Margaret Thatcher.
Brown sa che è possibile. Lo ha capito quando il blocco agli impianti Total nel Lincolnshire, contro l'impiego di 300 operai italiani e portoghesi, si è trascinato dietro scioperi selvaggi di solidarietà in tutto il Regno. La recessione e i licenziamenti colpiscono in Gran Bretagna più duro che altrove, ma il governo di Londra non ha certo l'esclusiva delle piazze coi nervi a fior di pelle. A fine gennaio in Francia due milioni e mezzo di lavoratori, dalle infermiere ai professori, hanno decretato una plateale paralisi del Paese e da settimane le ex colonie alle Antille vivono nella violenza di piazza. In Grecia il mese scorso studenti e disoccupati hanno messo a ferro e fuoco le città, quindi gli agricoltori hanno bloccato le arterie di traffico del Paese fino a che il premier Costas Karamanlis è stato forzato a cambiare 9 ministri su 16. In Turchia, Bulgaria e Lituania i cortei anti- governativi sono degenerati nella violenza. In Islanda e Lettonia, entrambe colpite dal contagio finanziario, i dimostranti hanno già licenziato i governi mentre anche a Dublino ormai il malumore si è rovesciato in strada. Persino sistemi autoritari che dalla crescita traevano la loro legittimità, da Mosca e Pechino, fanno ormai i conti con l'impatto della crisi sugli equilibri fra cittadini e potere.
Di rado una recessione così è rimasta senza conseguenze politiche, e questa potrebbe non fare eccezione. Secondo l'Ituc, l'associazione internazionale dei sindacati, il 2009 produrrà nel mondo 50 milioni di nuovi disoccupati: tutti i lavoratori di Italia e Francia messi assieme. Per dirla con Rupert Murdoch, il cui impero dei media è un termometro degli umori in tre continenti, questa fase «ridefinirà le nazioni alle fondamenta». Di sicuro potrebbe farlo con certi leader, a giudicare dalla parabola curiosamente simile di Gordon Brown e Nicolas Sarkozy negli ultimi mesi. Quando in autunno la crisi è entrata nella sua fase acuta, la popolarità interna di entrambi ha avuto un soprassalto grazie al loro ruolo globale: l'attivismo di Sarkozy in Europa e quello di Brown nel proporre al G7 misure per le banche, avevano elevato il profilo di entrambi e placato le opinioni pubbliche. Non è durato molto.
In Gran Bretagna la forbice con i conservatori è tornata ad aprirsi, con il Labour ora di nuovo indietro di dodici punti; secondo un sondaggio IMC per il Guardian, il 63% degli elettori pensa ora che i laburisti dovrebbero cambiare leader. E la minaccia xenofoba resta appena sottopelle: Hartshorn, alla polizia di Londra, avverte che il gruppo neofascista «Combat 18» sta reclutando nuove forze grazie al malumore verso i lavoratori dell'Europa dell'Est assunti nei cantieri per le Olimpiadi del 2012.
Anche da questa parte della Manica i sondaggi segnalano allerta rosso. Lo sciopero generale del 29 gennaio e i disordini della Guadalupa, dove un sindacalista è morto, non sono i soli campanelli d'allarme per Sarkozy. Il leader, è vero, capta i segnali e non si risparmia: sei miliardi al settore auto purché gli impianti restino in Francia, 2,5 per sostenere i consumi, aumenti ai funzionari alle Antille. Ma quando lui stesso è andato in diretta per un'ora e mezza a reti unificate dopo lo sciopero, ha tenuto fermo il timore: «Avanti con le riforme». Peccato che, secondo Tns Sofrès, il 58% dei francesi dichiari che il presidente «parla molto ma non fa granché» e per il 57% il Paese «va nella direzione sbagliata» (solo per il 31% in quella «giusta»). Quanto alla Guadalupa, quattro francesi su cinque pensa che la rivolta sia «giustificata».
Lo spettro dell'Eliseo, spiega l'ex editorialista di Le Monde
Patrick Jarreau sul sito «Rue89», è il '95: allora la piazza paralizzò Jacques Chirac proprio quando l'Eliseo pareva onnipotente. Nel giro di pochi giorni, Chirac fece del suo primo ministro Alain Juppé il capro espiatorio. Ma il paradosso stavolta è che in quella posizione a Mosca potrebbe trovarsi ora Vladimir Putin, ad opera del «suo» presidente Dmitrij Medvedev. Questi biasima in pubblico la lentezza del governo nel reagire alla crisi, magari perché cerca così di anticipare il disorientamento dei russi. In mezzo milione hanno perso il posto a dicembre, in trecentomila a gennaio e in un anno l'economia è crollata dell'8,8%. A Mosca, Pskov, Volgograd e soprattutto a Vladivostok, nell'estremo oriente, la polizia è intervenuta a reprimere le proteste di piazza. Nei porti sul Pacifico il malumore si concentra contro i dazi all'import di auto giapponesi usate, a difesa della decrepita industria russa. Ma la violenza delle forze anti- sommossa, che ancora circola su You Tube, ha solo acuito la tensione. L'indice di gradimento della coppia Putin-Medvedev resta alto, eppure secondo l'istituto di sondaggi Levada metà dei russi pensa che il governo non faccia abbastanza per il potere d'acquisto.
Anche la leadership cinese annusa il pericolo, registra le sommosse davanti alle fabbriche sbarrate a Canton e altrove e cerca di tappare le falle: 460 miliardi di euro di investimenti per dare lavoro nei nuovi cantieri, aiuti all'acquisto di beni di consumo. Ma per Pechino la sfida della stabilità sociale resta delicata: solo negli ultimi mesi, in 20 milioni hanno perso il posto mentre ogni anno il sistema deve assorbire 15 milioni di migranti dalle campagne e sei di nuovi laureati.
Al confronto i 120 mila in piazza a Dublino contro il governo di Brian Cowen sabato scorso, la più vasta manifestazione di sempre sull'isola, sono ben poco. Forse però solo in apparenza: l'economia sta collassando del 10%, la finanza privata e pubblica sono vicine alla respirazione artificiale. E fra qualche mese, gli irlandesi devono gettare nell'urna del referendum la scheda decisiva per far vivere, o morire, la carta costituzionale europea.

