sabato 30 gennaio 2016

il manifesto 30.1.16
Gillo Dorfles, quel gusto smaliziato di attraversare il tempo
Mostra. "Essere nel tempo" al Macro di Roma fino al 30 marzo
di Fabio Francione

Per Gillo Dorfles non sembra valere il tragico e mendace adagio di Ceronetti sulla vecchiaia come il peggiore dei mali che possa capitare all’uomo. E, infatti, a dispetto dei suoi 105 anni, fresco di nomina a «Cavaliere di Gran Croce» al merito della Repubblica Italiana e con ancora una grande retrospettiva, Essere nel tempo, aperta al Macro di Roma fino al 30 marzo prossimo, Dorfles sembra non perdere né la curiosità che da sempre l’ha contraddistinto nei suoi studi, né la verve ironica e sottilmente polemica: entrambe sostenute per costruire e non distruggere questioni filosofiche ed estetiche che non a caso, nel corso dei decenni, sono passate da una modernità, spesso in anticipo sui tempi, a una contemporaneità – nostra — ormai cruciale nel voler assolutamente avere non più interrogativi, ma risposte. Dunque, la carriera intellettuale di Gillo Dorfles si snoda nell’apparente contraddizione dei ruoli assunti nel corso della sua esistenza centenaria, essendo nato a Trieste nel 1910 da padre d’origine goriziana e madre genovese. Quando, al contrario, l’essere a più riprese e in tempi diversi, artista critico filosofo e studioso del gusto, gli hanno fatto comprendere più di altri le difformità estetiche e culturali che hanno reso il ’900 e oltre, un secolo unico. In questa unicità risiede, in modo quasi circolare, l’originalità e l’eclettismo di Dorfles che si riverbera in una scrittura critica che tiene conto di come ci si pone «di fronte all’opera d’arte e non solo di fronte alla stessa, ma anche di fronte a tutto quello che fa parte della nostra vita». Infatti, aggiunge il critico-artista: «Soltanto partendo dal piccolo possiamo arrivare ad attuare delle trasformazioni fisiche». Da questi assunti sono nati libri di riferimento per generazioni di studiosi come Discorso tecnico delle arti del 1952, qualche anno fa riapparso per i tipi della Marinotti e importante per la messa in discussione del metodo estetico crociano o Il Kitsch del 1968 (data discrimine per azzerare l’alto dal basso e tutti i valori ad essi collegati), o ancora a fare il paio con la propria duplicità intellettuale Il divenire delle arti del 1959 e Il divenire della critica del 1976. Mentre l’attività pittorica (e di incisore e ceramista) che ha subito per lungo tempo quella che con divertimento e a suo onor reale condizione, è definita di clandestinità, lo consacra come uno degli artisti più avanzati del ’900 per capacità di sintonizzare il proprio credo artistico sui movimenti d’avanguardia internazionali e nazionali della seconda parte del secolo. Peraltro partecipati da Dorfles, anche da protagonista come quando fondò nel lontano 1948 – altra data fondamentale della storia italiana – il Mac (Movimento Arte Concreta) con artisti del calibro di Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monnet. Ma, anche registrata sull’onda lunga picassiana e letteraria dei grandi scrittori del primo novecento (in particolare Kafka, subendo il fascino per Joyce e solidarizzando con Svevo, incontrato giovinetto a Trieste, e Montale. Qui basterebbe andarsi a rileggere la sua rapida prefazione alla doppia ristampa del 2012 di Ossi di seppia / Le occasioni) e non mancano nelle macchie, nei grovigli, nelle campiture colorate della sua idea di astrazione riferimenti alla scienza e alla psichiatria, suoi primi e mai dimenticati amori. Come suoi «amori» e non manca di riaffermarlo, sono e sono stati tutti «gli artisti che ho incontrato», diventato il titolo di un amplissimo volume antologico, più di 850 pagine, curato dal fido Luigi Sansone per i tipi della Skira sul finire dello scorso anno. Ottantacinque esatti separano il primo scritto antologizzato da Sansone, dedicato all’aeropittura tardo-futurista dall’ultimo, uno dei tanti estremi cadeau occasionati dal desiderio di scoprire nuovi artisti. Ma è interessante, più della disparità d’importanza dei pezzi inseriti, delle sedi di pubblicazione, della loro non sistematicità – durante la presentazione a Book City, Dorfles che ebbe l’onore di aprire la kermesse libraria milanese lo scorso autunno ci tenne a ribadire che «gli artisti che ho incontrato» non era un suo libro — Il discorso tecnico, che così inquadrato, viene a collocarsi in uno spazio teorico che è andato sviluppandosi nel tempo, sottoponendo in tal modo la stessa concezione estetica di Dorfles in un’ininterrotta aura d’originalità: e di pensiero. L’importanza del libro, infine, tende a risiedere nella capacità e consapevolezza dello studioso triestino di affrontare tutte le arti. Dunque, un motivo, come detto, d’interesse in più per sfrondare la critica d’arte, presa in toto, da inutili settarismi e vicissitudini storiche.
il manifesto 30.1.16
Passeggiate tra le leggende dell’Appia
Mappe. Un'app sulla Regina Viarum, commissionata dalla Soprintendenza archeologica di Roma, che è molto più di un'audio-guida. Per camminare tra la storia, racconti letterari e cinematografici
di Federico Gurgone

Nel corso delle ricognizioni del 1999, quando fervevano i lavori per l’imminente Giubileo, al quarto miglio della Regina Viarum furono scoperti due tubi di piombo, interrati con cura presso il Sepolcro Dorico. La data incisa sul metallo, 30 settembre 1929, tolse all’istante ogni dubbio circa il contenuto. Problemi sempiterni e contemporanei, non storia antica: una sfortunata corrispondenza amorosa. «L’amante infelice avrebbe bruciato le sue lettere, se avesse voluto semplicemente distruggerle», assicura Rita Paris, direttrice dei monumenti archeologici della via Appia, quasi giustificandosi per la sua curiosità di studiosa. «I plichi erano sigillati ad arte, per evitare che gli agenti atmosferici ne compromettessero il messaggio».
L’Appia, al di là di se stessa, è una fucina di incanti mitopoietici: dalle origini del cristianesimo, all’epoca d’oro del cinema romano. Senza dimenticare le Olimpiadi del 1960, le verità e i miti del Medioevo. E le storie d’amore. Private e anonime. Nel 1929, la prima consolare non era stata ancora aggredita dai gangster, coloro che le avrebbero tolto perfino la voce. «Immagino l’incedere sofferente di un uomo solo, che proprio qui pensò di affidare il suo testamento emotivo all’eternità del connubio tra natura e cultura che lo circondava, sperando di pacificarsi con i suoi tormenti».
Vennero però anni scuri. Il fascismo, la guerra e il boom economico, con la morte delle lucciole e l’abusivismo rampante. Sotto i fanali, l’oscurità. È la rabbiosa volontà di recuperare una relazione affettiva con un luogo massacrato che ha spinto la Soprintendenza Archeologica di Roma a commissionare un’applicazione che declini lo spirito ferito della strada attraverso parole, musica e suoni: Verba, disponibile gratuitamente anche in inglese su smartphone e tablet, con i sistemi operativi Android, Apple e Windows.
I 70 testi, dalla durata media di cinque minuti e accompagnati da una colonna sonora composta da Gianfranco Plenizio, sono pensati per soddisfare le multiformi esigenze del pubblico. Alcuni sono racconti basati su fonti storiche, altri testi divulgativi scritti da giornalisti e rigorose schede descrittive redatte da archeologi. «Il Gps del dispositivo mobile localizza il viandante e consente l’avvio automatico in streaming dei file audio in un raggio di 50 metri dai punti di interesse, dislocati lungo 3 chilometri», spiega Monica Cola, una delle tre ideatrici del progetto.
Il visitatore si viene così a trovare immerso in una realtà aumentata, nella quale può camminare svincolato dalla staticità delle classiche audio-guide. Ha la possibilità di registrare messaggi audio, in forma pubblica o anonima. «Un altro utente potrà ascoltarli quando passerà nello stesso spazio geo-referenziato», aggiunge il linguista Tullio De Mauro, che ha seguito dall’esterno l’evolversi del concept. «La tipologia testuale scelta deve facilitare nel destinatario la voglia di capire. Qui i testi, che possono essere anche interrogati e contraddetti, sono chiari e accattivanti».
Verba è un social network che produce cultura dal basso: secondo Rita Paris, «il vero sviluppatore è una collettività che vuole ancorare a un luogo preciso i propri sentimenti». Una testa di ponte per riprendere il filo di un dialogo soggettivo con le antichità, quindi, come desiderò l’ignoto innamorato dei tubi di piombo.
«Se a Fontana di Trevi i turisti lanciano una moneta, sull’Appia possono ora lasciare la propria promessa di tornare con la speranza di poterla un giorno riascoltare», dice l’archeologa.
Passeggiare nel verde con gli auricolari nelle orecchie e i piedi liberi di andare diventa una scorciatoia per ripassare le vicende della creatura di Appio Claudio.
È l’attore Giuseppe Cederna a leggere uno dei più furenti articoli del padre Antonio, con il quale l’incuria dello Stato nei confronti del suo patrimonio fu denunciata sul Mondo, l’8 settembre del 1953. Cederna scrisse che bisognava salvare l’Appia dai gangster perché per due millenni «gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata».
Sfortunati coloro che smarriscono la capacità di coltivare la memoria di epiche intrise di umanesimo. Come quella nata nella piana di Maratona. La ricordano le voci di Sergio Zavoli e Carlo Paris, che raccontano l’impresa compiuta da Abebe Bikila, figlio di pastori e pettorale numero 11, il 25 agosto del 1960. Corse scalzo, perché della via regina aveva bisogno di sentire tutta la durezza. E quando la percepì, all’altezza della tomba di Cecilia Metella, chilometro trentacinquesimo, aumentò l’andatura. A Porta San Sebastiano restò solo. Vinse sotto l’Arco di Costantino.
La diritta Appia riassume la tortuosa via all’identità dell’Italia: dalla lotta per le investiture che concorse a frammentarla, narrata attraverso quel Bonifacio VIII che ebbe il suo Castrum Caetani presso Capo di Bove, alla Quinta Armata del generale Clark, che da qui entrò a Roma il 5 giugno del 1944.
Con la Repubblica arrivarono gli anni della ricostruzione, manna piovuta dal cielo per i palazzinari. La prima autostrada della storia, presso la quale Carlo Ponti abitava in una villa con la camera da pranzo scavata in un sepolcro, fu tagliata dal Gra nel 1951. Nel 1965, dopo fiumi di inchiostro di Cederna, il Piano Regolatore Generale destinò 2517 ettari dell’Appia a parco pubblico. «Ma il complesso di Capo di Bove è stato acquisito solo nel 2002», spiega Rita Paris. Costruito sopra una cisterna romana, nascondeva una piscina nel cortile interno, dove affacciano gli uffici della Soprintendenza e l’archivio di Antonio Cederna, reso pubblico dalla famiglia.
«Santa Maria Nova, infine, fu rilevata nel 2006», continua Paris. «All’area appartiene il casale che la leggenda vuole infestato dal fantasma di Tulliola, rievocato dalla voce di Christian Iansante, doppiatore di Johnny Depp e Bradley Cooper». La salma di Tulliola, presunta figlia di Cicerone, fu trovata intatta in un sarcofago nel 1485 e si dissolse pochi giorni dopo per il contatto con l’aria. Tornò fantasma nel 1968 e spaventò gli ospiti della villa, da Brigitte Bardot a Grace Kelly, fino a renderla indesiderabile.
«Verba è una delle tante strategie pensate per estendere la fruibilità del nostro patrimonio», conclude Paris. «Non ha senso separare la tutela dalla valorizzazione, lasciando credere che un esperto di cultura non sia in grado di comunicare adeguatamente con l’esterno, come adombrato dalla riforma in corso».
Raccontare per riaffermare una cultura di cui se ne percepisce la vita solo nelle crisi più nere, quando verrebbe da pensare all’epitaffio de La Ricotta, girato sull’Appia da Pasolini. Il ladrone buono muore di indigestione sulla croce, durante la rappresentazione di una passione vivente. «Crepare: non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo», commenta Orson Welles, con la voce di Giorgio Bassani.
Raccontare. Perché mai più si ripeta la proskýnesis della cultura umanistica, messa in scena dallo Stato sul colle del senato e del popolo romano.
il manifesto 30.1.16
Il lungo viaggio di Joyce Lussu
Trieste Film Festival. Nel documentario di Marcella Piccinini "La mia casa e i miei coinquilini", un melange di domestico e politico
di Maria Grosso

