sabato 13 novembre 2010

l’Unità 13.11.10
Alle paritarie 245 milioni, cento in più dello scorso anno. Il 5 per mille ridotto a un quarto
Un governo in bolletta dà più soldi alla scuola privata
di Bianca Di Giovanni


Al via il voto in commissione sulla legge di Stabilità. Atteso per oggi il varo per l’Aula. È scontro sui fondi per le paritarie e sui tagli al 5 per mille. Botta e risposta Gasparri-Napolitano. Mpa ancora in prima linea sui Fas.

Sulla legge di Stabilità torna a parlare il Quirinale. Stavolta per rintuzzare le recriminazioni avanzate da Maurizio Gasparri. «Facile esternare, più difficile governare i conti e tenere ferma la spesa», aveva detto il senatore del Pdl. «Il Presidente della repubblica non ha mai sostenuto che “non bisogna fare tagli” alla spesa pubblica», -ha ribattuto il Colle in una nota. Giorgio Napolitano in realtà, aprlando l’altroieri a Padova, aveva messo l’accento su un altro tema, di fatto decisivo per il «gioco» della politica: cioè il «vuoto di riflessione e di confronto sulla questione cruciale: quella delle scelte da compiere e delle priorità da osservare nella destinazione delle risorse pubbliche».
TAGLI SUI PIÙ DEBOLI
Proprio sulle priorità da seguire si è scatenata infatti la bagarre politica nel primo giorno di voto in commissione Bilancio alla Camera. Nella nottata il governo ha depositato la destinazione dettagliata del fondo da 800 milioni, che altrimenti avrebbe rischiato l’inammissibilità. dalla lista delle voci è emerso che alla scuola paritaria sono destinati 245 milioni, quasi il doppio dell’anno in corso (130 milioni), mentre al 5 per mille an-
Francesco Boccia, Pd
dranno appena 100 milioni, quattro volte meno di quanto stanziato nell’anno in corso. Il tutto dopo aver sostanzialmente azzerato tutti i fondi destinati al siociale che avevano creato i governi di centrosinistra. Un taglio di oltre l’80% nel giro di un paio d’anni. Queste le priorità del centrosestra: fare cassa facendo pagare solo i più deboli. Dopo le tariffe dei treni, oggi arriva la sforbiciata all’associazionismo. A questo si aggiungono i pesanti tagli alla sanità, che restano una spada di Damocle sui servizi alle famiglie, nonostante lo stanziamento per eliminare (solo per qualche mese) il ticket sulla diagnostica. Insomma, i più deboli dovranno vedersela da sé per trasporti, servizi, aiuti. Lo Stato se ne va. «Con i tagli al 5 per mille il governo ha messo un altro tassello nella sua strategia di togliere a chi ha più bisogno ha attaccato ieri Rosy Bindi stanziare solo 100 milioni è offensivo perché nessuna associazione potrà portare avanti i progetti di stampo sociale o di ricerca condotti in questi anni e nessuno di conseguenza potrà beneficiarne. Con l'elemosina non si può parlare di sussidiarietà».
Lo Stato se ne va anche dall’istruzione. Aiuta le scuole private, mentre le pubbliche hanno subito già una «cura dimagrante» di 8 miliardi in tre anni, con la cancellazione di qualche centinaio di milioni. «Il governo in agonia completa l’opera di demolizione dell’istruzione pubblica», commenta Mimmo Pantaleo, Flc-Cgil. «Gelmini pensa di salvarsi l’anima, ma dimentica la scuola pubblica», aggiunge Francesca Puglisi del Pd.
Intanto il voto in Commissione inizia con un brivido. Mpa e Fli insistono per distribuire i Fas per il trasporto pubblico locale con la specifica dell’85% di risorse a Sud (come prevede la legge). Il relatore in extremis recupera la formulazione,

l’Unità 13.11.10
Camusso: Cgil con i giovani non più disposti a tutto
di Bruno Ugolini


I manifesti «anonimi» di cui abbiamo parlato celavano la prima iniziativa del sindacato a guida Camusso. Partire dai giovani «invisibili» contro gli attacchi autoritari allo Statuto dei lavoratori.

L’arcano è svelato. Chi ha inondato il web, ma anche le mura delle città con ironici annunci di offerte di lavoro ai precari? Chi ha sottoposto alla pubblica opinione la condizione di una generazione di invisibili? La Cgil di Susanna Camusso. Il neo-segretario del sindacato italiano maggioritario (checché ne pensino Sacconi e Marchionne) ha dato un altro tocco, con questa iniziativa, al proprio biglietto da visita. Lo svelamento è avvenuto durante una conferenza stampa in un cinema romano dove la stessa Camusso, circondata dai giovani della Cgil, ha dato l’annuncio. I promotori sono stati proprio loro, i giovani cigiellini, capeggiati da Ilaria Lani. Hanno dato vita a quella che gli appassionati telematici chiamano, un po’ pomposamente, «Social Guerrilla», una campagna sistematica, circondata da un alone di mistero. È iniziato così un dialogo di massa che ha visto la partecipazione, in poco più di un mese, di oltre 70 mila visitatori al sito «Giovani disposti a tutto» e circa seimila aderenti all’apposita pagina di Facebook. Ragazze e ragazzi che non si sono limitati a leggere, ma che hanno scritto, discusso, interloquito (ben 1.188 commenti e messaggi in bacheca su Facebook). È stata come una pièce teatrale divisa in due tempi. Se nel primo atto i giovani promotori anonimi erano “disposti a tutto” nel secondo (con nuovo sito: www.nonpiu.it) gettano la maschera, pubblicano il talloncino rosso della Cgil, avanzavano alcune proposte (forse un po’ troppe). Ne citiamo alcune: la tassazione delle rendite, investire in ricerca e green economy, puntare sul sistema conoscenza, sbloccare le assunzioni nella scuola, sorpassare le molteplici tipologie di lavoro, aggancio delle retribuzioni di lavoro atipico ai contratti collettivi nazionali di lavoro, un periodo massimo di utilizzo per gli stage, indennità di disoccupazione a tutti i giovani e precari, contribuzione per tutte le tipologie di lavoro e cumulabilità dei contributi versati, garanzia dei versamenti contributivi anche durante i periodi di disoccupazione.
Con l’intenzione di passare dal web alla piazza. Così si è dato vita a  quello che chiamano «FlashMob», forme improvvisate di protesta. Già si sono svolte a Firenze e a Roma davanti a Montecitorio. Altre sono previste a Napoli, Parma. L’appuntamento principale è però a Roma, il 27 novembre, nella giornata nazionale organizzata dalla Cgil. Un appuntamento dedicato in modo particolare al futuro e ai giovani. Anche per questo, come ha affermato Ilaria Lani, saranno organizzati ovunque comitati locali di sostegno. La manifestazione cadrà in un momento di grande suspense per il Paese, mentre dal centrodestra proviene, proprio sui temi del lavoro, un attacco senza precedenti. Susanna Camusso ha citato la volontà autoritaria di cancellare non solo l’articolo 18 bensì l’intero Statuto dei lavoratori. È l’offensiva promossa da chi ha in mente un’idea di società «insopportabile».
Ecco perché è importante quel dialogo partito dal Web. Un’iniziativa che testimonia, ha spiegato Camusso, come nella Cgil non tutto sia diretto dall’alto, ma esistano spazi di autogestione. L’organizzazione, per la prima volta nella storia diretta da una donna, cerca le strade del rinnovamento adottando, come in questo caso, anche un linguaggio nuovo. «Non è stato un modo per nascondersi, ma per essere protagonisti in un altro modo». La Cgil intende così contribuire ad abbattere alcuni pregiudizi che coinvolgono il sindacato spesso considerato solo una specie di fortino degli anziani.
DIALOGO CON I GIOVANI
Il dialogo messo in atto con giovani che spesso rifuggono dal contatto sindacale e che è difficile incontrare perché intrisi di «solitudini», ora potrà proseguire anche in altre forme, anche attraverso la contrattazione sindacale. Non sarà facile, visto i tempi che corrono, con un padrone italo-canadese che addirittura ipotizza soluzioni fascistiche come la espulsione della Cgil dalle fabbriche. Una ragione di più per far diventare quell’adesivo rosso creato da giovani («che animano e abitano la Cgil») un simbolo generale da applicare su se stessi e ovunque. Potrebbe essere adottato anche dai metalmeccanici, da portare a Roma il 27: «Non più disposti a tutto».

l’Unità 13.11.10
Pasolini? Di sinistra ma capiva la destra
di Bruno Gravagnuolo


Pasolini fra destra e sinistra? Il quesito può apparire incongruo e senza senso. Fatti salvi ovviamente i critici di estrema sinistra di sempre alle idee di Pier Paolo Pasolini: Gruppo 63, lo scomparso Sanguineti, Asor Rosa. Invece il quesito un significato ce l’ha. Perché serve a inoltrarsi in una storia letteraria e di vita, fatta di originalità creativa e persino «profetica». E poi perché la vicenda fu accompagnata da ostilità e imbarazzi a sinistra, e da odio a destra, con tardive eccezioni, fino alla riabilitazione che oggi spinge il Secolo d’Italia a scorgere nel poeta un autore di destra, un «profeta reazionario» alla Pound.
Come stanno le cose? Per capirlo occorre leggere il libro appena uscito che qui vi presentiamo: Una lunga incomprensione. Pasolini fra destra e sinistra (pr. di Giacomo Marramao, Vallecchi, pp. 342, Euro 16). Scritto da due autori distantissimi, uno di sinistra l’altro di destra, entrambi non pentiti. Che frequentarono anche personalmente il poeta delle Ceneri di Gramsci: Gianni Borgna e Adalberto Baldoni. Il primo già assessore alla cultura con Veltroni, leader della Fgci romana  segnato da un tormentato rapporto col Pci, che pure lo espulse nel 1947, a causa della sua omosessualità. Il che non impedì a Pasolini di professarsi sempre comunista, sebbene in una chiave eretica, apocalittica e nostalgica al futuro di una comuntà di relazioni fraterne ed emancipate, non violente. Proprio l’incontro con i giovani del Pci all’inizio dei 70, che Borgna ci narra in modo appassionato (c’erano Veltroni, Bettini, Lucio Caracciolo, Adornato, oltre a Borgna negli incontri in Via Eufrate col poeta), contribuì a reinserire Pasolini nel rapporto col Pci. Fino al giorno inatteso del suo omicidio oscuro, il 2 novembre 1975. E quegli incontri stanno a testimoniare dell’intelligenza di una Fgci che capiva la crisi del comunismo e si apriva a una diversa idea di sinistra: laica, libertaria, critica dell’omologazione consumista. Interessata alla dignità della «soggettività» e all’autonomia dell’arte. Dentro il nesso con la storia e la liberazione dei subalterni (quel che il Pci era e restava).
Tesi di Baldoni: Pasolini fu maledetto a torto dalla destra italiana, che ne fece la sua bestia nera morale («omosessuale», «comunista», «elitario»). Baldoni stesso racconta di aver tirato uova marce alla prima di un film di Pasolini e di essersi accodato al coro spregevole di allora. Prima di farsi artefice ante litteram della scoperta di Pasolini a destra, in articoli e in un libro Noi rivoluzionari, che usavano vari argomenti per quella riabilitazione. La critica di Pasolini ai giovani del 1968. Il (presunto) superamento della distizione destra/sinistra nel Pasolini critico del Potere degli Scritti corsari. Infine la memoria del passato, le radici e i luoghi e il populismo che tralucevano dal pathos verso gli umili. Buoni argomenti, sbagliati altresì. Perché quello di Pasolini era e restava un populismo non violento teso pur sempre al riscatto dei subalterni dal dominio. Se si vuole, un populismo tolstojano apocalittico contro i consumi e la modernità degenerata. Tragico e un po’ alla Walter Benjamin. Preveggente sul «nuovo fascismo» light ed edonista alle porte. E la sua era una sintesi di sinistra, poetica. Che come ogni forte pensiero di sinistra capisce anche ragioni e sentimenti della destra. Senza farsi irretire. Forse anche per questo «scandalo» la sua morte fu catalogata come banale incidente di percorso di un omosessuale. Tutto più facile così.
Che rapporti aveva con la politica italiana?
«Una lunga incomprensione. Pasolini fra Destra e Sinistra» di Adalberto Baldoni e Gianni Borgna (Vallecchi editore, pagine 342, euro 16,00) per capire Pier Pasolini da che parte stava: a sinistra o a destra? Baldoni e Borgna ricostruiscono per la prima volta in questo volume la «lunga incomprensione» che caratterizzò i rapporti tra Pasolini e la cultura politica italiana, ma anche l’attenzione con cui molti giovani di tutto il mondo si confrontarono e si confrontano ancora con le sue idee e con il suo lavoro.

il libro di Belpoliti
Repubblica 13.11.10
Gustatevi tutte le salse di Pasolini
Il gusto della bellezza è determinante nella vita. Ammiro le artiste e la loro forza di imporsi
di susanna Nierenstein


Lo scrittore e saggista Marco Belpoliti usa principalmente tre tipi di titoli. 1. Nomi propri, come per il romanzo Italo, per la monografia Primo Levi e per i numeri della rivista Riga che dirige con Elio Grazioli (ultime uscite: Gianni Celati, Kurt Schwitters; Roland Barthes). 2. Singole parole (Crolli, Settanta), anche articolate (La prova) o appena modulate (Doppio zero; Senza vergogna). 3. Titoli in cui si riuniscono le due modalità: L´occhio di Calvino; La strada di Levi; La foto di Moro. Non fanno eccezione Il corpo del capo o il Diario dell´occhio perché in entrambi i casi il nome comune è un´antonomasia: il Capo è Berlusconi, l´Occhio è quello dello stesso Belpoliti.
Quest´ultima è anche la categoria del nuovo Pasolini in salsa piccante (Guanda). Non tutti indovinano al primo colpo la relazione fra Pasolini e la salsa piccante: è dunque un titolo almeno in parte «teaser», stuzzica la curiosità. Soluzione: lo stesso Pasolini ha detto (ha fatto dire al corvo di Uccellacci e uccellini) che «I maestri si mangiano in salsa piccante», piccante per digerirli meglio.
Da un insolito accostamento Belpoliti ha ricavato così un titolo autoreferenziale, che fa già quello che annuncia. Usa una frase di Pasolini per suggerire di trattare Pasolini con meno solennità e vittimismo, in modo da capirlo meglio e, alla fine, meglio assimilarne la lezione. Prosit.

l’Unità 13.11.10
Abbado: “Così non va... Facciamo musica insieme”
Il Sistema Abreu sbarca in Italia, contro il disagio sociale
di Claudio Abbado


Oggi alla Scuola di Musica di Fiesole un convegno presenta il «Sistema nazionale di orchestre e cori giovanili», progetto per combattere il disagio sociale insegnando musica e promosso da Abbado. Ecco il suo saluto.
D esidero     salutare    tutti    gli amici qui riuniti per un progetto nel quale convivono due aspirazioni. La prima è quella di rendere omaggio a José Antonio Abreu e alle sue realizzazioni. Abbiamo cercato, con alcuni amici musicisti, di accrescere e rafforzare ulteriormente «El Sistema» da lui ideato in Venezuela, che coinvolge un numero enorme di ragazzi: oggi sono più di 400.000 e oltre 2 milioni dall’avvio del progetto 35 anni fa. Abbiamo portato la nostra esperienza facen-
Maestro Claudio Abbado do concerti, insegnando, avvicinando sempre più musicisti europei che andassero in Venezuela a portare il proprio contributo. La seconda aspirazione è quella di aiutare a trasferire in Italia i principi fondamentali del Sistema Abreu. Tant’è vero che, a imitazione del modello venezuelano, in ogni Regione italiana sono già sbocciate molte realtà che è bene ora portare in un alveo comune. I motivi per i quali è urgente e necessario importare nel  nostro paese questa realtà sono di-
versi. In primo luogo perché «così non va», qualcosa, nella nostra società, va fatta. Non sono purtroppo assenti, anche da noi, sacche di povertà e disagio dove le prime e più vulnerabili vittime sono i ragazzi. Basterebbero gli esempi segnalati da Roberto Saviano, altra persona a cui tutti dovremmo rispetto per il coraggio con cui continua a denunciare queste situazioni. E allora ecco che fare musica insieme, studiarla e praticarla sono tutti strumenti che rendono possibile il riscatto. Abreu lo ha dimostrato. Una seconda ragione, non meno importante. La gioventù è stata letteralmente depredata da prospettive credibili, per le quali valga lo sforzo e la gioia della realizzazione. Non solo chi è nel disagio, ma forse ancor più chi abita il benessere, viene manipolato per diventare un conformista, un animale compratore, un ebete che si nutre solo di superficialità. Una vita piena di musica e di cultura è sicuramente un argine a tutto ciò. Chi ha avuto il privilegio di crescervi faccia, come proviamo a fare oggi, qualcosa perché altri vi crescano a loro volta.