Corriere della Sera 27.2.09
Costituzione, i diritti che non invecchiano
La Carta ha garantito 60 anni di democrazia soprattutto grazie ai princìpi della prima parte
di Giovanni Sartori


La nostra legge fondamentale ha subìto molti emendamenti, qualche ritocco è necessario, ma l'impianto generale resta valido come nel 1948

La costituzione è la legge suprema, la carta fondamentale e fondante dello Stato di diritto, dello Stato regolato dal diritto.
La parola «costituzione» è moderna, non discende dalla constitutio e le constitutiones dei romani, e non si afferma nel suo significato attuale fino alla seconda metà del Settecento. I puritani inglesi, che pur furono i primi estensori di testi che noi diremmo «costituzionali», non li designarono mai così. Furono i costituenti americani, a cominciare dal 1776 in Pennsylvania e poi nel 1787 a Philadelphia per il nuovo Stato federale, ad adottare «costituzione» intesa come suprema legge. Li seguirono i rivoluzionari francesi del 1789. E la dizione si affermò un po' dovunque, in Europa, nel corso dell'Ottocento. Fece eccezione Carlo Alberto di Savoia, che nel 1848 concesse al Piemonte uno «statuto», così detto perché era «ottriato», e cioè unilateralmente concesso dal sovrano. Ma lo statuto albertino ricalcava la costituzione belga del 1831, ed era una costituzione alla stessa stregua del suo modello.
Il punto è, allora, che sin dalla fine del Settecento alla fine della Prima guerra mondiale il significato di costituzione era «garantista»: non designava qualsiasi forma, qualsiasi struttura dello Stato, ma specificamente quella organizzazione del potere che garantiva la «libertà da», la libertà dei cittadini dallo Stato, nei confronti dello Stato. Paine lo disse concisamente nel 1791: «Un governo senza una costituzione è potere senza diritto ». E nella Dichiarazione francese dei diritti del 1789 si legge: «Una società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è definitivamente determinata non ha costituzione».
Questa accezione garantista di costituzione viene travolta, o comunque respinta, dalla teoria pura del diritto di Kelsen e, più in generale, dal «formalismo giuridico» che si afferma tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Questo formalismo, attentissimo alla forma e alla coerenza del diritto, è però molto, anzi troppo disattento alla sostanza dei problemi. Resta il fatto che tuttora impera nell'insegnamento delle facoltà di giurisprudenza e nella forma mentis della nostra magistratura. E si capisce perché. Al giurista piace, così come piace e conviene a quasi tutte le specializzazioni, chiudersi in un proprio orto inespugnabile. Il che è bene per la sistematica deduttiva del diritto, ma male per il problema del potere politico. [...] Comunque sia, i nostri costituenti del 1948 uscivano dalla esperienza della dittatura fascista, e i cattolici e i comunisti di quegli anni si temevano e non si fidavano gli uni degli altri. Pertanto si impegnarono nella progettazione di uno Stato il più garantista possibile. Forse anche troppo garantista (a scapito della governabilità); ma che ci ha pur sempre garantiti per più di mezzo secolo.
Le costituzioni non sono, e nemmeno dovrebbero essere, immodificabili. Sono, ovviamente, figlie del loro tempo. Però è importante che durino, che siano longeve. Infatti sono, per lo più, costituzioni rigide, e cioè sottoposte a speciali procedure di modifica. Lo è — rigida — anche la nostra. Ma mentre la costituzione degli Stati Uniti è stata modificata in piccolo, per dire con emendamenti di singoli articoli che ne lasciano invariata la struttura portante, noi abbiamo cominciato sin dal 1983 a vagheggiare riforme di interi blocchi della Carta originaria. Nessuna di queste riforme a blocchi è mai andata in porto fino al 2001, quando il governo Amato di centrosinistra varò
in extremis un grosso pacchetto di riforme di tipo federalista (vedi, nel Titolo V su Regioni, Province e Comuni, specialmente i nuovi articoli 114-120). Questa riforma fu frettolosa, anche perché ispirata da interessi elettorali contingenti, e incompleta, nel senso che rinviava la riforma del bicameralismo paritario alla futura creazione di un Senato che fosse espressione di rappresentanza territoriale.
Al momento abbiamo dunque una costituzione incompleta (e anche controversa) nel suo assetto federalista, mentre siamo assurdamente fermi sulle piccole riforme intese a rafforzare la capacità di governo — e così a correggere l'eccesso di parlamentarismo della Carta del '48 — attribuendo al capo del governo il diritto di scegliere e revocare i suoi ministri, e assicurando ai governi una maggiore stabilità introducendo l'istituto tedesco della sfiducia costruttiva. Su queste piccole riforme, che non toccano la struttura del sistema parlamentare, quasi tutti i costituzionalisti sono d'accordo. Eppure non si fanno.
Berlusconi e Bossi hanno invece perseguito l'intento di disegnare una nuova costituzione — la cosiddetta costituzione di Lorenzago — che cambiava più di cinquanta articoli della costituzione vigente. Ma il progetto di Lorenzago è stato massicciamente respinto dal referendum del giugno 2006. Nonostante questo secco colpo di arresto, agli addetti ai lavori continua a piacere di ripensare la costituzione in grande. Così la questione più discussa oggi è se la prima parte del testo del '48 non sia largamente obsoleta e da rifare.
Come già dicevo, è importante che le costituzioni durino e che diano «certezze» durevoli. È vero che alcuni articoli, o anche molti articoli, del testo elaborato sessant'anni fa esibiscono principii «datati». Per esempio, l'articolo 1: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro » (che nella formulazione proposta da Togliatti diceva «fondata sui lavoratori»). Ma la importante distinzione tra norme programmatiche (che sono soltanto «indirizzi», norme virtuali e latenti) e norme precettive (le vere norme cogenti) consente di mantenere in vita senza danno norme che sono, appunto, datate. Io lascerei al tempo il compito di rendere desuete le norme programmatiche che sono diventate tali e non me ne preoccuperei più di tanto. Le vere urgenze investono semmai le norme precettive sulla governabilità che ho richiamato poc'anzi.
Concludo sottolineando la grande utilità di questo testo, e di un chiaro e sistematico aggiornamento di una costituzione che è già stata abbondantemente modificata e che molti citano ancora nella versione originaria e superata.
Composizione tratta da «I 12 articoli fondamentali della Costituzione» illustrati da FABIO SIRONI

Corriere della Sera 27.2.09
Un saggio di Piergiorgio Odifreddi
Il pensiero di Darwin: origini e evoluzione
di Edoardo Boncinelli