Tic tic tic. Battiti del cuore di Joyce Lussu ritrovati nell’orologio a cucù della sua casa di Fermo nelle Marche. Tic tic tic. Entusiasti e disincantati, decisissimi e autocritici, avventurosamente umani, sembrano forse chiamarci, irradiarsi irresistibilmente da lei a noi, quasi a dirci che il meglio del ‘900, secolo limitrofo e lontanissimo, di cui è stata geniale conoscitrice e fabbricatrice, è ancora vivo e per noi tangibile. Tracce di lei, dei suoi gesti, dell’eco di chi ha amato lungo l’abissale flusso della sua esistenza: rinvenute anche in un abito chiaro e scarpe nere col tacco anni ‘40, accanto a una valigia in cuoio con sopra un cappello da uomo, nel fischio di infiniti treni, su una brocca bianca, in un messaggio in cifre minutissime da consegnare a Emilio Lussu … in una borsa di paglia appesa al muro, fra le pagine aperte di «Giustizia e Libertà», su un pennello da barba con impugnatura in legno, su una sedia a dondolo, nello spiccare il volo di un aereo e su babbucce orientali ricamate, su una paperetta giocattolo, su una macchina da scrivere e su una macinacaffé, negli anemoni resuscitati dai rifiuti del mercato di Parigi, in «un paio di scarpette rosse/a Buchenwald/ quasi nuove/perché i piedini dei bambini morti/non consumano le suole»… A condurre quelle che vedremo essere vere e proprie squadre di ricerca, Marcella Piccinini, regista di un desiderio di Joyce Lussu che è diventato poi un documentario, in questi giorni al Trieste FF. La cifra affascinante dell’indagine, oltre, appunto, a una minuta sensibilità per l’aura dell’oggetto (anche come nucleo di radianza che abbraccia tanta arte del secondo ‘900), un melange di domestico e politico, del più intimo sé e di relazione col mondo, ad attrarci fin dal titolo col suo «ossimoro» La mia casa e i miei coinquilini Il lungo viaggio di Joyce Lussu. Sì, perché il film sceglie di addentrarsi proprio nel modo unico in cui si declinano fra loro queste due componenti della vita di lei: quella pubblica, davvero da viaggiatrice esistenziale spericolata e notissima (come attivista antifascista, come femminista, poeta e traduttrice, come scopritrice di poeti rivoluzionari dell’allora «terzo mondo» …), e quella più privata, soltanto sua. Vedendolo, dunque, e scoprendone l’incipit, con il suo riferimento al respiro libertario dei suoi — intellettuali di origine marchigiana e inglese, costretti a fuggire dal fascismo in Svizzera, dove Joyce conoscerà anni fertilissimi – si potrà assaporare la bellezza e la profondità dell’apparente dicotomia del titolo. Ma non è soltanto questo. Perché La mia casa e i miei coinquilini … ha anche una bussola con un nord fortissimo dal quale non può prescindere, ossia gli scritti stessi di Joyce — venuta al mondo a Firenze nel 1912 col nome di Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, e in seguito, prima dell’oscuramento prodotto dal nazismo, divenuta studentessa di filosofia a Heidelberg, — tra cui Inventario delle cose certe e ovviamente Portrait, l’autobiografia pubblicata postuma nel 2012 (lei se ne era andata nel ‘98). Una presenza che il documentario incarna sia attraverso i video di Lussu anziana, col bellissimo viso di quercia scavata, lo chignon bianco vaporoso e la voce potente impastata dai lunghi anni a Roma (in particolare una intervista di Marco Bellocchio e Daniela Ceselli, ’94), sia grazie al traslato della voce over di Maya Sansa — attrice carissima al regista ora nominato, un po’angelo custode del progetto — che ce la restituisce giovane e fiera, magnifica in una soggettività ancora in divenire, eppure già incisiva e centrata. Penso così a Annie Ernaux e alla sua trama irriducibile di donna, una straniante se stessa in terza persona, che nel bellissimo Gli anni, emerge dal suo intreccio con 70 anni di storia francese, e rendo omaggio a J. L., a quella la stessa capacità di farsi non solo creatrice ma anche narratrice del nostro tracciato, sebbene qui l’io della prima persona sembri affiorare quasi senza tempo e senza mediazioni. «Io mai illusioni … C’è un sacco di gente come me e meglio di me, facciamo pure delle cose … tutto sommato i tedeschi li abbiamo sconfitti …». Ancora sull’amore con Emilio Lussu, antifascista, politico e scrittore, «Mi innamorai perdutamente di un uomo del terzo mondo che veniva da un villaggio di pastori tra le montagne della Sardegna … Un amore profondo e totale» (che sente fragile come un cristallo)… «Passammo attraverso la guerra mano nella mano» («una coppia raggiante» più facilmente scavalca controlli e frontiere)… «Emilio e io eravamo d’accordo circa la parità tra uomo e donna, anche se … i compagni stessi ancora non lo erano … la società italiana mi confinava in un ruolo riduttivo … la signora del ministro … sgomentata decisi di fuggire …». Conosce così la Sardegna del marito, con le sue macerie e le sue accabadore e, percorrendola tutta a cavallo, inchioda il maschilismo allora mai raccontato dei compagni, costringendoli a condurla dalle mogli che, pur tesserate, sono solo fantasmi in sezione; ancora è splendente nei cortei delle donne lavoratrici in casa e fuori, innanzi all’immane sottovalutazione dell’elettorato femminile compiuto dai partiti della sinistra («la luna s’è rotta./ …/ Preferiva le donne d’un tempo dalle pallide spalle /…/ Adesso ci sono donne che camminano svelte e dritte/ che prendono il tram e l’autobus per andare al lavoro». Ancora, come natura morta lasciata a marcire con insetti, come una bottiglia di latte abbandonata aperta a causa dello sfollamento, non teme di dirsi fragile di fronte «alla brutalità e all’umiliazione dell’aborto clandestino», e poi a confronto con la maternità pur desideratissima: Giovanni, oggi cruciale interlocutore del doc, nasce nel giugno del ’44, all’indomani della liberazione di Roma… Con Bellocchio in fuoricampo discute poi di memoria: guai a chi si siede su medaglie e Resistenza, parla del rischio non come sacrificio, ma come necessaria spinta contro il disumano, dello smarrimento per un mondo ancora tanto impregnato di guerra pur dopo il punto di non ritorno della seconda mondiale; seduta accanto a Hikmet racconta del loro primo incontro a Stoccolma, di una reciproca folgorazione che la conduce alla lunga traversata anche fisica della traduzione delle opere di lui, con relativa immersione nel contesto culturale del poeta, e col lasciar passare attraverso la sua pelle di donna sensibilissima una poesia massacrata dal regime turco, eppure resa ancora più «limpida» dalla impossibilità di dirsi. Per l’amico si farà anche Cupido in un pericoloso viaggio a favorirne il ricongiungimento con l’amata e il figlio; ancora viaggerà intrecciando parole e ponti con le voci rivoluzionarie del sud del mondo, come Gegherxuin e Agostinho Neto, a seminare l’azione dal basso di tutte le espropriate e gli espropriati da sé del pianeta. Pure, tra la rotta delle sue parole e la danza appassionante e poetica «improvvisata» dalla musica (Biscarini e Barontini), e dal montaggio (Paolo Marzoni con la regista), sul fiume dei materiali d’archivio (a coinvolgere tra gli altri Home movies, Cineteca sarda e Cineteca di Bologna), non si stancherà di interrogarsi sul ritorno a sé, sul lancinante dissidio «tra l’amore personale e la vita ideale», su quella che forse è stata anche la vanità di sentirsi dire, brava e coraggiosa, su un forsennato nomadismo interiore che però non hai mai smesso di desiderare di fare di ogni stanza dove ha vissuto una casa.
maria_​grosso_​dcl@​yahoo.​it
il manifesto 30.1.16
In tragedia e in farsa, la storia che raddoppia e non conclude
Una nuova edizione de «Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», per Editori Riuniti. Un’analisi del bonapartismo la cui lettura è utile anche per indagare i fenomeni politici contemporanei. In una nuova edizione l’opera del 1852
di Francesco Marchianò

Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, pp. 248, euro 18,00) è, certamente, uno dei testi più originali di Marx nel quale l’analisi materialistica della storia è connessa a quella politica. In quest’opera, dedicata agli avvenimenti che dal 1848 al 1851 modificarono il sistema politico francese e lo fecero transitare da una repubblica all’impero, dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, Marx si distinse per essere un attento studioso delle dinamiche giuridiche, politiche, economiche e sociali, compiendo una precisa analisi sistemica. Scritto dal dicembre 1851 al marzo 1852, inizialmente per il settimanale Die Revolution, edito a New York dall’amico editore Weydemeyer, l’opera subì diverse vicissitudini e solo nel 1869 comparve ad Amburgo una seconda edizione europea, dopo che in passato in tentativi di darne diffusione nel continente erano falliti.
In Italia è da poco comparsa per Editori Riuniti una nuova edizione affidata alla cura di Michele Prospero che, in una densa e raffinata introduzione, non solo offre le necessarie chiavi di lettura per comprendere meglio l’opera, ma ne attualizza in maniera impeccabile la portata. Ne escono, così, fuori due testi in uno che è molto fruttuoso leggere insieme.
Il testo di Marx brilla da diversi punti di vista, non ultimo per lo stile letterario e la coniazione di alcune frasi rimaste poi celebri, come quella della storia che si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa, con la quale si apre il volume. Oppure per il «cretinismo parlamentare», malattia diagnostica ai difensori della repubblica che abusando dei trucchi e delle imboscate in aula non facevano altro che screditare il parlamento che volevano difendere. L’aspetto essenziale che caratterizza l’opera, tuttavia, è l’analisi contestuale che indaga tutti i fattori che intervengono in un cambio di regime o, diremmo oggi con un lessico più moderno, in una transizione. È cioè la spiegazione di come la repubblica, non riuscendo a trovare gli ancoraggi necessari al suo consolidamento nella società francese, produsse come esito il successo di una leadership personale che portò a un’altra forma di dominio politico.
Nella lettura compiuta da Marx si colgono perfettamente le cause di questo passaggio che non sono da attribuire al magismo del capo, al suo carisma, ma al concatenarsi di elementi esterni. Come spiega Prospero, «esistono condizioni politiche e sociali di fondo il cui degrado spiega anche l’emergere di tendenze carismatiche pronte a sfruttare le fragilità del sistema sottoposto allo stress della partecipazione politica di milioni di elettori».
Marx mette in luce tutti gli elementi essenziali che intervengono in questa dinamica. A cominciare da quelli giuridico-politici, dati dalle contraddizioni della costituzione, dal carattere limitativo della legge ordinaria rispetto ai diritti enunciati in essa, dal conflitto potenziale tra l’assemblea e il presidente della repubblica. In questa situazione di perenne incertezza veniva meno un elemento essenziale dato dalla legittimità che richiedeva il sistema, specialmente dopo l’allargamento del suffragio. Occorreva cioè trovare nel sociale la base di sostegno del politico.
È ciò che è mancato alla repubblica che finì per non includere affatto le masse. Anzi, proprio questa «asimmetria tra forte apparato statale e debolezza della società civile», secondo Prospero, è l’espressione peculiare del bonapartismo. Luigi Bonaparte, invece, lungi dal non avere un radicamento sociale, si manifesta, secondo le parole di Marx, come il rappresentante di «una classe, anzi della classe più numerosa della società francese, i contadini piccoli proprietari», una «classe a metà» i cui appartenenti sono tra loro isolati, ma condividono situazioni di forte miseria che li mettono contro le altre classi sociali. Non avendo la capacità di far valere i propri interessi, essi hanno bisogno di farsi rappresentare da qualcuno che appare loro come un «padrone», «come un potere governativo illimitato, che li difende dalle altre classi»; ne consegue che «l’influenza politica del contadino piccolo proprietario trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la società a se stesso».
L’analisi contenuta nel 18 brumaio rimane perennemente attuale per indagare i fenomeni politici contemporanei poiché fornisce tutte le categorie necessarie per comprendere cosa succede nei momenti di debolezza del sistema politico. Essa può essere utile anche per interpretare le dinamiche che coinvolgono il nostro Paese dove il continuo tentativo di riforma della costituzione, l’incertezza del sistema, la scarsa legittimazione sua e dei suoi attori, il consolidarsi di interessi e forze private, può sempre consentire, volendo usare le parole di Marx, «a un personaggio mediocre e grottesco di fare la parte dell’eroe».
il manifesto 30.1.16
Karl Marx, il risveglio del giornalista
Una raccolta di articoli lucidi e appassionati composti dal filosofo di Treviri che tra il 1852 e il 1861 si trasferì a Londra e lavorò nella redazione della «New York Daily Tribune», dividendosi tra le ricerche per i «Grundrisse» e l’attività da reporter
di Fabrizio Denunzio

