sabato 18 dicembre 2010

l’Unità 18.12.10
Colloquio con Pier Luigi Bersani, segretario del Partito democratico
«Alleati con chi vuole aderire al progetto per una nuova Italia»
«Arzigogoli politicisti» Il segretario del Pd liquida le accuse di chi parla di un tentativo di rinunciare alle primarie per colpire Vendola: «Non hanno capito un tubo». Una piattaforma da proporre ai partiti e ai cittadini
di Giovanni Maria Bellu


Pier Luigi Bersani è lapidario: «Chi parla di inseguimenti di Casini contro Vendola e di altri simili arzigogoli politicisti semplicemente non ha capito un tubo». Eppure è stato proprio questo, assieme al tema del “rivedere le primarie”, ad aver suscitato le reazioni più aspre all’intervista al segretario del Pd apparsa ieri su Repubblica. Così Bersani, 24 ore dopo, torna sulla questione. E lo fa a partire dal presupposto dell’intero ragionamento: la fase politica che il paese sta vivendo, le preoccupazioni per la stessa tenuta democratica, il tramonto avvelenato del berlusconismo. «Si tratta di mettersi d’accordo -
dice su come valutiamo quanto accade. Incontro gente sempre più spaventata che grida: bisogna salvare questo paese. Mai in passato, nemmeno nel 1992, avevo assistito a un distacco tanto drammatico tra politica e società. Penso al silenzio rabbioso di un milione e 700.000 tra cassintegrati e nuovi disoccupati: tre-quattro milioni di persone, considerando le famiglie. Penso agli studenti che sfilano con cartelli dove si legge: “Non ci fidiamo dello Stato, nessuno ci rappresenta”, penso ai ricercatori sui tetti e a Berlusconi che, mentre succede tutto questo, cerca di sopravvivere acquistando qualche deputato... Ecco, dobbiamo affrontare questo. Ma come? Vogliamo chiudere i conti col berlusconismo e con questa democrazia plebiscitaria e populista o sostituire il berlusconismo con qualcosa che magari gli somiglia?».
Per il segretario del Pd, in definitiva, si tratta di mettersi d’accordo su due punti: prima di tutto il giudizio sulla gravità e l'eccezionalità della fase politica e poi sul metodo. Quello proposto consiste nell’elaborare una piattaforma di temi programmatici: riforma elettorale e istituzionale, informazione, giustizia, fisco, legalità, costi della politica. Una «riforma repubblicana e un’alleanza per la crescita e il lavoro» da sottoporre a tutte le forze dell’opposizione: Vendola, Di Pietro, terzo polo. E poi al Paese e ai cittadini, e cioè ai sindacati, agli imprenditori, alle associazioni. Poi chi ci sta ci sta. E sarà là in questo “starci” o “non starci” che si potrà misurare la corrispondenza tra la denuncia del berlusconismo come malattia della democrazia e l’effettiva volontà di batterlo.
Bersani avverte come «contraddittorio» l’atteggiamento di chi, mentre denuncia con i toni più accesi i pericoli del berlusconismo, si mostra quasi schizzinoso davanti alla necessità di realizzare una coalizione più ampia possibile per sconfiggerlo. Qua il discorso diventa prepolitico, di puro buon senso. Perché la legge elettorale dà poche alternative: affrontare eventuali elezioni anticipate in ordine sparso espone l’opposizione al rischio di una sconfitta micidiale. Ed è dunque puro buon senso fare una proposta molto larga sulla base di un programma essenziale e rigoroso e verificare chi è disposto «ad assumersi le sue responsabilità». Cosa che imporrà a ciascuno degli attori la ricerca dei punti di convergenza sulle questioni più urgenti. E sarà il momento, per ciascuno, «d’essere generoso»: «di pensare prima di tutto al Paese».
E la “possibile rinuncia” alle primarie? «Nessuna rinuncia. Mi pare che si faccia molta confusione tra la questione delle primarie dell’eventuale coalizione e quella delle primarie come strumento di democrazia interna del Pd. Quanto al primo aspetto, lo statuto dà già la risposta e indica una sequenza logica: c’è un programma su cui si forma una coalizione e poi è la coalizione a decidere sulla primarie. Non è che i partiti della coalizione accettano preliminarmente le primarie. Accettano il programma, com’è logico che sia. Poi c’è ben distinta la questione di come il Pd in quanto tale affronta il tema delle primarie nelle diverse situazioni amministrative. Anche là si pone un problema che riguarda la coalizione e che, se mal gestito, anziché aprire le porte alla società civile e alle altre forze politiche, le chiude. Inoltre, sempre se mal interpretate, le primarie rischiano di provocare divisioni interne al Pd che non sono utili a nessuno. Ci sono cose da correggere proprio per salvaguardare le primarie e non snaturarle. Ma, ripeto, questo è un tema che riguarda il Pd. L’emergenza politica invece riguarda tutti: le forze del centrosinistra e le forze del centro che si sono collocate all’opposizione, le forze sociali. Noi ci rivolgiamo a tutte queste forze, poi ciascuna valuterà. Quanto al Pd, ci tengo a dirlo, siamo troppo grossi per avvertire come un problema chi ci tira di più per la giacca. Come ho cercato di dire nella manifestazione di piazza San Giovanni, dobbiamo prenderci le nostre responsabilità ed essere noi a indicare la strada. La situazione, lo ripeto, è davvero straordinaria ed eccezionale».

l’Unità 18.12.10
Accordo ai vertici Pd, si smarcano Chiamparino e Marino
Lo scenario: «Il Terzo polo dovrà scoprirsi, e i narcisismi finiranno»
I big con il segretario «Così l’Italia sarà fuori dalla palude»
L’orgoglio. Il partito a Vendola: «Sulle primarie non accettiamo lezioni da nessuno»
Bersani aveva annunciato a Veltroni, D’Alema e agli altri big Pd la proposta di «patto costituente» da rivolgere alle forze politiche e sociali interessate a far uscire il paese dalla «palude» in cui è finito dopo la cura berlusconiana.
di Simone Collini


Dell’intenzione di lanciare un «patto costituente» a tutte le forze politiche e sociali interessate a uscire dalla «palude» in cui è finito il paese dopo la cura berlusconiana, Bersani ne aveva discusso con Veltroni, D’Alema e gli altri del gruppo dirigente del Pd incontrati nei giorni a cavallo del voto di fiducia alle Camere. Non a caso, ora che il segretario del Pd ha parlato pubblicamente della necessità in questa fase di «emergenza» di una «straordinaria apertura», da Finocchiaro, Franceschini, Letta e dagli altri big arrivano soltanto giudizi positivi, anche se in molti (a cominciare da Rosy Bindi), si aspettavano che Bersani avrebbe lanciato questa proposta alla Direzione di giovedì prossimo. Voci discordanti, di perplessità o di aperta critica, arrivano da Marino, Parisi, Civati (soprattutto per il fatto che lo «strumento» primarie potrebbe anche essere sacrificato per raggiungere l’obiettivo) mentre Chiamparino risponde a chi gli chiede un commento con un eloquente «non dico niente, è Natale». Ma per il resto sono solo apprezzamenti, indipendentemente anche dalle aree di appartenenza, visto che un sostanziale via libera alla linea che Bersani presenterà formalmente alla Direzione viene tanto da quelli che un anno fa hanno sostenuto la candidatura a leader di Franceschini e ultimamente si sono avvicinati al segretario (da Damiano a Sereni a D’antoni) quanto dagli esponenti di Movimento democratico che nei mesi scorsi hanno auspicato una correzione di rotta (un cauto via libera arriva da un ex-ppi come Grassi a un veltroniano come Verini).
Bersani ha blindato la proposta già nei giorni scorsi, spiegando tra l’altro a Veltroni che nelle prossime settimane insisterà sulla piattaforma programmatica del Pd illustrata per sommi capi alla manifestazione di San Giovanni e sul profilo del partito come «perno dell’alternativa». Un discorso in sintonia con la «vocazione maggioritaria» rilanciata dall’ex segretario, sempre convinto che il Pd in questa fase debba «investire su se stesso» e non sprecare le sue energie in «tattiche parlamentari».
Per dimostrare che la sua non è una proposta «politicista» avanzata soltanto nei confronti del Terzo polo, Bersani dopo Natale comincerà quello che verrà chiamato il «Viaggio nell’Italia che vuole cambiare», e che lo porterà a incontrare imprenditori, sindacalisti, docenti, studenti e altre categorie (un primo colloquio sulla situazione politica e sociale lo ha già avuto un paio di settimane fa con il segretario della Cisl Bonanni).
NO AI NARCISISMI
Se ora ha lanciato pubblicamente la proposta del «patto costituente» è anche perché bisogna in tempi rapidi capire con che tipo di schieramento si potrebbe andare, in caso di voto anticipato, alla sfida con Berlusconi. Dice il responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando: «La proposta di Bersani costringe tutte le forze politiche, che affermano di voler superare questa triste stagione politica, a scoprire le carte. Il Pd mette la sua forza a disposizione di un progetto più grande, facendo prevalere sui personalismi e le logiche di partito l’esigenza di aprire un stagione nuova per la democrazia italiana». Non ci vuole molto per capire che quei «personalismi» e quelle «logiche di partito» sono un riferimento a chi, come Vendola, invoca le primarie prima ancora di sapere quale sarà la coalizione e quale il programma con cui presentarsi agli italiani. «È necessaria una stagione di riforme istituzionali, economiche e sociali condivise», dice il responsabile Economia Stefano Fassina sottolineando che «in tale contesto anche le primarie sono da ripensare, bisogna partire dai programmi, dalla coalizione e non dal leaderismo narcisistico». Arrivano le spiegazioni ma le critiche continuano, da fuori e dentro il partito (Civati e Marino). Cosa che non piace al leader del Pd, tanto che in serata il Nazareno diffonde questa nota: «Sulle primarie il Pd non accetta lezioni. Le primarie sono state inventate da noi e ne conosciamo bene il valore. Non accettiamo però che ne vengano stravolti il senso e l’obiettivo. Ci preoccupiamo che servano ad aprire al rapporto con la società civile e a tutte le forze politiche disponibili all’alternativa a Berlusconi, e che non diventino invece un ostacolo alla mobilitazione di tutti coloro che sono pronti a mettersi in gioco».

il Fatto 18.12.10
Primarie addio, c’è il terzo polo
Bersani chiama centristi, Vendola e Idv. Disposti a tutto pur di finirla con B.
di Paola Zanca


L’intervista arriva sette giorni prima della Direzione nazionale del partito. Sette giorni che si annunciano di fuoco, dopo che Pierluigi Bersani ha deciso di affidare a Repubblica le scelte prossime future del Pd. Entro gennaio, “una proposta a tutte le forze di opposizione di centro e di centrosinistra che può avere anche un profilo elettorale”. Porte aperte da Fini a Vendola, dunque, come segno della “straordinaria apertura politica” necessaria alla “riscossa italiana”. Nessuno “pecchi di egoismo”. Lo farà anche il Pd, disposto a “mettere in discussione” perfino le primarie. Per Bersani, va detto, è la concessione meno dolorosa. Del confronto con Vendola – al momento unico sfidante (più che) credibile – ne fa volentieri a meno. Così, non sono in pochi a vedere nell'apertura al centro del segretario anche la via di fuga da una leadership minata.
MA LA QUESTIONE delle primarie, è tutto sommato la meno dirimente. Perfino tra i veltroniani, da sempre i più affezionati allo strumento, si conviene che, vista la fase, se ne potrebbe pure fare a meno. Anche perché nel partito sarebbero un diktat, ma non le puoi imporre agli alleati. E sono proprio gli alleati il nodo cruciale. L'altro ieri Di Pietro aveva chiesto i democratici in “matrimonio”. Niente da fare, anche perchè, una volta sposati, allargare la famiglia è molto più complicato. Ma il leader Idv ieri è tornato a chiedere al Pd “una scelta di campo”, augurandosi che il Pd non si metta a “rincorrere la chimera del Terzo Polo”. Eppure, al contrario, l’apertura a Fini-Casini-Rutelli per il capogruppo Franceschini è la strada più “realista”, l’unica che “possa battere la destra berlusconian-leghista e ricostruire il paese”. L’idea più diffusa è che per convincere mezzo emiciclo (e anche gli elettori) che non si può non guardare ai centristi, bisogna buttarla sull’emergenza. Altrimenti le frasi alla Follini (“Finalmente Bersani è sceso dai tetti e si è insediato in un territorio di grande buonsenso”) potrebbero far pensare che il “trattino-sinistra” nella collocazione del Pd sia definitivamente sparito. D’altronde è proprio un esponente di Fli, Benedetto Della Vedova, a ricordare che il loro progetto è “alternativo alla destra di Bossi e Berlusconi, ma è anche alternativo alla sinistra”. Ancora più chiaro l’Udc, con Roberto Rao: “Noi e Vendola insieme? Nella proposta di Bersani un po’ di strabismo c’è, ma se il percorso si evolvesse con un filtro alle forze estremiste...”. Insomma, se fanno fuori SeL e Idv. “Tutti insieme faremmo solo un favore a Berlusconi, di fatto sarebbe di nuovo un referendum pro o contro di lui. E lui queste cose è bravissimo ad aizzarle in campagna elettorale”. Normale a questo punto che Vendola chiuda così: “Ho l’impressione che sia una semplice annessione nel terzo polo: io francamente non mi vorrei far ‘annettere’”.
AL DI LÀ di chi siano gli alleati, quello che più preoccupa è se il Pd sia “vagone” o “locomotiva”. La metafora è del Pd Sandro Gozi, decisamente scocciato dai toni dell’intervista: “Non possiamo dare tutte le carte in mano a qualcuno che non sappiamo ancora se vuole fare il leader del centrodestra o che altro. Prima di scendere a compromessi, aspetterei”. Chiarisce Ignazio Marino che non ha nessuna voglia di “sacrificare la propria identità e caratteristiche perchè non piacciono a Pierferdinando Casini”. Anche il “rottamatore” Pippo Civati concorda: se il Terzo Polo “vorrà venire con noi, facciamo in modo che siano loro a chiedercelo, alla fine, e non noi, all’inizio, mettendoci in una posizione ancillare che sconfessa le stesse ragioni per cui il Pd è stato concepito”.
Abituato al fuoco amico, tutto sommato questa volta Bersani non ne è uscito bombardato. Per una volta anche i 75 di Mo.dem. non lo accusano di bestemmie. Anzi, ne approfittano per festeggiare il fatto che finalmente anche il segretario ha capito che serve la “correzione di rotta” che loro avevano chiesto due mesi fa. “Mettere al centro il programma – dice Walter Verini – perchè oltre il bivio tra Di Pietro e Casini c’è una freccia con scritto ‘Italia’, vorrei che non ci impiccassimo di fronte a questa discussione”.

Corriere della Sera 18.12.10
L’altalena del Partito democratico e l’urgenza di scegliere una strada
di Pierluigi Battista


La scelta è tra due strade opposte, e non complementari. Due narrazioni, due progetti, due modi di rappresentare la società italiana. Se venisse scelto l’asse con la sinistra, Vendola e l’oltranzismo di Di Pietro, si manderebbe all’Italia un messaggio con certe caratteristiche. Se invece la strada imboccata fosse quella che porta all’alleanza con il mondo moderato di Casini, Fini e Rutelli, si trasmetterebbe un messaggio opposto ma solo in un caso gli opposti potrebbero conciliarsi: optando per una coalizione dai forti connotati «ciellenistici» , che si presentasse come un comitato di liberazione nazionale con lo scopo, tutti insieme in un’indistinta union sacrée, di battere nelle urne Berlusconi e portare alla tomba il berlusconismo. Se invece non dovesse avvenire questo, come è auspicabile che sia, due questioni di fondo non possono ricevere risposte incerte, ondivaghe, zigzaganti. Perché è urgente che gli italiani, e con essi la democrazia italiana, sappiano in primo luogo con chi vuole stare il Pd, e poi con quale leader, con quali punti programmatici qualificanti. Subito, e non in un futuro nebbioso. Giacché non è un affare interno al Pd, ma di tutta la democrazia italiana, ferita da uno squilibrio troppo accentuato tra chi oggi è in maggioranza e chi sembra condannato, prigioniero di una fatale indecisione, a un’opposizione eterna. È un affare che riguarda quella fetta d’Italia, numericamente imponente ma politicamente impotente, che legittimamente vorrebbe costruire un’alternativa al centrodestra e invece è costretta a guardare il principale partito d’opposizione come un comprimario nel duello che ha impegnato Berlusconi e Fini, con la squillante vittoria del primo e la disfatta del secondo. Quando il Pd perse le elezioni del 2008, raggiunse pur sempre il 33 per cento dei voti: una percentuale da sogno, se confrontata con i numeri di oggi. In questi giorni i sondaggi più favorevoli a Berlusconi danno il Pdl in calo di cinque, sei punti percentuali, ma senza che il Pd se ne avvalga, sia pur in minima parte. Sfibrato da una lotta intestina non cessata nemmeno dopo l’elezione di Bersani, mortificato in molte primarie decisive (dalla Puglia a Milano, e adesso potrebbe essere il turno di Torino e Bologna), il Pd appare incapace di attingere a quella «vocazione maggioritaria» che pure ne contrassegnò le ambizioni con la segreteria di Veltroni. E oggi sembra preda di un dilemma esistenziale paralizzante. Un giorno accarezzando ipotesi di «nuovo Ulivo» , l’indomani navigando verso un’alleanza con il «terzo polo» . Un giorno immergendosi nella prospettiva delle primarie che dovrebbero scegliere il candidato premier alternativo a Berlusconi, il giorno dopo presentando quelle stesse primarie come qualcosa di non irrinunciabile. Ma le elezioni non sono così lontane come il Pd fa mostra di immaginare. Ogni confusa ipotesi di una maggioranza diversa in questo Parlamento fa a pugni con quanto emerso nella giornata cruciale in modo inequivocabile il 14 dicembre: quella maggioranza diversa non esiste nei numeri, né alla Camera né al Senato. La stessa invocazione per una nuova legge elettorale appare più un pretesto per sottrarsi al verdetto di nuove elezioni che come un appello politicamente realistico. Nascondendo la realtà, drammatica per il Pd, di un avversario come la formidabile coppia Berlusconi Bossi che in due anni vince tutte le elezioni, anche con sistemi elettorali differenti (politiche, europee e regionali). C’è davvero da aspettare ancora, temporeggiare, traccheggiare da una sponda all’altra nella manifesta incapacità di tenere una rotta stabile? C’è il rischio che i dirigenti del Pd vedano in queste critiche una manifestazione pregiudizialmente ostile nei confronti del loro partito, Non è così. Ma è un’ipocrisia non intravvedere nell’incertezza che sembra attanagliare il Partito democratico la tacita convinzione, da tutti condivisa, che tanto, in caso di elezioni anticipate, già è abbastanza chiaro chi vincerà e chi soccomberà. Il Pd non ha molto tempo per rovesciare questa diffusa convinzione e per riguadagnare una centralità politica fondamentale in una democrazia dell’alternanza. Ma deve scegliere in modo chiaro, e subito, il candidato leader e le alleanze che lo devono sostenere. Altrimenti la partita è perduta in partenza. E non per colpa di un destino cinico e baro.

Corriere della Sera 18.12.10
La strategia di Bersani spiazza i democratici
di M. Gu.


