Unità on line 13.9.14
Fnsi e Cdr al Pd: allarme per i tempi lunghi
l'Unità deve tornare presto in edicola
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il Fatto 13.9.14
I regali di Renzi al Vaticano
L’8 per mille dello Stato va agli edifici di culto
Immobili religiosi quasi esenti da Tasi e Imu
Scuole private: deduzioni fiscali e niente tagli
Eterologa: il governo ferma le Regioni coi Nas
Coppie di fatto: il ddl bloccato in Parlamento
di Marco Palombi
Oggi Matteo Renzi non sarà col Papa al sacrario di Redipuglia, in Friuli, per il centenario dello scoppio della Grande Guerra: ha disdetto, sarà in Puglia per un giro istituzionale. Francesco non se la prenderà: non solo perché è un uomo buono e non bada a queste cose, ma anche perché l’organizzazione che guida non ha proprio niente di cui dolersi col giovane premier italiano. Renzi, infatti, nei rapporti con la Chiesa, sta proseguendo l’antica tradizione dell’inchino, una sorta di regola a Palazzo Chigi. Meglio un’esenzione che un milione di pater e gloria, figurarsi di una visita in Friuli. Quel che c’era da dire, d’altronde, tra Italia e Santa Sede, è argomento che sarà stato affrontato già dal Segretario di Stato, Pietro Parolin, nel pranzo che ha avuto con Renzi martedì alla presenza di Maria Elena Boschi, Luca Lotti e porporati a sfare. Solo una goccia nel fluire eterno e astratto del potere romano, che pure ama incarnarsi a volte in terrene leggine, decretucci, normette e cattolicissime omissioni: Procure e Anti-riciclaggio chiedono da mesi allo Ior la lista dei conti sospetti, ma pressioni del governo in tal senso non risultano agli atti. Ecco, dunque, una rapida panoramica delle opere del Renzi vaticano.
8 PER MILLE. È la vicenda più fresca. Non solo il governo Renzi non prende neanche in considerazione di modificare il meccanismo truffaldino con cui la Cei incassa tre volte di più di quanto i cittadini le destinino direttamente (la cosiddetta divisione proporzionale dell'inoptato), ma ora vuole regalare al Vaticano pure un pezzo dei soldi lasciati allo Stato dai contribuenti. È andata così. La Finanziaria di Letta stabiliva che tra i benificiari dell’8 per mille lasciato all’erario ci fosse anche l’edilizia scolastica; il 1 settembre – quando alla Camera è arrivato il decreto attuativo scritto a Palazzo Chigi – c’era però una piccola modifica: i soldi andranno alle scuole “di proprietà pubblica dello Stato, degli enti locali territoriali e del Fondo edifici di culto”. Il Fondo in questione - che fa capo al ministero dell’Interno - oltre a negozi, appartamenti, foreste e quant’altro, è il formale proprietario di 750 e più grandi complessi ecclesiastici, con scuole annesse, dati in gestione alle varie congregazioni di Santa Madre Chiesa. Sono scuole private, ma beneficeranno dei (pochi, circa 150 milioni l’anno) soldi dell’8 per mille dello Stato tra le proteste - solitarie finora - del M5S. Ora il testo è all’esame del Parlamento: “Del-rio ci tiene molto”, dicono nei corridoi (anche se, a stare a Dagospia, al Vaticano non ritengono più il cattolicissimo sottosegretario un interlocutore affidabile: ha perso punti col capo).
TASI-IMU. Gli edifici, anche “commerciali”, di proprietà di enti religiosi continuano a essere largamente esentati dal pagamento delle imposte sugli immobili. Dopo gli anni dell’esenzione semi-totale, il governo Monti – anche per evitare una multa dall’Ue – decise di far pagare il settore “no profit” almeno per le parti degli edifici adibiti “a uso commerciale”: peccato che poi fece un regolamento incomprensibile e da allora ancora non s’è visto un euro. Ora, però, ci sono le nuove istruzioni pubblicate il 26 giugno dall’Agenzia delle Entrate. Risultato: a parte gli alberghi, anche con Renzi la Chiesa non paga. Le cliniche sono esentate (basta che siano convenzionate col Ssn) e le scuole praticamente pure: la legge “salva” quelle che chiedono alle famiglie “importi simbolici”, ma secondo il Tesoro “simbolico” significa che la retta non deve superare i 6-7 mila euro l’anno, cioè all’ingrosso 700 euro al mese.
DIRITTI CIVILI. Sulle coppie di fatto, Renzi si presentò in Parlamento parlando di un “compromesso” possibile. Le Camere, dunque, hanno discusso e ora in Senato c’è un ddl quasi pronto e accettato da molte forze politiche, anche d’opposizione. E qui arriva il compromesso renziano: con apposita intervista al giornale della Cei, Avvenire, a fine luglio, Renzi ha definito “superato il testo” e annunciato “un ddl ad hoc del governo”. Quando? Mah.
Per la fecondazione eterologa, invece, è accaduto il contrario. La Consulta boccia la legge 40 e consente di ricorrere a donatori esterni alla coppia, il ministro Lorenzin s’affretta a scrivere un decreto, ma il premier lo straccia: “Ci deve pensare il Parlamento”. Nel frattempo, lui e il ministro mandano i Nas in quelle cliniche che tentano di far rispettare la legge. D’altronde, ai tempi del referendum sulla legge 40 e degli inviti al boicottaggio del cardinal Ruini, il nostro si esprimeva così: “Non andrò a votare. Rivendico la legittimità della posizione di chi ritiene di dover far fallire il referendum facendo mancare il quorum”.
LE SCUOLE. L’istruzione prima di tutto, dice Renzi, e infatti alle scuole private non solo sarà confermato più o meno l’intero pacchetto dei finanziamenti diretti da mezzo miliardo l’anno (con buona pace della Costituzione che li vieta), ma si appresta anche a varare una defiscalizzazione abbastanza decisa delle donazioni. Nelle parole di La buona scuola, vale a dire le linee guida della riforma prossima ventura: “Va offerto al settore privato e no profit un pacchetto di vantaggi graduali per investimenti in risorse umane e finanziarie destinato a singole scuole o reti di scuole, attraverso meccanismi di trasparenza ed equità che non comportino distorsioni”. Quando tra pubblico e privato non c’è differenza, in genere è il secondo che ci guadagna.
il Fatto 13.9.14
Il premier a Taranto All’Ilva scioperano per contestarlo
MATTEO RENZI oggi è in Puglia, per una giornata d’incontri nelle aree più critiche della regione. La mattinata inizia a Peschici, epicentro del Gargano piegato dall’alluvione: alle 9 e 30 il premier incontra i sindaci dei paesi più colpiti dal maltempo.
L’incontro più caldo è a mezzogiorno e mezza: Renzi si sposta a Taranto, in visita allo stabilimento dell’Ilva. L’Unione Sindacale di Base tarantina è allertata da giorni. La protesta è pronta, su due binari: una manifestazione a Bari, alla Fiera del Levante (che è la tappa successiva del tour del presidente del Consiglio) e uno sciopero per tutta la giornata negli impianti dei Riva. Dove – lamenta il sindacato – “si continua a vivere uno stato di precarietà”.
Non protestano solo gli operai. C’è anche un gruppo di pediatri di Taranto che ha richiesto di incontrare il premier per discutere dell’emergenza sanitaria e ambientale nel comune jonico,. Non troveranno a riceverli Renzi in persona: il premier ha delegato Davide Faraone, responsabile Welfare del Pd. Ultima tappa a Bari, ore 15. Anche lì Renzi troverà ad attenderlo chi protesta per le trivelle in Adriatico e chi vuole fermare la Tap, il gasdotto che dovrebbe approdare sulla spiaggia di Melendugno, in Salento.
il Fatto 13.9.14
Renzi cinguetta la linea: Descalzi? Lo rinominerei ora
Il premier rivendica la scelta dell’amministratore delegato oggi indagato e sponsor di Bisignani & C.
La maxitangente Eni
di Wanda Marra
Giornata impegnativa, non riesco a fare un #matteorisponde Ma faccio cinque tweet al volo sulle cinque news più discusse in settimana”. Sono le 10 e Matteo Renzi usa Twitter per dettare la linea a politici, giornali e soprattutto elettori. Metodo semplice, efficace, che non prevede domande. E tanto meno repliche.
I cinque flash direttamente dal presidente del Consiglio arrivano in contemporanea a un sondaggio pubblicato da Repubblica, secondo il quale l’interessato in tre mesi (da giugno ad oggi) avrebbe perso 14 punti di gradimento. Certo, è passato dal 74 al 60 per cento. Percentuali imponenti. Ma la flessione c’è e viene motivata soprattutto dalla crisi economica e dalla delusione. Quindi, meglio guidare il racconto dei fatti e rimettere i puntini sulle i. Le notizie contenute in cinguettii apparentemente innocui, però, sono tutt’altro che secondarie. Quella più forte arriva per ultima, col tweet numero 5. Renzi si dice “felice” della nomina di Claudio De-scalzi. Rincara: “Potessi lo rifarei domattina”.
Una risposta netta e piuttosto forte, visto che l’amministratore delegato dell’Eni è indagato per i corruzione internazionale per la presunta maxi-tangente a politici e burocrati nigeriani per aggiudicarsi un affare in Africa (parte dei soldi, per i pm, sarebbero poi tornati in Italia per ricompensare manager, tra cui lo stesso Descalzi, e intermediari).
La nomina, avvenuta nella scorsa primavera, in piena continuità con la gestione di Paolo Scaroni, l’ad uscente (anche lui accusato di corruzione internazionale) strideva non poco con il totale “rinnovamento” rivendicato da Renzi anche al momento di cambiare i vertici delle grandi aziende controllate dal Tesoro. Ma evidentemente ci sono questioni di potere rispetto alle quali la rottamazione si ferma. “Matteo sarà sicuro sulla posizione di Descalzi”, sostiene un renziano. Sarà, di certo su alcune questioni (non tutte) il garantismo è d’obbligo. Ecco ancora Renzi nel tweet in questione: “Io rispetto le indagini e aspetto le sentenze”. Basta ricordare l’impegno per trovare un modo per non fermare l’Expo, nonostante lo scandalo, con la nascente autorità Anticorruzione in stand by per settimane.
PESI E MISURE diverse. In un altro tweet ieri Renzi ha dato ufficialmente il via alle primarie in Emilia Romagna: “I candidati del Pd li scelgono i cittadini con le primarie non soggetti esterni”. Il riferimento è evidentemente ai giudici e alla posizione del candidato Stefano Bonaccini, indagato per peculato per 4.300 euro (il cui avvocato ha presentato istanza per lo stralcio dall’indagine) che dal primo momento aveva espresso ferma intenzione di andare avanti, nonostante le accuse a suo carico. Un via libera nei fatti al segretario dem dell’Emilia Romagna, ribadito in serata da Lorenzo Guerini (“le primarie si faranno” ), che correrà contro l’ex sindaco di Forlì, Roberto Balzani. La competizione è prevista dunque per il 28 settembre e non ci dovrebbe essere nessun colpo di scena (tipo l’arrivo di Graziano Del-rio). Bonaccini, che domani presenterà il suo programma a Bologna, parte favorito. Ancora garantismo, anche se né per Bonaccini, né per Matteo Richetti (anche lui indagato per peculato, per una cifra di 5.500 euro, ha chiesto di essere ascoltato dai pm mercoledì), che invece dalla corsa si è ritirato, sono arrivate espressioni calorose come quelle usate per Descalzi. Questione di potere.
Il premier twittatore dunque prende posizione così su due questioni spinose. Per il resto, ci tiene a far sapere a Juncker (che però scrive, sbagliando, “Junker”: d’altra parte la velocità è tutto) che l’Italia rispetterà il 3 per cento. Poi, rivendica il risultato ottenuto con la promessa di rimpatrio del marò Massimiliano Latorre, esprimendo stima al governo indiano. E non risparmia la stoccatina ai presidenti di Regione, che l’altroieri a Palazzo Chigi hanno avuto da ridire sui tagli alla sanità: “Prima di fare proclami inizino a spendere bene i soldi che hanno”.
In tutto, un impegno di dieci minuti o giù di lì. Più che annunci, stavolta sono le linee guida della politica.
Corriere 13.9.14
«Conti correnti, mediatori, sequestri Dove finì la megatangente dell’Eni»
di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella
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Repubblica 13.9.14
“Eni, 200 milioni per manager e mediatori”
Sms, e-mail, cene in hotel di lusso “Così Descalzi tirava le fila dell’illecito”
di Sandro de Riccardis e Walter Galbiati
A chi dovevano arrivare quei duecento milioni di dollari che la procura di Milano considera parte di una maxitangente da oltre un miliardo, poi sequestrati in Gran Bretagna e Svizzera? Chi avrebbe dovuto incassare la stecca sull’operazione di acquisto, da parte di Eni, della concessione per lo sfruttamento petrolifero di uno dei più grossi giacimenti in Nigeria, la Opl-245? Per cercare di dare un nome ai manager e intermediari italiani destinatari del denaro, i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro continuano a lavorare sulle tracce lasciate dal denaro tra l’Italia e la Nigeria, la Svizzera e l’Inghilterra.
Nell’inchiesta sulla presunta maxitangente da un miliardo e 92 milioni di dollari, sono indagati per corruzione internazionale, tra gli altri, l’attuale ad di Eni Claudio Descalzi (nel 2011, capo della divisione Exploration e Production), l’ex numero uno Paolo Scaroni e un altro manager della società, Roberto Casula, insieme ai mediatori Gianluca Di Nardo e Luigi Bisignani. Nello schema ricostruito dai pm, il denaro sarebbe stato pagato al governo nigeriano su un conto della Jp Morgan che lo avrebbe poi girato in parte (800 milioni in due bonifici) alla Malabu, società riconducibile all’ex ministro del Petrolio, Dan Etete. Dai conti della società nigeriana sarebbero poi finiti in tre tranche per complessivi 523 milioni ad Abubacar Aliyu, considerato vicino all’ex premier Goodluck Johnatan. Altri 200 milioni dovevano essere spartiti tra gli intermediari italiani (Di Nardo/Bisignani), quelli stranieri (Emeka Obi/Agaev) e i manager Eni. È questa la ricostruzione della procura, messa nero su bianco nella richiesta di sequestro londinese. «Si ritiene - spiegano poi i pm che Scaroni e Descalzi abbiano organizzato e diretto l’attività illecita. Descalzi era anche in continuo contatto con il mediatore nigeriano Emeka Obi». Una rete emersa, quasi per caso, nell’inchiesta napoletana sulla P4, nelle telefonate tra Bisignani e Scaroni. Al telefono Bisignani comunica al manager l’imminente conclusione positiva dell’operazione. «Si ho visto mi ha detto tutto — risponde Scaroni —. Ci ho già fatto anche il board.. mi sono informato.. volevo dirti che adesso mi telefonano dalla Nigeria che il ministro presidente..
quindi viene dal presidente.. vogliono firmare tutto entro domani». I contatti — smentiti da Eni e dai suoi manager che respingono ogni accusa — sono invece per gli inquirenti prova degli accordi tra manager Eni e intermediari (italiani e africani) per concludere l’operazione e garantire a tutti una grossa ricompensa.
MILANO Una serie di incontri e di messaggi. Sono le relazioni pericolose che l’attuale amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, ha dovuto intrecciare per chiudere l’affare sul giacimento di petrolio nigeriano, Opl 245, oggi al centro di una inchiesta per corruzione della procura di Milano. I contatti più assidui con gli affaristi locali toccano a Roberto Casula, il plenipotenziario del gruppo in Nigeria e a Vincenzo Armanna, responsabile delle attività minerarie dell’Eni nell’area subsahariana. Ma quando le trattative devono spiccare il volo e salire di livello, serve l’intervento diretto di chi muove le leve del potere. E per Emeka Obi, considerato dalla procura di Milano un collettore di presunte tangenti, Descalzi, ai tempi numero due di Paolo Scaroni, «era colui che decideva su questa transazione», un affare da 1,3 miliardi di dollari che avrebbe permesso all’Eni di mettere le mani su un promettente giacimento petrolifero al largo delle coste della Nigeria.
La concessione Opl 245, però, non era più un affare di Stato, ma era diventata una questione privata dell’ex ministro del Petrolio, Dan Etete, perché qualche anno prima si era autoassegnato i diritti di sfruttamento del giacimento attraverso la società Malabu. Emeka Obi, invece, avrebbe dovuto trovare la miglior offerta possibile da parte di una compagnia petrolifera internazionale e gestire l’accesso alla data room, la stanza in cui pagando 500mila dollari si potevano consultare tutte le informazioni sul giacimento.
Obi fa capire all’ex ministro che vi è molto interesse intorno al giacimento, ma la sua predilezione va all’italiana Eni. Ha contatti con Armanna, Casula e sostiene nel verbale di interrogatorio davanti al giudice londinese presso il quale ha avviato e vinto in primo grado una causa per ottenere da Etete il compenso del suo lavoro di lobby - di «avere accesso diretto a Descalzi», senza nemmeno l’intermediazione di due affaristi italiani, Luigi Bisignani e Gianluca di Nardo.
In una sola occasione, però, Obi fa incontrare Descalzi con Etete, chiamati nelle intercettazioni il “pelato” e il “grasso”, «perché è bene - spiega sempre davanti al giudice - che l’Eni non mostri pubblicamente di aver rapporti con il ministro». Il primo e unico incontro avviene il 4 febbraio all’Hotel Principe di Savoia di Milano, una cena alla quale partecipano Obi, Descalzi, lo stesso Etete e l’intermediario russo Agaev. «Non ci sono state trattative alla cena - sostiene il giudice inglese nelle sue conclusioni - servì solo per mostrare la serietà dell’uno all’altro in merito alla volontà di concludere l’affare».
Obi, invece, continua a sentirsi con Descalzi: «Mi sono ragguagliato con lui periodicamente» e, per avvalorare il suo lavoro di intermediario davanti al Tribunale inglese che deve costringere Etete a versargli il dovuto compenso, produce e-mail e messaggi con l’attuale numero uno dell’Eni. Il 10 aprile 2010 è Descalzi a inviare una e-mail a Obi: «Buon pomeriggio, sono a Londra e parto domattina, sul tardi. Se vuoi, possiamo prendere un caffè alle 9.30 al Jumeirah Hotel, Carlton Tower, Cadogan Place. Grazie. Saluti». Tre giorni dopo, Obi è a Milano e cerca di incontrare nuovamente Descalzi, ma l’allora direttore generale dell’Eni svicola l’appuntamento perché deve ripartire di corsa. Le trattative procedono con le seconde file e il 16 aprile Obi ragguaglia Descalzi con un sms: «Buonasera, stiamo facendo buoni progressi. Rimane solo una pendenza che cercheremo di risolvere entro il weekend». Un altro incontro avviene il 29 novembre 2010 al Four Season di Milano, un giorno in cui nella città lombarda arrivano anche Agaev ed Etete per vari incontri. Obi incontra prima Casula e Descalzi e viene ragguagliato da quest’ultimo su quanto avvenuto nell’ufficio dell’Avvocato di Stato nigeriano il 15 novembre: nell’occasione il principale argomento sarebbe stato il prezzo da pagare per lo sfruttamento del giacimento. Successivamente, Descalzi se ne va, ed Obi si incontra con Etete ed Agaev per negoziare proprio sul prezzo. Da lì a qualche mese Eni rileverà l’Opl 245, mentre per quegli incontri e messaggi i suoi manager finiranno sul registro degli indagati con l’accusa di corruzione internazionale: «Si ritiene - dice il pm - che Scaroni e Descalzi abbiano organizzato e diretto l’attività illecita. Descalzi era in continuo contatto con Obi».