Qualunque soggetto volesse tornare a mettere piede sul campo delicatissimo e strategicamente determinante dell’organizzazione politica delle masse, lo dovrebbe fare tenendo sempre presente le indicazioni fornite da Gramsci in quella nota del primo quaderno del carcere dedicata a Hegel e l’associazionismo. Ciò che si trova di operativo in queste annotazioni si riferisce non tanto a Hegel ma, naturalmente a Marx: «Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell’organizzazione rimane impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica».
Sebbene limitate dalle condizioni storiche del tempo, teoria e prassi dell’organizzazione di Marx vengono riportate da Gramsci al medium egemone dell’Ottocento: il giornale. Tradotta e operativizzata nel linguaggio di una qualunque media theory, questa geniale osservazione non vuol dire altro che Marx, lavorando come giornalista, faceva esperienza delle masse nella forma di quella del pubblico di lettori e che riversava, tra gli altri, il modello organizzativo dell’industria culturale giornalistica su quello dell’organizzazione operaia. Tornare a mettere piede sul terreno organizzativo significa, allora, riflettere sul modo in cui i media strutturano i pubblici e li fidelizzano e su come, debitamente riutilizzato, questo stesso modo può rilanciare le forme politiche dell’associazionismo collettivo.
Una febbrile attività
L’abbrivio sembra essere proprio l’esperienza giornalistica di Marx. Se oggi possiamo e dobbiamo tornare a rifletterci non è solo in funzione della riflessione abbozzata velocemente su di essa da Lukács nel suo Il giovane Marx (da poco ripubblicato da Orthotes), ma è soprattutto grazie a Dal nostro corrispondente a Londra. Karl Marx giornalista per la New York Daily Tribune (traduzione e cura di G. Vintaloro, Corpo60, ebook, euro 6,99). Il testo riunisce una serie di articoli scelti tra tutti quelli che Marx scrisse come corrispondente da Londra per la testata newyorkese dal 1852 al 1861. Anni sicuramente non facili. Arrivato nella capitale inglese nell’agosto del 1849 dopo essere stato espulso dalla Francia, il filosofo e la sua famiglia, al pari di quelle operaie inglesi, soffrono fame, miseria e morte.
La spia prussiana che riesce a farsi ricevere in questo periodo nella loro casa di Soho rimane colpita dalla sporcizia e dalla fatiscenza del mobilio, più in genere, dalla completa assenza di ogni comodità. Sebbene nell’arco di questo drammatico decennio Marx riesca a trovare il tempo per recarsi alla biblioteca del British Museum – una serie di ricerche che culmineranno nella «febbrile» stesura dei Grundrisse tra il 1857 e il 1858 – il lavoro giornalistico resta il principale impegno, l’unica fonte di mantenimento.
Dal nostro corrispondente a Londra, torna a raccogliere le «prove» di questa attività. Il libro lo si compra e scarica on-line nei formati epub o mobi; se ne arricchisce la lettura cliccando sulle parole «linkate»; permette di collegarsi alle versioni originali degli articoli. È come se i «vecchi» contenuti rivoluzionari del Marx giornalista non potessero trovare miglior riconfigurazione se non implementati in supporti e forme di lettura «nuovi» completamente rivoluzionati dalla tecnologia digitale. Il che ha un suo senso.
A ben guardare, però, quando si tratta di media, in questo caso stampa ottocentesca ed ebook del nuovo millennio, la distanza temporale non sembra misurabile più di tanto in secoli. Nello stesso modo in cui il formato digitale dei libri porta in primo piano la modalità di appropriazione della conoscenza, sarebbe a dire la capacità di lettura incorporata nel lettore, così, col giornalismo, Marx si trova a dover fare i conti con la soggettività culturale del pubblico dei lettori della New York Daily Tribune.
Questioni di stile ed egemonia
Scrivendo articoli per il giornale deve, cioè, implicare nel momento produttivo della scrittura anche quello ricettivo del consumo. Si riferiva a questo Gramsci quando parlava del senso delle masse acquisto da Marx durante la sua attività giornalistica: rivolgersi a un pubblico comporta tanto catturarne l’attenzione quanto riprodurne il consenso dato alla lettura. Se la prima è una questione di stile, il secondo è un problema di egemonia. Se la prima è deputata a «incantare» il lettore, la seconda ha come compito quello di fidelizzarlo. In questo senso, riutilizzare politicamente la strutturazione in pubblico delle masse ai fini dell’associazionismo collettivo, vuol dire fondare il momento organizzativo sulla «narrazione» piuttosto che sulla propaganda. Ed è proprio nel registro stilistico-narrativo che si trova una delle più forti fonti d’interesse di questa raccolta. Prima di essa, però, se ne deve segnalare un’altra. Un po’ di questi articoli spesso, sul mercato editoriale italiano, li si è letti in raccolte tematiche, si pensi a quelli Sul Risorgimento Italiano o a India, Cina, Russia o, ancora, a La guerra civile negli Stati Uniti. Decontestualizzati dall’ambiente giornalistico in cui sono stati prodotti e svincolati dal pubblico a cui erano destinati (non dimentichiamolo, un certo tipo di lettori progressisti come quelli della New York Daily Tribune), questi articoli sono diventati saggi di storia rivolti, nel migliore dei casi, al movimento operaio e ai comunisti, nel peggiore, ai soli «marxologi». Dal nostro corrispondente a Londra, invece, ce li restituisce nel loro carattere primigenio, ci invia ad appropriarcene al di fuori delle «incrostazioni» che ogni tradizione culturale sedimenta, nel corso del tempo, sui testi originari che hanno contribuito a fondarla. Leggere i sedici articoli della raccolta come pezzi di giornale, da un lato li restituisce al loro essere «selvaggio», interventi pensati nella contingenza di eventi specifici (colonialismo e corruzione elettorale inglese; guerra di Crimea; imbrogli finanziari di Luigi Bonaparte; unità d’Italia), dall’altro potrebbe, esercizio ben più difficile, liberarli dalla loro «auraticità», rendendoli degni di quel disprezzo che Marx nutriva per essi nutrendolo, in genere, per quello stesso giornalismo che gli dava da mangiare ma che, al contempo, in modo del tutto inconsapevole, contribuiva a rivoluzionare definendone un modello militante animato dal dire la verità.
Miscelare la scrittura
È per questo motivo che le strategie stilistico-narrative del dire il vero, le cui gamme Marx scopre e sperimenta durante la sua attività di corrispondente da Londra, sono così importanti. Su questo punto si sofferma, con grande perizia, il curatore della raccolta al quale si deve, inoltre, il raffinato dettato della voce italiana di questo Marx giornalista. Vitaloro ci fa vedere come, nell’esercizio della sua professione, il filosofo tedesco passi dal periodare «piuttosto incerto e legnoso, con uno stile povero di subordinate e ricco di reminiscenze greco-romane tipiche dell’educazione ottocentesca centroeuropea» dei primi articoli a quello molto più curato nello scegliere aggettivi e incipit, nel miscelare le altezze della teoria con la trivialità della vita quotidiana degli ultimi interventi dei primi anni del 1860. Il tutto sempre puntellato da una profonda ironia sarcastica. Così, ad esempio, nell’articolo del 15 aprile 1854, Dichiarazione di guerra. Sulla storia della questione orientale, Marx scrive del tentativo fatto per risolvere la drammatica convivenza degli ebrei di Gerusalemme con le altre religioni: «Per accrescere la miseria di questi giudei, l’Inghilterra e la Prussia hanno nominato nel 1840 un vescovo anglicano a Gerusalemme, il cui scopo dichiarato era la loro conversione. Nel 1845 fu selvaggiamente picchiato e insultato da giudei, cristiani e turchi allo stesso modo. Si potrebbe dire che sia stata la prima e unica causa di unione tra tutte le religioni in Gerusalemme».
Queste qualità stilistico-narrative, però, hanno senso solo perché sono messe al servizio della verità, ossia sono strumenti che servono ad articolare al meglio il dire il vero, sono, in breve, subordinate a una visione etica del fare giornalismo: «Non siamo degli ammiratori della condotta militare di Sua Signoria, e abbiamo criticato liberamente le sue cantonate, ma la verità ci richiede di dire che i terribili mali in mezzo a cui i soldati in Crimea periscono non sono colpa sua, ma del sistema su cui si basa l’establishment di guerra britannico» (Il disastro britannico in Crimea. Il sistema militare britannico, 22 gennaio 1855).
Il vero e il falso
In questo senso Marx non arriva del tutto sprovvisto di competenze alla collaborazione con la New York Daily Tribune poiché il modello etico di un giornalismo militante affinché il vero venga detto lo aveva già iniziato a mettere a punto fin dai tempi della direzione della «Gazzetta renana» nell’ottobre del 1842, esperienza che si concluderà nel marzo del 1843 a causa della repressione prussiana. Il tutto porta inevitabilmente al problema dell’ideologia poiché il dire la verità, nel modello marxiano, comporta lo smascheramento della falsità di quelle idee con cui la classe dominante irretisce e soggioga la coscienza dei dominati. Questione annosa e cruciale. Per affrontarla proponiamo di leggere questi articoli marxiani non più come azioni dirette verso la presa di coscienza, bensì come tecniche di risveglio da sogni oscuri all’ombra dei quali ciclicamente la coscienza collettiva europea torna ad addormentarsi. Solo fatto in questo modo il giornalismo ha ancora senso.
Il  Sole 30.1.16
Business futuri. Fra il 2000 e il 2014 il commercio fra le due aree è cresciuto di 22 volte
Pechino scommette sull’Africa
di Adriana Castagnoli

L’Africa sta balzando prepotentemente alla ribalta come continente dirimente e strategico per gli equilibri geopolitici mondiali. L’Africa subsahariana conta la più rapida crescita di popolazione rispetto a ogni altra regione al mondo (+ 27 milioni all’anno) e incrementa una forza lavoro che altrove si riduce. Sebbene negli slums il grado di povertà sia elevato, la classe consumatrice urbana sta crescendo per effetto di migliori infrastrutture e di un aumento dei livelli di reddito disponibile, trasformando così il continente in una priorità per le maggiori “global companies” nei prossimi anni. È pur vero che una combinazione di fattori esterni (calo dei prezzi delle commodities, rallentamento delle economie dei maggiori partner commerciali e peggiori condizioni per i prestiti internazionali) e di fattori interni (instabilità politica, conflitti e mancanza di elettricità) ha rallentato la crescita dell’Africa sub-sahariana da 4,6% nel 2014 a 3,4% nel 2015. A ciò si aggiungono le incognite derivabili dalle azioni terroristiche di Boko Haram, nonché da ulteriori rischi esterni.
Più di un milione di cinesi si è stabilito in Africa negli ultimi due decenni non solamente per effetto delle politiche del governo di Pechino, ma anche di scelte di vita individuali che contribuiscono a dare più incidenza all’approccio quasi imperiale della Cina e a promuoverne l’influenza e il potere globale nella regione. Gli investimenti esteri diretti (Fdi) cinesi sono cresciuti rapidamente negli ultimi anni e sono divenuti importanti in Tunisia, Sud Africa, Kenya, Nigeria, Egitto, Algeria, Libia, Angola. Anche se gli Usa e i paesi dell’area euro rimangono ancora la più consistente fonte di Fdi in particolare nella regione sub-sahariana. Gli interessi cinesi in Africa sono immensi. Il commercio fra Cina e Africa è cresciuto di 22 volte dal 2000 al 2014 (da 10 a 220 miliardi di dollari), assai più del commercio con la Ue o con gli Usa (nel 2014, rispettivamente di 177 miliardi di euro e 73 miliardi di dollari). La Cina ha superato, nel 2009, gli Usa come il più importante partner commerciale dell’Africa. Invece Washington ha ridotto l’interscambio con l’Africa in particolare contraendo le importazioni (da 114 miliardi di dollari nel 2008 a 24 nel 2015). La Cina cerca di rafforzare la sua influenza in luoghi considerati strategici. Ha accordi economici, politici e militari con diversi stati africani - inclusi quelli del Nord Africa - ricchi di risorse energetiche come Algeria, Nigeria, Guinea, Repubblica del Congo, Sudan ed Etiopia; e ha concluso un accordo militare con la Repubblica di Gibuti, nel Corno d’Africa, dove ha anche una partecipazione per il controllo e lo sviluppo del porto. Il piano per 60 miliardi di dollari in aiuti, prestiti, investimenti e altri supporti finanziari all’Africa, annunciato del presidente Xi Jinping lo scorso dicembre, costituisce una dimensione nuova e rilevante dell’intervento di Pechino. La Cina provvede già prestiti a basso tasso d’interesse ai paesi con un cattivo rating nel credito in cambio di petrolio e diritti minerari. Tuttavia, i tempi cambiano e anche le relazioni sino-africane devono affrontare nuove sfide e difficoltà. Sotto la pressione delle criticità delle commodities e della ristrutturazione dell’economia cinese dal manifatturiero ai servizi, nell’ultimo anno gli investimenti cinesi in Africa sono crollati del 40%. Questo mutamento riguarda sia paesi a economia diversificata, come il Sud Africa, sia quelli dipendenti dall’export di un singolo prodotto, come Zambia o Angola. La Cina si è trovata anche intrappolata e con investimenti a rischio nelle diverse zone di conflitto del continente.
Anche l’Ue, dopo l’accordo commerciale del 1975, ha mostrato una nuova visione a dimensione continentale delle relazioni con l’Africa con la Joint Africa-EU strategic partnership, avviata nel 2007. I principali paesi europei, secondo l’Ocse, sono anche fra i primi dieci contributori nei programmi di assistenza all’Africa.
Per parte loro gli americani cercano di controbilanciare la crescente influenza cinese in Africa orientale sponsorizzando iniziative diverse come il Summit sull’imprenditoria e “Power Africa” , un programma di elettrificazione rurale e urbana. “Power Africa” venne lanciato nel 2013 dal presidente Obama per raddoppiare l’accesso all’elettricità in cinque anni, ma sinora ha fatto pochi progressi. È pur vero che gli americani sono presenti anche con i big player della filantropia come la Bill & Melinda Gates Foundation che, a sua volta, ha sovvenzionato con 3 miliardi di dollari il settore agricolo. Al tempo in cui la Cina ha sorpassato gli Stati Uniti come partner commerciale, Obama ha esortato gli africani a diffidare degli appetiti di Pechino e ad abbracciare più intense relazioni con gli Usa per migliorare crescita economica, democrazia, salute, educazione ed elettrificazione. Com’è avvenuto durante la sua ultima visita in Kenya, lo scorso luglio, quando ha attinto dai valori dell’universalismo americano le ragioni favorevoli a Washington: perché l’America costituisce pur sempre un’alternativa all’aggressiva, anche se concreta, politica di Pechino e sa offrire ancora una visione migliore e capace di dare una prospettiva di benessere e d’indipendenza per il futuro dell’Africa.
Il  Sole 30.1.16
Perché la Cina non è ancora una vera economia di mercato
La concessione dello «status» renderebbe inefficaci le misure antidumping
di Manfred Weber