Una svolta che finì per travalicare i limiti della biologia

Di Darwin e del darwinismo si è parlato molto, di recente, a voce e per iscritto, e più ancora se ne parlerà nell'anno che è appena cominciato e che rappresenta il duecentesimo anniversario della nascita di Darwin e segna i centocinquant'anni dalla pubblicazione della sua opera principale,
L'origine delle specie. Ne sentiremo di cotte e di crude, a proposito soprattutto delle implicazioni filosofiche e sociali della dottrina dell'evoluzione, ma c'è da credere che pochi ne esporranno esplicitamente i punti essenziali. Il fatto è che tutti credono di sapere tutto sull'evoluzione, esattamente come tutti credono di sapere tutto sulla mente. È da salutare quindi con grande favore un'operetta informata ma semplice e lineare come quella di Piergiorgio Odifreddi, intitolata In principio era Darwin (Longanesi, pp. 123, e 12).
Il nostro autore smette per una volta i panni del polemista a tutti i costi e del fustigatore di certe posizioni ideologiche per darci un'introduzione alla materia che è nello stesso tempo un ritratto storico, essenziale ma esauriente, di Darwin e della sua opera. Basandosi spesso su citazioni letterali delle sue opere, che pochi hanno letto o leggono, Odifreddi dipana da par suo un trattatello del «tutto- Darwin» che riuscirà molto utile a chi si vuole fare una prima infarinatura sull'argomento e a chi vuole assorbirne i punti essenziali senza perdersi in un mare di dettagli e di complicazioni. In particolare mi ha colpito il fatto che lui, esperto di matematica e di logica, e presumibilmente del tutto digiuno di biologia fino a qualche tempo fa, sia riuscito con il solo uso della ragione a impadronirsi dei nodi essenziali dell'evoluzionismo, molto meglio a mio giudizio di tanti miei colleghi biologi. Potenza della passione, della dedizione e della chiarezza mentale, nonché grande rivincita sull'abitudinarietà e sulla vuota presunzione di chi pensa di sapere tutto solo perché pratica una certa professione.
Di che cosa parla questo libretto? Di Darwin, della sua vita, del suo pensiero — più precisamente dell'evoluzione del suo pensiero —, della sua opera e degli sviluppi e degli esiti della stessa fino quasi ai nostri giorni. Come forse meglio non si poteva, considerando anche le dimensioni del testo. Negli ultimi anni sono uscite molte biografie aggiornate di Darwin e il nostro autore se ne avvale ampiamente per comporre un vivido ritratto umano e intellettuale del fondatore dell'evoluzionismo, con i suoi drammi umani e la sua inesausta ricerca della verità, una verità che doveva travalicare i confini della biologia per investire questioni fondamentali come l'origine e l'evoluzione dell'uomo, il più contraddittorio e paradossale dei viventi, con un piede nell'animalità e la testa tra le stelle, carico di spinte istintuali come qualsiasi altro mammifero, ma dotato di una corteccia cerebrale ipersviluppata che deve sindacare e mettere bocca su tutto, che mangia con le posate, si sposa in bianco, suona e canta per tutto il pianeta e scrive libri, su di sé, sull'essere e sul nulla.
È opinione di Odifreddi, ma anche mia, che sapere da dove siamo venuti sia eccezionalmente importante, oltre che interessante, e non per farci mortificare a causa delle nostre umili e ferine origini, ma per misurare il cammino percorso — dalla evoluzione biologica prima e da quella culturale poi — così da rendercene doverosamente edotti e legittimamente orgogliosi. Ricordo una tenera fiaba delle elementari che ritraeva un dialogo fra un pennacchio di fumo, denso e nero, e una bianca nuvoletta. Il fumo vantava le sue nobilissime origini, essendo figlio del possente fuoco, mentre la nuvola non era che la figlia dell'umile acqua. «Ma quale sarà il nostro destino?», chiedeva la nuvola. «Tu ti disperderai annerendo ciò che incontri, mentre io potrò a suo tempo innaffiare e rendere fertili i campi ». Non è da dove veniamo che conta, concludeva la morale della favola, ma dove andiamo. E che cosa ci aspetta. Forse noi siamo come la nuvoletta: partiti da umilissime origini siamo in viaggio verso un luminoso avvenire. E questo nessuno ce lo potrà togliere, qualunque cosa scopriamo a proposito del nostro passato.

Lancet 22.2.09
Le ferite di Gaza e le nuove armi
di Dr. Ghassan Abu Sittah e Dr. Swee Ang


Il dottor Ghassan Abu Sittah ed il dottor Swee Ang, due chirurghi inglesi, sono riusciti a raggiungere Gaza durante l’invasione israeliana. In questo articolo descrivono le loro esperienze, condividono le loro opinioni e ne traggono le inevitabili conseguenze: la popolazione di Gaza è estremamente vulnerabile e totalmente inerme davanti ad un eventuale attacco israeliano.