Repubblica 13.11.10
Amo Israele ma combatto l´illusione delle colonie
Gli insediamenti hanno creato uno stato di apartheid: chi ci vive rifiuta di vederlo
Non si può parlare di letteratura quando si umilia la gente e la si priva dei diritti umani
di David Grossman


"Niente artisti nei Territori occupati amo Israele, ma basta colonie"
Appello di Grossman contro il teatro nell´insediamento di Ariel

La parola "boicottaggio" non compare nella petizione firmata finora da 51 attori, registi di teatro e altri artisti contro il centro culturale di Ariel. Quella del boicottaggio è un´arma grave ed estrema che evoca echi amari nella memoria collettiva ebraica. Considero questa petizione una richiesta di astensione: astensione da qualsiasi iniziativa che oscuri il fatto che Ariel sorge in una zona occupata e la sua esistenza crea una realtà che rischia di portare lo Stato di Israele alla catastrofe. Anche se i coloni proclameranno giorno e notte con squilli di tromba che Ariel esisterà in eterno non saranno in grado di nascondere la loro situazione problematica, sia sul piano morale che pratico, e nemmeno il pericolo – nato dall´enorme e avventata scommessa politica alla base dell´ideologia degli insediamenti – che corre Israele.
Da quando ho scritto Il vento giallo rimango sbalordito dalla capacità di negazione dei coloni che consente loro di convivere con le profonde contraddizioni della situazione in cui si trovano. I più sono indubbiamente lucidi e realistici e le ragioni della loro presenza nei territori occupati non sono sempre ideologiche.
Quindi, il meccanismo psicologico che gli consente di mantenere una vita all´apparenza normale, civile e anche del tutto "borghese" nel cuore di territori occupati, ostili e pieni di violenza, in mezzo a circa due milioni di persone che vivono in condizioni di oppressione e di umiliazione (in larga misura a causa della presenza degli insediamenti) mentre gran parte del mondo si oppone alla loro scelta e alle loro azioni, è estremamente affascinante.
In generale, sembra che quanto più l´ideologia degli insediamenti diventa infondata e pericolosa tanto più i suoi sostenitori sono quasi condannati a esaltarla, a investirla di un sacro senso di missione. A volte mi chiedo se questo sforzo nasca anche dalla paura che filtra in loro, a dispetto di tutto, proprio a causa del loro essere persone lucide, realistiche e corrette in qualunque altro ambito della vita. Una paura causata dalla realtà insostenibile e suicida che il loro modo di agire sta imponendo al paese e a loro stessi.
Se infatti i coloni negano completamente questa realtà insostenibile, nonché le conseguenze dello stato di apartheid che hanno creato, ciò significa che hanno semplicemente e letteralmente perso il contatto con essa. È quasi divertente vedere come, prigionieri del proprio sogno, definiscano "deliranti" o "pazzoidi" i loro oppositori; e la loro paura del risveglio è comprensibile. Quando gli si pone davanti uno specchio che riflette in modo semplice e chiaro l´assurdità e l´avventatezza del processo storico da loro avviato e condotto, non sono in grado di sopportarlo e si fanno prendere da una rabbia parossistica. La petizione è un simile specchio.
Personalmente non "boicotto" i residenti di Ariel, o nessuno dei coloni. Sono interessato a dialogare con loro e nel corso degli anni ho partecipato a numerosi incontri a tale scopo. In gran parte incontri avvincenti e preziosi ma, purtroppo, inutili. Riuscivano a dissipare la diffidenza e l´ostilità, a risvegliare un senso di affetto e di stima, ad abbattere i reciproci stereotipi, ma nessuno dei partecipanti si discostava dalle proprie posizioni. In fin dei conti, anche dopo quattro decenni di dialogo, l´occupazione continua a essere sempre più profonda e ramificata e molti israeliani, tra cui due generazioni già nate in questa realtà, considerano Ariel e tutti i Territori occupati parte legittima e naturale dello Stato di Israele senza capire il motivo di tanto baccano.
La nostra petizione intende minare e scuotere questa illusione, questa menzogna, che è stata ripetuta talmente tante volte da cominciare ad apparire verità. C´è un gruppo di persone qui in Israele, me incluso, per il quale lo Stato ebraico è prezioso quanto la propria anima. Non siamo disposti a rimanere in silenzio quando vediamo il nostro paese dirottato verso il delirio e il fascismo e siamo pronti a pagare un prezzo per la nostra presa di posizione, che sapevamo fin dal principio quanto fosse impopolare. Non demonizziamo i coloni né idealizziamo i palestinesi e conosciamo bene i pericoli e le minacce che Israele deve affrontare. E proprio per questo ci è difficile comprendere come l´ideologia degli insediamenti possa far progredire Israele verso il futuro che merita. Proprio per questo ci mobilitiamo e alziamo un grido.
Sarò felice di condurre un dialogo con i coloni di Ariel qui, in Israele, a casa. Il pensiero di organizzare una "serata letteraria" nel cuore dei Territori occupati, quando a così poca distanza vive gente perennemente umiliata, privata della libertà e dei fondamentali diritti umani, mi appare infatti scandaloso e ripugnante. So bene che ci sono argomenti e ragioni, alcuni molto pesanti, a sfavore della pubblicazione di tale petizione, ma a volte ho il sospetto che alcuni di questi argomenti non siano altro che pretesti per astenersi da un´azione che comporta un caro prezzo a livello personale. E forse, proprio a causa di questa indecisione infinita ed estremamente cauta nell´operare una scelta dolorosa tra i pro e i contro, la maggioranza moderata in Israele ha permesso a una situazione tanto estrema di mettere radici.
Più volte, questa settimana, ho sentito gente che, pur identificandosi con il contenuto della petizione, ritiene che pubblicarla sia stato un "errore tattico". Anche questo è un problema: i sostenitori della pace che temono di essere sospettati di "slealtà" sono sempre più impegnati con la tattica, mentre la destra e i coloni portano avanti una strategia. Sono pochissimi coloro che sono entrati nel merito delle semplici e risolute affermazioni apparse nella petizione. La maggior parte degli israeliani ha reagito con grande sconcerto non alla petizione stessa bensì - così pare - all´ansia che questa ha suscitato e alla sua pretesa nei loro confronti.
Per confrontarsi veramente con il suo contenuto occorre spazzare via l´ondata di kitsch nazionalista che sommerge il paese e lo spinge verso angoli malati e pericolosi. In fin dei conti, se si esamina lucidamente l´incredibile ginepraio entro il quale gli insediamenti hanno spinto Israele e i disastri che possono ancora causare, forse sempre più israeliani avranno il coraggio di reclamare il diritto, un tempo dato per scontato, di vivere in un paese concepibile e realistico.
Ma perché questo avvenga, come i firmatari della petizione hanno cercato di sottolineare, occorre agire, tracciare una linea e colorarla di verde.
(Traduzione di Alessandra Shomroni)

Repubblica “13.11.10
Sono ebreo, non opero un neonazista"
Germania, un chirurgo interrompe l´intervento: il malato aveva tatuata una svastica
Opinione pubblica divisa: "Così ha tradito il giuramento d´Ippocrate"
di Andrea Tarquini


BERLINO La Memoria dell´Olocausto è tanto forte da poter spingere un medico a tradire il giuramento d´Ippocrate, cioè il dovere di curare qualsiasi malato. È accaduto nella ricca Paderborn, in Germania. Un chirurgo di origini ebraiche, visto il tatuaggio nazista del paziente in sala operatoria, si è rifiutato di operarlo.

Ha obiettato ragioni di coscienza, ha informato la moglie del paziente, e ha chiesto e ottenuto che un collega presente anche lui in sala effettuasse l´intervento. Il quale poi è andato a buon fine, ma i media e l´opinione pubblica si dividono. Si chiedono se la reazione del chirurgo meriti comprensione e sia quindi giustificabile, o se la sua scelta di venir meno al suo dovere sia da sanzionare in nome dell´etica medica e dell´etica in generale.
L´evento è stato raccontato ieri da Bild online, l´edizione internettiana del quotidiano più letto d´Europa, appunto la Bild del gruppo Springer. È andata così: all´ospedale di Paderborn, prospera cittadina di antiche tradizioni nel Nordreno-Westfalia, ci si preparava a un intervento di routine. La notizia apparsa sul sito (www. bild. de) non specifica di quale operazione chirurgica il paziente avesse bisogno. E ovviamente non fornisce nessun nome, né del chirurgo, né dei suoi colleghi che lo hanno sostituito in sala operatoria, né del paziente e della sua famiglia. Le leggi tedesche sulla privacy infatti sono tra le più severe del mondo, e infrangerle è un rischio molto serio, che i media ai assumono solo o quasi solo quando gli scandali o le notizie riservate riguardano i vip della politica, dello spettacolo o dello sport.
Quanto è accaduto a Paderborn invece è, in un certo senso, storia di uno scontro tra gente comune, sconosciuti della porta accanto, anche se improvvisamente divisi dal capitolo più tragico della storia tedesca ed europea contemporanea. Ci si preparava a un´operazione di routine (forse un´ernia, o un´appendicite, o la terapia di ferite causate da un incidente stradale). Ma quando il paziente è stato portato sul tavolo operatorio, il chirurgo, un quarantaseienne appunto di origini ebraiche, ha visto l´enorme tatuaggio nazista sull´avambraccio del paziente. Cioè un´aquila del Reich appollaiata su una croce uncinata.
A quel punto il chirurgo non ci ha più visto. Ha chiesto al collega al suo fianco di operare lui, è uscito dalla sala operatoria, è andato direttamente a parlare con la moglie del paziente, che attendeva la fine dell´intervento. «Io non opererò suo marito, signora, non posso, perché sono ebreo, la mia coscienza non me lo permette». L´altro chirurgo ha preso il suo posto, tutto è andato bene. Non si sa se il paziente abbia protestato o sporto denuncia, ma forse potrebbe non convenirgli. Per quanto anche l´omissione di soccorso sia perseguita con severità, nella Repubblica federale qualsiasi esibizione di simboli nazisti è reato penale.

venerdì 12 novembre 2010

Repubblica 12.11.10
Il tramonto del demiurgo
di Guido Crainz


È sempre più diffusa la consapevolezza di esser di fronte non solo al declino di un leader o di una proposta politica ma all´esaurirsi di una fase intera della storia del Paese, iniziata già prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Ma quando era iniziata, cosa ha significato nel vivere collettivo, quali sono i rischi e le opportunità che il suo declinare ci pone di fronte?
Alla lunga distanza appare sempre più chiaro il significato fortemente simbolico della cerimonia funebre in onore di Aldo Moro, nel maggio del 1978: venne forse sepolta allora un´intera stagione della Repubblica. Terminò forse allora la fase in cui gli aspetti positivi del "sistema dei partiti", il loro essere protagonisti reali dello sviluppo nazionale avevano sostanzialmente prevalso su quelli negativi. Avevano in qualche modo offuscato o lenito i processi distorsivi che si erano delineati già negli anni sessanta e settanta. Nella stretta degli anni di piombo, e nel contemporaneo venir alla luce di gravi processi di corruzione e di degenerazione delle istituzioni, quella fase stava volgendo ormai al termine e nella sua agonia prendevano sempre più corpo nuovi modi di essere della politica e della società. Nello scenario che allora si aprì Bettino Craxi fu l´alfiere più deciso e consapevole di una trasformazione destinata a coinvolgere largamente il sistema dei partiti, in sintonia profonda con pulsioni presenti nell´insieme del Paese. E non capiremmo né il "craxismo" né il suo legame con ciò che è venuto dopo senza por mente alla più generale mutazione degli orizzonti e dei comportamenti collettivi che si delinea negli anni ottanta. Quegli anni ci appaiono non tanto espressione e simbolo della nostra modernità –come spesso si dice- quanto della pessima qualità etica e civile di essa. Vedono il prepotente diffondersi di un modo di "essere italiani" che è sempre più debolmente contrastato da altri modelli, da altri modi di intendere l´appartenenza nazionale, pur presenti e operanti. E´ nell´insieme della società che viene sempre più erosa l´idea di "bene comune": a questo rinviano sia l´impetuoso irrompere della Lega delle origini sia l´esteso verminaio che le indagini di "Mani Pulite" rivelano.
Anche allora, anche agli inizi degli anni novanta la riflessione sulle tragedie e sulle macerie di un sistema politico e di un Paese fu presto accantonata, nel diffondersi di nuovi miti e di nuove illusioni. Nella aspettativa, se non nella certezza, di un nuovo "miracolo italiano" destinato a fiorire su quella macerie. La demonizzazione della "prima repubblica" permetteva di rovesciare sul sistema dei partiti ogni responsabilità del disastro mentre la discesa in campo di Silvio Berlusconi offriva riferimento e approdo a quei modelli di egoismo sociale e di sprezzo delle regole, a quelle modalità di affermazione individuale, a quelle visioni di sé e del mondo che si erano consolidate negli anni ottanta. Non aveva dunque radici fragili l´Italia che si strinse attorno al Cavaliere, e naturalmente la sua ampiezza e il suo spessore sono fortemente cresciuti in questi anni. Nonostante i limiti e il profilo non eccelso del premier, nonostante il periodico offuscarsi del suo carisma.
Non riusciamo a spiegare il lungo permanere di questa egemonia solo con le inadeguatezze (enormi) dello schieramento che gli si è contrapposto. Solo con l´incapacità del centrosinistra di contrapporre modelli di "buona politica" al dilagare di un populismo senza regole. Nel momento in cui la crisi del "berlusconismo" appare irreversibile non andrebbe ignorato che per un´ampia parte degli italiani –piaccia o non piaccia– Silvio Berlusconi era apparso come il demiurgo di una nuova fase. Aveva annunciato una nuova era, riproponendo quell´ (irresponsabile) ottimismo degli anni ottanta alla cui ombra erano stati erosi pilastri essenziali del modo di essere e della legalità del Paese. Di nuovo una illusione, certo. Una nuova, rassicurante ideologia che ha dato ulteriore alimento ad alcuni dei modi peggiori di "essere italiani". Una illusione sinceramente condivisa, però, da consistenti settori sociali che hanno poi visto crollare progressivamente quelle aspettative e sono esposti ora al disincanto se non al rancore, e alla ulteriore chiusura negli egoismi individuali e di ceto.
Un "crollo delle aspettative" di diversa natura ma altrettanto profondo segna anche quella parte del Paese che a lungo ha tentato di opporsi allo "spirito del tempo". Quella che ha sperato in un diverso futuro e per esso si è mobilitata più volte, in differenti e molteplici forme. E ogni volta ha visto andare deluso quell´impegno, ha visto scolorire la speranza che il centrosinistra sapesse raccogliere adeguatamente quella volontà e quella spinta. Sapesse proporre un´alternativa credibile. Non è paradossale allora che al declinare della maggioranza non corrisponda oggi una crescita di consensi per l´opposizione, né che appaiano sfuocate tutte le ipotesi e le formule politiche che sono state evocate in questo periodo.
Per tentare di uscire dal fango attuale, per rimettere in moto energie positive, occorre indubbiamente una larga alleanza, convergente su alcuni obiettivi essenziali (in primo luogo il ripristino delle regole e uno sviluppo equilibrato, con priorità a istruzione e lavoro), ma su quali basi? È stata evocata una "unità da Cln", ma al di là di ogni altra considerazione il paragone è fuorviante: quei partiti erano legittimati dalla Resistenza, quelli attuali sono il risultato di anni di involuzione politica. Per iniziare a porvi argine dovrebbero dare fortissimi segnali di coraggio, di lungimiranza e di discontinuità. Cominciando ad esempio col riconoscere l´esigenza di una leadership autorevole – un candidato premier e una possibile squadra di governo da lui scelta, come vuole la Costituzione- caratterizzata da un programma condiviso ma largamente autonoma dai loro quotidiani veti e vincoli. Certo, sarebbe un colpo d´ala oggi quasi impensabile, ma senza un grande colpo d´ala sarà molto difficile vincere un confronto elettorale non lontano. Soprattutto, sarà molto difficile convincere realmente il Paese. Infondergli la fiducia, le motivazioni e le speranze necessarie per invertire una lunga deriva. Per riprendere il cammino.

Repubblica 12.11.10
Distratto un´ora su due la vera fuga del cervello
Dall´Università di Harvard uno studio sul perché ci si distrae Solo il sesso e i figli mantengono i pensieri aderenti alla realtà
di Elena Dusi


Al lavoro, al computer o alla tv metà del tempo si pensa ad altro
"Il cervello è fatto per pensare senza posa. Si resta concentrati nelle attività emotive"

Che fascino avrà mai la realtà, di fronte alla fantasia. Sembra che il presente per il nostro cervello sia una gabbia da cui fuggire. La metà del tempo in cui siamo svegli la trascorriamo infatti pensando ad altro rispetto all´attività in cui - apparentemente - siamo concentrati. All’università di Harvard si sono divertiti a tracciare una mappa delle divagazioni della mente, o "mind wandering".
Lo studio di Matthew Killingsworth e Daniel Gilbert esce oggi su Science e conclude che: "A differenza degli altri animali, l´uomo trascorre gran parte del tempo pensando a cosa non sta accadendo attorno a lui, contemplando eventi che sono avvenuti nel passato, che potrebbero avvenire nel futuro o che semplicemente non avverranno mai".
La divagazione, secondo i ricercatori, è il modo operativo dominante del cervello, quello che si instaura in automatico quando proprio non siamo costretti a impegnarci. Da distratti trascorriamo il 46,9 per cento delle nostre giornate e c´è una sola attività in cui scendiamo al di sotto del 30 per cento: quella sessuale. Lavoro, computer, televisione e conversazione sono gli sfondi ideali per la divagazione. Fare sport, giocare, ascoltare la radio, prendersi cura del proprio corpo o dei figli sono al contrario compiti che mantengono la mente relativamente aderente alla realtà.
«In questo non c´è nulla di strano. Il mind wandering è tanto diffuso perché fermare il pensiero è impossibile. Il cervello umano è fatto per lavorare senza posa», spiega Maria Brandimonte, autrice per Il Mulino del libro "La distrazione" e docente di psicologia dei processi cognitivi all´università Suor Orsola Benincasa di Napoli. «Più è impegnativo il compito che svolgiamo, più la nostra mente incontrerà spunti interessanti da inseguire, strade alternative da percorrere. La concentrazione resta più alta nelle attività che ci coinvolgono emotivamente, come quella sessuale».
Per seguire il corso dei pensieri dei loro 2.250 volontari, gli psicologi di Harvard hanno usato uno strumento del tutto nuovo per la loro disciplina: l´iPhone, con un´applicazione messa a punto apposta per loro. Durante la giornata, i soggetti studiati dovevano ripetutamente comunicare via web l´attività che stavano svolgendo e confessare quanto fossero distratti. Spesso (42,5 per cento dei casi), la mente era attratta da divagazioni piacevoli. Nel 26,5 per cento dei casi la distrazione riguardava pensieri sgradevoli e nel 31 per cento dei casi l´immaginazione era neutra.
Nel complesso, il non riuscire a concentrarsi provocava senso di frustrazione, tanto che i due ricercatori hanno intitolato il loro articolo "Una mente che divaga è una mente triste". Sarà questo il motivo, suggeriscono gli autori, per cui "molte filosofie e religioni insegnano che la felicità consiste nel vivere il presente, addestrando i praticanti a concentrarsi, a restare "qui e ora" e resistere alle distrazioni". In effetti, un´altra attività oltre al fare l´amore si è rivelata impermeabile ai pensieri sporadici: la preghiera unita alla meditazione.

