sabato 20 giugno 2015

Repubblica 20.6.15
Dalla madre Terra all’ecologia integrale i tributi di Francesco alla teologia della liberazione
L’ex frate francescano Leonardo Boff commenta l’enciclica del Santo padre Alla base del documento la cultura ambientalista che il Pontefice ha maturato nel corso della sua vita sacerdotale in America Latina
di Leonardo Boff


IL PERSONAGGIO Leonardo Boff, al secolo Genésio Darci Boff (Concórdia, 1938), ex frate francescano ed ex presbitero, teologo e scrittore brasiliano. È uno dei più importanti esponenti della Teologia della Liberazione. La sua attività è sempre stata caratterizzata dalla difesa dei diritti dei più poveri: ha denunciato con fermezza le grandi lobby industriali brasiliane

PRIMA di qualsiasi altro commento è il caso di sottolineare alcune singolarità dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco.
È la prima volta che un papa affronta il tema dell’ecologia nel senso di un’ecologia integrale (quindi al di là del tema ambientale) in una forma così completa. Grande sorpresa: egli elabora il tema alla luce del nuovo paradigma ecologico, cosa che nessun documento ufficiale delle Nazioni Unite ha mai fatto. È fondamentale che il suo discorso si appoggi sui dati più certi delle scienze della vita e della Terra. Legge i dati affettivamente (con intelligenza sensibile o cordiale), poiché discerne che dietro di essi si celano drammi umani e grande sofferenza, anche da parte di madre Terra. La situazione attuale è grave, ma papa Francesco trova sempre ragioni per la speranza e per la fiducia che l’essere umano trovi soluzioni viabili. Papa Francesco non scrive in qualità di Maestro e Dottore della fede, ma come Pastore zelante che si prende cura della casa comune e di tutti gli esseri, non solo umani, che in essa abitano.
Merita evidenziare un elemento che rivela la forma mentis di papa Francesco: il suo essere tributario dell’esperienza pastorale e teologica delle Chiese latinoamericane, che, alla luce dei documenti dell’episcopato latinoamericano (Celam) di Medellín (1968), di Puebla (1979) e di Aparecida (2007), fecero un’opzione per i poveri, contro la povertà e a favore della liberazione.
Il testo e il tono dell’enciclica sono tipici di papa Francesco e della cultura ecologica che egli ha maturato. Mi accorgo anche, però, di come tante espressioni e modi di dire rimandino a quanto si pensa e si scrive da tempo in America Latina. Quelli della «casa comune», della «madre Terra», del «grido della Terra e grido dei poveri», della «cura», dell’interdipendenza fra tutti gli esseri, dell’«essere umano come Terra» che sente, pensa, ama e venera, dell’«ecologia integrale», e altri, sono tutti temi ricorrenti tra noi. La struttura dell’enciclica ubbidisce al rituale metodologico in uso nelle nostre Chiese e nella riflessione teologica legata alla pratica della liberazione, ora adottata e consacrata dal papa: vedere, giudicare, agire e celebrare.
Fin dalle prime righe si rivela la sua fonte d’ispirazione: san Francesco d’Assisi, che l’enciclica definisce «esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale » e che «manifestò un’attenzione particolare verso i più poveri e abbandonati».
Quindi si incomincia con il vedere «quello che sta accadendo alla nostra casa».
Il papa afferma: «Basta però guardare la realtà con sincerità per vedere che c’è un grande deterioramento della nostra casa comune ». In questa sezione egli incorpora i dati più consistenti sul cambiamento climatico, la questione dell’acqua, l’erosione della biodiversità, il deterioramento della qualità della vita umana e il degrado della vita sociale, e denuncia l’alto tasso di «inequità» planetaria, che colpisce tutti gli ambiti della vita e che vede come vittime principali i poveri.
In questa stessa parte inserisce una frase che rinvia alla riflessione fatta in America Latina: «Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri». Più avanti, aggiunge: «I gemiti di sorella terra si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo». È assolutamente coerente con quanto viene detto subito all’inizio, che «noi stessi siamo terra», nella linea del grande cantore e poeta indigeno argentino Atahualpa Yupanqui: «L’essere umano è la Terra che cammina, che sente, che pensa e che ama». Condanna poi le proposte di internazionalizzazione dell’Amazzonia, «che servono solo agli interessi economici delle multinazionali ». E troviamo un’affermazione di grande vigore etico: è «gravissima inequità quando si pretende di ottenere importanti benefici facendo pagare al resto dell’umanità, presente e futura, gli altissimi costi del degrado ambientale».
Riconosce con tristezza: «Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli». Di fronte all’offensiva umana in atto contro madre Terra, che molti scienziati hanno denunciato come l’inaugurazione di una nuova era geologica — l’Antropocene - , lamenta l’inadeguatezza dei poteri di questo mondo che, illusi, pensano che «il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle condizioni attuali », ma è un alibi che ci serve «per alimentare tutti i vizi autodistruttivi» con un «comportamento che a volte sembra suicida».
Prudente, il Papa riconosce la diversità di opinioni e che «non c’è un’unica via di soluzione ». È comunque «certo che l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista, perché abbiamo smesso di pensare ai fini dell’agire umano» e ci perdiamo dietro la realizzazione di mezzi destinati a un accumulo illimitato a spese della giustizia ecologica (degrado degli ecosistemi) e della giustizia sociale (impoverimento delle popolazioni). L’umanità semplicemente «ha deluso l’attesa divina».
La sfida urgente consiste allora nel «proteggere la nostra casa comune»; per farlo necessitiamo, citando Giovanni Paolo II, di una «conversione ecologica globale» e di una «cultura della cura che impregni tutta la società».
Esaurita la dimensione del vedere, s’impone adesso la dimensione del giudicare. Il giudicare è realizzato su due fronti, uno scientifico e l’altro teologico.
Partiamo dalla dimensione scientifica. L’enciclica dedica tutto il terzo capitolo all’analisi della «radice umana della crisi ecologica». Il Papa si propone qui di analizzare la tecnoscienza, senza preconcetti, accogliendo quanto essa apporta, «cose realmente preziose per migliorare la qualità della vita dell’essere umano». Non sta qui il problema. È che essa si è resa indipendente, ha sottomesso l’economia, la politica e la natura in vista dell’accumulo di beni materiali. Essa parte dal presupposto errato della «disponibilità infinita dei beni del pianeta », quando sappiamo di avere già intaccato i limiti fisici della Terra e che gran parte dei beni e servizi non sono rinnovabili. La tecnoscienza è divenuta tecnocrazia, una vera dittatura con la sua ferrea logica di dominio su tutto e tutti.
La grande illusione oggi imperante è la credenza che con la tecnoscienza si possano risolvere tutti i problemi ecologici. È una via ingannevole, poiché «significa isolare cose che nella realtà sono connesse». Davvero «tutto è connesso», «tutto è in relazione»: affermazione, questa, che attraversa tutto il testo dell’enciclica come un leitmotiv: è infatti un concetto chiave del nuovo paradigma contemporaneo. Il grande limite della tecnocrazia sta nella «frammentazione del sapere» fino a «perdere il senso della totalità ». Il peggio è che in questo modo essa «non riconosce agli altri esseri un valore proprio, fino alla reazione di negare ogni peculiare valore all’essere umano».
Il valore intrinseco di ogni essere, per minuscolo che sia, è costantemente esaltato dall’enciclica, così come fa la Carta della Terra.
© Editrice Missionaria Italiana — traduzione dal portoghese di Pier Maria Mazzola. ll testo di Leonardo Boff qui pubblicato riprende stralci del suo intervento in Curare madre terra. Commento all’enciclica Laudato si’ di papa Francesco(Editrice Missionaria Italiana, pp. 64 euro 3,90), in libreria dal 2 6 giugno.
Repubblica 20.6.15
L’Italia, la ricerca pubblica e il paradosso degli Ogm
di Elena Cattaneo


Nel nostro Paese, quasi unico in Europa, non si può studiare come migliorare geneticamente le nostre piante tipiche per proteggerle nelle condizioni di campo che ne compromettono resa e qualità. Da tredici anni l’irrazionalità politica causa la perdita della nostra biodiversità agricola, si tratti dell’ormai estinto pomodoro San Marzano o del prossimo estinto, il riso Carnaroli. I parassiti evolvono e anche le coltivazioni tipiche necessitano di essere rinvigorite. Se non lo facciamo, le perdiamo o le riempiamo con insostenibili cicli di pesticidi. Ma tre eventi recenti suggeriscono che forse qualcosa può cambiare.
Il primo si è verificato il 13 maggio, in Senato, quando il governo, rappresentato dal sottosegretario Sandro Gozi, si è detto «perfettamente conscio dell’urgenza e della necessità di trattare e risolvere il tema della ricerca pubblica in campo aperto, garantendo la massima sicurezza delle nostre coltivazioni tipiche», impegnandosi a farlo «prima della pausa estiva».
Il secondo riguarda l’aggiunta di un’autorevole voce, quella di Papa Francesco che, nella sua enciclica Laudato si’ , ha ritenuto necessario affrontare il tema degli organismi geneticamente modificati con queste parole: «Occorre assicurare un dibattito scientifico e sociale che sia responsabile e ampio, in grado di considerare tutta l’informazione disponibile e di chiamare le cose con il loro nome. (...) Quella degli Ogm è una questione (…) che esige di essere affrontata con uno sguardo comprensivo di tutti i suoi aspetti, e questo richiederebbe almeno un maggiore sforzo per finanziare diverse linee di ricerca autonoma e interdisciplinare che possano apportare nuova luce ». Le informazioni scientifiche disponibili - dopo venti anni di prove sulla sicurezza di specifiche piante Ogm (varietà di mais, soia e cotone)- dicono che gli Ogm studiati “fanno bene” alla salute umana perché, rispetto alle coltivazioni tradizionali e biologiche, riducono l’impiego di insetticidi e fungicidi, di metalli pesanti o i livelli di pericolose tossine “naturali”, allo stesso tempo senza che sia emersa alcuna prova di danni. E chi ha cercato di costruire false prove è stato smascherato. Anche più interessante è il richiamo del Santo Padre alla ricerca, necessaria a portare “nuova luce”. Nell’Enciclica si cita addirittura ciò che gli scienziati in buona fede sanno, cioè che le piante “naturali” sono geneticamente modificate dai batteri che “naturalmente si divertono” a inserire nel Dna della pianta un po’ del proprio. Esattamente come fa il ricercatore di oggi, che “copia la natura” ma con la precisione chirurgica che l’innovazione permette. Perché noi mangiamo da secoli queste piante “naturalmente e casualmente Ogm”.
Quel 13 maggio, nel presentare un ordine del giorno sulla legge che delegava il governo al recepimento di una direttiva che consente di vietare o meno le coltivazioni commerciali di Ogm, avevo evidenziato come quella direttiva incoraggiasse anche la ricerca scientifica pubblica sugli Ogm. Quell’ordine del giorno è stato condiviso e firmato da più capigruppo (Pd, Fi, Ncd) e senatori. Ho raccontato in Aula che da anni la politica italiana ha confinato nei cassetti dei laboratori pubblici e delle università un patrimonio di conoscenza rimasta inespressa. Progetti che, se disseppelliti, potrebbero far “rinascere” piante, prodotti e biodiversità, salvaguardare le tipicità che stiamo perdendo, far guadagnare competitività al Paese, creare nuova occupazione ed essere premessa tecnologica per una spinta alla ripresa di un settore fermo su gravi condizioni di arretratezza. I nostri imprenditori agricoli potrebbero avere rese di prodotto migliori ed eviteremmo che altri validi cervelli vadano all’estero per realizzare il loro futuro aiutando altri Paesi a rendere più efficiente la loro agricoltura. Ecco alcune risposte al quesito “cosa può fare la scienza per il Paese” promosso dal ministero dell’Agricoltura, dove evidentemente non sanno nemmeno più cosa fa la ricerca scientifica pubblica italiana. In Senato ho anche ricordato che impedire le sperimentazioni in pieno campo sulle migliorie genetiche delle piante significa impedire la ricerca pubblica, la stessa che con regole e scientificità si effettua serenamente in tanti altri Paesi europei. A chi obietta che essa può essere condotta in serra, senza prove in campo, vorrei spiegare nuovamente che è come allestire in officina un nuovo modello di Ferrari senza mai provarlo in pista.
Il terzo evento riguarda il parere che il Parlamento è prossimo a esprimere sulla proposta di regolamento europeo che lascia liberi gli Stati di vietare anche l’importazione di mangimi Ogm. Pare che, in sede europea, i rappresentanti dei Paesi che da sempre demonizzano gli Ogm, come l’Italia, si esprimeranno contro questa libertà. Per anni, politici e abili affabulatori hanno “narrato il mito della pericolosità degli Ogm per la salute dell’uomo”.
Coerenza vorrebbe che ora facessero salti di gioia di fronte alla possibilità di vietare anche l’importazione (oltre alla coltivazione e alla ricerca pubblica) di un materiale “per loro tanto pericoloso”. E, invece, a oggi non ho notizia di nessuno in trincea a sostenere la “chiusura alle importazioni Ogm” offerta dalla Commissione Europea, paradossalmente trasformandosi da anti- Ogm a “complici di crimini ai danni della salute”. Oppure, hanno sempre mentito al Paese.
Faccio allora io una proposta. Se non sarà vietata l’importazione di mangimi Ogm, si segnali al consumatore tutto quanto deriva da Ogm. Si etichettino come “Derivato da Ogm” latte e formaggi, salumi e carni ottenuti da animali nutriti con Ogm. I grandi Consorzi di tutela del Made in Italy, che esportiamo nel mondo, usano mangimi Ogm: etichettiamo anche quei prodotti. Così come il cotone (per il 70% Ogm) che usiamo per vestirci, per le banconote o in sala operatoria. Se si ritengono le migliorie genetiche pericolose, perché non avvisare i cittadini? Magari si scoprirebbe che ne sono indifferenti, se ben informati. Oppure si smetta di ingannare il pubblico con false paure e si ricominci a fare sperimentazione libera, in sicurezza e in campo aperto.
Nell’attesa che il governo mantenga la parola data, innescando una rivoluzione copernicana nella foresta pietrificata del Paese, l’Italia si conferma “regno di paradossi”. Vietiamo gli Ogm, ma ne importiamo diecimila tonnellate al giorno. Li mangiamo da venti anni ma non li studiamo. Paghiamo scienziati per scoprire, inventare, insegnare e applicare cose che allo stesso tempo impediamo loro di realizzare. Siamo contro le multinazionali ma ne dipendiamo per ogni seme non Ogm.
Perdiamo biodiversità e non facciamo nulla per preservare le nostre tipicità. Inondiamo coltivazioni e ambiente di insetticidi e metalli pesanti senza alcun “principio di precauzione”. Temiamo di “contaminare con Ogm” le nostre terre e “lasciamo che si contaminino” quelle dei Paesi da cui li acquistiamo. Paghiamo cervelli e invenzioni italiane in campo agrario lasciando che altri Paesi se ne approprino per migliorare le loro economie. Chissà che nel fare così tanto, non si riesca, prima o poi, anche a rottamare un po’ di questa miope e decadente irragionevolezza.
Università degli Studi di Milano senatore a vita
Repubblica 20.6.15
Se a governare il mondo è l’emisfero sinistro
L’influenza del cervello nella politica e nella cultura secondo lo psicologo e filosofo britannico Iain McGilchrist
di Massimo Ammaniti