Le ferite di Gaza sono profonde e stratificate. Intendiamo parlare del massacro di Khan Younis del 1956, in cui 5mila persone persero la vita? Oppure dell’esecuzione di 35mila prigionieri di guerra da parte dell’esercito israeliano nel 1967? E la prima Intifada, in cui alla disobbedienza civile di un popolo sotto occupazione si rispose con un incredibile numero di feriti e centinaia di morti? Ancor di più, non possiamo non tener conto dei 5.420 feriti nel sud di Gaza durante le ostilità del 2000. Ma, nonostante tutto ciò, in questo articolo ci occuperemo esclusivamente dell’invasione che ha avuto luogo dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009.
Si stima che, in quei 23 giorni, siano state riversate sulla Striscia di Gaza un milione e mezzo di tonnellate di esplosivo. Per dare un’idea approssimativa di ciò di cui si sta parlando, è bene specificare che il territorio in questione copre una superficie di 360 kilometri quadrati ed è la casa di 1,5 milioni di persone: è l’area più densamente popolata del mondo. Prima dell’invasione, è stata affamata per 50 giorni da un embargo commerciale ma, in realtà, fin dall’elezione dell’attuale governo è stata posta sotto vincoli commerciali. Negli anni, l’embargo è stato parziale o totale, ma mai assente.
L’occupazione si è aperta con 250 vittime in un solo giorno. Ogni questura è stata bombardata, causando ingenti perdite tra le forze dell’ordine. Dopo aver spazzato via la polizia, l’esercito israeliano si è dedicato ai bersagli non governativi. Gli elicotteri Apache e gli F16 hanno fatto piovere morte dal cielo, mentre i cannoni della marina militare hanno condotto un attacco dal mare e l’artiglieria si è occupata della terra. Molte scuole sono state ridotte in macerie, tra cui l’American School of Gaza, 40 moschee, alcuni ospedali, vari edifici dell’ONU ed ovviamente 21mila case, di cui 4mila sono state rase al suolo. Circa 100mila persone sono divenute improvvisamente senzatetto.
Le armi israeliane
Gli armamenti impiegati, oltre alle bombe e agli esplosivi ad alto potenziale convenzionali, includono anche tipologie non convenzionali. Ne sono state identificate almeno quattro categorie:
Proiettili e bombe al fosforo
I testimoni oculari affermano che alcune bombe esplodevano in quota, rilasciando un ampio ventaglio di micro-ordigni al fosforo che si distribuivano su un’ampia superficie. Durante l’invasione via terra, i carri armati erano usi sfondare le mura delle case con proiettili ordinari per poi far fuoco al loro interno con proiettili al fosforo. Questo metodo permette di scatenare terribili incendi all’interno delle strutture, ed un gran numero di corpi carbonizzati è stato rinvenuto ricoperto da particelle di fosforo incandescente. Un preoccupante interrogativo è posto dal fatto che i residui rinvenuti paiono amalgamati ad un agente stabilizzante speciale, che gli conferisce la capacità di non bruciare completamente, fino all’estinzione. I residui di fosforo ancora coprono le campagne, i campi da gioco e gli appartamenti. Si riaccendono quando i bambini curiosi li raccolgono, oppure producono fumi tossici quando i contadini annaffiano le loro terre contaminate. Una famiglia, ritornata al suo orto dopo le ostilità, ha irrigato il terreno ed è stata inglobata da una coltre di fumo sprigionata dal suolo. La semplice inalazione ha prodotto epistassi. Questi residui di fosforo trattato con stabilizzante sono, in un certo senso, un analogo delle mine antiuomo. A causa di questa costante minaccia, la popolazione (specialmente quella infantile) ha difficoltà a tornare ad una vita normale.
Dagli ospedali, i chirurghi raccontano di casi in cui, dopo una laparotomia primaria per curare ferite relativamente piccole e poco contaminate, un secondo intervento ha rivelato aree crescenti di necrosi dopo un periodo di 3 giorni. In seguito, la salute generale del paziente si deteriora ed, entro 10 giorni, necessitano un terzo intervento, che mette in luce una massiccia necrosi del fegato. Questo fenomeno è, a volte, accompagnato da emorragie diffuse, collasso renale, infarto e morte. Sebbene l’acidosi, la necrosi del fegato e l’arresto cardiaco improvviso (dovuto all’ipocalcemia) siano tipiche complicazioni nelle vittime di fosforo bianco, non è possibile attribuirle alla sola opera di questo agente.
È necessario analizzare ed identificare la vera natura di questo fosforo modificato ed i suoi effetti a lungo termine sulla popolazione di Gaza. È anche urgente la raccolta e lo smaltimento dei residui di fosforo sulla superficie dell’intera regione. Queste sostanze emettono fumi tossici a contatto con l’acqua: alla prima pioggia potrebbero avvelenare tutta la Striscia. I bambini dovrebbero imparare a riconoscere ed evitare questi residui pericolosi.
Bombe pesanti
L’uso di bombe DIME (esplosivi a materiale denso inerte) risulta evidente, anche se non è stato determinato con chiarezza se sia stato impiegato uranio impoverito nelle aree meridionali. Nelle zone urbane, i pazienti sopravvissuti mostrano amputazioni dovute a DIME. Queste ferite sono facilmente riconoscibili perché i moncherini non sanguinano ed il taglio è netto, a ghigliottina. I bossoli e gli shrapnel delle DIME sono estremamente pesanti.
Bombe ad implosione
Tra le armi usate, ci sono anche i bunker-buster e le bombe ad implosione. Ci sono casi, come quello del Science & Technology Building o dell’università islamica di Gaza, in cui un palazzo ad otto piani è stato ridotto ad un mucchio di detriti non più alto di un metro e mezzo.
Bombe silenziose
La popolazione di Gaza ha descritto un nuovo tipo di arma dagli effetti devastanti. Arriva sotto forma di proiettile silenzioso, o al massimo preceduto da un fischio, e vaporizza tutto ciò che si trova in aree estese senza lasciare tracce consistenti. Non sappiamo come categorizzare questa tecnologia, ma si può ipotizzare che sia una nuova arma a particelle in fare di sperimentazione.
Esecuzioni
I sopravvissuti raccontano di tank israeliani che, dopo essersi fermati davanti agli appartamenti, intimavano ai residenti di uscirne. Di solito, i primi ad obbedire erano i bambini, gli anziani e le donne. Che, altrettanto prontamente, venivano messi in fila e fucilati sul posto. Decine di famiglie sono state smembrate in questo modo. Nello scorso mese, l’assassinio deliberato di bambini e donne disarmate è stato anche confermato da attivisti per i diritti umani.
Eliminazione di ambulanze
Almeno 13 ambulanze sono state vittima di sparatorie. Gli autisti e gli infermieri sono stati sparati mentre recuperavano ed evacuavano i feriti.
Bombe a grappolo
Le prime vittime delle bombe a grappolo sono state ricoverate all’ospedale Abu Yusef Najjar. Più della metà dei tunnel di Gaza sono stati distrutti, rendendo inutilizzabile gran parte delle infrastrutture atte alla circolazione dei beni primari. Al contrario di ciò che si pensa, questi tunnel non sono depositi per armi (anche se potrebbero essere stati usati per trafugare armi leggere), ma per carburante ed alimenti. Lo scavo di nuovi tunnel, che ora occupa un buon numero di palestinesi, ha talvolta innescato bombe a grappolo presenti sul suolo. Questo tipo di ordigni è stato usato al confine di Rafah e già cinque ustionati gravi sono stati portati all’ospedale dopo l’esplosione di queste trappole.
Conteggio dei morti
Al 25 gennaio 2009, la stima dei morti è arrivata a 1.350. Il numero è in continua ascesa a causa della mole di feriti gravi che continuano a morire negli ospedali. Il 60% dei morti è costituito da bambini.
Feriti gravi
Il numero dei feriti gravi è di 5.450, con un 40% di bambini. Si tratta in massima parte di pazienti ustionati o politraumatici. Coloro che hanno subito fratture ad un solo arto e coloro che, pur avendo riportato lesioni sono ancora in grado di camminare, non sono stati inclusi in questo conteggio.
Nelle nostre discussioni con infermiere e dottori, le parole “olocausto” e “catastrofe” sono state spesso menzionate. Lo staff medico al completo porta i segni del trauma psicologico dovuto al lavoro frenetico dell’ultimo mese, passato a fronteggiare le masse che hanno affollato le camere mortuarie e le sale operatorie. Molti dei pazienti sono deceduti nel Reparto Incidenti ed Emergenza, ancor prima della diagnosi. In un ospedale distrettuale, il chirurgo ortopedico ha portato a termine 13 fissazioni esterne in meno di un giorno.
Si stima che, tra i feriti gravi, 1.600 sono destinati a rimanere disabili a vita. Tra questi, molti hanno subito amputazioni, ferite alla colonna vertebrale, ferite alla testa, ustioni estese con contratture sfiguranti.
Fattori speciali
Durante l’invasione, il numero dei morti e dei feriti è stato particolarmente alto a causa dei seguenti motivi:
* Nessuna via di fuga: Gaza è stata sigillata dalle truppe israeliane, che hanno impedito a chiunque di fuggire dai bombardamenti e dall’invasione terrestre. Semplicemente, non c’era alcuna via di fuga. Anche all’interno dei confini di Gaza gli spostamenti dal nord al sud sono stati resi impossibili dai tank israeliani, che hanno tagliato ogni via di comunicazione. Al contrario della guerra in Libano dell’82 e del ‘06, in cui la popolazione poteva spostarsi dalle aree di bombardamento massiccio a quelle di relativa sicurezza, un opzione di questo tipo era preclusa a Gaza.
* La densità della popolazione di Gaza è eccezionale. E’ inquietante notare che le bombe impiegate dall’esercito israeliano sono “ad alta precisione”. Il loro tasso di successo, nel centrare palazzi affollati, è del 100%. Altri esempi? Il mercato centrale, le stazioni di polizia, le scuole, gli edifici dell’ONU (in cui gli abitanti erano confluiti per sfuggire ai bombardamenti), le moschee (di cui 40 sono state rase al suolo) e le case delle famiglie, convinte di essere al sicuro perché tra loro non si annidavano combattenti. Nei condomini, una sola bomba a implosione è sufficiente a sterminare decine di famiglie. Questa tendenza a prendere di mira i civili ci fa sospettare che gli obiettivi militari siano considerati bersagli collaterali, mentre l’obiettivo primario sia la popolazione.
* La quantità e la qualità delle munizioni sopra descritte ed il modo in cui sono state impiegate.
* La mancanza di difese che Gaza ha dimostrato nei confronti delle moderne armi israeliane. La regione non ha tank, aeroplani da guerra, nessun sistema antiaereo da schierare contro l’esercito invasore. Siamo stati testimoni in prima persona di uno scambio di pallottole tra un tank israeliano e gli AK47 palestinesi. Le forze in campo erano, per usare un eufemismo, impari.
L’assenza di rifugi antibomba funzionali a disposizione della popolazione civile. Sfortunatamente, anche se ci fossero non avrebbero alcuna chance contro i bunker-buster israeliani.
Conclusione
Se si prendono in considerazione i seguenti punti, è ovvio che un’ulteriore invasione di Gaza provocherebbe danni catastrofici. La popolazione è vulnerabile ed inerme. Se la Comunità Internazionale intende evitare ferimenti ed uccisioni di massa nel prossimo futuro, dovrà sviluppare una qualche forza di difesa per Gaza. Se ciò non accadrà, i civili continueranno a morire.