ROMA — Primarie in soffitta e alleanza con il terzo polo. L’accelerazione di Pier Luigi Bersani in direzione del centro rimette in movimento i giochi delle alleanze e divide il Partito democratico tra i moderati, che guardano all’accordo con Fini-Casini-Rutelli e l’ala sinistra, che spinge per le nozze con Vendola e Di Pietro. Il Nuovo Ulivo pare già tramontato, ora il segretario del Pd guarda al nuovo rassemblement, che si è saldato con la sconfitta in Parlamento sulla mozione di sfiducia al premier. Nessuna svolta centrista, assicurano ai piani alti del Pd, dove il segretario ha incontrato Beppe Fioroni per placare l’agitazione degli ex popolari. Eppure le parole di Bersani a Repubblica, accolte con sollievo dai dalemiani, spiazzano la base, che non si aspettava la messa in discussione dello strumento delle primarie e il ripensamento sull’alleanza con Idv e Sinistra ecologia e libertà. E per quanto Bersani nel corso della giornata si sia adoperato per sfumare, sul sito del Pd e sulla pagina Facebook del leader piovono commenti critici. Entro gennaio, è il piano di Bersani, il Pd lancerà una proposta «a tutte le forze di opposizione di centro e di centrosinistra» , parole che suonano come una presa di distanza da Vendola e Di Pietro. Casini apprezza l’ «autocritica» del Pd sulla linea, l’apertura di una «fase fondativa» e l’intenzione di andare oltre, e non contro, il berlusconismo. Ma le lodi si fermano qui e Rocco Buttiglione conferma la scelta di andare alle elezioni «da soli» . Mentre assai più netto è il no dei finiani, per bocca del capogruppo Italo Bocchino: «Noi facciamo una coalizione moderata che punti a lanciare l’opa sull’elettorato del centrodestra e non un polo che si allea con la sinistra» . Al vertice del Pd, invece, da Anna Finocchiaro a Dario Franceschini, prevalgono gli apprezzamenti per il «realismo» del segretario. Approva Enrico Letta, tra i primi a caldeggiare l’accordo con il centro. E Marco Follini applaude alla «svolta di buon senso di un Bersani sceso dai tetti» . Più caute le reazioni del MoDem di Veltroni, Gentiloni e Fioroni, che rimandano il dibattito alla direzione di giovedì ma rivendicano la richiesta di una «correzione di rotta» . Arturo Parisi accusa Bersani di voler «restaurare la Prima Repubblica» e gelidi sono i commenti di Ignazio Marino, Ivan Scalfarotto e Sergio Chiamparino: «Non parlo, è Natale» . Il giudizio sprezzante dell’Idv è affidato a Massimo Donadi: «La rincorsa del terzo polo è trasformismo, dettato dalla disperazione» .

Repubblica 18.12.10
Veltroni avverte Pierluigi "Così resta ben poco del Pd"
Il governatore della Puglia: il popolo democratico si spaccherà su questa proposta
di Goffredo De Marchis


Chiamparino: non si riduca tutto a un premier centrista

ROMA - Walter Veltroni conosceva già la nuova strada tracciata da Pierluigi Bersani per il partito. Ne avevano parlato, i due, mercoledì alla Camera in un lungo colloquio. Ecco perché le riflessioni dell´ex segretario affidate solo ai fedelissimi dopo l´intervista di Bersani, non hanno il sapore dell´attacco diretto, frontale. Il leader del Pd ha spiegato a «Walter» che solo un partito unito può affrontare una sfida di tipo «costituente». Come dire: teniamoci stretti. Eppure l´ex sindaco di Roma non nasconde una forte preoccupazione. Che sintetizza con una frase lapidaria, secondo il racconto dei suoi interlocutori: «Attenzione che tolte la vocazione maggioritaria e il coraggio riformista e la scelta delle primarie del Pd resta ben poco».
Del Pd che Veltroni ha diretto per primo, intende. Che aveva costruito sulla base del discorso del Lingotto, di quel partito portato alla soglia del 34 per cento nel voto del 2008. Comunque la linea politica tracciata da Bersani non merita giudizi trancianti. Per prima cosa Veltroni difende la scelta di creare Movimento democratico ricordando le accuse di scissionismo ricevute da più parti. «Visto che aveva ragione il documento dei 75 a chiedere una discussione e una correzione di rotta per evitare la deriva del 1994?», ricorda. La correzione di rotta alla fine l´ha imposta Bersani. Ma non è detto che piaccia all´area veltroniana.
Per esprimere i dubbi e le contestazioni al progetto c´è l´appuntamento della direzione, giovedì prossimo. Adesso non sarà solo l´occasione per piangere sul latte versato nel voto di fiducia o per scambiarsi gli auguri di Natale. Ci sono tutti gli elementi perché sia discussione vera. «Capiremo molto di più in quella sede», dicono i veltroniani. Anche l´ex sindaco vuole vederci più chiaro. «Il tutto avviene - spiega ancora ai fedelissimi - in un contesto di confusione. Per me, per noi resta centrale l´orgoglio del Pd e il suo ritorno a uno spazio elettorale e politico non residuale o minoritario. Bisogna credere che il Pd possa crescere e non limitarsi a una contraddittoria e affannosa ricerca di sponde che approfittano delle nostre difficoltà».
Bersani ieri ha commentato al telefono con Casini le sue dichiarazioni. Poi lo hanno chiamato i dirigenti del partito: lo stesso Veltroni, D´Alema, Marini. Non Nichi Vendola, che il segretario punta a tenere dentro il progetto, ma al quale potrebbe essere sottratto lo strumento delle primarie. Il governatore pugliese è convinto che lo strappo di Bersani spaccherà il Pd. Non le correnti, bensì «il popolo democratico», la sua gente. E che Bersani si cuocerà nel suo stesso brodo dopo l´intervista. Il leader democratico, però, tiene il punto: «Non voglio abolire le primarie. Voglio solo chiarire, come recita anche lo statuto, che viene prima la coalizione. E che non possiamo farla solo con chi accetta le primarie», ripete ai collaboratori. Il Terzo polo rifletterà, dice, sulla piattaforma. Il Pd la riempirà di proposte nei giorni a venire. «Ma se dobbiamo credere ai dati della Confindustria, l´Italia è destinata a perdere altri 500 mila posti di lavoro nei prossimi due anni. Allora il nostro progetto non andrà letto in chiave politicista, ma come una via d´uscita per il Paese».
Le proposte, ma quali? Per Sergio Chiamparino qui sta il nodo. Lo dice con un esempio: «Il Pd è d´accordo con Marchionne o no? È per un´innovazione forte nel rapporto con i sindacati sulla linea di Ichino, come sarebbe giusto, o non lo è? Bisogna fare delle scelte perché la piattaforma dia un messaggio di fondo e intercetti pezzi del Paese». Sulle primarie l´apertura del sindaco di Torino c´è: «Non mi impicco al loro mito. Si possono anche cancellare. Spazzando via un sospetto però: che la mossa sia finalizzata a un´alleanza in cui i democratici fanno le salmerie e la leadership se la prende il centro con Casini. Questa cosa gli elettori non la capirebbero mai».

Repubblica 18.12.10
Casini apre all´alleanza di Bersani "Giusto andare oltre Berlusconi"
Ma Bocchino: non ci interessa. Sì dai big democratici. Stop di Vendola
Scontro con Sel sulle primarie. Su Facebook le critiche della base al leader pd
di Giovanna Casadio


ROMA - Una premessa. A Casini e all´Udc non interessano le offerte. «Né quelle che vengono da una parte né quelle che vengono dall´altra, per la semplice ragione che non siamo sul mercato», dice il leader centrista ora unito a Fini, Rutelli, Lombardo e i repubblicani. Però ammette che c´è del buono nel ragionamento con cui Bersani (nell´intervista a Repubblica) offre un´alleanza al terzo Polo, una sorta di patto costituente per superare Berlusconi, disposto persino, il leader Pd, a sacrificare le primarie. «Ci sono elementi da valorizzare in quanto ha detto Bersani, primo tra tutti il fatto che voglia aprire una fase fondativa: è un´autocritica rispetto a quanto fatto finora». E a proposito di chi sarà il leader del Terzo Polo, Casini risponde infastidito: «Da noi valgono i progetti, non i predellini, poi faremo sapere».
A chiudere è invece Italo Bocchino, il capogruppo dei finiani alla Camera: «L´offerta non ci interessa, non ci alleiamo con la sinistra. Abbiamo creato il Terzo Polo per lanciare un´Opa sull´elettorato di centrodestra». Del resto, la carta messa sul tavolo dal segretario democratico apre critiche aspre anche tra i militanti online: sul sito di Bersani è quasi una sollevazione. «Come si può pensare a un´alleanza con Udc e Fli che hanno votato le leggi del ministro Sacconi?»; oppure «Giuro che se il Pd si allea con il terzo Polo io sosterrò Vendola. Caro Bersani rifletti».
Consenso tra i big democratici. Va bene alla corrente Areadem, di Dario Franceschini e Piero Fassino: «Bersani con realismo indica la strada giusta». Piace a Marco Follini: «Apprezzo la svolta al centro di Bersani. Mi pare che oggi sia sceso dai tetti e si sia insediato in un territorio di grande buonsenso». Per Anna Finocchiaro è «un´ottima proposta che ci rende protagonisti». Se si trattasse di un primo cambio di rotta del segretario, ci starebbero anche i Modem, la minoranza veltroniana, . Sulle barricate sono invece gli ulivisti e Ignazio Marino («No all´Unione di centrodestra e al sacrificio delle primarie»). Arturo Parisi, il "fondatore" dell´Ulivo di Prodi e l´ideatore delle primarie, bolla il progetto bersaniano come «restaurazione della Prima Repubblica: invece di andare oltre Berlusconi vuole tornare a prima di Berlusconi». I "rottamatori" di Renzi e di Civati sono ipercritici: «Se Bersani vuole lasciare il Pd noi non lo seguiamo». Sandro Gozi giudica sbagliato «inseguire un Polo incerto che vira a destra».
I Democratici devono anche chiarire come rispondere al pressing di Di Pietro che chiede «un matrimonio» subito tra Pd-Idv e Vendola. Duro il giudizio del leader di Sel: «No alle alchimie di Palazzo, a un modesto programma di sopravvivenza»; e poi: «Le primarie sono nel cuore del popolo democratico, sono l´alternativa alla furbizia, al tatticismo, al barricarsi nel Palazzo». Altrettanto tranciante la replica del Pd a Vendola: «Sulle primarie non accettiamo lezioni; sono state inventate da noi e ne conosciamo bene il valore». La direzione del Pd convocata per l´anti vigilia di Natale, il 23, dovrà sciogliere molti nodi.

l’Unità 18.12.10
Di Pietro e Vendola: basta con le alchimie di palazzo, Pd scelga fra noi e Terzo polo
Dura reazione di Idv e Sel alla proposta di Bersani. Di Pietro: «Entro il 23 dicembre decida, o noi o Casini». Vendola: «Le primarie sono nel cuore del popolo Pd, basta con le furbizie e le alchimie di palazzo».
Il governatore: «Basta alchimie, le primarie sono nel cuore del popolo Pd»
di Andrea Carugati


Di Pietro dà sei giorni di ultimatum a Bersani: «Il 23 dicembre il Pd decida: o rincorrono la chimera di Casini, o costruiscono un’alleanza democratica con noi e Vendola. Aspetto una risposta precisa e non un ”ma anche” democristiano». Il governatore pugliese è meno ultimativo, ma l’insofferenza verso la proposta del leader Pd asse col Terzo polo e addio alle primarie è ancora più forte. «No alle alchimie di palazzo. Le primarie sono un dato fondativo del centrosinistra, sono nel cuore del popolo democratico. E sono l’alternativa alla furbizia».
IL REPLAY DEL NATALE 2009
Da Venezia, impegnato nel suo tour di Comizi d’amore (pienone all’Università nonostante la neve), Vendola rivive il clima del Natale scorso, quando le primarie in Puglia erano in forse, il Pd voleva bypassarle per allargare l’alleanza all’Udc. Oggi il copione è lo stesso, ma la ribalta è nazionale. «Non bisogna liberarsi da Berlusconi: bisogna liberarsi dal berlusconismo che è a destra, al centro e anche a sinistra», dice Vendola. «Vincere non significa guadagnare una poltrona: significa voltar pagina nel paese della precarietà e della paura».
Il leader di Sinistra e libertà si aspettava la mossa di Bersani. «Tenteranno di impedire le primarie in ogni modo», aveva detto pochi giorni fa ai dirigenti di Sel. E cerca di ripetere l’esperienza dell’anno scorso. La strategia prevede di non arretrare di un millimetro, di cucirsi addosso l’immagine di uomo del popolo e relegare i big del Pd, D’Alema in testa, nel ruolo di manovratori di palazzo. Nel frattempo aspetta che siano Casini e Fini a smarcarsi dal Pd, rendendo così «inevitabili» le primarie. Netta la bocciatura della proposta di Bersani: «I soggetti sociali che da troppo tempo attendono il cambiamento prima o poi prenderanno per il bavero questo centrosinistra così timoroso di Dio e degli uomini e gli grideranno forte di non aver paura, di fidarsi del popolo della sinistra e di mettere in campo non un piccolo modesto programma per la sopravvivenza, ma un grande racconto di cambiamento», dice Vendola. «Il terzo polo supera la formula del centrosinistra, ho l’impressione che sia una semplice annessione: io francamente non mi vorrei far “annettere”».
CON FLI POLO DI CENTRODESTRA
Usa l’ironia Fabio Mussi, presidente di Sel: «Bersani nei suoi manifesti dice “la pazienza è finita”, per fortuna la nostra non ancora...». «Cosa vogliono fare i leader del Pd? Pensano alla loro sopravvivenza personale o vogliono costruire un’alternativa credibile al berlusconismo? A Bersani ricordo che è stato eletto con le primarie, e che a un centrodestra populista va contrapposto un progetto di centrosinistra, non un nuovo centrodestra un po’ più civilizzato. E l’alleanza Pd-Udc-Fli sarebbe questo, con il Pd ruota di scorta in un Polo clericale e conservatore». Mussi va già duro: «Dalla sua nascita, la politica del Pd è random, prima l’autosufficienza, poi il Nuovo Ulivo, ora il Terzo polo. Spero che alla fine di questo tourbillon le acque si posino su una soluzione ragionevole...».

il Fatto 18.12.10
Vendola dice
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, l’altro giorno in televisione Nichi Vendola ha detto questa frase che ho annotato “Meno contumelie (intendeva contumelie a Berlusconi) e più analisi”. Condividi?
Angela

UN TERRIBILE destino tocca a tutti coloro che, dalle prime file del Pd (e dell’area Pd) si sporgono dalla torretta e gridano “Terra!”. Si leva subito un coro di delusione, irrisione e scetticismo. Non vorrei unirmi a questo impulso nella speranza che prima o poi si ascolti di più e di meglio. In questo caso, con tutta l’attenzione che Vendola merita, noto due problemi. Il primo è il fatto. Il secondo è la graduatoria di urgenza. Il fatto. Da Veltroni a Franceschini a Bersani, il Pd da quando esiste è un partito fin troppo ingessato dalla cosiddetta “cultura di governo”. Nessuno mai (parlo delle voci formali e ufficiali del Pd) ha usato o userebbe una sola delle frasi o concetti che, ogni giorno, Sarah Palin dedica al presidente degli Stati Uniti, o che le due parti del Senato e della Camera Usa si scambiano in ogni seduta. Dunque manca il fatto. Ovvero mancano le contumelie. I numeri primi del Pd se mai sono fin troppo formali e cauti, restano, nei momenti migliori (Bersani alla Camera il giorno della sfiducia) dentro l’argomento politico senza aggettivi sulla famosa persona del capo-orda di destra. Veniamo al secondo argomento. Che cosa vorrà dire “più analisi” in un paese in pericolo di tenuta economica e di instabilità politica? Sfugge l’emergenza. L’emergenza impone di decidere subito cosa fare prima, cosa fare dopo. Ovvero l’abusata parola priorità. L’analisi è già stata compiuta e mostrata dagli eventi. Non è vero che “ con Berlusconi” o “senza Berlusconi” non fa differenza. È il punto essenziale, la priorità assoluta. La controprova la trovate nel mondo. Nessun paese democratico resta diciassette anni sotto l’egemonia e, gradatamente, sotto il controllo assoluto della stessa persona anche nei brevi periodi in cui quella persona non governa. Accade in Italia per tre ragioni ormai clamorosamente note nel mondo: Berlusconi è troppo ricco, troppo poco equilibrato e portatore di uno scandaloso conflitto di interessi. Può partire solo da questo punto, dall’identificazione di questa priorità assoluta, ogni possibile atto di rilancio del Pd, dell’opposizione e, fra poco, della campagna elettorale.