Repubblica 13.9.14
Emilia e Eni, il premier contro i giudici
Forza Italia nel caos, Catricalà si ritira
Il presidente del consiglio Matteo Renzi ha sfidato i magistrati a 360 gradi
Giustizia, la sfida di Renzi “Descalzi? Lo rinominerei e in Emilia vinca il migliore”
Il premier non fa sconti alle toghe, dopo il caso Legnini insiste sul taglio-ferie: troppi 945 giorni per una sentenza
di Toimmaso Ciriaco
ROMA Di fronte alla bufera emiliana, per Matteo Renzi è l’ora del garantismo: «I candidati del Partito democratico li scelgono i cittadini con le primarie, non soggetti esterni. In Emilia Romagna vinca il migliore». Il premier, tutto all’attacco, si affida a Twitter per picchiare duro sulle toghe. E non si tratta solo delle inchieste bolognesi che hanno devastato le primarie dem, ma anche dell’inchiesta sulle tangenti Eni in Nigeria: «Sono felice - cinguetta il presidente del Consiglio - di aver scelto Claudio Descalzi. Potessi lo rifarei domattina. Io rispetto le indagini e aspetto le sentenze».
Oltre al caso dell’elezione del sottosegretario Giovanni Legnini al Csm, intanto, prosegue la battaglia del governo sulle vacanze dei magistrati, che tanto ha fatto infuriare l’Anm. Sull’homepage del sito dedicato al programma dei mille giorni dell’esecutivo - passodopopasso. italia. itcampeggia un’infografica che insiste soprattutto su un concetto: «Meno ferie ai magistrati - si legge giustizia più veloce». Segue il progetto di Palazzo Chigi: «Ridotte da 45 a massimo 30 giorni. Tribunali chiusi dal 6 al 31 agosto anziché dal primo agosto al 15 settembre». L’altro fronte aperto è quello dei tempi delle cause civili, che Renzi ha promesso di ridurre drasticamente. Il manifesto promosso dal premier lascia parlare i numeri: «5.2 milioni di cause pendenti, 945 giorni il tempo medio per una causa civile di primo grado».
L’obiettivo adesso è accelerare, seguendo l’esempio della Francia (350 giorni in media) e Germania (300).
Repubblica 13.9.14
Rodolfo Maria Sabelli
Il presidente dell’Anm respinge l’accusa, “da alcuni evocata, di una giustizia ad orologeria”
“Una provocazione il taglio delle ferie debole una riforma tutta slogan e slide”
intervista di Liana Milella
ROMA Renzi contro i giudici? «Non giudico la persona, ma le scelte sono sbagliate». Slogan anti-toghe? «Più fatti e meno slogan». Così, con amarezza, risponde il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli.
Renzi scioglie il Pd dal legame coi magistrati. Che impressione le fa?
«Non è questo il punto. Non c'è mai stato, né potrebbe esserci un rapporto preferenziale tra i giudici e un partito politico».
Scusi Sabelli, ma lei fino a oggi dov’è stato? Ha dimenticato i suoi colleghi candidati nel Pd per Camera e Senato?
«I giudici non sono stati messi in lista solo dal Pd, ma anche da altri partiti di diversa ispirazione, il che conferma l’assenza di un rapporto preferenziale. Comunque il tema dei magistrati in politica lo abbiamo più volte affrontato».
Non ci giriamo intorno. Renzi ha detto che è lui, e non altri, a decidere i candidati del Pd. Un riferimento chiarissimo all’inchiesta di Bologna. Non è un segnale ostile?
«In sé può essere un’affermazione di autonomia. Va però respinta l’idea, che qualcuno ha evocato, di una giustizia ad orologeria».
Non ha l’impressione che il Pd renziano sia contro di voi?
«Non si può ridurre la questione all’idea di un partito pro o contro la magistratura. Io devo valutare in concreto le scelte e le iniziative che vengono prese e queste non le condividiamo affatto».
Bene, parliamo di questo allora. Napolitano firma il decreto sul civile e sul sito di palazzo Chigi ecco la scritta propagandistica: «Meno ferie ai magistrati: giustizia più veloce». Bella botta eh?
«Ho trovato quella scritta una provocazione gratuita, uno slogan che esplicita l’offesa che l’Anm aveva già denunciato con il documento del 9 settembre. Francamente mi delude una riforma della giustizia fatta a colpi di slide, slogan e battute a effetto. Gli slogan non mi piacciono, ma se proprio devo lanciarne uno allora dico “più fatti e meno slogan”».
Cosa la irrita dell’ultimo slogan, che vi faccia passare per gli unici colpevoli della giustizia lenta?
«Mi irrita l’idea falsa, per cui la giustizia sia lenta perché i magistrati sono dei fannulloni e lavorano poco. Che è, insieme, un insulto e una falsità».
Non ci racconterà che tutti i suoi colleghi sono degli sgobboni spero...
«Io non racconto nulla, vi prego solo di andare a leggere le statistiche indipendenti...».
Quelle ve le siete scritte da soli.
«No, le ha scritte il Consiglio d’Europa. Quest’estate, ad esempio, quando secondo la vulgata del governo i palazzi di giustizia erano chiusi, la sola Cassazione ha pubblicato circa 7mila sentenze».
Dopo la politica anti-toghe di Berlusconi si aspettava questo dal Pd?
«Mi aspettavo riforme serie ed efficaci e il recupero di un approccio sereno, e non provocazioni».
Come si spiega questo comportamento? Renzi dice, diretto a voi, «chi sbaglia paga», con l’idea che voi non lo fate mai.
«È una battuta che guarda a luoghi comuni, i quali producono un brodo che confonde le responsabilità reali. Certo “chi sbaglia paga”, già adesso è così, ma bisogna uscire anche qui da simili slogan e chiedersi quando veramente si sbaglia e come e chi deve pagare».
Renzi è come Orlando? Tutti e due contro le toghe?
«Non entro proprio in queste prospettive. La valutazione da parte mia è oggettiva nei confronti delle proposte avanzate dal governo. Che, per quanto ho visto, non colgono la vera scala delle priorità e in larga parte si annunciano deboli e sbagliate».
Fa il diplomatico. È vero o no che Orlando ha frenato Renzi sulle ferie per parlarne prima con voi, e poi dopo il vostro documento vi ha incontrato annunciando un’apertura?
«Sto ai fatti. Orlando ci ha detto che non ci sarebbe stata una marcia indietro sulle ferie, ma che avrebbe riconosciuto la specificità della nostra funzione».
Ha vinto Renzi. Passa il messaggio che la giustizia è lenta per colpa vostra. Come vi difenderete?
«Andremo coi fatti alla mano e insisteremo con forza per delle riforme vere e non di facciata. Si possono anche tagliare le ferie al pilota. Ma se poi si pretende di fargli correre la Formula Uno con una carrozza a cavalli, sempre ultimo arriverà».
Un uomo del governo come vice presidente del Csm. Legnini, il diretto interessato nega. Non è un altro segnale di ostilità?
«Il vice presidente viene eletto dal Csm. Per il resto non entro nelle scelte fatte dal Parlamento. Al momento l’anomalia può essere piuttosto il ritardo nella nomina dei membri laici, tanto più dopo l’invito del capo dello Stato».
Corriere 13.9.14
La linea garantista che agita il Pd
Dalle posizione giustizialiste del passato all’idea di restituire il primato alla politica
di Francesco Verderami
qui
Repubblica 13.9.14
Cambio di stagione
La scelta del segretario del Pd è netta
Il Pd abbandona la linea giustizialista
È come se volesse “rottamare” anche su questo versante gli ultimi venti anni
di Claudio Tito
È IN atto una sorta di mutazione genetica. Una metamorfosi. O meglio una specie di ritorno alle origini. Sul terreno più conflittuale degli ultimi 20 anni: la giustizia. Il Pd, il centrosinistra italiano, abbandona quella che sinteticamente veniva definita una linea giustizialista e si presenta adesso come il principale soggetto garantista.
LA battaglia di questi giorni tra Matteo Renzi e i magistrati è esattamente il risultato di questa svolta. Il taglio delle ferie per le toghe, le riforme promosse senza consultare l’Associazione nazionale magistrati, la promozione dell’avvocato Legnini — senza particolari legami con i giudici — ai vertici del Csm, il rifiuto di condizionare le candidature in Emilia ai provvedimenti dei pm, la difesa dell’amministratore delegato dell’Eni coinvolto in un’inchiesta su presunte tangenti negli accordi petroliferi in Nigeria, il distacco con cui i democratici hanno assistito agli ultimi capitoli processuali di Silvio Berlusconi. Ecco, questi sono tutti elementi di un vero e proprio cambio di stagione.
Senza dimenticare che dai tempi dell’inchiesta Mani pulite ad oggi, mai si era assistito ad uno scontro così duro e aperto tra un leader del centrosinistra e il potere giudiziario. La scelta del segretario del Pd è netta. È come se volesse “rottamare” anche su questo versante gli ultimi venti anni. In un certo senso si presenta deciso a recuperare quell’idea di “primato” della politica rispetto alle toghe che era ben chiaro ai partiti della Prima Repubblica, a cominciare dal Pci. Vuole liberarsi di un atteggiamento a tratti culturalmente caudatario nei confronti della magistratura. «Sono cose — sottolinea proprio il capo del governo — che io sostengo dalle primarie del 2012. Bisogna cambiare pelle: la politica prima di tutto e basta derive giustizialiste».
È vero che per il Partito democratico, questa mutazione si è resa possibile grazie ad un contesto affatto nuovo. In qualche modo la fine del berlusconismo sta scatenando anche questo effetto. La tradizione progressista e democratica sembra ora sentirsi più autorizzata a rivendicare non tanto l’autonomia, ma la libertà di giudizio verso i provvedimenti giudiziari. E a farlo senza avvertire la paura di essere accusati di intelligenza con il nemico. Basti pensare all’atteggiamento tenuto sull’inchiesta emiliana che ha coinvolto due dei candidati pd alle primarie per la presidenza della Regione. L’esito è che quelle primarie si terranno comunque e parteciperà anche uno dei due indagati o ex indagati. Renzi ha sostanzialmente ignorato l’azione della procura bolognese. Rigettando plasticamente l’idea che gli avvisi di garanzia possano selezionare i concorrenti in una gara elettorale.
Ma, forse, ancora più significativa è sta- ta la reazione che la base del Partito democratico ha avuto in questo frangente. Nessuno — ad esempio nei nutriti gruppi parlamentari del Pd — ha protestato per questa sorta di piccola rivoluzione. Sembra quasi che la “svolta” fosse attesa e già metabolizzata come un ritorno alla normalità. Come il desiderio di emanciparsi da un complesso di colpa o di inferiorità. Anzi, per qualcuno è l’occasione pure di dimostrare di non avere scheletri negli armadi.
In questo quadro hanno poi avuto un ruolo decisivo le ultime elezioni europee: quelle del 40,8% a favore del Pd. Una percentuale di voto che ha assegnato di fatto un nuovo baricentro al centrosinistra. A Largo del Nazareno lo definiscono «inter- classista». Come conferma l’ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti, nonostante il sensibile calo nella popolarità del presidente del Consiglio, il partito resta ben ancorato al di sopra del 40% proponendosi ancora come una specie di partito-paese. Si tratta di un dato che ha probabilmente imposto a Renzi di esplicitare in modo marcato la sua natura post-giustizialista. Perché i referenti elettorali si sono ampliati e diversificati inglobando anche chi fino a qualche anno fa, proprio nel duello con le toghe, stazionava nell’altra metà del campo.
Ovviamente una linea di questo tipo prima o poi dovrà essere sottoposta ad una ulteriore verifica del consenso popolare. Perché il “primato” della politica regge solo se avallato dagli elettori e se il comportamento dei politici viene giudicato eticamente accettabile. E se, infine, le risposte dei politici ai problemi del Paese risultano davvero efficaci.
E in ogni caso tutto questo avrà comunque delle conseguenze. La prima di queste è che si arriverà presto ad una vera e propria resa dei conti tra politica e magistratura. La riforma della responsabilità civile e il taglio delle ferie costituiscono il primo atto di questo redde rationem. Si tratterà di uno scontro di potere. Anche perché come hanno dimostrato gli anni compresi tra il 1992 e il 2014, la forza del sistema dei partiti è inversamente proporzionale a quella delle toghe. Basti pensare alle cifre relative al potere di grazia del capo dello Stato: nei primi mandati presidenziali venne usato in diverse migliaia di casi. In poche decine negli ultimi settennati. Prova che la sensibilità in materia con il tempo si è decisamente evoluta. Ora quindi, liberato il Paese dall’ombra lunga e nefasta del berlusconismo, tutti si sentono legittimati ad assumere posizioni e idee senza vincoli precostituiti.
La Stampa 13.9.14
A rischio il patto del Nazareno
di Marcello Sorgi
Caduto nel giorno del brusco scambio di polemiche tra Matteo Renzi e il commissario agli Affari economici e futuro vicepresidente della Commissione Ue Jyrsky Katainen, il ritiro del candidato di centrodestra alla Corte costituzionale Antonio Catricalà non sancisce solo la plateale vittoria dei ribelli di Forza Italia contro Berlusconi, ma anche la prima, seria incrinatura del patto del Nazareno. Se uno dei due soci del patto non è in grado di mantenere gli impegni, né di controllare i suoi parlamentari, anche il fragile equilibrio politico che ha consentito fin qui a Renzi di governare viene rimesso in discussione.
È esattamente questo - al di là delle riserve che hanno portato alla rinuncia di Catricalà - l’obiettivo dei ribelli di centrodestra, che, pur meno numerosi, ad agosto si erano già fatti sentire, dimostrando tra l’altro di essere pronti ad alleanze trasversali con la minoranza anti-renziana del Pd nelle votazioni sulla riforma del Senato. La convergenza tra queste due ali opposte, fatte di gente che fino a poco fa a stento si scambiava il saluto, è simmetrica e politica. I rivoltosi di Forza Italia si chiedono: che vantaggio abbiamo ad aiutare Renzi, ora che sta entrando in difficoltà e sarà costretto a pagare all’Europa il ticket di riforme impopolari? Quelli del Pd ribattono: è inaccettabile che Renzi, da gennaio a ora, abbia politicamente resuscitato Berlusconi quando finalmente era finito fuori gioco a causa dei suoi guai giudiziari.
Una strategia del genere, peraltro occasionale e non concordata, magari difficilmente riuscirà a far saltare l’intesa tra i due, ma certo è in grado di rendere la vita più difficile ad entrambi i sottoscrittori del patto. Il presidente del Consiglio, non c’è dubbio, nel giro di poche settimane, ha visto ingrigire l’orizzonte del suo governo in corrispondenza con l’appesantimento del quadro economico. In una dozzina di settimane, di qui alla fine dell’anno, Renzi dovrebbe portare a casa una manovra da venti miliardi di euro con la legge di stabilità, la legge elettorale, la seconda votazione sulla riforma del Senato, la riforma della giustizia, quella del lavoro e quella della Pubblica amministrazione. Impossibile, neppure con la bacchetta magica. Il nervosismo del tweet di ieri mattina, con cui ha chiesto all’Europa di smetterla di dar lezioni all’Italia (ricevendo immediatamente la replica piccata di Katainen), nasce di qui.
Ma anche Berlusconi è ormai cinto d’assedio. Se una delle sue più strette collaboratrici, come la senatrice Maria Rosaria Rossi, s’è detta sicura che nella prossima primavera ci saranno elezioni anticipate, vuol dire che ad Arcore ci ragionano su. E se l’ex-Cavaliere, sull’onda dell’emergenza che nascerebbe da un nuovo scioglimento delle Camere, pensa di guidare per l’ottava volta il centrodestra, i suoi ribelli non ci stanno. La campagna elettorale vogliono farla contro Renzi, non come suoi alleati. E cominciarla subito, prima ancora di sapere se davvero si andrà al voto.
Corriere 13.9.14
Nell’urna anche i messaggi del Pd in ebollizione
La sindrome ora è dei 102
Nel partito disagi trasversali e sospetti
di Monica Guerzoni
ROMA — Nel giorno nero in cui i 101 franchi tiratori sbarrarono a Romano Prodi la via del Quirinale, il cattolico democratico Beppe Fioroni uscì a razzo dall’Aula di Montecitorio per mostrare ai cronisti la foto della scheda: «Ho votato con il mio gruppo e questa è la prova», era il messaggio. Due giorni fa il giochino si è ripetuto, questa volta con l’ex ds Nico Stumpo. È il segno che il Pd è di nuovo sprofondato nel buco nero del suo recente passato?
Le cronache parlano di un malessere diffuso tra i «dem», un mood negativo che contagia un po’ tutte le componenti. Chi sogna di mandare in pezzi il «patto del Nazareno», chi spera di assestare un altro colpetto al premier e chi invece, dal fronte renziano, contesta al leader la scelta di un «vecchio» come Luciano Violante. Poi ci sono le assenze, politiche e non. Le simpatie e le antipatie personali, i rancori più o meno datati, le ruggini nazionali e quelle territoriali, le vendette incrociate, i posizionamenti di corrente... C’è il caos emiliano sullo sfondo e c’è, nel mezzo della scena, la voglia di rivalsa dei dissidenti di Palazzo Madama, gli stessi che Renzi bollò come «gufi» e «frenatori» per aver dato battaglia contro la riforma del Senato. Un pentolone in ebollizione con cui Violante, la cui recente svolta garantista ha deluso molti amici di un tempo, rischia di scottarsi. Il partito tira dritto sul suo nome, ma in tanti pensano che il ritiro di Catricalà abbia messo in «serio imbarazzo» l’ex presidente della Camera.
Mercoledì alla riunione dei gruppi del Pd il senatore Walter Tocci ha detto chiaro e forte di non essere d’accordo con le candidature per Consulta e Csm. «È una proposta vecchio stile, senza nessuna innovazione» ha esordito l’ex vicesindaco di Roma e ha bacchettato il leader per non aver onorato le basi fondanti del renzismo: «Ricambio, parità di genere e lotta alla burocrazia. Non c’è traccia di nessuno di questi criteri». Altrettanto energico l’altolà di Franco Monaco, prodiano della primissima ora. Il senatore, molto infastidito per i nomi in corsa «decisi non si sa bene dove né da chi», si è spinto fino a mettere nero su bianco la sua contrarietà: «Un conto è il patto tra avversari per scrivere regole condivise. Tutt’altra cosa un accordo dal sapore spartitorio nel quale si sommino opposte partigianerie».
Messa agli atti la sofferenza di veltroniani come Walter Verini per la mancata elezione di Massimo Brutti al Csm, la novità è il disagio dei renziani verso Violante e Legnini, ritenuti da alcuni «troppo dalemiani». Uno stato d’animo niente affatto positivo che persino i luogotenenti del segretario ritengono opportuno ammettere. «Qualche maldipancia in casa nostra c’è stato, ma poi i colleghi hanno capito — assicura David Ermini — I numeri dicono che non c’è nessun dissenso organizzato. Ci può essere qualcuno che a titolo personale non ha votato Violante, ma mi pare che il disagio possa rientrare». I franchi tiratori sono l’incubo del Pd, il fantasma che una coincidenza numerica basta a risvegliare: 101 furono i traditori di Prodi e 102 i voti mancati a Violante, al lordo delle assenze.