Avvenire 12.11.10
«Io, psichiatra dei bimbi di Gaza»
Oggi i Lincei premiano Hussam Hamdouna, il medico che dal 1933 cura i traumi emotivi causati dalla guerra sui più piccoli
di Giorgio Bernardelli


Gaza è uno di quei posti che all’opinione pubblica tendenzialmente sembra un buco nero di problemi irrisolvibili: con le sue guerre, i suoi estremismi, l’embargo, le fiammate di violenza che esplodono all’improvviso. Forse, però, per cambiare almeno un po’ il punto di vista, basterebbe partire da un dato che raramente si cita: nel milione e mezzo di suoi abitanti la metà sono minori, con un’età media che si aggira intorno ai diciassette anni. A offrire un’ottima occasione per guardare anche a questo volto di Gaza è l’Accademia dei Lincei che oggi a Roma – nella cornice solenne dell’inaugurazione dell’anno accademico – consegnerà il premio 'Antonio Feltrinelli' al Remedial Education Center, un’Ong che in questo lembo di terra, così afflitto da gravi problemi, prova a stare accanto ai bambini. Soprattutto a quelli colpiti nel corpo e nella psiche dalle conseguenze della guerra.
A ritirare il prestigioso riconoscimento - che comprende anche un assegno da duecentocinquantamila euro – oggi a Roma ci sarà il dottor Hussam Hamdouna, psichiatra, che è il direttore generale di questa realtà che opera con il sostegno di tante associazioni italiane e del dipartimento per la Cooperazione allo sviluppo del nostro ministero degli Esteri. Il Remedial Educational Center è una realtà nata nel 1993 e ha il suo epicentro a Jabalya, la cittadina del nord della Striscia sede di uno dei più grandi campi profughi gestiti dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. La data è importante: come tante delle Ong palestinesi anche questa è nata durante gli anni degli Accordi di Oslo, quando sembrava iniziato il cammino verso la pace. Dare il via a un centro educativo sembrava un modo per rendere anche i ragazzi protagonisti di questa stagione nuova. Come tutti sappiamo le cose, in realtà, sono andate in maniera opposta e l’Ong fondata dal dottor Hamdouna si è trovata a fare i conti con altri tipi di problemi: vivere da bambini in un teatro di guerra e – da qualche anno – anche con il dramma di un mondo ristretto entro i confini di un’area di trecentosessanta chilometri quadrati. In questo contesto il Remedial Educational Center promuove iniziative di sostegno scolastico (sono circa trecento i bambini con difficoltà di apprendimento seguiti), attività ricreative, campi estivi, laboratori musicali: tutto ciò che a ogni latitudine si fa per scommettere sul futuro dei ragazzi. «Per noi – ha raccontato in un’intervista Hamdouna – non è sufficiente dire che ogni bambino dovrebbe avere il diritto di andare a scuola. Noi pensiamo che per rispettare il diritto all’educazione occorra garantire una scuola di alta qualità, una scuola che rispetti le differenze e i differenti bisogni di ogni bambino, specialmente di quelli più svantaggiati». Non va però dimenticato che quella intorno ai minori a Gaza è una sfida che si colloca dentro un dramma. Di Hamdouna a molti sono rimaste impresse le parole pronunciate venti mesi fa, durante i giorni terribili dell’Operazione Piombo fuso: «Sarò franco e diretto – disse in quelle ore da Jabalya –: la violenza porta violenza, danni alla psiche difficili da gestire. Tutte le persone qui
Dopo il fallimento degli Accordi di Oslo sono anche costretti a vivere in un mondo grande appena 360 km Il clima di violenza genera non solo paura e odio, ma anche difficoltà relazionali e rendimenti scolastici scadenti. La risposta? Puntare a un’istruzione di alto livello hanno traumi dovuti ai conflitti vissuti, ai bombardamenti, alla paura; parlo di bambini che seguiteranno a bagnare il letto per anni, che non riescono più a dormire da soli, che saranno pieni di odio e violenza, che non riescono ad andare bene a scuola». È proprio al superamento di questi traumi che – in una situazione politica tuttora problematica – il Remedial Educational Center continua a lavorare.

giovedì 11 novembre 2010

l’Unità 11.11.10
Bersani: «Il premier non è più credibile, ora si deve formalizzare la crisi in Parlamento»
Prima Bondi poi Berlusconi
Il Pd prepara la sfiducia
di Simone Collini


Il Pd presenta una mozione di sfiducia contro Bondi e raccoglie le firme per una contro il governo. Questa verrà depositata quando ci saranno le condizioni perché passi. Si guarda con attenzione alle mosse di Fini e Casini.

Sì, le Camere si trasformeranno sem pre più nel «Vietnam del centrode stra» (Enrico Letta dixit), il percorso parlamentare sarà «disseminato di mine» (Dario Franceschini) e la «guerriglia» (dirigenti Pd vari) non avrà sosta. Ma perché si arrivi effetti vamente al «capitolo finale» (Massi mo D’Alema) serve un’arma piuttosto potente pronta a sparare. E il Pd si sta attrezzando. Oltre a presentare una mozione di sfiducia contro San dro Bondi, i Democratici stanno rac cogliendo le firme di deputati e senatori per presentarne una contro il go verno. Ad annunciarlo è lo stesso Pier Luigi Bersani, che però deciderà insie me ai parlamentari del suo partito, convocati per martedì prossimo, «tempi e modi» dell’iniziativa che «renderà formale la crisi».
Se la prima mozione di sfiducia verrà infatti depositata oggi (insieme a un dossier su Pompei che dimostra le responsabilità del ministro della Cultura nel crollo della Domus dei gladiatori e della più generale errata gestione dei fondi per la tutela del pa trimonio artistico), la seconda per ora rimane come un’arma carica po sata sul tavolo. Non c’è solo il fatto, come spiega Franceschini, che bisogna fare i conti con «l’appello del Capo dello Stato ad approvare prima la legge di stabilità». Il Pd aspetta la di scussione della Finanziaria, che ap proda nell’Aula della Camera la prossima settimana, ma avverte anche, per bocca dello stesso capogruppo a Montecitorio, che «non possiamo sta re all’infinito in queste condizioni».
L’arma della mozione verrà però impugnata, spiegano al quartier generale del Pd, quando ci saranno le condizioni perché il colpo vada a segno («intanto gli stiamo col fiato sul collo», dice Bersani). Ovvero, non pri ma che venga definitivamente chiari to se Fini e anche Casini, che ormai si muovono sempre più in tandem, han no veramente intenzione di far cade re questo governo e di lavorare per un’alternativa a un esecutivo guidato da Berlusconi. Magari è solo la tensione della vigilia dell’incontro tra il presidente della Camera e il leader leghi sta Bossi, ma tra i vertici del Pd si sta diffondendo il timore che il «governo di responsabilità nazionale» di cui parla Casini non corrisponda al «governo di transizione» a cui punta Ber sani. E che un Berlusconi-bis non sia poi così indigesto agli aspiranti fonda tori del Terzo polo. Timori emersi an che al Coordinamento notturno di martedì, e che un colloquio in matti nata tra Bersani e Casini riesce a sciogliere solo fino a un certo punto.
SFIDUCIA A BONDI
La stessa mozione di sfiducia a Bondi servirà a chiarire le posizioni in campo. Il ministro della Cultura riferisce alla Camera sul crollo della Domus dei gladiatori e respinge ogni responsabilità: «Se ne avessi sarebbe giusto chiedere le mie dimissioni, anzi le avrei date io stesso. Se invece faccia mo prevalere serietà, obiettività e misura, allora sarebbe giusto riconosce re che i problemi di Pompei, come le situazioni in cui versa il patrimonio artistico, si trascinano da decenni». Tesi contestata da Walter Veltroni, che chiede al ministro «un atto di responsabilità non per quel crollo ma per lo stato della cultura italiana, che ha visto diminuire drasticamente i suoi fondi». Posizione che oggi verrà ribadita da Bersani in una conferenza stampa nella sede del Pd, insieme alla comunicazione che la mozione di sfiducia al ministro della Cultura è stata formalmente presentata. Ieri in fatti i Democratici hanno preso tem po, dicendo a Bondi di dimettersi e cercando intanto una convergenza sulla sfiducia con Udc e finiani che però non è arrivata. «Un passo indietro è bene accetto», ha mandato a dire a Bondi il deputato di Fli Fabio Grana ta. «Prendiamo atto dell’invito formulato dal gruppo di Fli e non possiamo che associarci», dice per l’Udc Renzo Lusetti. Ma Fini si guarda bene dall’intervenire su questa vicenda alla vigilia dell’incontro con Bossi e Casini, ancora dopo il colloquio con Bersani, non va oltre il far sapere che valuterà dopo un confronto con le altre opposizione come votare.
Il Pd prende atto e va per la sua strada. In Parlamento e non. Anche perché, come hanno sottolineato in tanti al Coordinamento Pd, il problema ora è lavorare sull’identità riformista del partito e su un’alleanza credibile. «Dobbiamo fare i conti col fatto che a Perugia ad ascoltare Fini c’erano anche nostri elettori», ha detto Veltroni insistendo sulla necessità di lavorare su poche, chiare e innova tive proposte programmatiche. Bersani è d’accordo e passerà i prossimi giorni a presentare le proposte del Pd in campo economico (per martedì è previsto un incontro con sindacati, Confindustria e Rete imprese Italia). Sabato comincia la campagna di por ta a porta (Bersani sarà nel quartiere popolare di Pietralata, a Roma) e per concentrare ogni sforzo organizzati vo sulla manifestazione dell’11 dicembre si sta anche pensando di far saltare l’Assemblea nazionale previ sta a Napoli per il 3 e 4.

l’Unità 11.11.10
L’appello
Basta con i giochi: la sfiducia, subito
di Daniela del Boca, Nadia Urbinati


Ci si illude, e si illudono ad arte gli italiani, se si crede che il sipario verrá abbassato su questo governo dei fallimenti e della vergogna dai suoi stessi alleati. La destra alza la voce perché non ha interesse in questo momento a rompere la coalizione. Alla destra serve tempo, ma questo tempo non serve al paese, che é in uno stato di incuria e di prostrazione come mai prima d'ora nella storia repubblicana. È necessario e urgente un atto di responsabilitá dell'opposizione di fronte al paese:
distinguersi da questo clima di crisi ventilata e chiedere  chiaramente, esplicitamente, subito  le dimissioni del governo.
Non si deve lasciare alla destra la paternitá dell'opposizione al governo Berlusconi, non si deve lasciare che il Pdl giochi tutte le partite, quella del governo e quella dell'opposizione. Che esiste ed é fuori dalla coalizione di governo e la sua politica é quella che il paese attende: sfiduciare il governo.
*docente alla Columbia University **docente all’Università di Torino

Repubblica 11.11.10
Gli studenti infiammano Londra scontri in piazza, decine di arresti
"No all´aumento delle tasse universitarie". Assalto alla sede dei Tory: 14 feriti
È la manifestazione studentesca più imponente dell´ultimo decennio
Incidenti davanti al Millbank Tower i ragazzi accusano gli agenti: "Hanno cominciato loro"
di Enrico Franceschini


LONDRA - Vetri infranti, poliziotti insanguinati, manganellate sugli studenti. Fuoco, fumo, barricate. Arresti e feriti. Rabbia e paura. Un pomeriggio di proteste come Londra non vedeva da anni sbiadisce in una sera di incertezza sul futuro. Finisce dunque col botto l´apparente pace sociale che aveva accolto i più pesanti tagli alla spesa pubblica nella storia del Regno Unito: oltre cinquantamila studenti marciano nel centro della capitale per protestare contro l´aumento delle tasse universitarie, approvato dal governo conservator-liberale guidato da David Cameron. Un aumento che triplica il costo dell´istruzione superiore, da 3 mila a 9 mila sterline (quasi 11 mila euro) l´anno, motivato con l´esigenza di ridurre drasticamente il deficit dello stato. Finora c´erano state critiche. Ieri volavano anche pietre.
È la manifestazione studentesca più imponente in un decennio: bisogna tornare ai primi anni di Tony Blair, quando il suo governo laburista varò il primo aumento delle «tuition fees», le tasse d´iscrizione all´università, portandole da mille a 3 mila sterline l´anno. Le università britanniche sono le migliori del mondo, dopo quelle degli Usa, ma per mantenerne lo standard di eccellenza accademica servono più fondi, più docenti, più strutture, affermava Blair, sostenendo che lo stato non poteva accollarsi un peso simile. Una differenza è che allora, perlomeno, l´economia britannica era in pieno boom. Un´altra è che i cortei contro il primo aumento non causarono disordini. Stavolta, invece, con il Regno Unito reduce dalla grande recessione globale, un´economia ancora fragile e un governo di centro-destra che taglia la spesa pubblica del 20 per cento - nemmeno la Thatcher osò tagliarla oltre l´8 - va diversamente.
La dimostrazione parte tranquilla, allegra, pacifica. Cartelli, slogan, fischietti: «No agli aumenti», gridano gli studenti, «solidarietà ai dipendenti pubblici», che perderanno, per via dei tagli, 500 mila posti di lavoro, ma che non sono ancora scesi a dimostrare nelle strade, limitandosi a qualche sciopero. L´eco dei manifestanti raggiunge l´aula della camera dei Comuni, dove in assenza del premier Cameron, in missione in Cina, e del capo dell´opposizione laburista Ed Miliband, in ospedale per la nascita del secondo figlio (prolifici in tutti i sensi, i leader britannici), duellano i loro vice. «Il governo scarica la crisi sugli studenti», attacca Harriet Harman, vice-capo del Labour.
««E´ colpa di voi laburisti se abbiamo un deficit che indebita generazioni a venire», replica il vice-premier Nick Clegg. «Sei mesi fa eri contrario a un aumento che portasse le tasse universitarie da 3 mila a 4 mila sterline, adesso difendi un aumento che le triplica, difendi l´istruzione universitaria più cara d´Europa», insiste la Harman. Clegg, leader dei liberaldemocratici, che per andare al governo si è rimangiato le promesse elettorali, vacilla. È la prima crepa nell´alleanza con i Tories, che l´anima progressista dei lib-dem vede come un patto col diavolo.
Di colpo, fuori dal parlamento, cambia l´atmosfera. Migliaia di studenti danno l´assalto al «palazzo dei Tories»: Millbank Tower, un grattacielo sul Tamigi, quartier generale del partito di Cameron. All´inizio è un assedio gioioso. Poi diventa violento. «Colpa dei poliziotti, che ci hanno presi a manganellate», dice Clare Solomon, una dei loro leader. La polizia non si aspettava tanta furia. Non ha abbastanza agenti per contenere il corteo. Chiama rinforzi, ma arrivano tardi. Qualcuno l´accusa di essere impreparata. Difficile dire, in questi casi, chi tiri la prima pietra (o colpo di manganello). I dimostranti spaccano vetrine, occupano l´edificio, rompono tutto. Molti sono a viso aperto, senza passamontagna alla no global. La polizia risponde facendo cordoni e caricando. Scende la sera: nell´oscurità, brillano i falò dei dimostranti. Sono i primi fuochi di un´esplosione di protesta nell´aria da tempo, in un paese che ha assorbito i salvataggi delle banche e i bonus milionari ai banchieri senza fare una piega. Inizia l´operazione delle forze dell´ordine per svuotare il grattacielo. Nonostante gli incidenti, soltanto una decina di studenti e tre poliziotti finiscono all´ospedale: nessuno ferito grave, sembra. Almeno quaranta giovani vengono arrestati. «Una minoranza violenta», avverte il sindaco conservatore Boris Johnson, «chi ha violato la legge pagherà». Infine il campo di battaglia è sgombro. Ma la guerra delle tasse universitarie è appena cominciata. in Gran Bretagna si annuncia un autunno caldo. E forse un inverno dello scontento.

Repubblica 11.11.10
Comincia dagli atenei l’autunno caldo inglese
Quando entreranno in vigore i tagli nel settore pubblico, le proteste potrebbero dilagare
di John Lloyd


Come in Francia nel 1968, gli studenti britannici sono stati i primi a fare le barricate per protestare contro i tagli annunciati dal governo di coalizione. La loro rabbia è la diretta conseguenza dell´aumento delle tasse universitarie, che raggiungeranno un tetto massimo di 9,000 sterline l´anno contro le attuali 3,000. Ma la causa per la quale si battono è la giustizia sociale. La maggior parte dei ragazzi intervistati dichiara: alcuni di noi possono permetterselo, grazie a genitori facoltosi, ma ci preoccupiamo per coloro che non dispongono di cifre simili.
Il governo ribatte che si tratta di misure eque: a nessuno verrà chiesto di pagare le tasse a breve giro di posta, anzi, si potrà cominciare a pagare una volta iniziata la vita lavorativa, e solo una volta raggiunto un salario di 21,000 sterline annue (pari a circa 24.500 euro). L´istruzione universitaria di solito accresce la prospettiva degli studenti di guadagnare stipendi più elevati, pertanto - sostiene il governo - coloro che ne beneficiano dovrebbero essere anche coloro che pagano.
La tesi degli studenti è egualitaria - sostengono la necessità di non pagare tasse, o comunque non più elevate di quelle già esistenti, poiché l´evidenza dimostra che gli studenti meno abbienti sono scoraggiati davanti alla prospettiva di dover pagare cifre simili. Ma è anche utilitarista: sostengono che poiché i lavoratori più istruiti producono beni o forniscono servizi di maggior valore, lo Stato beneficia maggiormente del loro lavoro e deve perciò finanziarne gli studi.
Sono dunque due filosofie contrastanti a fronteggiarsi. Lo scontro è ancora più aspro perché il partito di minoranza della coalizione di governo - i Liberaldemocratici - in campagna elettorale si era impegnato a non aumentare le tasse universitarie: gli studenti faranno ora pressione sui parlamentari liberaldemocratici, spingendoli a votare contro la proposta di governo o, in caso contrario, incitando il loro elettorato a non sostenerli alle prossime elezioni.
La preoccupazione del governo è capire fino a che punto, come nel 1968, gli studenti siano in realtà l´avanguardia di un più vasto movimento di protesta. I tagli, per il momento, non hanno ancora avuto un profondo effetto sulla disoccupazione: anzi, a quota 2,45 milioni - il 7,7 per cento della popolazione in età lavorativa - è leggermente più bassa che all´inizio dell´anno. Ma la disoccupazione giovanile, cosi´ come quella di lungo termine, sta aumentando; e la maggior parte degli esperti ritiene che supererà quota 3 milioni entro il 2012. Gli effetti di tale aumento si sentiranno soprattutto nel settore pubblico fortemente sindacalizzato, il che significa che le proteste potrebbero estendersi ben oltre gli studenti (che in molti considerano privilegiati) e potrebbe coinvolgere settori che combattono per ben altri interessi.
C´è comunque poco spazio per un compromesso. Il governo ha deciso che è necessario operare tagli rapidi ed efficaci per ridurre uno dei debiti più onerosi d´Europa, e ha fatto finora orecchie da mercante di fronte alle sollecitazioni di commentatori, economisti e opposizione circa l´applicazione di un approccio più cauto e "keynesiano". Cambiare strategia ora e restare al governo sarebbe di fatto impossibile: ne andrebbe della credibilità politica dello stesso governo di fronte ai mercati finanziari e alle aziende che hanno largamente sostenuto tale strategia.
La Gran Bretagna, nell´ultimo ventennio, non ha praticamente conosciuto scioperi: e da quello dei minatori del 1984-5 nessuna azione sindacale ha assunto i toni di uno scontro politico. Le avvisaglie di violenza di ieri - per blande che siano state - potrebbero essere una piccola eccezione presto dimenticata. O potrebbero essere il presagio di un duro inverno di malcontento.
(Traduzione di Rosalba Fruscalzo)

l’Unità 11.11.10
Storie di ordinaria violenza sulle donne
Raccontano i carnefici
di Laura Matteucci