Probabilmente nessun editore italiano si lancerà nell’impresa di tradurre il libro di IainMcGilchrist
The Master and His Emissary: The divided brain and the making of the Western World ( Il Signore e il suo Emissario: il cervello diviso e la costruzione del mondo occidentale ; Yale University Press) perché si tratta di un testo molto denso e corposo, più di 800 pagine nell’edizione americana. È sicuramente una perdita per gli studiosi e i lettori italiani perché il libro solleva interrogativi di grande originalità, rileggendo in una prospettiva diversa l’influenza esercitata dall’asimmetria dei due emisferi cerebrali, studiata in passato da Roger Sperry a cui fu assegnato il Premio Nobel.
La domanda che si pone McGilchrist, psichiatra e filosofo britannico, può sembrare inizialmente troppo riduttiva e semplificatrice: come può la specifica asimmetria cerebrale aver influito così tanto sulle caratteristiche delle varie società che si sono susseguite nell’Occidente?
Nella prima parte del libro vengono discusse le ricerche neurobiologiche degli ultimi decenni sulle modalità di esperienza dei due emisferi, quello sinistro considerato dominante perché legato al linguaggio, alla pianificazione e alla realizzazione, il polo razionale, mentre quello destro più legato alle emozioni, ossia il polo artistico. Questa concezione è ormai troppo scontata, secondo McGilchrist, sarebbe meglio parlare della diversa attenzione verso il mondo sancita dall’incapacità dell’emisfero sinistro di comprendere le metafore, legate alla figurazione di un significato originario, capacità questa più consona all’emisfero destro. E questa diversa attenzione interverrebbe nel cambiare e modificare il mondo che viene plasmato a seconda della supremazia di uno dei due emisferi.
Proprio come la storia raccontata da Nietzsche e che dà il titolo al libro, l’emisfero destro si comporta come il saggio e generoso signore di un paese con grandi risorse che non può governare da solo e pertanto è costretto a delegare i suoi emissari fra cui un visir, che ben presto si contrappone al suo signore pretendendo lui di governare.
È una storia antica come il mondo ma che si attaglia soprattutto a quello che sta succedendo nel mondo occidentale, che viene troppo condizionato dai dettami dell’emisfero sinistro. Le motivazioni esplicite di questo emisfero sono la competizione e la ricerca del potere che portano ad un mondo meccanico e privo di vita in cui c’è sempre meno spazio per il mondo implicito dell’affettività, dell’empatia e delle metafore.
Naturalmente McGilchrist non ritiene che sia il cervello a guidare la cultura, come anche il contrario, entrambi interagiscono e si plasmano vicendevolmente. Ripercorrendo i periodi storici dell’Occidente nell’antica Grecia viene ampiamente documentata la progressiva affermazione dell’emisfero sinistro con gli inizi della filosofia analitica, la codifica delle leggi e la formalizzazione della conoscenza. Ma è con la rivoluzione industriale del Diciannovesimo secolo che l’emisfero sinistro diviene egemone, giungendo sempre più a dominare lo scenario del mondo della natura, a cui vengono contrapposte forme regolari, il quadrato, il rettangolo o il cerchio create dall’uomo, che possono essere riprodotte all’infinito anche in modo meccanico. E ancora di più oggi nel periodo del post-modernismo con l’urbanizzazione crescente, l’espansione industriale a livello globale, la cultura tecnologica di massa si affermano desideri di possesso, competizione e rapporti d’uso che stanno soppiantando i legami e la continuità culturale. E’ la rivincita dell’emisfero sinistro, ma il prezzo che si paga è eccessivo, il senso di appartenenza ne viene indebolito e diventa difficile capire il contesto in cui si vive e i rapporti cogli altri con un distacco crescente.
Per ritornare al racconto di Nietzsche, la verità non è così unilaterale, non è solo colpa del Visir se si va incontro ad un conflitto disastroso forse anche il Signore illuminato non ha prestato abbastanza attenzione a quello che stava succedendo.
Repubblica 20.6.15
Ragazzi,lottate per la libertà di parola
L’appello di Ian McEwan ai giovani americani “Solo il sapere umanistico ci rende sensibili ai diritti”
di Ian McEwan


VORREI condividere con voi qualche riflessione sulla libertà di parola (e libertà di parola qui include la scrittura e la lettura, l’ascolto e il pensiero): la libertà di parola, la linfa vitale dell’esistenza, la condizione essenziale dell’educazione umanistica che avete appena ricevuto. Partiamo da una nota positiva: con ogni probabilità oggi sulla terra esiste più libertà di parola, più libertà di pensiero, più libertà di ricerca che in qualsiasi altro momento della storia conosciuta ( anche prendendo in considerazione l’età dell’oro dei cosiddetti filosofi “pagani”). Ma la libertà di parola è stata, è e sarà sempre sotto attacco: da destra, da sinistra, dal centro. L’attacco verrà da sotto i vostri piedi, dagli estremisti religiosi come da ideologie
non religiose. Non è mai comodo, specialmente per i poteri più consolidati, avere tanta libertà di parola intorno. Come diceva sempre il mio defunto amico Christopher Hitchens, incontrare uno che pensa che la Terra sia piatta o che crede nella creazione può essere utile, perché ti obbliga a ricordare l’esatta ragione per cui sei convinto che la Terra sia rotonda, o ti fa scoprire se sei in grado di sostenere efficacemente la validità della teoria della selezione naturale. Per questo motivo non è un granché, come principio, mettere in prigione coloro che negano l’Olocausto o i massacri degli armeni, come fanno alcuni paesi civili, anche se si tratta di individui spregevoli. C’è una cosa che bisogna tenere a mente: la libertà di espressione è alla base di tutte le altre libertà di cui godiamo. Senza libertà di parola, la democrazia è un’impostura. Ogni libertà che possediamo o aspiriamo a possedere (l’habeas corpus, il diritto di voto, la libertà di riunione, la parità fra i sessi, la libertà di preferenza sessuale, i diritti dei bambini, i diritti degli animali… la lista potrebbe proseguire) è nata perché è stato possibile pensarla liberamente, discuterne liberamente, scriverne liberamente.
Se vi allontanerete un bel po’ da queste rive, e sono sicuro che molti di voi lo faranno, scoprirete che la situazione della libertà di espressione è drammatica. In quasi tutto il Medio Oriente chi pensa liberamente rischia di subire conseguenze o di essere ucciso, per mano di governi, folle inferocite o individui motivati. Lo stesso succede in Bangladesh, in Pakistan, in ampie parti dell’Africa. Negli ultimi anni lo spazio pubblico per il libero pensiero in Russia si è ristretto. In Cina la libertà di espressione viene monitorata dallo Stato su scala industriale: solo per censurare quotidianamente la Rete, il governo di Pechino impiega qualcosa come cinquantamila burocrati, un livello di repressione del pensiero senza precedenti nella storia umana.
Paradossalmente, è tanto più importante vigilare sulla libertà di espressione proprio là dov’è più florida. Ecco perché è stato così sconcertante, ultimamente, vedere decine di scrittori americani dissociarsi pubblicamente da un ricevimento del Pen in onore dei giornalisti della rivista satirica francese Charlie Hebdo assassinati a gennaio.
Il Pen americano esiste per difendere e promuovere la libertà di parola. È molto deludente che un numero tanto alto di scrittori americani non abbia saputo schierarsi al fianco di altri scrittori e artisti coraggiosi in un momento tragico. C’è un fenomeno, nella vita intellettuale, che io chiamo pensiero bipolare. Non ci schieriamo con
Charlie Hebdo perché potrebbe sembrare che approviamo la “guerra al terrore” di George Bush. È una forma di tribalismo intellettuale soffocante, e un modo di pensare insulso di per sé.
E allora è inquietante anche il caso di Ayaan Hirsi Ali, un’ex musulmana fortemente critica nei confronti dell’islam, troppo critica per alcuni. Si è battuta contro la mutilazione genitale femminile, lei che ne è stata personalmente vittima. Si è battuta per i diritti delle donne musulmane. In un libro di recente pubblicazione ha sostenuto che l’islam, se vuole convivere più agevolmente con la modernità, deve rivedere le sue posizioni verso l’omosessualità, l’interpretazione del Corano come parola letterale di Dio, la blasfemia, le severe punizioni agli apostati. Ma Ayaan Hirsi Ali ha ricevuto minacce di morte. E soprattutto in molte università americane non è la benvenuta, e la Brandeis University ha ritirato l’offerta di una laurea honoris causa. L’islam merita rispetto, come lo merita l’ateismo. Noi vogliamo che il rispetto scorra in tutte le direzioni.
L’intolleranza nei campus universitari verso oratori scomodi non è una novità. Nei lontani anni Sessanta la mia università impedì a uno psicologo di promuovere la teoria che ci fosse una componente ereditaria nell’intelligenza. Negli anni Settanta il grande biologo americano Edward Wilson fu sommerso da contestazioni che gli impedirono di parlare per aver ipotizzato che esistesse un elemento genetico nel comportamento sociale degli esseri umani. Ricordo che tutti e due venivano definiti fascisti: le loro teorie adesso sono la norma. Allargando il discorso, la Rete oggi ovviamente offre possibilità straordinarie per la libertà di parola. Ma allo stesso tempo ci ha condotti, in parte, su un terreno accidentato e inaspettato. Ha portato al lento declino dei quotidiani locali, eliminando una voce scettica e bene informata dalla scena della politica locale. La privacy è un elemento essenziale della libertà di espressione: i documenti di Snowden hanno portato alla luce un livello di sorveglianza della posta elettronica da parte delle agenzie governative smisurato quanto inutile. Un altro elemento essenziale della libertà di espressione è l’accesso all’informazione: internet ha concentrato un potere enorme nelle mani di aziende come Google, Facebook e Twitter. Dobbiamo vigilare perché non si abusi di questo potere.
Quando deciderete che posizione prendere su questi problemi, spero che vi ricorderete degli anni al Dickinson College e dei romanzi che avete letto qui. La mia speranza è che vi abbiano stimolato nella direzione della libertà mentale. Il romanzo, come forma letteraria, è nato dall’Illuminismo, dalla curiosità e dal rispetto per l’individuo. Le sue tradizioni lo spingono verso il pluralismo, l’apertura, un desiderio empatico di vivere nelle menti degli altri. I sistemi totalitari hanno ragione a mettere sotto chiave i romanzieri, perché il romanzo è, o può essere, l’espressione più profonda della libertà di parola. Io spero che userete la vostra educazione umanistica per preservare a beneficio delle generazioni future questa cultura della libertà di espressione. Portate con voi queste rinomate parole di George Washington: «Se verremo privati della libertà di parola, allora, muti e silenziosi, potremo essere condotti come pecore al macello».
Estratto del discorso tenuto alla cerimonia delle lauree al Dickinson College © 2015 Ian McEwan/ Agenzia Santachiara (Traduzione di Fabio Galimberti)
Corriere 20.6.15
La storia raccontata con un sorriso negli studi economici di Carlo Cipolla
risponde Sergio Romano