«I franchi tiratori ipotizzabili nel Pd sono solo una trentina, altro che 101 — tranquillizza Ettore Rosato — La votazione si è impantanata perché il quorum è altissimo». Il problema, per i vertici del Pd, è che la fronda può crescere ancora. Nel segreto dell’urna tutto può succedere, tanto più che i gruppi parlamentari sono nati nell’era Bersani. «Con lo scrutinio segreto è sempre tutto molto complicato — ammonisce da sinistra Nico Stumpo — Basta con le assenze, ora serve il senso di responsabilità di tutti». E i maldipancia? «Bisogna farseli passare, perché quello di Violante non è un nome che si può cambiare». Ma la strada per l’elezione dell’ex presidente della Camera non è ancora spianata. Il Pd è il partito dei reciproci sospetti, tanto che i renziani si divertono a insufflare nelle orecchie dei cronisti il nome di Corradino Mineo e al bersaniano Miguel Gotor tocca giurare di non aver votato in difformità dal gruppo: «Stimo Violante, la sua candidatura non è in discussione. Lunedì sarà eletto, è una previsione e una speranza la mia. L’accoppiata con Donato Bruno è la migliore».
Corriere 13.9.14
Pd, quel che resta del «modello emiliano»
di Paolo Franchi
Che cosa ne resti è difficile dire: poco, comunque, molto poco. Ma c’è stato, eccome, il «modello emiliano». Un collaudato sistema di governo e, perché no, di potere, un partito di (stra)grande maggioranza in cui però gli amministratori locali, o i dirigenti delle floride cooperative, contavano molto più dei segretari delle federazioni. Ma, prima ancora un largo e consolidato sistema di alleanze. O, come si diceva una volta, un blocco sociale, in cui i comunisti esercitavano senza incontrare troppe resistenze la loro egemonia. A gettarne le basi aveva provveduto nel settembre del 1946, quando nel triangolo rosso ancora si uccideva, Palmiro Togliatti, con un celebre discorso a Reggio, il cui titolo era già tutto un programma: «Ceti medi e Emilia rossa». E nei decenni (almeno fino agli anni Settanta) si era rafforzato e raffinato. Senza l’Emilia, che all’indomani della Liberazione voltò le spalle ai socialisti per diventare una roccaforte comunista, il Pci come l’abbiamo conosciuto non ci sarebbe mai stato. Nel Pci, però, di «modello emiliano» non si poteva e non si doveva parlare, e non solo per quel tanto o poco di socialdemocratico che esprimeva: l’Emilia-Romagna (soprattutto l’Emilia) rappresentava, si trattasse degli asili nido o del fiorire della piccola e media impresa, dell’urbanistica o della sanità, la rassicurante vetrina del buon governo del partito. E, nello stesso tempo il suo rigoglioso granaio, la sua intendenza. Ma le intendenze (Napoleone Bonaparte insegna) non debbono avere grilli per il capo, sono destinate per loro natura a seguire: di «modelli» ce n’era uno solo e valido per tutti, quello della via italiana al socialismo.
Quanto al gruppo dirigente del partito, non era un caso che gli emiliani, con le parziali eccezioni di Luciano Romagnoli, di Renato Zangheri e, molto più tardi, quando però non c’erano più da un pezzo né il Pci né il Pds né i Ds, di Pier Luigi Bersani, non ne facessero parte quasi per definizione: gente fidata, ottimi sindaci, operosi cooperatori, sì, ma la grande politica esulava dalle loro competenze. I compagni emiliani non ne erano entusiasti, si capisce. Ma, tranne rare eccezioni, tra le quali, nei primi anni Ottanta, quella dell’allora presidente della Regione, il migliorista ante litteram Lanfranco Turci, non ne facevano nemmeno un dramma. Un po’ perché sulle scelte che facevano a casa loro nessuno, da Roma, interveniva troppo pesantemente, un po’ perché l’essere «fedeli alla linea» (o, se vogliamo, conformisti) faceva parte, politicamente parlando, del loro Dna: chi lo era un po’ meno, come i metalmeccanici della Fiom o i giovani della sezione universitaria bolognese in cui muoveva i suoi primi passi, tra gli altri, Giorgio Cremaschi, pagava dazio.
Storie di altri tempi, che non c’entrano un bel niente con il Pd di Matteo Renzi e con quanto va capitando a Bologna? Sì, ma non esageriamo: c’è sempre un qualche filo, magari nascosto, a tenere insieme passato e presente, anche quando il presente è gramo, il partitone non c’è più né in Emilia né a Roma, e la straordinaria (e a tratti un po’ plumbea) coesione sociale della regione, onore e vanto di generazioni di comunisti emiliani, è ormai poco più che un ricordo. Si potrebbe cercare di rintracciarlo, forse, facendo la storia dei tanti campanelli di allarme trillati invano in questi anni. Ma è meglio restare ai fatti. A un partito che ha cambiato (come sempre, disciplinatamente) ragione sociale, e nelle primarie ha votato (come sempre, massicciamente) per Renzi, ma è rimasto (nei vizi connaturati a un lunghissimo esercizio del potere, non nelle virtù) uguale a se stesso, nonostante attorno gli sia cambiato il mondo. Come accade regolarmente da vent’anni e passa, a dichiarare ufficialmente che il re è nudo non hanno provveduto iscritti e sostenitori, di un cui qualsiasi ruolo politico, in assenza di ogni forma di vita democratica interna, si è smarrita la traccia, ma la magistratura. Come accade regolarmente da vent’anni e passa, a dichiarare ufficialmente che il re è nudo non hanno provveduto iscritti e sostenitori, di un cui qualsiasi ruolo politico, in assenza di ogni forma di vita democratica interna, si è smarrita la traccia, ma la magistratura. Come accade regolarmente da vent’anni e passa, si è gridato alla «giustizia a orologeria». Anche se si troverà un modo per disinnescare almeno in parte la bomba giudiziaria, e se Renzi ha chiuso il caso confermando che il segretario emiliano non sarà scelto da «soggetti esterni», ma con le primarie, chi ha protestato qualche ragione ce l’ha. Sarebbe più convincente, però, se ci spiegasse anche come ha fatto, il suo partito, a ridursi in queste condizioni di impotenza. Primarie o non primarie.
Corriere 13.9.14
Il caos delle candidature alla Consulta, tutta colpa della fragilità del patto
Il patto del Nazareno non regge agli agguati
di Pierluigi Battista
Il patto del Nazareno vacilla, non regge agli agguati, ai malumori, alle manovre nascoste, ai voti segreti, alle spaccature, alle pugnalate al buio.
Ne fanno le spese Antonio Catricalà, che ha annunciato il ritiro della sua candidatura per la Corte Costituzionale su indicazione di Forza Italia, e con ogni probabilità anche Luciano Violante, elemento inscindibile del ticket che ieri è stato dimezzato. È il caos. Difficile rispettare un patto che il Parlamento non ama, e anzi vorrebbe segretamente far deflagrare.
Forse nel weekend si troverà una soluzione per ricucire uno strappo, e salvare la faccia. Resta il dato politico di un patto che non può restare saldo in una situazione politico-parlamentare disgregata. Colpa principalmente di Forza Italia, che oggi sembra esplodere in mille faide, tra un leader confinato in un corrucciato silenzio e un partito dilaniato dalle lotte di clan, dalle camarille che cercano di strappare i favori di un sovrano, Silvio Berlusconi, stanco, demotivato, costretto ad aggrapparsi al dinamismo di Renzi per non essere messo definitivamente fuori gioco. E dall’altra la malmostosità sotterranea che attraversa il Partito democratico, in un Parlamento «renziano» suo malgrado ma che è in realtà composto nella sua stragrande maggioranza da parlamentari legati all’antica gestione bersaniana. Un gruppo parlamentare, non bisogna dimenticarlo, che è lo stesso ad aver combinato gli inenarrabili pasticci per l’elezione del Presidente della repubblica nell’aprile del 2013.
Un Parlamento diviso, con una forte presenza del M5S che di fatto rompe la logica degli accordi consociativi che sono necessari per l’elezione dei membri della Corte Costituzionale e del Csm e che nella frantumazione attuale appaiono meccanismi arrugginiti, fuori uso, di difficile gestione. Questa fragilità del patto del Nazareno è il vero pericolo per Renzi. Le riforme istituzionali e quella della legge elettorale hanno bisogno vitalmente di quel patto. E anche la navigazione del governo diventerebbe tempestosa se, oltre all’opposizione frontale di Grillo, anche dal versante di Forza Italia cominciassero a prevalere logiche di destabilizzazione. Per Forza Italia, addirittura, il caos potrebbe essere il preludio di una disfatta. Forse il patto avrebbe bisogno di una drastica messa a punto.
il Fatto 13.9.14
I governi non hanno più scuse
L’accusa di Draghi: la Bce ha fatto molto, i governi troppo poco
A Milano il banchiere centrale spiega che ora la crisi si combatte solo con le riforme strutturali
di Mario Draghi
Questo il testo del discorso a Milano giovedì sera, alla cena a porte chiuse tra banchieri e politici di Eurofi. La versione integrale sul sito ecb.europa.eu.
Nel mio recente intervento a Jackson Ho-le ho parlato della necessità di una combinazione di politiche monetarie, di bilancio e strutturali per rilanciare la ripresa economica nell’area dell’euro. Attualmente ci si presenta una serie di condizioni (bassi livelli di crescita e inflazione, alti livelli di debito e disoccupazione) che possono essere affrontate soltanto con un’azione concertata dal lato sia della domanda sia dell’offerta dell’economia. Ciò richiede a tutte le parti, sul piano nazionale ed europeo, di svolgere il proprio ruolo in linea con il rispettivo mandato definito nei trattati dell’Ue.
Non c’è nessuno stimolo monetario (e di fatto nessuno stimolo fiscale) che tenga se non affiancato dalle giuste politiche strutturali: politiche atte a promuovere la crescita potenziale e a infondere fiducia.
Gli investimenti sono una delle vittime illustri di questa crisi. Il calo degli investimenti delle imprese osservato dal 2008 nell’area dell’euro è molto più marcato che nei cicli economici precedenti. Dal livello massimo a quello minimo sono diminuiti di circa il 20% contro il 15% registrato durante la recessione del 1992. Dal 2008, nell’area dell’euro, gli investimenti delle imprese mostrano soltanto un lieve miglioramento, mentre negli Stati Uniti superano ormai il livello anteriore alla crisi.
Le priorità: cambiare le regole per gli investimenti e il credito alle imprese
Non ci sarà ripresa sostenibile finché la situazione non cambia. Un deciso incremento degli investimenti è essenziale per portare l’inflazione in maggiore prossimità dei livelli auspicati, per stimolare l’economia e per ridurre la disoccupazione. Noi responsabili delle politiche, cosa possiamo fare per imprimere nuovo slancio agli investimenti? Oggi il mio principale messaggio è questo: soltanto se le politiche strutturali, di bilancio e monetarie procedono di pari passo, l’area dell’euro assisterà al recupero degli investimenti. Vedo due settori fondamentali nei quali l’azione dei governi, a livello sia nazionale che europeo, dovrebbe concorrere a rilanciare gli investimenti delle imprese. Primo: il contesto regolamentare dovrebbe essere reso più favorevole alla crescita economica. Secondo: le imprese devono avere accesso a fonti di finanziamento più diversificate; la creazione di un’unione dei mercati dei capitali potrebbe contribuire a questo scopo e al tempo stesso aiutare a superare la frammentazione che rimane nei mercati finanziari. Vorrei commentare in breve questi punti.
Start Up e professioni, da dove partire
L’attività delle imprese trarrebbe grande beneficio da un miglioramento del contesto regolamentare, in particolare per quanto riguarda i mercati dei beni e servizi e del lavoro. Colpiscono le divergenze fra Stati membri dal punto di vista della differenziazione salariale (fra lavoratori e settori), delle rigidità nell’aggiustamento dell’occupazione, delle barriere all’entrata nei mercati dei beni e servizi e della facilità nell’avviare e gestire imprese. Ad esempio, in alcuni Stati membri la risoluzione di un contenzioso contrattuale fra imprese richiede in media poco più di un anno, mentre in altri occorrono più di tre anni. In questi ultimi paesi le start-up devono far fronte a un carico amministrativo maggiore. Un ulteriore esempio eloquente riguarda le professioni regolamentate, il cui numero varia considerevolmente da uno Stato membro all’altro (da 45 in Estonia a 170 in Italia e 219 in Francia, fino a 304 in Slovacchia, secondo i dati della Commissione europea). Simili barriere all’entrata limitano la concorrenza e l’occupazione, generando rendite indebite per pochi eletti a scapito della clientela. (…) In molti casi, tali ostacoli privano della linfa lo spirito imprenditoriale, soprattutto fra le giovani aziende innovative che creano la maggior parte dei posti di lavoro e sono molto sensibili alle variazioni in termini di opportunità di investimento.
Il credito delle banche non basta più
Nell’area dell’euro la convergenza verso le migliori prassi darebbe luogo a radicali miglioramenti del contesto in cui operano le imprese. La Spagna offre un esempio incoraggiante al riguardo. Fra i grandi paesi dell’area dell’euro, si prevede che la Spagna registri una ripresa degli investimenti vigorosa nei prossimi due anni, soprattutto per effetto di una combinazione di riforme favorevoli alle imprese e di una riduzione delle imposte sui redditi delle persone fisiche e delle società. (…)
Un secondo aspetto di fondamentale importanza per gli investimenti, nonché di interesse diretto per la comunità Eurofi qui riunita, è l’esigenza di diversificare le fonti di finanziamento e di superare la frammentazione in ambito finanziario. Finora il credito alle imprese è giunto soprattutto attraverso il canale delle banche. La crisi ha messo in luce le insidie di un ricorso troppo ampio a un modello di erogazione del credito incentrato sul settore bancario. Occorre quindi sviluppare anche fonti di finanziamento alternative affidabili, quali i mercati azionari e obbligazionari, la cartolarizzazione, l’attività di prestito delle compagnie di assicurazione e degli asset manager, il venture capital e il finanziamento collettivo (o crowdfunding). Ecco perché la Bce esprime pieno sostegno all’intenzione del presidente eletto della Commissione europea di creare un’unione dei mercati dei capitali. Questo passo rappresenterebbe una naturale evoluzione del mercato unico, a beneficio di tutti gli Stati membri dell’Ue. A nostro parere, merita particolare attenzione lo sviluppo di un mercato ben funzionante delle attività cartolarizzate (asset-backed securities, Abs) semplici, trasparenti e reali. Le banche potrebbero così continuare a generare prestiti, soprattutto a favore delle piccole e medie imprese (Pmi), preservando nel contempo la propria capacità di bilancio. Per realizzare un mercato degli Abs ben funzionante, è importante che la cartolarizzazione sia regolamentata in misura proporzionale al rischio dei titoli emessi. (...)
La politica di bilancio deve favorire la crescita
Questo non è tuttavia l’unico settore in cui i governi possono fare la differenza. A disposizione hanno infatti anche una seconda leva di rilevanza diretta per gli investimenti: la politica di bilancio. Le imprese investiranno nel futuro soltanto se esistono fiducia e certezza riguardo al futuro: riguardo all’evoluzione dei conti pubblici nel medio periodo e, in ultima istanza, riguardo all’imposizione fiscale. Ciò di cui abbiamo bisogno è un’applicazione coerente e credibile del Patto di Stabilità e crescita nel tempo e in tutti paesi. Nel contesto esistente, i governi possono trovare lo spazio per sostenere gli investimenti produttivi e conseguire una composizione delle politiche di bilancio più favorevole alla crescita, riducendo l’onere fiscale e la spesa corrente improduttiva. In parallelo, può essere utile aprire il dibattito sull’orientamento complessivo delle politiche di bilancio nell’area dell’euro, in vista di incrementare gli investimenti pubblici laddove esiste margine di bilancio. A questo proposito, anche a livello europeo vi è un ruolo complementare da svolgere nel sostenere la ripresa degli investimenti privati. Esprimo quindi apprezzamento per il pacchetto da 300 miliardi di euro annunciato due mesi fa dal presidente eletto della Commissione europea.
Vorrei concludere con qualche cenno al contributo della politica monetaria. Abbiamo combattuto con successo la crisi di fiducia nei confronti dell’euro, che ha fatto aumentare i tassi di interesse fino a valori anomali. Abbiamo fornito al sistema bancario dell’area dell’euro livelli di finanziamento senza precedenti. Abbiamo continuato a ridurre i nostri tassi di riferimento, fino a raggiungere ormai il limite inferiore. Per assicurare che questo orientamento molto accomodante della politica monetaria si trasmetta all’economia reale equamente in tutta l’area dell’euro, abbiamo anche dispiegato una serie di strumenti non convenzionali. (…)
La politica monetaria ha già fatto (quasi) tutto il possibile
In giugno abbiamo deciso di varare una serie di operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (Omrlt), per assicurare che le banche abbiano a disposizione liquidità sufficiente da erogare all’economia reale. Tali operazioni sono concepite per incoraggiare le banche ad accrescere il credito a favore delle società non finanziarie. Abbiamo inoltre adottato misure a sostegno di segmenti specifici del mercato che rivestono un ruolo fondamentale nel finanziamento dell’economia. La settimana scorsa il Consiglio direttivo ha deciso di avviare, a partire da ottobre, l’acquisto di obbligazioni garantite e Abs di alta qualità. (…) Nel complesso, le decisioni annunciate la settimana scorsa sono finalizzate a favorire il saldo ancoraggio delle aspettative di inflazione a medio-lungo termine, in linea con il nostro obiettivo di mantenere i tassi di inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2%. Ci attendiamo che i due programmi di acquisto integrino in modo efficace le OMRLT nel rafforzare il funzionamento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria e nel realizzare un ulteriore accomodamento monetario, avendo ormai raggiunto il limite inferiore. (…) Giustamente si dice che gli investimenti siano la domanda di oggi e l’offerta di domani. In Europa tuttavia sono carenti. Se non riusciamo a rilanciare gli investimenti, indeboliremo l’economia nel breve termine e ne compromettiamo le prospettive di lungo periodo. Dobbiamo quindi impegnarci soprattutto per far ripartire gli investimenti. Tuttavia – e questo è di fatto il cardine del mio discorso – riusciremo a stimolare gli investimenti soltanto se le politiche strutturali, di bilancio e monetarie si rafforzano a vicenda.
Repubblica 13.9.14
Delude la produzione industriale
L’Istat conferma la deflazione verso Pil negativo anche a settembre
ROMA Scende ancora la produzione industriale a luglio: - 1% rispetto a giugno e - 1,8% in un anno. Segni di ripresa arrivano dalla tenuta di alcuni settori: elettronico, farmaceutico e mezzi di trasporto grazie alla buona performance dell’auto, ma non bastano a ribaltare il calo che riporta l’output ai livelli del 2009.