Nonostante la discussione sull’immigrazione, l’Europa ha anche un’altra priorità: creare posti di lavoro. Abbiamo bisogno di accordi commerciali, e in un mondo globalizzato vogliamo creare partnership di successo. Un accordo commerciale è sempre una chiave strategica per avere una maggiore crescita economica, e più posti di lavoro, ed offre benefici reciproci senza costi aggiuntivi. È questa la strategia che vogliamo utilizzare per l’Europa. In assenza di un accordo globale per il libero commercio, il Gruppo Ppe ha spinto per concludere accordi bilaterali con i principali partner commerciali dell’Europa: il Ttip con gli Stati Uniti, e altri accordi con la Corea del Sud e il Giappone. Con il Canada (Ceta) abbiamo concluso i negoziati e vogliamo proseguire verso l’attuazione il più velocemente possibile. Ceta è un accordo commerciale che favorisce soprattutto le Pmi che rappresentano il 99% di tutte le attività in Europa e negli ultimi cinque anni hanno creato circa l’85% dei nuovi posti di lavoro. Ogni giorno che passa senza attuazione degli accordi, perdiamo l’opportunità di creare nuovi posti di lavoro.
L’Ue e la Cina sono due dei maggiori operatori commerciali del mondo. La Cina è il secondo partner commerciale dell’Ue, dopo gli Stati Uniti, e l’Unione europea è il principale partner commerciale della Cina. Tra la Cina e l’Europa attualmente si registra un commercio di ben oltre 1 miliardo di euro al giorno. La Cina ha fatto buoni progressi nell’attuazione dei suoi impegni in seno alla Wto, sin dalla sua adesione nel 2001; ma ci sono ancora problemi in sospeso: mancanza di trasparenza, esistenza di misure in Cina che discriminano le imprese straniere, forte intervento del governo nell’economia, protezione ed applicazione inadeguata della proprietà dei diritti intellettuali, restrizioni alle esportazioni cinesi di materie prime - come terre rare. I cinesi hanno mostrato come funziona il protezionismo: infatti una azienda che non produce in Cina, deve confrontarsi con elevate tariffe penalizzanti se vuole vendere i suoi prodotti sul mercato cinese. In alternativa se una azienda vuole produrre in Cina, lo può fare solo diventando partner più piccolo di un azionista di maggioranza cinese.
L’Ue ritiene che tutto ciò stia violando le regole generali della Wto. Il Gruppo Ppe ha sostenuto l’adozione di adeguate misure di difesa commerciale, per contrastare le imprese non europee, che grazie a sovvenzioni statali illegali o tariffe di dumping hanno cercato di vendere i loro prodotti in Europa.
La Commissione europea ha in corso 28 inchieste antidumping, 16 delle quali coinvolgono la Cina. Il maggior numero di casi di difesa commerciale dell’Unione europea e le relative misure, riguardano ferro e acciaio , e sempre più, le industrie energetiche (pannelli solari, biocarburanti).
La domanda cruciale è: possiamo concedere lo Status di Economia di Mercato (Mes) alla Cina 15 anni dopo la data di adesione alla Wto come è previsto dall’Organizzazione? Per l’Ue la Cina non è una cosiddetta Economia di Mercato. Se concediamo alla Cina questo status, le misure antidumping che salvaguardano centinaia di migliaia di posti di lavoro di una vasta gamma di industrie europee strategiche, diventerebbero inefficaci di fronte alla concorrenza sleale della Cina.
I produttori europei sono preoccupati che, in questa eventualità, le importazioni cinesi aumentino dal 25% al 50% considerando il trend previsto nei prossimi 3-5 anni, mettendo a rischio nell’Ue fino a 3,5 milioni di posti di lavoro. Nel caso in cui concedessimo lo Status di Economia di Mercato alla Cina, significherebbe darle la possibilità di ridurre il margine di dumping del 30%, consentendole di ridurre ulteriormente i prezzi. La Cina, infatti, non è un’economia di mercato. Quando guardiamo l’economia cinese, vediamo ancora le ombre di una economia pianificata. I leader cinesi che si sono succeduti hanno seguito il modello di una “economia socialista di mercato”, in cui il governo controlla le imprese statali che dominano settori come l’acciaio, la produzione di energia e il minerario - ognuno dei quali gode di un sostegno importante da parte dello Stato. Penso che ci dovremmo impegnare in un ampio e franco dibattito con i cinesi (abbiamo anche bisogno di uno studio completo di valutazione di impatto),e l'Unione europea dovrebbe mantenere i suoi strumenti di difesa commerciale efficaci che prendono in considerazione la reale situazione del mercato in Cina.
il manifesto 30.1.16
Accuse pesanti ai soldati europei in Centrafrica
L'ennesimo scandalo. Caschi blu francesi e georgiani coinvolti in casi di stupro e abusi sessuali sui minori. L’alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussei: «Troppi di questi crimini continuano a restare impuniti»
di Rita Plantera

È un j’accuse auto-referenziale quello dell’Onu contro i caschi blu dell’Unione Europea in missione nella Repubblica Centrafricana accusati di sfruttamento e abusi sessuali sui minori. A denunciare i fatti — avvenuti tra dicembre 2013 e giugno 2014 in un centro per sfollati nei pressi dell’aeroporto di M’Poko nella capitale Bangui — sono state le stesse vittime durante le interviste condotte da due team dell’Onu nel corso delle ultime settimane. Quattro ragazze di età compresa tra i 14 e i 16 anni hanno raccontano di essere state stuprate e costrette ad avere rapporti sessuali con peacekeepers del contingente georgiano, mentre un ragazzo e una ragazza di 7 e 9 anni avrebbero fatto sesso orale con i soldati francesi dell’operazione Sangaris in cambio di una bottiglia d’acqua e un sacchetto di biscotti. Raccontano le violenze subite e testimoniano quelle a cui sono stati costretti altri bambini in ripetute occasioni dai soldati francesi.
L’alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussei si è detto ieri estremamente allarmato per le continue accuse di violenze sui minori contro le forze di pace dispiegate in Centrafrica: «Si tratta di accuse estremamente serie ed è cruciale che siano immediatamente e accuratamente investigate. Troppi di questi crimini continuano a restare impuniti».La scorsa settimana Zeid aveva sollevato casi analoghi con le autorità europee, georgiane e francesi che hanno garantito di aver avviato indagini o demandato i casi alle autorità giudiziarie competenti nei loro rispettivi Paesi. «Sono confortata dalle risposte iniziali che abbiamo ricevuto dai Paesi interessati, così come da parte dell’Unione europea» ha detto l’alto Commissario sottolineando che «troppi di questi crimini continuano a rimanere impuniti. Come sempre più casi emergono, implicando sempre più contingenti nazionali, è anche chiaro che tutte le forze militari straniere, sia dell’Onu sia non, devono svolgere azioni molto più efficaci per prevenire ulteriori abusi e sfruttamenti e non solo nella Repubblica Centrafricana».
In realtà, a essere sotto auto-accusa — per responsabilità indirette – sono le stesse Nazioni Unite o almeno alcuni suoi funzionari additati dagli stessi colleghi di complicità del tutto inaccettabili nei fatti denunciati più volte nel corso degli ultimi mesi. A scoperchiare il pentolone delle malsanità era stato ad aprile scorso Anders Kompass, direttore delle operazioni sul campo per l’Ufficio dell’alto Commissario per i Diritti Umani (Ohchr). Per aver lanciato l’allarme sugli abusi sessuali su minori da parte dei soldati francesi nella Repubblica Centrafricana e trasmesso documenti riservati alle autorità d’oltralpe, Kompass è stato sospeso per un breve periodo. Nelle prime interviste rilasciate dopo essere stato scagionato, l’alto funzionario ha rivelato come il personale Onu taccia anche se a conoscenza delle violenze ai danni di minori per timore di perdere il posto di lavoro. Lo sfruttamento sessuale è vietato da protocollo, ricorda Kompass, aggiungendo che di fatto però gli abusi sessuali sono «sostanzialmente tollerati» in Paesi come la Repubblica Centrafricana, dove gli operatori dell’Onu si sentono protetti da una certa cultura dell’impunità. In questo senso alcuni funzionari dell’Onu sarebbero colpevoli di coprire decine di casi di abusi sessuali contro donne e bambini da parte dei suoi operatori laddove invece dovrebbe attivarsi per porre fine a una cultura del silenzio tacito.
Per il portavoce per i diritti umani delle Nazioni Unite Rupert Colville «Quello che è evidente nella Repubblica Centrafricana è che quanto sta avvenendo è dilagante. Stiamo parlando di qualcosa come 10 contingenti, sia Onu e non, che è veramente scioccante». «Si tratta di un problema con gli eserciti, con le forze militari, e che per qualsiasi ragione non si sta facendo abbastanza per fermare quanto accade». Le condanne sono state «troppo, troppo poche», sostiene Colville. Il mese scorso, una commissione d’inchiesta indipendente ha accusato gli alti funzionari dell’Onu di aver abusato della loro autorità omettendo di prendere provvedimenti contro soldati di Francia, Guinea Equatoriale e Ciad accusati di abusi sessuali su minori nel 2013 e nel 2014 nella Repubblica Centrafricana.
il manifesto 30.1.16
Muro erotico
Verità nascoste
di Sarantis Thanopulos