Corriere della Sera 18.12.10
Vendola: Casini? Lo stimo ma la Dc era un’altra cosa
«Il Pd verrà annesso al terzo polo Il no alle primarie schiaffo alla gente»
di Monica Guerzoni


ROMA — «Io ho paura che, tradotta in italiano, questa riformulazione un po’ confusa della strategia di Bersani significhi annessione del Pd al terzo polo» . È un Nichi Vendola «stupefatto» e «incredulo» quello che risponde al cellulare da un autogrill alle porte di Bologna e traccia il ritratto di «una sinistra che sale sui tetti e non si arrende a certe sacrestie del Vaticano» , sceglie il suo leader con le primarie e si occupa dell’Italia. «La svolta di Bersani? È il trionfo della pura astrattezza, siamo alla metafisica della tattica. Se il tema è l’allargamento al centro, io non capisco a che serva continuare a evocarlo» . A farle dire di sì, o a liberarsi di lei? «Io non ho alcuna contrarietà ad allargare al centro, ma è difficile immaginare che si continui a ripetere una intenzione o una petizione di principio, quando il punto è la disponibilità degli altri» . La disponibilità di Casini e Fini dipende anche dalle sue scelte. «Io non posso credere che noi di Sinistra ecologia e libertà e il Pd non andremo insieme, spero che ci ritroveremo tutti quanti al taglio del nastro del cantiere dell’alternativa. Io voglio discutere con i moderati, ma voglio anche evitare che la sinistra si consegni a mani alzate, come una resa definitiva. Perché quella che ha indicato Bersani non è un’alleanza, ma assomiglia a un’annessione. E spero di sbagliarmi» . Ma per vincere bisogna conquistare anche il voto dei moderati e degli imprenditori. «Il tema dell’alternativa è la lotta contro il declino dell’Italia e c’è bisogno di una nuova alleanza tra l’impresa innovativa, il lavoro tutelato e il sapere. Non penso che dobbiamo rivolgerci a una platea selezionata di dolori sociali, questo è il minimo che fa una forza di sinistra. Ma in più noi dobbiamo indicare una strada che colga anche il disagio degli attori tradizionalmente forti nella nostra società. A me capita di incontrare tantissimi imprenditori nel Sud e nel Nord e di osservare il loro smarrimento, la percezione di vivere non in un grande Paese ma in una bolla mediatica, in una condizione di rischio» . Bersani vuole rivedere le primarie. «Le primarie sono diventate come le lampadine di Natale, si accendono e si spengono a corrente alternata, perché fanno un po’ paura, contengono una potenza antioligarchica» . Cosa le rende difficile il dialogo e l’accordo con il Pd? «Fatico a tenere il fiato correndo dietro alle svolte strategiche di questo gruppo dirigente. All’inizio era il nuovo Ulivo, poi era primarie, poi si è indicata la mozione di sfiducia parlamentare come propedeutica a un governo di unità nazionale, mentre oggi siamo a un tuffo verso il centrismo, con qualche vaga allusione ai temi più scottanti. Che significa riferirsi alla questione del lavoro? Che giudizio diamo sull’offensiva di Marchionne? Salveremo l’Italia insieme a coloro che hanno contribuito a confezionare l’omicidio politico della pubblica istruzione?» . Quindi no, le primarie non si toccano. «La paura è una cattiva consigliera, a meno che non si pensi che il meglio che possa fare la sinistra è praticare la propria eutanasia. La sinistra di cui io parlo è il punto di interlocuzione reale con tutto ciò che ribolle nelle viscere di un’Italia che non ha più niente da perdere e vive il suo quotidiano corpo a corpo contro il potere. A Bersani io chiedo, questa sinistra è una civetteria di qualcuno o una condizione necessaria per la salvezza del Paese? E non è, questa sinistra, crepata già mille volte per aver barattato l’orizzonte dell’alternativa con gli sgabelli dell’alternanza?» . Per Goffredo Bettini, nell’emergenza ci vuole un leader che rappresenti l’unità e che non va scelto con le primarie. «Le primarie non sono una civetteria mia, ma un elemento costitutivo dell’essere centrosinistra. Se le cancellano non fanno uno sgarbo a me, spezzano un legame cruciale con il popolo e non mi pare che sia il sentimento maggioritario tra gli elettori. La politica non la facciamo in quattro o cinque, ci sono mondi vitali che difficilmente rinuncerebbero a far sentire la propria voce» . Bettini la invita a sciogliere Sel nel Pd... «I ragionamenti raffinati sono meglio delle contumelie. Preferisco assaporare una carota che prendere una bastonata in testa, tuttavia è un po’ difficile per me essere di volta in volta cibo per qualche Conte Ugolino della sinistra, oppure oggetto di un veloce reclutamento nelle file del Pd» . Il sospetto, a sinistra, è che Bersani voglia spazzar via le primarie perché teme che lei lanci un’opa sui democratici. «L’opa moderata può essere molto più pericolosa per Bersani e molto più insopportabile per il popolo democratico. Io non ho paura di un rassemblemant che includa il centro, ma con Casini posso parlare? Posso chiedergli se a scorticare vive le famiglie che sfilarono al Family day sia stato il Gay Pride o non, piuttosto, le politiche di Tremonti? Il popolo delle partite Iva è stato sbaragliato dalla lotta degli operai di Melfi e Pomigliano o dalle scelte di una destra che ha trasformato l’Italia in un Paese ottocentesco, spaccato tra ricchi e poveri?» . Casini apprezza la svolta di Bersani. «Per lui ho sentimenti di amicizia e stima, ma vorrei capire. Cos’è la politica per Casini? Potrei andare a destra ma anche a sinistra, però sono di centro... Cos’ha in testa? Nella modernità sono comprese le domande di libertà e il riconoscimento dei nuovi diritti? Si può essere democristiani ma la Dc era un’altra cosa, un minimo di fierezza laica non è mancanza di rispetto nei confronti della Chiesa» . La faccia lei, presidente, una proposta sulle alleanze. «Bisognerebbe fare prima un’alleanza con il proprio popolo, immaginando di allargare la bellissima piazza della manifestazione del Pd a San Giovanni. Mi è piaciuto tanto il gesto di Bersani che scala i tetti della facoltà di Architettura e non vorrei che si abbandonasse quella scala per i sottoscala del palazzo» . 

il Fatto 18.12.10
Leccalecca
Renzi, ti piace il Panorama?


VILE E PRODITORIO attacco di “Panorama” a Matteo Renzi, il giovine aspirante rottamatore del vertice Pd che va in pellegrinaggio ad Arcore e critica Fini. Secondo il settimanale della famiglia B., Renzi è “uno dei democratici più amati d'Italia... Questo boyscout trentaseienne,guance paffute, sguardo furbetto e parlantina facile, riesce a fare una cosa sempre più rara dalle parti del Pd: Renzi piace e piace parecchio”. E giù insulti: “Piace per il suo stile smaliziato; per quel suo accento un po' furbetto (e due, ndr); per quel suo linguaggio anomalo, diretto, spigliato, per niente barocco col quale riesce a mescolare cultura pop e politica raffinata”. Non solo “un formidabile rottamatore”, ma anche “l'unico antidoto in grado di rievocare l'originario e salutare spirito riformatore”, perchè ha finalmente capito che l'“alternativa al centrodestra non si costruisce con le raffigurazioni demoniache dell'avversario”. Guai a demonizzare B. Lo dice il settimanale di B. Massima solidarietà a Renzi.

l’Unità 18.12.10
Alfano manda gli 007 al tribunale di Roma per gli studenti liberati
Muro tra ministro e Anm. Le toghe: «Indebita interferenza». Il Pdl: «Indebita indulgenza»
Anche Maroni accusa: «Quei giovani possono farlo di nuovo e molto presto». 22 i rilasciati
L’Anm: «Prove e indizi sono necessari sempre e nei confronti di tutti»
Dopo la scarcerazione dei 22 manifestanti fermati martedì a Roma, il ministro della Giustizia invia gli ispettori a piazzale Clodio. La Russa: «Brutto segnale alle forze dell’ordine che devono poter lavorare liberamente».
di Claudia Fusani


Procura e tribunale di Roma liberano i 22 giovani fermati martedì a Roma per gli incidenti e il ministro Guardasigilli Angelino Alfano manda gli ispettori a piazzale Clodio per verificare se giudici e pm si sono comportanti secondo codici e coscienza. Una decisione, quella di Alfano, che va letta così: siccome i giudici hanno liberato giovani «sicuramente pericolosi visto il contesto in cui sono stati fermati», allora il ministro manda gli ispettori per valutare l’operato dei magistrati. Una decisione che sembra provocatoria. Di sicuro crea nuove polemiche e apre un nuovo fronte di scontro con l’Anm, il sindacato delle toghe, che boccia la decisione come «indebita interferenza». «Sto dalla parte dei cittadini» replica Alfano,
«Cosa dobbiamo dire a chi ha subito danni?». Invece che abbassare i toni, li esaspera. Invece che dialogare, alza muri. È la scelta del governo in questi giorni che sono “il dopo” del martedì nero di Roma ma anche la vigilia di altre manifestazioni studentesche annunciate per martedì e mercoledì quando la riforma universitaria che porta la firma del ministro Gelmini sarà approvata definitivamente dal Senato. Un passaggio delicato in cui servirebbe fermezza certo, ma anche dialogo e confronto e rispetto istituzionale delle scelte degli altri poteri dello Stato. E invece, come sempre più spesso accade, il tutto viene riportato in quella casella riduttiva e fuorviante, soprattutto sbagliata che è l’ordine pubblico.
Ieri mattina, mentre il ministro dell’Interno Roberto Maroni è nell’aula del Senato per riferire sulle dinamiche degli incidenti del 14 dicembre, un comunicato del ministero della Giustizia comunica che «a seguito della scarcerazione dei soggetti responsabili, appena poche ore prima, di gravi atti di guerriglia urbana e di violenta contestazione delle istituzioni» ha incaricato l’Ispettorato Generale di «effettuare l’accertamento urgente sulla conformità formale e sostanziale alle norme del provvedimento disposto dall’autorità giudiziaria».
La notizia rimbalza nell’aula del Senato tra mugugni e mormorii. Si compiace il ministro della Difesa Ignazio La Russa che, reduce dallo scontro verbale con uno studente ad Annozero in cui ha rivendicato il suo essere “fascista”, benedice Alfano: «Meno male che c’è. Quelle scarcerazioni sono un pessimo segnale, è come se venisse detto loro che possono fare quello che vogliono. Le forze dell’ordine devono poter lavorare liberamente senza sentirsi sempre sotto esame».
Non era questo che chiedeva l’altro giorno il Capo della Polizia Antonio Manganelli quando ha fatto “appello” a tutte le forze politiche e sociali perché le tensioni sociali sono tante, il momento molto delicato e le forze dell’ordine non possono più svolgere un ruolo di supplenza. Anche il ministro Maroni, nella sua informativa, boccia le scarcerazioni. Usa però un profilo più istituzionale: «Rispetto ma non condivido la scelta di scarcerare: quei ragazzi potranno farlo di nuovo la prossima settimana».
I ministri, a cominciare da Alfano, forse dimenticano una norma basilare di un paese di diritto e di una democrazia: per accusare qualcuno servono le prove. Glielo ricordano Luca Palamara e Giuseppe Cascini, presidente e segretario dell’Anm: «Alla magistratura è affidato il delicatissimo compito di accertare responsabilità individuali e di verificare la fondatezza delle accuse. Quando indaghiamo sulla pubblica amministrazione, molti politici sono assai solerti nel ricordarcelo. Stupisce che questo non avvenga anche in altre occasioni». Sembra quasi che il governo volesse arresti a prescindere («eccesso di indulgenza da parte della magistratura» s’inventa Gasparri). I 22 ragazzi andranno invece a processo, i primi 5 la prossima settimana, come liberi cittadini con le accuse di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Ma non c’erano motivi per tenerli in carcere. Neanche, come auspicava il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri, «fino alla prossima settimana quando ci saranno altre manifestazioni». Arrestarli comunque, per neutralizzarli.

il Fatto 18.12.10
Alfano, invasioni di campo
di Bruno Tinti


Certo che la vita del fazioso è semplice assai: questo è per bene, quello per male, questo è intelligente, quello stupido. Certezze, certezze, certezze. Invece, a sforzarsi di essere obiettivo, si prendono delle tranvate… Un paio di settimane fa pensai bene di chiedere scusa al ministro Alfano con cui me l'ero presa parecchie volte; lo avevo sentito parlare in occasione del congresso dell'Anm e mi era piaciuto molto: intelligente, equilibrato, pacato. Tutti gli amici e colleghi mi avevano chiesto se ero matto: fai le scuse ad Alfano!? Oggi le scuse mi tocca farle a loro: ho avuto torto, il lupo perde il pelo ma…
ANDIAMO per ordine. Il 14 dicembre movimenti di piazza anti B; la cosa degenera: violenze, disordini, lesioni, danneggiamenti; un casino. La polizia arresta un po’ di gente, pare studenti, e il Pm li rinvia a giudizio per direttissima in stato di detenzione. Imputazioni: resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, lesioni, uno anche per rapina; c’è anche un danneggiamento seguito da incendio. I Tribunali incardinano i processi, fanno istruttoria dibattimentale (che vuol dire che assumono prove) e poi rinviano il tutto al 23 dicembre. Però intanto scarcerano gli imputati; alcuni perché non ci sono ancora prove concrete che siano stati loro a commettere quei reati, bisogna approfondire; e altri perché i reati che sembrano aver commesso non sono poi così gravi. B&C si incazzano; e questo è comprensibile: gente senza cultura, faziosa all'eccesso, non calmierati nemmeno dal senso del ridicolo. Il problema è che si incazza anche Alfano; e, siccome è il ministro della Giustizia, annuncia che manderà gli ispettori per verificare se vi sono state violazioni di legge formali o sostanziali. Ed ecco che io divento oggetto dei lazzi e frizzi degli amici.
Il problema è che, ancora una volta, Alfano si associa alle intimidazioni dei suoi compagni di fazione. Provo a spiegarglielo che questa cosa non va bene.
I REATI ASCRITTI agli imputati sono gravi: la resistenza è punita fino a 5 anni di reclusione, il danneggiamento, se seguito da incendio, fino a 6 anni e 3 mesi; e, quanto alle lesioni, dipende dalla loro gravità: si va da 3 a 12 anni. Della rapina non parliamone, fino a 10 anni.
Va anche detto che la gravità di questi reati è maggiore ancora di quello che sembra: perché commessi in un contesto di aggressione allo Stato, di illegalità proterva e arrogante, di vera e propria guerriglia urbana. Insomma gli autori di questi reati in prigione ci starebbero benissimo e anche per parecchio tempo.
Ma non è Alfano che lo deve stabilire; non è il Ministro della Giustizia che ha titolo per valutare le decisioni di un Tribunale. È qui che Alfano (di B&C non vale nemmeno la pena di parlare) ha proprio sbagliato.
Io non so se il Tribunale ha fatto bene. A me gente del genere piacerebbe vederla in galera; ma non so se gli imputati erano “gente del genere”; non so se le prove a loro carico fossero convincenti (pare di no, il Tribunale ha ritenuto di approfondire); non so se proprio quelli erano i reati da contestare o altri, magari meno gravi. Queste cose le sa il Tribunale che ha deciso come sappiamo. E magari ha sbagliato. E in questo caso il nostro ordinamento giuridico prevede appello e cassazione; e sarà in queste sedi che si deciderà. Dunque è evidente come il parere di Alfano sia irrilevante; e che, qualsiasi cosa gli diranno gli ispettori, resterà irrilevante.
Come ho detto, di B&C (e del C Maroni che ha spiegato alla Camera che lui non è d'accordo con le scarcerazioni) non vale nemmeno la pena di parlare: parlano di cose che non sanno . Ma il ministro Alfano sa; e sa di aver sbagliato. Per 2 motivi che non serve spiegare a lui ma che possono interessare i lettori del Fatto.
Del primo motivo ho già parlato: l’innocenza o la colpevolezza degli imputati riguarda i Tribunali. I ministri e i politici in genere possono andare a dire la loro nel talk-show di Vespa, consapevoli, loro e quelli che li ascoltano, che si tratta di chiacchiere da salotto.
IL SECONDO motivo: questi ministri dovranno capire, presto o tardi, che i processi non si fanno ai colpevoli. I processi si fanno per stabilire se l’imputato ha commesso o no il reato che gli è addebitato.
Dovranno capire che non basta che la polizia arresti e denunci, che il Pm rinvii a giudizio per emettere una sentenza di condanna. Se l’imputato deve finire in prigione lo stabilisce il Tribunale. Non fosse così, potremmo far comminare gli ergastoli direttamente dal Pm. Quindi indignarsi per le scarcerazioni di gente che deve ancora essere condannata è ridicolo e denota un’ignoranza giuridica e istituzionale che, certamente, non appartiene ad Alfano; e che dunque è imperdonabile.
Infine. Ma cosa pensa di fare il ministro Alfano con gli ispettori? Sa benissimo che la sentenza del Tribunale quella sarà e quella resterà, qualsiasi cosa dicano o facciano i suoi pretoriani. E allora? Cosa resta? L’intimidazione. Che non è meno grave perché, in genere, con i magistrati non funziona.

Corriere della Sera 18.12.10
«Altro che lassismo, i magistrati sono stati coraggiosi»
di Virginia Piccolillo


ROMA — «Ma quale lassismo dei giudici? Questi colleghi sono stati coraggiosi. Perché era immaginabile una simile reazione della politica. Guai però a fare da cinghia di trasmissione fra l’emotività della piazza e le decisioni processuali» . Il pm Giuseppe Cascini, segretario dell’Anm, trova «pericolosa l’idea che si sta facendo passare: ovvero che i colpevoli la facciano franca grazie alle maglie larghe della magistratura» . Perché? «Perché le immagini che abbiamo visto in tv mostrano comportamenti gravi. C’era resistenza e lesioni ai pubblici ufficiali, danneggiamenti gravi, abbiamo visto blindati dati alle fiamme. Ma non è che i colleghi abbiano sottovalutato questi comportamenti» . Allora perché scarcerare quei giovani? «Perché la libertà personale è un bene primario e può essere limitata solo in base a regole processuali. Servono le prove per stabilire che davvero chi è stato fermato abbia compiuto quei reati. Si deve valutare anche la personalità del fermato. E questi erano tutti ragazzi giovanissimi privi di precedenti penali» . Il ministro Maroni non ha condiviso le scarcerazioni e il ministro Alfano ha inviato gli ispettori. «Questo è gravissimo. Devono essere i giudici a stabilire se ci sono i presupposti della custodia cautelare, e in questo caso sono stati almeno 4. Non può stabilirlo la richiesta di carcerazione di un ministro, accompagnata dalla minaccia» . Minaccia? «Sì, la minaccia di sanzioni disciplinari ad un magistrato che ha scelto di svolgere il proprio dovere indipendentemente da pressioni esterne. E per fortuna che il disegno di Berlusconi non è diventato legge costituzionale» . Cosa c’entra ora? «Perché mai come in questo caso, nel quale si stabilisce se un ragazzo deve rimanere in carcere in attesa del processo che valuterà se è colpevole, si dimostra ciò che abbiamo sempre detto: l’indipendenza della magistratura serve soprattutto ai cittadini» . presupposti della custodia cautelare, e in questo caso sono stati almeno 4. Non può stabilirlo la richiesta di carcerazione di un ministro, accompagnata dalla minaccia» . Minaccia? «Sì, la minaccia di sanzioni disciplinari ad un magistrato che ha scelto di svolgere il proprio dovere indipendentemente da pressioni esterne. E per fortuna che il disegno di Berlusconi non è diventato legge costituzionale» . Cosa c’entra ora? «Perché mai come in questo caso, nel quale si stabilisce se un ragazzo deve rimanere in carcere in attesa del processo che valuterà se è colpevole, si dimostra ciò che abbiamo sempre detto: l’indipendenza della magistratura serve soprattutto ai cittadini» . Il ministro Alfano dice di essere dalla parte dei cittadini. «Ma sono cittadini anche gli arrestati. Anche i loro diritti devono essere tutelati al pari di quelli di altri imputati. E in questo momento l’istanza che viene dalla politica è di punizione esemplare. Un giustizialismo tante volte rinfacciato a noi» . È una rivalsa? «No. Io sono garantista sempre. Mi piacerebbe lo fossero anche quei politici che lo sono per i potenti ma ora chiedono di "tenere dentro"i manifestanti » . Maroni teme una reiterazione della violenza. «Sia il ministro Maroni, nelle comunicazioni al Senato, che il ministro Alfano, nel comunicato in cui annuncia l’ispezione, esprimono un pregiudizio di colpevolezza. Dando per acquisito che gli scarcerati siano i responsabili dei gravi atti di violenza. E invece le responsabilità sono ancora tutte da accertare» . 

l’Unità 18.12.10
Roberto Maroni agita gli spettri per la prossime proteste
Gli infiltrati: «È una ipotesi destituita da ogni fondamento e offensiva nei confronti delle forze dell’ordine»
Centri sociali: «Al fianco degli studenti gruppi organizzati di militanti antagonisti dei centri sociali»
Violenza organizzata: «Cortei degli studenti presi in ostaggio da gruppi organizzati di violenti che volevano sfregiare la città»
Profezie nere: «Siamo preoccupati per le prossime manifestazioni occorrerà prevenire altre guerriglie urbane»
Roghi e barricate: «Le scene viste non sono una degenerazione di cortei pacifici ad opera di qualche gruppo di black block»
Nuove occasioni: «Questi professionisti della violenza non vorranno perdere le prossime occasioni di dissenso»

Il ministro della Paura: «Rischiamo nuovi incidenti»
Il titolare dell’Interno annuncia nuove misure in vista dei cortei della prossima settimana
La manifestazione del 14 inquinata da «professionisti della violenza». Il giallo del furgone
Timori per la prossima settimana quando diventerà legge la riforma del ministro Gelmini. Nuclei di agenti in borghese per prevenire focolai di violenza. Mantovano: «Vietare le manifestazioni come gli stadi».
di C. Fus.