Articolo originale: The wounds of Gaza, «The Lancet - Global Health Network», 2 febbraio 2009.
Traduzione di Massimo Spiga per Megachip.

Puglia 27.2.09
Collegium Musicum
Storie di amori, viaggi e armonie: a Bari le note di Dimitri Nicolau
di Daniela Vitarelli


BARI C'era tutto il sapore della poesia popolare nelle note di Dimitri Nicoiau intonate dal mandolino di Mauro Squillante. Suoni che se diventassero parole racconterebbero citando lo stesso compositore di origine greche scomparso quasi un anno fa storie di amori, di viaggi e di armonie che nascono tra parole diverse". Al maestro greco il ‘Collegium musicum’ di Bari ha dedicato la parte centrale del concerto che si è tenuto qualche giorno fa al 'Kursaal Santa Lucia'. La serata è stata affidata all'esperienza di uno dei maggiori specialisti degli strumenti antichi a plettro in coppia con l'ensemble diretto dal maestro Rino Marrone. Il risultato è stato una composizione di suoni insolita e ricca di fascino. Seduto su un piccolo sgabello posizionato al centre del palco, nel suo completo scuro, Squiliante ha incarnato perfettamente l'immagine che Dimitri Nicoiau così bene descrive nelle sue pagine: «l'amico mandolista si china leggermente con un abbraccio che nella sua solidità è paradossalmente delicato nel movimento delle mani». Gesti più misurati, ristretti e calcolati nel suonare uno strumento tanto piccolo ma dita
più trepidanti e veloci nel passare da una corda all'altra. L'esecuzione del Concerto Mediterraneo op. 213 di Nicoiau ha dipinto nell'aria il colore bianco delle case greche, l'allegria delle feste di paese, il vocio trascinante dei ritrovi in una combinazione di note originale e assolutamente personale. Lo stesso compositore sottolineava infatti che nel suo lavoro non c'è cosa più terribile the non avere suoni propri e rendersi conto del blocco della propria fantasia.
II programma della serata non ha mancato di soffermarsi su altre importanti pagine della letteratura musicale dedicata al mandolino. Nel segno di quel gusto raffinato cui ci ha abituati il 'Collegium Musicum', il repertorio ha interpretato in apertura l'adagio e fuga in do minore per orchestra d'archi di Mozart (una sorta di benvenuto in grande stile al pubblico presente) e subito dopo il Concerto in mi bemolle maggiore per mandolino, archi e clavicembalo di Giovanni Paisiello. L'aggiunta dei due strumenti ha di colpo trascinato l'esecuzione verso l'arte fascinosa degli antichi menestrelli. La seconda parte del concerto è stata invece tutta dedicata a tre degli otto Notturni scritti da Franz Joseph Haidvn per il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone. Nella successione dei componimenti, l'alternanza tra umorismo e incisività di movimento, espressività solenne e intensa e sofisticati giochi armonici e strumentali ha dato spazio a un'interpretazione brillante e d'impatto.
Nel prossimo appuntamento della stagione de] 'Collegium musicum', fissato per il 10 marzo sempre nella sala del 'Kursaal Santa Lucia', saranno protagonisti brani the si legano ai nomi di Paul Lewis. Gerald Finzi, Lennox Berklev, Benjamin Britten e Ralph Vaughan Williams in un concerto da camera che affiancherà all'orchestra il pianoforte di Angela Annese.

Il Riformista 27.02.2009
I miei dubbi sul testamento biologico
di Antonio Polito


Questo articolo non piacerà a molti lettori. Però lo devo scrivere lo stesso. La sostanza è che non vorrei stare nei panni dei residui spiriti liberi che siedono in Parlamento senza vincolo di mandato, quando dovranno votare la legge sul testamento biologico: la loro scelta sarà difficilissima...
Provo a ragionare da un punto di vista laico e liberale, cioè a valutare che cosa sia meglio per la comunità, e non che cosa corrisponda di più ai miei convincimenti personali. Di punti di vista liberali, in questa materia ce ne sono almeno tre, e ognuno porta in una diversa direzione. C'è il punto di vista liberale espresso da Angelo Panebianco: la morte è un affare privato, la democrazia non è attrezzata per decidere per via legislativa su ogni aspetto della mia vita privata, lasciate libera quella zona grigia, garantite un diritto all'ipocrisia. Dunque non legiferate.

C'è poi il punto di vista liberale dei radicali: la libertà individuale o è totale o non è, posso disporre di me stesso in ogni momento della mia vita, e dunque pretendo che una legge dello Stato garantisca questo mio diritto da chi provi a negarmelo.

Ma c'è poi un terzo punto di vista liberale, che mi espresse qualche anno fa Lord Ralf Dahrendorf in un libro-intervista che pubblicammo per Laterza, e che era proprio dedicato ai nuovi e inediti problemi che la democrazia si trova a gestire alle prese con la modernità.

Parlavamo della legge sull'eutanasia da poco varata in Olanda, e Dahrendorf se ne dimostrò molto preoccupato: «Appena approvata quella legge pur così prudente - diceva - immediatamente qualcuno ha proposto la distribuzione di una “pillola del suicidio” che consenta al malato di decidere da sé quando ritiene che la sua vita sia finita».