Si intitola «Parla con lui», sarà proiettato nelle scuole e nelle carceri «Ho scritto che voglio vederti morta, ma sei tu che mi hai istigato»

Domande antiche, risposte sorprendenti per ché inchiodate da sem pre a se stesse: che cosa scatta nella testa di un uomo quando inizia a maltrattare la moglie, la compagna, la figlia? Qual è la molla che spinge ad alzare le mani, isolare, ferire fino a distruggere ogni autostima perché lei pensi «solo lui mi può sopportare»? Che pensieri hanno, che sentimenti provano i persecutori, che cosa li autorizza? È partita da qui Elisabetta Francia, cine asta milanese, per costruire insieme a Caterina Serra Parla con lui, documentario sostenuto dal ministero delle Pari opportunità e dalla Provincia di Milano, ieri sera in prima allo Spazio Oberdan di Milano, per poi venire distribuito nelle scuole, nelle carceri, nei centri antiviolenza. Cin quanta minuti (o 25, nella versione «asciutta») che danno la parola agli
uomini: nessuna vittima in video, so lo persecutori. Tutti rigorosamente italiani per scelta precisa della regi sta, «per evitare la facile associazione violenza-straniero». Storie di stalking e di violenze e abusi di ogni genere, segnate da un pensiero autoassolutorio che le attraversa tutte (come dice Aldo, stalker consolidato: «Non me lo sono inventato di al zarmi e scriverti “ti voglio vedere morta”. Sei tu che mi hai istigato») e da una pressochè totale inconsapevolezza, che fa apparire questi uomini-monstre quasi disarmanti. La vio lenza è reazione ad «aggressioni» femminili, nel vissuto di chi la agisce. Francia si è anche fatta aprire i microfoni di Rtl insistendo sulla stessa domanda d’esordio: perchè? Risultato: tre ore di affollata diretta per ripetere il rito d’autoassoluzione. Lo esemplifica l’ascoltatore Angelo: «Non ci sono più le donne degli anni 60 che stavano a casa. Il giudice del divorzio me l’ha detto, ha fatto bene, io gliene avrei date il doppio».
Il documentario illumina anche il terreno, fatto di clichè femminili e modelli familiari arcaici, sul quale si muovono gli uomini tutti, anche chi maltrattante non è, nelle loro relazioni con le donne: liceali e universitari tra Milano e Parma, parlano anche i ragazzi «normali», quelli da cui non te l’aspetti proprio e invece sono ancora lì a sognare la donna-mamma che li aspetta, li acco glie e li perdona. Tanto da legittimare la domanda di una ragazza: «Ma che cosa volete da una donna?». Analfabeti sentimentali, nemmeno i giovani riescono ad accetta re l’autonomia femminile, «nel migliore dei casi la riconoscono e ne hanno paura: vivono uno spaesamento totale», spiega Francia, funamboli in bilico tra i modelli di plastica della pubblicità e della porno grafia e l’archetipo della «Grande madre». «Non hanno elaborato un pensiero alternativo dell’identità maschile», dice Francia che sul te ma sta pensando ad un seguito di Parla con lui. Fil-rouge che lega le interviste, un balletto che, attraverso le parole del coreografo, rivela anche alcuni dei meccanismi che falsano la dinamica relazionale.
Solo uno dei persecutori sembra guarito, ma dopo 25 anni di dentro-e-fuori dal carcere e, soprattutto, un percorso psicoterapeutico iniziato durante la reclusione con il Cipm, Centro per la promozione della mediazione, il primo (e quasi unico) in Italia ad occuparsi del re cupero degli uomini. Contraria mente a ciò che accade in gran par te d’Europa e in Nord America, do ve i maltrattanti sono seguiti anche con una terapia obbligatoria per legge, in Italia siamo agli albori del l’esperienza, e anni luce lontani dal renderla un obbligo legislativo.

Repubblica 11.11.10
I simboli della nostra civiltà che rischiano di diventare macerie
di Salvatore Settis


L´episodio di Pompei è l´ultimo atto del degrado dei beni culturali: uno stato di abbandono che distrugge la memoria storica e i suoi luoghi più importanti
Sono vitali alla riflessione storica e ricorrono nell´arte e nella letteratura Sono parte della nostra tradizione e parlano delle nostre origini
Non basta dichiarare l´emergenza ma occorre "curare" il dissesto idrogeologico senza inutili strumentalizzazioni

Secondo il grande storico dell´arte cinese Wu Hung (professore a Chicago), nella cultura cinese manca il senso delle rovine, e i pittori e calligrafi cinesi si astennero dal rappresentarle; le eccezioni sono dovute a influssi della cultura europea. In Europa, al contrario, la presenza delle rovine è vitale nella riflessione storica come nell´arte e nella letteratura.
Per Chateaubriand (in una celebre frase del Génie du Christianisme, 1802), «tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine», a causa di un sentimento del sublime destato dal contrasto fra la condizione umana e la caduta degli imperi, che le rovine testimoniano ed evidenziano. Secondo un saggio di Georg Simmel (1919) «il fascino della rovina sta in ultima analisi nel fatto che un´opera dell´uomo possa esser percepita come un prodotto della natura», della sua potenza distruttrice. J. B. Jackson, che il New York Times definì «il massimo scrittore sulle forze che hanno forgiato la terra occupata dalla nazione americana» scrisse nel 1980 un prezioso libretto, The Necessity for Ruins.
Secondo Jackson (americano, ma nato e morto in Francia), le città americane fanno enormi sforzi per costruirsi una memoria storica artificiale, creata a partire da oggetti visibili che vengono reinterpretati come monumenti, landmarks; ma anche creando dal nulla rovine fittizie, prêtes-à-porter di marca hollywoodiana, come i saloons "ricostruiti" in tante piccole città del Nevada. Anche le finte rovine hanno una prodigiosa efficacia sociale: presuppongono e incorporano le rovine della storia e quelle dell´immaginazione, ricreano un passato "vero" non perché dimostrabile, ma perché "tipico". Il gesto di invenzione della tradizione viene implicitamente legittimato come "ricostruzione" di una tradizione "autentica", che interpreta un´esigenza quasi religiosa di memoria collettiva. Scrive Jackson: «solo le rovine danno un incentivo efficace per la rinascita, per un ritorno alle origini. È necessario un intervallo di morte o di oblio, prima che possa davvero parlarsi di rinnovamento o di riforma».
Pensieri consolanti, in un Paese che va, moralmente e fisicamente, in rovina? È davvero necessario che Pompei e la Domus Aurea cadano a pezzi, per innescare nei cittadini una qualche voglia di riscossa? Dopo la frana di Giampilieri di un anno fa (18 morti), dobbiamo aspettare che franino l´una e l´altra sponda dello Stretto per accorgerci che non basta "dichiarare l´emergenza" come fece allora il governo, ma bisogna "curare" il dissesto idrogeologico anziché posare le prime pietre di un faraonico Ponte? Ma la riflessione sulle rovine, nella tradizione occidentale, non è consolatoria, è tragica.
Il detto famoso di Beda il Venerabile («Finché starà il Colosseo, starà Roma; e finché starà Roma, starà il mondo») non è un grido di trionfo, è un ammonimento e un allarme. Scrivendo nell´VIII secolo, Beda non si riferiva al Colosseo nel suo pieno fiorire, luogo di spettacoli che accolse per secoli decine di migliaia di spettatori, ma già (come oggi) a un gigantesco rudere che continua a morire a ogni istante, eppure vive ancora. Perciò le foto di Jack London a San Francisco dopo il terremoto del 1906 indugiano su chiese semidistrutte, ma ancora in piedi, su edifici in frammenti, ma riconoscibili. Fra la rovina (il frammento) e l´intero c´è una corrente di senso: fin quando la rovina è riconoscibile, invita il lavoro della memoria, la pietà della ricostruzione, l´intelligenza della riflessione storica. Perciò le rovine segnalano sì un´assenza, ma al tempo stesso incarnano, sono una presenza, un´intersezione fra il visibile e l´invisibile. Ciò che è invisibile (o assente) è messo in risalto dalla frammentazione delle rovine, dal loro carattere "inutile" e talvolta incomprensibile, dalla loro perdita di funzionalità (o almeno di quella originaria). Ma la loro ostinata presenza visibile testimonia, ben al di là della perdita del valore d´uso, la durata, e anzi l´eternità delle rovine, la loro vittoria sullo scorrere irreparabile del tempo.
Memoria di quel che fummo, le rovine ci dicono non tanto quel che siamo, ma quello che potremmo essere. Sono per la collettività quel che per l´individuo sono le memorie d´infanzia: alimentano la vita adulta, innescano pensieri creativi, generano ipotesi sul futuro. Così le rovine (dei monumenti, delle istituzioni, dei valori) ci ricordano col loro crollo quotidiano che non possiamo essere solo spettatori. Nel segno della morte, alzano una barriera fra i viventi, sono segno di contraddizione: di qua chi al crollo reagisce con sdegno e volontà di rimedio, di là i distruttori di mestiere, che nei crolli e nelle rovine vedono solo occasioni di far bottino, e a chi si sdegna rispondono con battute e sberleffi, e l´inevitabile, miserevole invito a "non strumentalizzare" (è successo, in alcune servili reazioni dopo il recente crollo a Pompei).
Ma nelle rovine di quel che fu Roma peschiamo almeno questa citazione (da Seneca): è capace di indignazione solo chi è capace di speranza. Guardiamo dunque attentamente le rovine che si addensano intorno a noi, ma guardiamole con occhi allarmati. Hanno molto da dirci, se sappiamo interrogarle. Se non le consideriamo "inevitabili", ma prodotto di incuria a cui porre rimedio. Lasciamo alla loro morte morale chi danza cinicamente sulle rovine. Prendiamoci la vita, la lezione etica e politica che viene dalla memoria e dalla solidarietà collettiva, dalla volontà di rinascita. L´Italia lo merita.

Repubblica 11.11.10
Il passato messo in scena. Intervista con Marc Augé
In un paese come l´Italia, ricchissimo di vestigia della storia, sono le scelte degli uomini che valorizzano un sito archeologico invece che un altro. E forniscono alle pietre emerse dall´oblio un significato culturale


PARIGI «Più che indicarci il senso della storia, le rovine ci consentono di provare il sentimento di un tempo puro, quasi indefinito. Esse, infatti, pur facendo riferimento ad un passato storico, si presentano come un frammento di tempo immobile, sottratto ad ogni divenire.» Al tema delle rovine l´antropologo Marc Augé ha dedicato un affascinante saggio intitolato Rovine e macerie (Bollati Boringhieri), in cui s´interroga sul loro significato simbolico e temporale: «Le rovine contribuiscono alla spettacolarizzazione del mondo. Sono un luogo ridotto a spettacolo, di fronte al quale rimaniamo affascinati dall´immagine del tempo cristallizzata in uno spazio definito. Le rovine sono sempre una ricostruzione, una messinscena che produce un paesaggio diverso da quello originario, proponendone un uso inedito. Insomma, quello delle rovine non è un paesaggio storico, ma solo un´immagine irrigidita del tempo. Le rovine più che un non luogo, sono un falso luogo».
In che modo le macerie diventano rovine?
«È il nostro sguardo che le rende tali. Soprattutto in un paese come l´Italia, ricchissimo di vestigia del passato, sono le scelte degli uomini che valorizzano un sito archeologico invece di un altro, trasformando le pietre emerse dall´oblio in rovine dotate di un significato culturale. Senza il nostro lavoro di valorizzazione, i resti del passato rimarrebbero semplici macerie. Le rovine nascono da un intervento umano che modella uno spazio ad uso del presente. Naturalmente, può anche accadere l´inverso. Le rovine possono ridiventare macerie, come è accaduto a Pompei. D´altronde, le rovine sono fragili, hanno bisogno di cure e attenzioni. Sul piano simbolico, le rovine che ritornano ad essere macerie, sono un segno della nostra incapacità di prenderci cura del passato, ma anche una conferma di quell´impressione di degrado generalizzato oggi molto diffusa».
Le rovine possono avere una funzione pedagogica?
«Più che altro, l´uso e la valorizzazione delle rovine contiene spesso un´intenzione politica, che sfrutta l´immagine del passato per finalità molto contemporanee. Ad esempio, attraverso le rovine prende corpo l´ideologia della continuità e del radicamento, anche perché quasi sempre le rovine sono letteralmente strappate alla terra, come delle radici».
Gli edifici di oggi saranno le rovine del futuro?
«Non penso che la storia futura produrrà nuove rovine. Non ne avrà più il tempo. Gli edifici costruiti oggi non sono concepiti per durare. Non appena invecchiano, vengono demoliti e sostituiti da nuove costruzioni. Il ritmo delle ricostruzioni è ormai diventato troppo veloce perché un edificio abbia il tempo di trasformarsi in rovina. L´accelerazione generalizzata dei ritmi di vita e il bisogno di ricambio continuo non consentono più alle cose d´invecchiare. Noi produciamo macerie, non rovine».
Una società che non produce rovine è schiava del presente?
«Probabilmente sì. Quella che si va delineando è una società che non avrà più bisogno di memoria, vera o falsa che sia. Farà a meno della spettacolarizzazione del passato, poiché vivrà in un presente assoluto dominato dalle immagini, dove le nuove Disneyland si faranno carico di riprodurre integralmente i monumenti andati persi. Un po´ come a Las Vegas. Noi siamo gli ultimi figli della cultura classica che ha prodotto un vero e proprio culto del passato. Oggi però viviamo in una società che non pensa più che dal passato si possano trarre utili lezioni».

Corriere della Sera 11.11.10
L’Unesco «indaga» In arrivo gli ispettori
Il sito Patrimonio dell’Umanità


ROMA — Il crollo della Domus dei Gladiatori a Pompei impensierisce l’Unesco, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa di educazione, ricerca scientifica e patrimonio culturale. Da Parigi, dove l’Unesco ha la sua sede centrale, arriva la conferma ufficiale: alla fine del mese arriverà a Pompei una missione internazionale di monitoraggio. Pompei è uno dei 45 beni culturali e ambientali «Patrimonio dell’Umanità», inseriti nella lista Unesco sotto la voce «Italia» che vanta il numero più alto di luoghi «vincolati» (contro, per esempio, i 42 della Spagna, i 40 della Cina, i 37 della Francia o i 17 della stessa Grecia). Ad annunciare l’arrivo degli ispettori Unesco è l’architetto Francesco Bandarin, nominato ad aprile nuovo assistente per la Cultura del direttore generale Irina Bokova. Bandarin è stato dal 2000 direttore del Centro Unesco per il Patrimonio dell’Umanità: è toccato a lui decidere materialmente l’invio della missione, dopo la notizia dei danni a Pompei.
Per ora non ci saranno azioni clamorose. Bandarin ammette «il dispiacere personale e l’effetto devastante della notizia sul piano internazionale». Ma spiega che la delegazione farà «il suo dovere, che è di capire la situazione, portare l’esperienza internazionale, consigliare, criticare e accompagnare le autorità responsabili, nel massimo spirito di collaborazione e senza polemiche strumentali». Chiaramente l’Unesco non intende minimamente entrare nella polemica politica italiana, soprattutto dopo il dibattito aperto sulle dimissioni del ministro Sandro Bondi. Ma con tutta evidenza la preoccupazione dell’organismo Onu è molto elevata. Pompei è Patrimonio dell’Umanità dal 1997 con Ercolano. L’appartenenza alla lista prevede il rispetto dei vincoli che garantiscono la tutela. L’applicazione di piani di attuazione che assicurino la conservazione del bene. Soprattutto lo Stato membro deve evitare che il bene sia sfigurato o assalito dalla speculazione edilizia. In quel caso, il Bene può entrare nella «lista rossa» dei siti considerati «in pericolo». Nel 2004 le Eolie corsero il rischio della «lista rossa» per la possibile costruzione di alberghi paesaggisticamente intrusivi. E risale al 2001 una denuncia di Legambiente che segnalò all’Unesco dodici siti sfigurati «dal degrado». E c’era Pompei.