«I professionisti della violenza non perderanno le prossime occasioni di dissenso per imporre un clima di tensione». E la prossima «occasione» è molto presto, tra il 21 e il 22 quando la riforma Gelmini diventerà legge al Senato. Il ministro Maroni sceglie l’aula di palazzo Madama per informare il Parlamento su quello che è successo martedì nella guerriglia che ha devastato Roma. E mette le mani avanti su quello che potrebbe succedere nei prossimi giorni. «Bisogna adeguare tempestivamente l’ordine pubblico per prevenire altre occasioni di guerriglia urbana». Un allarme e un annuncio che non servono a svelenire il clima.
Le informative che giungono alle Digos delle varie questure al momento non sono, al momento, così allarmanti. Il dispositivo dell’ordine pubblico sarà comunque «adeguato» e «calibrato sulla base delle informazioni che giungeranno».
Maroni parla e accanto a sè,sul banco del governo, siede il ministro La Russa. Rara e curiosa combinazione: “il ministro delle polizie” con “il ministro delle guerre”. Le ultime manifestazioni non sono stati veri e propri cortei organizzati con una testa, una disposizione per blocchi e una coda. Determinati «a sfondare i blocchi e ad arrivare nei palazzi della politica» ma caratterizzati da molto «spontaneismo», poco organizzati e quindi anche poco prevedibili: una combinazione che rende più difficile l’ordine pubblico. «Gli attacchi e le devastazioni sono state compiute da gruppi di veri e propri delinquenti, professionisti della violenza, gruppi organizzati di militanti antagonisti che poco o nulla hanno a che fare con la scuola e con lo studio, provenienti da centri sociali autogestiti delle principali città italiane». Qualcuno, spiega Maroni, ha voluto «inquinare con la violenza la protesta degli studenti». Il ministro non cade nell’errore di puntare il dito sui soliti black bloc. Ma non compie l’analisi completa, assai meno rassicurante: gli incidenti del 14 portano la firma di una generazione arrabbiata e delusa che ha cercato dialogo e ascolto e futuro e non l’ha trovato. Una rabbia che interpella la classe politica e i partiti.
Tatticamente potrebbe diventare utile e funzionale a questo tipo di protesta, «impiegare nuclei in borghese sparsi lungo il corteo in grado di individuare per tempo e quindi isolare ed intervenire sui focolai di violenza». Il sottosegretario Mantovano ipotizza il Daspo (il divieto) per gli stadi di calcio alle manifestazioni politiche. Dura sotto il profilo costituzionale vietare il diritto di manifestare.
Nel dibattito in aula, in cui tutte le forze politiche hanno «condannato ogni forma di violenza», ringraziato le forze dell’ordine e respinto ipotesi complottesche tipo infiltrati, Luigi Zanda (Pd) ha ricordato però a Maroni «che non deve farsi rinchiudere nel ruolo di ministro delle polizie e di farsi carico dell’emergenza sociale che affligge il paese». Pancho Pardi (Idv) invita a dialogare con gli studenti mentre «invece abbiamo blindato le Camere». Li Gotti (Idv) ha una domanda a cui non sa rispondere: «Perchè lungo il percorso del corteo, in corso Rinascimento, a due passi dal Senato, è stato lasciato un camion pieno di pale, badili, cose di cantiere, le prime armi che i ragazzi hanno lanciato contro auto, mezzi e forze dell’ordine?». Forse è stata una clamorosa svista nel sistema di bonifica dell’area. Ma anche un bambino sa che se c’è un qualsiasi corteo, cantieri e materiali edili possono diventare veri e propri depositi di armi.

l’Unità 18.12.10
«La violenza è figlia della rabbia per la fiducia comprata»
Luca Cafagna è lo studente con cui il ministro della Difesa ha perso le staffe ad Annozero: «Il governo ha mostrato il suo vero volto verso chi dissente». Il 14 «si è rotto il rapporto fra istanze sociali e politica».
di Jolanda Bufalini


Vigliacco, «sei un vigliacco», grida Ignazio La Russa con gli occhi fuori dalle orbite, «questa è apologia di reato!». Si alza, va da Santoro, se la prende con lui. «Vorrei finire di parlare», fa Luca dalla piccionaia di Annozero. Luca Cafagna, studente, iscritto alla specialistica di Scienze politiche, invitato a esporre le ragioni degli studenti. E a dire cosa pensa delle violenze del 14 dicembre a Roma. Ricominciamo, allora, da lì, dalle barricate e dalle auto bruciate del 14 dicembre. La risposta: «È successo, non c’era nulla di preordinato, è inutile tentare di imporre lo schema della minoranza organizzata, non c’era nessuna regia oscura. È successo per elementi incontrollabili». Non tutto quello che succede è positivo, il movi-
mento degli studenti ha conquistato molte simpatie nell’opinione pubblica che rischiano di dissolversi. «C’era un’aspettativa enorme, legata al voto di fiducia. Un momento decisivo in una battaglia contro la svendita dell’università pubblica e anche per tante altre battaglie. Non eravamo soli, c’erano i movimenti per l’acqua, i comitati per la chiusura delle discariche di Terzigno e di Chiaiano, i terremotati de L’Aquila». E poi? «E poi la situazione si è ribaltata, a causa di una compravendita di voti documentata dalla stampa. C’è stata una ricaduta di rabbia e, secondo me, bisogna fare attenzione a non circoscrivere, come si trattasse di una piccola cosa. È saltato il rapporto fra politica e la rappresentanza delle istanze sociali». Pier Ferdinando Casini, ad Annozero, ti ha chiesto una condanna esplicita delle violenze. «Non si tratta di condannare ma di capire, non tutti hanno partecipato agli incidenti ma tutti applaudivano». Due giorni prima i poliziotti protestavano contro il governo per le loro condizioni di lavoro, molti studenti e studentesse se ne ricordavano, al corteo, e dicevano «non capisco perché dobbiamo prendercela con loro». Luca: «Però quando in piazza ci sono i caroselli della polizia è tutto diverso. E poi, non è più grave ciò che è accaduto in parlamento con la compravendita dei voti?». Sono tre voti, non il parlamento. «Da anni assistiamo a trasmigrazioni vergognose. Uno dei nostri slogan è “non ci rappresenta nessuno”. Non c’è ascolto nei nostri confronti come nei confronti degli altri movimenti. Mi sembra ci sia un problema sullo stato della democrazia in Italia».
LE ASSEMBLEE
Fino al 14, le occupazioni dei monumenti, persino il blitz al Senato, avevano conquistato molte simpatie. Ora molti studenti potrebbero staccarsi, essere contrari o sentirsi estranei a quelle violenze. «Questo si discute nelle assemblee, dove si ragiona sul come andare avanti, sulla progettualità. Però è sintomatico che dalla sera del 14 le assemblee sono cresciute, sono molto più numerose».
Il ministro La Russa ti ha dato del vigliacco. «Ha mostrato il vero volto del governo verso chi dissente. Un governo che non dà risposte politiche. E noi siamo una generzione senza tutele.La mia borsa di studio l’hanno prossimo potrebbe essere tagliata. Forse non potrò riscrivermi all’università».

l’Unità 18.12.10
Non vanifichiamo le vittorie degli studenti
di Michele* Federico** Grimaldi Nastasi


Ciò che conta, scriveva Pasolini, è anzitutto la verità e la necessità di ciò che si deve dire. La facile e rassicurante retorica del bene e del male, dei buoni e dei cattivi, delle idee e delle riflessioni per partito preso, sono tutt’al più utili a produrre strumentalizzazioni, e forse a ricavarsi qualche confortevole nicchia di visibilità. Lo schema, comodo a molti, che descrive da una parte forze dell’ordine fasciste che aggrediscono pacifici manifestanti e, specularmente, dall’altra centinaia di migliaia di facinorosi che mettono a ferro e fuco la città, è una riproduzione fuorviante della realtà. Ciò che è successo il 14 dicembre a Roma, tra bombe carta e manganelli, imporrebbe invece uno sforzo di riflessione che dovrebbe andare oltre le trasversali difese d’ufficio e di propaganda. Il primo punto, incancellabile, è che nel nostro paese c’è oramai una generazione che non si accontenta più di sopravvivere tra precarietà e diritti negati, ma vuole vivere, rivendicando spazi di autonomia sociale, economica e culturale. Una generazione che non vuole più pagare le colpe e gli errori delle generazioni passate e che si intesta in prima persona una battaglia di speranza non più futura ma presente. Il secondo punto, altrettanto evidente, è la pessima gestione dell’ordine pubblico da parte del ministro Maroni. Il terzo punto, invece, interroga in prima persona ed in maniera ineludibile il movimento studentesco, le centinaia di migliaia di studenti e ricercatori scesi in piazza in questi mesi, le organizzazioni che hanno l’onore e la responsabilità di guidare ed organizzare la protesta, anche e soprattutto quella di piazza. Trincerarsi dietro l’alibi delle provocazioni e delle infiltrazioni delle Forze dell’ordine o bollare come esigua minoranza i facinorosi è un errore che può portare dritti alla sconfitta. Su questo servono parole ed atti chiari: fuori i violenti e le forme violente di protesta dai cortei e dalle piazze, differenziazione netta e inequivocabile, a partire dagli slogan per finire ai modi, alle piattaforme e agli obiettivi per i quali si manifesta, da chi non ambisce a migliorare le condizioni di vita della nostra generazione ma solo a creare tensione sociale. Le vittorie riportate in questi mesi dal movimento studentesco sono state frutto proprio della capacità di parlare al paese reale delle criticità vere della Riforma Gelmini e del disagio complessivo della nostra generazione. Rischiare di vanificare tutto questo è un errore gravissimo che non possiamo permetterci di compiere. Lo slogan più bello ed efficace di questi mesi è stato: “Vogliamo solo poter studiare”. Molto del futuro della protesta, del movimento e anche della nostra generazione passa proprio per la difesa di quell’immagine e di quel proposito.
*Responsabile Saperi Giovani Democratici **Coordinatore Rete Universitaria Nazionale (RUN)

l’Unità 18.12.10
Caro Saviano, forse in piazza c’era gente nuova
di Caterina Bonvicini


Caro Roberto Saviano, come sai, non sono una studentessa. Ma ero a Roma, alla manifestazione del 14 dicembre, insieme a una mia amica. Lì in mezzo ero pure la più vecchia, ma stare dentro alla cose è sempre interessante. Abbiamo camminato per otto ore. La prima scena che abbiamo visto, intorno a mezzogiorno, è stata questa: due camionette della celere sbarravano l’accesso a Palazzo Grazioli e un gruppo di napoletani ha cominciato a lanciare la monnezza contro la “sede del potere”. Vedevi volare i sacchi neri della spazzatura come aquiloni. Naturalmente, in mezzo, c’era qualche bottiglia di birra e qualche petardo. Non abbiamo potuto osservare il seguito perché subito sono partiti i lacrimogeni. Il corteo proseguiva in Corso Vittorio, di fianco a noi c’era un ragazzo di diciassette anni. Si è avvicinato perché avevamo la radio e voleva notizie. Aveva il volto scoperto. Gli abbiamo chiesto perché teneva il casco agganciato alla cintura. Ci ha spiegato che all’ultima manifestazione, contro il decreto Gemini, si era preso un sacco di botte dagli estremisti di destra. Come dici tu, la testa serve per pensare: forse è legittimo cercare di proteggerla. Quando la gente ha saputo che Berlusconi, per tre voti, aveva ottenuto la fiducia, il clima non è cambiato molto. Tutti continuavano a marciare come prima. E qui, ci siamo interrogate. Ma che tipo di rabbia è? Sembrava indifferente agli esiti delle compravendite del Parlamento. Subito dopo, abbiamo incrociato un gruppo di ragazzi aquilani. Erano andati a farsi sentire davanti alla sede della Protezione Civile. Tu, Roberto, hai una qualità: riesci a nominare le persone, a renderle vive, una per una. Agli studenti che sono morti durante il terremoto volevi restituire un’identità, giustamente. Anch’io, vorrei. Però non posso. Perché quegli studenti non sono morti, non sono intoccabili. Dopo un po’, abbiamo visto una colonna di fumo. Nessuno capiva. Poi ci siamo avvicinati: c’era una macchina in fiamme. Qualcuno ha preso il megafono e ha detto: «Non perdete la calma, allontanatevi subito, può esplodere». Ci siamo tutti lanciati giù dal pendio, verso via di Ripetta. Alcuni ragazzi, nonostante il pericolo, sono rimasti fermi lì. Aiutavano la gente a scendere, uno per uno. Questa è civiltà.Dovevamo entrare in Piazza del Popolo, ma era già in fiamme. Le scie dei lacrimogeni sembravano fuochi d’artificio a capodanno. Il corteo si è fermato, doveva fare spazio ai ragazzi che scappavano. Abbiamo visto correre verso di noi una studentessa aquilana, con il massimo dei voti in filosofia. Non era una black bloc, aveva il viso scoperto e un elmetto rosso. Tu usi il termine “idioti” e “imbecilli”. Certo quei ragazzi non ti possono querelare. E’ un po’ facile così. E anche fare paragoni storici e dejà-vu. Forse è gente nuova, che ha qualcosa di nuovo da dire, e non può.

il Fatto 18.12.10
Il piombo è solo nelle orecchie di chi nonascolta
Spinelli: “Non sono gli anni ‘70, questi ragazzi lasciati fuori dalla politica”
intervista a Barbara Spinelli di Silvia Truzzi


Anni di piombo è diventato un tormentone: inutile, e al tempo stesso banale e provocatorio. Ma il metallo sembra essere nelle orecchie di chi non sa ascoltare: parola di Barbara Spinelli.
Giovedì ad Annozero Santoro ha detto ai politici in studio: noi domandiamo ai ragazzi se si vogliono dissociare dagli episodi di violenza, ma se loro non ci rispondono quello che vogliamo sentirci dire – come poi è accaduto – dobbiamo essere in grado di parlare con loro. D’accordo?
Completamente. È più che legittimo chiedere ai giovani di riflettere suoi pericoli che i gesti violenti possono ingenerare. Ma la questione qui non è il dissociarsi dei ragazzi, ma il dissociarsi dei politici da una discussione su una manifestazione di cittadini. Bisogna dare uno spazio di dialogo: i giovani che erano in piazza non hanno compiuto un attentato, non sono gente con il sangue nelle mani.
La Russa ha dato dei vigliacchi ai ragazzi. Se ne voleva andare, ma è rimasto.
So che va molto di moda la parola canagliesca, detta d’istinto, ma un ministro non dà queste risposte. Non minaccia d’andarsene, appena uno comincia a parlare. Forse sarebbe meglio se se ne andasse davvero, se non sa fare il suo mestiere. Nel curriculum di ogni terrorista c’è il non riconoscimento delle istituzioni, della politica stessa che è risoluzione dei conflitti tramite ricorso alla parola della ragione. La Russa fa come i terroristi: dice ai ragazzi e implicitamente alla politica: “Io non vi riconosco”.
Ma loro sono cittadini. Vuol dire che lo Stato non riconosce gli elettori?
Certo, questo Stato si mette fuori, perché è in guerra, tra l’altro non si capisce con chi, e sfrutta le paure della gente.
Casini da Santoro ha detto: i poliziotti erano lì per tutelare la culla della democrazia. E uno dei manifestanti ha avuto il coraggio di far osservare come quella culla fosse la bara di una democrazia “mercantile”.
I politici che lanciano l’appello a tutelare le istituzioni, le pensano in buona salute. La culla della democrazia parlamentare è vuota. Non dico che quindi bisogna tirare i sassi, ma ha ragione lo studente quando dice che questa non è la democrazia di Pericle.
Quella culla è anche un posto da cui si evoca con una certa frequenza il partito dell’odio.
Ogni dissenso, anche pacifico, ormai è criminalizzato, oltre che inascoltato. Plutarco scrive che nei paesi asiatici si diceva sempre sì, mentre in Europa, dove c’erano democrazie, si diceva no. Sto con Plutarco.
Un luogo comune logoro vuole che la società civile si sia progressivamente staccata dalla politica. In analisi logica, un moto da luogo della società. Non sarà che è la politica ad aver aumentato in maniera abissale la distanza che la separa da ciò che i cittadini chiedono?
Sì, è una responsabilità della politica, e se il divario diventa molto profondo vuol dire che la società non ha altri luoghi e modi di manifestare se stessa e i propri disagi diversi dalla piazza. I moti violenti sono pericolosissimi. Ma sono anche un monito che la classe politica deve ascoltare, pena la propria sconfitta. Lo si è visto nella rivolta dei ghetti neri a Los Angeles nel ’92: fu allora che venne coniata una parola nuova: sottoveglianza, cioè l’inverso della sorveglianza denunciata da Foucault. La società cominciava a sorvegliare il potere dal basso verso l’alto, era soggetto e non più solo oggetto d’un controllo. La novità in Italia è che questa sottoveglianza ormai esiste. E la politica deve tenerne conto, sapere che è sotto controllo costante.
Quindi la ricetta è una società aperta. Ma quali sono gli spazi di un dialogo finora non possibile?
I luoghi cui accedono i politici devono accogliere anche i giovani, gli stessi che avranno come pensione 360 euro al mese. Penso alla tv, per esempio. E poi non ci devono essere restrizioni di manifestazione del pensiero sul web. I politici devono cominciare ad ascoltare, perché non sono di fronte a terroristi. Penso alle dichiarazioni dei giovani nella rivolta delle banlieue parigine. Dicevano in tv: “Noi non riusciamo a parlare”. La domanda è di essere ascoltati, di entrare nell’agorà. Oggi c’è una forma di ghettizzazione: è come se una generazione intera fosse chiamata negra. Quando ho visto l’immagine di quel ragazzo picchiato in piazza del Popolo, l’altro giorno, mi è tornato alla mente il filmino sul pestaggio di Rodney King nel ‘91. Ripreso da persone che stavano lì – e qui torna la sottoveglianza – nel momento in cui la polizia picchiava il giovane nero. La rivolta dei ghetti nacque da lì.
Saviano ha scritto: “Gli infiltrati ci sono sempre, da quando il primo operaio ha deciso di sfilare. E da sempre possono avere gioco solo se hanno seguito. È su questo che vorrei dare l'allarme. Non deve mai più accadere. Così inizia la nuova strategia della tensione, che è sempre la stessa: com'è possibile non riconoscerla? Com'è possibile non riconoscerne le premesse, sempre uguali? Quegli incappucciati sono i primi nemici da isolare”. Non sarà un po’ limitata la sua analisi?
Come lui condanno la violenza anche perché controproducente rispetto a ciò che si vuole ottenere. È vero anche che un movimento, anche di tipo diverso da quello degli anni di piombo, può essere accompagnato da una strategia della tensione e avere quindi gli stessi risultati. Approvo dunque la messa in guardia di Saviano. Al tempo stesso, la messa in guardia non può essere l’unica premessa, a mio parere, del discorso con questi giovani, perché in loro non c’è un disegno politico di tipo classico. C’è un disegno di chi è relegato fuori in maniera radicale dalla politica e vuole entrarci. Questo è un atto politico di persone che sono fuori dalla gestione pacifica dei conflitti.
Si fa il paragone con gli anni di piombo. Ma queste proteste non hanno nulla di ideologico. In piazza c’erano precari senza futuro, terremotati senza case, ricercatori che rischiano di sparire, napoletani sommersi dai rifiuti. Alemanno – uno che a qualche manifestazione non pacifica ha partecipato – ha detto: ”Non dobbiamo tornare agli anni ’70. Tutte le istituzioni facciano muro contro questa azione violenta perché non è più tollerabile”.
Sono un po’ stanca di sentire ricordati gli anni 70 e anche della frase “bisogna stare in guardia”. Dire “tutte le istituzioni facciano muro” significa solo che salta la pluralità delle istituzioni. Che tutte devono rispondere al comando di un unico capo. È la logica di un paese in guerra. Fare muro è un giudizio negativo sulla magistratura che ha appena scarcerato i giovani.
C’è poi un dato: il rapporto Stato-cittadini. Lo Stato non può chiamarsi fuori perché il rapporto non è paritetico.
Le analisi migliori le ho viste nei pezzi di Bonini e Bianconi. In quelle dei politici ho visto solo il desiderio di compiacere quella che loro immaginano sia la maggioranza silenziosa. Non vogliono risolvere i problemi, vogliono solo che la vetrina non sia rotta. Questo non è governare, è la risposta per ottenere una buona reazione da un eventuale sondaggio. Anche quella dei politici che si sottraggono al confronto è violenza.
Il direttore del Giornale, Sallusti, ha detto: "Se un uomo a 37 anni non può pagarsi il mutuo è colpa sua: vuol dire che è un fallito".
Nemmeno gli avversari del '68 usavano aggettivi simili. Dici a un’intera generazione che è fallita: tanto vale farla fuori.
Maggioranza e opposizione, salvo qualche eccezione, sembrano aver dismesso il mandato di rappresentanza dei cittadini. Vero?
Vedo anch’io una dismissione del mandato politico. In questi anni c’è stata una svendita: nessuno si occupa dei cittadini. Ogni giorno sentiamo politici appellarsi alla sovranità di un popolo per legittimare il loro agire politico. Ma come si permettono? C’è un enclave di persone che comandano e un muro che le separa dai barbari. Ma i barbari, attenzione, sono gli italiani.
Miopia o dolo?
L’errore maggiore è non saper prevedere, non ascoltare domande e non dare risposte . L’errore non è fare politiche austere, come dimostrano i casi di Grecia e Irlanda. L’errore è far fare i sacrifici solo a chi è già emarginato. Bisognava riconoscere la crisi, il nostro governo l’ha sempre negata, sostenendo che è un’invenzione dei media. Ma quando si vive nella menzogna, la bolla scoppia. Chi semina miseria senza spiegare perché raccoglie collera. E questo è vero da migliaia di anni.