Ecco che cosa succede, diceva Dahrendorf: «Ci si accorda su una norma restrittiva, e subito c'è una spinta ad allargarne le maglie e sorge la possibilità tecnica per farlo. Bisogna stare molto attenti. E tenere in considerazione un sentimento molto profondo e radicato nell'opinione pubblica, la quale non ritiene che tutto ciò che è possibile sia pure lecito. In materie etiche a mio parere dobbiamo fissare dei confini, individuare aree in cui anche una piccola ma significativa minoranza non può essere sopraffatta dalla legge della maggioranza. Anche se rappresenta solo il dieci per cento dell'opinione pubblica». Stupito della sua risposta, gli domandai: «Dovremmo dunque tener in conto l'opposizione etica di una minoranza anche nei confronti della libertà di un singolo uomo di decidere fino a che punto la sua vita è degna di essere chiamata tale?». La risposta fu: «Sì, dovremmo. Perché è legittima la preoccupazione che una volta consentita una scelta individuale, non si riesca più a controllarne le conseguenze collettive».

Con Dahrendorf, abbiamo dunque un punto di vista liberale che si preoccupa della libertà di tutti, della libertà collettiva. Sa che bisogna legiferare, perché altrimenti il conflitto si scarica sulle singole persone, nella maniera drammatica e talvolta volgare che abbiamo visto all'opera nel caso di Eluana Englaro. Ma aggiunge che per legiferare non basta affatto ispirarsi al principio della libertà individuale. Perché può entrare in conflitto con la libertà di tutti.

E in effetti, nelle nostre società il richiamo al pieno dominio di ognuno su se stesso, sulla propria vita e sul proprio corpo, non è sempre considerato sufficiente a fissare la norma o la prassi. Non basta dire «il corpo è mio e lo gestisco io». Per esempio: i diritti sul nostro corpo non si estendono al commercio di organi. Noi siamo liberi di fare ciò che vogliamo di noi stessi, ma non di vendere una parte di noi stessi. Allo stesso modo non saremmo liberi neanche di donare il nostro cuore, perché così rinunceremmo alla nostra vita. Quando arriva in un pronto soccorso una persona che ha ingerito un tubetto di sonniferi e si è tagliata le vene, in una manifestazione evidente e lampante di volontà di morte, nessuno si sognerebbe mai di contestare il tentativo del medico di salvargli la vita, contro la sua volontà così tragicamente espressa. Questo vale anche nel caso dell'aborto. L'aborto nel nostro Paese non è depenalizzato, nel senso che non è vero che ogni madre è libera di fare ciò che vuole di quella parte del suo corpo che è l'embrione o il feto che porta in grembo. Si può abortire solo a determinate condizioni, in un determinato periodo della gravidanza, per determinate e comprovate necessità che hanno a che fare con la salute fisica e psichica della donna. Se una donna lo facesse in clandestinità, occultando il fatto e il feto, la procura aprirebbe un'indagine perché la legge è stata violata.

Tutto ciò per dire semplicemente questo: non è affatto vero che in una società liberale noi accettiamo che ogni individuo possa disporre a piacimento del proprio corpo. La società, attraverso la legge, indica dei limiti. Per tutti noi è accettabile. Perché il fine dello Stato è la libertà, come ha ricordato ieri Biagio De Giovanni su questo giornale, ma il fine della democrazia è regolare la libertà di ognuno in modo che non offenda o danneggi la libertà di tutti.

Da qui nasce l'allarme di Dahrendorf: in materie etiche bisogna «individuare aree in cui anche una piccola ma significativa minoranza non può essere sopraffatta dalla legge della maggioranza». Questo spiega perché l'argomento: lasciate che io faccia di me quello che voglio, purché non imponga anche a voi di farlo, non è condizione sufficiente per identificare un diritto individuale alla morte. Tant'è vero che nessun gruppo politico in Parlamento - radicali esclusi - propone l'introduzione dell'eutanasia nel nostro ordinamento. I radicali lo fanno in coerenza con la loro concezione della libertà individuale che abbiamo prima descritto; ma che, evidentemente, non è comune a tutti.

Mi si potrebbe obiettare: appunto, qui non si parla di eutanasia, il testamento biologico non c'entra niente con l'eutanasia. Vero. Fino a un certo punto, però. La mia preoccupazione più grande, in questa materia, è proprio di ridurre i rischi di scivolare dal testamento biologico all'eutanasia, lungo quella deriva che paventava Dahrendorf. Più si banalizza la morte, più la si considera una scelta invece che un evento, e più si corre questo rischio.

La malattia è una condizione che per definizione riguarda soggetti deboli. Spesso anziani, persone non autosufficienti, talvolta sole. Il testamento biologico è inteso come un'espressione di volontà personale. Ma ai soggetti più deboli può accadere che questa volontà sia inevitabilmente espressa con l'aiuto di un parente, di una badante, di un conoscente: e non sempre abbiamo al fianco, al culmine della nostra vita, la persona che ci ama di più e più disinteressatamente.

C'è il rischio - un caso su mille, ma anche quello conta - che la valutazione sia fatta sulla base di un calcolo costi-benefici. È questa una delle ragioni perché neanche nel testamento vero e proprio abbiamo la libertà di disporre completamente dei nostri beni, riservandone la legge una cospicua parte ai discendenti. Ciò non è sufficiente a farci concludere che l'espressione di volontà non serva, o che non ce ne si possa fidare (in particolare ritengo importante e utile l'indicazione di un fiduciario). Ma è sufficiente per farci essere estremamente cauti, per rispettare un principio di prudenza e precauzione, nell'indicare precisamente quali sono i trattamenti che col testamento biologico si possono rifiutare e che cosa è esattamente l'accanimento terapeutico.

Il caso di Eluana è stato eccezionale e assolutamente sui generis. Su questo giornale ho protestato con veemenza contro il tentativo del premier di risolverlo per decreto annullando così decisioni legittime e ormai inappellabili della magistratura. Ho difeso la decisione del Capo dello Stato di non firmare quel decreto. Però ora si tratta di una legge, che il Parlamento ha la sovranità per fare. Purché sia ponderata, ben meditata, accorta. Non tutti i casi sono come quello di Eluana e ogni caso è una storia a sé. Teniamo le maglie strette, se non vogliamo che ci scappi qualche vita ancora degna di essere vissuta, fosse pure per un giorno, per un'ora.

Aggiungo un'altra considerazione: tra i progressisti fautori di una legge molto libertaria, noto una nostalgia del passato che mi suona male. Ho sentito Bersani dire in tv: una volta la morte avveniva in casa, circondati dai propri cari, senza macchine e tubicini; dobbiamo tornare a renderla tale, e sottrarla al dominio della medicina. Questo rifiuto della tecnica non ha molto senso. Una volta si nasceva anche a casa, e la mortalità infantile era molto superiore. La tecnica medica ha allungato in modo spettacolare la nostra vita e ne ha accresciuto la qualità. Essa non può imporci la sua legge, ovviamente. Possiamo rifiutarla, nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori, o diventare una cavia: su questo non ci piove. Ma perché dobbiamo anche disprezzarla, in nome di un'idea di Natura metafisica e antistorica? Perché il prolungamento di una vita è sempre e necessariamente un male?