Negativi anche i dati dell’inflazione di agosto che ieri l’Istat ha confermato: - 0,1% 2014 rispetto ad un anno fa. Rispetto alle prime stime salgono a 15 le grandi città oltre i 150 mila abitanti in deflazione. Con questo quadro macroeconomico molti osservatori prevedono che anche nel terzo trimestre il Pil italiano sarà negativo. Paolo Mameli, senior economist del Servizio studi di Intesa Sanpaolo commenta: «La produzione industriale è in rotta per una flessione di - 0,9%, in tre mesi, dopo il - 0,4% trimestrale precedente, il che segnala che il contributo al valore aggiunto dall’industria sarà più negativo che nel trimestre primaverile, e difficilmente i servizi e le costruzioni potranno compensare tale debolezza».
Anche gli economista di Unicredit e Barclays hanno ridotto le loro stime confermando un altro trimestre in recessione.
A livello europeo, invece, la produzione industriale è tornata a salire dopo una frenata di due mesi. Secondo i dati Eurostat, l’indice ha registrato a luglio un +1% nell’Eurozona e +0,7% nell’Ue su base mensile e +2,2% nell’Eurozona e +2% nell’Ue rispetto al luglio 2013.
Repubblica 13.9.14
Sarà Bruxelles a controllare le riforme. Una gabbia per l’Italia
di Andrea Bonanni
MILANO L’INSISTENZA dei ministri dell’Eurogruppo e della Bce sulla necessità di accelerare le riforme strutturali in Europa (soprattutto in Italia e Francia) sta diventando un mantra europeo, destinato a soppiantare quello sulla urgenza di risanare i bilanci pubblici.
MA NON si tratta solo di parole al vento. Lo aveva già vagamente anticipato Jean-Claude Juncker nel suo discorso di investitura a luglio. Lo ha detto con maggior chiarezza Mario Draghi ad agosto: è giunto il momento in cui gli stati membri, dopo aver rinunciato alla sovranità sui bilanci, rinuncino almeno in parte anche a quella sulle politiche economiche. La riunione informale di ieri è servita a dimostrare che esiste ormai un vasto e generalizzato consenso dei governi europei nei confronti di questo ulteriore passo avanti della «governance comune». Dopo aver per l’ennesima volta sottoscritto un impegno collettivo ad accelerare le riforme strutturali chieste da Bruxelles, difficilmente le capitali potranno rifiutarsi di rendere conto dei risultati ottenuti in questo campo.
C’è dunque da aspettarsi che la nuova Commissione, che entrerà in funzione a novembre, metta subito sul piatto una serie di proposte tese a rafforzare il controllo e la gestione delle riforme strutturali che vengono richieste ai singoli Paesi in occasione delle «raccomandazioni specifiche» che Bruxelles indirizza a ciascun governo. La stessa strutturazione della Commissione, presentata da Juncker al momento dell’assegnazione dei portafogli, indica che il focus del nuovo collegio sarà tutto centrato sulle misure necessarie a rafforzare la competitività delle economie Ue.
Ma già fin d’ora, con gli strumenti a disposizione al momento, l’orientamento di Bruxelles è quello di far marciare di pari passo il controllo sulle politiche di bilancio e la verifica sull’attuazione delle riforme. Un approccio che ha la benedizione di Berlino, ma anche il consenso, più o meno convinto e più o meno esplicito, di tutti gli altri governi, compresi quelli di Parigi e Roma. E del resto, dopo che i Paesi sottoposti al duro controllo della troika stanno tutti registrando tassi di competitività e di crescita più che soddisfacenti, sono proprio la Francia e l’Italia, con i loro risultati economici deludenti, il vero obiettivo di questa nuova stretta di redini che si sta profilando all’orizzonte.
Che cosa significa in concreto questo nuovo corso europeo per il governo Renzi? A Bruxelles ormai si stanno tracciando le porte strette del percorso che l’Italia dovrà superare da qui a giugno per passare l’esame dell’Europa (e dei mercati) e ottenere la tanto sospirata «flessibilità».
Il primo gradino sarà, ad ottobre, la presentazione della bozza di Finanziaria che il governo intende sottoporre al Parlamento. Con le nuove norme europee, l’esame preventivo di Bruxelles sulle leggi di bilancio è diventato un obbligo. Ma la Commissione e l’Eurogruppo non si accontenteranno di sapere come saranno gestiti i nostri conti pubblici. Bruxelles vorrebbe che, in parallelo con la bozza della Finanziaria, il governo presenti anche un programma dettagliato e scadenzato delle riforme che ha ripetutamente annunciato di voler fare. Tre in particolare sono quelle che interessano l’Europa: la rifor- ma del mercato del lavoro, la riforma della giustizia (civile), e la riforma della burocrazia. Si tratta di provvedimenti che non incidono direttamente sul bilancio, ma che possono avere effetti molto positivi sull’economia e sul rafforzamento della competitività e che dunque entreranno a pieno titolo nella valutazione della «flessibilità» da accordare al Paese. La Commissione tuttavia non si accontenterà di impegni generici come quelli già presi da Renzi. Vorrà un piano dettagliato delle riforme, per verificare che comprendano alcune misure considerate «cruciali». E vorrà un calendario di attuazione, che comprenda l’iter parlamentare ma anche la messa in opera concreta attraverso i decreti attuativi.
La seconda porta da superare sarà a gennaio- febbraio, quando Bruxelles presenterà le previsioni economiche d’inverno sulla base dei dati consolidati del 2014 e potrà lanciare dei «warning», degli avvertimenti, ai Paesi che si stanno allontanando dalla retta via. Quella sarà l’occasione per una prima verifica dell’attuazione degli impegni presi, sia con la Finanziaria ormai approvata (tagli alla spesa, riforma fiscale, privatizzazioni), sia soprattutto sulle riforme annunciate, che a quel punto dovrebbero aver già superato l’approvazione parlamentare.
La terza porta verrà a primavera, al momento di presentare le previsioni economiche. E ancora una volta l’esame sarà doppio: da una parte sul mantenimento degli impegni di bilancio, e dall’altra sullo stato di attuazione delle riforme promesse.
Infine si arriverà al traguardo di giugno, quando Bruxelles esaminerà il risultato del lavoro svolto, renderà pubbliche le nuove raccomandazioni e deciderà se aprire o chiudere le procedure di infrazione. Sarà quello il momento per esercitare la tanto evocata «flessibilità» confrontando da una parte i risultati raggiunti in materia di risanamento dei conti pubblici, e dall’altra la qualità e lo stato di attuazione delle riforme varate. Ma sarà questo secondo esame a determinare l’esito del primo. Senza risultati concreti in materia di lavoro, giustizia e riforma della pubblica amministrazione, l’Italia non deve aspettarsi sconti e può essere certa che il giudizio sui conti pubblici sarà spietato.
Repubblica 13.9.14
Daniel Gros
“Il partito del rigore ha già vinto, l’Italia non è credibile”
di Eugenio Occorsio
ROMA . «Quest’incontro di Milano sarà da ricordare. Perché sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa. E probabilmente rappresenta la fine delle speranze per l’Italia di ottenere questo sospirato allentamento da parte della Germania». Daniel Gros, l’economista tedesco già consulente dell’Fmi e della Commissione Ue, oggi a capo del Centre for European Policy Studies, è convinto che debba considerarsi chiusa l’estenuante diatriba fra austerity e rigore. Con la vittoria della Germania.
Insomma l’Europa è a un binario morto? Ma che ne è delle dichiarazioni possibiliste, almeno sembravano tali, della Merkel e ieri addirittura di Schauble?
«I tedeschi parlano due linguaggi, uno in patria e l’altro nei summit internazionali. Al Bundestag qualche giorno fa c’è stata la discussione sulla legge finanziaria. Quando si è trattato di votare sul pareggio di bilancio per i prossimi due anni, ovvero sull’impossibilità di ritagliare gli investimenti pubblici che rilancerebbero la domanda non solo in Germania, nessun partito ha votato contro. Solo una piccola formazione d’opposizione ha osato chiedere: ma siamo sicuri che ce la faremo? Tutto qui. Nessuno ha alzato la mano per chiedere un deficit più alto e venire incontro alle pressanti richieste che arrivano dall’Europa. Questi sono i fatti».
Allora tutti i toni concilianti ostentati all’Ecofin?
«Poco credibili, almeno quanto le rassicurazioni italiane. Sono vent’anni che lo sento dire in ogni occasione: dateci ancora un anno e vedrete quali meravigliose riforme faremo. Certo, la Germania non ammette neanche un intervento d’emergenza, ma l’Italia, come la Francia che oggi preoccupa forse anche di più, non aiuta con i comportamenti la comprensione reciproca. È pur vero che l’Italia con un debito al 136% non so come faccia a pensare di spendere di più: potrebbe anche smetterla di chiedere aperture o flessibilità».
Se le cose stanno così, le propongo uno scenario: l’Italia riesce a fare queste agognate riforme, e si presenta alla Germania dicendo: ecco, le riforme ci sono.
Allora, il rigore?
«Vuole la verità? Non credo che la risposta tedesca sarebbe diversa da quella di oggi. Il passato continuerebbe a pesare come un macigno. È una questione di cultura e di schematismi mentali. Per questo mi sembrano ipocriti tutti questi abbracci alla Spagna, un Paese che ha il 25% di disoccupazione, solo perché un paio di riforme è riuscito a farle».
E il mirabolante piano Juncker da 300 miliardi aiuterebbe?
«Ne ho visti almeno tre di questi mega-piani annunciati. Il primo fu all’alba dell’euro, era da 200 miliardi cioè più o meno come oggi. Nessun aiuto concreto è arrivato, non si tratta che di una riedizione dei fondi europei la cui inutilità è provata. C’è un’aggravante: la Germania si rende conto che in Europa comanda la Commissione, ma ora il nuovo Esecutivo di Bruxelles sembra fatto apposto per non concludere niente. Pensi solo alla contrapposizione fra Katainen e Moscovici: vedo tempi nerissimi».
Il Sole 13.9.14
Paralleli pericolosi
La lezione del '37
La depressione seguita al crollo della Borsa nel 1929 ebbe una ricaduta otto anni dopo e la ripresa venne soltanto con l'enorme stimolo economico portato dalla Seconda guerra mondiale.
di Robert J. Shiller
E quando la ripresa arrivò, Europa e Asia giacevano in rovina.
La situazione mondiale attuale non è così dura, ma dei paralleli si possono fare, in particolare con il 1937. Oggi come allora c'è stato un lungo periodo di malcontento popolare e molti sono alla disperazione e sempre più spaventati dallo scenario a lungo termine. Timori del genere possono avere gravi conseguenze. Per esempio, l'impatto della crisi del 2008 sulle economie russe e ucraine potrebbe essere la causa della recente guerra. Secondo l'Fmi, l'Ucraina e la Russia hanno vissuto una crescita straordinaria tra il 2002 e il 2007: in quei cinque anni, il Pil reale pro capite è aumentato del 52 per cento in Ucraina e del 46 in Russia. Ma le cose sono cambiate e parecchio: lo scorso anno la crescita del Pil pro capite è stata dello 0,2 per cento in Ucraina e dell'1,3 in Russia. Lo scontento può aiutare a capire la rabbia dei separatisti ucraini, il malcontento dei russi e la decisione del presidente Vladimir Putin di annettere la Crimea e sostenere i separatisti. Ha un nome la disperazione che ha generato il malcontento - non solo in Russia e in Ucraina - ed è "la nuova normalità", cioè le minori prospettive di crescita sul lungo periodo, termine coniato da Bill Gross, fondatore del più grande fondo obbligazionario Pimco.
La disperazione provata dopo il 1937 portò alla definizione di nuovi termini simili come "stagnazione secolare" per definire il malessere a lungo termine. La parola "secolare" viene dal latino saeculum, "secolo" o "generazione". La parola stagnazione suggerisce una palude, implicando un terreno fertile per pericoli virulenti. Alla fine degli anni 30, la gente era preoccupata dal malcontento in Europa che aveva già alimentato l'ascesa di Hitler e Mussolini.
L'altra parola entrata nell'uso intorno al 1937 era "sottoconsumismo", la teoria che la gente risparmi troppo per paura di futuri momenti difficili. Inoltre, la quantità di risparmio che la gente desiderava eccede le opportunità di investimento disponibili. Così il desiderio di risparmiare non farà aumentare il risparmio aggregato per iniziare nuove attività, costruire e vendere nuovi immobili. Se gli investitori possono far alzare i prezzi degli asset di capitale esistenti, i loro tentativi di risparmio non fanno che rallentare l'economia. "Stagnazione secolare" e "sottoconsumismo" sono parole che tradiscono un pessimismo latente che, scoraggiando la spesa, genera rabbia e intolleranza.
Ne Il Valore etico della crescita, Benjamin M. Friedman ha illustrato esempi di crescita in declino che alimenterebbero - con intervalli variabili e talvolta lunghi - intolleranza, nazionalismo aggressivo e guerra. Per Friedman, «il valore di un tenore di vita in crescita non dipende solo dai miglioramenti concreti che esso porta alla vita degli individui, ma anche da come esso plasma il carattere sociale, politico e morale di una persona».
Qualcuno metterà in dubbio l'importanza della crescita economica. Forse, e lo dicono in molti, siamo troppo ambiziosi e dovremmo goderci una qualità di vita superiore con più tempo libero. Forse hanno ragione. Ma la vera questione sta nell'autostima e nei processi di confronto sociale che lo psicologo Leon Festinger osservò come tratto universale dell'essere umano. Anche se molti lo negano, ci confrontiamo sempre con gli altri sperando di salire la scala sociale. La gente non sarà mai contenta delle nuove opportunità di tempo libero se sembreranno un segno di fallimento rispetto agli altri.
La speranza che la crescita economica promuova la pace e la tolleranza si basa sulla tendenza al confronto con gli altri non solo nel presente, ma anche con ciò che si ricorda degli altri - noi stessi compresi - nel passato. Secondo Friedman, «ovviamente niente può far sì che la maggioranza della popolazione diventi più benestante di chiunque altro, ma per gran parte della gente è possibile stare meglio di prima, il significato della crescita economica è proprio questo».
Il rovescio della medaglia delle sanzioni imposte contro la Russia per il suo intervento in Ucraina orientale è che potrebbero provocare una recessione in tutta Europa e non solo, lasciando un mondo con i russi, gli ucraini e gli europei scontenti, andando così a indebolire il senso di fiducia e di sostegno verso le istituzioni pacifiche e democratiche. Se alcuni tipi di sanzioni contro l'aggressione militare a un altro Paese sembrano essere necessari, non dobbiamo mai perdere di vista i rischi legati a misure estreme o punitive. Sarebbe fortemente auspicabile giungere a un accordo per mettere fine alle sanzioni, favorire una maggiore integrazione della Russia (e dell'Ucraina) nel mondo economico e accompagnare quei passi con politiche economiche espansionistiche. È necessario per arrivare a una risoluzione soddisfacente del conflitto in corso.
(Traduzione di Francesca Novajra) © Project Syndicate, 2014
l’amichetto di Civati di nuovo nei guai con la Giustizia?
Corriere 13.9.14
La Puglia e i 70 milioni di investimenti sfumati
Interviene il ministro. Guidi: vicenda assurda
di Riccardo Bruno
qui
Corriere 13.9.14
«Eterologa, pagano le coppie»
La linea dura della Lombardia
Pd e Ambrosoli: «Così è per ricchi». L’Emilia Romagna: «Evitare discriminazioni».
La costituzionalista: «Si rischia una pioggia di ricorsi»
di Simona Ravizza
qui
il Fatto 13.9.14
La sentenza
La Cassazione: “Saluto romano resti vietato”
Condannati due neofascisti
I giudici: “Rischio rigurgiti antidemocratici
Non ancora maturi i tempi per lasciarsi alle spalle la legge Scelba del 1952 che punisce la ricostituzione del partito fascista e chi in pubblico replica le manifestazioni esteriori della dittatura di Mussolini, come il saluto romano e l’urlo “presente”. È quanto stabilisce la Corte di Cassazione, che in una sentenza depositata ieri, ha messo al bando il saluto romano, ricordando che è ancora presente il rischio di “rigurgiti” antidemocratici. I giudici, infatti, hanno confermato la condanna per due simpatizzanti di Casapound, che durante un raduno neofascista svolto a Bolzano il 10 febbraio 2009 in memoria delle vittime delle foibe, avevano salutato col braccio teso urlando “presente”. Un gesto che è costato ai due giovani un processo: la Cassazione infatti ha confermato la pena nei confronti di A. B., condannato a due mesi di reclusione e 300 euro di multa e Mirko G., condannato a 20 giorni di reclusione e 140 euro di multa, pena sostituita con 760 euro di multa.
I GIUDICI DI CASSAZIONE nella sentenza depositata sottolineano che “nulla autorizza a ritenere che il decorso di ormai molti anni dall’entrata in vigore della Costituzione renda scarsamente attuale il rischio di ricostituzione di organismi politico-ideologici aventi un comune patrimonio ideale con il disciolto partito fascista o altre formazioni politiche analoghe”. E aggiungono: “L’esigenza di tutela delle istituzioni democratiche non risulta, infatti, erosa dal decorso del tempo e frequenti risultano gli episodi ove sono riconoscibili rigurgiti di intolleranza ai valori dialettici della democrazia e al rispetto dei diritti delle minoranze etniche o religiose”.
Con queste motivazioni, la prima sezione penale della Corte suprema ha respinto la tesi degli imputati, i quali sostenevano l’assenza di “lesività” dei loro comportamenti e la necessità di depenalizzare i retaggi del reato di opinione per via del “mutato clima politico” e delle norme internazionali sulla libera manifestazione delle opinioni. Nei ricorsi, la difesa sosteneva anche che “l’incriminazione delle manifestazioni esteriori tipiche del disciolto partito fascista” sarebbe “ormai inattuale”. Ma la Cassazione è stata di tutt’altro avviso.
Ha detto di lui l’amico Gian Carlo Caselli: “Sansa appartiene a quella generazione di magistrati che ha iniziato un cammino coraggioso, determinato, che ha esposto a rischi anche di polemiche la magistratura verso una maggiore autonomia e indipendenza al servizio dei cittadini”. Ma Sansa oggi ricorda soprattutto gli ultimi anni, al Tribunale dei Minori. Racconta il momento in cui per i genitori arriva l’adozione: “In quegli istanti mi pare quasi di contribuire alla nascita di una persona. Come fossi un’ostetrica”.