La minoranza Pd, forse senza rendersene conto, sta rappresentando nella pratica la quarta categoria dei gruppi umani così simpaticamente schematizzati dal grande studioso di storia economica C. M. Cipolla nel suo divertissement «Allegro ma non troppo». Le sarei grato se ci ricordasse il grande studioso e il suo piccolo capolavoro «Le leggi fondamentali della stupidità umana».
Piercarlo Signorelli

Caro Signorelli ,
Carlo Cipolla (la M. fu un vezzo anglosassone a cui ricorse per evitare di essere confuso con un omonimo) fu uno dei più brillanti storici economici del secolo scorso. Quando lo conobbi al Seminario di studi americani di Salisburgo nel 1952, era appena trentenne ed era già «in cattedra» da tre anni. Quando parlava della sua formazione all’Università di Pavia diceva di avere un debito di riconoscenza con Franco Borlandi, futuro rettore dell’Università di Genova; ma era grato anche a Fernand Braudel di cui aveva seguito i seminari a Parigi, nella Scuola pratica di alti studi in scienze sociali.
Da Borlandi e Braudel, Cipolla aveva appreso che la storia economica è tanto più utile e importante quanto più allarga lo sguardo a campi che sembrano appartenere ad altre discipline: le nuove tecnologie e il loro impatto sulle trasformazioni sociali, l’evoluzione delle mentalità, le grandi epidemie, le politiche sanitarie. Lo spiegò sulle Annales (la rivista di Braudel e Lucien Febvre) con un articolo intitolato L’économie politique en secours de l’histoire (l’economia politica dà una mano alla storia). Mantenne la promessa con libri in cui le tecniche della navigazione a vela, l’evoluzione dei cannoni nelle guerre rinascimentali, la diffusione degli orologi sui campanili delle chiese e nelle piazze europee, il ricorso a nuove fonti di energia diventavano la pista da percorrere per fare ulteriori osservazioni e scoperte. Le università inglesi e americane non tardarono ad accorgersi della sua esistenza. Quando rinnovammo la nostra amicizia a Chicago qualche mese dopo, Cipolla insegnava nell’Università del Wisconsin. Più tardi, nel 1959 fu chiamato a Berkeley dove l’Università della California lo volle titolare della cattedra di storia economica e sociale, ma non perdette mai i contatti con l’Italia. Lo richiamavano in patria l’amore per Pavia, la straordinaria ricchezza degli archivi italiani, l’atmosfera accogliente dell’Istituto europeo di studi universitari a San Domenico di Fiesole e della Scuola normale superiore a Pisa. Qui studiò i tassi di cambio fra le maggiori monete italiane, le «avventure della lira», la politica sanitaria del Granducato di Toscana, il declino dell’Italia nel Seicento. Pochi, prima di leggere I pidocchi e il Granduca , sapevano quante notizie sulla società del Seicento potessero ricavarsi da uno studio sul modo in cui il governo di Firenze affrontava le epidemie.
Quando fu colpito dal morbo di Parkinson negli anni Novanta, Cipolla non smise di scavare gli archivi e di scrivere. Uno degli ultimi temi a cui dedicò i suoi studi fu quello delle grandi esposizioni universali, con una particolare attenzione a quella di Chicago del 1893. L’Expo gli sembrava essere un grande contenitore in cui era possibile osservare contemporaneamente i numerosi ingredienti di una economia che si stava progressivamente globalizzando.
Tutti possono consultare la ricca bibliografia di Carlo Cipolla, instancabile autore di libri, saggi e articoli. È meno facile descrivere la sua ironia, il suo senso dell’umorismo, il fascino di una conversazione che passava continuamente con acume e levità dal passato al presente. Per fortuna ci ha lasciato il delizioso piccolo libro citato nella sua lettera. Ricorderò soltanto che in questo semiserio studio sulla stupidità umana, Cipolla individuò quattro categorie di persone: gli intelligenti, gli sprovveduti, gli stupidi e i banditi. Gli intelligenti fanno il proprio vantaggio e quello degli altri; gli sprovveduti danneggiano se stessi e avvantaggiano gli altri, gli stupidi danneggiano gli altri e se stessi, i banditi danneggiano gli altri per trarne vantaggio. Secondo Cipolla, lo stupido è persino più pericoloso, socialmente, del bandito.
Corriere 20.6.15
Chi ha paura della distruzione creativa?
Distruzione creativa
Uscire dagli schemi e innovare spiazzando gli altri
Dalla tecnologia alla politica, chi la esalta e chi la teme
Il segreto della «disruption» che muove la Silicon Valley. E spaventa noi europei
di Matteo Persivale


Gli americani chiamano disruption la capacità di innovare attraverso la distruzione creativa dell’esistente per creare nuovo valore. Jobs e la Apple sono l’esempio più classico di disruptive . «Rottamare», diremmo in Italia, e nella nostra lingua c’è a partire dal vocabolo un’accezione spiacevole che in inglese manca. La disruption è il motore che muove la Silicon Valley e l’intero settore della tecnologia.
Una delle battute più divertenti contenute nella sceneggiatura del film-biografia Steve Jobs (uscirà dopo l’estate, protagonista Michael Fassbender) è una profezia: nel 1998 il fondatore della Apple vede la figlia incollata a un Walkman e le consiglia di godersi il mangianastri portatile perché sta per essere spazzato via. Lisa Jobs non sa — noi spettatori sì — che papà Steve ha già in mente l’iPod, che uscirà tre anni dopo con dentro duemila canzoni in formato digitale contro le dieci o dodici del Walkman.
Jobs e la sua azienda sono l’esempio di quello che gli americani chiamano l’essere «disruptive», la capacità di innovare attraverso la distruzione creativa dell’esistente per creare nuovo valore. «Rottamare», diremmo in Italia (vedi la forza innovativa del primo Renzi e il disagio che creò al sistema politico). E nella nostra lingua c’è a partire dal vocabolo un’accezione spiacevole che nella versione inglese manca.
La tecnologia continua a essere profondamente «disruptive»: suscitando grande orgoglio nazionale per gli americani (non è questione di soft power ma di fatturato: nella top ten delle aziende più capitalizzate ci sono Apple, fondata nel 1976, Microsoft, nata nel 1975, e Google, 1998). Quando internet era ancora acerbo e i cellulari telefonavano e basta, nel 1997, un economista americano somigliantissimo a Clark Kent prima di trasformarsi in Superman nella cabina telefonica (classico esempio di tecnologia rottamata da una novità «disruptive»), il professor Clayton M. Christensen della Harvard Business School, ha cominciato a analizzare il fenomeno dell’innovazione tecnologica. Con una serie di libri diventati subito di riferimento ha formulato una teoria generale di quella che ha battezzato «disruptive innovation»: un prodotto o un servizio che inizialmente parte dal basso per crescere velocemente spiazzando la concorrenza che fino a poco prima aveva dominato (vedi box).
L’esempio più banale è quello del personal computer: le potentissime aziende tecnologiche del primo dopoguerra avevano computer enormi, costosissimi, per pochissimi utenti istituzionali che garantivano margini molto alti e mercato chiuso. Si resero così vulnerabili all’innovazione di computer pensati per un pubblico più vasto e più «basso», personali, non più aziendali. Inventati in garage e prodotti da aziende più agili. Altro ovvio esempio: i piccoli cellulari che sconfiggono la telefonia fissa dei monopoli.
E allora diventa un po’ sterile chiedersi, come faceva ieri sul sito del New York Times il giornalista finanziario James B. Stewart nel suo blog, come mai l’innovazione dirompente che rottama lo status quo entusiasma gli americani e spaventa noi europei.
Perché Stewart ha chiesto lumi a Petra Moser, economista tedesca di Stanford, che ha parlato dei timori europei (fondati) d’essere rimasti indietro. «Stanno cercando di ricreare la Silicon Valley in posti come Monaco, finora con poco successo», per motivi culturali e istituzionali. Eppure, seguendo la «curva» di Christensen — la rottamazione che parte dal basso e allarga la base di utenti di un prodotto esclusivo — non si può non pensare ai punti deboli dei giganti che dominano in un dato momento storico.
Non si può non pensare ai ragazzi «disruptive» di Wikileaks: hanno preso un «prodotto» esclusivo e con margini altissimi — le informazioni riservate del Pentagono e della Cia — e le hanno fornite con rapidità e convenienza a una base vastissima di utenti. Loro stanno a Berlino, Julian Assange in territorio ecuadoregno a Londra, Edward Snowden in Russia: dall’altra parte del mondo rispetto alla Silicon Valley e al suo business dominante (fino a quando?) della rottamazione.
Corriere 20.6.15
La compagna che amava i fascisti
Storia autobiografica di una donna dall’animo ribelle. Al partito e alla famiglia


La politica c’entra, ma fino a un certo punto. Come la militanza degli anni Settanta, che facilmente diventava estrema, consumando menti e corpi. Il resto — la perdita dell’innocenza e la discesa verso inferi mai immaginati prima — l’hanno determinato uno spirito ribelle, la voglia di autoaffermazione contro le decisioni altrui e il conflitto con un padre che si rifiutava di capire (anche perché capire non era semplice).
Però sullo sfondo è sempre l’ideologia ad ammantare di presunta nobiltà meccanismi molto più banali. Come quello di un ragazzo pieno di sé e di fascino che strappa il primo appuntamento a una ragazza senza troppa autostima, le dice semplicemente «mi piaci», e all’improvviso tutto si scioglie. Nonostante lui sia fascista e lei comunista. Il nero ammalia la rossa, e lei si sente finalmente apprezzata, non solo come angelo del ciclostile o per la solerzia nel diffondere il giornale di partito.
È una storia d’amore e di odi, prima ancora che di schieramenti contrapposti, quella raccontata in Non mi abbracciare (Aliberti Wingsbert House) da Elena Venditti, ragazza degli anni Settanta, padre, madre, sorella e zie con solide radici a sinistra, e lei stessa militante del Pci, fino alla telefonata galeotta di un capopopolo dell’estrema destra, e al fatidico appuntamento. Dal quale nasce un rapporto sentimentale che porta con sé il cambio di campo e lo stravolgimento di frequentazioni, amicizie e abitudini. Provocando nuovi conflitti, in casa e fuori.
Perché nel partito non possono sopportare che una «compagna» frequenti un fascista, e tantomeno il papà di Elena; il quale, a differenza di madre e sorella, non lascia spazio a mediazioni e riversa sulla figlia degenere tutto il livore e un po’ della frustrazione del padre-padrone che caccia di casa la «traditrice» (lui che tradisce la moglie con una ragazza quasi coetanea delle figlie, e quando lo scoprono si limita a dire «devo decidere», facendo esplodere tutto il risentimento di Elena). Dopo il primo fascista arriva il secondo, più giovane e più romantico, almeno ai suoi occhi. Livio è il nome letterario, l’identità reale è quella di un neofascista appena diciassettenne nel 1980, coinvolto nelle gesta dei Nuclei armati rivoluzionari e in un paio di omicidi, e poi nella strage alla stazione di Bologna (che lui non ammette, come i suoi complici di allora); uno che si vantava di essere parte di una banda di «magnifici sette» disposti a tutto, «pazzi meravigliosi che sono contro tutto e tutti, in grado di ammazzare chiunque vogliono».
Al fianco di Livio, anche durante la latitanza di lui, Elena entra nell’abisso: lo aiuta in una rapina per dimostrargli di essere all’altezza del suo ideale di donna combattente, viene arrestata (provocando nuovi drammi in famiglia) e diventa una detenuta politica, sottoposta a tensioni e regole (soprattutto non scritte) che in quasi cinque anni di reclusione le fanno scoprire un’altra umanità. Che le trasmetterà dolore, ma pure legami sinceri e profondi, forse più di quelli intrecciati quando era fuori.
Le pagine sul periodo della prigionia sono le più belle e toccanti del libro, perché raccontano di come Elena si sia spogliata dell’abito che s’era autoimposta per sfuggire alle imposizioni altrui, e a scoprirsi finalmente libera.
Finché la libertà arriva davvero: dal carcere e dalla militanza con i «camerati» che non ha voluto tradire, ma con i quali non ha quasi più nulla da condividere; da quell’amore sbagliato che le ha deviato la vita e da una famiglia complicata che non le ha mai fatto mancare affetto e vicinanza. Offrendole un braccio al quale aggrapparsi per risalire dal buio e tornare a vivere. In un mondo completamente diverso da quello dei suoi vent’anni. Nel quale, trascorsi altri lustri e la giusta distanza dai fatti e dai traumi, ha trovato la voglia e la forza di ricordare in pubblico; offrendo una narrazione aspra ma genuina, utile a chi c’era (e non sempre s’è accorto di quello che gli accadeva intorno) e a chi non c’era.
Corriere 20.6.15
Se ogni cosa diventa eterna anche la morte è impossibile
Il nostro destino tra l’amore e il capitalismo, che soccomberà alla tecnica
di Emanuele Severino