Questo pregiudizio nei confronti della scienza e della medicina animò il fronte cattolico nella battaglia sulla fecondazione assistita, ma ora sembra animare il fronte cosiddetto laico. È una curiosa inversione dei ruoli. Devo dire che fu proprio per questo che, nel caso della fecondazione assistita, mi battei con questo giornale (inutilmente) per il sì al referendum abrogativo. Mi dicevo: ma se la medicina ci può regalare qualche neonato in più, che male c'è? Perché il limite dei tre embrioni, che costringe le donne a più cicli di stimolazione ormonale? Perché l'obbligo dell'impianto che impedisce di crio-conservare gli embrioni fecondati? Perché il no all'eterologa, se si accetta il principio che la sterilità va curata come una malattia? La mia grossolana valutazione morale era pressappoco questa: male che vada, avremo qualche nascita in più. Nel caso del testamento biologico, invece, male che vada avremo qualche morte in più. Per me fa una grande differenza.

Come voterei se fossi in Parlamento? Non lo so. O almeno, non lo so ancora. Penso però che mi atterrei il più possibile al principio di precauzione. In dubio, pro vita.

La Stampa.it 27.02.2009
Scioperi, via libera al disegno di legge
Il provvedimento, riferiscono fonti governative, è stato approvato «all’unanimità, in un clima di grande accordo»


ROMA
Il Consiglio dei ministri ha dato via libera al ddl delega di riforma degli scioperi nel settore dei trasporti messa a punto dal ministro Maurizio Sacconi. Lo riferiscono fonti governative. Il provvedimento, riferiscono fonti governative, è stato approvato «all’unanimità, in un clima di grande accordo». È terminata alle 10,50 la riunione del Consiglio dei ministri che, tra gli altri provvedimenti, ha approvato il ddl di riforma del diritto di sciopero. 

Per quanto riguarda «la proclamazione dello sciopero nel settore del trasporto, occorre che le organizzazioni che indicono lo sciopero abbiano la rappresentanza di almeno la metà dei lavoratori; se le sigle rappresentano almeno il 20% serve un referendum» preventivo nel quale è necessario ottenere «almeno il 30% di consensi». Lo ha detto il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, nel corso di una conferenza stampa di presentazione del ddl delega sulla riforma degli scioperi nel settore dei trasporti. E aggiunge: «Ci siamo limitati al settore del trasporto perchè è in questo ambito che si sono manifestate le criticità maggiori e poichè parliamo di norme che presentano una delicata opinabilità».

«Si potranno sanzionare anche i comportamenti sleali nello sciopero dell’autotrasporto e di forme di lotta di altre categorie che bloccano autostrade o aeroporti e bloccano la circolazione». ha detto Sacconi illustrando la riforma. «Oltre all’eventuale sanzione penale già presente - dice il ministro -, ci sarà una sanzione amministrativa. La Commissione di garanzia cercherà di prevenire il formarsi del conflitto che si realizza con lo sciopero, la comissione resta indipendente, scende da 9 a 5 e avrà una sua dotazione organica certa».

Sia lo sciopero virtuale che l’adesione individuale allo sciopero saranno disciplinati dalla contrattazione. «Lo sciopero virtuale sarà disciplinato dalla contrattazione perchè potrà essere effettuato in varie modalità, con o senza la trattenuta dal salario», ha affermato il ministro, aggiungendo che «in questo caso deve esserci un danno anche per la controparte, più che proporzionato alla rinuncia dei lavoratori». La protesta virtuale, ha aggiunto Sacconi, per esempio si potrà fare con una fascia al braccio, comunque, ha ribadito, «saranno le parti a disciplinarlo». Stesso discorso per l’adesione individuale, che «è rinviata alla contrattazione collettiva», ha aggiunto.

Le prime reazioni
«Tutte le critiche pregiudiziali» soprattutto da parte di chi ha parlato di «soluzioni autoritarie sono assolutamente fuori luogo», dato il coinvolgimento di «tutte le parti sociali». Lo ha detto il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, in conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri, che ha dato il via libera al ddl delega di riforma della regolamentazione degli scioperi. Il riferimento è alle parole del segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani.

L’intervento del governo sul diritto di sciopero nel settore dei trasporti rappresenta una decisione «di buon senso, quella di coniugare il diritto allo sciopero con la necessità di garantire ai cittadini diritti fondamentali». È quanto afferma il ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, al termine del Cdm che ha dato il via libera al ddl di riforma. «Si tratta di garantire il diritto costituzionale allo sciopero che fa parte della storia moderna garantendo nello stesso tempo ai cittadini i servizi essenziali per poter svolgere una vita normale», ha aggiunto il ministro.

Il ddl di riforma del diritto di sciopero nel settore dei trasporti approvato dal Cdm, «potrà essere migliorato» durante l’iter parlamentare. È quanto evidenzia il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli, in conferenza stampa al termine della riunione. «Tutti i ministri hanno espresso apprezzamento per il lavoro svolto e per le consultazioni fatte da Sacconi», aggiunge il ministro che ha presieduto il Cdm, vista l’assenza del Premier Silvio Berlusconi. 

«La proposta del Governo e del ministro Sacconi ha un valore storico, perché impedirà che il diritto di sciopero sia esercitato in forme e modi tali da tradursi in una riduzione in ostaggio dei cittadini-utenti come troppe volte è purtroppo accaduto in questi anni». Lo afferma in una nota Daniele Capezzone, Pdl, portavoce di Forza Italia. «Ora c’è da augurarsi che il Pd non si faccia dettare la linea dalla Cgil: sarebbe, per il centrosinistra, un ennesimo, drammatico errore, oltre che un modo per non essere in sintonia con l’opinione della stragrande maggioranza dei cittadini italiani».

«È deplorevole che una materia così delicata venga sottratta al dibattito con le parti sociali». Lo ha detto a Cosenza il leader di Idv, Antonio Di Pietro. «Concordiamo - ha aggiunto - sulla necessità di una rivisitazione della materia perchè è intollerabile che una frangia minoritaria di lavoratori nell’esercizio del loro diritto possano ledere diritti altrettanto legittimi di lavoratori che non devono pagare le conseguenze».

La Stampa.it 27.02.2009
Ichino: "Non è contro i sindacati. Anche il Pd può votarlo"
Il giuslavorista: negli altri Paesi le regole ci sono già
di Susanna Marzolla


MILANO
Un testo dal titolo inequivocabile, «Disegno di legge sullo sciopero virtuale», giace al Senato già da quattro mesi, esattamente dal 30 ottobre dell’anno scorso. Quattro articoli preceduti da una relazione in cui si spiega che «per sciopero virtuale si intende la forma di agitazione collettiva proclamata al fine di esercitare pressione sulla controparte imprenditoriale in modo diretto, incidendo immediatamente sul suo bilancio, senza recare pregiudizio agli utenti o alla collettività». Un altro testo, «Disegno di legge sullo sciopero dei trasporti pubblici», parte con questa premessa: «In questo settore chiave solo nuove regole di democrazia sindacale possono riportare il conflitto alla sua funzione economico-sociale originaria». Per diverso tempo è stato solo una bozza di lavoro. Fino a ieri, quando Pietro Ichino, senatore del Pd e noto giuslavorista lo ha presentato alla Presidenza del Senato; quasi in contemporanea con l’elaborato del governo. 