La Stampa 13.9.14
Il saluto romano resta un reato
Ma il divieto non è mai la soluzione
di Angelo D’Orsi
La sentenza della Cassazione, che conferma come il saluto romano resti un reato, pone ancora una volta la questione del rapporto fra ambito giuridico (e giurisdizionale) e ambito storico (e politico). Ossia, possono essere le leggi e i magistrati a sciogliere problemi che attengono alla vicenda storica, con tutti i riflessi politici che essa possa avere? A me pare si stia andando verso una sorta di panpenalismo di cui vedo più i rischi che i benefici. La legislazione che si sta approvando via via nei paesi europei, a proposito della persecuzione anche con sanzioni penali, compreso il carcere, a chi neghi o addirittura a chi «banalizzi» la Shoah, ne è un esempio fra i più notevoli; o le sentenze che nell’Est Europa stanno perseguendo, a meno di abiure esplicite, coloro che erano a qualsiasi titolo «compromessi» con i passati regimi socialisti e comunisti; e così via. La Legge Scelba del ‘52, come le disposizioni finali e transitorie della nostra Costituzione, avevano un significato a quell’epoca, nel primo costruirsi della fragile Repubblica democratica. Si trattava di un significato non soltanto simbolico, ma direttamente politico. Oggi se da antifascisti si può apprezzare la sensibilità dei giudici che affermano che non si può depenalizzare il saluto romano e annessi e connessi, da cittadini laici e democratici, ma anche da osservatori, possiamo e forse dobbiamo chiederci se in un domani, magari neppure remoto, saremmo altrettanto soddisfatti se si deciderà di vietare il pugno chiuso, o il simbolo della Falce e Martello (come stanno facendo gli ungheresi, ad esempio), e così via. La dialettica politica deve essere libera finché non sfoci nella violenza, praticata o incitata; e il giudizio sul fascismo, sul comunismo, sul negazionismo e sul razzismo, deve essere lasciato dai magistrati agli studiosi. Soltanto la loro ricerca, seria e documentata, può fornire le basi, via via aggiornate con un lavoro continuo di «revisione» (che è tutt’altro dal «revisionismo», pratica ideologica e non già storiografica), a una comunità, nazionale o sovranazionale, perché si traduca in giudizio civile e politico. Il vituperato Togliatti – di cui si è celebrato sotto tono il 50° della morte in agosto – in fondo andò in tale direzione con l’amnistia del ‘46, pur con tutte le iniquità che essa produsse: il «passato che non passa» può essere liquidato più che dalle sentenze dei giudici, dalla coscienza collettiva.
il Fatto 13.9.14
Isterismi
Quanti voti vale la pelle di un’orsa
Apoteosi patetica. Non è che i politici siano diventati all’improvviso buoni e sensibili
ma mettersi nella lista dei buoni non costa nulla: mica si tratta di immigrati!
di Daniela Ranieri
L’infilata è da urlo: Gasparri: “Pagina di orrore”. Grillo: #giustiziaperdaniza (ma non voleva ammazzare Dudù?). Brambilla: “Ucciso animale innocente” (come se un animale potesse essere colpevole). Frattini (!): “Uccisa una madre”. Una di FI fa piangere i bambini: “Hanno ucciso Mamma Orsa”. Salvini: “Qualcuno deve pagare”, chissà se in euro o in lire, e se anche un orso debba fermarsi all’alt.
Il fatto è noto: a ferragosto, in Trentino, un fungaiolo (si potrà mai dire abbastanza male dei cercatori di funghi?) si è introdotto nell’habitat dell’orsa che, obbedendo all’istinto di proteggere i cuccioli, gli ha rifilato un’unghiata e, riportano i gazzettini montanari, gli ha anche morso uno scarpone. Capirai. Si chiamino i gendarmi: nel tentativo di sedarla, pare, la abbattono. “Aveva ucciso tre pecore”, si giustificano gli incompetenti, come se un orso dovesse fare altro che uccidere pecore, tipo fare la fila alla Caritas, comprare prodotti bio da Natura Sì.
MA COME mai il disdicevole episodio (né primo né ultimo esempio di come l’essere umano si sia ricavato il suo posto nel mondo – da cui twitta e mangia bistecche – abbattendo bestie e alberi) si è trasformato in uno psicodramma nazionale?
Com’è che tutte le forze, si fa per dire, politiche si sono messe a strillare? Un tempo, quando la gente abbandonava i cani in autostrada come comprava le pastarelle la domenica, la politica si divideva in due: i naturisti ingenui (non i Verdi che ecologisti lo erano tutto l’anno) che puntavano ai voti dei progressisti; i conservatori, che miravano agli uccellatori impotenti col mito della caccia, i conigli appesi nel capanno degli attrezzi e la Bibbia sul comodino.
Oggi è tutto più facile, e insieme più complicato. Forse i cacciatori si sono sperabilmente sterminati tra loro, forse è morto quel mondo politico che grattava nella provincia profonda, nell’archetipo dell’uomo contrapposto alla bestia e padrone a casa sua, del parto naturale e del no all’aborto, che negli Usa ha costruito il mito al sanguinaccio dei teocon à la Palin. Forse, più probabilmente, grazie a Facebook siamo tutti ecologisti militanti col minimo sforzo di un “condividi”, di un “mi piace”. E che fai, non glielo metti un like a un orso ammazzato? Per di più, in epoca di quote rosa, femmina, e madre. Icona insieme di destra e di sinistra, etero e gay, elitaria e primitiva.
Pensa se l’orsa avesse ucciso il fungòmane o un bambino nel bosco: “orsa assassina”, avremmo titolato, come accusiamo la montagna di essere “killer” quando qualcuno ci muore.
Ovviamente non è che i politici siano diventati improvvisamente buoni e sensibili (Salvini è segretario di un partito che in Trentino gli orsi non ce li vuole – in fondo sono sloveni – e in estate ha organizzato una grigliata di carne d’orso contro la reintroduzione dei plantigradi nel Parco). Come quei loschi individui che ridevano del terremoto perché voleva dire soldi, questi che guaiolano all’“orsicidio” (sic) fanno dell’orsa una mascotte elettorale per succhiare voti, strategia adocchiata dai consulenti di B. sotto europee, passate le quali, parrebbe, la Santanchè ha ricominciato a indossare animali scuoiati e Toti a divorar braciole.
Per mascherare la loro disperata mancanza di idee e distogliere l’attenzione dal costituzionicidio, sposano l’apoteosi patetica. Chiamano l’animale per nome, come fosse un personaggio dei cartoni uscito dall’happy meal di McDonald’s, o una blogger afghana. Lo antropomorfizzano suscitando il trauma infantile di Bambi e l’immagine fiabesca degli animali che salgono sull’arca in fila per due, ignorando che nella Bibbia Dio disapprova gli uomini al punto che salva una famiglia e affoga tutti gli altri, bambini e animali.
L’ISTERIA collettiva cela un desiderio diffuso: essere riconosciuti e accettati dalla società più ipocrita del millennio. Ci mettiamo nella lista dei buoni – la tengono i vip su Twitter – in occasione delle crociate meno problematiche e coraggiose della Storia: dopotutto, gli orsi non ci rubano il lavoro, non sono terroristi, non portano l’ebola.
Il lavacro al sangue d’orso lubrifica le coscienze e mette dalla parte giusta del mondo meglio di una finale di Miss Italia con una concorrente nera o trans. C’è pure un hashtag, ti pare, #iostocondaniza, simile a quel #iostoconmagdi, inteso come Allam, e al ciclico #iostoconmarco, cioè Pannella, usato da chi è simultaneamente contro la politica, i giudici, i medici e il cancro.
C’è chi minaccia di morte il fungaiolo, e chi problematizza (con tutto quello che succede nel mondo!), come se gli orsi fossero in competizione con gli immigrati nei barconi, i ragazzini di Napoli sparati a sangue freddo, le suore ammazzate in Africa (casi che non hanno sollevato un’onda di indignazione pari a questa). Insomma, se qualcuno ci tocca ammazzà, meglio gli orsi. Si stia con l’orsa, sì, ma sarebbe meglio lo si facesse in silenzio.
La Stampa 13.9.14
Tra i riservisti israeliani adesso monta la rivolta
“Stop alla persecuzione politica dei palestinesi”
La rivolta dei riservisti israeliani: “Ora basta spiare i palestinesi”
La lettera di 43 militari dell’unità di intelligence a Nethanyahu: «Noi usati come strumenti per accrescere il controllo sui Territori Occupati. Lo Stato ebraico fermi questa persecuzione»
di Maurizio Molinari
qui
Corriere 13.9.14
Il gran rifiuto dei cybersoldati al servizio d’Israele
di Davide Frattini
GERUSALEMME — L’unità 8200 raccoglie segreti e produce milionari. È la squadra dell’esercito israeliano che può scegliere (vengono prima solo i piloti dell’aviazione) gli adolescenti più dotati tra quelli da arruolare, giovani di diciotto anni addestrati e stimolati a usare la loro intelligenza per scardinare i sistemi elettronici dei Paesi nemici o ideare virus da scagliare nella cyberguerra. Spinti al caos creativo, a rompere gli schemi per produrre invenzioni: le stesse qualità che li portano dopo il servizio nell’intelligence militare a fondare start-up digitali, oltre 50 di queste negli ultimi anni — calcolano gli investitori — sono state rivendute per milioni di dollari. Le stesse qualità che hanno portato 43 di loro (ufficiali della riserva ancora operativi) a contestare le operazioni della 8200 in una lettera al primo ministro Benjamin Netanyahu e pubblicata dal quotidiano Yedioth Ahronoth , il più venduto nel Paese. I graduati del reparto, paragonabile alla Nsa americana, contestano il tipo di informazioni accumulate sui palestinesi e l’uso che ne viene fatto. Spiegano che la rete dei sistemi di sorveglianza supersofisticata (dalle telefonate intercettate al controllo degli scambi via Internet) pesca ovunque, «anche tra persone che non rappresentano una minaccia per Israele. I dati vengono sfruttati per cercare di adescare informatori: le loro preferenze sessuali, i tradimenti coniugali, le difficoltà economiche, i problemi di salute». Secondo i firmatari della denuncia, gli agenti dello Shin Bet, i servizi segreti che combattono gli estremisti palestinesi, usano le rivelazioni per ricattare chi potrebbe fornire notizie. Gli uomini e le donne che sostengono l’appello, inviato anche al capo di Stato Maggiore e al comandante dell’unità, proclamano di essere pronti «a impegnarsi contro i nemici» ma di non voler più «continuare a essere strumenti dell’occupazione». «La popolazione sotto il nostro dominio militare è totalmente esposta allo spionaggio, impiegato per la persecuzione politica e per creare divisioni all’interno della società palestinese». Con il documento i 43 diventano gli obiettori di coscienza più celebri, i refusnik con più influenza dopo i 27 piloti che dodici anni fa si erano rifiutati di bombardare la Striscia di Gaza. L’aviazione e l’8200 sono considerate l’élite dell’élite. Dai ranghi dell’intelligence sono usciti un giudice della corte suprema, il direttore generale del ministero della Finanze, un romanziere venduto in tutto il mondo, un celebre comico televisivo. «8200» è il numero che gli investitori a caccia della prossima grande idea digitale cercano nel curriculum al posto del voto di laurea, ammesso che i genietti della squadra abbiano avuto la pazienza di frequentarne uno prima di fondare società come Check Point, il cui software protegge il 98 per cento delle 500 multinazionali entrate nella classifica della rivista Fortune . Yehuda e Zohar Zisapel, fratelli e veterani, sono creatori seriali: ventitré compagnie di telecomunicazioni — stima Foreign Policy — sette vendute per più di un miliardo di dollari. Così la lettera-denuncia sta creando un vero dibattito in Israele, come non sono riuscite le poche manifestazioni durante i 50 giorni di guerra contro Hamas a Gaza. Anche perché gli ideatori ci hanno lavorato un anno e ci hanno messo dentro la stessa determinazione spremuta negli hackatons, le maratone di programmazione al computer che fanno parte dell’addestramento costante. «Abbiamo voluto denunciare casi e raccogliere testimonianze tra i soldati — spiega Daniel al giornale online Chiamata locale — che non fossero l’eccezione. Sono aspetti strutturali delle operazioni di sorveglianza, sistemici, eseguiti con l’approvazione della catena di comando».
Repubblica 13.9.14
Fa scalpore la lettera pubblica degli ufficiali del reparto “cyberwar” dell’esercito
“Troppi innocenti uccisi con un solo click stanchi di frugare nel privato dei cittadini di Gaza”
L’Unità 8200 si ribella “Da noi troppa violenza basta con la guerra nei territori palestinesi”
“Lanciamo un appello ai soldati e ai cittadini a far sentire la loro voce contro questi abusi e mettervi fine”
“Quella gente è soggetta ad un vero e proprio regime militare e allo spionaggio, senza alcun controllo”
di Fabio Scuto
GERUSALEMME UN gruppo di cyberwarrior israeliani della leggendaria Unità 8200 non vuole più combattere nei Territori palestinesi la sua guerra. Non vuole più frugare nelle vite della gente di Gaza e della Cisgiordania, ascoltando le telefonate, monitorando Internet e fax, leggendo ogni singola mail inviata nel web. Informazioni che spesso non sono utili alla difesa di Israele ma che invece — scrivono in una lettera aperta al primo ministro e al Capo di Stato maggiore e al capo dell’Aman, i Servizi segreti militari — «servono per perseguire e creare divisioni all’interno della società palestinese, per questo non possiamo in coscienza continuare a servire in questo sistema negando i diritti a milioni di persone».
I 43 firmatari della lettera aperta pubblicata ieri mattina da Yedioth Aaronoth sono tutti veterani di questa unità di élite, c’è un maggiore, due capitani, diversi sottufficiali e soldati semplici. Per questo ha sbalordito Israele, lasciato (per ora) senza parole i politici e rovinato certamente il weekend al premier Benjamin Netanyahu, il cui ufficio si è trincerato dietro un “no comment”, mentre la notizia faceva il giro del Paese rilanciata da tv e siti web e alcuni dei firmatari della lettera venivano intervistati addirittura dalla Radio Militare.
Nella lettera i soldati raccontano del loro ruolo fondamentale nelle operazioni di eliminazioni mirate effettuate dall’esercito israeliano. Una donna soldato racconta dei suoi tormenti per un errore di identificazione commesso che portò alla morte di un bambino. Altri si rimproverano di aver ascoltato conversazioni intime e private tra palestinesi. Certi, dopo la lettera della loro radiazione dall’esercito e della Corte Marziale, i guerrieri con l’etica della guerra scrivono: «C’è la percezione che il servizio di intelligence militare è privo di dilemmi morali e contribuisce solo alla riduzione della violenza contro persone innocenti, ma durante il servizio militare abbiamo imparato che non è così, la popolazione palestinese è soggetta a un regime militare ed è completamente esposta allo spionaggio israeliano, ma diversamente da Israele o da altri Paesi non c’è nessun controllo sull’uso che viene fatto di queste informazioni a prescindere se i palestinesi sono coinvolti o meno nelle attività clandestine».
I cyberwarrior scrivono che spesso le informazioni raccolte hanno danneggiato persone innocenti, specie quelle di tipo “privato”, come preferenze sessuali o problemi di salute, usate per estorcere informazioni, ricattare e arruolare “collaborazionisti”. «Lanciamo un appello a tutti i soldati che servono attualmente in questa unità e che vi serviranno in futuro, ma anche a tutti i cittadini israeliani, a far sentire la loro voce contro questi abusi e mettervi fine».
Nei conflitti moderni le Forze speciali sono importanti quanto le unità che si occupano di guerra elettronica, di informazioni da fornire in tempo reale a chi è sul campo di battaglia. L’8200 in Israele è quella che si occupa della cyberwar, re- parto prestigioso e di élite che negli anni è diventato la più grande Unità dell’esercito israeliano, con migliaia di militari impiegati, ed è paragonabile per funzioni e capacità alla Nsa americana. Dalla sua base nel deserto del Negev, dove si trova una delle più grandi stazioni di ascolto del mondo, è in grado di monitorare le chiamate telefoniche, le e-mail e altre comunicazioni in tutto il Medio Oriente, l’Europa, l’Asia e l’Africa. «Un’unità speciale, i cui uomini sono tenuti a standard etici senza rivali nel mondo dell’intelligence», spiega al telefono un portavoce dell’Idf, «che ha al suo interno meccanismi per denunciare abusi e cattiva condotta, una procedura che è stata invece aggirata dai firmatari e questo già solleva dubbi sulla gravità delle accuse».
Amos Yadlin, che è stato capo dei servizi segreti militari e oggi dirige a Herzilya l’Istituto di Studi Strategici, minimizza la portata della lettera. «L’Unità 8200 è molto vasta, 43 militari sono solo una piccola frangia. È normale che dei veterani possano, nel tempo, gravitare politicamente verso l’estrema sinistra o l’estrema destra». Ma le denunce degli uomini in divisa in questi ultimi anni si sono moltiplicate contro gli abusi dell’occupazione militare, c’è stato un gruppo di piloti di riserva della Iaf che ha rifiutato di andare in missione a Gaza, così come i militari di un’unità di fanteria abitualmente schierata in Cisgiordania per difendere le colonie. A loro si sono unite le voci — certamente non di sinistra — dei sei capi dello Shin Bet, il servizio segreto interno. In The Gatekeepers , il documentario candidato all’Oscar nel 2012, anche i Guardiani di Israele hanno messo in dubbio la sostenibilità dell’occupazione dei Territori palestinesi.
il Fatto 13.9.14
Israele, 43 militari si “ribellano” all’esercito: “Persecuzioni contro palestinesi”
I soldati si rifiutano di seguire gli ordini dell'esercito e denunciano, in una lettera al Primo Ministro Netanyahu, la raccolta d'informazioni "per ricattare" cittadini di Gaza e West Bank
Ramallah, intanto, fa sapere che l'autopsia sul cadavere di un uomo prigioniero in un carcere del Negev parla di "morte causata dalle torture"
qui
La Stampa 13.9.14
Volontarie britanniche gestiranno i bordelli per jihadisti
Il Califfo ha creato un corpo di polizia femminile destinato a controllare i luoghi di sfruttamento in Iraq e Siria dove sono rinchiuse migliaia di donne e ragazze yazidi
di Maurizio Molinari
qui
La Stampa 13.9.14
Tra i filo-jihadisti della Giordania
“Col Califfo l’Islam torna grande”
Nella città infiltrata dall’Isis che odia re Abdallah: non vogliamo più confini fra arabi
di Maurizio Molinari
«Benvenuti a Maan, nella nazione di Al-Sham». Seduto dietro una scrivania di legno massiccio, con a fianco la grande scimitarra dorata delle tribù beduine,
il sindaco Fawaz Al-Sharari della città più jihadista della Giordania descrive «un mondo arabo che torna alle origini».
La nazione di Al-Shaam di cui parla è la stessa di cui discute un gruppo di anziani beduini nel cortile della moschea «dei Martiri», per la quale manifestano i ragazzi di piazza Maidan Suleiman e dibattono alcuni docenti universitari nell’unico giardino cittadino. «Al-Shaam è una delle tre uniche e vere nazioni arabe», dice Mohammed Saleh Jahrar, leader del movimento «Popolo per Maan».
«Assieme a Hijiaz ed Egitto - continua - sono esistite fino all’accordo di Sykes-Picot, quando Francia e Gran Bretagna polverizzarono le prime due indebolendo anche la terza, grazie a confini fittizi di Stati creati dal nulla». Il riferimento è all’intesa del 1916 da cui è nato l’attuale Medio Oriente all’indomani della dissoluzione dell’Impero Ottomano. «Biladi Al-Shaam» aveva riunito fino ad allora i territori da Baghdad ad Haifa, ovvero gli attuali Iraq, Giordania, Siria, Libano, Israele e Territori palestinesi, mentre l’Hijiaz coincideva con l’intera Penisola Arabica e l’Egitto era l’indiscussa nazione-guida del Maghreb. «Questo è il mondo da cui noi arabi proveniamo e questo è il mondo che sta riemergendo», assicura Mohamed Abu-Saleh, combattivo portavoce dei «Cittadini di Maan». Sono opinioni che spiegano il richiamo che ha il messaggio dello Stato Islamico (Isis) del Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi in una città di circa 60 mila anime considerata dalle forze di sicurezza giordane la «roccaforte dei jihadisti» nel regno hashemita. In realtà nessuno plaude apertamente a Isis, ma la scelta di proclamare il «Califfato» su un territorio a cavallo fra Siria e Iraq ha avuto un impatto forte, proprio perché «la strada araba, qui a Maan come altrove, si identifica in Al-Sham più che in confini artificiali e governi corrotti», sottolinea il sindaco. Attorno a lui, collaboratori e segretari assentono, ricordando madri e nonne «che vivevano ad Amman, facevano la spesa a Nablus e pranzavano a Damasco senza incontrare confini».