Si dice che anche quando compie ogni sforzo per non guardarla, l’uomo se la trova sempre dinanzi — la morte, ciò che più lo angoscia. Ne fa continuamente esperienza — si dice. Non vede forse il decomporsi dei suoi simili e degli animali, dei vegetali, della luce quando vien sera; e l’incessante trasformarsi di tutte le cose ed eventi, il loro diventare altro da quello che sono, cioè il loro continuo morire? Lo vede — si è sempre e ovunque pensato. L’uomo — si dice — vede l’annientamento di tutto ciò che lo circonda.
Eppure il discorso non è chiuso. Quest’ultima affermazione può sembrare una povera follia. Ma ne stiamo discutendo da mezzo secolo. Tuttavia, per la fisica, che il tempo sia illusione è un tema molto frequentato. Ma che cos’è il tempo se non il diventar altro delle cose, il loro uscire dal nulla e rientrarvi? Il loro morire? E questo non significa forse che, per la fisica, la morte è illusione?
Però la fisica tende a credere che del diventar altro si faccia esperienza — e che tale esperienza sia illusione. Da decenni nei miei scritti si mostra invece, per qualsiasi cosa (nel senso più ampio di questa parola), che il suo diventar altro e il suo annientamento sono impossibili — che cioè ogni cosa è eterna —; e che di essi non si fa ed è impossibile fare esperienza. Per quanto terribile sia e appaia l’agonia dei viventi, la morte, intesa come diventar altro e annientamento, è quindi impossibile; e non è nemmeno un evento che si mostri nella nostra esperienza. Prima si fa esperienza di un corpo vivo, poi di un cadavere; ma per quanto si mostrino simili e contigui nello spazio e nel tempo, è impossibile sperimentare che il corpo vivo sia diventato il cadavere. L’esperienza non è illusoria. Son solito chiamare «destino della verità» (o «destino della necessità») il contenuto di queste affermazioni. La negazione del destino è l’alienazione estrema della verità. In proposito, anche di recente sono apparsi vari saggi interessanti.
Professore alla Pontificia Università Lateranense e sacerdote, Leonardo Messinese si occupa da decenni dei miei scritti con grande intelligenza filosofica. Presenta ora L’apparire di Dio. Per una Metafisica teologica (Edizioni Ets, pp. 220, e 18). In un ampio contesto, dove prende le distanze dalle forme improprie di «metafisica teologica», al mio discorso filosofico dice: nec sine te, nec tecum («né senza di te, né con te»). E aggiunge di volersi pertanto differenziare dalle critiche che diffusamente ebbe a rivolgermi Cornelio Fabro, definitore del Sant’Uffizio, amico di Heidegger e figura eminente della cultura cattolica del Novecento. Ma la parte del mio discorso da cui Messinese non vuol separarsi è l’essenziale: sono i due tratti qui sopra richiamati che stanno al centro del «destino della verità» (ossia la necessità che ogni cosa sia eterna e l’impossibilità che il diventar altro delle cose si mostri nell’esperienza).
Certo, c’è anche il nec tecum . Ma non perché, se non ci fosse, Messinese non potrebbe essere né sacerdote, né professore ordinario dell’Università Lateranense, bensì perché egli sviluppa un’originale e coraggiosa «integrazione» del mio discorso, la quale a suo avviso consentirebbe di ripristinare autenticamente la «metafisica teologica», cioè la dimensione in cui si afferma la creazione divina del mondo — quella «creazione» che, invece, non può essere compatibile con l’eternità di tutte le cose. (Ma come dimenticare che chi aveva finito col capire e accettare il principio dell’eternità di tutto era stato proprio il maestro dell’Università Cattolica, Gustavo Bontadini, una delle voci più alte della filosofia del Novecento?).
Direttrice del Master in Death Studies dell’Università di Padova, anche Ines Testoni pone da tempo al fondamento delle sue ricerche l’eternità di tutte le cose e la negazione dell’esperibilità del loro diventar altro. Ricerche molto originali, ma in senso diverso da quelle di Messinese, perché non intendono alterare la configurazione del destino della verità, ma svilupparla fino a proporre un nuovo modo di intendere la ricerca psicologica. Bollati Boringhieri pubblica ora, della Testoni, il saggio L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education (Bollati Boringhieri, pp. 194, e 26). La Death Education è il movimento culturale che nei Paesi anglosassoni intende render operante la meditatio mortis in ogni forma significativa della società. Il saggio della Testoni, oltre ad avere il merito di far conoscere in Italia questo movimento, lo ripensa alla luce del destino della verità, argomentando la necessità di promuoverne la conoscenza, innanzitutto, nella scuola e nei luoghi dove è stata soltanto la religione a gestire il rapporto dell’uomo con la morte. Per l’autrice ripensare la Death Education significa, innanzitutto, curare l’angoscia per la morte sapendo che la cura (l’«educazione») appartiene inevitabilmente alla malattia — ossia a quel voler far diventar altro le cose che è, esso, la matrice dell’angoscia. È la cura (e la psicologia) autentica, che differisce essenzialmente dal vano curare l’angoscia senza avvedersi di quella appartenenza.
La Lateran University Press — l’editrice del Vaticano — sta pubblicando una collana dedicata ai filosofi italiani del Novecento. Da poche settimane è uscito l’ampio e poderoso volume in cui Giulio Goggi, docente presso l’Università San Raffaele di Milano, segue in modo cristallino lo sviluppo dei miei scritti e come esso mantenga al proprio centro il tema del «destino della verità». Un libro ( Emanuele Severino , pp. 500, e 27) capace di chiarire i nodi più complessi (esprimo il mio compiacimento per la presenza del libro di Goggi in quella collana, a conferma della cordialità con cui prosegue il dialogo tra la Chiesa e me).
Molto opportunamente questo saggio si conclude considerando il modo in cui nei miei scritti si risponde all’obiezione che si può loro muovere: di essere anch’essi uno sviluppo dove, a volte, il linguaggio giunge a dire qualcosa che in qualche modo esso dapprima negava. Come si può essere sicuri, allora, che il linguaggio sia finalmente giunto a esprimere il contenuto del «destino della verità»? Qui non è possibile indicare, nemmeno da lontano, la risposta autentica. Mi limito a ricordare però che in essa si mostra che l’esistenza del «mondo» — all’interno del quale si trova anche lo sviluppo del linguaggio che testimonia il «destino» — non è una verità incontrovertibile, ma soltanto una fede, come Goggi non manca di sottolineare.
Una fede da cui non possiamo né vogliamo separarci (ma che non per questo diventa verità). Essa assorbe per lo più tutti i nostri interessi; è la condizione in cui l’uomo si trova e sul cui fondamento ciò che diciamo «destino della verità» è considerato una povera follia e qualcosa di completamente irrilevante. All’interno di questa fede accade l’intera storia dell’uomo. Siamo giunti all’epoca della dominazione della tecnica e all’inizio del tramonto delle grandi forze, innanzitutto il capitalismo, che si illudono di poter continuare a servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi.
Trovo quindi estremamente interessante il volume C’era una volta una scienza triste (Jaca Book, pp. 524, e 22) di Pierangelo Dacrema, professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari all’Università della Calabria. Dopo aver illuminato con grande efficacia i nodi decisivi della scienza economica e dei suoi rapporti con l’agire economico, con le altre scienze e soprattutto con la filosofia, l’ultima parte del volume propone i «Lineamenti di filosofia dell’economia». Vi campeggia la tesi, che l’autore va sostenendo da tempo, della «morte del denaro»; e questa tesi vien messa in relazione al tema della tecnica. Il penultimo capitolo è appunto intitolato «Il tramonto del denaro nel destino della tecnica», dove Dacrema argomenta con penetrazione il suo concordare con la mia tesi della destinazione della tecnica al dominio. (Su queste colonne avevo richiamato alcuni mesi orsono l’analogo concordare da parte dell’economista Fabrizio Pezzani dell’Università Bocconi). In breve: la tecnica vuole incrementare la propria potenza; il capitalismo vuole invece incrementare il denaro; ma la tecnica è più potente del denaro e quindi la prima forma di volontà è destinata a prevalere sulla seconda. E Dacrema giunge ad affermare la possibilità che lo stesso «destino della verità» sia innegabile (a proposito del «destino di eternità» egli si chiede: «Se avesse ragione Severino?»).
L’essere per l’amore (Mimesis, pp. 187, e 16) di Franco Ricordi accetta invece senz’altro il «destino della verità» e in particolare l’eternità di ogni cosa. Il che è molto interessante, perché, oltre che filosofo, Ricordi è attore, regista e direttore artistico di teatro, e quindi immette nella sua scrittura un insieme di esperienze culturali che arricchiscono l’impostazione del suo saggio. L’«essere per l’amore» intende essere la negazione dell’«essere per la morte» di Heidegger (e Ricordi coglie molto bene la distanza essenziale del «destino della verità» dal pensiero di Heidegger); ma intende anche esser qualcosa di più del «destino della verità»: nel senso che Ricordi accetta sì l’affermazione dell’eternità di ogni cosa, ma poi la integra con un percorso che finisce col negarla. L’amore è infatti fede (e anche su questo punto Ricordi è d’accordo con me). Sennonché la fede è volontà; e la volontà è inevitabilmente un voler far diventar altro le cose, ossia è negazione della loro eternità.
In Dell’amore. Essenza e fondamento (Mimesis, pp. 82, e 10), Nicoletta Cusano, docente all’Università San Raffaele, sviluppa appunto il tema dell’appartenenza dell’amore all’alienazione della volontà. Non è casuale che Ricordi presti una particolare attenzione a Dante, per il quale l’amore muove, e quello sommo è «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Ma per quanto luminoso sia lo splendore di queste parole, se esse sono grandi espressioni dell’alienazione della verità (anche Lucifero è luminoso), non si dovrà dire che il destino della verità sta al di sopra di esse e ne vede l’alienazione?
La Stampa 20.6.15
La lobby dei produttori di armi
“Colpa del pastore ucciso. Non voleva i cittadini armati”
di P. Mas.


Secondo la lobby dei produttori di armi, la colpa della strage di Charleston è delle vittime, a partire dal pastore Clementa Pinckney che le aveva ospitate nella sua chiesa. Pinckney, infatti, è anche un senatore della South Carolina, e in questa veste aveva votato contro la legge per permettere ai cittadini di andare in giro con armi nascoste addosso: «Otto fedeli della sua parrocchia - ha commentato Charles Cotton, membro del consiglio direttivo della National Rifle Association - potevano essere ancora vivi, se lui avesse consentito loro di portare armi in chiesa».
La dichiarazione di Cotton ha provocato un comprensibile scandalo, a cui la Nra ha cercato di mettere una pezza, dicendo che non parlava a nome dell’organizzazione. Il problema è che la stessa Nra aveva preso posizioni simili in passato. Dopo la strage nella scuola di Sandy Hook, il vice presidente Wayne LaPierre aveva detto che «l’unica maniera per fermare una cattiva persona con una pistola è una buona persona con una pistola». La soluzione dunque era armare gli insegnanti, non togliere le armi dalla circolazione.[P. MAS.]
Repubblica 20.6.15
L’amaca
Il “suprematismo”
di Michele Serra


CHE NOME elegante, “suprematismo”, per definire quella sudicia tara dell’anima che è il razzismo. Non quello rozzo, animalesco, dettato dalla paura istintiva dell’altro; ma quello organizzato a freddo, pensato, scritto e letto, con i suoi maestrini e i suoi pensierini, le sue bandierine e le sue armi mortali, il vergognoso razzismo che teorizza l’inferiorità degli altri come disperato rimedio alla propria. “Inferiore” è un aggettivo terribile da usare — se si ha rispetto e pietà dell’umano — ma aiuta a definire quel pozzo di demenza nel quale si sprofonda ogni volta che ci si imbatte in tipi come questo Dylann, con un padre come quello che, da maschio a maschio, gli regala un pistolone tanto per chiarire che il feticismo per le armi da fuoco non è una malattia sociale, no, ma un gagliardo diritto di uomini liberi, da tramandare nelle generazioni. Piccoli mondi magari formalmente lindi ma dal cuore piccolo, dallo sguardo ottuso, feroci guardiani della propria meschinità. Capaci di frugare nel web fino a trovare le pezze d’appoggio del loro odio, come quella goffa invenzione segregazionista che fu la Rhodesia di Ian Smith, remoto ricordo dei telegiornali in bianco e nero della nostra adolescenza che impavesa, oggi, le t-shirt degli adolescenti nazisti americani. Il fatto che perfino la bandiera rhodesiana — una deprecabile ma trascurabile invenzione della storia — possa diventare “un simbolo” lascia capire quanto smisurato sia il fabbisogno dell’odio mondiale.
Repubblica 20.6.15
Il fattore bianco
di Alexander Stille