il Fatto 18.12.10
Mercoledì un’altra manifestazione contro la riforma Gelmini


Mercoledì prossimo ci sarà il rischio di nuovi scontri dopo quelli che martedì scorso hanno sconvolto Roma. L’approvazione definitiva del ddl di riforma dell’Università, prevista al Senato, potrebbe rappresentare la miccia per nuovi disordini nella Capitale dopo quelli del giorno della fiducia al governo. Le forze dell’ordine hanno spiegato che c’è una tendenza alla ricerca dello scontro fisico una novità rispetto al lancio delle molotov degli anni ‘70. Per questo motivo proveranno ad evitare una contrapposizione frontale di blindati con i manifestanti per privilegiare assetti più agili e mobili, in grado di controllare in tempo reale gli itinerari dei cortei e prevenire il rischio che alcuni procedano in direzioni non programmate per dare vita ai disordini. Le prossime iniziative previste dagli studenti sono un sit-in per martedì e manifestazioni e cortei per mercoledì, non solo nella Capitale ma anche nelle altre città italiane. Non si può escludere però che già lunedì, in concomitanza con l’approdo del ddl alla discussione di Palazzo Madama, possano essere messe in atto singole azioni dimostrative e iniziative spontanee di protesta.

Corriere della Sera 18.12.10
La sinistra divisa sull’uso delle barricate
di Fabrizio Roncone


ROMA— Sul quotidiano comunista il manifesto, ieri, a pagina 4, questo titolo: «Ora la precarietà vi si rivolta contro» . Sommario (le due righe che stanno sotto il titolo): «Parlano i protagonisti dell’assedio alla zona rossa: così miriamo a rompere solitudine e subordinazione» . Gli intervistati sono anonimi. E questi sono stralci del colloquio. Domanda: martedì qual è stata la parola unificante? «Martedì era "la rivolta", la ricerca della rottura. Chi vive la crisi, di fronte alla fine della mediazione politica, comincia a "soggettivizzarsi"non solo nell’autorganizzazione, ma costruendo "pezzettini"di rivolta quotidiana» . «... Che da qui a "costruire un mondo nuovo"sia sufficiente bruciare due macchine, ovviamente no... Ma qual è la priorità oggi? Riportare i processi di conflitto al centro, accumulare forze per il cambiamento... Anche facendo le barricate costruiamo un mondo nuovo, perché mentre le fai scopri "con chi"puoi fare un altro mondo» . «... La piazza ha "tenuto"oltre ogni aspettativa. Ora c’è da capire quali prospettive si dà questo movimento. Ma martedì tanti "pischelletti"hanno capito che c’è una cooperazione nella lotta, e la ricomposizione è possibile» . Depurati da un certo politichese un po’ gruppettaro, i ragionamenti sono chiari: martedì alcuni manifestanti hanno cercato la rivolta, convinti che anche attraverso le barricate— e quindi la durezza degli scontri con le forze dell’ordine, gli incendi, le devastazioni, il lancio di micidiali bombe carta — sia possibile costruire un mondo nuovo. Norma Rangeri, tu dirigi il manifesto: non ti sembrano teoremi pericolosi? Non temi la nascita di una zona grigia dove la violenza possa fermentare? «Senti: io posso anche dirti che questa violenza è una forma di esasperazione... una forma di risposta al disagio che, drammaticamente, mette da parte la politica...» . Invece cosa pensi davvero? «Penso che ci sia un’altra verità, più profonda e più grave. Penso insomma che questi ragazzi, nati e cresciuti in pieno berlusconismo, adesso siano venuti a presentarci, semplicemente, il conto» . Il tono delle vostre domande non è incalzante e non è mai critico. «Noi abbiamo posto le domande che crediamo meritassero delle risposte. È compito di noi giornalisti indagare e comprendere certi fenomeni. Del resto non erano quattro gatti, ma centinaia quelli impegnati nei tafferugli. E aggiungo: nessuno mi sembra pentito e, anzi, è evidente a tutti la sostanziale solidarietà che hanno ricevuto e ricevono dal movimento» . Sul ragionamento di Norma Rangeri entra Maurizio Landini, il segretario della Fiom-Cgil che martedì era alla testa di uno dei due cortei in marcia verso la zona rossa che doveva proteggere il Senato, Montecitorio e Palazzo Chigi. «Sì, c’ero, ho sfilato e se vuole sapere cosa penso della violenza come metodo, come percorso, le rispondo in modo netto: la violenza, in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione, è inaccettabile... Ripeto: in-ac-cet-ta-bi-le» . Detto questo, segretario, i ragionamenti che cominciano a circolare in una certa sinistra... «Mi ascolti bene: noi dobbiamo cercare di comprendere le ragioni di tanta violenza, ma in un momento come questo, con la democrazia sotto attacco sia nelle imprese sia in molti altri luoghi del Paese, dobbiamo difendere il nostro diritto a manifestare proprio professando la non-violenza. Punto e basta» . Basta davvero? La voce di Erri De Luca (grande scrittore, poeta, traduttore, ma anche tra i fondatori di Lotta Continua, di cui poi divenne capo del servizio d’ordine) è una voce come sempre misurata, quasi chirurgica. «Io penso che questo movimento si stia misurando con la dannata necessità della violenza: la violenza è una cosa orribile, ma purtroppo fa parte del processo di crescita di un movimento d’opposizione» . Quelle parole usate dagli intervistati del manifesto, quella durezza... «Sono stato all’università La Sapienza, e li ho visti, e ci ho parlato. Con ciò che accadde nel ’ 68, ci sono molte similitudini: quella che colpisce di più, naturalmente, è la presenza massiccia degli universitari, che hanno capacità trascinante, di innesco e di rappresentanza. Loro possono portarsi dietro tutte le lotte sociali di questo Paese» .

Repubblica 18.12.10
Se il governo risponde con i manganelli al rancore dei giovani senza speranza
Ecco perché la crisi di una generazione è ridotta a un problema di ordine pubblico
di Giuseppe D’Avanzo


La violenza è in ogni caso inaccettabile: va anticipata, isolata e punita
Se non si comprende il disagio dei ragazzi si rischia solo di allargare la ferita

Ascoltato Maroni che si lamenta della magistratura e osservate le mosse di Alfano che ordina un´ispezione ministeriale, si deve concludere che il governo non ha capito o non vuole capire che cosa è accaduto a Roma il 14 dicembre. Peggio, sembra non comprendere che cosa può accadere mercoledì prossimo quando al Senato sarà approvata definitivamente la "riforma Gelmini". Questo provvedimento ormai non parla più soltanto dell´università o agli studenti e ai ricercatori.
È diventato il simbolo della crisi di una generazione e del suo futuro. Si è trasformato nella rappresentazione dell´indifferenza dei governanti per i governati, dell´incapacità del potere di ascoltare chi è in difficoltà e impaurito. È ormai l´allegoria del disinteresse della politica per la sofferenza del mondo del lavoro, per lo smarrimento di chi, colpito da una catastrofe (un terremoto, la crisi dei rifiuti), è stato abbandonato a se stesso.
Il 14 dicembre a Roma non è accaduto soltanto che un gruppo di violenti si sia impadronito della protesta e - poi - la violenza di ogni ragione. È accaduto che per la prima volta nei modi del tumulto (lasciamo perdere l´esasperazione di chi parla di «guerriglia») ha preso forma pubblica e collettiva un rancore senza speranza, la rabbia di un Paese incattivito, socialmente fragile, segnato «da forme sommerse di deprivazione, di vera e propria povertà e soprattutto di impoverimento», come documenta Marco Revelli nel suo Poveri, noi. Un Paese dove il prezzo della crisi - e delle soluzioni preparate dal governo - cala come un maglio sulla vita e sulle aspettative soprattutto dei più giovani. Le statistiche ufficiali ce lo raccontano. Per l´Osce, nei 33 Paesi maggiormente industrializzati, l´Italia è al penultimo posto per l´occupazione giovanile con il 21,7 per cento di occupati: soltanto uno su cinque lavora. Tra chi è occupato il 44,4 per cento ha un lavoro precario e il 18,8 lavora part-time. Tra chi è disoccupato, il 40 per cento lo è da lungo tempo e il 14,9 ormai non studia né lavora. D´altronde - dice Marco Revelli - «l´80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto... Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al "mondo dei cognitivi", alle nuove professioni come l´informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato».
Se rimuove questo quadro, il governo si impedisce di comprendere, ammesso che lo voglia, le ragioni della violenza. Non le ragioni di chi, vestito o no di nero, centro sociale o "cane sciolto", vuole "stare in piazza" con le pratiche dei black bloc e, prigioniero di un freddo nichilismo, non si fa alcuna illusione sulla democrazia e pensa - come il "blocco nero" - che «la violenza non sia un problema morale, è semplicemente la vita, il mondo in cui siamo capitati che non lascia altra strada che l´illegalità».
Queste ragioni sono inaccettabili e questa violenza va anticipata, isolata e ogni illegalità punita. È un´operazione che può avere un esito positivo soltanto se - in tutti coloro che il 14 dicembre non si sono opposti o hanno addirittura approvato quelle violenze - si alimenta una speranza nella democrazia e la fiducia nel dialogo con le istituzioni; se si attenua la convinzione diffusa in una larga fascia di giovani (16/35 anni) di essere le vittime sacrificali del declino, le anime morte della crisi.
Il messaggio che ieri il governo ha voluto diffondere è stato di segno opposto. Come se la crisi sociale rappresentata il 14 dicembre potesse essere affrontata come "questione di ordine pubblico", Maroni e Alfano hanno voluto dire soltanto della forza, con quale violenza e determinazione il governo avrebbe affrontato l´emergenza di nuovi tumulti. Lo hanno fatto nei soliti modi di un governo che crede in un diritto diseguale e immagina, per i potenti, un diritto debole e per i deboli leggi e dispositivi brutali. Questi campioni del "garantismo" che chiedono legittimamente per Cosentino, Dell´Utri, Verdini, Bertolaso l´accertamento della responsabilità personali, la verifica della fondatezza delle accuse e dell´attendibilità delle fonti di prova pretendono, abusivamente, un lavoro all´ingrosso per i giovani e giovanissimi arrestati a Roma l´altro giorno. Invocano, al di là delle prove, una detenzione esemplare non per le dirette responsabilità degli indagati, ma per le colpe di chi è riuscito a farla franca come se la stessa presenza a una manifestazione travolta dalle violenze sia già una prova di colpevolezza. Un´idea autoritaria che trova la sua dimostrazione nella insensata proposta del sottosegretario all´interno Alfredo Mantovano di allargare il "divieto di accedere alle manifestazioni sportive" (il D. a. spo.) dagli stadi alle piazze, come se una manifestazione di dissenso possa essere paragonata a una partita di calcio.
È l´avvilita idea di democrazia della destra berlusconiana. Ci deve consigliare attenzione perché non sarà con la forza e con "la repressione", invocata già a caldo dal ministro Sacconi, che si verrà a capo della crepa che si è aperta tra le generazioni più giovani e le istituzioni. Sarebbe azzardato e imprudente se un governo politicamente e socialmente debole decidesse di rafforzare se stesso allargando quella ferita, accendendo la collera invece di raffreddarla prestando ascolto alle ragioni del disagio.

l’Unità 18.12.10
La Consulta boccia la norma sugli immigrati contenuta nel «pacchetto sicurezza» del 2009
«Non è punibile chi non ottempera all’espulsione perché in stato di estrema indigenza»
Clandestini, non c’è reato se restano in Italia per poverta
A rivolgersi alla Corte Costituzionale è stato il Tribunale di Voghera, chiamato a giudicare sul caso di una clandestina destinataria di più decreti di esplusione, ma che non aveva potuto lasciare l'Italia.
di Pino Stoppon


La Corte Costituzionale boccia uno dei capitoli più pesanti del “pacchetto sicurezza” 2009. Non sono punibili gli immigrati che per povertà o comunque per «giustificato motivo», non hanno eseguito -
per più volte l'ordine di allontanamento intimato dalla questura e sono rimasti illegalmente in Italia, come clandestini. Perde un pezzo, così, una delle norme relative al reato di clandestinità.
A sollevare il caso rivolgendosi alla Consulta è stato il Tribunale di Voghera, chiamato a giudicare sul caso di una donna clandestina che più volte era stata colpita da un decreto di espulsione ma che, per motivi di estrema indigenza, non aveva potuto lasciare l'Italia con i propri mezzi. Sarebbe, questo, un «giustificato motivo», che però non è stato previsto dall'articolo 14 del testo unico sull’immigrazione, così come modificato dall’ultimo “pacchetto sicurezza” del governo Berlusconi (si tratta della legge 94 del luglio 2009). Ebbene, la Corte Costituzione rileva innanzitutto che il “pacchetto sicurezza” ha aumentato nel massimo da quattro a cinque anni la pena per lo straniero inottemperante a più di un ordine di allontanamento. Ma a fronte di questo, critica il fatto che non sia sta-
to previsto un «giustificato motivo». Si tratta infatti scrivono i giudici costituzionali nella sentenza depositata ieri in cancelleria di una clausola che, come la Corte ha già rilevato, è tra quelle «destinate in linea di massima a fungere da “valvola di sicurezza” del meccanismo repressivo». Nel caso, ad esempio, di «estrema indigenza, indisponibilità di un vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo, difficoltà nell’ottenimento dei titoli di viaggio, etc», la clausola di «giustificato motivo» esclude sottolinea la Corte la «configurabilità del reato».
Nel caso concreto, la donna straniera che per tre volte non aveva adempiuto all'ordine di allontanamento del questore, era stata arrestata dopo essere stata rintracciata nel sottoscala di uno stabile dove aveva trovato riparo, in un luogo abbandonato, senza bagni né riscaldamento, nonostante la temperatura fosse sotto zero. E per i giudici della Consulta è “irragionevole” pensare che, se al primo decreto per la donna era stato impossibile tornare al suo Paese d’origine, potesse invece farlo al secondo o al terzo provvedimento, trovandosi ancora in quelle condizioni di povertà. A meno che non si fosse provveduto con una esecuzione coatta. In altre parola, conclude la Corte, deve esserci «un ragionevole bilanciamento tra l’interesse pubblico all'osservanza dei provvedimenti dell'autorità e l’insopprimibile tutela della persona umana».
Una decisione, quella della Consulta, che decreta l’incostituzionalità della norma prevista dal pacchetto sicurezza e ripristina lo Stato di diritto nel nostro Paese», commenta la presidente del Pd Rosy Bindi, sottolineando la «lezione di civiltà che il centrodestra farebbe bene a recepire, dichiarando il fallimento di una politica che non ha prodotto sicurezza ma solo alimentato sospetti e paure».

il Fatto 18.12.10
Pietà per gli ultimi
di Corrado Giustiniani


Se lo straniero espulso è in condizioni “di estrema indigenza”, non puoi sbatterlo in galera perché non ha lasciato il territorio nazionale. E non puoi punirlo nemmeno nel caso che non sia disponibile un aereo o un altro mezzo di trasporto adatto allo scopo, o che abbia difficoltà a reperire i biglietti, o che non abbia ottenuto dalla sua ambasciata il passaporto per poter lasciare l'Italia. Uno schiaffone natalizio, da parte della Corte costituzionale, al “pacchetto sicurezza” approvato nel luglio dello scorso anno dal governo, che aveva inasprito fino a 5 anni la pena per chi non onora ripetutamente l'ordine di allontanamento del questore, dimenticandosi però di prevedere un “giustificato motivo” per non rispettarlo e restare così nel nostro paese. La sentenza che attacca la legge 94 del governo porta il numero 359 ed è stata depositata ieri in cancelleria. Prende spunto dal caso di una donna straniera clandestina, arrestata dopo essere stata rintracciata nel sottoscala dello stabile dove soggiornava, un posto abbandonato, privo di servizi igienici e di riscaldamento, con la temperatura di parecchi gradi sotto lo zero. Per tre volte la donna era stata raggiunta da un decreto di espulsione, ma non se n'era andata. La questione su cui la Consulta ha deliberato era stata sollevata dal Tribunale di Voghera. La legge 94 non prevede l'arresto se lo straniero non abbandona il paese entro cinque giorni, dopo il primo adempimento. Ma una condizione di “estremo stato di indigenza” non diventa certo superabile in poco tempo. E allora, o esegui coattivamente l'espulsione, o non puoi pretendere che uno se ne vada da solo. Il controllo dell'immigrazione illegale, osserva la Consulta, deve tener conto dell'“insopprimibile tutela della persona umana”, osserva la Consulta, e il governo deve correre ai ripari prevedendo il “giustificato motivo” per restare in Italia.
Fin qui la sentenza. Ma la risposta politica non può limitarsi a prevedere un'eccezione “per l'estremo stato di indigenza” e altri casi circostanziati , difficilmente quantificabili. Bisogna invece creare le condizioni perché in Italia circolino meno clandestini. Come è possibile, ad esempio, che uno straniero a cui scada il permesso di soggiorno, e che perda il suo posto di lavoro, possa rimanere legalmente sul nostro territorio per appena sei mesi, e dopo può essere raggiunto da un ordine di espulsione, perché così prevede la legge Bossi-Fini ? Uno che magari lavorava regolarmente nel nostro paese da molti anni, che è qui con moglie e figli, e poi è stato colpito dalla terribile crisi che stiamo attraversando? La cronaca ci ha appena consegnato il caso estremo del senegalese Alhdi Szidou Gadaiga, da 15 anni regolarmente in Italia, malato d'asma con tanto di certificato medico e morto al freddo nella cella di sicurezza dove i carabinieri di Brescia lo avevano recluso in quanto, perso il lavoro, era rimasto privo di permesso di soggiorno. I sei mesi di tolleranza dopo che il permesso è scaduto vanno riportati ad almeno un anno, come prevedeva la vecchia legge Turco-Napolitano, se non a 18 mesi. L'altra misura, urgente e necessaria, è una regolarizzazione per chi fa un lavoro diverso da colf o badante: nel settembre del 2009 è stata approvata una sanatoria solo per chi opera nelle case degli italiani. Lei, ucraina, badante, si salva. Lui, il marito, che è operaio edile deve invece essere espulso. Un paradosso inaccettabile. Nel 2009 e per i primi undici mesi il governo non ha varato alcun decreto flussi per l'ingresso regolare in Italia: la sola via possibile era quella clandestina. Il 30 novembre scorso ha deciso invece un mini-decreto da 98 mila ingressi (di cui 30 mila riservati alle colf) che sta per essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Ma i clandestini sono almeno 540 mila (stima Ismu). Completare la sanatoria è un atto dovuto. Questa ha effetti pratici più veloci del decreto flussi (anche per le casse dello Stato) e per di più è stata sollecitata da due ordini del giorno approvati dalla Camera il 19 novembre, uno del Popolo delle libertà (Cazzola e altri) e uno del Pd (Turco e altri). Il governo a Montecitorio ha promesso di valutare l'ipotesi. È il momento di passare ai fatti.