Il presidente della Repubblica ha detto che i settanta anni di pace e di sviluppo in Europa sono fondati anche «nel sangue e nella terra fredda, mista a cenere» dei campi di concentramento tedeschi. L’affermazione del presidente è involontariamente ironica: a minare oggi la credibilità dell’Europa e dell’Occidente, è proprio la soluzione data alla catastrofe etica di cui sono stati espressione i campi di annientamento degli ebrei.
Addossando l’intera responsabilità all’eccezionalità del mostro nazista, come se questo mostro fosse nato dal nulla, senza il fallimento di tutti, ci siamo affidati, di fatto, alla logica della colpa di un popolo, quello tedesco.
Espiata la colpa (nel tempo necessario di una lunga sofferenza), siamo al punto di partenza. L’occidente non ha voluto vedere nello sterminio il risultato di una sua grave difficoltà a costruire un senso d’identità eccentrico al suo centro di gravità, aperto senza possibilità di ritorno alle trasformazioni. È un’impasse storica delle civiltà il misconoscimento della loro co-costituzione con il barbaro, lo straniero.
L’ebraismo è stato storicamente una componente fondante della civiltà occidentale (insieme alla cultura greco-romana, il cristianesimo e l’illuminismo ateo), ma anche la parte che più l’ha estroversa, l’ha spinta verso il decentramento, l’esilio da se stessa. Ha posto un problema –la capacità di desiderare il diverso nel punto in cui più destabilizza la nostra autoreferenzialità – che l’occidente, nel momento più decisivo della sua storia, ha rimosso. Nelle rimozioni trovare una meta appropriata al desiderio è l’ultima delle preoccupazioni. Piuttosto che estrovertirci, riaprendosi all’alterità, abbiamo usato la parte estrovertente di noi per occupare la terra di altri.
Gli ebrei riaccolti nella nostra civiltà sono stati usati come nostra enclave nel mondo musulmano. Mandarli via dalla loro casa (l’Europa), perché tornassero a casa loro, che loro non era (Palestina), è stata la forma paradossale con cui si è estrinsecato il nostro rifiuto di lasciarci attrarre, prendere da un altro luogo/modo di essere e la scelta di trattare la casa altrui come estensione della nostra.
Recentemente, il libro premiato di una scrittrice israeliana, che racconta l’amore tra un’ebrea e un palestinese, è stato escluso dalla lista dei libri adottati dai licei. Secondo il ministero d’istruzione israeliano le relazioni intime tra ebrei e non ebrei potrebbero rappresentare una «minaccia alle identità separate»: «Gli adolescenti tendono a romanticheggiare e non includono nel loro punto di vista considerazioni sulla preservazione dell’identità nazionale e sul significato dell’assimilazione».
Nella censura dell’incontro erotico tra ebrei e palestinesi, ciò che preoccupa le autorità israeliane –per loro stessa ammissione — non è tanto una relazione sessuale di per sé, quanto la sua trasformazione in matrimonio, in una compenetrazione stabile che porti a una mescolanza profonda di identità che devono restare separate. Questa censura getta luce sulla vera linea di demarcazione tra il mondo occidentale e il mondo islamico.
Il muro materiale che separa Israele dai territori arabi è la rappresentazione simbolica di una divisione erotica che congela la nostra esistenza.
Lo scambio tra culture diverse e la loro integrazione in uno spazio più ampio, che le trascende, è impossibile senza il desiderio erotico che fa attraversare i confini: l’interdizione dei matrimoni misti è l’indicatore più sicuro della loro incapacità di comunicare.
Chi porta nelle vene tracce di «sangue impuro» (simbolo di amori proibiti) non dorma tranquillo.
il manifesto 30.1.15
Gerusalemme Est, soldi a scuole che rinunciano al programma palestinese
Israele/Territori occupati. Li offre il ministero dell'istruzione israeliano, ha rivelato il quotidiano Haaretz. Diana Buttu: «Israele vorrebbe trasformare i palestinesi in sionisti, convincerli ad abbracciare la narrazione israeliana di quanto è accaduto in questa terra». Sullo sfondo il sistema scolastico palestinese in condizioni critiche
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Nessuno può accusare di scarso impegno il ministro israeliano dell’istruzione Naftali Bennett. Un impegno che però sembra indirizzarsi più verso obiettivi politici che a favore dell’apprendimento degli studenti. Alla fine del 2015 Bennett aveva vietato gli interventi nelle scuole ai rappresentanti di “Breaking the Silence”, l’Ong dei soldati israeliani che rompono il silenzio su crimini commessi nei Territori occupati. A inizio del nuovo anno ha proibito l’uso nelle scuole superiori del romanzo di Dorit Rabinyan “Borderlife” che racconta la storia d’amore tra una ebrea e un palestinese. Ora, riferiva ieri in prima pagina il quotidiano Haaretz, il ministero dell’istruzione prepara un piano che prevede fondi extra solo per le scuole arabe di Gerusalemme Est che adotteranno il programma israeliano al posto di quello palestinese.
Quando nel 1995 furono firmati gli Accordi di Oslo II, ai palestinesi di Gerusalemme Est, che non sono (tranne una esigua minoranza) cittadini israeliani, fu riconosciuto il diritto di adottare il programma del ministero dell’istruzione della neonata Autorità nazionale palestinese al posto di quello della Giordania. Delle 180 scuole palestinesi soltanto otto hanno scelto, in questi ultimi venti anni, il programma israeliano e solo due di queste sono istituti pubblici. Un dato che conferma il rifiuto del controllo israeliano della zona araba di Gerusalemme, anche in materia di istruzione, da parte degli oltre 300mila palestinesi nella Città Santa. «Israele vorrebbe trasformare i palestinesi in sionisti, convincerli ad abbracciare la narrazione israeliana di quanto è accaduto in questa terra» spiega al manifesto Diana Buttu, una esperta di diritto internazionale «i palestinesi però intendono rimanere quello che sono e continuare a far parte del mondo arabo». Per questa ragione, aggiunge Buttu, «anche questo tentativo è destinato a non avere successo». Allo stesso tempo la condizione delle scuole arabe a Gerusalemme Est è grave: il numero degli studenti aumenta con il passare degli anni e non ci sono aule sufficienti. Molte scuole pubbliche operano in edifici spesso fatiscenti che necessitano urgenti lavori di ristrutturazione, scarseggiano attrezzature, computer e materiali didattici. Qualche dirigente scolastico perciò potrebbe essere tentato ad adottare il programma israeliano in cambio dei fondi offerti dal ministero. «A mio avviso è un ricatto, soldi in cambio di una rinuncia» afferma Diana Buttu «i palestinesi sotto occupazione hanno diritto ai quei fondi senza dover rinunciare alla loro identità, alla loro cultura, al loro programma scolastico in linea con il resto del mondo arabo. Lo dice il diritto internazionale che Israele è chiamato a rispettare. Per questo mi auguro che questo passo del ministero dell’istruzione israeliano venga subito condannato dalle istituzioni internazionali». Lo sdegno è forte tra i palestinesi di Gerusalemme. Le scuole arabe, affermano, non accetteranno l’offerta del ministero israeliano. Anche perchè i genitori non lo permetterebbero, di fronte a libri di testo e a un programma scolastico che tendono a negare quasi del tutto storia e cultura palestinese.
Nel corso degli anni i governi israeliani si sono spesso lamentati del contenuto dei libri usati nelle scuole palestinesi che non riconoscebbero pienamente lo Stato ebraico e «istigherebbero alla violenza». A loro volta i testi inclusi nel programma israeliano offrono una narrazione totalmente anti-araba, che nega radici e storia dei palestinesi nella loro terra. Lo spiega bene la docente israeliana Nurit Peled Elhanann nel suo libro “La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione” (2012, edito in Italia dal Gruppo Abele). Gli arabi, scrive Peled Elhanann, sono rappresentati come profughi in strade e luoghi senza nome. «Nessuno dei libri», spiega la docente, «contiene fotografie di esseri umani palestinesi e tutti li rappresentano in icone razziste o immagini classificatorie avvilenti come terroristi, rifugiati o contadini primitivi». Raramente si parla di “Palestina” o “Palestinesi” piuttosto si fa riferimento a “non ebrei”, “arabi”, o al “problema palestinese” descritto il più delle volte come un problema demografico.
Secondo il ministero dell’istruzione israeliano i palestinesi da un lato protestano e dall’altro, in numero crescente, intenderebbero seguire il programma scolastico israeliano. Riferisce che l’anno scorso 1400 studenti arabi hanno scelto il “Te’udat Bagrut”, ossia il diploma di maturità israeliano e non quello palestinese (Tawjihi). Quest’anno se ne prevedono 2.200. Ma sono soltanto il 5% dell’intera popolazione scolastica palestinese.
Il Sole 30.1.16
La scuola si «arrocca»: troppo inglese nel concorso
di Eugenio Bruno

Roma Nell’era di Spotify e della musica on demand su qualsiasi supporto digitale la scuola italiana sembra ferma al 78 giri. Il sentore c’era già stato ai tempi della discussione (parlamentare e non) sulla “buona scuola”, quando anziché soffermarsi su come migliorare le conoscenze degli studenti italiani, il dibattito aveva preferito virare sui troppi poteri affidati al “preside-sceriffo”. Una nuova conferma è giunta nei giorni scorsi dal parere del Consiglio superiore della pubblica istruzione (Cspi) sui provvedimenti collegati al futuro “concorsone” da 63mila posti. Specialmente nel passaggio in cui giudica troppo ampio lo spazio attribuito alle lingue straniere nella valutazione dei futuri prof: due domande su otto della prova scritta. Meglio una, è la controproposta dell’organo consultivo del Miur.
Facciamo un passo indietro. La riforma Renzi-Giannini prevedeva che entro il 1° dicembre scorso arrivasse il bando per la nuova maxi-selezione nella scuola. O meglio i bandi, visto che ne servono tre: uno per primaria e infanzia, un altro per le medie e le superiori, un terzo per il sostegno. Ma a oggi non sono ancora stati emanati e, a quanto pare, non arriveranno prima della seconda settimana di febbraio. Anche perché il regolamento sulle classi di concorso 2.0 (che di quegli atti è propedeutico) non è ancora stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Per accorciare i tempi nelle scorse settimane il dicastero di viale Trastevere ha inviato ai 36 membri del Cspi - che rappresentano le varie anime della comunità scolastica - i cinque decreti e l’ordinanza sulle prove, i titoli, le commissioni, gli ambiti disciplinari e tutti gli altri aspetti “burocratici” del concorsone. Affinché emettessero il parere (non vincolante) previsto dalla legge 107.
Il documento è arrivato mercoledì scorso. Sono 11 pagine fitte di rilievi. Alcuni esclusivamente tecnici (ad esempio dove si legge che «manca qualsiasi riferimento all’ampia normativa relativa alle alunne e agli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento» oppure dove si chiede se «parte delle prove concorsuali possano essere comprese in due ambiti differenti ma affini»), altri economici (quando si definiscono «esigui» i 209 euro lordi previsti per i futuri commissari), altri ancora più politici. Come la doppia premessa sull’esigenza di risolvere definitivamente il nodo del precariato e sul rischio di contenzioso insita nella scelta di riservare il concorso ai soli abilitati.
Arriviamo così alle lingue. Il Dm sulle prove, nel ricordare che non ci sarà alcun “quizzone” preselettivo, introduce una prova scritta con otto quesiti a risposta aperta stabilendo che due di questi dovranno essere in una lingua diversa dall’italiano (che all’infanzia e alle primarie sarà necessariamente l’inglese). L’obiettivo è verificare che tutti i futuri insegnanti abbiano un livello di conoscenza medio (B2) dell’idioma prescelto. Sul punto il Cspi chiede di «ridurre la verifica di tale competenza rispetto alla valutazione complessiva, di tipo culturale, metodologica e didattica». In pratica di portare da «2 a 1 i quesiti nella prova scritta in lingua straniera».
Una posizione di chiusura che sembra non tenere conto né della direzione “aperta” verso cui il mondo tende ormai da decenni, né del rapporto quanto meno conflittuale che esiste tra la scuola italiana e le lingue straniere. E che è testimoniato da almeno un paio di numeri: l’indice 2015 di Ef Epi ci colloca al 28esimo posto nel mondo (e al 22esimo in Europa) per la conoscenza dell’inglese; secondo una ricerca della Fondazione Intercultura il 57% dei docenti in servizio valuta basso o medio-basso il suo “spoken english” e solo il 18% ha investito in esperienze all’estero. A cui forse è il caso di aggiungerne anche un terzo, visto che stiamo parlando del futuro dei nostri ragazzi: l’82% degli studenti interrogati dall’Indire ha indicato proprio nelle lingue il fabbisogno formativo da rafforzare. Tutti dati che si spera vengano tenuti a mente dal ministero quando deciderà quanti e quali rilievi emessi dal Cspi accogliere.
il manifesto 30.1.16
Amnesty: «Bancarotta morale dell’Ue»

Il piano avanzato dalla presidenza olandese dell’Ue per fermare il flusso di rifugiati che considera la Turchia alla stregua di «paese terzo sicuro» dove riallocare decine o centinaia di migliaia di richiedenti asilo (si parla di 150 –250 mila persone) senza prima valutare il loro status di rifugiato violerebbe il diritto europeo e quello internazionale.
A dirlo è Amnesty international che con le parole del suo direttore al programma europeo John Dalhuisen lo definisce «un espediente», una proposta basata sulla chiusura dei confini e sul respingimento illegale, negando l’accesso alla procedura d’asilo, in sintesi «una bancarotta morale».
Tra l’altro una recente circolare del ministero italiano dell’Interno sull’accesso alla procedura d’asilo (n. 14106 del 6 ottobre) alla polizia chiarisce come le domande non possono essere respinte solo in base alla nazionalità o a una pretesa categoria di «migrante economico», perché anticostituzionale.
Il Sole 30.1.16
Le due versioni dell’interesse nazionale
di Lina Palmerini