IL PROFILO del terrorista americano non è un fanatico religioso islamico (anche se ce ne sono) ma è un uomo bianco arrabbiato armato. Era quindi del tutto prevedibile — ma non per questo meno tragico — che l’autore del massacro atroce di nove persone nella chiesa afroamericana di Charleston fosse un ventenne bianco, Dylann Roof, che si esibiva nelle sue foto di Facebook con gli emblemi della Rhodesia coloniale e dell’apartheid sudafricano.
La sua storia ripete un vecchio copione stereotipato: un ragazzo che andava male a scuola e che aveva lasciato il liceo senza il diploma. Senza un lavoro stabile, senza una fidanzata, dormiva spesso nella sua macchina. Ma aveva una sua arma che compensava la sua impotenza personale e l’idea, sempre più ossessiva, di fare un grande gesto e diventare qualcuno.
Roof è solo l’ultimo in un elenco lungo di uomini di questo tipo. Ricordiamoci che il più grande attacco terroristico negli Stati Uniti prima dell’Undici settembre fu la bomba al palazzo federale di Oklahoma City, messa da Timothy McVeigh, un ex-soldato della prima guerra del Golfo che cercò il “riscatto” per la sua rabbia e il suo fallimento personale con un gesto violentissimo che ha costato la vita a 168 persone.
Naturalmente c’è sempre un elemento di patologia personale in ogni caso singolo ma il filo conduttore è sempre lo stesso: l’uomo bianco incazzato, che ha la sensazione che il Paese stia andando nella direzione sbagliata penalizzando lui e i suoi simili che si sentono sempre più marginali in uno stato multiculturale. Alla base di questa rabbia c’è una realtà socio- economica innegabile: la classe di persone che ha perso più terreno negli ultimi quarant’anni è l’uomo bianco della classe operaia.
Lo stipendio medio degli uomini bianchi senza laurea o peggio senza diploma è sceso rispetto a tutte le altre categorie socio- economiche. Il mondo dei padri e nonni dei vari Dylann Roof e Timothy McVeigh è stato molto più semplice. Fino agli anni 70, un uomo bianco senza diploma poteva contare (spesso) su un lavoro stabile, in fabbrica o nella polizia. Con la protezione di un sindacato aveva un contratto a lungo termine, se non a vita, assicurazione sanitaria, una pensione e uno stipendio da classe media, tale da mantenere una famiglia. Ma, dopo il Presidente Ronald Reagan, dal 1981 il lavoro sindacalizzato è sceso dal 27 percento all’11 percento.
La famiglia media americana ha mantenuto il suo tenore di vita grazie solo all’entrata massiccia delle donne nel mondo di lavoro. Mentre il partito tradizionale della classe operaia, il Partito democratico, è sembrato più interessato a promuovere l’uguaglianza per i neri, gli emigrati e le donne. Una buona parte del voto operaio, soprattutto nel vecchio Sud schiavista, si è spostato dal partito democratico a quello repubblicano.
La rabbia e il senso di vittimizzazione dei bianchi è stato fomentato dalla destra americana e tollerata da una buona parte del partito repubblicano. Lo slogan del cosiddetto Tea Party è quello di “riprenderci il nostro Paese”. Il loro simbolo preferito è il serpente velenoso con la frase “non mi calpestare”, simbolo sia dei coloni in ribellione contro l’Inghilterra ma anche della vecchia Confederazione schiavista. A cominciare dagli anni 90, con l’ascesa di Newt Gingrich quale leader repubblicano al Congresso, i repubblicani hanno trattato il partito democratico come illegittimo.
L’estremismo della destra americana ha ottenuto un buon aiuto dalla Corte Suprema, la quale ha stabilito che il diritto al possesso delle armi è un diritto costituzionale individuale. La Corte aveva evitato la questione per 200 anni a causa dell’estrema ambiguità del secondo ammendamento che parla sia del diritto alle armi ma anche del bisogno di «una milizia civile ben regolata». Anche se la Corte Suprema non ha vietato le misure per limitare l’accesso a un certo tipo di armi (quelle d’assalto, per esempio) i fanatici vedono qualsiasi tentativo di controllo delle armi come una minaccia. Arrivano alle riunioni pubbliche armati fino ai denti come per dire: guardate che vi succede se tentate di fare qualcosa che non ci piace. Tanti stati, quasi sempre in mano ai repubblicani, si sono fatti in quattro per passare delle leggi per permettere il porto d’armi in luoghi sempre meno appropriati: bar, negozi, scuole. Lo stato del Texas ha appena varato una legge per permettere le armi nei campus delle università pubbliche dello stato.
Un uomo bianco che ha ucciso tre musulmani in North Carolina (per una disputa, si dice, sui parcheggi condominiali) amava girare armato. Quindi andava dai vicini di casa per dire di abbassare la musica facendo vedere la sua pistola: una minaccia mortale ma perfettamente legale nello stato di North Carolina. Queste azioni pubbliche hanno legittimato posizioni che sarebbero sembrate sovversive e illegali solo trenta anni fa. Uno degli slogan preferiti della destra americana è una frase di Thomas Jefferson che «l’albero della libertà dev’essere rinfrescato di tanto in tanto con il sangue di patrioti e di tiranni ». Così persone deboli e squilibrate come Dylann Roof o Timothy McVeigh si sentono degli eroi, commettendo atti che sarebbero immediatamente considerati terrorismo se commessi da musulmani o gente di colore.
Corriere 20.6.15
L’aberrante ideologia della strage di Charleston
di Antonio Carioti


D ylann Roof, il pluriomicida di Charleston, è un giovane dissennato, il cui odio è stato alimentato anche dagli stupefacenti. Ma, come ha notato ieri sul Corriere Guido Olimpio, la strage ha tutte le caratteristiche di un’azione terroristica, compiuta sulla base di precisi, anche se aberranti, criteri ideologici. E non ci sarebbe da stupirsi se fosse confermata l’ipotesi secondo cui Roof ha avuto contatti con gruppi estremisti. Anche perché il suo intento d’innescare una «guerra razziale» e la sua ossessione per i neri «che stuprano le nostre donne» trovano evidenti riscontri nei proclami di chi invoca la «supremazia bianca».
Il testo più noto di quel filone, The Turner Diaries , scritto dal neonazista William Luther Pierce (morto nel 2002) con lo pseudonimo Andrew Macdonald, risale al 1978. Ora è stato tradotto in italiano dalle Edizioni Bietti, con il titolo La Seconda Guerra Civile Americana , preceduto da una densa introduzione esplicativa di Giorgio Galli. Impressionanti le analogie con le farneticazioni di Roof: il libro si presenta come il diario fittizio di Earl Turner, martire della guerra condotta da un’Organizzazione segreta per la supremazia bianca contro il Sistema, dominato dagli ebrei e dai neri (ovviamente l’autore scrive «negri»). La trama è un susseguirsi di eccidi, attentati, torture, fino all’olocausto nucleare.
Quanto allo stupro, l’autore immagina che la Corte Suprema degli Usa abbia dichiarato incostituzionali le leggi che lo punivano come un crimine, «perché presumevano una differenza giuridica tra i sessi», e lo abbia ridotto al rango di «un pugno sul naso», con grande tripudio dei «portavoce dei diritti civili dei negri», dipinti come violentatori abituali.
Non sono purtroppo letture per pochi esaltati: The Turner Diaries ha venduto centinaia di migliaia di copie. È la spia, scrive Galli, di una «energia oscura» che si annida nel fondo della società moderna, non solo americana. E a volte viene alla superficie con gesti criminali tipo quello di Roof.
Antonio Carioti
Corriere 20.6.15
Cornell Brooks, presidente della Naacp, la lega per l’emancipazione della gente di colore
«Basta parlare di lupi solitari o pazzi
Questo è un nuovo atto di terrorismo razziale»
intervista di Massimo Gaggi


CHARLESTON (South Carolina) «Ci battiamo da 106 anni per il progresso degli afroamericani e contro il razzismo usando gli strumenti della grande democrazia americana: non ci faremo certo trascinare in una guerra adesso. Solidarietà e unità, certo, ma servono anche risposte forti dalla politica. Basta ridurre questi attacchi al problema di un lone shooter, un lupo solitario. C’è un’atmosfera di odio che ispira questi criminali. È ora di contrastarla davvero. E il massacro di Charleston va perseguito come un caso di terrorismo razziale».
Cornell Brooks, presidente della Naacp, la lega per l’emancipazione della gente di colore, è arrivato a Charleston per portare solidarietà, invitare tutti ad evitare reazioni emotive, ma anche per discutere coi politici di alcune possibili iniziative. Ne parla coi giornalisti davanti alla sede di South Charleston della Naacp: un edificio malridotto nella periferia degradata della città. Alla fine Brooks si ferma a rispondere a qualche domanda del cronista italiano.
Vista dall’Europa scossa dal razzismo contro gli immigrati, l’America sembra aver assimilato meglio le sue minoranze. Poi queste esplosioni di violenza riportano gli Usa indietro di un secolo.
«Sono due fenomeni ugualmente gravi ma diversi. Appunto perché la nostra è una storia secolare. Io oggi vivo in altre realtà americane, ma vengo da qui, conosco bene la cultura del South Carolina. Sono arrivati i diritti civili, la segregazione è stata superata, ma molti continuano a pensare che un po’ di razzismo, una quota di razzismo a bassa intensità, sia accettabile. Non lo è e quello che è appena avvenuto lo dimostra. Vale per la nostra lunga storia: ho appena parlato della questione della bandiera confederata che sventola ancora davanti al Parlamento di Columbia, la capitale dello Stato. Va tolta. Molti la difendono dicendo che è un pezzo di storia americana, un simbolo di ribellione. La realtà è che è diventata un simbolo del razzismo. Niente alibi storico-culturali per il razzismo. Vale per la nostra lunga storia che risale allo schiavismo, ma credo valga anche per voi in Europa».
Peggio il razzismo dalle radici antiche dell’America o quello moderno, rozzo e brutale, dei movimenti xenofobi che si diffondono in vari Paesi europei, Italia compresa?
«Uno è un tumore osseo, che uccide lentamente e in modo molto doloroso. L’altro è un tumore al cervello, che uccide la capacità di comprendere e cercare soluzioni, prima ancora di devastare il resto del corpo. Difficile dire cosa sia peggio».
Perché solo oggi cominciate a parlare di terrorismo a proposito dei «white supremacist»?
«Noi non abbiamo mai fatto del vittimismo. Nella nostra storia siamo stati colpiti varie volte dal razzismo violento, abbiamo sempre reagito con compostezza. Non amo fare conferenze stampa, facciamo più lavoro sul campo, persuasione. Mercoledì, quando nelle congregazioni del Sud, si terrà la riunione settimanale di cultura biblica, saremo tutti lì, a discutere dei testi sacri. Ma ci sono momenti in cui bisogna mettere punti fermi. Questo assassino non è un pazzo isolato. È un ragazzo che è cresciuto in una cultura razzista, è stato addestrato all’odio. E ha scelto con cura il suo bersaglio: ha colpito una chiesa storica, crocevia di pace e di dialogo. Per questo parlo di terrorismo»
La Stampa 20.6.15
Il killer di Charleston voleva un’altra guerra civile
Dylann preparava l’attacco da 6 mesi
I parenti delle vittime: ti perdoniamo
di Paolo Mastrolilli