l’Unità 18.12.10
Nel cuore di Roma
un’ex-ambasciata e 150 somali disperati
Accettati in Italia come rifugiati vivono nella miseria abbandonati a se stessi Non si sa dove vadano i fondi che l’Europa versa per loro al nostro governo
di Shukri Said


È molto tardi quando esco dal mio bagno di travertino beige circondata dai profumi della toletta serale, dal dentifricio agli oli più pregiati per lo strucco e l’idratazione, indossando, non due gocce di Chanel numero cinque come Marylin Monroe, bensì un pesante pigiama di pile che spero mi restituisca una parte del calore che ho perso negli ultimi due giorni, da quando con Raffaella Cosentino, collaboratrice di Repubblica, ci siamo recate per un servizio sui rifugiati somali nell’ex Ambasciata di Somalia in Via dei Villini 9 a Roma, scoprendo l’orrore di condizioni di vita disumane a un passo da Porta Pia.
Da allora sono sconvolta e affranta. Vivo con una nuvola sul capo per il senso di impotenza di fronte a 150 ragazzi abbandonati nel gelo di questa metà dicembre, mentre l’Europa paga all’Italia fondi per loro che non si sa dove vadano a finire.
Guardo verso il letto alla cui base un led ambrato mi dice che lo scaldasonno è acceso e il risvolto delle coltri mi mostra il lenzuolo di sotto ben teso che promette di avvolgermi finalmente in un invitante calore. L’abat-jour sul comodino dalla mia parte mi aspetta accesa, mentre è già spenta quella dalla parte di Maurizio che continuerà a leggere con la lucina che spunta dal bordo superiore delle pagine finché il libro gli cadrà sulla faccia, perché le fatiche del mondo giudiziario che frequenta ogni giorno avranno finalmente il sopravvento per qualche ora sulle sue inesauribili energie.
Ma questa volta la prospettiva di dormire tra le mie comodità non mi seduce. Mi atterrisce l’idea che quel tepore mi riposi troppo presto così da risvegliarmi in piena notte assalita dai ricordi di quello che ho visto in Via dei Villini. Ho passato la mattina tra le bancarelle del mercatino attorno al Policlinico Umberto I alla ricerca di calze pesanti da portare a quei ragazzi. Perfino i curiosi venditori ambulanti del Bangladesh, quando gli ho detto a cosa mi servivano tutte quelle calze, mi hanno fatto un grande sconto. Ma è impossibile da soli comprare calze per 150 disperati. E il resto, poi? A ora di pranzo ho chiamato Giuseppe Giulietti, Jean-Leonard Touadì, Rita Bernardini, Rainews24, Andrea Billau di RadioRadicale e dopo due ore era-
no tutti, di persona o col cuore, a Via dei Villini per accertare e documentare. Aprire un dialogo tra il Palazzo e l’Inferno.
A destra non ho chiamato. Loro già sapevano e non hanno fatto niente. Tanto per cambiare.
Poco più di un mese fa la Questura ha fatto irruzione nell’ex Ambasciata di Somalia, ha strapazzato i suoi occupanti rompendo qualche dente e ha caricato tutti sui pullman per schedarli. C’è stato movimento sulla stampa per l’invasione
territoriale, ma poi l’Amministrazione degli Interni li ha rilasciati tutti perché in possesso dei documenti da rifugiati e li ha fatti rientrare a Via dei Villini, abbandonandoli un’altra volta al loro degrado e alla loro disperazione.
Grandi Giulietti, Touadì, Bernardini, che pure, bloccata in Commissione, è stata vicina per telefono costantemente. In questi giorni di parlamentari all’asta, loro sono stati veramente Onorevoli. Hanno abbandonato tutti i loro impegni e si sono precipitati per vedere con i loro occhi e sentire in diretta quanto avevo visto e udito con Raffaella. Già soltanto per loro questo Parlamento meriterebbe di essere conservato come i Giusti del salvataggio di Sodoma e Gomorra.
Grande Corradino Mineo e i suoi di Rainews24, con Giorgio Santelli primo fra tutti. Grande RadioRadicale con RadioMigrante. Grande Raffaella Cosentino col suo pezzo toccante su Repubblica.it/Mondo solidale.
Abbandono l’idea di stendermi sul letto. Prendo il tappetino della ginnastica e lo sdraio sul pavimento davanti al comodino. Allungo la mano e spengo la mia abat-jour. Che si riaccende poco dopo e Maurizio si affaccia su di me dal bordo del letto. Lo conosco tanto bene che già mi sembra di sentire il suo “Ma che fai?” tanto che già comincia col “Ma...”. Poi la sua faccia scompare e sento un tramestio di lenzuola. Ora è in ginocchio vicino a me. Mi solleva la testa e l’appoggia sul cuscino che nella mia angoscia avevo dimenticato di prendere. Mi si sdraia vicino. Poveretto. Lui non ha nemmeno il tappetino della ginnastica. Rispegne l’abat-jour e mi prende la mano. Vuole condividere con me l’espiazione del nostro benessere di fronte alla mostruosità delle condizioni di vita dell’ex Ambasciata di Somalia che è venuto a constatare anche lui come Presidente dell’Associazione Migrare.
Lo amo per questo. So che mi sarà vicino fino alla soluzione positiva con le sue pacate e implacabili strategie nello scuotere le Autorità, nell’increspare lo stagno che ha permesso che tra le Ferrovie dello Stato e il Ministero dei Lavori Pubblici crescesse una degradazione senza appello.
Questa mattina, appena superato il grande cancello nero dell’Ambasciata, ho incrociato un topo di trenta centimetri. Era molto elegante nel suo mantello grigio chiaro e con la lunga coda rosa. Alcuni suoi parenti si trovano spiaccicati dalle auto lungo il marciapiedi all’esterno. Ci siamo guardati come due che fanno a gara a chi deve passare per primo: “Prego si accomodi”. “No, passi prima lei”. Gli ho ceduto volentieri il passo e lui ha attraversato rapidamente il vialetto di distacco dal limitrofo elegantissimo villino giallo e bianco per guadagnare il muro perimetrale dell’Ambasciata, percorrerlo senza fretta e sparire dietro l’angolo.
Stiamo sdraiati al buio Maurizio ed io sul pavimento affianco al lettone, eppure siamo lontanissimi dalle condizioni di Via dei Villini dove la temperatura è ormai scesa parecchio al di sotto dello zero. Manca pure lo squittio dei topi che arrotano i denti sull’enorme immondizia che lorda ogni angolo dell’Ambasciata. “Perché non cominciate a dare una pulita?” ho chiesto ai miei fratelli somali. “La disperazione senza prospettive ammazza la speranza” mi hanno risposto a testa bassa.
Da dove si comincia? Maurizio, aiutami tu. Giuseppe, Jean-Leonard, Rita, Corradino, mondo civile, aiutatemi voi. Quanto sarà lunga la nuttata dell’ex Ambasciata di Somalia? Aiuto!!!
*Segretaria e Portavoce dell’Associazione Migrare – www.migrare.eu

l’Unità 18.12.10
Soldi sospetti nei conti Ior
 I pm aprono una seconda inchiesta per riciclaggio
Una presunta truffatrice di compagnie assicurative, una donna sotto falso nome che movimenta i soldi di un prelato e tre misteriosi avvocati arrestati per aver sottratto fondi ad un ospedale. Tutti intestatari di conti Ior.
di Angela Camuso


È una presunta truffatrice ai danni di compagnie assicurative, attualmente sotto processo a Roma, la donna che lo scorso 6 luglio, attraverso un conto dello Ior, ha effettuato a beneficio di un fantomatico reverendo, tale S. Palumbo, un giroconto di 151.000 euro. Denaro che la donna quattro giorni prima aveva versato in una filiale romana della Barclays, sostenendo agli sportelli che si trattava di soldi derivanti dalla vendita di un appartamento di sua proprietà, senza però fornire documenti che lo provassero. Dell’esistenza di quell’operazione sospetta, segnalata alle Fiamme Gialle dalla Banca d’Italia, ne aveva dato notizia l’Unità lo scorso novembre e ora si scopre pure che secondo la Guardia di Finanza di Roma sarebbero di provenienza illecita anche i soldi transitati su un altro conto Ior sul quale ha operato un alto prelato sessantenne, monsignore Emilio Messina, residente a Roma e capo dell’Arcidiocesi di Camerino-San Severino Marche, nonché cappellano presso tre case di cura gestite da religiosi. Messina, come già scoperto dai pm della procura capitolina, aveva delegato ad operare su quel conto, presso l’agenzia Unicredit di via della Conciliazione, a due passi da San Pietro, una donna che si era presentata agli sportelli con un falso nome, Maria Rossi. Attraverso il conto di monsignor Messina la donna, che in verità si chiama Anna Maria Brunozzi, nel 2009 aveva incassato una quarantina di assegni provenienti da fondi di San Marino a loro volta riferibili a un avvocato civilista del foro di Roma, Enrico Pennaforti. Personaggio, quest’ultimo, che si sospetta abbia compiuto truffe ai danni dell’ente Inps per poi trasferire Oltralpe i proventi di quei reati, salvo poi rientrarne in possesso in seguito proprio attraverso operazioni schermate sui conti della banca vaticana.
Per questi motivi, ma non solo, il procuratore aggiunto Nello Rossi e il pm Rocco Fava hanno aperto di recente un nuovo fascicolo sullo Ior, stavolta per il reato di riciclaggio, che è ancora ufficialmente contro ignoti. Si tratta un fascicolo che si muove parallelamente all’indagine che ha già portato questo autunno al sequestro preventivo di 23 milioni di euro della banca vaticana, nonché all’iscrizione nel registro degli indagati, per il reato di violazione delle norme antiriciclaggio, del presidente dello Ior Paolo Ciprani e del suo direttore generale, Ettore Gotti Tedeschi. Tra le due indagini, tuttavia, non mancano punti di contatto come nel caso delle relazioni pericolose di monsignor Messina. Fu infatti lo stesso Paolo Cipriani a comunicare formalmente a Unicredit, con tanto di firma, la falsa identificazione di Maria Rossi: «Il Reverendo Messina ha dichiarato che Maria Rossi è madre del signor Pennaforti», è scritto nella nota a firma di Cipriani inviata a Unicredit, dopo che la finanza aveva chiesto alla banca a quale titolo la misteriosa signora incassasse assegni Ior.
C’è infine un’altra sospetta operazione di riciclaggio sul quale presto potrebbero arrivare clamorosi sviluppi. Si è scoperto infatti che un conto Ior sarebbe stato foraggiato di circa un milione e mezzo di euro da parte di un gruppo di tre avvocati finiti in carcere lo scorso luglio a Catania. Si tratta di Marco Cocilovo, Mauro Itro e Mauro di Monaco: secondo l’accusa avrebbero rubato all’ospedale Fatebenefratelli di Benevento denaro che la Regione Campania doveva al nosocomio e che i tre erano stati da questo incaricati di recuperare.

il Fatto 18.12.10
Il Vaticano scieglie ancora il Cav
Pressioni su Casini per far affondare il Terzo Polo
di Marco Politi


Città del Vaticano. “La Chiesa spinge l’Udc all’abbraccio con il governo. Casini non vuole legarsi a un cadavere. E intanto il Papa elogia Berlusconi per aver difeso il crocifisso dinanzi all’Europa. È una partita a tre, assai delicata, quella che si sta giocando all’interno del mondo cattolico. Visto il totale allineamento del premier alle istanze economiche e legislative della Chiesa (al pranzo con il cardinale Bertone prima della fiducia Berlusconi dichiarò platealmente “non sarò mai contro il Vaticano”) i vertici ecclesiastici si sentono sempre più incoraggiati a intervenire nel-l’arena politica e a premere sul partito di Casini perché non proceda con Fini sulla via del Terzo polo, ma raggiunga un accordo con il governo.
Evidenti le parole pronunciate il 15 dicembre dal cardinale Bagnasco, presidente della Cei, quando ha affermato che gli italiani si sono espressi “in modo chiaro e democratico” per la governabilità e tale desiderio deve essere “da tutti rispettato e perseguito”. Pochi giorni dopo Bagnasco ha rilanciato l’appello ad un dialogo vero “nelle articolazioni dello Stato, che diversamente si inceppa”. Il segretario di stato vaticano Bertone ha invocato la benedizione divina sui governanti italiani. E l’Avvenire ha ammonito Casini a non approntare un “terzo pasticcio” (altro che Terzo Polo!).
Benedetto XVI, ricevendo per le credenziali il nuovo ambasciatore presso la Santa Sede Francesco Greco, ieri ha coronato il tutto ribadendo solennemente il diritto di intervento della Chiesa. “Lo Stato – ha detto richiamandosi al Concordato – è chiamato a tutelare non solo i diritti dei credenti alla libertà di coscienza e di religione, ma anche il ruolo legittimo della religione e delle comunità religiose nella sfera pubblica”. I legami tra l’Italia e la Chiesa cattolica costituiscono caratteristiche, ha ricordato il Papa, che “non possono essere negate, dimenticate o emarginate”. Quando è successo, ha ammonito Ratzinger, “si sono causati pericolosi squilibri e dolorose fratture nella vita sociale del Paese”. Monito chiarissimo. Seguito dall’elogio del governo Berlusconi per il mantenimento del crocifisso nelle scuole e la difesa delle minoranze cristiane nel mondo. Perché tutti capiscano l’Osservatore Romano ha titolato: “Il Papa ribadisce il ruolo legittimo della religione nella sfera pubblica”.
CASINI, eppure, non ha intenzione di cedere. Non entrerà in un governo Berlusconi né rinuncerà allo stretto coordinamento con Fini. Lo ha anche spiegato al cardinale Bagnasco incontrato pochi giorni fa. Casini sa che i vertici ecclesiastici sono arroccati nell’appoggio al governo Berlusconi, ma ormai non tornerà indietro. Conta su quel trenta per cento dell’episcopato che da tempo ha silenziosamente sfiduciato Berlusconi, e sa che parte dell’associazionismo cattolico guarda al centro o a sinistra ed è stanco di un premier parolaio e bunga-bunga . Ma soprattutto Casini ha ancora carte forti nei confronti della gerarchia ecclesiastica. Il suo pacchetto di voti capace di impedire in parlamento qualsiasi approvazione di leggi invise al Vaticano.
Se la Chiesa teme che si stabiliscano norme contrarie alla dottrina vaticana su temi sensibili come le coppie di fatto o il testamento biologico – questo il ragionamento illustrato a suoi interlocutori ecclesiastici di persona e tramite suoi ambasciatori – allora non deve temere : in parlamento l’Udc farà barriera con il Pdl e la Lega. Tutto questo si può fare dall’“esterno” senza aggregarsi al carro di Berlusconi, che per Casini è ormai politicamente inaffidabile come premier. Le posizioni diverse di Fini? È giusto lasciare libertà di dibattito (nel segno di un’antica tradizione democristiana che va riscoperta ). Ma rafforzare il Terzo Polo, così suona il messaggio di Casini al Vaticano, significa favorire la crescita dell’area cattolico-moderata con la prospettiva di attrarre sui temi cari alla Chiesa voti dalla destra finiana e dall’area dei popolari del Pd. Dall’associazione dei Focolari giunge un assist al leader Udc. Il governo non ha una maggioranza capace di affrontare i problemi del Paese, rimarca il professore Antonio Maria Baggio esponente del movimento. Un accordo Berlusconi-Casini è possibile solo rispettando le condizioni dei centristi. In primo luogo “necessariamente” va riformata la legge elettorale. Altrimenti non si va da nessuna parte.

Corriere della Sera 18.12.10
Difesa del crocifisso, il Pontefice ringrazia l’esecutivo
di G. G. V.


CITTA’ DEL VATICANO — «La mia preghiera accompagna da vicino le vicende liete e tristi dell’Italia, per la quale chiedo al Datore di ogni bene di conservarle il tesoro prezioso della fede cristiana e di concederle i doni della concordia e della prosperità» . Sono parole significative, quelle con le quali Benedetto XVI ha ricevuto ieri il nuovo ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Francesco Maria Greco. Il «lungo, a volte faticoso e contrastato cammino» dall’Unità d’Italia alla ricerca di una «corretta distinzione» e delle «giuste forme di collaborazione» tra Stato e Chiesa; il patrimonio storico e culturale di un Paese segnato da due millenni di cattolicesimo, e l’avvertimento che «queste caratteristiche non possono essere negate, dimenticate o emarginate» perché «l’esperienza di questi 150 anni insegna che quando si è cercato di farlo si sono causati pericolosi squilibri e dolorose fratture nella vita sociale» . Il Papa non ha accennato alle vicende politiche, però ha espresso il suo «apprezzamento» al governo italiano per aver contrastato «il tentativo di eliminare dai luoghi pubblici l’esposizione dei simboli religiosi, primo fra tutti il crocifisso» , e quindi per essersi mosso «in conformità a una corretta visione della laicità» . Questo sta a cuore alla Chiesa, «non potere né privilegi» , ma quel «ruolo legittimo della religione nella sfera pubblica» che «lo Stato è chiamato a tutelare» : di contro alle «forme più sofisticate di ostilità contro la religione» che in Occidente, aveva detto giovedì il Papa, «si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi» e «spesso fomentano l’odio e il pregiudizio» . Di qui l’invito a «osservare e sviluppare» la «lettera e lo spirito» dei Patti Lateranensi e del Concordato.