Berlino e Milano ieri non erano solo le due facce dell’Europa ma dell’Italia. Renzi con la Merkel, Salvini con Marine Le Pen hanno offerto all’opinione pubblica italiana due risposte politiche alternative. Con una differenza rispetto al passato. Ora è Renzi che prova a sventolare la bandiera dell’interesse nazionale che prima era un’esclusiva della destra euro-scettica. E lo fa con una dose di rischio alta.
La vera mossa a sorpresa del premier italiano è proprio quella di aver impugnato una bandiera “nazionalista” che finora non faceva parte del linguaggio di centro-sinistra. Non in maniera così schietta e perfino ruvida. Nella conferenza stampa con la Merkel, Renzi non ha ceduto sul punto né della Turchia né della flessibilità e si è fatto portatore di un chiaro e visibile interesse italiano sia con Berlino che con Bruxelles. È chiaro che è un azzardo politico perché la sconfitta nel negoziato peserà sulla scena europea e soprattutto su quella italiana ma è una mossa che ha spiazzato gli avversari e in primo luogo il fronte euroscettico che ieri si è ritrovato a Milano con Salvini e Marine Le Pen. Quella bandiera infatti era un’esclusiva della Lega e anche di alcune aree del partito di Berlusconi.
Naturalmente la versione renziana dell’interesse nazionale è stata declinata in modo diverso, con la difesa di Schengen e dell’idea di accoglienza dei profughi, ma ieri il premier ha voluto dimostrare che difende ciò che oggi preme all’Italia senza cedere alle richieste alla Merkel. E a Salvini non resta che scommettere sull’esito negativo della trattativa e liquidare gli aiuti alla Turchia – su cui Berlino insiste – come “aiuti ai terroristi”. Insomma, è chiaro che se l’offensiva di Renzi porterà a casa qualche risultato, il bacino elettorale del segretario leghista si sgonfierà e tornerà a essere quello che era prima dell’emergenza profughi.
Un vantaggio per Salvini però c’è. Ed è forte. Perché la rappresentazione di ieri – tra Milano e Berlino - mostrava la vera forza del fronte euro-scettico: la compattezza. A Milano erano uniti, a Berlino invece sono andate in scena due visioni diverse dell’Europa, su alcuni punti molto confliggenti, come quello della flessibilità e delle ricette economiche. È questo il vero punto debole che sconterà anche il premier nel suo negoziato ingaggiato con la Commissione Ue e con Berlino: che il fronte europeista è fatto di troppe voci e che la mancanza di alleati di Renzi riflette le spaccature all’interno di questo fronte.
Spaccature che ci sono anche in Italia. Quali sono i suoi alleati interni? Sulla carta c’è la maggioranza e naturalmente il suo partito ma finora non si è sentita una sola voce autorevole del Pd non-renziano che abbia difeso a spada tratta la sua presa di posizione. E dunque è chiaro che se il negoziato dovesse prendere una piega negativa, il premier ne dovrà pagare il conto anche all’interno del suo partito. Il fatto è che Renzi non ha ancora messo bene a fuoco dentro il Pd come e su quali punti è cambiata la linea sull’Europa. Da un tradizionale posizionamento europeista senza se e senza ma si è passati a una critica esplicita. Finora, a sinistra, era successo solo con un'area che si è coagulata all'esterno del Pd, in quella lista pro-Tsipras che ha difeso le battaglie del premier greco almeno fino a un certo momento. Per il resto non è chiaro fino a che punto tutto il Pd, inclusa la minoranza interna, sia disposto a seguire il premier.
Insomma, un negoziato così ad alto rischio, non tanto per la leadership di Renzi ma per le conseguenze sul Paese, avrebbe bisogno di un maggiore coinvolgimento e copertura politica. Almeno da parte di tutto il partito di cui Renzi è anche segretario. Una riflessione aperta su quali richieste l’Italia debba negoziare per il proprio interesse nazionale: dall’unione bancaria alla flessibilità fino alla questione dei migranti. Ma senza un’investitura politica interna forte, la trattativa diventa solo un azzardo e non una posizione politica.
il manifesto 30.1.16
Renzi torna a mani vuote
Europa. Al vertice di Berlino il disgelo con l’Italia è solo parziale. Le «ambiziose» riforme del premier non impressionano la cancelliera, che chiude le porte ai rifugiati e accelera per mettere al sicuro l’export «made in Germany». Roma non ottiene quasi nulla nel merito ma almeno salva la faccia e non riceve veti preventivi nella durissima trattativa sui conti con la Commissione
di Sebastiano Canetta

BERLINO Uniti contro il populismo per un’Europa più forte ed efficiente. È il tweet «tedesco» che rappresenta l’unico, virtuale, esiguo risultato ufficiale dell’incontro tra il premier Matteo Renzi e la cancelliera Angela Merkel, tutt’altro che d’accordo su tutto come ammette il presidente del consiglio.
Nei fatti il «disgelo» tra Roma e Berlino è parziale: sì alla comune difesa di Schengen e alle quote europee di rifugiati ma nessuna sostanziale concessione sulla flessibilità dei conti pubblici e sul finanziamento di 3 miliardi alla Turchia. In compenso l’Italia incassa il ritorno sulla scena europea (come voleva Renzi) e la benedizione del «nuovo ruolo» da parte di Berlino: «La Germania avrà la presidenza del G20 e l’Italia del G7» ricorda la cancelliera.
Senza la fanfara militare e con il cerimoniale ridotto all’osso. Così Merkel ha accolto nella Bundeskanzlei alle 12.30 Renzi, invitato a una «colazione di lavoro». Un colloquio «intenso e amichevole» durato il doppio del previsto (la conferenza stampa è slittata di oltre un’ora) segno delle difficoltà a smussare gli spigoli.
La cancelliera tedesca «guarda con favore alle ambiziose riforme di Renzi» e c’è «piena convergenza su una soluzione europea dell’emergenza profughi, finanziamento degli Stati in prima linea sul fronte degli arrivi e lotta ai trafficanti». Tuttavia Mutti ricorda a «Matteo» i 6 hot spot italiani concordati con Bruxelles (di cui solo 3 operativi) e l’«urgenza di un accordo con la Turchia», ovvero del pagamento della quota di 280 milioni a carico dell’Italia per il finanziamento ad Ankara. Renzi prende tempo e assicura: «Siamo d’accordo, ma attendiamo di sapere da Bruxelles come andrà inteso l’aiuto» ovvero se la «rata» sarà scorporata dal patto di stabilità e a carico dell’Ue.
Sulla flessibilità dei conti pubblici italiani la cancelliera alza il muro: «Non mi immischio: è compito della Commissione Ue interpretare i margini» taglia corto, convinta che i confini in ogni caso restino (solo) quelli previsti dagli accordi sottoscritti a Bruxelles.
Poi, perfida, fa «gli auguri all’Italia per il buon esito delle riforme», e imputa a Renzi il rallentamento della messa in sicurezza del bilancio e accenna ai «problemi» con le banche. Questi, soprattutto, hanno impressionato la cancelliera più del Jobs Act: la stabilità del credito in Italia ormai è una questione tedesca. Giovedì il default di Etruria, Banca Marche, CariFerrara e Chieti è rimbalzato sulla Borsa di Francoforte facendo «crollare» il Dax dell’1,6%.
Da qui l’«aiuto di Schäuble» a Renzi: il ministro delle finanze ha messo 2.000 miliardi di euro del risparmio tedesco (l’equivalente del debito pubblico di Roma) a garanzia del deposito Bce che copre i 200 miliardi di crediti avariati delle banche italiane. È la luce verde alla bad bank e «la vera assicurazione sui titoli decennali di Roma», sottolineano a Berlino.
In ogni caso la visita di Renzi «rafforza le relazioni commerciali tra i due Paesi», puntualizza Angela Merkel, che annuncia una prossima conferenza economica bilaterale tra i due paesi: «È positivo che in Italia ci sia un inizio di ripresa: negli ultimi mesi l’import dei prodotti tedeschi in Italia è aumentato del 7%», gongola la cancelliera. Dall’altra parte, un quinto del made in Italy finisce in Germania; tradotto significa 54,9 miliardi di business nel 2016, 58,2 nel 2017 e 61,6 nel 2018. Pesano più della «messa in scena» (secondo Welt) dell’«esuberante» premier italiano che denuncia l’asse franco-tedesco e molto meno degli altri fronti strategici su cui Berlino non retrocede. Su tutti il raddoppio del gasdotto Nord Stream in partnership con la Russia di Putin affidato alla «valutazione» della Commissione Ue e contrastato dall’Italia anche nell’Europarlamento: un nodo irrisolto nel summit bilaterale.
Preceduto dall’incontro di Merkel con Lady Pesc. Federica Mogherini è stata ricevuta nella cancelleria 24 ore prima di Renzi e ha festeggiato con Mutti e Kofi Annan (l’ex segretario delle Nazioni unite) il compleanno del ministro degli esteri Steinmeier. E la cancelliera si è presentata al bilaterale con il nuovo «pacchetto» sul diritto di asilo concordato con Csu e Spd: sospensione per due anni dei ricongiungimenti familiari dei profughi; aggiunta di Marocco, Algeria e Tunisia nella lista dei «Paesi sicuri»; divieto di circolazione in Germania per i rifugiati e costo dell’integrazione linguistica a carico dei migranti.
È il minimo sindacale chiesto dall’Union e dal vice cancelliere socialdemocratico Gabriel: il punto con cui Merkel ha ricompattato la sua Grande Coalizione.
Fuori dalla cornice diplomatica, l’incontro con Renzi ha risentito del clima nero sul fronte dei profughi in Germania.
Nella notte, in Baden-Württemberg, estremisti xenofobi hanno lanciato una granata (inesplosa) contro un centro rifugiati. È l’attacco numero 1.006 agli Asylheim, l’ennesima bomba (vera) contro la «politica di benvenuto» di Angela cui secondo i sondaggi si oppone il 45% dei tedeschi.
Adesso, archiviata la visita di Renzi, la cancelliera Merkel prepara la conferenza sulla crisi in Siria in programma a Londra il 4 febbraio. Tavolo riservato a Germania, Regno Unito, Norvegia e Kuwait. Ancora una volta un altro summit decisivo senza l’Italia.
Il  Sole 30.1.16
L’Italia che verrà / 2
Un piano nazionale per l’infanzia
di Sandra Zampa e Vanna Iori

Lotta alla povertà; servizi socio educativi per la prima infanzia e qualità della scuola, integrazione scolastica e sociale; sostegno alla genitorialità, sistema integrato dei servizi e accoglienza. Sono queste le quattro aree tematiche del IV Piano d’azione per l’infanzia e l’adolescenza ai suoi ultimi passaggi prima del via libero definitivo che arriverà con decreto del Presidente della Repubblica. Un anno di analisi e studio dell’Osservatorio sulle politiche per l’infanzia (ricostituito nel 2014 dal ministro Poletti dopo due anni di vuoto) cui partecipano Comuni e Regioni, associazioni, privato sociale, esperti, rappresentanti del sindacato e delle professioni che operano per la tutela, la realizzazione e il rispetto dei diritti dei minori. A che serve un Piano d’azione per l’infanzia e l’adolescenza? A disegnare un modello di Paese prima di tutto, perché il modo con cui si guarda all’infanzia rivela molto di più che la semplice esistenza di attenzione e sensibilità dei governi alla vita dei piccoli cittadini e ai loro diritti. A progettare il futuro perché gli investimenti di oggi sull’infanzia fanno crescere talenti e saperi indispensabili a un paese domani.
Ci piace immaginare che possa rivelarsi la base di un nuovo “patto sociale” per l’infanzia che giunge in un momento fortemente segnato da eventi recessivi e in un Paese a “demografia debole”: 13.8 la percentuale della popolazione tra 0 e 14 anni sul totale complessivo (è di 21.7% quella degli ultra sessantacinquenni) e una quota di spesa sociale destinata a famiglie e minorenni tra le più basse d’Europa. Proprio il contesto sociale ed economico in cui si colloca fa di questo Piano un’opportunità più importante che mai per il Paese. Lo hanno compreso i suoi estensori collocando la lotta alla povertà materiale ed educativa al primo posto e indicandola come un obiettivo da perseguire con un insieme di misure. Se davvero l’Italia si impegnasse a garantire ai suoi minori condizioni di uguaglianza nell’accesso alle risorse su tutto il territorio nazionale avremmo avviato un cambiamento epocale del Paese. Si tratta di un obiettivo ambizioso che passa dall’approvazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) centrate sui diritti (art. 117 della Costituzione) e dalla loro effettiva esigibilità. Il Piano chiama in causa anche Regioni e Comuni disegnando un sistema di governance complessivo delle politiche destinate all’infanzia e all’adolescenza. La semplice privazione dell’accesso alla mensa disposta da amministrazioni comunali può avviare percorsi di esclusione e determinare un aggravamento delle condizioni di deprivazione di bambine e bambini vulnerabili e incolpevoli. In un sistema basato sui LEP questa eventualità non potrebbe più esistere.
Nel Piano nazionale è infine emersa come particolarmente importante la raccomandazione per il sostegno alla genitorialità. A fronte di una trasformazione delle famiglie in cui non solo è diminuita la dimensione media (1,3 componenti) ma sono aumentati l’isolamento e la solitudine, occorre promuovere interventi e servizi di cura e sostegno alla quotidianità, di incentivo alle competenze educative genitoriali per riconoscere e accrescere le risorse presenti in ogni famiglia, oltre ad accogliere e prevenire le fragilità. È necessario, a tal fine, implementare il sistema locale dei servizi per garantire livelli essenziali per tutte le famiglie, ma anche innovare la prospettiva del welfare familiare di prossimità tramite interventi di affiancamento sul modello family to family.
Gli impegni che possono essere assunti a sostegno della genitorialità sono quindi molteplici: occorre, ad esempio, favorire il recupero delle relazioni familiari disfunzionali intervenendo nei confronti dei genitori maltrattanti così come occorre rafforzare percorsi di accompagnamento appropriato nell’ambito dell’iter adottivo o affidatario. È auspicabile che queste indicazioni, come altri interventi da mettere in campo in diversi ambiti, possano rientrare in una logica complessiva che punti a tutelare sempre lo sviluppo sereno dei figli. Ad esempio sul versante della salute occorre agire su diverse aree: dalla corretta alimentazione (lotta all’obesità e disturbi del comportamento alimentare) all’attività motoria, dalla salute mentale alle diverse forme di dipendenza (da sostanze o dalla rete internet), dalleducazione alla sessualità alla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, dedicando un’attenzione speciale all’educazione alla vita emotiva e all’affettività.
Importante è quindi la prevenzione delle diverse forme di disagio sociale, educativo e relazionale a partire dal lavoro “su” e “con” le famiglie, perché un reale e concreto aumento dei diritti dei bambini e delle bambine nasce innanzitutto quando il calore delle relazioni familiari sa aprirsi al contesto della comunità.
Sandra Zampa è vicepresidente Bicamerale Infanzia
e deputato del Pd; Vanna Iori è deputato del Pd
Il  Sole 30.1.16
l’italia che verrà / 1
Il rischio «suicidio demografico»
Nel 2015 le nascite per la prima volta dopo il 1918 sotto le 500mila unità
di Mariano Maugeri