Occhi cerchiati di nero, puntati verso il basso, mentre i parenti dei 9 fedeli che ha ammazzato lo perdonavano. Così è apparso Dylann Storm Roof all’America, durante la prima audizione in tribunale per processarlo del massacro di Charleston. Cupo, ma non pentito, secondo gli investigatori che lo hanno interrogato: ha ammesso la strage, ha detto che la gentilezza delle vittime a un certo punto lo aveva spinto a riconsiderare il suo piano, ma poi ha deciso che doveva portarlo avanti fino in fondo per punirli del fatto di essere neri.
Il compagno di stanza
Il primo sguardo nell’anima di Dylann lo ha offerto Dalton Tyler, un ragazzo che aveva condiviso con lui la stanza da letto: «Si drogava, un sacco. Ha pianificato l’attacco per almeno sei mesi. Diceva che voleva una nuova guerra civile, per fermare i neri che si stavano impadronendo del paese, ed era pronto a morire per farlo. Voleva che le sue motivazioni fossero note, per istigare altri a seguirlo».
Davanti agli inquirenti, Roof ha confermato tutto: «Li ho uccisi io», ha detto. Aveva scelto il target perché voleva colpire una chiesa nota nel movimento dei diritti civili. Quindi è entrato e si è seduto col gruppo che stava studiando la Bibbia. Lo hanno invitato a unirsi a loro, ma ha rifiutato. «Erano così gentili - ha detto ai poliziotti - che per qualche minuto ho pensato di rinunciare all’azione. Poi però mi sono convinto che dovevo portarla a termine». Si è alzato e ha armato la pistola Glock calibro 45, che aveva comprato legalmente con i soldi ricevuti per il ventunesimo compleanno: «Volete qualcosa per cui pregare? Ora ve la do io!». I fedeli non hanno visto l’arma; se ne sono accorti solo quando hanno sentito i primi colpi, sparati a bruciapelo. Qualcuno ha cercato di fermarlo: «Non farlo. Perché?». Lui ha risposto duro: «Devo. Violentate le nostre donne, state prendendo l’America. Dovete andarvene». Il reverendo Clementa Pinckney di 41 anni, Sharonda Coleman-Singleton di 45, Cynthia Hurd di 47, Susie Jackson di 87, Ethel Lance di 70, DePayne Middleton e Tywanza Sanders di 26, e Myra Thompson di 59, sono morti subito. Daniel Simmons, 74 anni, è spirato all’ospedale.
Durante la prima audizione davanti al magistrato James Gosnell ha solo ammesso il nome, la residenza e il fatto di essere disoccupato. I famigliari dei morti sono entrati nell’aula del tribunale, dove Dylann li guardava via video dalla prigione. «Io - ha detto la figlia di Ethel Lance - voglio solo che tutti lo sappiano... Io - ha aggiunto fra i singhiozzi - ti perdono. Non parlerò mai più a madre. Non potrò mai più abbracciarla. Ma ti perdono, e abbiano pietà della tua anima». È stato così con tutti i parenti che hanno avuto la forza di prendere la parola. Fedeli allo spirito delle vittime, nessuno ha alzato la voce, nessuno ha imprecato. Solo due concetti, comuni a tutti, ripetuti fra le lacrime: «Ti perdoniamo, non lasceremo che l’odio vinca».
Il giudice Gosnell ha deciso di aggiungerci una sua riflessione, che sarà pure nello spirito della riconciliazione, ma ha lasciato molti perplessi: «Oltre alle vittime, ci sono anche vittime dalla parte della famiglia di questo giovane, che non si sarebbe mai aspettata di trovarsi in questa condizione. Aiutiamo anche loro».
Il problema è che il razzismo è endemico alla South Carolina, come ci ha detto Sue Monk Kidd, autrice del bestseller «L’invenzione delle ali», che racconta la storia di Sarah Grimke, ragazza bianca bandita da Charleston perché era diventata un’attivista anti schiavismo. Sul pennone del palazzo del governo sventola ancora la bandiera confederata, e la reazione istintiva dei conservatori dopo la strage è stata simile quasi ovunque: colpa dell’instabilità mentale del killer, e del fatto che le vittime non avevano armi per difendersi. Poi si sono arresi davanti all’evidenza, e la governatrice Nikki Haley ha chiesto la pena di morte. Dylann ha abbassato la testa, ed è tornato in cella. Non pentito.
La Stampa 20.6.15
Uomo o donna, bianco o nero
Ora in Usa l’identità è su misura
Casi clamorosi innescano un dibattito: conta più la biologia o la scelta?
di Gianni Riotta


A cena un’amica recita la litania dei genitori di adolescenti «Problemi con mia figlia sedicenne». Ma stavolta non c’entrano spinelli, boyfriend tatuati, brutti voti, «ha deciso che rientra al liceo a settembre come maschio, prenderà ormoni, poi a 18 deciderà se operarsi». La mamma non sa come agire, ma sa che, dopo le vacanze, sua figlia sarà un figlio. L’idea che l’identità non sia fissata da natura, cultura, storia e tradizione, ma sia personale, fungibile ai nostri desideri e pensieri, che ognuno di noi sia una narrativa libera e possa apparire come crede, si impone veloce in America.
Bruce Jenner, poderosa medaglia d’oro nel decathlon alle Olimpiadi 1976, considerato «il più grande atleta», cambia sesso, diventa sensuale pin up, Caytlin Jenner, le cui forme adornano la copertina di Vanity Fair. «Il mio cervello - spiega - è più donna che uomo» e riceve solidarietà da femministe, omosessuali, libertari. Dal carcere le scrive Chelsea Manning, detenuta già nota come il soldato Bradley Manning, che prima di cambiare identità sessuale e sfoggiare chioma bionda era addetto ai dossier dell’intelligence militare Usa. Poi ha aperto le chiavi dei segreti ai Wikileaks ed è finito dietro le sbarre, ma da donna, non più uomo.
I casi celebri sono in prima pagina, anziani e giovani che, ad un tratto della vita, decidono di emigrare nell’altra metà del cielo, sono tanti, a volte gioiosi, a volte sofferenti, nell’anima e nel corpo.
Obietta la regista femminista premio Oscar Elinor Burkett sul «New York Times», ma se Jenner può definirsi secondo «il suo cervello femminile», perché l’ex presidente di Harvard, ed ex ministro di Obama, Lawrence Summers è costretto alle dimissioni per aver affermato che il cervello delle donne è meno portato alla matematica di quello maschile? Se accettiamo che «il cervello non ha sesso», come dice la neuroscienziata Gina Rippon, allora anche l’identità sessuale è forgiata da esperienze e cultura scrive la Elinor (le saggiste Elena Gianini Belotti e Carla Ravaioli ragionavano su questi temi già 40 anni fa), non solo da organi genitali e ormoni, chirurgia, silicone, pasticche. Se non hai avuto paura dello stupro, non ti sei sentita imbarazzata da mestruazioni e molestie, non hai dovuto eccellere per essere riconosciuta pari a un uomo, insomma se non hai vissuto da «donna», un bel paio di tette e una guêpière non bastano a far di te una donna, conclude Burkett.
Le metamorfosi
L’identità sessuale non è la sola in cui gli americani mischiano le carte, anche Storia, Razza, Etnia, sono aperte alle metamorfosi «personal». Con la disinvoltura della filosofia di Jacques Derrida nello slalom tra «Vero» e «Falso» si muta la propria esperienza di «bianchi» o «neri». È il caso di Rachel Dolezal, la donna bianca che ha deciso di «essere» afro-americana, come i quattro fratelli adottivi, e di negare i genitori biologici, bianchi. Dolezal ha studiato all’università dei neri, Howard, ha diretto la Naacp, storica organizzazione per i diritti civili, in Idaho, ha lasciato evolvere le foto online da bionda con la pelle chiara a mulatta con i capelli crespi. Chiama «papà» un signore afroamericano, e solo «mio padre» il signor Dolezal, e quando le chiedono come può dirsi nera se è bianca, usa la filosofia postmoderna nella realtà: nega di avere Dna bianco, «mica avete una prova contraria» e assume come «prova» se stessa, «da bambina, con i colori a cera, mi disegnavo marrone scuro, non rosa, dunque sono afroamericana». Gli intellettuali anziani ricordano il caso opposto di Anatole Broyard, sofisticato critico del «New York Times» vissuto sempre da bianco, ma rivelato, dopo la morte, nel 1990, figlio di due afroamericani.
Lo storico del Connecticut College Jim Downs interviene su Huffington Post Usa: se la razza non è biologica, ma culturale, ideologica, di esperienza, come la Burkett suggerisce per il sesso, allora perché si è elogiati quando si cambia genere e disprezzati se si cambia «razza»? Downs cita cliché culturali diffusi, la ragazza timida che fa la bionda fatale, lo studente ingenuo che si atteggia a duro delle gang, trucchi antropologici con cui camuffiamo le identità, ma che ci attraggono magari un sorriso sarcastico, senza costringerci alle dimissioni.
Nel secolo digitale l’America Narcisa si guarda allo specchio delle identità, e ne ricava opposti, riflessi. Da una parte il colorato caleidoscopio dove tutto è ammesso, medaglia d’oro olimpica maschio in metamorfosi a opulenta matrona, soldato che giura di custodire i segreti della nazione mutato in bionda platinata eroina del web, ragazza bianca di provincia assurta a leader militante afroamericana. Dall’altra, invece, il macabro post su Facebook di Dylann Roof, il ventunenne assassino dei nove innocenti a Charleston, razzista bianco che vuole la «guerra civile» senza meticciati, bianchi contro neri, jihad feroce.
Chi siamo?
La guerra delle identità lacera il corpo e l’anima di tanti americani, individui, e innerva la nazione antica. Chi siamo e perché, e davvero possiamo decidere da noi chi essere? O siamo legati a tradizione e biologia? Domande che turbano madri, figli, persone, ma anche potenti ideologie che decideranno del futuro in ambiti lontani dalla parrucca della Manning, il corsetto della Jenner, i riccioli della Dolezal. Temi che definiranno come, e perché, si vince la guerra al fondamentalismo islamico, come e perché si vince la Casa Bianca 2016. Chi siamo, quanto siamo disposti a batterci per la nostra identità.
Corriere 20.6.15
In difesa degli svizzeri, pragmatici e non ideologici
di Claudio Del Frate


A volte i numeri sono in grado di smontare i luoghi comuni più coriacei e storicamente datati. La Svizzera si porta appresso da decenni la fama di Paese xenofobo per antonomasia: e nessuno nasconde che a volte — lo sanno gli italiani nel dopoguerra migrati lì per lavoro — la nomea non è stata campata per aria.    Però, c’è un però. La Segreteria di Stato per la migrazione del governo di Berna prevede che, per il 2015, la Svizzera darà accoglienza a 29 mila richiedenti asilo. Ora, quei 29 mila migranti sono più del doppio di quelli attualmente ospitati in Lombardia e Veneto messi assieme; sono 11 mila in più di quelli ancora oggi fermi in Sicilia. Al dunque: una nazione di poco più di 8 milioni di abitanti, che non fa parte della Ue, programma di accogliere una consistente quota di profughi proprio mentre i paesi Ue mettono a repentaglio la loro coesione giocando a risiko con le frontiere, innalzando muri e rifiutando proprio il meccanismo solidale delle quote.
   Strano? No, per chi conosce l’approccio elvetico alla politica: mai ideologico e votato a soluzioni pragmatiche fino al cinismo. Dice tutto, di questa cultura ispirata al «problem solving», una delle peculiarità delle istituzioni elvetiche: tutti i partiti entrano da sempre a far parte del governo in misura proporzionale, di modo che non esistono una maggioranza e un’opposizione precostituite ma queste si formano di volta in volta al momento di votare i singoli provvedimenti di legge.    Anche la risposta all’emergenza migranti è stata improntata al pragmatismo; la guardia alle frontiere resta alta (a Chiasso vengono respinti ogni giorno fino a 100 stranieri) ma al tempo stesso si prevede di dare ospitalità ad altre migliaia di fuggiaschi e di esaminare la loro richiesta di asilo. Molto meglio che avere le stazioni e le periferie trasformate in bivacchi di disperati.
Il Sole 20.6.15
Se Putin ammalia Atene la colpa è anche dell’Occidente
di Ugo Tramballi


In Europa, almeno fino a qualche tempo fa, eravamo abituati a vedere paesi passare dal freddo dell’illiberalità orientale al calore delle democrazie occidentali. Qualcosa non sta funzionando se ora la Grecia è tentata, Cipro tentenna e l’Ungheria ammicca all’autoritarismo imperiale post-sovietico di Vladimir Putin.
Ammettendo che non sia stato calcolato, c’è un tempismo perfetto fra la crescente insofferenza europea verso il governo greco e il viaggio a San Pietroburgo di Alexis Tsipras; c’è una sovrapposizione da suspense in un vertice europeo che sarà l’undicesima ora della trattativa fra Unione europea e Grecia, e contemporaneamente il momento in cui i 28 membri della Ue dovranno trovare l’unanimità sulle nuove sanzioni alla Russia. I due temi sono strettamente legati. La decisione di estendere di altri sei mesi le sanzioni era già stata presa dagli ambasciatori due giorni fa a Bruxelles. Ma lunedì in Lussemburgo non tutti i ministri degli Esteri potrebbero confermarla. A nessun leader europeo piace confermare ed estendere il boicottaggio economico. Gli scambi fra Ue e Russia sono dieci volte più grandi di quelli fra Stati Uniti e Russia. L’esposizione delle banche europee verso le istituzioni russe è di 155 miliardi di dollari, molto più di quelle americane. Quando l’anno scorso il ministro degli Esteri britannico Philip Hammond sosteneva che la Ue avrebbe deciso sanzioni «per colpire la Russia più di quanto non colpiscano noi», implicitamente riconosceva che comunque feriscono anche noi. Ma di tutti i leader europei, Tsipras è sempre stato il più deciso nell’opporsi al boicottaggio economico. Nemmeno lui sa se Putin è una sirena con cose concrete da offrire o il luccichio è solo uno specchietto per allodole. Certamente i politici e gli affaristi greci che in questi vent’anni hanno rubato soldi ai loro concittadini e agli europei, senza mai finire in galera né pagare tasse vere, si sentirebbero più a loro agio nel sistema degli appariscenti oligarchi russi che fra i puntigliosi tecnocrati di Bruxelles. Ci sarebbe anche l’aspetto non democratico del modello russo, così tentatore sul piano economico: ma sono valori che retrocedono quando la crisi economica morde. L’autocelebrazione del forum in corso a San Pietroburgo tenta di nascondere una realtà russa più complessa: le sanzioni, il prezzo di greggio e gas, il valore del rublo e le stesse caratteristiche del sistema produttivo in Russia non garantiscono che in Grecia Putin prenderà il posto della Ue e dell’Fmi come ufficiale pagatore. Promettendo l’ingresso nella banca di sviluppo dei Brics, con un gettone pro forma in cambio di miliardi per sviluppare progetti infrastrutturali, il presidente russo fa credere di essere il capo dell’organizzazione informale dei cinque grandi emergenti. Ma non è detto che Brasile, Cina, India e Sudafrica vogliano essere altrettanto munifici, ammettendo un’adesione greca che è politica e non ha vantaggi economici.
Tuttavia a Ovest qualcosa non ha funzionato se la Grecia democratica ma affamata, ottenuto un gasdotto, è tentata di uscire dall’euro e dalla Ue per abbracciare Putin e la sua prodigalità orientale non disinteressata. Il solo fatto che il modello putiniano possa in qualche modo attrarre, richiede l’ammissione di un nostro fallimento e la necessità di un esame di coscienza.
Il Sole 20.6.15
Quel patto Tsipras-Putin
di Antonella Scott