I fondamentalisti sono di casa a Maan - oltre due ore di auto a Sud di Amman - dal 1989 quando la rivolta contro l’abolizione dei sussidi sul pane obbligò l’allora re Hussein ad entrare nella moschea del suk per scongiurare il peggio. La «primavera araba» ha visto affermarsi nella stessa moschea il Fronte Islamico - i Fratelli musulmani giordani - cavalcando lo scontento contro «disoccupazione e corruzione» fino al 2013 quando le forze di sicurezza sono intervenute, braccando i gruppi salafiti in una caccia all’uomo con aspri scontri, raffiche di arresti e non poche vittime. Da allora Maan è in costante stato d’assedio con le truppe speciali di Amman a presidiare tribunale e uffici del governo. La galassia dei gruppi islamici locali è la cartina tornasole di quanto sta avvenendo in Giordania e altrove. «I Fratelli Musulmani sono un partito di opposizione, ostile al governo ma pragmatico e intenzionato a operare nella legalità - spiega Mohammed Saleh Jahrar, docente all’ateneo Bin Talal, considerato uno dei maggiori esperti giordani del jihadismo - poi ci sono i salafiti di Abu Sayyaf che perseguono l’edificazione di una società sulle basi della Shaaria e quindi i salafiti jihadisti, che predicano la lotta armata puntando al Califfato». È un universo di sigle ideologiche, identità tribali e fedeltà claniche dove prevale il contrasto di tutti con tutti, tranne un comun denominatore: l’ostilità nei confronti del sovrano, della famiglia reale e di un governo definito «regime».
«Nel 1989 re Hussein venne qui e la regina Noor passeggiò nelle nostre strade - ricorda Kreishan Akran, accademico ed esperto di diritti umani - mentre re Abdallah ci ignora e la regina Raina in 15 anni non si è fatta vedere». Il motivo, affermano i ragazzi di piazza Suleiman - rinominata Tahrir in omaggio al luogo-simbolo della rivoluzione egiziana contro Hosni Mubarak - è che «questo Paese è nelle mani di un gruppo di potere striminzito, meno di dieci persone, che non si curano della gente, ma proteggono un gigantesco sistema di corruzione, solo negli interessi dell’Occidente, dell’America e degli ebrei». L’attacco è anzitutto all’«entourage» della regina Raina, una palestinese che il Sud beduino ama. E tornano i richiami a Sykes-Picot, da parte di militanti islamici poco più che ventenni, perché «la divisione della Palestina, la creazione di Israele e l’invasione dell’Iraq rientrano nell’unico piano di continuare a spezzettare il mondo arabo, formando nazioni sempre più piccole e deboli per impedire a Al-Shaam di risorgere, con la sua eredità di energia e cultura».
I servizi di sicurezza giordani temono il fronte jihadista interno a Maan più delle infiltrazioni di Isis dai confini siriani e iracheni perché, secondo la stampa locale, il «Califfo Ibrahim» ha già messo piede da queste parti. A dimostrarlo sono bandiere nere, scritte jihadiste nelle strade e confessioni di arrestati. Se gli oltre mille volontari giordani di Isis in Siria e Iraq provengono in gran parte da Zarqa e Salt - piccoli centri non distanti da Amman - è a Maan che il «Califfo» dimostra di poter creare cellule locali, attirate non tanto dalla guerra agli sciiti quanto dal «ritorno a Biladi Al Shaam». E la sorpresa, nelle ultime 48, è arrivata con la scoperta ad Amman di una cellula di Isis: erano in 6 e vivevano nel quartiere povero di Jabel Jofeh, dalle cui finestre si vede uno dei tre palazzi reali di Abdallah II.
La Stampa 13.9.14
Cile, Bachelet inaugura la svolta: “Via l’amnistia voluta da Pinochet”
La presidente socialista vuole cancellare la legge che impedisce processi per i crimini commessi durante il regime tra il 1973 e il 1978: «Il paese non ha perso la memoria»
qui
Corriere 13.9.14
E anche Heidegger inseguiva la notorietà parlando alla radio
di Pierluigi Panza
MODENA — Non è l’intelligenza la differenza principale tra Paris Hilton e un filosofo, bensì il rapporto tra la propria opera e la celebrità. Ove la prima raggiunge la massima celebrità non facendo nulla, il secondo rifugge la celebrità pensando al tutto e insegnandolo. «Per Platone, il filosofo non aspira alla gloria, ma a far capire agli altri qual è la vita buona», ricordava ieri Remo Bodei all’inaugurazione della XIV edizione del Festival Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo (prosegue fino a domani, oltre 50 incontri), la prima in cui si è visto un rappresentante del governo: il sottosegretario ai Beni culturali Ilaria Buitoni Borletti. La gloria, tema di questa edizione, è un’ambizione che da sempre l’uomo si porta appresso come modalità di redenzione, ma che, una volta raggiunta, può essere messa in forse dagli eventi. Vedi il caso delle «glorie rosse» di Modena: il mito della Ferrari, ammaccato dai trambusti societari, e l’incrollabile fiducia nella sinistra (qui, come in Corea del Nord, c’è un solo partito al governo dal 1945) incrinata dall’inchiesta su Matteo Richetti e Stefano Bonaccini, anime modenesi del Pd. E poiché la gloria si misura non nell’apparenza ma nella durata, dovremo aspettare per vedere se per il Sassuolo e il suo bomber, Zaza, sarà gloria o vanagloria. Non paia spregio citare un calciatore tra i filosofi! Per Ellis Cashmoere — docente alla Staffordshire University (oggi a Modena alle 11.30), autore di una monografia su David Beckham (2004) e ribattezzato dal «Sun» l’inventore dei «Beckham studies» — sono loro i feticci con cui fare i conti: «Perché la gente va pazza per loro anche se non sanno fare nulla?». Perché «suscitano gradevolezza e possiamo interagire con loro nell’immaginario, mentre ciò non accade con i personaggi storici. Inoltre, al contrario di un filosofo, sono mercificabili». La celebrità è il volto in malafede della gloria. Come il politologo (e deputato pd) Carlo Galli ha spiegato, la gloria è fatta di tre elementi: eccellenza di un’opera, comunicazione e durata. Di questi tre, lo star system amplifica il secondo senza avere il primo. Chiaro ed evidente, avrebbe detto Cartesio, sono fuffa. Ma una domanda sorge spontanea: se questo mettersi in piazza di starlette e calciatori è fuffa e i contatti sui social vanagloria (finalmente c’è chi lo dice), perché i filosofi, anziché cadere in un pozzo mentre guardano il cielo come Talete, sono in piazza per parlare a centinaia di persone, con diretta streaming, giornali, manifesti e compagnia bella? Ha dato una onesta risposta Gernot Böhme (oggi a Carpi alle 11.30), direttore dell’Istituto di filosofia della Prassi di Darmstadt. «Anche per un filosofo oggi è più importante mettersi in scena che produrre opere. Oggi un filosofo si rivolge a tutto il pubblico e non a una élite ristretta come nel Settecento. E così è diverso il tipo di medium usato: dal solo libro alla tv e Internet». Dunque, anche lui, anziché stare seduto davanti a un camino a pensare… «Martin Heidegger fu il primo e più abile a pubblicizzare il proprio pensiero attraverso la radio. Viviamo nell’età di una economia estetica nella quale le merci stabiliscono il nostro posizionamento nella società. E questo vale non solo per gli oggetti, ma anche per il pensiero: dimostrare di aver letto un filosofo diventa strumento per affermare il proprio status». Era la tesi di Pierre Bourdieu: la distinzione sociale sta nel gusto. «Oggi il filosofo si pone il problema di creare una immagine pubblica e raccordarla al suo essere, rischiando di incrinare la relazione di autenticità». Non è una buona cosa, insomma. «È ambivalente — conclude Böhme — ma bisogna considerare che oggi il filosofo non è di certo il professore di filosofia. Questo non è un filosofo, perché non traduce il pensiero in pratica di vita». Così si potrebbe reinterpretare uno dei più celebri adagi della filosofia, l’aristotelico, poi di Spinoza, Hobbes e altri, «Primum vivere, deinde philosophari». Del resto Hobbes detestava la gloria: quando non ci sono carestie o guerre, è la vanagloria a disturbare l’agire dell’uomo, diceva.
Corriere 13.9.14
Grossman, indigesto a Putin
Un autore scomodo per il nazionalismo che riabilita Stalin
di Tommaso Piffer
A mezzo secolo dalla scomparsa, lo scrittore russo Vasilij Grossman, morto il 14 settembre 1964, non è più un autore vietato nel suo Paese, ma resta per molti versi uno straniero in patria. Non a caso è a firma italiana il convegno internazionale organizzato a Mosca dal Centro studi Vasilij Grossman di Torino, che sta completando la catalogazione e la digitalizzazione di tutte le sue opere e della letteratura secondaria in italiano, inglese e russo.
Il romanzo principale di Grossman, Vita e destino (edito in Italia da Adelphi), resta un insuperabile affresco della vita in Unione Sovietica durante la Seconda guerra mondiale, ma anche di alcuni snodi fondamentali del XX secolo. Grossman tratteggia la comune furia ideologica di nazismo e comunismo, che nel romanzo emerge in un celebre dialogo tra il guardiano di un lager tedesco e un prigioniero, commissario dell’Armata rossa. O il dramma dell’individuo davanti al potere, che si presenta con il suo volto repressivo o con la «forza ipnotica di idee grandiose». Ma anche l’irriducibilità dell’uomo, che in ogni situazione può mantenere la sua dignità. Nelle pagine di Vita e destino , completato nel 1960, Grossman mette in scena innanzitutto il suo dramma di autore che, come i suoi personaggi, cooperò a lungo con il regime fino a quando, dopo la morte di Stalin, scrisse il romanzo che lo metteva in rotta di collisione con i vertici comunisti. Il dattiloscritto fu sequestrato dal Kgb e Grossman morì pochi anni dopo. Il volume, edito nel frattempo all’estero, uscì in Urss solo nel 1988.
Oggi in Russia il suo posto tra i grandi della letteratura resta controverso: «Dopo il crollo dell’ideologia socialista — spiega Irina Sherbakova della Fondazione Memorial di Mosca — Putin è impegnato nella costruzione di una nuova identità nazionalista, che passa attraverso la strumentalizzazione della vittoria contro il nazismo per riabilitare il mito di Stalin e della grande guerra patriottica». Ma Vita e destino è irriducibile a questa narrazione. «Lo Stalin di Grossman è un tiranno che usò la vittoria per estendere ancor più la sua dittatura su altre nazioni e sulla Russia stessa». Nel romanzo, la guerra e il Gulag sono «facce diverse di una sola tragedia» per il popolo russo, che paga un prezzo di sangue altissimo solo per ritrovarsi ancora sotto il giogo di un regime non poi così diverso da quello contro cui aveva combattuto. C’è infine il tema dell’antisemitismo (la madre di Grossman, che era ebreo, fu uccisa dai nazisti durante la Shoah) con cui la società russa fatica ancora a fare i conti.
Però oggi di Grossman si può parlare liberamente e i suoi libri si trovano in tutte le librerie di Mosca. «Nella Russia di Putin — spiega Sherbakova — Grossman non è certo censurato, si possono pubblicare libri e fare convegni. C’è un grande interesse per questo autore: Vita e destino è stato addirittura inserito tra le letture consigliate nelle scuole. Ma non è questo il punto. In un certo senso il governo oggi non ha più bisogno di censurare: a differenza di quanto accadeva fino a qualche decennio fa, non è la letteratura il veicolo principale attraverso il quale si forma la consapevolezza del popolo, e la gente ha smesso di riversarsi nelle città solo per andare a teatro come faceva un tempo. L’impatto del romanzo sarebbe stato molto più dirompente se fosse stato pubblicato, anche in forma clandestina, negli anni Sessanta. Oggi la mentalità comune la fa la televisione, che è completamente controllata dal governo».
Nel 2013 il primo canale della tv russa ha trasmesso un adattamento in dodici puntate di Vita e Destino . È stato un enorme successo, ma chi conosceva il libro è rimasto con l’amaro in bocca: ogni accenno ai campi di concentramento tedeschi e russi era sparito, lasciando spazio solo alle vicende della guerra e dell’assedio di Stalingrado. Grossman, che tanto aveva amato il popolo russo, a fianco del quale aveva combattuto come corrispondente di guerra, resta così un personaggio scomodo, lucida testimonianza di una indomabile fede nella libertà dell’individuo. In una lettera a Maksim Gorkij, lamentandosi perché uno dei suoi primi romanzi era stato bollato come «controrivoluzionario», scrisse: «Ho scritto quello che ho visto… Forse è una verità cruda. Ma la verità non può mai essere controrivoluzionaria».
Repubblica 13.9.14
Olindo e Rosa otto anni dopo tutti i misteri dei mostri perfetti
Riconosciuti da un vicino e rei confessi della strage di Erba dove persero la vita
persone
Sono stati condannati all’ergastolo eppure nelle indagini tante cose non tornano: dall’arma del delitto che non è mai stata trovata ai 243 buchi nella ricostruzione di quanto è accaduto quella sera, tra “non ricordo” ed errori
di Carlo Verdelli
ERBA (COMO) “MEGLIO l’erba dei vicini dei vicini di Erba”. Cioè, Rosa e Olindo, basta il nome. Oltre al doppio ergastolo, cementato da tre gradi di giudizio; oltre all’iscrizione perpetua tra i mostri della porta accanto; oltre ad essere diventati una specie di marchio d’infamia per etichettare coppie odiabili, Rosa e Olindo sono stati anche lapidati dal sarcasmo popolare. Niente conta che abbiano più volte ritrattato le loro confessioni, attribuendole alle pressioni ricevute in quei giorni funesti. Otto anni dopo la mattanza, resta la scia malata di un ricordo inumano, e una foto incompatibile: Olindo che a un processo, dietro le sbarre, dice qualcosa teneramente a Rosa e lei che ride come una bambina felice.
Sulla pietra tombale calata su questi sventurati, si è da poco aperta una breccia. Fine dell’isolamento diurno, che tra una cosa e l’altra (pena accessoria, più la necessità di proteggerli dagli altri detenuti, vista l’infamità del crimine) durava da quando la coppia più schifata d’Italia è entrata in un carcere, 8 gennaio 2007, per non uscirne più. Oggi stanno in due prigioni del milanese, lei a Bollate, lui a Opera, si vedono tre venerdì al mese per due ore, che passano tenendosi la mano.
Olindo Romano, 52 anni, nome ereditato da uno zio alpino scomparso in Russia nel 1943, è più che ingrassato (ha toccato i 119 chili per un metro e 66), cura un orto da caserma ingentilito da una pianta di rose, si tormenta perché gli sta scadendo la patente, come se davvero un giorno potesse tornare a guidare il suo Eurocargo della spazzatura. Dicono che «non è più in sagoma», che si fissa sulle cose, che è convinto che prima o poi il signor Frigerio, cioè il testimone che l’ha inchiodato, si ricorderà meglio e lo scagionerà. E poi pensa incessantemente a Rosa, la sua metà, e non è un modo di dire: non ci fosse ancora lei, argine al suicidio, non ci sarebbe più lui. Una simbiosi quasi patologica che include loro e esclude il resto.
Rosa Bazzi, 51 anni, mancina (particolare non secondario, visto che alcune delle vittime riportano ferite inferte da una mano sinistra), petulante, bisbetica, con una ossessione per l’ordine tanto apprezzata dalle signore erbesi che serviva a ore, si è adattata al carcere meglio del marito. Non legge niente e non risponde alle lettere, come invece fa lui, perché non sa leggere né scrivere, nonostante una remota licenza elementare. In compenso frequenta la sartoria, dove ha cucito un paio di tendine per la cella di Olindo, che resta la sua preoccupazione centrale. Lei, leader della coppia? Di sicuro è Rosa che con le sfuriate e gli insulti (per altro ricambiati) a Raffaella Castagna e al marito Azouz Marzouk ha cominciato a scavare l’abisso dove sono poi precipitate tante vite, compresa la sua.
L’abisso si spalanca lunedì 11 dicembre 2006. Verso le otto di sera, Rosa e Olindo lasciano la loro casetta a pianoterra, scala B, di una ex cascina ristrutturata, venti famiglie affacciate su un cortile chiuso. Hanno un progetto, che poi Olindo spiegherà così: «Non volevamo ammazzarli, solo riempirli di botte». Fanno una quindicina di metri a sinistra verso il portone accanto, salgono a viso scoperto un piano di scale e in una ventina di minuti sterminano con una sbarra di ferro e due coltelli quattro persone, quasi cinque. Nell’ordine di esecuzione: Raffaella Castagna, 31 anni, figlia inquieta di una delle famiglie bene della città; Paola Galli, 57 anni, madre di Raffaella e nonna di Youssef, 2 anni e tre mesi, trafitto sul divano della sala con due colpi alla gola. Dopo aver appiccato un incendio nelle due camere da letto, i killer trovano sul pianerottolo i coniugi Frigerio, richiamati dal fumo. Li fanno fuori entrambi, solo che lui si salva grazie a una malformazione alla carotide, lei invece, Valeria Cherubini, 55 anni, finisce straziata, con il suo cagnolino Martina asfissiato ai suoi piedi. In tutto, una sessantina di colpi, tra coltellate e sprangate, con schizzi di sangue che arrivano fino al metro e sessanta.
Completata la spedizione punitiva, siamo intorno alle 20 e 25, mentre la corte di via Diaz 25 si riempie di pompieri, ambulanze, curiosi, Rosa e Olindo tornano nella loro tana (per raggiungerla devono percorrere a ritroso quei 15 metri allo scoperto, ma nessuno li vede), stipano armi e vestiti insanguinati in tre sacchi neri della pattumiera, li infilano (sempre non visti) sulla loro Seat Arosa grigia, scaricano i sacchi in tre diversi cassonetti e poi vanno a mangiare gamberi e bacon a un McDonald’s di Como. Otto euro e 25 il conto. Timbro dello scontrino: 21.37, un’ora e qualcosa dopo l’ultimo omicidio. Anche se parecchio stretti (mezz’ora di auto, 10 minuti per attraversare la zona pedonale di Como, più il tempo minimo per la cena), gli orari potrebbero forse tornare. O forse no. Nell’incertezza, inquirenti e giurie passano oltre, come su altre incongruenze, dalla sparizione delle armi usate per i delitti al fatto che i Ris di Parma non trovano tracce di Rosa e Olindo né nell’appartamento della strage né sui corpi o tra le unghie delle vittime (qualcuna di loro, Raffaella per esempio, che era una donna piuttosto imponente, deve aver sicuramente lottato prima di soccombere) e nemmeno nella casa degli assassini; in compenso, dalla Castagna, rilevano impronte non appartenenti ad alcuna delle persone presenti sulla scena del crimine, impronte che però non vengono esaminate e quindi restano “non attribuibili”. Persino il luogotenente Luciano Gallorini, capo di lungo corso dei carabinieri di Erba, ha un momento di incertezza. Il primo giorno in carcere, Rosa nega tutto davanti a tutti. Poi chiede di lui, gli si butta tra le braccia e singhiozzando implora: mi aiuti, mi aiuti! «Me lo chiese con così tanta passione», dirà Gallorini, «che per un attimo ho pensato: magari stiamo sbagliando». Un attimo fuggente.