Culle vuote e cimiteri pieni. La curva demografica del 2015 ci lascia una bruttissima eredità. Le nascite, per la prima volta dopo il 1918, (annus horribilis per un’intera generazione rimasta sui campi di battaglia della prima guerra mondiale; chi sopravvisse dovette poi fare i conti con la micidiale epidemia d’influenza, la spagnola, che fece più morti della peste del XV secolo) sono scese sotto la soglia psicologica delle 500mila unità. Un fatto ancor più grave se si considera che rispetto al 2014 «le morti registrano un aumento di oltre 60 mila unità», osserva il decano dei demografi dell’università Bicocca, Giancarlo Blangiardo, mentre gli immigrati, che da almeno un ventennio colmavano il nostro gap demografico, si sono anch’essi arresi all’evidenza che il nostro non è un Paese per famiglie. Così come non è un paese per giovani (130 mila il saldo netto degli italiani in uscita del 2014, quasi tutti con laurea o master), che ormai migrano ovunque nel mondo, né per i vecchi, che vanno godersi la loro pensione esentasse alle Canarie o in Portogallo. Un suicidio demografico in piena regola, che non genera nessuna mobilitazione nell’opinione pubblica né tantomeno riunioni allarmate del Consiglio dei ministri. «Ci vorrebbero statisti come Alcide De Gasperi» sorride Blangiardo, un demografo che aveva previsto questo inverno (o inferno) demografico. Da qui ai prossimi quaranta o cinquant’anni si assisterà alla supremazia schiacciante dei settantenni sui ventenni. Con conseguenze catastrofiche per il welfare, soprattutto la sanità e le pensioni, il cemento che ha tenuto insieme la società del benessere così come l’abbiamo conosciuta.
Oltre cinque anni fa, un gruppo di studiosi aveva redatto il Rapporto nazionale sulla famiglia, poi archiviato in un cassetto. Obiettivo: indagare il crollo della natalità. Nel 2012, il governo guidato da Mario Monti legge e approva il documento. Finisce lì. E lo studio ritorna nel cassetto. Qualche anno dopo pure gli immigrati si stufano di compensare la bassa natalità degli italiani, «forse perché si resero conto – osserva Blangiardo – che pure loro scontavano la mancanza di servizi e asili nido». Un’anomalia, la natalità zero, che l’Italia condivide con la Germania, anch’essa con una forte anoressia riproduttiva. La Francia («voleva più baionette delle nazioni nemiche» chiosa il demografo della Bicocca), ma anche la Gran Bretagna, sono invece in sostanziale equilibrio tra nati e morti. Le colpe arrivano da lontano. Dall’ordine mussoliniano di donare oro (e i figli) alla patria, alla retorica cattolica sulla famiglia nucleare, la comunità riproduttiva fondata su madre, padre e figli. Non perché fosse sbagliato difenderla, ma per il motivo opposto, cioè perché si è tutelata solo a parole, senza fornirgli gli strumenti essenziali per la sua sopravvivenza. Con una responsabilità storica di una o più generazioni di politici cattolici, presenti trasversalmente in ogni schieramento. Ricorda Blangiardo: «Una volta esistevano gli assegni familiari. Funzionavano. Ma qualcuno decise di cancellarli, malgrado la cassa fosse in attivo e le famiglie ricevessero un aiuto in denari sonanti». Troppo semplice.
Oggi gli italiani sono 55 milioni (più cinque milioni di immigrati). E nel giro di mezzo secolo potrebbero precipitare a 40, praticamente il punto di non ritorno. Una società di ottuagenari genera ripercussioni pesanti sulla struttura dei consumi. Riflette Blangiardo: «Un settantenne o un ottantenne, tranne le lodevoli eccezioni, al massimo fa manutenzione. E invece di comprarsi un paio di scarpe va a risuolarsi quelle vecchie». Popolazione in calo, più vecchia e meno ricca. Questo è lo scenario. Anticipato da quel picco di 60mila morti in più nel 2015. Il demografo milanese ha lavorato come un detective per risalire alle cause di un innalzamento così brusco e inaspettato della mortalità. Che attribuisce a un effetto cumulativo di più cause: «L’epidemia di influenza nei primi tre mesi del 2015, quando si è registrato il picco della mortalità, è stata affrontata da molti anziani senza la protezione del vaccino per la sua presunta nocività; poi lo slittamento delle cure sanitarie, pratica che accomuna molti anziani in una situazione di parziale indigenza: una ricerca del Banco farmaceutico ha rilevato che 2,5 milioni di anziani hanno rinviato le cure mediche a data da destinarsi». Le proiezioni sono da brividi: nell’Europa a 28 ci sono 500 milioni di abitanti che mettono al mondo 5,2 milioni di figli con una aspettativa media di vita di 80 anni. A condizioni invariate, l’Unione europea perderà 100 milioni di abitanti. Un crollo verticale. Conclude il demografo della Bicocca: «Inutile lamentarsi poi per l’arrivo dei migranti senza titolo di studio: i laureati dei Paesi più poveri scansano scientificamente l’Italia e puntano diritti sul Nord Europa». Il vuoto, in natura, si riempie sempre. Valeria Solesin, la dottoranda di Demografia alla Sorbona, uccisa al teatro Bataclan il 13 novembre, lo sussurrava a tutte le donne italiane che incontrava: «Non prendete cani o gatti: mettete al mondo figli come le francesi».
Repubblica 30.1.16
Mammina cara così fragile e crudele
Di perversioni materne sono pieni romanzi e film Da Némirovsky a Simenon e Joan Crawford
di Benedetta Tobagi

IL FESTIVAL Benedetta Tobagi è oggi fra le protagoniste di “Writers”, la rassegna che si svolge fino a domani nel complesso dei Frigoriferi milanesi Tobagi dialoga con Marina Mander in un incontro intitolato “Madri in ballo”

Di mamma ce n’è una sola. E per fortuna: parola di Irène Némirovsky, nume tutelare e angelo vendicatore dei bambini defraudati della propria infanzia da madri terribili, capostipite di una genìa di creatori di momsters letterarie che hanno minato alle radici il mito dell’amore materno. Scordatevi la grandiosità di Medea: Irène smaschera le crudeltà consumate con leggerezza colpevole da madri tutt’altro che tragiche, bensì fragili, deboli, spesso ferite, comunque troppo prese da sé per saper amare. Come era stata la sua, Anna Margulis, in arte Fanny, bella, capricciosa, civetta, ossessionata dai soldi
e dalla smania di sedurre. Fanny, per cui la figlia era un ostacolo ai piaceri della vita mondana e un promemoria vivente del tempo che passa (dichiarò finché possibile 39 anni), che sbatté la porta in faccia alle nipotine sopravvissute ai campi di sterminio in cui morì Irène perché «esistono degli istituti per bambini bisognosi».
Scrittrice di immenso talento e finezza psicologica, Irène fece giustizia con la penna in un’ideale trilogia di romanzi: dopo il folgorante esordio di David Golder (1929), in cui la madre è adombrata come comprimaria di un sistema intimamente corrotto, nel Ballo (1930) la sua controfigura è coprotagonista insieme alla figlia adolescente che, con un piccolo grande gesto di ribellione, riesce a smascherare la sua miseria morale, mentre diventa protagonista assoluta in Jezabel (1936). Bella, fragile, egoista, di fatto la bimba viziata della sua stessa figlia, Gladys-Jezabel uccide come fa l’insospettabile capofamiglia Roland alias l’Avversario di Carrère: per salvaguardare un’ immagine di sé artefatta che si sta sgretolando a contatto con la realtà. La madre nemirovskiana ha un’illustre progenitrice nell’Arkadina del Gabbiano: «Una donna leggera, civetta, vanitosa, a tratti tenera e triste», la descrive Némirovsky nella sua Vita di Checov. Diva del teatro assai più presa dall’amore del pubblico che da quello del figlio, aspirante scrittore suicida nell’ultimo atto. Un’ideale discendente, di nuovo attrice ma in carne e ossa (e molto più splatter), è la Joan Crawford ritratta dalla figlia adottiva Christina in Mammina cara, libro e poi film nel 1981. Un’escalation di angherie e competizione malsana, fino a quando la diva quasi strangola la figlia che osa contraddirla davanti a una giornalista (di nuovo, meglio far fuori la figlia piuttosto che la verità). Ma forse ciò che più sconvolge è l’attaccamento irragionevole che Christina, come tante vittime, manifesta fino all’ultimo verso lei. Quanto male sono capace di farsi i figli abusati, pur di non affrontare l’orribile realtà. Un posto d’onore nella rappresentazione di madri fatali spetta a Georges Simenon. L’arte, come in Némirovsky, si nutrì di vita vissuta. La madre Henriette nel corposo romanzo autobiografico Pedigree (1948) diventa Élise: testarda, ansiosa, una “palla di nervi” tutta lacrime e rimproveri, carica il figlio di sensi di colpa che l’affetto del padre, buono ma debole, non riesce a dissipare. Quasi trent’anni dopo le si rivolge direttamente in Lettera a mia madre, sofferta riflessione accanto al suo letto di morte. «Bisognava, era indispensabile che tu ti sentissi buona», scrive, svelando l’orgoglio luciferino dietro la fragilità nevrotica. «Che peccato, Georges, che sia stato tuo fratello a morire», dice. Eppure Simenon si affanna a ripetere che non giudica, non porta rancore… vengono i brividi, anche senza conoscere il saggio sulla Negazione di Freud. C’è l’ombra della nonna paterna (gelida e giudicante, fu l’incubo di sua madre) dietro la matrona protagonista de Il grande male: la famiglia è il suo campo di potere e pur di salvare la rispettabilità borghese di facciata non esita a far fuori il genero epilettico, provocando il suicidio della figlia. Ma la palma dell’orrore va a Denise, la seconda moglie, madre dei suoi figli, musa che ispirò tante figure femminili a cominciare da Tre camere a Manhattan, semplicemente “D.” nelle fluviali Memorie intime pubblicate poco prima di morire. Invidiosa, manipolatrice, incontrollabile, prima di finire in clinica psichiatrica fa in tempo a devastare la figlioletta Marie-Jo, che, adulta, si toglierà la vita (i dettagli dell’abuso sono sconvolgenti al punto da essere stati omessi nelle prime edizioni). Così acuto nel penetrare le psicologie dei personaggi, Simenon fu tragicamente cieco e distante, rispetto alle tragedie domestiche. Atto di espiazione, il memoir è uno straordinario documento per comprendere le dinamiche perverse nelle famiglie. Le “madri di morte”, infatti, non sono solo le infanticide della cronaca nera. La letteratura getta luce sugli “omicidi dell’anima” compiuti nel silenzio. Perversioni consumate da donne mascherate da angeli. Così nella Pianista di Elfride Jelinek, romanzo d’ispirazione autobiografica reso celebre dal film di Haneke con una superba Isabelle Huppert. L’algida Erika Kohut, insegnante, concertista mancata, si rivela masochista, autolesionista, invidiosa delle giovani allieve, avvinta in un morboso abbraccio mortale con la madre (il padre è in manicomio, prima vittima della madre-mantide).
La Jelinek, Nobel nel 2004, gioca sapientemente con la lingua per rendere la spersonalizzazione vissuta da Erica bambina. Il corpo a corpo con la madre che invidia o “vampirizza” la figlia è una lotta durissima, ma non necessariamente fatale. Tra i racconti di salvezza, avvincente come un giallo, un caposaldo è il romanzo Le parole per dirlo, in cui Marie Cardinal racconta come attraverso l’analisi è riuscita a riscattarsi da una madre in apparenza pia e integerrima, votata alla cura dei derelitti, che in realtà la voleva morta. Tra saggio e racconto, l’originalissimo Io non amavo mia madre di Enrichetta Buchli intreccia due voci: la narrazione struggente della figlia di una madre crudele, guardacaso un’altra pianista mancata, con manie religiose (c’è spesso un narcisismo che rifiuta il corpo e la vita, dietro una “madre di morte”) è accompagnata dalla voce empatica dell’autrice, psicanalista, che chiosa il manoscritto inviatole dall’ex paziente, per fortuna salva. Perché, parafrasando il bel titolo del libro di una delle figlie di Irène, si può “sopravvivere e vivere”. E raccontare, perché altri possano salvarsi dagli inferni del disamore delle madri nere.
Repubblica 30.1.16
Se i bambini ricordano le fiabe sentite prima di nascere
Solo ascoltando le storie si impara fin da piccoli a distinguere i suoni delle parole e le intonazioni delle frasi
Psicologia e neuroscienze lo confermano: raccontare le favole aiuta lo sviluppo
di Antonio Damasio