Corriere della Sera 11.11.10
Quella «medicina preventiva» che salva le rovine
di Andrea Carandini


Più dati e manutenzione: Roma sperimenta l’alleanza Università-Soprintendenza

Il commissario straordinario Roberto Cecchi, che è anche il segretario generale del ministero per i Beni culturali, insieme al sottosegretario Francesco Giro, che concentra gran parte della sua attività su Roma, stanno operando con ottimi risultati per il rinascimento della città antica, così come i funzionari della Soprintendenza archeologica di Stato. L’intervento esterno del commissario, già visto come indebita intromissione, ha invece aiutato la Soprintendenza nell’esplicare con forza il pubblico servizio.
Si sta sperimentando a Roma, per la prima volta nel campo archeologico, un programma di manutenzione che sta al restauro del monumento come la medicina preventiva sta all’operazione chirurgica. È un metodo che deve diffondersi, specialmente nei siti archeologici più complessi. Qualcosa di simile è in via di sperimentazione a Ercolano, grazie al munifico e intelligente intervento del Packard Humanities Institute. A Roma stanno progredendo anche i sistemi informativi territoriali della Soprintendenza e della Sapienza, che comunicano ormai fra loro, integrandosi ed aggiornandosi con i dati disponibili fino al 2000.
Ma la cura dei monumenti è fatta per gli uomini — altrimenti potremmo lasciare le rovine scivolare sotto terra, che è la loro naturale inclinazione — e così gli interventi terapeutici della tutela si accompagnano ad aperture al pubblico di zone fino ad ora chiuse, e l’attesa è grande.
Ho visitato recentemente le parti riaperte del Colosseo: a partire dai piani alti, da cui si gode un vertiginoso panorama e dove spero si allestirà il museo del monumento, e poi giù giù — si direbbe nell’Inferno, tanto l’anfiteatro si presta alla cantica dantesca — nel palcoscenico sotterraneo, con la galleria per l’arrivo dei gladiatori, alloggiati nel vicino ludus magnus, con le sale d’attesa prima dello spettacolo e con gli ambienti per le imbarcazioni da combattimento, per le belve e per le scene. Tra i macigni mi sono sentito un nano circondato da incisioni di Piranesi.
Viene inaugurato oggi, alle falde della Velia, il tempio di Venere e Roma. Qui era la casa dell’Ahenobarbo padre di Nerone, con il suo enorme quadriportico a due piani, dotato di sale sotterranee per cenare, molto fresche d’estate. Proprio sopra la casa di famiglia, Nerone eresse una costruzione gigantesca e, sopra, un vestibolo porticato che doveva accogliere una sua colossale immagine e introdurre — come io penso — a un palazzo lungo e stretto, il principale della Domus Aurea, dotato probabilmente della famosa sala con cupola girevole che altri situano piuttosto sul Palatino.
Questa dimora, che sembra una villa a mare di Baia, si affacciava su uno stagno circondato di edifici, dove il principe artista inscenò le ultime feste, banchettando magari su una nave da parata ormeggiata nel bacino, regista Tigellino (si veda «Le case del potere», Laterza editore). Qui Vespasiano eresse il colosso di Nerone, identificato ormai con il sole, e distrusse il palazzo, lo stagno e le costruzioni per erigere il Colosseo. Qui infine Adriano fece costruire due templi che si davano le spalle, sacri a Venere e Roma, dove dal 121 d. C. si celebrò la fondazione di Roma. Per fare spazio ai templi, il principe spostò il colosso con elefanti e lo ricollocò tra il tempio di Venere e l’anfiteatro.
È questo dinamismo dei monumenti che bisogna percepire, tenendo conto anche delle realtà non più visibili. Infatti Roma è un fiume, non di acqua ma di tufi, travertini e marmi. Non potendo più sperare in un museo della città, siamo costretti ad assaporare la storia a tratti, aprendo una porta non soltanto sulla metropoli imperiale ma anche sulle altre Rome.
Apriranno a dicembre la casa delle Vestali (dove verrà sperimentato un sistema didascalico dettagliato e in armonia coi luoghi) e la villa dei Quintili. Infine il Foro verrà illuminato.

Repubblica 11.11.10
Anche la scuola, che era stata malamente puntellata, collassa sotto il peso dei tagli della Gelmini. E la stessa sorte tocca alle case editrici, al cinema, alle canzoni, al teatro
I danni provocati dall´ignoranza. Il crollo di un paese
di Francesco Merlo


C´è più scienza del restauro e più tecnica della conservazione nel viso rifatto di Berlusconi che nei ruderi di Pompei. E crolla, con la casa dei gladiatori, anche il sesso italiano, e non solo perché aumentano, per contagio, i vecchi ricchi pieni di desideri fuori tempo, ma soprattutto perché Ruby e Noemi sono prototipi. Le minorenni scoprono di avere nel loro corpo una miniera e si sgretola, come a Noto il barocco, il romanticismo nazionale, il dolce stil nuovo, il corteggiamento, la poesia, l´italianissima idea che la verità di un grande uomo sono gli occhi di una donna.
Le macerie di Pompei confermano che il danaro del turismo non basta a rendere eterna la rovina mummificandola. E ci voleva un rovinoso leghista come Zaia per degradare Pompei a «quattro sassi», ben al di là dell´ignoranza che un tempo riusciva ancora ad accompagnarsi ad un certa fierezza, come testimonia Trilussa: «Pe´ Roma le rovine so´ un ristoro / pe´ l´inglesi che viengheno a guardalle; / noi nun ce famo caso, invece loro / cianno pure er libretto pe´ studialle». Oggi persino l´ignoranza è guastata dal razzismo leghista. Che popolo è quello che nelle rovine non vede le vestigia? E che cultura amministra un ministro che, sepolto sotto le rovine, non ha il coraggio di dimettersi, fosse pure per protesta?
Anche la scuola, che era stata malamente puntellata, crolla sotto i tagli della Gelmini e non è più per snobismo che gli italiani mandano i figli negli istituti francesi, tedeschi e angloamericani. Forse bisognerebbe affidare all´Europa la Magna Grecia, un po´ come accade ad Efeso, dove si rimane senza fiato davanti a quella specie di New York dell´antichità, spolverata, lucidata e accarezzata dai più raffinati tecnici del mondo che sono come i viaggiatori del settecento: un´aristocrazia dello Spirito, in Asia Minore o tra le vestigia azteche o attorno alla Muraglia cinese, unico monumento della Terra che si vede dalla Luna.
In Italia collassano le case editrici e diventano rovine pompeiane il cinema, il teatro e le canzoni. Crolla l´occupazione. E la famiglia è il laboratorio dei più feroci delitti. Non c´è immagine della decadenza più plastica di quella foto del Papa che, pur travolto dallo scandalo della pedofilia, in Spagna sordamente rilancia il "diritto naturale" mentre due gay, calvi ed anzianotti, mettono in scena il bacio di protesta.
Basta un viaggio in Egitto per scoprire attorno alle Piramidi quello stesso controllo occhiuto che c´era sulla piazza Rossa ai tempi del comunismo e che in Italia non c´è nelle banche, nelle istituzioni, nel governo: «I secoli ci guardano» . «Io, Imperatore dei francesi, dico a voi: io sono musulmano» fu l´incipit del discorso egiziano di Napoleone, poi copiato da Kennedy a Berlino.
Anche lo sport va in rovina per malaffare e violenza. Avessimo negli stadi le arrabbiate milizie in alta uniforme che custodiscono gli antichi templi indosaraceni! È vero che pure in India, come a Pompei, folle di miserabili si propongono come guide. Ma almeno sono miserabili poliglotti mentre a Napoli sono fermi al «paisà», e sono pure tombaroli.
A Roma la reggia di Nerone è chiusa per crolli perché nessuno investe in ciò che non si vede. Proprio come nel Veneto dove quelli che si vantavano d´essere i migliori non avevano mai investito nel territorio: ora sono, come i sarnesi, nelle mani del dio della pioggia e, come all´Aquila, della demagogia di Berlusconi. Davvero nei crolli di Pompei c´è l´Italia intera, il paese dove va in rovina la rovina.

Corriere della Sera 11.11.10
Poeti, condottieri, prostitute Ognuno aveva la sua Venere
Non solo dea dell’amore, anche genitrice e portatrice di pace
di Eva Cantarella


I festeggiamenti in onore di Venere, a Roma, avevano inizio il primo aprile. Quel giorno, raccontano Plutarco e Ovidio, le matrone usavano inghirlandarsi di mirto, per ricordare un episodio legato alla nascita della dea, nata — si raccontava — dalla schiuma del mare. Identificata a partire dal II secolo a. C. con la greca Afrodite, infatti, Venere aveva preso la personalità e le leggende di questa: tra le quali, appunto, quella della nascita, legata alla lotta tra il dio Crono e suo figlio Urano. Temendo che il figlio lo detronizzasse, Crono lo aveva castrato, gettando i suoi organi genitali nel mare, dalle cui acque un ben giorno era nata la bellissima Afrodite. Ovviamente nuda, e quindi costretta, appena emersa dai flutti, a nascondersi dietro il mirto per sottrarsi allo sguardo di una turba di satiri. Ma torniamo alla festa in suo onore: coronate di mirto, le matrone libavano alla dea con un liquore fatto di succo di papaveri, latte e miele, che Venere — si diceva — aveva gustato il giorno in cui era andata sposa. Dopo di che — è Ovidio a dircelo — spogliavano il simulacro della dea da collane e ornamenti, la lavavano, la asciugavano e, dopo averla di nuovo agghindata, le offrivano fiori e rose fresche.
Ma i culti in onore di Venere non si limitavano a quei riti, né a quel giorno. Le feste in suo onore erano tante, perché i romani non onoravano una sola Venere. Ne onoravano tante, diverse, ciascuna delle quali aveva una sua personalità e, per così dire, una sua competenza.
Prima di essere identificata con la dea dell’amore, infatti, la Venere latina veniva già celebrata il 1° aprile come Fortuna ed era, per i romani, la personificazione del momento generativo. Era la dea alla quale si doveva la vita, Venere genitrice: «Alma Venus, genitrix, hominum divomque voluptas», scrive Lucrezio: «Alma Venere, genitrice degli Eneidi (secondo una delle leggende sulle origini della città, i romani discendevano da Enea, figlio di Venere) delizia degli uomini e degli dei, tu che sotto gli astri erranti nel cielo fecondi il mare che porta le navi e la terra carica di messi, per te tutti gli esseri viventi sono concepiti e, nascendo, vedono la luce del sole; quando tu appari, o dea, fuggono i venti, fuggono le nubi del cielo, sotto i tuoi piedi la terra fertile produce fiori soavi, a te sorride la distesa del mare e il cielo, placato, versa un torrente di luce…» ( De rerum natura, incipit).
Ma Venere non dava solo la vita, dava anche pace e gioia: quando Marte, il dio della guerra, si abbandonava fra le sue braccia «vinto da eterna ferita d’amore», il mondo poteva godere, finalmente, di un periodo di pace. Attenzione, però: Marte, non era il marito di Venere, era il suo amante. Non a caso, dunque, Venere non proteggeva solo l’amore coniugale. Scrive Agostino ( De civitate dei, 4, 10) che a Roma c’erano due Veneri, quella onesta e quella disonesta: la prima, quella onesta, onorata da vergini e donne sposate, era onorata il 1° aprile; la seconda, quella disonesta, veniva celebrata dalle prostitute il 23 aprile, in un tempio che doveva essere eretto al di fuori delle mura cittadine. Ecco perché a Roma esisteva un tempio dedicato a Venere Obsequens, vale a dire obbediente, rispettosa, costruito nel 295 a. C. con le multe inflitte ad alcune matrone condannate per comportamento licenzioso. Venere era la protettrice di tutti gli amori. Era la madre di tutti, Venere Genitrice. Ma di qualcuno era genitrice in modo del tutto speciale. A un certo punto della storia di Roma, Venere si trovò a essere oggetto di una contesa politica. Al ritorno dalla guerra contro Mitridate, Pompeo aveva fatto costruire un teatro (il primo teatro romano in marmo), e in mezzo della cavea, alla sommità dei gradini, aveva fatto erigere un tempio dedicato a Venere Victrix (vincitrice), alla quale riconosceva così il merito della sua vittoria. In questo modo, aveva dichiarato Venere sua speciale protettrice. Ma non era il solo ad aspirare a un simile privilegio. Cesare, per non essere da meno, la celebrava come progenitrice della gens Iulia, alla quale apparteneva: lui non era solo protetto da Venere, discendeva da lei. E a lei promise un nuovo tempio, quello a Venere Genitrix, che fu poi eretto nel Foro al quale Cesare diede il nome, affidato a un collegio di sacerdoti incaricato di continuare i giochi e le feste indette per la consacrazione. E quando, dopo essere state interrotte alla morte di Cesare, le celebrazioni vennero riprese per iniziativa di Augusto, nel cielo apparve una grande cometa: l’anima di Cesare, dissero i romani.


l’Unità 11.11.10
Le «meglio pagine» di Bocca raccontano l’Italia dal ’43 a oggi
Un romanzo-saggio di storia italiana fatto da una selezione di articoli e di stralci da libri precedenti del giornalista. Con reportage profetici come quando il Bocca-cronista percorre va l’Italia da cima a fondo.
di Oreste Pivetta


A inseguire Berlusconi c’è sempre il rischio di rimanere indietro, ma ha ragione Giorgio Bocca quando scrive che «il Cavaliere è davvero un uo mo pubblico, interamente esposto al pubblico» e che ormai «non ci so no misteri sulla sua psicologia, sui suoi punti di forza e sulle sue debolez ze, e nel caso qualcuno le avesse di menticate è pronto lui a ricordarglie le...». I misteri riguardano i suoi soldi, i suoi affari, che astuzie varie, omer tà, corruzioni, leggi ad personam han no finora e forse per l’eternità coper to. Per il resto è vero: si sa tutto, or mai anche come si «stende» (cito il brillante eufemismo del parlamenta re Italo Bocchino). Bocca ci concede un altro ritratto di Berlusconi «fisica mente e mentalmente il contrario dei dittatori del secolo scorso». Conti nua: «Paragonarlo ai Mussolini, Hit ler, Stalin non reggerebbe neppure nella bassezza dell’avanspettacolo». Per giungere a una definizione del «regime» che Berlusconi e i suoi hanno messo in piedi: «Si tratta di quella che noi chiamiamo la democrazia autori taria: una dittatura della maggioran za o l’assolutismo elettorale per cui chi ha più voti, chi ha maggior consen so popolare può far tutto ciò che gli comoda, anche violare le leggi della Costituzione». Già vi potete immagi nare Bossi che apre la bocca in nome del «popolo». Una barbarie, invece, in nome della «democrazia». Oltretutto in una repubblica parlamentare. Ma «tra Berlusconi e la democrazia parla mentare nata dalla guerra di libera zione c’è incompatibilità di caratte re».
E con questo saremmo giunti alla fine del libro di Giorgio Bocca, Fratelli coltelli. 1943-2010. L’Italia che ho co nosciuto, pubblicato da Feltrinelli. Chiediamo scusa, se urtati dall’attuali tà siamo andati all’ultimo capitolo, malgrado il senso di questo che non è un pamphlet sul berlusconismo o sul le malefatte italiane, ma è un roman zo-saggio di storia italiana, ricostrui ta per quasi settant’anni, dalla caduta del fascismo in avanti. Sarebbe stato meglio leggere dall’inizio, dal 24 lu glio 1943, di mattina, quando Musso lini al tavolo di lavoro rilegge le rela zioni che presenterà al Gran Consi glio e gli Alleati avanzano in Sicilia. Sarebbe stato meglio per capire che cosa è accaduto in questo paese, che cosa dopo aver intrapreso e percorso la strada della democrazia lo ha ripor tato indietro, a riaffacciarsi là da do ve, quel 24 luglio, era ripartito. Tra Palazzo Venezia e Palazzo Grazioli so no solo poche decine di metri. Quasi un cerchio. Che non si è chiuso, per fortuna, anche se il paesaggio umano non conforta, nell’era delle «escort di professione».
Il libro, come sta scritto anche nel risvolto di copertina, è una antologia: raccoglie le pagine migliori di Bocca, dai giornali e dai libri precedenti, e più o meno brevi testi connettono una storia all’altra. Mi sembra uno dei più bei libri di Bocca, in ragione un po’ della selezione, un po’ della ri scoperta di alcuni articoli, magari di menticati nel cassetto, in particolare quei reportage in cui scopre o si risco pre il cronista che consuma le suole delle scarpe, quando «il Bocca» per correva da un capo all’altro la peniso la, raccontando un mondo che stava cambiando, allora pareva in meglio. Va a Mondovì, ad esempio, che si pre para ad ospitare una puntata di Campanile Sera, in palio «un milione», quando dal teleschermo ci intrattene vano Mike Bongiorno, Renato Taglia ni, Enzo Tortora e nelle piazze dei «campanili» in gara si raccoglievano pubblico e comparse ammaestrate che applaudivano o tacevano a co mando e sul palcoscenico si adunava no, vigilati dal sindaco, i «cervelloni», maestri, notai, farmacisti, solidali in nome delle comune fortune di fronte al quiz. Il quadro è esilarante: «Per ca rità – si ritrae il sindaco – ora non pos so. Lei mi capisce ho una riunione ple naria degli esperti»; «Vede – ammoni sce il segretario comunale accompa gnando il cronista alle scale – cadere è una questione di un attimo, di un istante. Per esempio, come si chiama la famosa poesia di Leopardi? Silvia o A Silvia...». Conclusione, il giorno do po, vinto il milione del premio: «Ieri la nostra città è andata immensamen te lontano,su tutti i video d’Italia». Si domanda Bocca: ma prender la televi sione tanto sul serio non vi sembra esagerato? Siamo nel 1959 (l’articolo apparve sull’«Europeo») nel paese che s’è lasciato alle spalle le macerie della guerra e sta costruendo il nuovo benessere, nella stagione del «miraco lo all’italiana», quando conquistano la scena vecchi e nuovi padroni. A Car pi il giornalista incontra i magliai e le loro aziendine che si chiamano Clorin da, Lucy, Giba, Noemi, Effegi, Glo bus, Marilin, Magic e che sono nate e magari sono rimaste un telaio nella stalla o in cantina. La spiegazione è lasciata al magliaio Ovidio Gualdi: «Qui l’è un vulcano che esplode, cin quanta campionari nuovi ogni tre me si e gli stranieri il nostro gusto non ce l’avranno mai, l’è propri acsè, perché o la va o la spacca, capita la prassi?». Bocca intuisce il problema per il futu ro: i più intelligenti tra i produttori hanno capito che il passaggio alla fa se industriale vera e propria è inevita bile. Con le parole d’oggi, si direbbe che siamo già di fronte a un’urgenza di innovazione, quella che lascia a ter ra i più deboli.
Bocca, che viene da Cuneo, cono sce il mondo contadino e a quel mon do ama tornare. Anche in questo ca so, tra stalle e cantine, è un andirivie ni tra passato e presente arretratezze, resistenze e cambiamenti, che posso no diventare tradimenti, quando si gonfiano mucche e maiali perché diano più latte e più carne, pazienza se il latte e la carne siano di mediocre qualità, e il grana non sia più quello di una volta e il carissimo culatello sia scadente e i salami invecchino dentro forni, che sembrano uguali a quelli nei quali si cuociono le carroz zerie delle automobili a Mirafiori.
LE DUE «UNITÀ» NAZIONALI
Molti altri sono i momenti salienti della narrazione: la caduta del fasci smo, la Resistenza (con testimonian ze memorabili di chi, come l’alpino Bocca, la Resistenza l’ha combattu ta davvero), la ricostruzione e poi il boom (vedi lo sferzante ritratto di Carlo Pesenti, il bergamasco re del cemento, in piena speculazione edi lizia, o l’acuta rappresentazione del neo-italiano medio, che nasce e ha subito negli occhi il paesaggio indu striale, ama i cattivi odori e la catti va cucina, in un luogo come Milano dove si consumano le memorie, scompaiono gli idiomi, «anche le co se poetiche dell’Italia povera conta dina», come avrebbe scrupolosa mente annotato Pasolini), poi Ses santotto, il terrorismo, la mafia, il tracollo dei partiti e della politica, il leghismo (al quale toccò l’attenzio ne e pure un voto di Bocca), infine il Sultano cioè il Cavaliere, in una sto ria che ripropone individualismi, egoismi, rivalità, per un interesse particolare (cioè familiare, di clan, di mafie), che prevale dopo due «unità nazionali» raggiunte, la pri ma 150 anni fa, la seconda nella lot ta partigiana, lotta di liberazione.
A proposito del mestiere di gior nalista, pensando magari a chi vuo le imparare, vorrei segnalare il re portage che va sotto un titolo duro, «Il linciaggio», che apparve sull’«Eu ropeo» nel marzo del 1960, dove si racconta di un povero vagabondo, definito «mezzo scemo», ubriaco tra un’osteria e l’altra in un paese della Bassa mantovana, massacrato di botte, colpevole di un complimento a una ragazza. Muore il vagabondo e Bocca ne ricostruisce le ultime ore, attraverso le reticenze dei com paesani, tutti colpevoli di violenza o di indifferenza, e le informazioni dei parroci, componendo davanti ai nostri occhi quell’ambiente rurale di fatiche, stalle, ignoranza, vino e crudeltà, con l’amarezza di chi ha combattuto per un altro mondo, an che per quella gente, e la pietà che dovrebbe appartenere ad ogni esse re umano, giornalista sì, ma vicino al povero Renzo, così si chiamava il vagabondo, che prima dell’ultimo pugno ha la forza di gridare: «Non vedete che mi uccidete?».