«La più atroce impresa criminale della storia della Repubblica», secondo il pubblico ministero Massimo Astori. A commetterla, sempre secondo Astori, oltre a tre Corti della Repubblica, un netturbino corpulento e una minuscola domestica. Sintesi ancora di Astori: «Quei due sono molto più di una coppia. Sono un quadrupede». Movente dello scatenarsi del quadrupede: sei anni di liti da ballatoio, con i Romano sempre più intolleranti verso la famiglia di sopra, composta da Raffaella, Azouz, il figlio Youssef, più gli amici, stranieri e no, spacciatori di droga e no, che andavano e venivano a tutte le ore. Troppo chiasso, troppo disordine, troppo. Esasperati, Rosa e Olindo hanno fatto pulizia, che è in fondo il mestiere di entrambi, sperando poi di farla franca con la storia del Mc-Donald’s. Ma il signor Frigerio, quando si è ripreso dal trauma, li ha riconosciuti, prima lui poi anche lei, loro hanno confessato e in 28 giorni il caso si è chiuso. Il 10 gennaio 2007, dalla ricca e devota Erba, gioiello della Brianza alta tra Milano e Como, 7 parrocchie per 17 mila abitanti e 23 sportelli bancari (il doppio della media nazionale), si leva un sospiro di sollievo che si estende come un’eco all’intero Paese. Poi, rapidamente, si fa largo un altro sentimento, almeno tra gli erbesi: il disgusto per la vicenda che ha sporcato la reputazione della città. Quando pochi mesi dopo la tragedia, Pino Corrias va lì a presentare il suo documentato e dolente libro-inchiesta “Vicini da morire” (Mondadori, ottobre 2007), a differenza che in molte altre piazze, trova ad accoglierlo una sala vuota.
«Io vengo da Reggio Calabria e là c’è omertà perché la gente ha paura. Qui lo stesquattro so, ma perché non vuole fastidi». Fabio Schembri, 47 anni, avvocato (senza cravatta, capellone, gran fumatore), è una mosca bianca e forse avventata. Si aggira tra via Diaz e la vicina piazza Mercato, da dove secondo lui potrebbero essere passati i veri killer, con una frustrazione che il tempo non attenua. Insieme alla collega Luisa Bordeaux, è tra i pochissimi ad essere convinti che Rosa e Olindo siano innocenti. «Erano i tonti del villaggio, non avrebbero avuto né la testa né la forza per combinare quel disastro. Il problema è che le altre piste possibili sono state archiviate in fretta, neanche battute in verità, una voragine investigativa. Ma un colpevole bisognava trovarlo. E quei poveri cristi, senza parenti né amici, indifesi e indifendibili, erano perfetti. Pensi che il giorno dell’arresto è Olindo che telefona ai carabinieri perché la corte è piena di giornalisti e lui teme che possano danneggiargli il camper parcheggiato davanti alla lavanderia, e Rosa chiama la signora dove doveva andare a servizio profondendosi in scuse perché era costretta a saltare l’impegno. I carabinieri, che già li stavano andando a prelevare, li scaricano davanti al Bassone di Como. Olindo li guarda stupito: in carcere? Io e la Rosa? Ma perché? Risposta: buona fortuna».
Schembri è il secondo avvocato di Rosa e Olindo, quello che li ha accompagnati in tutti i processi, perdendoli. Gratis, comunque, visto che il poco che i due avevano, compresa la casa valutata 70 mila euro, è stato venduto per risarcire le parti civili. Quanto al primo avvocato (assegnato d’ufficio), Pietro Troiano, dura sei mesi, punta sulla perizia psichiatrica e sul rito abbreviato «data la sovrabbondanza di prove». La prima non la otterrà, né lui né il suo successore, ed è abbastanza sconcertante, visto il caso. Il secondo nemmeno, perché nel frattempo i suoi assistiti cominciano a maturare il sospetto di essere stati incastrati e cambiano strategia. Ma incastrati da chi?
Anche se è un calcolo senza senso, le persone che nell’inferno brianzolo hanno perso di più sono Carlo Castagna (figlia, moglie, nipotino) e Azouz (moglie e figlio). Due uomini agli antipodi. Il primo, 70 anni, è un mobiliere superlativo in tutto: soldi, fede, filantropia. Vox populi: a Erba non si muove foglia che il signor Carlo non voglia. Sposato dal 1968 con Paola, donna altrettanto perfetta e pia, hanno tre figli, due maschi (Pietro e Giuseppe) di 44 e 40 anni, impegnati a seguire le orme di tanto padre, e la più piccola, Raffaella, «una che vuole salvare il mondo», frequenta centri sociali e immigrati, diventa amica di «quelli che vendono le zebre al mercato». A 23 anni esce di casa, papà gli compra la casa di via Diaz, poi le cose si complicano quando non solo si innamora di Azouz, un tunisino che vive ai margini della legalità e oltre, ma lo sposa pure e ci fa un figlio, nato il 6 settembre 2004. È Youssef, così descritto dallo zio Pietro nel libro di Corrias: «Era una specie di cartone animato, bellissimo, allegro». Un piccolo ponte fragile, destinato magari nel tempo a sanare la rottura tra l’erede ribelle e la parte maschile dei Castagna, rottura che invece di rimarginarsi si dilata: Azouz spesso picchia e maltratta Raffaella, finisce anche in carcere per spaccio di droga (sconta solo 16 mesi grazie a un indulto) ma lei annuncia lo stesso alla famiglia che vuole trasferirsi presto in Tunisia, e con la parte di patrimonio che le spetta. Nel periodo della strage, il ponte prova comunque a farlo nonna Paola, che prende il nipotino quando la figlia è al lavoro (un part time pomeridiano in una casa per anziani disabili a Magreglio), gli prepara la cena, poi lo riporta a sera dalla figlia. Così anche “quella” sera, solo che stranamente Paola lascia a casa borsetta e telefonino, guida in ciabatte e dimentica la porta della Lancia K aperta nel cortile di via Diaz. Dove sta correndo? Il marito di Raffaella ne ha combinata un’altra?
Azouz Marzouk ha 26 anni all’epoca. Viene da una buona famiglia tunisina di Zaghouan, 30 chilometri dal mare di Hammamet. Emigra sognando la Germania, finisce in Brianza dove già sta il fratello Salem, che gli somiglia come un gemello. Incontra i giri della droga e Raffaella, non separandoli. Visto il tipo, i precedenti penali, la risaputa violenza di lui verso la moglie, il procuratore capo di Como Alessandro Mario Lodolini, a botta calda, annuncia: «Sospettiamo che l’autore dei delitti sia il marito». Peccato che “il marito” sia da una settimana in Tunisia dai genitori. Una partenza disastrosa delle indagini che metterà ansia e fretta a chi investiga.
Si ipotizzano tre piste: rapina, vendetta trasversale nel mondo dello spaccio, faida familiare. Muoiono tutte sul nascere quando Carlo Castagna, dopo aver commosso l’Italia ai funerali («Perdono chi ha ucciso, lo devo a Dio e ai miei morti»), butta lì al luogotenente Gallorini il nome di Olindo: «La sera del fatto ebbi modo di vederlo tra la gente e da allora ho un cruccio che mi fa pensare a lui». Il cruccio diventa molto più pesante quando Mario Frigerio, oggi settantenne, ripete quel nome: Olindo. In realtà non ci arriva subito. Appena si riprende in ospedale, il 15 dicembre, dice di non conoscere chi l’ha colpito e fornisce un identikit che porta altrove: tanti capelli corti neri, occhi scuri, carnagione olivastra (Olindo ha pochi capelli radi, occhi verdi, pelle bianco latte). Dieci giorni dopo, però, la memoria cambia: «È stato un vicino, l’Olindo. Non volevo crederci ma adesso mi è chiaro». Fatalità vuole che proprio lo stesso giorno, il 26 dicembre, venga rinvenuta una macchiolina sul predellino della Seat dei Romano: il dna è di Valeria Cherubini. Con tutto il sangue colato in cortile dopo i getti d’acqua dei pompieri, e con tutto il sangue che gli assassini, per quanto “ripuliti”, devono essersi portati in auto, sembra persino poco che sia resistita solo quella traccia. Comunque, solo quella. A chiusura del cerchio, nel febbraio 2008, quando si sta istruendo a Como il processo di primo grado, sempre Frigerio aggiungerà di aver visto, quella sera, «una seconda persona, una donna, quasi sicuramente Rosa Bazzi». Nel maggio 2011, pur confermando gli ergastoli, la Cassazione alza un sopracciglio su queste parole, definendole «oggettivamente vischiose», e più in generale sull’intera inchiesta: «Numerosi sono i dubbi e le aporie che si addensano sul caso». A spazzarli via tutti, dovrebbe bastare, ed è bastata in giudizio, la doppia confessione del “quadrupede” Romano, datata 10 gennaio, 2 giorni dopo l’arresto, un mese dalla strage. Ma anche lì qualcosa stona. Il prima, innanzitutto. Olindo ha appena avanzato alle autorità che l’attorniano richieste insensate: una cella matrimoniale, poi la scarcerazione di Rosa, quindi il suo breve trasferimento in un ospedale psichiatrico, quindi tutti a casa. Il tragico è che deve aver ricevuto qualche tipo di rassicurazione.
Olindo: «Ciccia, ho parlato col magistrato. Mi ha detto che se vogliamo fare finire questa storia qui… Di dire la verità».
Rosa: «Ma non c’è niente da dire, niente. Olli, hanno fatto tutto loro».
Olindo: «Loro mi hanno spiegato un po’ la situazione in termini pratici...».
Rosa: «Olli, non siamo stati noi».
Olindo: «Lo so, aspetta, è per tagliare le gambe al toro. Io becco le attenuanti e finisce tutta la storia».
E così Olli taglia il toro. A modo suo, con una ricostruzione che contiene 243 buchi, tra «non ricordo», errori nel posizionamento delle vittime, nel numero dei colpi, assenze sui punti più insopportabili («Perché il bambino? Non lo so»). A rileggerla per intero, o siamo davanti a un attore formidabile, e quindi l’ergastolo è ancora poco, oppure un po’ di aporia postuma è giustificabile. Ne è venuta anche ad Azouz, che intanto si è risposato con una ragazza di Lecco, con cui ha avuto una bambina, e vive da espulso in Tunisia: «Prima pensavo diverso ma mi sono convinto che Rosa e Olindo stanno solo pagando per la loro ingenuità. Prego il signor Frigerio di dire la verità». Quale altra verità, per esempio? Il sostituto procuratore di Como Massimo Astori, che all’epoca condusse indagini e accusa, è serenissimo: «Mai avuto un’incertezza. Una tribù ha invaso lo spazio di un’altra, che ha reagito con una vendetta primordiale, conclusa col fuoco. L’unico rammarico è di non aver fatto filmare la Bazzi mentre raccontava come ha sgozzato il bambino, il gesto che ha fatto. Mi creda, da brividi».
Comprensibilmente, l’avvocato Schembri immagina una scena diversa, che però non è andata in aula. Qualcuno toglie la luce alla casa di Raffaella verso le 18. Una coppia di siriani che abita sotto di lei, sente dei passi leggeri dalle 18.30 alle 20. Se così fosse, essendo la serratura intatta, vuol dire che chi è entrato dalla signora Castagna aveva le chiavi, ha frugato per cercare qualcosa e poi nel buio ha aspettato il suo rientro. Intorno alle 20, i siriani avvertono un altro sonoro: mobili spostati, urla, lamenti. Sei-sette minuti e di nuovo tace tutto. Poi il fumo dell’incendio, il chiasso sul pianerottolo, che coincide con l’assalto ai Frigerio. Intanto, dall’esterno, l’abitante di un palazzo di via Diaz affacciato alla finestra e un algerino che sta in Piazza Mercato notano la stessa cosa: due extracomunitari fermi tra la via e la piazza, raggiunti a incendio in corso da un uomo con il cappotto lungo fino alle ginocchia e una berretta scura. All’algerino sembra di riconoscerlo, forse è italiano, certo non l’Olindo, ma al momento del processo non si presenta a dirlo. Era in carcere per droga a Modena, ma nessuno l’ha cercato e quindi è risultato irreperibile. E poi, francamente, la credibilità di uno spacciatore non è altissima.
Su tutta la vicenda pende da due anni un ricorso alla Corte di Strasburgo e, a breve, una richiesta di revisione a Brescia. Intanto Olindo Romano, nella sua cella di Opera, ha studiato una dama rivoluzionaria dove si gioca in tre o anche in quattro. Improbabile, anzi impossibile, come il sì di Strasburgo o di Brescia. Ma per la metà di un “quadrupede”, abituato a pensare sempre e solo per due, un indiscutibile passo avanti.
Repubblica 13.9.14
Un secolo fa nasceva lo scrittore: il racconto di un suo ex allievo
Bioy Casares quanta magia all’ombra di Borges
di Alberto Manguel
L’incontro tra i due grandi autori argentini avvenne nel 1932: il giovane Adolfo citò dei libri scadenti
Insieme redassero le “Cose da evitare in letteratura” un elenco straordinario di invenzioni e personaggi
L’ADOLESCENZA è spesso l’età degli incontri che cambiano la vita. Conobbi Bioy (i suoi vecchi amici lo chiamavano Adolfito, i conoscenti Bioy) più o meno alla stessa età in cui Bioy aveva conosciuto Borges. Nel 1932, quando Bioy aveva solo diciassette anni, Victoria Ocampo lo presentò a Borges, che a trentaquattro anni era già un nome importante nella letteratura argentina. Borges, per il quale le passioni letterarie sostituivano senza problemi l’amicizia, chiese al giovane autore chi fossero i suoi scrittori preferiti. Il ragazzo sparò senza pensarci i nomi di due romanzieri spagnoli molto ammodo, e poi menzionò James Joyce. Borges non rimase sorpreso.
Più tardi disse che solo negli scrittori consacrati alla musica delle parole i giovani trovano letteratura in quantità sufficiente, e aggiunse che l’attrazione per Joyce risiede forse «nell’intenzione, nell’atto di fede, nella promessa che contrassegna l’opera di Joyce, la promessa che lo ameranno».
Da questa conversazione nacque una relazione letteraria lunga e fruttuosa: Borges e il ragazzo che sarebbe diventato il romanziere Adolfo Bioy Casares continuarono a discutere di libri per i successivi 54 anni, fino alla morte di Borges. Insieme collezionarono antologie, curarono una prestigiosa serie di romanzi gialli intitolata El séptimo círculo (Il settimo cerchio ), in onore di Dante Alighieri, scrissero racconti e sceneggiature cinematografiche e condivisero quella che Bioy amava chiamare «l’altra avventura» (non riusciva più a ricordarsi quale fosse la prima). Il ragazzo dai gusti letterari pacchiani finì per scrivere — in parte grazie all’influenza di Borges, ma in larga misura grazie al proprio genio — alcune delle opere di narrativa più belle di questo secolo, fra cui un romanzo che lo stesso Borges definì «perfetto», L’invenzione di Morel , pubblicato nel 1941.
Il sogno degli eroi , pubblicato tredici anni dopo, è l’archetipo del romanzo di Bioy Casares. La trama è semplice: a Buenos Aires, nel 1927, l’ultima sera di carnevale, un uomo qualunque, Emilio Gauna, ha un’esperienza che rappresenta l’apice della sua esistenza. Eppure, appena poche ore dopo, non riesce a ricordare di cosa si trattasse. Alla fine, durante un altro carnevale, l’uomo decide di rieseguire gli eventi che lo avevano portato a quella rivelazione dimenticata. Il risultato, sbalorditivo quanto inevitabile, non è importante quanto la meticolosa ricerca per ritrovare il ricordo rubato. In questa ricerca compaiono gran parte degli argomenti ricorrenti nella letteratura di Bioy: le traversie dell’amicizia, della vecchiaia, della giovinezza e gli inferni intimi dell’ipocrisia, del tradimento e della stupidità. Soprattutto, l’impervio apprendimento dell’amore, che Octavio Paz identificava come il grande tema di Bioy: «Il corpo è immaginario e noi ubbidiamo ai capricci di un fantasma. L’amore è una percezione privilegiata, la più lucida e completa, non solo dell’irrealtà del mondo, ma anche della nostra. Corriamo dietro alle ombre, ma siamo ombre anche noi». Bioy non ispira questa corsa dietro alle ombre al modello delle indagini sull’amore di Stendhal o di Goethe, ma ai racconti di pirati di Robert Louis Stevenson e alle storie d’amore fantastiche di H. G. Wells. Per Bioy, questa duplicazione delle ombre, questa ricerca dell’intangibile, non è un’occupazione astratta, non è una garbata riflessione in un caffè, ma qualcosa di arduo, spasmodico, quasi fisico. La conoscenza dell’amore, la comprensione degli strazi e delle frustrazioni del desiderio spingono gli uomini e le donne di Bioy a viaggi tempestosi, terrificanti e ridicoli, compassionevoli e perfino egoistici.
Bioy ha imparato da Borges a guardarsi dalle facili tentazioni letterarie. I due amici spesso giocavano a inventare storie, e una di queste invenzioni (che non è mai stata completata) parlava di un giovane appassionato di letteratura che scava a fondo nell’opera di uno scrittore più anziano. Quest’uomo venerabile, prima della sua morte, aveva fama di aver raggiunto una ricercatezza senza pari e la perfezione stilistica. Il giovane aspirante scrittore si reca nell’abitazione della celebrità, e tra le sue carte trova un curioso elenco di «Cose da evitare in letteratura». Ecco il suo contenuto: curiosità psicologiche e paradossi: omicidi per premura, suicidi per appagamento; interpretazioni sorprendenti di certi libri e personaggi: la misoginia di Don Giovanni ecc.; coprotagonisti troppo palesemente dissimili: Don Chisciotte e Sancio, Sherlock Holmes e Watson; romanzi con coprotagonisti identici, come Bouvard e Pécuchet. Se l’autore inventa una caratteristica per uno, è costretto a inventare una caratteristica equivalente per l’altro; personaggi descritti attraverso le loro peculiarità, come in Dickens; qualsiasi cosa di nuovo o sbalorditivo, i lettori civilizzati sono infastiditi dalla scortesia di una sorpresa; giochi oziosi con il tempo e lo spazio: Faulkner, Borges, ecc.; scoprire in un romanzo che il vero protagonista è la prateria, la giungla, il mare, la pioggia, il mercato azionario; poesie, situazioni, personaggi, con cui il lettore potrebbe — Dio ce ne scampi! — identificarsi; frasi che potrebbero diventare proverbi o citazioni: sono incompatibili con un libro coerente; personaggi che si prestano a diventare miti; enumerazioni caotiche; un vocabolario ricco, sinonimi, le mot juste, qualsiasi sforzo di precisione; descrizioni vivide, parole ricche di dettagli fisici, come in Faulkner; contesto, ambiente, atmosfera. Calore tropicale, ubriachezza, la voce alla radio, frasi ripetute come un ritornello; incipit e finali meteorologici, attribuzione di sentimenti alle cose inanimate; qualsiasi metafora, in particolare le metafore visive, ancora più in particolare, le metafore prese da agricoltura, nautica, banche, come in Proust; l’antropomorfismo; libri che stabiliscono un parallelo con altri libri, L’Ulisse di Joyce e l’ Odissea; libri che fingono di essere menù, album di fotografie, cartine stradali, programmi di concerti; qualunque cosa che possa ispirare illustrazioni, qualunque cosa che possa ispirare un film; l’estraneo: scene domestiche in un romanzo giallo, scene drammatiche in un dialogo filosofico; l’atteso, scene di pathos e scene erotiche in una storia d’amore, enigmi e crimini in un romanzo giallo, fantasmi in una storia soprannaturale; vanità, modestia, pederastia, niente pederastia, suicidio. Alla fine di tutte queste richieste del lettore, naturalmente, c’è l’assenza di qualsiasi letteratura.