Sembra proprio la premessa di una norma “bipartisan”. Senatore Ichino, ritiene che la bozza del governo rispecchi quanto già contenuto nelle sue proposte? 
«Per gran parte sì, sia sullo sciopero virtuale che, oltre alla mia, ha come prime firme quelle di Treu, Morando, Bianco; sia sullo sciopero (tradizionale) nel settore dei trasporti. Quest'ultimo disegno di legge lo abbiamo discusso nel novembre scorso con i sindacati, con le imprese e con i rappresentanti degli utenti. Entrambi sono disponibili sul mio sito (www.pietroichino.it) già da diversi mesi e quindi possono essere oggetto di confronto con quanto elaborato dal governo». 

Quali sono, a suo parere, le principali differenze? 
«La prima, per quel che riguarda lo sciopero virtuale, è che noi lo consideriamo sempre come strumento aggiuntivo e facoltativo rispetto allo sciopero tradizionale: mai come sostitutivo. Il governo, invece, ne fa in alcuni casi la sola forma di lotta sindacale possibile». 

E per lo sciopero nei trasporti?
«La bozza del governo contiene anche l'obbligo per i lavoratori di comunicare preventivamente l'adesione allo sciopero, che il nostro progetto non contiene». 

Ma il provvedimento potrebbe essere votato anche dal Partito democratico
«Su entrambe le materie - sciopero virtuale e sciopero nei trasporti - si sta aprendo un tavolo di negoziazione tra sindacati e imprenditori; se da quella trattativa verrà fuori un buon accordo, come mi sembra senz'altro possibile, su quella base sarà facile realizzare una convergenza parlamentare anche tra maggioranza e opposizione». 

Ci sono però alcune modifiche che pensa saranno necessarie?
«Tutte quelle che saranno suggerite, appunto, dagli accordi che si troveranno al tavolo tra le parti sociali» 

C’è però chi - esponenti di Rifondazione comunista, dei sindacati di base - ritiene la bozza un puro attacco al diritto di sciopero. Che cosa risponde? 
«Rispondo che in Italia, in quasi tutti i comparti del settore dei trasporti pubblici, la frequenza media degli scioperi da decenni è superiore a uno al mese. Questo non accade in alcun altro Paese europeo. E questa non è lotta sindacale: è diventata una caricatura grottesca del sindacalismo. D'altra parte, in tutti i maggiori Paesi europei, tranne la Francia, sono in vigore da anni regole simili a quelle contenute nel disegno di legge che abbiamo presentato oggi. Forse il Prc sostiene che sono tutti Paesi dove il sindacato e i lavoratori sono conculcati?». 

Pensa che a questo punto i sindacati di base si adegueranno o ci saranno ancora i cosiddetti “scioperi selvaggi”?
«Se il sistema delle sanzioni sarà applicato con il dovuto rigore, dovranno adeguarsi».

La Stampa 27.2.09
BELLOCCHIO: NON CI SONO PIU' GLI SPAZI DI LIBERTA'

Non ci sono piu' gli spazi di liberta' che c'erano negli Anni Sessanta e Settanta. Lo sostiene il regista Marco Bellocchio intervistato sul settimanale Left, in edicola oggi. "Oggi il cinema - dichiara il regista - e' totalmente dipendente dalla tv che ogni tanto 'elargisce' qualcosa ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il proprio linguaggio'. La tv vince sul cinema e tende a essere tutta uguale, sostiene Bellocchio, gli attori vengono dai reality e i registi s'improvvisano. "Poiche' la situazione produttiva e' difficile - continua il regista su Left - chi ha voglia di sperimentare dovrebbe utilizzare anche forme molto popolari per proporre format, anche televisivi, piu' rischiosi.

Ansa 26.2.09
BELLOCCHIO, SITUAZIONE PEGGIORA
Oggi non mi farebbero girare 'ora di religione'
(ANSA) - ROMA, 26 FEB - 'La situazione attuale e' peggiore di qualche anno fa, oggi non mi lascerebbero girare un film come 'L'ora di religione', afferma Bellocchio. 'Oggi il cinema - spiega il regista a 'Left' - e' totalmente dipendente dalla tv che ogni tanto 'elargisce' qualcosa ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il proprio linguaggio'.Il suo prossimo film 'Vincere' racconta la relazione segreta tra Mussolini e Ida Dalser: 'Mi interessava il rapporto violento di Mussolini con una donna'.

Apcom 26.2.09
Cinema/ Bellocchio: Oggi è totalmente dipendente dalla tv
"Gli attori vengono dai reality e i registi si improvvisano"

Roma, 26 feb. (Apcom) - Il regista Marco Bellocchio sostiene che oggi è difficile trovare spazi di libertà che invece c'erano negli anni Sessanta e Settanta. "Oggi il cinema è totalmente dipendente dalla tv che ogni tanto 'elargisce' qualcosa ma pretende, con il suo orrendo conformismo, di imporre il proprio linguaggio. La tv vince sul cinema e tende ad essere tutta uguale, gli attori vengono dai reality e i registi s'improvvisano", ha dichiarato il regista intervistato sul settimanale 'left', in edicola domani. "Poiché la situazione produttiva è difficile - continua - chi ha voglia di sperimentare dovrebbe utilizzare anche forme molto popolari per proporre format, anche televisivi, più rischiosi. Come la fiction, per esempio, cercando tematiche nuove, come quelle sociali. Sul sociale si fanno cose penose e false".
Infine Bellocchio conclude parlando del suo prossimo film sul dittatore Mussolini che sembra una metafora su Silvio Berlusconi ma lui chiarisce: "A me interessava il rapporto violento di Mussolini con una donna. Forse qualcuno ci vedrà delle coincidenze, ma i paralleli sono molto difficili. Quella era una dittatura sanguinaria, quello attuale è un regime molto diverso. Il resto è top secret, tanto lo vedrete presto. Posso solo dire che io sono molto felice di questo film".

The Wall Street Journal online 26.2.09
Usa: promozione scorretta di antidepressivi per uso pediatrico


Secondo il Dipartimento di Giustizia americano, Forest Laboratoires avrebbe commercializzato in modo improprio gli antidepressivi Celexa (citalopram) e Lexapro (escitalopram) per uso pediatrico. Nonostante studi scientifici dimostrino l'inefficacia dei due prodotti nei bambini e che la loro assunzione possa causare pensieri suicidi, l'azienda avrebbe promosso questi medicinali, non approvati da Fda per uso pediatrico, presso i medici anche tramite tangenti.
Francesco Troccoli