«Noi greci viviamo vicini al mare - esordisce Alexis Tsipras - per questo non abbiamo paura delle tempeste». E come l’interlocutore che lo ha preceduto al Forum economico di San Pietroburgo, Vladimir Putin, anche il premier greco ostenta sicurezza e ottimismo. Le crisi che stanno affrontando i due leader e i loro Paesi sono ben diverse, ma si sono incrociate ieri in questo Forum da cui la Russia lancia due risposte all’Europa che la mantiene sotto sanzioni. La prima è la constatazione di Putin che l'economia russa ha le risorse per affrontare il momento difficile; la seconda è un accordo energetico con Tsipras che rafforza i legami tra Mosca e Atene, firmato proprio nelle ore in cui si gioca il destino della Grecia nell'Unione europea. Ma al di là di questo, come ha chiarito il portavoce di Putin Dmitrij Peskov, a Pietroburgo non si è parlato di finanziamenti russi, né Mosca fornirà aiuti alle imprese nazionali intenzionate a investire in Grecia. Forse per questo, anche se sorridente, Tsipras al termine dell’incontro con Putin - durato un’ora più del previsto – non ha risposto alle domande dei giornalisti. All’inizio aveva annunciato per novembre un memorandum per lo sviluppo della cooperazione economica tra i due Paesi. Ma che succederà da qui ad allora?
L’intesa preliminare firmata a San Pietroburgo dal ministro greco dell’Energia, Panagiotis Lafazanis, insieme al collega russo Aleksandr Novak, riguarda la costruzione di un gasdotto che nei piani dei russi ha preso il posto di South Stream, vittima della crisi ucraina. Turkish Stream attraverserà la Grecia, dividendo a metà la proprietà del tratto interessato tra la russa Vneshekonombank (Veb) - la banca di Stato dedicata allo sviluppo - e la Grecia. Anche se saranno i russi - non a caso - a fornire l’intero finanziamento, pari a due miliardi di dollari.
«Questo gasdotto - ha voluto chiarire il ministro Lafazanis - non è inteso contro nessuno in Europa o nel mondo. Nasce per servire i popoli, la pace e la stabilità. L’energia può unire le persone, e non alimentare situazioni da guerra fredda». Che le vicende dei gasdotti vogliano volare al di sopra della geopolitica lo aveva dimostrato giovedì, sempre al Forum di San Pietroburgo, l’annuncio che Gazprom intende costruire un doppio collegamento accanto a Nord Stream, dal Baltico alla Germania. Annuncio riguardo al quale la Commissione europea ha voluto subito chiarire che «i gasdotti che già esistono sono più che sufficienti».
Quanto ai progetti energetici tra russi e greci, Bruxelles esprime le stesse obiezioni che aveva per South Stream, un gasdotto che contravveniva alle norme europee sulla proprietà contemporanea del gas e delle rotte per esportarlo. E forse proprio per questo il governo russo è stato attento a chiarire che non avrà alcuna partecipazione nella sezione greca di Turkish Stream, lasciando il posto alla Veb. I lavori, è stato detto ieri a Pietroburgo, inizieranno nel 2016 e si concluderanno nel 2019, proprio quando verrà a scadere il contratto di Gazprom per il transito del gas attraverso l’Ucraina. E sarà in quel momento che la Russia intende tagliare completamente i ponti con Kiev.
Festeggiato in Russia, Tsipras ha ricambiato invitando tutti a mettere fine «al circolo vizioso delle sanzioni». E poi, intervenendo al Forum dopo aver incontrato Putin, Tsipras ha detto che l’Unione europea deve «imboccare di nuovo la sua strada, tornando ai principi e alle dichiarazioni originarie: solidarietà, equità, giustizia sociale». E deve scegliere tra la volontà di mostrarsi solidale alla Grecia o accanirsi su «misure di austerità che non portano a nulla». Come ha detto un membro del suo partito Syriza, Kostadinka Kuneva, all’agenzia russa Sputnik, per un giorno in Russia il premier greco ha potuto godersi legami «basati sul rispetto reciproco senza imposizioni, come invece avviene con la trojka». Ma la visita in Russia sta per finire. Per Tsipras domani è il ritorno alla realtà.
Il Sole 20.6.15
La società greca tra caos e austerità
di Vittorio Da Rold


Caos o austerità? Accordo o default? Gli iscritti all’associazione giovanile di Syriza, l’elite del piccolo partito della sinistra radicale che conta complessivante appena 30mila iscritti su 2,2 milioni di voti incassati a gennaio, non hanno dubbi: caos e tenere duro contro le richieste di nuove misure di austerità. I giovani in Grecia sono disoccupati al 50%, il doppio delle media Ue, e dopo cinque anni di austerità che ha bruciato loro ogni aspettativa di migliorare la propria esistenza futura non hanno molto altro da perdere. Così sposano la linea dura, quella delle “linee rosse” invalicabili, certi che i creditori hanno molto più da perdere di quanto possa
loro accadere.
Anche le migliaia di famiglie che sono finite sotto la soglia di povertà (si calcola il 30% della popolazione), o quelli che non non hanno più la corrente elettrica e devono vivere di carità della Chiesa ortodossa o assistenza laica di Medecin sans frontières non vogliono cedere: per loro tornare alla dracma o restare nell’euro non fa più nessuna differenza. Come pure paventare lo spettro dei controlli dei capitali, dato che di soldi non ne hanno e vivono della pensione dei nonni, praticamente l’unica forma di welfare a questa latitudini.
La Costituzione materiale dell’Europa, visto che quella reale non ha mai visto la luce poiché è stata affondata dai doppi referendum francese ed olandese del 2005, l’hanno provata sulla loro pelle dopo cinque anni di austerità. E ora non sono affatto disposti a cedere altra sovranità a Bruxelles che all’inizio della crisi nel 2010 diede prestiti ad Atene al 5% di interesse.
Dall’altra parte, invece, ci sono i resti della classe media, polverizzata dai tagli a stipendi e pensioni, dalla devastazione del servizio sanitario, dell’istruzione pubblica e della previdenza sociale. I greci, al 71% secondo i sondaggi, stanno con Tsipras ma vogliono restare nell’euro e nell’Europa. Una contraddizione? Forse, ma ad Atene da 2.500 anni, la chiamano democrazia.
La Stampa 20.6.15
Danimarca in bilico
Il partito anti stranieri decisivo per il governo
Il centrodestra verso l’alleanza con il partito xenofobo
Dopo gli exploit in Svezia e Finlandia tutto il Nord a destra
di Monica Perosino


Mentre l’Ungheria alza un muro anti migranti alto 4 metri, l’Europa del Nord alza barriere invisibili, ma ben più robuste e pericolose di una rete di ferro piazzata sul confine. La Danimarca, il Paese più felice del mondo secondo l’Onu, ha deciso di cambiare rotta e mandare al governo il «Blocco blu» di centrodestra, voltando le spalle alla premier socialdemocratica Helle Thorning-Schmid - che ieri si è dimessa - dopo una campagna elettorale puntata quasi esclusivamente sull’immigrazione.
Alle urne il 52,3% dei danesi ha scelto per controlli alle frontiere più severi, blocco dei permessi di soggiorno e delle domande di asilo, una stretta sugli aiuti ai rifugiati. E così il leader dei liberali di Venstre, Lars Lokke Rasmussen, tornerà a essere di nuovo primo ministro con la vittoria di oltre 90 seggi su un totale di 179 , dopo la bruciante sconfitta elettorale del 2011.
Ma ancora una volta nel Nord Europa è il sorprendente risultato di un partito xenofobo e populista, il Partito del popolo danese - nato negli Anni 90 come movimento contro i musulmani - a decidere i colori e la direzione del nuovo Parlamento. Nessuno si aspettava un esito così clamoroso: 21,1% dei voti che hanno portato il Ppd a diventare il secondo più grande partito dopo i socialdemocratici (26,3%) e il più «pesante» nella necessaria coalizione di governo, dal momento che i liberali di Rasmussen si sono fermati al 19,5%.
La svolta del Nord
La crescita del Partito del popolo danese è solo l’ultimo dei recenti successi elettorali di formazioni caratterizzate da un profondo anti-europeismo e da campagne elettorali e programmi politici centrati sull’ultranazionalismo e sulla «difesa dei confini» dai flussi migratori. Come i Democratici Svedesi e i Veri Finlandesi, anche il Ppd ha fatto leva sulla paura «dell’invasione» e sull’«inevitabile crisi del welfare» nordico.
In Svezia, gli Sverigedemokraterna hanno costretto a un governo di minoranza il premier socialdemocratico Löfven alle elezioni dello scorso settembre (con il 13% delle preferenze, che secondo gli ultimi sondaggi, sarebbero balzate al 19%), reclamando «La Svezia agli svedesi». In Finlandia, I Veri Finlandesi (17,7%) scatenano sentimenti xenofobi tra gli elettori contando sulla paura che l’aumento di rifugiati possa incrinare il sistema del welfare. Ma non è la sola Scandinavia a subire i colpi dei partiti di destra: Le Pen e il suo Front National (al 22%), lo Jobbik in Ungheria, l’Ukip in Gran Bretagna puntano tutti, con diverse sfumature, a garantire e rafforzare lo stato sociale, ma solo per i «loro cittadini».
Il «nemico» Europa
E il passo che porta dal nazionalismo all’antieuropeismo è breve: la dimostrazione di forza dei partiti di destra in Danimarca ha anche fornito a David Cameron un alleato in Europa per rinegoziare i termini di adesione della Gran Bretagna all’Unione. D’Altronde il Ppd cavalca l’antieuropeismo da anni, trascinando il dibattito sul progetto europeo verso posizioni molto vicine a quelle britanniche: meno integrazione e meno solidarietà.
Corriere 20.6.15
La mappa di una crisi
Che fine ha fatto la socialdemocrazia?
La sconfitta in Danimarca (e un anno disastroso): perché la sinistra non vince più
di Maria Serena Natale