Repubblica 11.11.10
I modelli per sopravvivere alla fine del maschio
di Michela Marzano


Dagli Usa alla Francia, libri e riviste cercano di definire la nuova virilità lontano dagli stereotipi. Puntando su dolcezza e interiorità
La nostalgia sarebbe la soluzione più banale: voltarsi indietro per ritrovare il senso della superiorità maschile
Il nodo del problema è semplice: passare dal "fare" all´"essere" ribaltando l´ordine imperante dei valori

Declino del "maschio". Crisi della virilità. Fine dell´impero patriarcale… Libri e giornali discutono appassionatamente il fenomeno cercando di analizzare quello che ormai viene considerato il male del secolo. Newsweek spiega che, per sopravvivere in un mondo sempre più ostile, gli uomini devono imparare a fare i lavori delle donne e a cambiare i pannolini. Il settimanale racconta la crisi legandola anche al tramonto economico dell´industria e della fabbrica: il maschio "pesante" era modellato su quei luoghi, di formazione e di mestiere, che oggi non esistono più. Da qui la necessità di "ri-immaginare la mascolinità", liberando l´uomo dagli stereotipi del passato. Dal macho al single o al padre casalingo che si occupa con dolcezza dei figli e passa sempre più tempo con loro.
D´altra parte The Atlantic, celebre rivista Usa, aveva lanciato l´allarme titolando su la "fine dell´uomo". Prigioniero di modelli contraddittori, l´uomo contemporaneo si sentirebbe sempre più inadeguato e incompiuto. Nostalgico del passato, quando tutto era semplice e chiaro, non saprebbe più bene cosa fare. Restare virile e brutale o cercare di diventare dolce e comprensivo? Continuare a proiettarsi sul "fare" e sull´"agire" o sforzarsi di esplorare la "parte femminile" del proprio essere?
In questi ultimi anni, la soluzione più banale che è stata proposta a questa crisi identitaria dell´uomo è stata quella della nostalgia: voltarsi indietro per capire quello che si è progressivamente perso e incitare il "maschio" a ritrovare il senso della propria superiorità… Troppo sicure di sé, troppo aggressive, troppo arroganti, le donne avrebbero finito col distruggere la virilità maschile e renderlo vulnerabile e insicuro, per poi lamentarsi di non trovare più un "vero uomo" capace di soddisfarne sogni e fantasmi…
Che si tratti dello psicanalista Michel Schneider (La confusion des sexes) o del giornalista Eric Zemmour (Le premier sexe, tradotto in italiano col titolo emblematico L´uomo maschio), i paladini della virilità brutale non hanno alcun dubbio. La sola possibilità che resta oggi all´uomo per partire alla riscossa è quella di assumersi la "violenza" del proprio desiderio: l´uomo penetra, la donna si lascia penetrare, spiega Schneider; basta con questa volontà delle femministe di "castrare" l´uomo, rincara Zemmour… Anche il saggista francese Vincent Cespedes, "entusiasta e senza complessi", come è stato recentemente definito in occasione dell´uscita del libro L´homme expliqué aux femmes, non riesce in fondo a uscire dalle contraddizioni di un pensiero che, pur invocando la necessità di una virilità dolce e non dominatrice, cerca in realtà solo di giustificare una nuova forma di jouissance sans entraves fondata sul "fallo" come "totem".
Ma la via della nostalgia (praticata anche da qualche blog tra cui the art of manliness, dove ci si confronta sull´adattamento delle vecchie regole ai tempi moderni) convince solo in parte. Perché quando ci si sente confusi e smarriti, scrive Duccio Demetrio nel suo ultimo saggio, L´interiorità maschile, il solo modo per uscirne è avere accesso alla vita interiore. Che gli uomini, nella grande maggioranza, siano poco disponibili alla riflessività e più protesi verso l´esterno, pare incontestabile. Ma il filosofo invita l´uomo a non fidarsi solo delle apparenze e a perseguire una forma di virilità più profonda e più generosa. L´unica soluzione perché un "maschio" diventi un "uomo" è accedere all´interiorità. L´eroe non segue l´invulnerabilità: è nella ferita, nella fenditura e negli interstizi che si trova una via d´accesso alla verità. È per questo che si devono rivalutare alcune virtù tipicamente femminili, come la pazienza e la dolcezza, e farne il perno di una nuova identità maschile. Un modo come un altro per "ringraziare Eva", introducendo "nello stato maschile i germi dell´uomo: parole, sentire, modi d´essere e d´amare non vissuti".
L´uomo nuovo non può accontentarsi di modificare il proprio modo di agire, come spiega la sociologa americana Joan C. Williams in un saggio appena uscito negli Stati Uniti (Reshaping the Work-Family Debate: Why Men and Class Matter). Non può limitarsi a cercare di ricostruire in modo creativo il proprio ruolo nell´ambito familiare e lavorativo. Per non sentirsi più inadeguato, l´uomo deve diventare "altro": rinunciare all´arroganza del "maschio dominatore", accettare le proprie fragilità, imparare ad essere "solo interiormente" e arricchirsi della propria solitudine. Il nodo del problema è semplice: passare dal "fare" all´"essere" imparando dalle donne la tolleranza, la generosità e la condiscendenza; ribaltare l´ordine dei valori – che spinge un numero sempre maggiore di "donne in carriera" a cadere nella trappola dell´emulazione dell´agire virile – per promuovere la riflessività e l´autocoscienza; ispirarsi alla figura mitica di Abele, poeta dolcissimo, e rinunciare alla violenza di Caino…
Ma è veramente necessario cercare di definire esattamente l´essenza della mascolinità per permettere agli uomini di uscire da questa crisi identitaria che li tormenta tanto? Il malessere degli uomini non dipende forse proprio dal fatto che continuano a cercare di corrispondere ad un modello ben preciso di virilità, senza aver la possibilità di capire chi sono e cosa vogliono, indipendentemente dalla attese della società (e delle donne)?
Nonostante tutto, non si riesce ad uscire dalle dicotomie ontologiche tradizionali: essere e avere; pensare e agire; dolcezza e violenza. Non si ha il coraggio di immaginare la possibilità della contraddizione e dell´ambivalenza: essere e fare al tempo stesso; avere accesso alla propria interiorità senza per questo rinunciare a modificare il proprio modo di agire; assumersi la parte di violenza e di dolcezza che ci caratterizza tutti, indipendentemente dal fatto che siamo uomini o donne…
Per dirlo in poche parole, perché voler a tutti i costi proporre un modello di "uomo nuovo" capace, certo, di semplificare il lavoro a coloro che hanno bisogno di certezze, ma sempre insoddisfacente quando si cerca, anche sbagliando e inciampando di fronte agli ostacoli, di trovare un cammino personale per dire "io sono"?

il Fatto 11.11.10
Cuba prova a imitare la Cina
Addio “libreta” arriva il mercato
Rivalutata la moneta e spazio ai privati
Nel 2011 si potranno aprire imprese e comprare case, ma scompare la tessera per i beni essenziali
di Maurizio Chierici


Cuba volta pagina con un documento che si compra nelle edicole, un peso e 30 centesimi fa sapere alla gente come cambierà la loro vita. I tempi cubani sono lenti. Si apre un dibattito capillare: quartieri, città, villaggi ospiteranno di scussioni con l’approvazio ne finale programmata. An che se l’addio allo stato “pa dre padrone” e briglie sciol te ad investitori privati su sciterà malumori non sem pre mormorati. Ma l’econo mia è alle corde. Sacrifici “indispensabili” per difen dere l’ultimo socialismo al quale Cuba resterà fedele.

Sindrome cinese finalmente accolta, mercato e partito a braccetto. La rivoluzione è invecchiata. I suoi comandanti stanno svanendo.
FIDEL (84 anni), nell’ombra della convalescenza resta presidente del partito. Che, dopo 13 anni di silenzio, in aprile torna a riunirsi per de lineare il piano quinquenna le messo da parte e riesuma to per evitare il default. Raul (79 anni) evita la triste parola ma il significato non cambia. Bisogna dire che sopravvive re per mezzo secolo all’em bargo del primo paese del mondo e a vent’anni di so litudine dopo che i russi so no tornati a casa, è il mira-
colo della pazienza cubana. E della fantasia, che ha attra versato le miserie del Perio do Speciale scombinando le regole un tempo rigorose e a poco a poco misericordiose nel permettere deviazioni quotidiane. Nella Cuba 2011 si potranno vendere e com prare case, aprire negozi pri vati, mettere su fabbriche e fabbrichette e gli investitori stranieri avranno porte aper te evitando le ipocrisie del diventare soci di minoranza nella loro impresa proprietà formale dello stato. Decentralizzazione e autogestione e servizi saranno benvenuti. Insomma, crolla il castello dei doveri che ha ingabbiato lo sviluppo: 500 mila impie gati perderanno il posto. Disoccupati, anche se non è chiaro come sbarcheranno il lunario e se i sussidi minimi sopravviveranno alle forbici dell’economia d’urgenza. Ma è la scomparsa della libre ta ad inquietare milioni di cu bani. Libreta voleva dire latte, pane, frutta gratis. Carne due volte la settimana. Uova ogni giorno, ma la tessera che sfa mava davvero risale agi anni di Mosca. Adesso niente car ne, latte solo per vecchi e bambini, uova e pane un giorno si e tre no. Ma quel pezzo di carta manteneva la speranza che i bei tempi po tessero ricominciare. La borsa della spesa di Stato è di magrita. Non più polli ma pulcini da ingrassare nei pianerottoli o nei cortili dell’Avana. La terrazza del palazzo che ospita la grande loggia e il museo della mas soneria, famoso nel mondo, trasformata in pollaio. Picco li galli che cantavano, un maestro venerabile che con tava le uova. Per cambiare ca sa bisogna fa finta di “permutare” quella assegnata dallo stato. Correvano dollari neri, documenti con date inventa te e i telefoni, privilegio di dirigenti di partito, professo ri, ingegneri e avvocati, tri plicavano fili che raggiunge vano le finestre di chi poteva pagare ma non aveva il censo che il possesso del telefono pretende. I primi due squilli erano per il professore, i se condi due per il tassista d’accordo col ristorante privato aperto fra i tavoli di casa, dove il proprietario rispondeva dopo sei richiami: i primi cinque non erano per lui.
POTEVA continuare? La fantasia ha un limite. Tra le nuove decisioni, il valore del peso per cubani (pochi cen tesimi di dollaro) unificato col peso per stranieri che va le un dollaro. Rivalutazione pesante, ma l’Avana spera di farcela. Ha perso vent’anni da quando Castro senza Mosca si era affidato a giovani nati dopo la rivoluzione. Co me il pediatra Carlos Lage, membro del bureau, presi dente del Consiglio di Stato: insomma, quasi primo mini stro. Vent’anni fa Lage inven ta una Wall Street “rusticana” per far oscillare il cambio del dollaro con la vendita di frut ta e verdura nei mercati con tadini per la prima volta pri vati. Guardava alla grande economia partendo dalle ta vole di famiglia. Idee accan tonate, aperture rimandate, privatizzazione annullata. Un anno fa Raul lo ha sosti tuito con un militare. Via an che il cancelliere Felipe Pe rez Roque, meno di 50 anni, cresciuto nella stanza accan to alla stanza di Fidel. Adesso Cuba prova a recuperare il tempo perduto. Previsioni complicate.

il Fatto 11.11.10
Per il 19esimo anno, 187 paesi votano per la sospensione del blocco Contrari solo Usa e Israele
L’Onu lo condanna, ma l’embargo non muore
di Gianni Minà


Martedì 26 ottobre l'Assemblea della Nazioni Unite, per il diciannovesimo anno di seguito, ha condannato il blocco economico imposto dagli Stati Uniti a Cuba, che dura ormai da quasi mezzo se colo e rappresenta un vero e proprio assedio della nazione più poderosa del mondo all'i sola della Revolución. 187 paesi hanno votato in favore del documento proposto da Cuba. Contrari solo Stati Uniti e Israele. Tre gli astenuti: le Isole Marshall, che ospita una grande base militare Usa nel Pacifico, la Micronesia e le Isole Palau. Quest'ultimo è un arcipelago del Pacifico, di ventimila abitanti, ed è prati camente un protettorato Usa, tanto da essere rappresentato all'Onu da Stuart Beck, un av vocato di Long Island di citta dinanza israeliana. L'anno scorso Palau aveva vo tato in favore dell'embargo, dopo aver ricevuto 200 milio ni di dollari per accollarsi di-ciassette cinesi musulmani ui guri, catturati in Afghanistan e finiti a Guantanamo. Quest'anno, evidentemente, a questo staterello è mancata la materia prima per continuare in questo mercato.
La posizione ambigua dell’Europa
IL CORAGGIO per confer mare il proprio pregiudizio quando si parla di Cuba non è mancato invece a buona parte dei media italiani, che hanno fatto finta di non accorgersi che la censura votata martedì dall'Assemblea delle Nazioni Unite “riafferma i principi di eguaglianza sovrana fra gli Stati e di non intervento o ingeren za nelle questioni interne e nel la libertà di un paese”.
Perché il documento votato al Palazzo di Vetro ribadisce il ri fiuto di promulgare e applica re leggi come la “Helms-Bur ton”, emanata dal governo de gli Stati Uniti nel 1996 “i cui ef fetti extraterritoriali nuoccio no anche alla sovranità di altre nazioni e agli interessi legittimi di entità e persone sotto la pro pria giurisdizione e attentano alla libertà di commercio e na vigazione”.
Molti dei nostri media hanno ignorato questi dettagli e i so lerti redattori non si sono nem meno accorti, navigando in Rete, delle immagini dei diplo matici dei vari paesi del mon do che, alla fine della votazio ne, hanno fatto la fila per com plimentarsi con il ministro de gli Esteri cubano Bruno Rodriguez. Un atto non di invincibi le “antiamericanismo” ma di ri spetto che si deve al diritto di autodeterminazione dei po poli. Così, per esempio, a col leghi come Pierluigi Battista del Corriere della Sera, felice per il conseguimento del Premio Sakharov al dissidente cubano Guillermo Fariñas, è sfuggita l'importanza politica ed etica della condanna per la seconda volta, anche nell'era di Obama, dell'antistorico e immorale blocco economico.
Una censura che sottolinea an che la contraddizione della Co munità europea, che vota al l'Onu contro questa sanzione dopo non essere stata capace di partorire una “posizione co mune” nei riguardi di Cuba e di aver osteggiato, anzi, il tentati vo pacificatore dell'ex mini stro degli Esteri spagnolo Mo ratinos che, con l'aiuto della Chiesa cattolica, ha poi trovato una mediazione con il governo dell'Avana per il rilascio degli oppositori che, nel 2003, furo no accusati di avere cospirato con gli Stati Uniti per abbattere una volta per tutte la Rivoluzio ne e l'anomalia politica che rappresenta. Pierluigi Battista ha definito quella stagione la “primavera nera” di Cuba, tra scurando con disinvoltura che, il 20 maggio scorso, alla emittente Woba della catena Univision di Miami, Roger No riega, ex sottosegretario di Sta to del governo di Bush jr (2003-2005), ha riconosciuto di aver cospirato con James Ca son, capo dell'Ufficio della se zione di interessi degli Stati Uniti a Cuba (2002-2005), per far nascere e fomentare il caos nell'isola, con sequestri di ae rei e perfino del ferry boat del la baia dell'Avana. Una trama per farla finita, finalmente, con la Rivoluzione cubana.
Tutto questo è avvenuto com prando il dissenso e favorendo una strategia della tensione al la quale, purtroppo, Cuba rea gì con esagerata durezza. Non a caso, in un articolo, Saul Lan dau (ex ricercatore del Dipar timento di Stato nordamerica no e ora professore dei mezzi digitali del Politecnico statale della California) si è chiesto co sa sarebbe successo se gli stes si pericolosi meccanismi fos sero stati messi in moto negli Stati Uniti dai cubani o da rap presentanti di qualunque altra nazione.
Agenti cubani trame americane
È SUFFICIENTE ricordare la storia dei cinque agenti del l'intelligence cubana che han no smascherato le centrali ter roristiche che dalla Florida or ganizzavano e mettevano in at to attentati nell'isola (più di tre mila i morti nel corso degli an ni). Dopo che il governo del l'Avana avvisò quello di Wa shington, i terroristi non furo no disturbati mentre i cinque cubani, accusati di spionag gio, si trovano in carcere da do dici anni, dopo un processo a Miami definito “arbitrario” dal la commissaria per i diritti umani dell'Onu. Un giudizio poi bocciato dalla Corte di Ap pello di Atlanta e infine impantanato dalla Corte Suprema. Uno degli organizzatori di que ste azioni eversive, Santiago Al varez, dopo essere stato sco perto con una macchina piena di esplosivo che, a suo dire, do veva servire a eliminare Fidel Castro, ha rivelato in un pro cesso a Miami di essere il sov venzionatore delle famose “Dame in bianco”, spesso cita te come simbolo di resistenza al regime cubano.
Almeno questo clima pesante, con la presidenza di Barack Obama, sembra essersi atte nuato, anche per il favore che Cuba continua a godere con il resto del continente che Chomsky, non a caso, ha defi nito ormai “il più progressista del mondo”, ma adesso molti liberal, come il grande lingui sta del Mit di Boston o come Wayne Smith, il diplomatico nordamericano che per il pre sidente Carter tentò il dialogo con la Rivoluzione, si augura no che non solo il penoso car cere dei Cinque, ma anche l'embargo condannato dall'O nu finiscano, in un mondo che ha bisogno di gesti etici e non di posizioni politiche senza senso.