Repubblica 18.12.10
La Chiesa che benedice il Cavaliere
di Giancarlo Zizola


Cercata dai politici di molti partiti, la gerarchia cattolica ha giocato un ruolo incontestabile nello spalleggiare la stabilizzazione del governo Berlusconi e raffreddare la costruzione di un Terzo polo abbastanza consistente da prefigurarne la fine.
Un ruolo dietro le quinte, non solo, ma questa volta anche esplicito, quasi fosse divenuto per così dire normale che la Chiesa, in alcuni suoi esponenti di spicco, esorbitasse dalle precise distinzioni costituzionali, cavourriane ma ancor prima evangeliche – del "date a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio" – per trasformarsi in attore militante nello scenario contingente della deliberazione politica. E senza neanche ansietà per il contributo che simili attitudini procurano alla secolarizzazione della società per mano della stessa Chiesa che poi la condanna, considerandola la madre delle eresie moderne. Gesti che minimizzano, per mano gerarchica, l´efficacia dell´ingiunzione di Benedetto XVI nella prima enciclica: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica, non può e non deve mettersi al posto dello Stato».
Una prima constatazione. Da tempo si moltiplicavano segnali di un ritorno in forze di visioni e comportamenti marcatamente temporalistici nella Chiesa, ma si tendeva benevolmente a comprenderli come un tentativo di supplenza, anomala certo ma congiunturale, persino di valore pedagogico, per risarcire almeno parzialmente il vuoto lasciato dal venir meno di un partito cattolico che mediasse sul terreno e con gli strumenti laici propri della politica gli interessi e i valori della Chiesa in Italia. In effetti non era stata sottovalutata la presa di posizione di "Civiltà Cattolica" molto scettica sulla prospettiva di risorgimento di una formazione politica adibita specificatamente alla rappresentanza dei valori e interessi cattolici.
Ma gli interventi gerarchici alla vigilia del voto parlamentare sulla fiducia al Cavaliere si sono distinti per il loro carattere sistemico e ostentatorio: il pressing del cardinale Ruini su Pier Ferdinando Casini è stato interpretato come un avvertimento (fosse recepito o meno) delle riserve ecclesiastiche sulle aperture laiche liberali dell´on. Fini sui nuovi diritti civili, sancite dal discorso del leader di Futuro e Libertà a Bastia Umbra. Né la replica del presidente della Camera alla critica rivoltagli da "Avvenire" era sufficiente a dissipare le riserve della Chiesa sui programmi della coalizione politica in gestazione in tema di materie eticamente sensibili. Lo stesso Ruini, ad un Forum del suo Progetto Culturale sul centenario dell´unità d´Italia, invece di occuparsi alla sua veneranda età delle anime, anche della sua, o della crisi della fede e della situazione infelice in cui versa la sua Chiesa, impiegava il suo zelo per dare pareri sul sistema maggioritario, sul rafforzamento dell´esecutivo sul federalismo solidale, soprattutto controllato da un governo forte. E tornava a riscaldare la minestra dei "valori non negoziabili", convocati per verniciare il timore ecclesiastico di elezioni anticipate e di una "crisi al buio". L´umore della Chiesa era narrato con pertinenza da "Etudes", mensile dei gesuiti francesi, a conclusione di un´analisi della situazione politica italiana: «La somma delle intenzioni di voto a favore della coalizione eteroclita di oppositori al Cavaliere non produce sempre una maggioranza di ricambio».
A ruota si è assistito il 9 dicembre al banchetto all´Ambasciata d´Italia presso la Santa Sede per i nuovi cardinali italiani, presente il premier con mezzo governo. Un atto dovuto per il presidente del Consiglio, evidentemente interessato a zelare il suo buon rapporto con la Chiesa, dopo gli incidenti trascorsi. Ciò che sorprendeva piuttosto era la presenza, non richiesta dalla tradizione in analoghe circostanze, del segretario di Stato Cardinale Bertone, le cui formule rituali alla fine si lasciavano facilmente interpretare come una mallevadoria per il governo in carica. E in questo obiettivo uso strumentale a nessuno dei cardinali è passato per la mente il dubbio di una sana astensione, per onorare il giuramento appena prestato nelle mani del Papa di non inchinarsi dinanzi a nessun Cesare, fosse anche a rischio dell´effusione del sangue. Lo stesso cardinale Bagnasco ha chiuso il ciclo interventista con raccomandazioni natalizie alla pace fra le fazioni, al dialogo per il bene comune, «al pensare onesto, limpido» nell´omelia per il Natale dei parlamentari. In passato persino le sue labbra prudentissime avevano osato toni meno acritici nei confronti dell´immoralismo politico.
Ce n´è abbastanza per giustificare l´impressione di un ricompattamento interno della cupola gerarchica sugli interessi concordatari, onde garantirsi una sicurezza dall´Italia, più che mai identificata nel destino di fare da «piedistallo della Santa Sede» di cui si rammaricava un desolato Arturo Carlo Jemolo. Con una libertà di manovra rispetto ai regimi, siano di destra oggi o di sinistra domani. La missione ecumenica del papato ha ancora bisogno di una Roma pacificata in un mare in tempesta, ma resta la questione se nella cultura cattolica si riesca a distinguere la soglia tra il ruolo pubblico (nella difesa dei diritti umani, della giustizia, dei migranti, della pace e in bioetica) e il cangiante ruolo politico della Chiesa: la storia è là a dimostrare che una Chiesa che si conduce da partito perde la propria anima, e il risultato è non solo che perde le coscienze e umilia l´autonomia politica dei laici cattolici. Ma che nuoce anche alla efficacia e credibilità del suo punto di vista nel dibattito pubblico sulle sfide delle nuove frontiere dell´umanesimo.


il Fatto 18.12.10
Rivelazioni
Libera Chiesa, in catene di Stato
In un libro di Emilio Gentile la lunga Storia di sottomissione del clero al regime fascista e le inquietanti analogie con l’Italia di oggi
di Riccardo Chiaberge


Corsi e ricorsi dell’onomastica: si chiamava Gasparri, ma non sedeva in Senato e vestiva la porpora del Segretario di Stato vaticano, l’uomo che nel 1923 aiutò Mussolini a far fuori uno dei suoi avversari più temibili, l’odiato don Sturzo. Il leader dei Popolari era passato all’opposizione e avrebbe votato contro la famigerata legge Acerbo che aboliva la proporzionale istituendo un premio di maggioranza su misura per le ambizioni totalitarie del fascismo. Ma il 10 luglio, senza preavviso, lasciò la guida del suo partito. Secondo il cardinale questo abbandono era un espresso desiderio del Santo Padre, il quale riteneva che “nelle attuali circostanze in Italia, un sacerdote non può, senza grave danno per la Chiesa, restare alla direzione di un partito, anzi dell’opposizionedituttiipartitiavversial governo, auspice la massoneria come ormai è risaputo”.
POCHI GIORNI prima,daimuri di Roma, il manifesto di una nuova organizzazione cattolica aveva invitato i fedeli a dare pieno sostegno alle camicie nere, in nome di “quei valori religiosi e sociali che costituiscono la base d’ogni sano reggimento politico” e a combattere le forze antinazionali contrarie a “un durevole ordine sociale cristiano e italiano”. L’avrete notato anche voi, lo stile ricorda in modo impressionante i sermoni di Bagnasco o di Bertone: non diversi gli accenti accorati sulla necessità di superare lo scontro, identico l’appello alla pacifica convivenza e al “bene supremo dell’Italia”. In realtà, scrive lo storico Emilio Gentile nel suo nuovo libro, Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi (Feltrinelli, pagg. 442, euro 25), il desiderio del Santo Padre corrispondeva a quello del duce, che “aveva minacciato rappresaglie contro le associazioni cattoliche e il clero se la Chiesa non fosse intervenuta a togliere dalla politica il sacerdote siciliano” . L’uscita di scena di Sturzo accelerò la disgregazione interna del Partito popolare, la cui ala più conservatrice si affrettò a correre in soccorso del vincitore.
A dispetto del suo cognome, Gentile non è prodigo di gentilezze nei riguardi del Vaticano: “La costruzione del regime fascista, tra il 1925 e il 1929 – accusa – non incontrò alcuna resistenza da parte della Chiesa di Roma. La Santa Sede assistette da spettatrice silenziosa, ma evidentemente compiaciuta, alla distruzione delle libertà civili e politiche della democrazia parlamentare, rivendicando per sé unicamente l’esercizio della libertà religiosa, in ciò coerente con la dottrina che considerava la libertà di coscienza e le altre libertà politiche e civili il portato diabolico dell’apostasia moderna”. Quando la dittatura, nel maggio 1928, decide la soppressione di tutte le organizzazioni giovanili che non facevano capo all’Opera Nazionale Balilla, esclusa l’Azione Cattolica, la stampa vicina alla Chiesa reagisce con manifestazioni di giubilo e grandi “inchini e ringraziamenti alla magnanimità del duce”. Il parroco anticonformista di un paese del mantovano, don Primo Mazzolari, annota nel suo diario: “Oh, poi non è troppo? Dunque vivete per misericordia, per benigna e sovrana concessione di lui? Non c’è più un diritto comune, una libertà comune da rivendicare, entro cui agire, ma il beneplacito del tiranno, che vi ha accantonati, come spazzatura, in attesa che passi per la strada il carretto della nettezza urbana”.
IL VERO CRISTIANO, secondo don Primo, non deve cercare privilegi per sé ma giustizia e libertà per tutti: “Rivendicare un posto per sé soltanto è venir meno alla missione cattolica, senza contare che un privilegio, concesso e accettato a queste condizioni, è piuttosto un capestro e una tremenda responsabilità di fronte all’avvenire”.
La marcia su Roma era stata salutata con sollievo dalla gerarchia, impaurita dai disordini sociali e dal rivoluzionarismo rosso. La bestia fascista, per quanto manesca e brutale anche nei confronti delle organizzazioni cattoliche, sembrava addomesticabile. Ai primi approcci di Mussolini per risolvere la questione romana, nel 1923, papa Ratti manda a dire che il governo del duce “dura da un anno, mentre la Chiesa conta per secoli”. E sei anni più tardi, poco dopo la firma dei Patti Lateranensi, dichiarerà che “per salvare un’anima sarebbe disposto anche a trattare col diavolo in persona”. Le anime, beninteso, vanno salvate da quelle che Pio XI considera le minacce più gravi che incombono sulla cristianità: il comunismo, “nemico dichiarato della Santa Chiesa e di Dio”, ma anche la democrazia laica, figlia della Rivoluzione francese e della modernità. E questo benché nei Palazzi apostolici siano in molti a chiedersi se “l’idolatria statalista” di Giovanni Gentile e Alfredo Rocco non sia “una brace” peggiore della “padella framassone e demoliberale”.
Più che Contro Cesare, il potente libro di Gentile, denso di retroscena e documenti inediti, dovrebbe intitolarsi Pro Cesare. Come scrive il grande studioso del fascismo, degno erede di De Felice, “all’inizio di un’era di statolatria quale l’Europa non aveva mai conosciuto, neppure nell’epoca del cesaropapismo romano o medievale o nell’era dell’assolutismo e del dispotismo, la Chiesa si trovò schierata , per i privilegi che ne riceveva, con il regime statolatra del nuovo Cesare in camicia nera e con altri dittatori suoi imitatori o ammiratori”. Il Cesare totalitario del Novecento ha due volti: quello comunista di Stalin che vuole sopprimere la Chiesa e instaurare l’ateismo di stato, e il volto più ambiguo di Mussolini o di Hitler che tentano di asservire la fede di Cristo mescolandola con la propria ideologia, trasformata in religione politica. Ma i cattolici e i protestanti che, in Italia e in Germania, mettono sullo stesso piano i due totalitarismi , giudicandoli entrambi antitetici al messaggio cristiano, si contano sulla punta delle dita. Tra gli italiani, ai nomi di Mazzolari e Sturzo possiamo aggiungere quelli di Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari, morti in esilio a Parigi, e pochi altri. Comprensibile la rabbia di uno studioso non certo ostile alla Chiesa, Arturo Carlo Jemolo: “Con tutto ciò che da penne cattoliche è stato scritto contro il fascismo si riempirebbe a stento uno scaffaletto di libreria; con quanto è stato scritto nello stesso periodo contro il comunismo, una biblioteca”.
La lista dei capi di imputazione a carico della Santa Sede, secondo Gentile, è molto lunga: le dimissioni e l’esilio di don Sturzo, l’opposizione a un fronte antifascista dopo il delitto Matteotti, la sconfessione del Partito Popolare, l’avallo silente al soffocamento della democrazia italiana, e infine gli accordi del Laterano. Soltanto nel 1931, con l’enciclica Non abbiamo bisogno, e soprattutto dopo le leggi razziali del ’38, papa Ratti comincia a prendere le distanze dalla “statolatria pagana” di Mussolini e dai suoi crimini. Ma non arriva mai a paragonare il fascismo al bolscevismo, che rappresenta per lui il male assoluto. Lascio agli storici colleghi e rivali di Gentile, ben più titolati di me, il compito di confutare la sua ricostruzione, certo non tenera, a tratti perfino ingenerosa nei confronti della Chiesa e di Pio XI. Mi limito a osservare che a quei tempi, almeno, papi e vescovi avevano qualche fondato motivo per essere prudenti. Adesso che non rischiano di finire in un lager o di essere manganellati, recitano un Te Deum al giorno per il Cesare di Arcore, senza nemmeno aspettare il Tartaglia di turno che gli tiri il duomo in faccia. Viene da domandarsi cosa ci voglia ancora, perché i monsignori aprano finalmente gli occhi e la bocca. Magari che Cesare rottami la Costituzione e trasformi il Quirinale in un bordello? O sono pronti a barattare pure quello in cambio di uno sconto sull’Ici e di qualche aiutino alle scuole cattoliche?

il Fatto 18.12.10
Eutanasia
Sulla Rai spot a favore Vittoria Radicale, condanna cattolica


L’associazione radicale Luca Coscioni è riuscita a trasmettere su Raitre, in uno spazio autogestito dalle associazioni, lo spot pro-eutanasia che aveva già suscitato polemiche dopo la decisione di Telelombardia di mandarlo in onda e la sua diffusione online. Il filmato, realizzato in Australia e tradotto in italiano dall’associazione radicale, è stato trasmesso ieri mattina alle 9 sulla terza rete Rai, all’interno del programma “Dieci minuti di...”. Nello spot un malato terminale racconta la malattia e chiede al governo di avere libertà di scelta. Subito si sono scatenate le proteste, a partire dalla deputata ultracattolica Paola Binetti dell’Udc: “La Rai deve intervenire perché uno spazio pubblico è stato usato per fare una proposta in dissenso esplicito con l’attuale ordinamento che proibisce e condanna l’eutanasia”. Anche l’associazione Scienza e Vita esprime indignazione con una nota: “Dopo aver visto proporre una palese propaganda dell’eutanasia all’interno di uno spazio della rete pubblica nazionale, sollecitiamo ancora una volta la Rai affinché dia uguale voce a tutti coloro che chiedono garanzia di assistenza e cura per chi si batte per riaffermare il diritto a vivere”. Il Movimento per la vita, invece, “denuncia e stigmatizza con forza questa massiccia campagna che continua da mesi nell’indifferenza di molti”, e auspica che “le autorità di vigilanza della Rai possano attivarsi con tempestività per fare chiarezza su quanto accaduto”. Per evitare di spaccare subito il terzo polo anche Futuro e libertà condanna l’iniziativa dei Radicali. Risponde alle accuse il segretario della “Coscioni”, Marco Cappato: “Hanno il terrore della libera circolazione delle idee se s’indignano per un piccolo spazio mattutino. Mentre le dichiarazioni vaticane contro l’eutanasia e qualsiasi libera scelta le troviamo in ogni momento a reti unificate”.

Corriere della Sera 18.12.10
In onda spot pro-eutanasia Blitz dei radicali su Rai 3
Insorgono i cattolici, critiche da Sacconi. Dubbi anche nel Pd
di Dino Martirano


ROMA — Lo spot di 36 secondi mostra un uomo che indossa i pantaloni del pigiama e una maglietta bianca: è seduto su un letto di quella che potrebbe essere la stanza di un «hospice» molto curato. Il suo volto non è sofferente. La voce calda, convincente: «La vita» , dice l’uomo che guarda dentro la telecamera, «è questione di scelte... Io ho scelto di fare l’università, di studiare ingegneria... Ho scelto di sposare Tina, di avere due splendidi figli... Ho scelto quale macchina guidare... Ho scelto questa maglietta...» . Breve pausa: «Quello che non ho scelto è di diventare un malato terminale, non ho scelto di morire di fame perché mangiare mi fa male come ingoiare lamette... Certamente, non ho scelto che la mia famiglia debba vivere questo inferno insieme a me... Ho fatto la mia scelta finale... Ho solo bisogno che il governo mi ascolti» . Fine dello spot, con un titolo di coda: «Il 67 per cento degli italiani sono favorevoli all’eutanasia... Il nostro governo no» . È bastato che questo filmato prodotto in Australia — e rintracciabile nella versione in inglese su tutti i siti del mondo da molte settimane — andasse in onda su Raitre, per far scoppiare una polemica rovente con l’intero fronte per la vita. Lo spot, trasmesso nell’ambito di un spazio autogestito dall’associazione Luca Coscioni sostenuta dai radicali— è stato criticato dal ministro Maurizio Sacconi secondo il quale «il governo opera con coerenza a tutela della vita, di qualunque vita come di qualunque fase della vita» . Il sottosegretario Eugenia Roccella ha poi attaccato i radicali anche per il metodo utilizzato: «Lo spot a favore dell’eutanasia trasmesso su una rete di servizio pubblico dimostra con chiarezza che è in corso una campagna politica per introdurre l’eutanasia nel nostro Paese» . Il dibattito sollevato dall’associazione Luca Coscioni è diventato subito caso politico, dunque. Scontata l’ira di Paola Binetti, che lasciò il Pd per approdare all’Udc dopo la rottura sui temi etici. Ma anche tre deputati di Fli — i cattolici Aldo Di Biagio, Antonio Buonfiglio e Claudio Barbaro — confermano che lo spot è «un gesto esagerato che vìola i principi del nostro ordinamento» : a questo punto, insistono, «speriamo che la Rai intervenga per assicurare i dovuti spazi a tutte quelle associazioni che promuovono la vita» . Però a Fli, che pure ha un portavoce di provenienza radicale, Benedetto Della Vedova, la Roccella chiede di più: «Ci piacerebbe ascoltare anche la voce autorevole del presidente Fini oltre che quella di singoli appartenenti al Fli» . Replica, solitaria come spesso accade, la deputata radicale Maria Antonietta Coscioni: «La loro parola d'ordine è silenzio: si faccia, nella clandestinità, fidando, come oggi avviene, nella mano pietosa di un medico o di un infermiere, ma guai a dirlo, guai a voler riconoscere che la persona, il malato, ha il diritto di essere informato, di sapere e poter decidere il suo destino» . Ma c’è anche Ignazio Marino, cattolico del Pd, che critica il tempismo dell'azione dei radicali: «Ora rischia di far saltare il tavolo del testamento biologico estremizzando le posizioni» . Alla Camera, però, il ddl già approvato dal Senato e atteso per settembre, non è stato ancora calendarizzato per l’aula.

Corriere della Sera 18.12.10
Nichilismo, tecnica e individuo
L’uomo politico è costretto a mentire
Ma il tornaconto personale, alla base della democrazia, deve avere un’utilità pubblica
di Emauele Severino


Emanuele Severino ha pubblicato tra l’altro: La struttura originaria (1958, seconda edizione Adelphi 1981), Essenza del nichilismo (1972, seconda edizione Adelphi 1982), Destino della necessità (Adelphi 1980), La Gloria (Adelphi 2001), Oltrepassare (Adelphi 2007). In relazione al tema qui trattato: Il declino del capitalismo (Rizzoli 1993), Dall’Islam a Prometeo (Rizzoli 2003), Democrazia, tecnica, capitalismo (Morcelliana 2009), Macigni e spirito di gravità (Rizzoli 2010).