«La sinistra non ha altro da proporci che una passeggiata di domenica al centro commerciale?». La domanda è di Martine Aubry, figlia di Jacques Delors ed ex segretario del Partito socialista francese, la donna delle 35 ore. Il destinatario Manuel Valls, l’uomo voluto dal presidente François Hollande alla guida del governo che sta tentando di rilanciare la crescita con manovre liberiste considerate dall’ala sinistra del partito un tradimento dei principi fondatori. Valls, 52 anni, si colloca nel solco della Terza Via, la sintesi di economia di mercato e giustizia sociale che tra i Novanta e i primi Duemila trovò i propri campioni in Tony Blair, Gerhard Schröder, Bill Clinton. La fiducia in se stessa che la sinistra riformista seppe esprimere in quell’epoca si è esaurita.
La sconfitta del governo guidato da Helle Thorning-Schmidt nelle elezioni di giovedì scorso in Danimarca è l’ultimo segnale della progressiva perdita di incisività della socialdemocrazia europea. L’altra faccia del balzo delle destre populiste, spesso legate da un tacito patto di non belligeranza alle destre di governo, è il logoramento delle forze che si richiamano al pensiero socialista sviluppato tra Otto e Novecento come alternativa al comunismo rivoluzionario, quel sistema di teoria e prassi inserito nella dialettica democratica e teso alla riforma del capitalismo dall’interno, non al suo ribaltamento. Un patrimonio che i partiti oggi non sanno aggiornare, indeboliti dalla perdita dei tradizionali sostegni esterni — ceto operaio compatto e organizzato, lotta di classe, la minaccia latente dell’Unione sovietica che costringeva i gruppi di potere a cercare il dialogo con la base sociale. In tempi di erosione della classe media, di esasperazione identitaria come risposta alla globalizzazione e di perenne allarme immigrazione, la strategia dello spostamento al centro si rivela inefficace. Lasciando scoperto il terreno guadagnato da populismi di sinistra che fanno ricorso allo stesso arsenale ideologico e retorico delle destre per intercettare l’urgenza di cambiamento.
A Copenaghen i due principali partiti hanno presentato piattaforme sostanzialmente identiche, con variazioni d’accento su tagli alle tasse, Europa unita (parafulmine prediletto dagli Stati nazionali in declino) e solidarietà. Lo stesso concetto di solidarietà, d’altronde, suona spesso fuori posto nella «società dei consumatori» descritta da Zygmunt Bauman, il sistema culturale improntato all’individualismo consumista che è poi quello delle «domeniche al centro commerciale» della Aubry. Il vero trionfatore delle elezioni danesi è la destra nazionalista ed euroscettica del Partito del popolo, diventato seconda forza con il 21,2% dei voti. «La socialdemocrazia ha scontato l’esperienza di governo all’apice della crisi — dice al Corriere il politologo Kasper Hansen —. Più che la debolezza strutturale delle formazioni tradizionali, è emersa la richiesta di un nuovo modello di società, che potrà essere più verde, protezionista o liberale, e ancora non si vede all’orizzonte».
Quel nuovo modello che continuano a inseguire tanto i tedeschi della Spd, i padri storici della socialdemocrazia europea oggi diluiti nelle coalizioni a guida Merkel, quanto i laburisti britannici che hanno regalato le politiche dello scorso maggio ai conservatori di David Cameron. L’ormai ex leader Ed Miliband è stato accusato di essersi arroccato troppo a sinistra, a dispetto della lezione del blairismo. Che optasse per una maggiore o minore fedeltà al nucleo ideologico delle origini, il partito ha pagato la mancata rifondazione. «Il primo passo per evitare l’estinzione della socialdemocrazia — ha notato l’opinionista Neal Lawson sullo storico settimanale di sinistra New Statesman — è ridefinire il significato di “buona società”. Sì, vogliamo più eguaglianza, ma questo non significa “tv al plasma per tutti”. I socialdemocratici devono parlare d’altro: gestione del tempo, spazio pubblico, ambiente, comunità» (la «buona vita» è stata invece la promessa elettorale dei conservatori). Un partito meno «regolativo», più simile a una piattaforma flessibile e capace di adattarsi alle esigenze in divenire della società.
Una società sempre più diasporica e frammentata che non sa produrre un «pensiero plurale», come diceva Simone Weil, in grado di disinnescare le conflittualità latenti — di natura etnica, religiosa, economica — assumendo la differenza come chiave di lettura della realtà, non come contraddizione da superare. Polarizzazione e aumento del livello dello scontro, anche lessicale, sono elementi che tornano nelle recenti consultazioni. In Polonia è stato eletto presidente Andrzej Duda, l’aggressivo nazionalista che ha spodestato il liberal-conservatore Bronislaw Komorowski. Nei prossimi anni il Centro-Est (che eredita dal passato sovietico dinamiche non confrontabili con quelle occidentali) sarà un laboratorio importante per la sinistra alle prese con disparità economiche sempre più profonde.
Un esperimento politico può considerarsi lo stesso irrompere in Europa di populismi di sinistra che fino a non molto tempo fa erano uno specifico latino-americano. La Spagna di Mariano Rajoy si avvia alle politiche 2015 con l’incognita Podemos, il partito che è l’evoluzione programmatica del movimento degli Indignados e che, insieme a Ciudadanos, alle ultime Regionali ha saputo reinventare una politica della cittadinanza. In Grecia la sinistra radicale di Syriza ha stravolto equilibri storici beneficiando del crollo dei socialisti di Pasok, vittime collaterali della crisi. «I populisti? Fragili come i troll — scrive l’analista norvegese Frank Aarebrot —. Una volta al governo, diventano di pietra».
Corriere 20.6.15
La socialdemocrazia rischia l’estinzione?
Pensieri e parole da ritrovare
di Antonio Polito


Come i dinosauri, anche il gigante della socialdemocrazia rischia l’estinzione? Le dimissioni presentate ieri alla regina di Danimarca da Helle Thorning-Schmidt, la più glamour dei leader della sinistra europea (Renzi escluso), sembrano l’ultimo segno di un destino crudele, e forse irreversibile, che si sta abbattendo sulla storia centenaria del riformismo. La vicenda danese è altamente simbolica. La giovane premier, sposata col figlio di Neil Kinnock, storico capo del laburismo britannico, non esce infatti di scena per una delle solite oscillazioni del pendolo elettorale; ma è stata travolta dal boom di quella destra anti-immigrati che dal circolo polare in Norvegia fino alla linea gotica in Italia sta rubando voti alla sinistra in nome di un «sacro egoismo» nazionale. È il male oscuro che divora le radici di una storia ispirata all’uguaglianza e alla fraternità. Per tenere insieme i suoi valori la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente, ma oggi ne è anche la soma. La spesa pubblica non può più essere la misura della giustizia sociale, e la sinistra riformista non ha ancora trovato un altro modo di finanziarla. A soffrirne di più sono proprio gli elettori del tradizionale blocco sociale progressista. Nei quartieri dove sono nati il sindacato e il movimento cooperativo ora si aggirano disoccupati, giovani maschi arrabbiati, ceti medi impoveriti ed esposti alla concorrenza dei nuovi arrivati per la casa, per il lavoro, per l’assistenza. Nelle società senza poveri, in Svizzera o negli Emirati, i lavoratori stranieri fanno meno paura, anzi, sono accettati come i nuovi servi. Ma non è così a Rotterdam, ad Anversa, o a Dresda. La sinistra riformista ha finora trovato una sola risposta: l’appello alla tolleranza e al cosmopolitismo. Ripete l’antico mantra di Roosevelt, non dobbiamo aver paura che delle nostre paure. Ma la gente ha paura lo stesso. Anche quando non va a destra, è attratta da un nuovo populismo non meno nazionalista, come Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, e Grillo in Italia. La socialdemocrazia sta perdendo la battaglia delle idee. E se un movimento politico smette di saper parlare al presente può anche estinguersi, come successe ai liberali inglesi in pochi anni dopo la Grande guerra, o come profetizza Houellebecq accadrà tra breve ai socialisti francesi. Per quanto Renzi non faccia parte, né per cultura né per stile, della storia della sinistra socialdemocratica, neanche il suo Pd può ritenersi immune da questo sommovimento continentale. Neanche la ripresa economica, di per sé, mette oggi al riparo dalla rabbia e dalla paura. Alla danese Helle, di certo, non è bastata.
La Stampa 20.6.15
Ora l’Europa deve scattare in avanti
di Bill Emmott

Beh, i greci sono famosi da sempre per le loro tragedie così come per le loro doti teatrali, quindi non dovrebbe sorprendere che il lungo dramma sull’adesione della Grecia all’euro stia volgendo a una fine tragica. Questo significa che la Grecia sta per dichiarare il default sui debiti pubblici e lasciare la moneta unica? La risposta è sì, probabilmente lo farà, forse nel giro di pochi giorni. Ma il futuro con ogni probabilità sarà tragico si raggiunga o meno un accordo all’ultimo minuto per tenere dentro la Grecia.
Non è un problema economico o finanziario: se così fosse la somma si potrebbe trovare facilmente dal momento che occorrono solo un po’ più di 7 miliardi di euro per tenere la Grecia nell’euro, finanziando le sue obbligazioni in scadenza. E’ meno di quello che molte grandi banche globali pagano di multa ogni mese alle autorità di regolamentazione europee o americane. Il problema è politico. E colmare le distanze politiche è molto più difficile.
La Germania, sostenuta dagli altri membri dell’Eurozona, inclusi la maggior parte di Paesi poveri come la Slovacchia, sente il dovere di insistere politicamente perché le regole fiscali dell’euro siano rispettate. Il governo greco guidato da Syriza, una coalizione tra un partito di estrema sinistra e un piccolo partito nazionalista, ha promesso agli elettori prima e dopo la vittoria elettorale di gennaio che quelle regole non sarebbero più state imposte alla Grecia. E col passare del tempo e il procedere delle trattative, queste posizioni politiche incompatibili sono diventate sempre più radicate, invece di risolversi.
E con il loro radicalizzarsi e via via che diventava chiaro che non c’era alcun accordo in vista, la situazione economica della Grecia è peggiorata. La produzione economica è di nuovo in calo dopo un breve e debole periodo di crescita nel 2014. Anche le entrate pubbliche, di vitale importanza per pagare le pensioni e gli stipendi, nonché per rispettare gli obblighi del debito, sono in calo perché molti greci, sia privati sia a livello istituzionale, non pagano le tasse. E i correntisti stanno ritirando miliardi di euro dalle banche greche.
In breve, la Grecia sta morendo dissanguata. In tali circostanze, il tempo non è dalla sua parte. Ecco perché è molto probabile che nei prossimi giorni, o al massimo entro la fine di questo mese, il governo greco dovrà introdurre controlli d’emergenza per fermare il flusso di capitali in uscita dal Paese, probabilmente nazionalizzando le banche o almeno vietando i prelievi fino a nuovo ordine.
Una tale mossa potrebbe essere presentata come una mera sospensione dei flussi finanziari, mentre proseguono i negoziati. Ma in effetti sarà l’inizio del ritiro della Grecia dall’euro o porterà al rovesciamento del governo di Alexis Tsipras e di Syriza. Perché, ancora una volta, il tempo non è dalla parte della Grecia. I cittadini greci avranno anche esultato in un primo momento, quando il loro giovane primo ministro ha alzato la voce contro i bulli tedeschi. Ma se iniziano a non ricevere la paga, o a non poter accedere ai loro conti correnti, o a realizzare che i loro risparmi in euro stanno per essere pesantemente svalutati con il passaggio alla nuova dracma, ecco che la politica svela il suo volto sgradevole. E si prospettano violenza, o nuove elezioni, o entrambe le cose.
L’esperienza dell’Islanda, che ne 2009 fallì, ma da allora si è ripresa, dimostra che un Paese può sopravvivere al fallimento, può svalutare in modo significativo la sua valuta e, infine, ristabilire la salute economica e sociale. Ma il percorso è doloroso e comporta grossi rischi politici. La legge e l’ordine potrebbero saltare. Parti delle città greche, tra cui Atene, potrebbero finire sotto il controllo delle gang o del partito di estrema destra Alba Dorata. I pericoli sono considerevoli.
Per questo motivo, se la Grecia si troverà fuori dall’euro probabilmente riceverà almeno qualche sostegno finanziario dal buon amico del signor Tsipras, Vladimir Putin, e dalla Russia. Il che significa che anche gli Stati Uniti potrebbero concedere a loro volta un sostegno finanziario di «emergenza». Il primo caso preoccuperebbe l’Unione europea. Il secondo la umilierebbe.
All’interno della zona euro, gli effetti economici di un’uscita di scena della Grecia è probabile che siano poco significativi: la Banca centrale europea può assicurarsene inondando di denaro i mercati. Ma a contare di più, nel lungo termine, saranno gli effetti politici. Il dramma greco rafforzerà i partiti anti-euro come la Lega Nord, il Fronte Nazionale in Francia e probabilmente il partito fratello di Syriza in Spagna, Podemos. Le elezioni del 18 giugno in Danimarca, con l’ascesa al secondo piano del partito popolare danese, ostile agli immigrati, dimostra come i partiti populisti di protesta rimangano forti.
Di conseguenza, la migliore risposta da parte della Germania e dei Paesi creditori dell’Eurozona potrebbe essere quella di far seguire all’uscita della Grecia il lancio di una nuova iniziativa per vincolare l’uno all’altro i membri dell’euro rimasti. Idealmente, questa consisterebbe in un grande pacchetto che combini una nuova spinta per la liberalizzazione basata sul mercato unico, un forte programma di investimenti pubblici per la costruzione di infrastrutture, e, soprattutto, in ultimo, l’introduzione di Eurobond sottoscritti collettivamente per sostituire almeno una quota dei debiti sovrani dei Paesi.
Rendendola finalmente una vera unione monetaria, in cui tutti i membri condividono la responsabilità collettiva per i debiti pubblici, un’iniziativa del genere servirebbe a preservare e rafforzare l’euro. Ma ci vorrebbe un grande coraggio politico da parte del cancelliere Angela Merkel in Germania – un coraggio che fin qui non ha dimostrato durante la lunga tragedia greca.
traduzione di Carla Reschia