il Fatto 11.11.10
Mussolini
Bufale e falsità. Arrivano i diari del Duce
Bompiani, operazione imbarazzante, tesa a presentare un dittatore buono che amava il popolo ebraico
di Malcom Pagani


Una postilla. Una frase laconica che tanto spiega e con voluta ambiguità, molto altro lascia in tendere. Neanche il tempo di ar rivare a riga cinque della Nota editoriale non firmata sui diari di Mussolini editi da Bompiani, che già le braccia, in un movimento inconsulto, toccano terra. L'au tenticità delle cinque agende, precisa l'anonimo estensore, “ri mane, ad oggi, controversa”. Eli sabetta Sgarbi e Marcello Dell'U tri ce l'hanno fatta. Le patacche che nessuno voleva, i fogli dat tiloscritti che mezza Europa ha valutato, per poi cestinare dan dosi di gomito, arrivano in libre ria. E sono subito pile in bella vi sta, poster in vetrina, strenne na talizie per ingenui e nostalgici. Qui la ricerca storiografica non c’entra nulla. È una campagna di cinismo, delirio d’onnipotenza, calcolo. Nello sforzo editoriale, Ely e Marcy hanno però smarrito la barbarica baldanza che, appe na qualche mese fa, aveva por tato entrambi a eccellere nelle Olimpiadi dell'equilibrismo dia lettico. Benito Mussolini in copertina, una fotografia sfuocata che è la sintesi di un'operazione maldestra. Sotto il titolo, tra pa rentesi (forse per la vergogna) un inedito assoluto per la lette ratura italiana. “Veri o presunti” si legge. Il tutto e il niente, con prevalenza evidente per la se conda ipotesi in cui la bufala, da sola, non basta a spiegare un so gno di scoperta diventato in fret ta incubo. A pagina sette, infatti, invece della minuziosa grafia del Duce, prende il via un lungo ca pitolo scisso in tre parti. L'intro duzione non firmata (un vizio) si allunga e si distende per quasi settanta pagine. Più in là dell'os sessione del giornalista inglese del Sunday Telegraph Nicholas Farrel (firma di Libero, come l'i neffabile Francesco Borgonovo, i due progettano un'operazion cina pseudoletteraria, furba e chirurgica, da dare alle stampe con il quotidiano di Belpietro entro un mese), piovono smentite.
UN'EPIDEMIA. Smentisce Edda Ciano, nel 1994, qualche mese prima di morire: “Soltanto parole buttate al vento come molte altre cose che si sono dette su mio padre”. Nega risoluta mente Luciano Canfora, picchia duramente Emilio Gentile, al ter mine di un’indagine durata due mesi e non poche ore al tavolo di un ristorante di confine, come accadde a Denis Mack Smith anni prima. Gentile mette in fila omis sioni, elementi mancanti che nell’esistenza di Mussolini assun sero un ruolo chiave. Nota l’as senza di giudizi sui gerarchi del partito e di commenti sui libri letti: “Mentre è certo che le note di lettura erano una caratteristica dei diari di Mussolini”. Ma per dersi nelle minuzie non rende rebbe giustizia al vero cuore dell’impresa. Non riscrivere i dia ri, in qualche soffitta per poi ven derli a bibliofili colti il cui mece natismo confina con l’ego, ma ri scrivere la Storia. Riabilitare Mus solini, lavarne le colpe, mondar ne le responsabilità. Hitler?, lo sterminio del popolo ebraico? l’entrata in guerra? Eventi e deter minazioni che avrebbero trovato Mussolini in opposizione. Ed è qui, in passaggi che se non fossero tragici, farebbero sorridere, che il grottesco si fonda con lo straniamento. 13 novembre 1938, si vota la legge per la difesa della razza. Nei falsi diari, Benito ha la pietas di Madre Teresa: “Si vorrebbero espellere gli ebrei dal Partito. No-non approvo”. O an cora, nelle riflessioni dell’11 feb braio 1939: “Io sono contro le leggi razziali. Gli ebrei vivano co me hanno sempre vissuto. La raz za ariana o no, per me è la stessa cosa”. E se l’intento autoassolu torio, potrebbe far propendere qualche esegeta sull’autenticità delle pagine ripensate all’uopo, in attesa di processi che il corso degli eventi renderanno inevita bili, sono le spudo rate copie dei resoconti dei giornali dell’epoca, le date di compleanno sbagliate di Mussolini stesso (notevole devia zione nel non-sense), gli errori ortografici: “Il movimento popo lare iniziato da Marx ed Hegel (sic)”, i nomi delle persone che il Duce conosceva bene da alcuni anni, riportati come se Mussolini li incontrasse per la prima volta, gli elogi a D’Annunzio (in realtà detestato) a dare davvero la cifra dell’inganno.
NON È SOLO la storiografia di sinistra a dubitare, ma anche pro fondi studiosi del periodo di de stra come Giordano Bruno Guer ri: “La mia impressione che si trat ti di un falso è nettissima” e do centi alla Cattolica di nome Ma rino Viganò: “Questi diari si de vono smascherare (...) è presso ché inutile una perizia di carta, inchiostro e grafia”. A Bompiani che si è prestata alla farsa soste nendo di non dover dare un giu dizio di veridicità a un sedicente libro storico (perché una prova regina, in un senso o nell’altro non esiste sostengono, e quindi, di corsa in stampa a monetizza re), è riuscito il miracolo che lo stesso Duce non realizzò se non a prezzo della dittatura: unire mondi inconciliabili, far parlare, con la stessa opinione, gente del le più diverse estrazioni. Dell’Utri si lamenta di chi, illibe ralmente, gli impedisce di fare apologia di fascismo in pubblico presentando il volume. Ha ragio ne. Non si è mai ridicoli per le proprie qualità, ma per quelle che si fa finta di possedere. La Ro chefoucauld, quello vero, do vrebbe averlo letto.

il Fatto 11.11.10
Quando la patacca aveva i baffetti del Fürer
di Paolo Soldini


S ono passati quasi 28 anni, ma la storiac cia dei falsi diari di Hitler pubblicati da “Stern” e da un bel numero di rotocalchi in ternazionali (tra cui “Panorama”) ancora non è finita. I familiari di Gerd Heidemann, il reporter che convinse il settimanale di Am burgo a sborsare milioni di marchi per la più colossale bufala mai comparsa sulla stampa tedesca, aspettano ancora la revisione del processo che costò al giornalista molti anni di prigione. Lui intanto è morto e pochi se lo ricorderebbero se non fosse per la straordinaria interpretazio ne che ne dette l’at tore Götz George in “Schtonk”, un bel film di Helmut Dietl che ebbe all’inizio de gli anni ’90 un grosso successo in Germa nia. Ha avuto una sorte ben più benevola l’altro protagonista della gigantesca truffa, anzi forse il vero protagonista perché fu lui, Konrad Kujau, che materialmente scrisse i diari. Kujau ha subìto una condanna lieve e poi si è ritirato nella sua Colonia, dove continua a fare quello che ha sempre fatto: il falsario. Un falsario legale giacché ora ap plica il suo fantastico talento a operazioni del tutto innocenti (pur se lucrose) e ogni tanto ricompare nelle cronache sorridente e sod disfatto.
Tutto cominciò nella primavera dell’83. Heidemann lavorava allo “Stern” e nel tempo libero collezionava cimeli del Ter zo Reich. Non che fosse nazista, ma la sua curiosità per quel passato aveva comunque qualcosa di malato. Se ne accorse Kujau, che lo aveva conosciuto mentre si dedicava al suo lavoro preferito: dipingere acquerelli con la firma di Hitler e venderli a gallerie o clienti nostalgici. Fu il falsario a proporre il colpo grosso. Disse di avere i diari del Führer, che – raccontò – gli erano stati dati da un conta dino di Börnersdorf, un paesino vicino a Dre sda dove nell’aprile del ’45 era caduto un aereo che portava materiale delicato dalla cancelleria. Heidemann abboccò subito. Si fece dare i primi volumi (gli unici scritti, fino a quel momento) e prospettò ai dirigenti di “Stern” lo scoop del secolo chiedendo una cifra astronomica per comprare tutti i diari. La cosa incredibile fu che il settimanale ab boccò. Colpa anche di Hugh Trevor-Roper, il prestigiosissimo biografo inglese di Hitler e collaboratore del “Times” che, messo sotto pressione dall’editore Rupert Murdoch, pur avendo dei dubbi avallò l’autenticità dei dia ri. Così “Stern” uscì in edicola con il suo scoop e, subito dopo, altrettanto fecero il “Sunday Times” e molti altri periodici, tra cui “Panorama”.
Intanto Kujau aveva prodotto la bellezza di 62 volumi che scriveva di notte ossessio nato da Heidemann. All’inizio di maggio, gli esperti della polizia federale dimostrarono che la carta e l’inchiostro dei diari non esi stevano ancora al tempo di Hitler. Fecero no tare anche un particolare che inspiegabil mente era sfuggito a chi li aveva avuti in ma no: il monogramma sui frontespizi era sba gliato, “FH” anziché “AH”. Heidemann e Kujau furono arrestati per truffa, ma al pri mo fu contestata l’aggravante di aver trat tenuto per sé una parte del denaro che “Stern” aveva sborsato. Non era vero, come avrebbero dimostrato certe registrazioni che il tribunale non volle ascoltare: è il motivo per cui si attende ora la revisione del pro cesso.

neo-leghismo e filo-fascismo, questo è Sansonetti...
il Fatto 10.11.10
Sansonetti riabilita i moti di Reggio
Una Lega del sud al grido di “Boia chi molla”
di Enrico Fierro


Da pupillo di Bertinotti a moderno seguace del Cardinale Ruffo, passando per Ciccio Franco e i suoi “Boia chi molla”. Da quando Piero Sansonetti, ex direttore di “Liberazione”, è “sceso” a Cosenza per dirigere il quotidiano “CalabriaOra”, si è imposto un solo obiettivo: stupire. Effetti speciali a gogò che però non sono riusciti a cancellare la brutta storia del licenziamento di un suo giovane giornalista minacciato dalla ‘ndrangheta. La politica in Calabria è stanca, ecco che Sansonetti la rianima con un colpo di teatro: il leghismo alla ‘nduja. “C’era il vento del Nord, ci sarà il vento del Sud”, è il titolo del convegno che “CalabriaOra” terrà a sabato a Lamezia Terme. “Boia chi molla” è la parola d’ordine. Era lo slogan della “rivolta di Reggio”, una delle pagine più buie della storia italiana, un misto di eversione, interessi politici e mafia, che Sansonetti riabilita. Altro che slogan fascista, scrive in un editoriale, “Boia chi molla lo inventarono gli insorti della Repubblica napoletana e fu ripreso da Carlo Rosselli”. Di quelle parole Sansonetti si riappropria per una sua personalissima riscrittura della storia calabrese. La rivolta di Reggio non fu fascista, come per quarant’anni ha sostenuto la sinistra, ma vera rivolta di popolo. E la manifestazione unitaria dei sindacati del 1972, centinaia di migliaia di lavoratori e studenti da tutta Italia, “fu sbagliata, sbagliatissima” (altro editoriale di fuoco), perché animata da una “logica da occupazione militare”, e poi quello slogan “Nord e Sud uniti nella lotta era insensato”. E ora, a proposito di ribellione del Sud, Sansonetti dice: “È un’esigenza vitale, visto che il partito più potente d’Italia è dichiaratamente nordista. C’è un insopportabile squilibrio di poteri che si può superare solo con la rivolta e la ricostruzione di una classe dirigente del Sud”. Ma il giudizio di Sansonetti su “Boia chi molla” ha smosso le viscere di un personaggio mitico della sinistra calabrese, Peppino Lavorato, amico fraterno di Peppe Valarioti, il segretario del Pci di Rosarno ucciso dalla mafia nel giugno del 1980, sindaco e poi parlamentare. “Sansonetti ha aperto una riflessione sui moti di Reggio che io contesto. Altro che storie, ci sono atti e sentenze che dimostrano come quella rivolta fu un fatto eversivo, si stava preparando il terreno di massa al consenso per una svolta fascista. Non dimentichiamo che poi venne il tentativo di golpe del principe Borghese. Allora Pci e sindacati difesero la democrazia. L’ho scritto in un articolo inviato a CalabriaOra che però non è stato mai pubblicato”. La mafia, qui gli editoriali di Sansonetti sono chiarissimi fin dai titoli: “Antimafia sì, forcaioli no”. E i consensi non sono mancati. “Egregio direttore – scrive il deputato Pdl Giovanni Dima – le truppe del giustizialismo sono già schierate e pronte e dare battaglia...lei sarà accusato del delitto di lesa maestà”. Entusiasmi anche a sinistra. “Se tutto è mafia, niente è mafia”, scrive il consigliere regionale Nicola Adamo (rinviato a giudizio nell’inchiesta “Why Not?”). Insomma, un rimescolare le carte continuo. Se Susanna Camusso, la nuova segretaria della Cgil, si pone come obiettivo una grande manifestazione antimafia in Calabria, Sansonetti la redarguisce duramente. Editoriale: “I calabresi non sono mafiosi, sono disoccupati”. Tesi centrale: “I problemi essenziali di questa regione sono due: il lavoro e il reddito”. La ‘ndrangheta c’è ed è forte, ma nel “benaltrismo” sansonettiano non è il problema dei problemi.
Sergio Genco è il segretario della Cgil calabrese, è in macchina e non ha il tempo per polemizzare: “Sto andando a Locri dove quella mafia che qui non è il problema centrale ha appena sparato a tre lavoratori, vado in ospedale a trovarli, mi scusi”. Infine il convegno, bei nomi. C’è Peppe Bova, consigliere regionale sospeso dal Pd, famoso per aver speso in un anno 211mila euro di benzina prontamente rimborsatigli dalla Regione, un imprenditore come Antonino Gatto, presidente di Despar Italia, la cui ascesa economica è stata ricostruita nella relazione dell’Antimafia sulla ‘ndrangheta, Enza Bruno Bossio, l’imprenditrice del Pd rinviata a giudizio per una storia di finanziamenti della 488 dalla procura di Lecce, più Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno e Nicola La Torre. Conclusioni di Giuseppe Scopelliti, il governatore della Calabria che ai suoi concittadini deve ancora una spiegazione credibile sulla sua partecipazione ad un pranzo organizzato da imprenditori ritenuti legati a cosche importanti della ‘ndrangheta reggina. E’ il “nuovo vento del Sud”.

Repubblica 7.11.10
Appunti di viaggio verso l´abisso
di Antonio Gnoli


Gli anni che precedettero la prima guerra mondiale furono per Carl Gustav Jung (1875-1961) attraversati da strane premonizioni. Poco più che trentenne, cominciò ad avere delle visioni apocalittiche. I suoi occhi erano colmi di terrificanti inondazioni, vedeva macerie ovunque e fiumi di sangue scorrere per l´Europa. Pensò di essere pazzo. Quegli stati di veglia, durante i quali gli accadeva di provare angoscia e tremore, non potevano tuttavia ridursi a semplici fantasticherie. Da bambino, gli accadde spesso di sognare una figura che la voce della madre definiva il «divoratore di uomini». Chi era quel personaggio che di notte portava lo scompiglio nella testa del giovane Carl?
Ancora molti anni dopo, riflettendo su quell´esperienza allucinatoria, Jung non sapeva se ricondurla alla favolistica dimensione di un orco o alla figura del Cristo. Forte era il disorientamento, ma forte al contempo la necessità di cercare una spiegazione che andasse oltre la pura ragione e la semplice esperienza sensoriale. Fu così che Jung cominciò ad annotare, come un allucinato sismografo, tutto quello che accadeva nel proprio mondo interiore. Non solo i sogni e le visioni, ma anche le letture fatte, gli scrittori compulsati, i saperi torturati, le civiltà confrontate, le mitologie, il folclore, l´arte, le religioni, insomma tutto, o quasi, confluì in quel grande e misterioso affresco incompiuto che è il Libro rosso, di cui esce ora l´edizione italiana.
Nelle intenzioni di Jung, quel testo - per decenni considerato una sorta di Santo Graal della psicoanalisi junghiana - avrebbe dovuto descrivere le varie componenti della sua personalità, proprio a partire dalle sue fantasie. Le quali, sebbene agissero liberamente, appartenevano al sostrato antichissimo del mito. Jung aveva compreso che per conoscere se stessi occorreva perlustrare quel cantiere di sogni e di apparenti bizzarrie, di visioni e perfino di mostruosità che talvolta ci portiamo dentro. Era consapevole che non si trattava di semplici allucinazioni, ma di un mondo simbolicamente ricchissimo che l´epoca moderna aveva tentato di cancellare.
Il Libro rosso (o Liber novus) mette il lettore di fronte a due situazioni: gli fa conoscere Jung attraverso Jung; e contemporaneamente lo introduce a un metodo di lavoro che può illuminare la sua vasta produzione. È noto che egli fu allievo di Freud, con il quale scambiò, oltre che l´amicizia, lettere, giudizi e riflessioni. Quel rapporto - proprio negli anni in cui vennero poste le premesse alla sua opera più intima - si esaurì. Nel 1914 Jung uscì dall´Associazione psicoanalitica internazionale. Alla base della rottura ci fu più di un motivo. C´era, innanzitutto, quella che Jung definì l´ortodossia freudiana e l´eccesso di dogmatismo dottrinario; c´era il diverso modo di interpretare la libido (per Freud la libido era riconducibile esclusivamente alla pulsione sessuale; mentre per Jung essa si apriva anche ad altre pulsioni psichiche); c´era la diversa lettura che entrambi davano dell´inconscio (per Freud all´inizio una tabula rasa su cui via via vengono depositati gli atti rimossi dalla coscienza; per Jung viceversa l´inconscio è già definito fin dall´origine); infine il metodo freudiano era soprattutto un´analisi retrospettiva, tendeva cioè a ricostruire gli antecedenti del materiale psichico osservato; quello junghiano privilegiava la vita nella sua complessità simbolica e immaginativa. Di qui l´importanza che agli occhi dell´ex allievo assunsero alcuni archetipi: "Persona", "Ombra", "Anima", "Sé", che egli interpretò come manifestazioni differenti della personalità.
Il Libro rosso può dunque esser letto anche come il tormentato emanciparsi dalla figura del maestro. Il differente approccio junghiano alla vita psichica, includeva l´esistenza di un conflitto con la figura paterna, sia reale (come nel caso del distacco da Freud) sia simbolica (quando gli accadde di riflettere sulla morte di Dio). Jung meditò a lungo sullo Zarathustra di Nietzsche. Ne concluse che - grazie all´anima - il dio che muore rinasceva nelle sue multiformi espressioni.
Il Libro rosso è una delle grandi avventure clandestine del Novecento. Jung ne interruppe improvvisamente la stesura negli anni Venti, per poi riprenderla nel 1959. Ma anche in quella occasione prevalse la sospensione. Per anni il testo fu inaccessibile. Del resto, non era chiaro se Jung lo considerasse pubblicabile. Gli eredi, grazie al lavoro di persuasione di Sonu Shamdasani, lo hanno infine consentito. E questo, sebbene la parte scritta e quella disegnata (vi ricorre, ad esempio, il grande tema del Mandala) inducano a catalogarlo tra i suoi frutti più esoterici. D´altro canto, il Libro rosso rivela un mondo che ci sorprende per ricchezza concettuale, per affezione a civiltà remote e diverse dalla nostra, per quei nessi sotterranei che mostrano l´immenso talento di chi li ha saputi creare. Più che un monumento alla psicologia, o un semplice documento intimo, il Libro rosso è la prova che i grandi spiriti sanno guardare l´abisso della follia senza esserne inghiottiti.