Per migliaia di anni, prima che fosse inventata la scrittura e resa possibile la lettura silenziosa, il racconto orale era il mezzo principale per trasmettere, ad altri, significati complessi. La tradizione orale probabilmente risale alla nascita dei fuochi di bivacco, quando i membri di una tribù potevano raccogliersi alla sera, in un cerchio magico, raccontare gli eventi della giornata e dare un senso alla loro esistenza. Allora, come ora, i significati complessi non venivano trasmessi da parole isolate, ma piuttosto da frasi costruite in forma di narrazione. Raccontare oralmente era così naturale che questa tradizione non scomparve dopo l’invenzione della scrittura e dopo che la lettura silenziosa di materiale scritto divenne realtà. La tradizione è viva in ambiti diversi, in particolare nel teatro e nella declamazione poetica, due forme di comunicazione che sono state coltivate fino ai giorni nostri. Dato il vasto accesso alla lettura di testi scritti, stampati o elettronici, forse ci si dovrebbe interrogare sui meriti specifici della lettura a voce alta ai bambini. È davvero a loro vantaggio? Sono lieto di rispondere di sì e di riferire che i meriti sono molti.
Molto prima che i bambini possano realmente leggere un libro, il fatto che venga loro letto può compiere meraviglie. Aiuta i bambini a familiarizzare con un discorso ben articolato, con i suoni che formano le parole, e con il loro significato. I bambini riescono anche ad afferrare il significato di intere frasi, e, ultimo ma non meno importante, possono notare le intonazioni che il lettore dà a determinate parole e apprendere il significato di tali intonazioni. I bambini possono familiarizzare con la particolare musica che componiamo in modo naturale quando colleghiamo le frasi, con le loro ricche cadenze, nel corso di una storia. Questo rafforza la padronanza della prosodia del linguaggio — la prosodia è la forma tecnica della musica del nostro linguaggio, in qualsiasi lingua. Anche se dalla lettura a voce alta non dovesse scaturire nient’altro, questo particolare risultato varrebbe lo sforzo. Infatti, comprendere e produrre prosodia è un fattore chiave per un comportamento sociale efficace.
Naturalmente, si potrebbe dire che i bambini possono imparare ad avere la padronanza della prosodia, udita quanto prodotta, nei loro giochi quotidiani, o con le loro famiglie, o nelle scuole materne. Tuttavia, c’è qualcosa di speciale nella situazione di ascoltare una storia da qualcuno che la sta leggendo per noi. Obbliga a una particolare attenzione al testo. Introduce disciplina e una certa formalità. Infatti, introduce un certo rigore nell’altrimenti banale atto di parlare e ascoltare.
C’è anche motivo di credere che il fatto che gli si legga possa accelerare la maturazione dell’intelletto del bambino, e, in ultimissima analisi, facilitare l’eventuale introduzione del bambino alla lettura silenziosa e allo sviluppo del mondo del linguaggio. Da notare, dai nostri studi sugli effetti dell’insegnamento della musica ai bambini, che ora sappiamo che l’ascolto e la pratica della musica accelerano la maturazione della corteccia uditiva del cervello. È interessante notare che il sistema uditivo diviene abbastanza sviluppato nel terzo trimestre di gravidanza. I genitori che leggono ai loro figli prima della nascita possono essere sicuri che essi li sentano e colgano la qualità della voce e i ritmi del linguaggio. Eino Partaneu, all’Università di Helsinki, ha dimostrato in modo convincente che i bambini possono anche riconoscere, dopo la nascita, parole che erano state presentate loro prima della nascita. Infine, ma non meno importante, c’è un intrinseco arricchimento umano che viene dalla stretta relazione fra il bambino e il lettore, un ambiente sociale naturale e intimo che è completamente diverso dalla situazione di un lettore che legge da solo silenziosamente.
In un periodo in cui a tantissimi bambini si lascia apprendere il mondo e la loro stessa umanità da schermi elettronici spersonalizzati, è bene sapere che anche persone in carne e ossa possono leggere ai bambini, e che i bambini possono ricevere grandi benefici da un programma progettato per arricchirli, individualmente e socialmente.
Estratto del discorso che l’autore tiene oggi alla cerimonia di consegna del premio Nonino (alle Distillerie Nonino a Ronchi di Percoto, in provincia di Udine), quest’anno assegnato anche all’iniziativa “ Nati per leggere” dedicata alla lettura per i più piccoli
Repubblica 30.1.16
Tesori immensi, molti laureati, troppi precari e una riforma contestata: viaggio in una crisi
Perché non siamo un paese per archeologi
di Francesco Erbani

Il malessere è diffuso da anni. Ma la nuova, ennesima riorganizzazione del ministero per i Beni culturali spinge una categoria che non vanta tradizioni barricadere, come gli archeologi, sul piede di guerra. In realtà è l’intero mondo incaricato di tutelare e valorizzare il patrimonio italiano a sentirsi frastornato dai ripetuti rivolgimenti. Non si fa in tempo, si sente dire, ad adattarsi a uno scombussolamento della macchina ministeriale (l’ultimo è dell’agosto 2014, seguito dalle nomine al vertice dei musei autonomi nell’agosto del 2015), ed eccone un altro, altrettanto radicale. Lettere, appelli, assemblee, sit-in: i lavoratori dei beni culturali sono in subbuglio. La miccia esplosiva è la decisione del ministro Dario Franceschini di cancellare le 17 soprintendenze archeologiche, accorpandole con quelle che tutelano paesaggio e belle arti. In totale le soprintendenze in Italia saranno 39, più le due speciali di Roma (che perde pezzi pregiati: Appia Antica, Ostia e il Museo Nazionale Romano) e Pompei (alla quale viene tolta Ercolano). Un taglio di posti dirigenziali che consente di crearne altrettanti per guidare gli appena istituiti nuovi musei o siti archeologici autonomi. Le poltrone di soprintendente da poco assegnate ad architetti o a storici dell’arte saranno riassegnate perché ad esse potranno concorrere anche archeologi. Un carosello che, temono in molti, farà arrancare una macchina già in affanno.
È l’archeologia l’epicentro del terremoto. Un settore in cui l’Italia ha un primato e per tutelare il quale si formano ogni anno alcune migliaia di giovani. Dati precisi l’Associazione nazionale archeologi non ne ha. Ma da un censimento del 2011 e, assicurano, tuttora valido, risulta che in Italia ci sono, oltre l’università, 15 scuole di specializzazione più la Scuola archeologica di Atene alle quali accedono per selezione 600 giovani l’anno (il che fa dire a Salvo Barrano, presidente dell’Ana, «che i laureati ogni anno sono almeno il doppio »). Che faranno dopo il biennio di corso? Il 14 per cento degli archeologi è dipendente in parte del ministero, in parte di imprese o istituzioni private. Il resto alimenta l’impressionante bacino dei precari: il 27 per cento scava a partita Iva, il 7 in forma di impresa o di cooperativa, il 14 come collaborazione occasionale. Il 62 non lavora più di sei mesi l’anno e solo il 17 copre gli interi dodici mesi. Eppure il 52 per cento ha una brillante qualifica (master di primo e di secondo livello, dottorato, corsi all’estero…). La maggioranza smette superati i 40 anni.
Lunedì a Palazzo Massimo a Roma erano in trecento e assai battaglieri ad affollare un’assemblea indetta da Cgil, Cisl e Uil. Tutto il personale della soprintendenza archeologica di Roma è in stato d’agitazione. Una lettera di protesta al ministro è stata firmata da 16 su 17 soprintendenti archeologi. «Grave preoccupazione» esprimono decine di studiosi di tutto il mondo in questi giorni a Roma per un convegno al Reale Istituto d’Olanda. I quali temono che si dissolvano «modelli amministrativi e forme di cultura giuridica che hanno ispirato l’ordinamento delle antichità in molte parti del mondo». Per lunedì prossimo è convocato un sit-in davanti al ministero (le proteste sono sempre di lunedì, a musei chiusi). Non c’entra con la riforma, ma una marcia sull’Appia Antica è stata organizzata per il 13 febbraio dall’Associazione Bianchi Bandinelli: è la prima iniziativa per i vent’anni dalla morte di Antonio Cederna. Ma ciò che la riforma prevede per l’Appia Antica non se ne starà sullo sfondo.
Sull’archeologia italiana si addensano fosche nubi. La quasi totalità degli scavi avviene non sulla base di un progetto culturale, bensì come effetto secondario dei lavori per un elettrodotto o per una linea ferroviaria. Si chiama archeologia preventiva. Ai lavori in zone dove si presume siano custoditi reperti assistono archeologi pagati dall’impresa, i quali intervengono se viene scoperto qualcosa. Funziona così così, a giudizio di molti (è qui che è impegnato l’esercito dei precari, pagato anche 5 o 6 euro l’ora). Ma intanto è un’occasione per alimentare conoscenze. Secondo gli archeologi Pier Giovanni Guzzo e Maria Pia Guermandi nella nuova formulazione del Codice degli appalti non vi sarebbero norme sull’archeologia preventiva. Il che vorrebbe dire che si torna al sistema per cui se scavando rinviene una struttura antica, l’impresa — ammesso che sia onesta — sospende i lavori, segnala il fatto alla soprintendenza avviando una farraginosa procedura.
La soppressione delle soprintendenze archeologiche e le norme fissate dalla legge Madia (il parere di una soprintendenza deve arrivare entro 60 giorni, altrimenti è come se si dicesse sì; il prefetto potrà intervenire sulle decisioni di un soprintendente) piombano su un apparato pubblico di tutela già indebolito dai tagli. Nel 2008 il bilancio era di poco superiore ai 2 miliardi, nel 2011 si è precipitati a 1,4 e nel 2015 si è appena appena risaliti a 1,5. Per il 2016 Franceschini ha annunciato un incremento di 500 milioni: si tornerà a una condizione in cui per la cultura c’è pur sempre meno dello 0,30 per cento del bilancio statale (è oltre l’1 per cento la media Ue). Per archeologi, storici dell’arte, architetti, bibliotecari, archivisti vige il blocco del turn over che interessa il pubblico impiego e i 500 nuovi posti messi a concorso nel 2016 copriranno a malapena i pensionamenti (l’età media dei funzionari supera i 55 anni).
La tutela del patrimonio, si sente lamentare nelle assemblee, nei blog e sui siti, è ormai una chimera. Uno dei punti roventi è l’Appia Antica, che le nuove norme hanno sganciato dalla soprintendenza di Roma e trasformato in una struttura autonoma. La soprintendenza romana a sua volta è disintegrata: si occuperà del Colosseo, del Palatino e dell’area archeologica centrale, con una cassaforte di ol- tre 44 milioni d’incassi finora spalmati su gioielli meno remunerativi, come l’Appia Antica. Ma ora che succederà? Il futuro direttore dell’Appia Antica (3.500 ettari, un pezzo di città, nessun biglietto d’ingresso, quasi tutta in mano a privati, tranne la villa dei Quintili, la tomba di Cecilia Metella o il Circo di Massenzio) dovrà impegnarsi soprattutto nella valorizzazione. Che sarà separata dalla tutela e dalla guerra agli abusivi (1,3 milioni di metri cubi di nuove edificazioni). Le quali funzioni passano a una delle tre soprintendenze laziali, con il rischio che nei conflitti di competenza si perda un patrimonio di documentazione e di esperienze maturate nel fronteggiare gli assalti a un luogo così prezioso. Compreso l’accurato piano di gestione presentato appena un anno fa da Rita Paris, che dal 1996 dirige l’Appia Antica e le cui conoscenze sono imprescindibili per la tutela dell’area.