Ci si meraviglia per le notizie disponibili sul sito Wikileaks, relative ai retroscena dei rapporti oggi intercorrenti tra gli Stati del Pianeta. Tempo fa si dava ascolto a ciò che poi venne chiamato «dietrologia» . Che spesso era solo fantasia arbitraria: per forza doveva esserci sempre qualcosa di occulto, inconfessabile o pericoloso, dietro qualsiasi evento di carattere pubblico, qual è, appunto, un fatto politico. Si reagì, andando all’estremo opposto. Niente «dietrologia» — dunque grande meraviglia quando si constata che la politica non va come sembra andare davanti agli occhi. Non si tenne cioè presente che ogni conoscenza autentica del mondo — ad esempio il sapere scientifico — è sempre un andare al di là, cioè dietro il modo in cui i fatti si presentano a prima vista. Certo, bisogna saperlo fare. Che la politica sia inganno — consapevole o no — lo si sa da qualche migliaio di anni: da quando in Europa si è fatto avanti il cosiddetto «spirito critico» (cioè la filosofia). Il tiranno, antico o moderno, non dice di agire per il bene dei suoi sudditi, anche se fa credere (e per lo più crede) che essi andrebbero in rovina se lui non ci fosse. Come il tiranno, il politico democratico è un uomo. Ora, se il suo scopo primario fosse il «bene comune» — come egli continuamente ripete— piuttosto che un uomo sarebbe un santo, perché subordinerebbe e sacrificherebbe il proprio vantaggio personale al vantaggio della comunità che egli intende guidare. L’uomo, invece, promuove un progetto volto a procurare certi benefici alla comunità, solo se nella realizzazione di tale progetto scorge un tornaconto personale. Non vuole il proprio bene allo scopo di realizzare il bene comune, ma vuole il bene comune allo scopo di realizzare il proprio bene. Altrimenti è, appunto, un santo, ossia qualcosa che facciamo fatica a dire che è anche uomo. E un politico che dice, come dice sempre: «In cima ai miei pensieri c’è il bene comune» sta dicendo: «Io sono un santo» . Si dirà: ma no, il politico democratico ha come scopo primario sia il proprio bene sia quello comune— che possono stare tutti e due sullo stesso piano. Fuori luogo, quindi, il riferimento alla santità. Ma, così, la torta è spartita tra i due beni. Cioè al bene comune il politico dà la metà delle proprie energie, nel migliore dei casi tale bene è la metà di ciò che il politico vuole. Nel migliore dei casi; perché l’uomo si fa sentire, e tende a rendere sempre più piccola la porzione destinata a quel bene. Di solito, in cima ai suoi pensieri sta il suo tornaconto. Che d’altra parte deve avere una qualche utilità pubblica— così come in cima ai pensieri dell’imprenditore sta il profitto, ma bisogna che le merci da lui vendute siano beni appetibili dagli acquirenti. In ogni caso, il politico democratico non può dire agli elettori quello che sta facendo. Non può dire: «Lo scopo primario della mia attività politica— o della metà di essa — la dedico ai miei tornaconti» . Non avrebbe più voti. Quindi è costretto a mentire. Non una volta tanto, ma di continuo. Per lo stesso motivo non può dire quello che, ad esempio, dice lo scienziato o il filosofo, cioè: «Quel che sto facendo potrebbe essere sbagliato» . Deve dire: «Quel che sto facendo è indiscutibilmente giusto» . Niente voti, altrimenti. La gente si fida di chi si fida di sé. Queste considerazioni non hanno nulla a che vedere con una critica al politico democratico. Egli non può essere diverso da come è. Proprio perché è un uomo. Non gli si può chiedere di essere un santo. Il tiranno può non mentire e chiedere ai sudditi di morire per lui; il politico democratico non può non mentire. Anche nei rapporti internazionali le dittature e le democrazie sono costrette a mentire. Sia in quanto sono Stati, sia in quanto sono formazioni sociali guidate da individui che, essendo appunto uomini, o si servono dello Stato tutt’intero per i loro vantaggi privati, o, anche qui (e nel migliore dei casi), dividono la torta a metà e assumono come scopo primario sia il bene dello Stato sia il proprio — cioè si servono, per il proprio vantaggio, di dire agli elettori quello che sta facendo. Non può dire: «Lo scopo primario della mia attività politica— o della metà di essa — la dedico ai miei tornaconti» . Non avrebbe più voti. Quindi è costretto a mentire. Non una volta tanto, ma di continuo. Per lo stesso motivo non può dire quello che, ad esempio, dice lo scienziato o il filosofo, cioè: «Quel che sto facendo potrebbe essere sbagliato» . Deve dire: «Quel che sto facendo è indiscutibilmente giusto» . Niente voti, altrimenti. La gente si fida di chi si fida di sé. Queste considerazioni non hanno nulla a che vedere con una critica al politico democratico. Egli non può essere diverso da come è. Proprio perché è un uomo. Non gli si può chiedere di essere un santo. Il tiranno può non mentire e chiedere ai sudditi di morire per lui; il politico democratico non può non mentire. Anche nei rapporti internazionali le dittature e le democrazie sono costrette a mentire. Sia in quanto sono Stati, sia in quanto sono formazioni sociali guidate da individui che, essendo appunto uomini, o si servono dello Stato tutt’intero per i loro vantaggi privati, o, anche qui (e nel migliore dei casi), dividono la torta a metà e assumono come scopo primario sia il bene dello Stato sia il proprio — cioè si servono, per il proprio vantaggio, di una parte dello Stato. E gli Stati, dittatoriali o democratici, sempre e tuttora in conflitto tra loro, furono e sono costretti a mentire per sopravvivere. Non solo non possono comunicare ai nemici attuali o potenziali le proprie procedure di difesa e di sopravvivenza, ma non possono nemmeno renderle pubbliche ai propri cittadini. D’altra parte, che l’uomo politico ponga come scopo primario o come parte di esso il proprio vantaggio non significa che le cose vadano come egli vuole. L’uomo propone e Dio dispone, si dice. E «Dio» significa come va il mondo o una sua parte indipendentemente dalle decisioni umane: Hegel parlava, appunto, di «astuzia della ragione» . «Dio» è astuto perché si serve degli egoismi umani per realizzare ciò che gli uomini, decidendo, nemmeno si sognano di voler avere. Più recentemente, si è parlato di «eterogenesi dei fini» . Significa che gran parte di quanto accade non è ciò che l’uomo si proponeva di far accadere. Il rapporto tra Italia e Russia, quale emerge dai dati forniti dal sito Wikileaks, è un esempio, o un sintomo significativo di «eterogenesi dei fini» . È della stessa natura del rapporto Germania Russia, e anzi di quello tra Europa e Russia. Provo a chiarire. È ormai da quasi quarant’anni che vado mostrando l’inevitabilità del tramonto del marxismo, e quindi dell’Unione Sovietica; e, insieme — e per le stesse ragioni (che qui non posso richiamare) — l’inevitabilità del tramonto delle altre grandi forze dell’Occidente, quali il capitalismo, la democrazia, il cristianesimo stesso e la coscienza religiosa in generale. Tramonta la loro volontà di porsi come scopi primari della società. In questo periodo ho anche più volte richiamato i motivi per i quali come egli vuole. L’uomo propone e Dio dispone, si dice. E «Dio» significa come va il mondo o una sua parte indipendentemente dalle decisioni umane: Hegel parlava, appunto, di «astuzia della ragione» . «Dio» è astuto perché si serve degli egoismi umani per realizzare ciò che gli uomini, decidendo, nemmeno si sognano di voler avere. Più recentemente, si è parlato di «eterogenesi dei fini» . Significa che gran parte di quanto accade non è ciò che l’uomo si proponeva di far accadere. Il rapporto tra Italia e Russia, quale emerge dai dati forniti dal sito Wikileaks, è un esempio, o un sintomo significativo di «eterogenesi dei fini» . È della stessa natura del rapporto Germania Russia, e anzi di quello tra Europa e Russia. Provo a chiarire. È ormai da quasi quarant’anni che vado mostrando l’inevitabilità del tramonto del marxismo, e quindi dell’Unione Sovietica; e, insieme — e per le stesse ragioni (che qui non posso richiamare) — l’inevitabilità del tramonto delle altre grandi forze dell’Occidente, quali il capitalismo, la democrazia, il cristianesimo stesso e la coscienza religiosa in generale. Tramonta la loro volontà di porsi come scopi primari della società. In questo periodo ho anche più volte richiamato i motivi per i quali l’Europa è destinata a unirsi sempre più strettamente alla Russia non più sovietica. Uno dei più importanti è che durante la guerra fredda l’arsenale nucleare Usa ha protetto l’Europa dal comunismo sovietico e dalla pressione dei popoli poveri guidati dall’Urss. Dopo la fine di quest’ultima, i rapporti economici tra Europa e Russia acquistano un senso diverso e una diversa consistenza, perché la protezione nucleare americana dell’Europa contro la pressione dei popoli poveri ma sempre più pericolosi può essere sostituita da quella russa. Il fattore nucleare è decisivo perché solo Stati Uniti e Russia possono distruggersi a vicenda e distruggere la Terra; e gli Stati possono assicurare la propria sopravvivenza solo schierandosi con l’uno o l’altro dei due leader mondiali. Sto dicendo che sta diventando sempre più realistica la possibilità di uno schieramento che veda Europa e Russia dalla stessa parte. Ed è per ridurre questa possibilità che gli Usa intendono smantellare la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia. La Ostpolitik ha anticipato la possibilità di quel nuovo schieramento. In risposta, già nel 1992 Nixon afferma che, cessato il pericolo Urss e venendo in primo piano i problemi economici, «l’appoggio degli Stati Uniti all’unità europea non può continuare a essere né scontato, né a qualsiasi costo» . Meglio cioè che l’Europa resti divisa (e, pensava Nixon, che gli Usa puntino a «un solido rapporto con la Germania» ) piuttosto che in blocco se ne vada dall’altra parte. Il processo di avvicinamento tra Europa e Russia è gestito da individui umani, che inevitabilmente, come prima ho rilevato, pensano innanzitutto al proprio tornaconto personale, o (nel migliore dei casi) lo pongono tra i loro fini prioritari. Che Gazprom sia orientato dagli interessi personali di Putin, e l’Eni da quelli di Berlusconi, è cioè uno degli aspetti del processo oggettivo in cui va producendosi la progressiva integrazione tra Russia e Europa. Che l’ex cancelliere tedesco Gerard Schröeder abbia accettato la presidenza del Nord Stream, il gasdotto che porterà il gas russo in Germania, è un altro di quegli aspetti significativi. Sembra che l’Europa compri il gas russo, che costa di più, e non quello americano, che costa di meno. Può darsi che ciò accada perché in questo modo qualcuno si arricchisce, ma resta il fatto che attraverso l’illegalità viene rafforzata la convergenza tra Europa e Russia, e cioè che l’ «astuzia» della «ragione» si serve di tale illegalità per raggiungere il proprio scopo. Dove la «ragione» è da intendersi — si diceva — come ciò che accade attraverso ciò che gli uomini si propongono, ma è diverso da ciò che essi si propongono.

Corriere della Sera 18.12.10
Quando la scienza aiuta il diritto
di Giuseppe Remuzzi


C osa c’entrano i diritti umani con il Dna? Niente fino a un po’ di anni fa. Oggi tutto è cambiato. «Prima uccideremo tutti i sovversivi, poi i loro collaboratori, quindi i simpatizzanti, poi gli indifferenti e infine chi esita» , dichiarava Iberico Saint Jean, il governatore militare di Buenos Aires nel 1976 quando l’esercito di Jorge Rafael Videla rovesciava il governo Perón. Da quel giorno sono sparite tante persone che saranno torturate e uccise, e succedeva anche a tanti bambini. I bambini però non li uccidevano, li affidavano a militari per lo più senza figli che li facevano propri. È successo a Paula, la ritrova la nonna grazie alla mobilitazione di Plaza de Mayo e alle indagini sul Dna, e i giudici finita la dittatura le danno ragione. Ma la strada è lunga e piena di difficoltà anche tecniche. Come dimostrare che Paula è davvero sua nipote? Dove non arriva il gruppo sanguigno arrivano gli antigeni del trapianto. — e così la storia di Paula si mescola con la genetica e l’immunologia del trapianto — che in Argentina è all’avanguardia — e gli scienziati si mettono al servizio delle nonne e le aiutano nella ricerca dei nipoti con le armi della scienza. Rapporti inverosimili se non fossero veri, dove è difficile trovare un filo conduttore. Giovanni Sabato lo trova: violenze e rapimenti dell’Argentina di Videla, le leggi di Alfonsin e i ripensamenti di Menem si mescolano con il Dna dei mitocondri delle cellule e dei microsatelliti di quello del nucleo e il rigore della scienza non toglie nulla al fascino del racconto. Diritti umani e scienza si incontrano anche a Bengasi nel 1998 quando centinaia di bambini dell’ospedale si infettano col virus dell’Hiv e le autorità accusano cinque infermiere bulgare e un medico palestinese di aver diffuso il contagio e li arrestano. Come dimostrare che Paula è davvero sua nipote? Dove non arriva il gruppo sanguigno arrivano gli antigeni del trapianto. — e così la storia di Paula si mescola con la genetica e l’immunologia del trapianto — che in Argentina è all’avanguardia — e gli scienziati si mettono al servizio delle nonne e le aiutano nella ricerca dei nipoti con le armi della scienza. Rapporti inverosimili se non fossero veri, dove è difficile trovare un filo conduttore. Giovanni Sabato lo trova: violenze e rapimenti dell’Argentina di Videla, le leggi di Alfonsin e i ripensamenti di Menem si mescolano con il Dna dei mitocondri delle cellule e dei microsatelliti di quello del nucleo e il rigore della scienza non toglie nulla al fascino del racconto. Diritti umani e scienza si incontrano anche a Bengasi nel 1998 quando centinaia di bambini dell’ospedale si infettano col virus dell’Hiv e le autorità accusano cinque infermiere bulgare e un medico palestinese di aver diffuso il contagio e li arrestano. Esperti di virus dell’Aids con le tecniche di biologia molecolare di cui si disponeva già allora smontano le accuse in modo inoppugnabile. Per sapere come finisce questa complicatissima vicenda, che qualcuno forse non ricorda nei dettagli, bisogna leggersi Come provarlo? La Scienza indaga sui diritti umani (Laterza, pp. 212, e 12), ma certo senza biologia e genetica molecolare e l’impegno della scienza quegli innocenti sarebbero stati fucilati. Il libro di Giovanni Sabato racconta anche dell’antropologia forense e di un gruppo di studenti e giovani dedicati proprio a questo. Li hanno chiamati per indagare sui crimini di Marcos e in Spagna e in America Centrale e in Africa e in Bosnia. A chi appartengono i circa ventimila frammenti ossei, in gran parte carbonizzati e contaminati da detriti, delle vittime delle stragi dell’ 11 settembre 2001 a New York? Ancora una volta ci si affida alla scienza che ha contribuito anche a chiarire gli orrori dello sterminio dei Maya in Guatemala; là non è bastato il Dna, ci si è avvalsi di statistica e modelli matematici e di tecniche informatiche che col passare degli anni trovano in queste applicazioni livelli di sofisticazione sempre più alti. Quanti sono morti in seguito all’occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti del 2003? Centomila, ma potrebbero essere anche molti di più secondo certi calcoli di scienziati americani e iracheni che hanno pubblicato il loro lavoro nel «Lancet» . Alle violazioni dei diritti umani la scienza viene incontro anche dal cielo. Foto satellitari che documentano edifici distrutti, campi di prigionia per oppositori — come succede in Cina — migrazioni di massa come nel Darfur o repressioni come in Thailandia. Tutto si può documentare dal cielo. Analizzare queste foto però è complesso, servono computer potenti e tanto d’altro. «In questi anni il numero di scienziati che inquadra il proprio lavoro in un’ottica di diritti umani continua a crescere ed allargare gli orizzonti. Dai satelliti alle tombe, dai geni alle statistiche, la scienza offre dunque molti strumenti «per dire la verità così che non possa essere negata o almeno per dirla nel modo più convincente possibile» , conclude Giovanni Sabato.

Agi 17.12.10
EDITORIA: LOMBARDI E IL FENICOTTERO PRESENTATO A S.BENEDETTO D.T.
(AGI) - San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno), 17 dic. - A 26 anni dalla morte di Riccardo Lombardi, uno dei maggiori esponenti del socialismo italiano, un libro di Carlo Patrignani lo ricorda con scrupolo e passione. 'Lombardi e il fenicottero' (ed. 'L'asino d'oro') sara' presentato sabato alle ore 17 all'auditorium 'Tebaldini': insieme all'autore ci saranno Pietro Caruso, della federazione giovanile socialista, e Franco Bartolomei, della direzione nazionale del Psi. Il libro non vuole essere il classico, ricordo postumo ma la riproposizione di uno dei politici italiani piu' ammirati e meno seguiti per la sua aticipita', originalita', eresia, tipicamente non italiana. La sua attenzione, vicinanza e comprensione senza appiattimenti e condanne, di quanto in quegli anni ('68) ribolliva nel mondo giovanile, studentesco ed operaio ma anche nel mondo femminile, ne hanno fatto uno dei punti di riferimento affidabili ed insostituibili, un argine solido alla violenza, anche verbale. La sua prassi politica, la non-violenza, non e' stata affatto rinuncia alla contestazione dell'esistente, dello status quo, tutt'altro. Lombardi per tanti giovani di ogni epoca, e' stato il faro per orientarsi: non ha vinto, quanto a consensi e voti, ma non e' stato sconfitto dalla storia: la sua forte laicita', che lo porto' a condividere e sostenere le grandi battaglie sui diritti civili (divorzio e aborto), e' ancora attuale; il suo riformismo rivoluzionario non e' finito sotto le macerie del Muro di Berlino come il comunismo. Il suo rammarico, la sua amarezza mai taciute ma sempre ribadite sono state la mancata 'rivoluzione democratica e liberale' nel passaggio dal ventennio fascista alla Repubblica, quando alla Costituente fu tolto il compito di legiferare, cioe' intervenire per riformare, quando all'epurazione si preferi' l'amnistia, quando ancora si inserirono i Patti Lateranensi nella Costituzione. Forse qui sta la necessita' del libro, che ricostruisce i 60 anni di quell'altra storia - l'Italia che aveva sognato Lombardi - di cui al di la' delle tante "foto ritoccate" si e' persa l'immagine originale, il ricordo di come le cose sono andate veramente: mirabile, al riguardo, l'aneddoto riportato dalle memorie di Ena Viatto, il Fenicottero del titolo, sulle mazzette del Pcus finite per mano del figlio Aldino nel camino di casa Togliatti e "raccontato" poi in chiave agiografica da Giorgio Bocca. L'autore ha il grande merito in questo volume di mostrarci gli effetti attuali di una storia che vide l'eretico Lombardi messo in minoranza nel suo partito, detestato come "spina nel fianco" dai vertici del Pci, inviso alla destra clericale, "tradito" dai discepoli, ma vincente se si giudicano le sue idee e la sua vicenda politica alla luce della storia. (AGI) Pu1