Repubblica 7.11.10
Il libro rosso di Jung tra Dio e abisso
Dio nella mia anima draghi nel mio cuore
di Carl Gustav Jung


 Nel 1913 Carl Gustav Jung ha quarant´anni ed è un uomo realizzato: ha "fama, potere, ricchezza, sapere". Ma all´improvviso incominciano incubi e visioni apocalittiche. Il padre della psicologia analitica li annoterà e li disegnerà per tutta la vita su un quaderno che diventerà il "Libro rosso" Uno stupefacente diario intimo, monumento all´inconscio, testo alchemico di straordinaria ricchezza. L´opera, rimasta a lungo segreta, ora esce in Italia

Quando, nell´ottobre 1913, ebbi la visione dell´alluvione, mi trovavo in un periodo per me importante sul piano personale. Allora, all´età di quarant´anni, avevo ottenuto tutto ciò che mi ero augurato. Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere e ogni felicità umana. Cessò dunque in me il desiderio di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desiderio e fui colmo d´orrore. La visione dell´alluvione mi sopraffece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso però mi forzò facendomi provare un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo… Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui.
o scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto da te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? Oppure non vuoi sentire nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta. Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non c´è altra via. Ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via giusta, mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato. Mi conosci ancora? Quanto a lungo è durata la separazione! Tutto è così mutato. E come ti ho trovata? Com´è stato bizzarro il mio viaggio! Che parole dovrei usare per descrivere per quali tortuosi sentieri una buona stella mi ha guidato fino a te? Dammi la mano, anima mia quasi dimenticata. Che immensa gioia rivederti, o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha riportato a te. Diciamo grazie alla vita perché ho vissuto, per tutte le ore serene e per quelle tristi, per ogni gioia e ogni dolore. Anima mia, il mio viaggio deve proseguire insieme a te. Con te voglio andare ed elevarmi alla mia solitudine».
Questo mi costrinse a dire lo spirito del profondo e al tempo stesso a viverlo contro la mia stessa volontà, perché non me l´aspettavo. In quel periodo ero ancora totalmente prigioniero dello spirito di questo tempo e nutrivo altri pensieri riguardo all´anima umana. Pensavo e parlavo molto dell´anima, conoscevo tante parole dotte in proposito, l´avevo giudicata e resa oggetto della scienza. Credevo che la mia anima potesse essere l´oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. Perciò lo spirito del profondo mi costrinse a parlare all´anima mia, a rivolgermi a lei come a una creatura vivente, dotata di esistenza propria. Dovevo acquistare consapevolezza di aver perduto la mia anima. Da ciò impariamo in che modo lo spirito del profondo consideri l´anima: la vede come una creatura vivente, dotata di una propria esistenza, e con ciò contraddice lo spirito di questo tempo, per il quale l´anima è una cosa dipendente dall´uomo, che si può giudicare e classificare e di cui possiamo afferrare i confini. Ho dovuto capire che ciò che prima consideravo la mia anima, non era affatto la mia anima, bensì un´inerte costruzione dottrinale. Ho dovuto quindi parlare all´anima come se fosse qualcosa di distante e ignoto, che non esisteva grazie a me, ma grazie alla quale io stesso esistevo.
Giunge al luogo dell´anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. Se non la trova, viene sopraffatto dall´orrore del vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l´angoscia lo spronerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacue di questo mondo. Diverrà folle per la sua insaziabile cupidigia e si allontanerà dalla sua anima, per non ritrovarla mai più. Correrà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà, ma non ritroverà la sua anima, perché solo dentro di sé la potrebbe trovare. Essa si trovava certo nelle cose e negli uomini, tuttavia colui che è cieco coglie le cose e gli uomini, ma non la sua anima nelle cose e negli uomini. Nulla sa dell´anima sua. Come potrebbe distinguerla dagli uomini e dalle cose? La potrebbe trovare nel desiderio stesso, ma non negli oggetti del desiderio. Se lui fosse padrone del suo desiderio, e non fosse invece il suo desiderio a impadronirsi di lui, avrebbe toccato con mano la propria anima, perché il suo desiderio ne è immagine ed espressione.
Se possediamo l´immagine di una cosa, possediamo la metà di quella cosa. L´immagine del mondo costituisce la metà del mondo. Chi possiede il mondo, ma non invece la sua immagine, possiede soltanto la metà del mondo, poiché l´anima sua è povera e indigente. La ricchezza dell´anima è fatta di immagini. Chi possiede l´immagine del mondo, possiede la metà del mondo, anche se il suo lato umano è povero e indigente. Ma la fame trasforma l´anima in una belva che divora cose che non tollera e da cui resta avvelenata. Amici miei, saggio è nutrire l´anima, per non allevarvi draghi e diavoli in cuore.
Traduzione Marianna Massimello

Corriere della Sera 7.11.10
Il romanzo della mamma di Pasolini
di Paolo Di Stefano


È un’autentica sorpresa, questa saga familiare di Susanna Colussi, madre di Pier Paolo Pasolini. E dunque ha fatto benissimo Graziella Chiarcossi a consegnare a Rosellina Archinto le carte de Il film dei miei ricordi, rimaste nel cassetto di un comò almeno dal primo febbraio 1981, data della morte dell’autrice, novantenne. Per la verità, come ci informa Chiarcossi nella nota di apertura, si tratta di 21 quaderni di quinta elementare, fittamente scritti a penna e compilati a partire da metà anni 50 («sicuramente Susanna ha cominciato a scrivere quando abitava con il figlio nel quartiere di Monteverde Vecchio a Roma») fino all’inizio dei 70. La stesura avvenne, probabilmente, all’oscuro di Pier Paolo, il quale però doveva conoscere la vocazione della madre per la scrittura (non mancano brani epistolari di lei che somigliano a certe ispirate pagine descrittive del libro). Chiamata dal figlio «Capinera Solitaria» in versione poetica, oppure alternativamente «cicciona», «mammetta», «pitinicia», «picinina» nelle lettere, la maestra di Casarsa, Susanna Colussi in Pasolini, deve aver raccontato al suo Pier Paolo le vicende storiche della sua famiglia, tant’è vero che lo scrittore riprese qua e là alcuni di quegli episodi nella sezione I Colùs de La meglio gioventù, come puntualmente segnalato da Chiarcossi. A questi va aggiunto il dramma in friulano I Turcs tal Friùl — scritto agli inizi del ’44 e pubblicato postumo — che evoca la fine cruenta di un giovane Colùs abbattuto dai Turchi decisi, nel 1499, a oltrepassare l’Isonzo: episodio cui la madre dedica, nel suo memoriale, un’ampia digressione.
In realtà — salvo quest’ultimo flashback storico — Il film dei miei ricordi percorre un centinaio d’anni, prendendo avvio dalla campagna di Russia della Grande Armée napoleonica e andando a concludersi all’alba della Prima guerra mondiale, quando Susanna diventa maestra. Dunque, il titolo è solo in parte fededegno, visto che la voce narrante non fa che riportare in buona parte le memorie della nonna (sua omonima), almeno finché, come per un passaggio di testimone, il ricordo — senza più filtri — diventa vivo e diretto. A quel punto siamo ormai alla fine dell’800 e ben oltre la metà del libro, allorché la narratrice rievoca: «La più lontana visione nel film dei miei ricordi: un pomeriggio domenicale di fine estate, in camera di mia madre, Centin, forse sei anni, io non più di tre, siamo seduti ben composti sul gran letto, fermi buoni per non sgualcire i nostri vestiti nuovi». Centin è il fratello maggiore, che sta al centro dell’ultimo capitolo. La sua storia, no intere vite, ma da Casarsa spesso si parte in battaglia, in fuga o in cerca di lavoro. Ci sono molti giovani in fuga, come Vincenzo che in groppa a un cavallo bianco parte senza voltarsi indietro per arruolarsi tra le truppe di Napoleone, si ritrova agonizzante nella neve, viene raccolto dalla dolce Susanna, che lo curerà, fuggirà in Italia con lui e sposerà lo sconosciuto, rinunciando a un promesso sposo ricchissimo.
Nonna Maria (alle cui sottane era sempre atcome quelle di Visèns, di Beputi, di Pauli, di Cenci, di Beputi II e di Minuti negli altri sei capitoli, si intreccia con una sarabanda di altre storie e di altri personaggi (maschili e femminili), ma il fuoco di tutto è il paese agricolo di Casarsa della Delizia, il cui primo nucleo venne fondato dalla «tribù» degli stessi Colussi, vassalli del patriarca di Aquileia, destinati ad aprire una distilleria dalle alterne fortune. A Casarsa si vivono e si muoiotaccata la piccola Susanna) apre bauli e mostra oggetti alla sua nipote, vecchie foto e documenti. Ne vengono fuori, come da un cappello magico, racconti felici e racconti dolorosi, come la breve vita del patriota antiaustriaco Beputi (fratello minore di Maria), finito in prigione per ragioni politico-amorose. Ma ci sono anche racconti picareschi di alcuni scavezzacolli di famiglia: è il caso di Cenci, classe 1844, primogenito di nonna Maria: il suo buon cuore non sapeva resistere all’inquietudine e alla voglia di cambiare aria, fino a condurlo in Francia (dopo molte peripezie), dove avrà successo importando l’attività familiare della distilleria. La sua storia si intreccia con due bellissime figure femminili, l’amata e infelice Pierrette (che finirà suicida) e la ricca Jacqueline che sposerà controvoglia prima di arruolarsi tra i francesi e sparire nel nulla. Il temperamento caldo di Cenci tornerà anni dopo con Centin, che finirà emigrato in America più per inquietudine che per necessità. C’è il generosissimo Beputi II, pronto a regalare i suoi vestiti agli straccioni.
Susanna Colussi sa raccontare, conosce il ritmo narrativo, ha il dono del ritratto fulminante e del dialogo, sa dosare il suo dialetto dentro un italiano affabile e piano, che ricorda quello di narratrici di saghe come Rosetta Loy. Sa descrivere le atmosfere, gli umori, le feste, i cambi di stagione, i giochi infantili, l’adulterio boccaccesco di cui sono vittime due uomini di casa, l’ideale anarco-comunista del falegname di paese, il carattere sempre più cupo di sua madre e l’ottimismo ingenuo del padre. Certo, è quasi inevitabile leggere queste cinquecento pagine senza pensare a Pier Paolo, magari per tentare di individuare negli avi materni i precedenti del suo carattere, del suo genio e della sua irregolarità. E qualcosa si trova, a ben guardare. Ma in fondo con questo libro Susanna merita di uscire dall’ombra del figlio.

Repubblica 10.4.10
Pier Paolo Pasolini. I giovani, l’amore, il sesso
Viaggio nell’Italia anni ’60
di Michel Foucault


Ecco la recensione scritta da Michel Foucault nel 1977 al film-inchiesta del regista di "Comizi d´amore". Un ritratto del Paese e dei suoi cambiamenti Qualcuno si decide, risponde esitando. Si avvicinano, borbottano, le braccia sulle spalle, volto contro volto. Risa e tenerezza. Qualcuno manifesta anche il timore che molti comportamenti ora verranno tollerati. Verrà meno una specie di ecosistema

Come nascono i bambini? Li porta la cicogna, da un fiore, li manda il buon dio, o arrivano con lo zio calabrese. Guardate il volto di questi ragazzini, invece: non danno affatto l' impressione di credere a ciò che dicono. Con sorrisi, silenzi, un tono lontano, sguardi che fuggono a destra e sinistra, le risposte a tali domande da adulti possiedono una perfida docilità; affermano il diritto di tenere per sé ciò che si preferisce sussurrare. Dire "la cicogna" è un modo per prendersi gioco dei grandi, per rendergli la loro stessa moneta falsa; è il segno ironico e impaziente del fatto che il problema non avanzerà di un solo passo, che gli adulti sono indiscreti, che non entreranno a far parte del cerchio, e che il bambino continuerà a raccontarsi da solo il "resto". Così comincia il film di Pasolini. Enquête sur la sexualité (Inchiesta sulla sessualità) è una traduzione assai strana per Comizi d' amore: comizi, riunioni o forse dibattiti d' amore. È il gioco millenario del "banchetto", ma a cielo aperto sulle spiagge e sui ponti, all' angolo delle strade, con bambini che giocano a palla, con ragazzi che gironzolano, con donne che si annoiano al mare, con prostitute che attendono il cliente su un viale, o con operai che escono dalla fabbrica. Molto distanti dal confessionale, molto distanti anche da quelle inchieste in cui, con la garanzia della discrezione, si indagano i segreti più intimi, queste sono delle Interviste di strada sull' amore. Dopo tutto, la strada è la forma più spontanea di convivialità mediterranea. Al gruppo che passeggia o prende il sole, Pasolini tende il suo microfono come di sfuggita: all' improvviso fa una domanda sull' "amore", su quel terreno incerto in cui si incrociano il sesso, la coppia, il piacere, la famiglia, il fidanzamento con i suoi costumi, la prostituzione con le sue tariffe. Qualcuno si decide, risponde esitando un poco, prende coraggio, parla per gli altri; si avvicinano, approvano o borbottano, le braccia sulle spalle, volto contro volto: le risa, la tenerezza, un po' di febbre circolano rapidamente tra quei corpi che si ammassano o si sfiorano. Corpi che parlano di loro stessi con tanto maggior ritegno e distanza quanto più vivo e caldo è il contatto: gli adulti parlano sovrapponendosi e discorrono, i giovani parlano rapidamente e si intrecciano. Pasolini l' intervistatore sfuma: Pasolini il regista guarda con le orecchie spalancate. Non si può apprezzare il documento se ci si interessa di più a ciò che viene detto rispetto al mistero che non viene pronunciato. Dopo il regno così lungo di quella che viene chiamata (troppo rapidamente) morale cristiana, ci si poteva aspettare che nell' Italia di quei primi anni sessanta ci fosse un certo qual ribollimento sessuale. Niente affatto. Ostinatamente, le risposte sono date in termini giuridici: pro o contro il divorzio, pro o contro il ruolo preminente del marito, pro o contro l' obbligo per le ragazze a conservare la verginità, pro o contro la condanna degli omosessuali. Come se la società italiana dell' epoca, tra i segreti della penitenza e le prescrizioni della legge, non avesse ancora trovato voce per raccontare pubblicamente il sesso, come fanno oggi diffusamente i nostri media. «Non parlano? Hanno paura di farlo», spiega banalmente lo psicanalista Musatti, interrogato ogni tanto da Pasolini, così come Moravia, durante la registrazione dell' inchiesta. Ma è chiaro che Pasolini non ci crede affatto. Credo che ciò che attraversi il film non è l' ossessione per il sesso, ma una specie di timore storico, un' esitazione premonitrice e confusa di fronte a un regime che allora stava nascendo in Italia: quello della tolleranza. È qui che si evidenziano le scissioni, in quella folla che tuttavia si trova d' accordo a parlare del diritto, quando viene interrogata sull' amore. Scissioni tra uomini e donne, contadini e cittadini, ricchi e poveri? Sì, certo, ma soprattutto quelle tra i giovani e gli altri. Questi ultimi temono un regime che rovescerà tutti gli adattamenti, dolorosi e sottili, che avevano assicurato l' ecosistema del sesso (con il divieto del divorzio che considera in modo diseguale l' uomo e la donna, con la casa chiusa che serve da figura complementare alla famiglia, con il prezzo della verginità e il costo del matrimonio). I giovani affrontano questo cambiamento in modo molto diverso: non con grida di gioia, ma con una mescolanza di gravità e di diffidenza perché sanno che esso è legato a trasformazioni economiche che rischiano assai di rinnovare le diseguaglianze dell' età, della fortuna e dello status. In fondo, i mattini grigi della tolleranza non incantano nessuno, e nessuno vede in essi la festa del sesso. Con rassegnazione o furore, i vecchi si preoccupano: che fine farà il diritto? E i "giovani", con ostinazione, rispondono: che fine faranno i diritti, i nostri diritti? Il film, girato quindici anni fa, può servire da punto di riferimento. Un anno dopo Mamma Roma, Pasolini continua su ciò che diventerà, nei suoi film, la grande saga dei giovani. Di quei giovani nei quali non vedeva affatto degli adolescenti da consegnarea psicologi, ma la forma attuale di quella "gioventù" che le nostre società, dopo il Medioevo, dopo Roma e la Grecia, non hanno mai saputo integrare, che hanno sempre avuto in sospetto o hanno rifiutato, che non sono mai riuscite a sottomettere, se non facendola morire in guerra di tanto in tanto. E poi il 1963 era il momento in cui l' Italia era entrata da poco e rumorosamente in quel processo di espansione-consumotolleranza di cui Pasolini doveva redigere il bilancio, dieci anni dopo, nei suoi Scritti corsari. La violenza del libro dà una risposta all' inquietudine del film. Il 1963 era anche il momento in cui aveva inizio un po' ovunque in Europa e negli Stati Uniti quella messa in questione delle forme molteplici del potere, che le persone sagge ci dicono essere "alla moda". E sia pure! Quella "moda" rischia di rimanere in voga ancora per un po' di tempo, come accade in questi giorni a Bologna. Traduzione dal francese di Raoul Kirchmayr