Le relazioni letterarie sono come i matrimoni, sempre ingiusti verso uno dei partner. La fama meritata di Borges ha oscurato i successi di Bioy. I critici, sentendosi in dovere di assegnare stelle di qualità agli scrittori, hanno scelto di vedere Bioy semplicemente come uno dei discepoli di Borges, per poi rimproverargli di non essere brillante quanto il maestro. Naturalmente è un giudizio molto ingiusto nei confronti di Bioy, che non ha mai cercato di essere nient’altro che Bioy. In questo ha senz’altro avuto successo: i romanzi e i racconti di Bioy sono avventure straordinarie, raccontate con una voce sottile, interessante e saggia, una voce riconoscibile anche nelle sue opere più leggere, come il Diccionario del argentino exquisito, e i saggi di La otra aventura, ma soprattutto nei suoi memorabili romanzi, L’invenzione di Morel e Il sogno degli eroi senza dubbio, e anche Piano di evasione, Dormire al sole, L’avventura di un fotografo a La Plata .
Adolfo Bioy Casares dopodomani avrebbe compiuto cento anni.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 13.9.14
Mezzo e messaggio quei cortocircuiti al tempo delle mail
Una riflessione su quanto il modo di comunicare influenzi il contenuto della comunicazione
Da McLuhan a oggi
di Umberto Eco
Il testo di Umberto Eco è un capitolo dell’intervento tenuto ieri a Camogli, al Festival della Comunicazione e intitolato “Comunicazione: soft e hard”. Fra gli ospiti del festival (che si chiude domani), Augias, Bartezzaghi, Calabresi, Deaglio, Freccero, Lerner, Gubitosi, Ottone, Rampini, Settis
COMUNICAZIONE è una parola di cui tutti credono di conoscere il significato e viene usata nelle circostanze più diverse… Per esempio, sin da tempi immemorabili, si è parlato di vie di comunicazione, come le strade romane, e di mezzi di comunicazione per quelli che si chiamano anche mezzi di trasporto, come i carri, le navi, i treni e gli aerei. Pensate alla sorpresa del turista che ad Atene vede grandi automezzi con sopra scritto metaphora. Dapprima si ammira la grandezza umanistica di quel popolo, poi ci si accorge che si tratta di automezzi che si occupano di traslochi: E infatti trasporto è stato chiamato nel mondo classico l’artificio metaforico che traspone il significato di un termine letterale a un termine figurato. Quindi si ha trasporto quando trasferisco una mia idea nella mente di qualcun altro e trasporto quando si trasferisce un pacco postale da Milano e Roma.
Si tratta soltanto di una semplice omonimia? Torniamo indietro alle prime teorie della comunicazione che potremmo riassumere come passaggio di messaggio da un emittente al destinatario lungo un canale, sulla base di un codice comune. In effetti il modello funzionava benissimo per la comunicazione di messaggi molto elementari come quelli in Morse — che possono essere decodificati e trascritti anche da un apparato meccanico. La teoria considerava anche il canale attraverso il quale passava il messaggio (come aria, fili elettrici o onde hertziane) ma il canale era una componente puramente meccanica che non incideva sulla natura dei messaggi, salvo casi accidentali di rumore… Oltre a varie altre complicazioni del modello iniziale, una rivoluzione è avvenuta all’inizio degli anni sessanta con la focalizzazione del problema del canale. Nel modello comunicativo elementare il canale era come un tubo attraverso il quale passava informazione. Era neutro. È stato McLuhan a concentrare le propria attenzione sul medium, che altro non era che un altro nome per il canale. Con la formula il medium è il messaggio McLuhan ha sostenuto che coi nuovi mezzi elettronici il medium poteva rendere il destinatario talmente dipendente dal canale da rendere irrilevante la natura del messaggio. La posizione di Mc Luhan è stata criticata, osservando che infinite volte l’informazione rimane costante e indipendente dal canale attraverso cui passa. Il 10 giugno 1940 il fatto che l’Italia avesse dichiarato guerra alle potenze alleate rimaneva indiscutibile sia che lo si fosse appreso per radio in diretta dal discorso del Duce sia che lo si fosse letto il giorno dopo su L’Osservatore romano. Ma rimane indiscutibile che la partecipazione emotiva del destinatario e quindi la valutazione dell’evento veniva influenzata dalla natura del medium.
McLuhan, generalizzando, usava dei paradossi, ma qualcosa aveva capito. Pensiamo per esempio alla polemica nata in Italia quando si doveva decidere se passare dalla televisione in bianco e nero a quella a colori. Le preoccupazioni erano allora di carattere economico, ma il risultato è stato di carattere psicologico. La televisione a colori ha dato inizio al riflusso degli anni ottanta, alla perdita d’interesse nei messaggi, e alla pura degustazione delle meraviglie del nuovo mezzo. E pensiamo al dibattito politico che infuria sui nostri teleschermi: tranne casi virtuosi, il pubblico non è interessato a quello che vi si dice, anche perché le voci sovrapponendosi l’una all’altra rendono irrilevante il contenuto delle affermazioni: il vero messaggio è il diverbio, il confronto quasi circense tra gladiatori, non si è conquistati dagli argomenti dei parlanti, ma dalle prodezze dei reziari.
Ho intitolato questo mio intervento agli aspetti soft e hard della comunicazione. Pensiamo che in principio sia hard il canale, la ferraglia, che può essere fatta da un corriere cavallo, da un vagone postale o da onde hertziane. In linea di principio la ferraglia non ha mai interferito con la natura del messaggio. Il messaggio dipendeva invece dal programma e soft era il rapporto tra tenore del messaggio e codice. E quello che caratterizzava la ferraglia era che essa prendeva tempo: di qui le lancinanti attese per una lettera di risposta e i lunghi intervalli comunicativi nel corso dei quali l’emittente si chiedeva se il destinatario avesse ricevuto e come avrebbe risposto, e il destinatario attendeva emozionato la lettera che tardava a venire.
Il rapporto ha iniziato a mutare col telegrafo senza fili, con la radio e con il telefono. Il telegrafo consentiva ricezione e risposta immediata, ma implicava delle istanze mediatrici (l’andata all’ufficio telegrafico, la trascrizione del telegrafista in partenza e la nuova trascrizione in arrivo, oltre ai tempi di consegna del messaggio — salvo ovviamente comunicazioni militari o marittime). La radio e la televisione consentivano una emissione immediata ma non consentivano risposta. Il telefono consentiva rapporti istantanei di azione-reazione tra emittente e destinatario, ma occupava solo parte della nostra giornata, e prendeva tempo se si doveva ricorrere alla mediazione di un centralino. La vera rivoluzione è avvenuta col computer, l’e-mail e i telefonini cellulari. In questi casi il rapporto è temporalmente immediato. Sia nel caso del nerd che passa le notti on line, che in quello dei telefona- tori compulsivi che vediamo camminare per strada parlando a qualcuno, abbiamo un processo domanda- risposta che non prende tempo. In che modo questa modificazione della ferraglia viene a incidere sulla natura del messaggio?
Per il telefonino la situazione è intuitiva ed è stata ampiamente studiata. Tranne casi estremi il drogato del cellulare non parla o risponde per comunicare pensieri o fatti urgenti, ma per mantenere il contatto e quindi per mantenersi in contatto. Di solito parla a vuoto. Questo gli evita la solitudine ma lo relega a un rapporto meramente virtuale in cui la personalità di emittente e destinatario si vanificano sempre più... Altro accade con la e-mail. Mi limiterò a considerare un evento di cui sono stato testimone… Un tale (lo chiameremo Pasquale) ha passato alcuni anni in una azienda, stimato da superiori e colleghi per la sua cortesia e disponibilità. Magari covava delle insoddisfazioni, ma non lo lasciava capire. Pasquale viene inviato all’estero per una missione di fiducia, e si tiene in contatto con i colleghi via e-mail. Un amico gli comunica (via e-mail) che gli è stato fatto un torto: un suo progetto, che aveva lasciato prima di partire, è stato giudicato insufficiente e affidato a un altro che lo ha rifatto. Giusto o meno che fosse, è comprensibile che Pasquale si prenda una grande arrabbiatura.
Quando ci arrabbiamo per una presunta ingiutorto stizia, nel momento dell’ira siamo disposti a dire che chi ci ha fatto il torto è un imbecille, che “quelli” non ci hanno mai capito, che ci hanno fatto passare davanti dei leccapiedi, e ci viene voglia di mandare tutti al diavolo. Poi di solito si lascia sbollire l’ira, si chiede un colloquio (a cui ci si prepara nel corso di alcune notti insonni) e, con tono fermo e dolente, si domandano spiegazioni. Se si è lontani si scrive una lettera, la si rilegge prima di spedirla, la si corregge più volte per ottenere il tono più efficace. Invece Pasquale ha ricevuto la notizia e immediatamente (come gli consentiva la e-mail) ha scritto al responsabile del presunto torto trattandolo da mascalzone, accusandolo di aver concesso favori aziendali in cambio di prestazioni sessuali, e quando quello ha risposto irritato (via e-mail), chiedendogli se era matto, Pasquale ha rincarato la dose, spiegandogli quali menomazioni fisiche gli avrebbe fatto subire se non fosse stato per la distanza geografica. E siccome un messaggio e-mail può essere inviato contemporaneamente a più persone, Pasquale ne ha inviato copia al capo dell’azienda e ad altri colleghi, aggiungendovi altre riflessioni sulla considerazione che egli aveva per quel luogo, da lui fermamente ritenuto non dissimile da una discarica di rifiuti organici. Era un modo originale di dare le dimissioni? Niente affatto, tutti sono convinti che Pasquale desiderasse continuare a lavorare, il subìto (presunto) non era drammatico, forse il suo informatore aveva esagerato. Pasquale si è probabilmente rovinato la carriera. Che cosa gli è successo? Ha ricevuto una notizia inquietante e l’email lo ha incoraggiato a reagire subito, nonché a dare eccessiva pubblicità alla sua reazione. Isolato dal mondo, lui e la sua rabbia, era solo di fronte allo schermo del computer, che aveva eccitato la parte più oscura del suo animo. Il messaggio ricevuto ha mandato in cortocircuito il suo inconscio, senza lasciargli il tempo di consultare il Superego, come di solito accade. La macchina lo metteva in contatto immediato con tutto il mondo, ma gli imponeva le sue regole di accelerazione, facendogli dimenticare che, nel corso dei secoli, il contratto sociale ha imposto tempi diversi di azione e reazione. Il che ci dice come anche la e-mail (invenzione grande almeno quanto i jet intercontinentali) ponga dei nuovi problemi di maillag al contrario, ai quali dobbiamo psicologicamente adattarci.
Ed ecco che possiamo tornare alla sinonimia apparente di cui ho detto all’inizio, quella tra rapporto comunicativo e trasporto: pareva che si trattasse di due fenomeni diversi, ma abbiamo visto come spesso il modo di trasporto del messaggio possa interferire con la natura del messaggio stesso e sulla forma della sua ricezione.
Repubblica 13.9.14
Il Palatino di Roma
Dopo due anni di restauri, fra pochi giorni si aprirà al pubblico gran parte della dimora Era stata chiusa anche per problemi di umidità. Ecco in anteprima come apparirà ai visitatori
Dalla biblioteca alla sala da pranzo la casa di Augusto svela i suoi segreti
di Carlo Alberto Bucci
ROMA La stanza è inondata di rosso: profondo, pompeiano, conturbante. Ci pensa però l’architettura dipinta a dare ordine a tanta passione. E le aperture illusionistiche sfondano la parete per fare entrare nell’intimità della sala da pranzo, o in quella della biblioteca, la natura rigogliosa dell’antica Roma. Sacro e profano si fondono sul Palatino nella sala del triclinio della casa di Livia. E in quella teatrale delle maschere del suo regale congiunto, l’imperatore Augusto.
Da giovedì prossimo gli appartamenti del primo principe di Roma e della sua terza, amatissima, moglie, saranno per la prima volta aperti al pubblico in un’ampiezza mai raggiunta prima. E questo grazie a lavori di restauro e di copertura (un tetto a basso impatto visivo) dell’ala della casa di Augusto fino a pochi mesi fa esposta alle intemperie. Ma anche alla riqualificazione del Museo Palatino che conserva i marmi trasmigrati dalle vicine, splendide dimore.
Era il 2008 quando le due prime case sul colle degli imperatori di Roma vennero riaperte al pubblico. Innanzitutto c’era, certo, la capanna di Romolo, il fondatore di Roma, al quale Augusto volle però associarsi anche come “vicino di casa”. Mettendo il primo mattone di un palazzo in continua espansione. Pochi visitatori alla volta poterono sei anni fa visitare le tre stanze di rappresentanza del tablinum nella casa di Livia e ammirare l’affresco di Mercurio che libera Io e si volge verso Argo. Ma anche, superata una parete, contemplare quei festoni di rigogliosi tralci come fossero un trofeo di natura, proprio come il giardino dipinto per l’imperatrice nella villa fuori porta ( ad gallinas albas) e oggi conservato al Museo nazionale romano di palazzo Massimo, sempre a Roma.
Poco tempo dopo l’apertura del 2008, la casa di Livia sul Palatino fu sigillata di nuovo agli occhi dei visitatori. «Aveva grossi problemi di umidità, ma gli interventi di idraulica ci hanno permesso di sanare gli ambienti. E di riaprire una tale meraviglia al pubblico», spiega Mariarosaria Barbera, l’archeologa che guida la Soprintendenza di Roma e che ha coordinato l’équipe di studiosi, architetti, tecnici che per due anni hanno lavorato al progetto “Bimillenario di Augusto” (morì il 19 agosto del 14 dopo Cristo). Due milioni e mezzo circa di investimenti, sfilati dal bilancio ordinario e autoprodotto della Soprintendenza romana, ed ecco i soldi anche per sfondare una porta e aprire alle visite (20 persone alla volta, per una quarto d’ora al massimo, previa prenotazione) anche la sala del triclinio di Livia. Scavata nell’Ottocento, e per molti decenni abbandonata alle intemperie, la stanza da pranzo dell’imperatrice ha visto i suoi affreschi cadere a terra. Cinquecento i pezzi, enormi e piccolissimi, che i restauratori, guidati da Cinzia Conti, hanno riallestito lungo le pareti. In un puzzle gigantesco dove la punta del “pilastro betilo” dell’affresco con Diana è tornato magicamente in cima a quella sorta di albero della cuccagna che, tra protomi di cinghiale e di cervi, è il trofeo sacro alla dea della caccia. Siamo del resto, ci spiega una restauratrice, nella cosiddetta sala dei paesaggi sacri.
Al santuario di Artemide/Livia rispondeva, sull’altro lato della strada basolata in cima al Palatino, quello di Apollo/Augusto. Ed ecco, infatti, nella sala delle maschere il “pilastro betilo” sacro al dio del Sole. In mezzo alle due auguste dimore di moglie e marito, il tempio di Apollo del quale rimangono oggi solo alcuni puntini sul terreno. La domus, le domus di Augusto, appaiono da oggi completamente trasformate da una copertura che, acciaio color ruggine e un manto di materiale drenante che trasforma il tetto in un giardino, permette ai visitatori di appropriarsi di spazi preclusi fino ad oggi alle visite. Nella parte privata, tutto sommato (e programmaticamente) umile, del palazzo del principe vittorioso nel 31 a. C. ad Azio su Antonio, la natura degli affreschi con festoni di pino viene adesso arricchita da un pappagallo dimenticato e riapparso sotto la coltre di polvere di un vecchio scavo. Ma è la passerella tesa sulla storia dell’ala pubblica del palazzo voluto dal figlio adottivo di Cesare, la vera novità di questa apertura straordinaria organizzata dal ministero Beni culturali. Ecco la prima biblioteca, forse quella greca, e, all’opposto, la sala affrescata della latina. Quindi, il triclinio di Augusto, con gli ambienti di servizio che servivano ai domestici per allestire i pranzi regali. Al centro, magnifica, la sala delle prospettive, mai mostrata prima se non agli studiosi: una sorta di “casa di bambole” su due piani, aperta sul davanti e con le linee che corrono verso un embrionale punto di fuga.
A testimoniare anche lo sfacelo della caduta degli dei, ecco in uno degli ambienti della casa di Augusto un gigantesco frammento della volta, isolato come fosse una scultura modera. E alla scultura contemporanea rimandano i nuovi pannelli di acciaio Corten che, nel tono rosso ruggine, mimano il colore della terra, ma anche evocano il rosso pompeiano degli interni. «C’è un gioco di suggestioni», dice l’architetto Barbara Nazaro, dietro questi tagli nell’acciaio e i cristalli che ricordano le ferite inferte nel muro che divideva il pubblico dal privato nell’ideologia di Augusto. «Il progetto di copertura è frutto di un lunghissimo e condiviso lavoro» spiega la soprintendente Barbera: «La copertura ideale non esiste. La nostra si mimetizza ma lascia comunque un segno. Non si nasconde. Ed è, comunque, reversibile».
Corriere 13.9.14
Le previsioni dell’antropologo Cadell Last, ricercatore del Global Brain Institute
Dal 2050 l’uomo si evolverà: cervello più grande e vivremo fino a 120 anni
Secondo lo studioso faremo meno figli e molto più tardi nella vita, ci saranno protesi anche per migliorare le attività cerebrali
di Massimo Gaggi
qui
La Stampa Medicitalia 13.9.14
I disturbi di personalità
di Massimiliano Iacucci
qui
Repubblica 13.9.14
Parigi
Il Museo Picasso dopo ritardi e polemiche riapre a ottobre
PARIGI Dopo infiniti ritardi e polemiche il 25 ottobre riapre il Museo Picasso di Parigi, chiuso da oltre cinque anni per lavori di ristrutturazione.
E responsabile della prima mostra sarà Anna Baldassari, l’ex direttrice del Museo, licenziata proprio per i ritardi. Una vicenda complicata che ha visto protagonista anche il figlio del grande artista, Claude Picasso che, oltre ad esercitare forti pressioni sul Consiglio di amministrazione per far aprire la struttura a giugno, aveva accusato l’ex ministro della Cultura francese Aurélie Filippetti di “infischiarsene” del padre. I lavori sarebbero costati oltre 52 milioni di euro, di cui 19 messi dallo stesso Ministero.
Il Museo Nazionale Picasso, ospitato dal 1985 nel seicentesco Palazzo Salé, nel quartiere Marais e costruito dall’architetto Jean Boullier, custodisce circa 5 mila opere del maestro, insieme a quelle dei suoi amici e colleghi contemporanei come Renoir, Cézanne, Matisse, Rousseau, Braque, Derain, Modigliani e Miró.