sabato 29 novembre 2014

baciapile disonesti e interessati
Nè Corsera né Repubblica né Il Sole pubblicano questa notizia
La Stampa 29.11.14
Oltre un miliardo alla Chiesa. La Corte dei Conti: “Sono troppi, l’8x1000 va rinegoziato”
Incassato l’82,3% del fondo con solo il 38% delle preferenze. I giudici contabili allo Stato: “Poca informazione sul meccanismo di redistribuzione, l’8X1000 va rinegoziato”
di Paolo Baroni

il Fatto 29.11.14
Corte dei Conti
Soldi alla Chiesa sotto accusa
“Chiesa e 8 per mille, troppi lati oscuri”
I vescovi accusati di scarsa trasparenza
Per la prima volta i giudici contabili contestano la ripartizione dei fondi ricavati dalle scelte dei contribuenti e criticano l’inerzia del governo
di Marco Lillo

DA 30 ANNI L’8xMille è una quota d’imposta ricavata dall’Irpef, introdotta per legge nel 1985, in attuazione del Concordato del 1984

La Corte dei conti per la prima volta mette in stato di accusa il sistema dell’8 per mille. Le 109 pagine della relazione depositata il 19 novembre dovrebbero essere pubblicate sul sito del governo e diffuse in tv quando si fa la dichiarazione dei redditi. Probabilmente se fossero conosciute, cambierebbero le scelte di molti italiani. La delibera è scritta da Antonio Mezzera, un magistrato che già nel 2009 si era segnalato per una relazione coraggiosa, non a caso bloccata per mesi dai suoi capi, sul Mose di Venezia, ed è firmata dal dirigente del settore, Luciana Troccoli, e dal presidente aggiunto Giorgio Clemente.
Cosa scrivono i giudici contabili
I soldi concessi, mediante il meccanismo dell’8 per mille alla Chiesa cattolica e alle altre religioni sono troppi. “L’onere finanziario”, spara in apertura la Corte, “si comprende dalla comparazione con quanto assegnato al ministero dei Beni culturali e del Turismo, che, per il 2013 non ha raggiunto il miliardo e 700 milioni. Ciò significa che, negli ultimi anni la contribuzione alle confessioni religiose ha superato i due terzi delle risorse destinate per la conservazione del patrimonio artistico del Paese”.
La Corte mette sul banco degli imputati il sistema perché avvantaggia le confessioni religiose attribuendo loro anche la percentuale di gettito di chi non opta per nessuno (né Stato, né Chiesa né altre confessioni) in dichiarazione. “Grazie al meccanismo di attribuzione (previsto da una legge del 1985, ai tempi di Bettino Craxi, ndr) delle risorse dell’8 per mille” scrive la Corte, “i beneficiari ricevono più dalla quota non espressa che da quella optata godendo di un notevole fattore moltiplicativo”. Per esempio, nel 2011 la Chiesa cattolica ha beneficiato dell’82,28 per cento nonostante solo il 37,93 dei contribuenti abbiano optato in suo favore. La somma totale a disposizione per il 2014 è davvero impressionante: un miliardo 278 milioni dei quali l’82,45 per cento va alla Chiesa cattolica: un miliardo e 54 milioni. Solo 170 milioni allo Stato, per le finalità speciali previste ma in gran parte disattese e le altre confessioni si devono accontentare (si fa per dire) di poco più di 52 milioni dei quali la fetta più grande (40,8 milioni) va alla Chiesa evangelica valdese.
L’impegno dello Stato a ridurre le erogazioni
Lo Stato si era impegnato a ridurre questo enorme fiume di denaro 18 anni fa. “Già nel 1996, la Parte governativa della Commissione paritetica Italia-Conferenza Episcopale Italiana incaricata delle verifiche triennali dichiarava che (...) ‘la quota dell’8 per mille si sta avvicinando a valori, superati i quali, potrebbe rendersi opportuna una proposta di revisione (...) dell’aliquota”. Nel 1996 la Chiesa percepiva ‘solo’ 491 milioni di euro. Meno della metà di oggi. “Tuttavia – scrive la Corte dei conti – negli anni seguenti, il tema non è stato più riproposto dalla parte governativa”.
L’Italia ha semplicemente rinunciato. Non a caso, nota la Corte dei conti, tutto viene fatto in gran segreto: “Manca trasparenza sulle erogazioni: sul sito web della Presidenza del Consiglio dei ministri, infatti, nella sezione dedicata, non vengono riportate le attribuzioni annuali alle confessioni, né la destinazione (...) Al contrario, la rilevanza degli importi e il diretto coinvolgimento dei cittadini imporrebbero un’ampia pubblicità e la messa a disposizione dell'archivio completo”. Renzi è avvertito: oggi stesso dovrebbe pubblicare il link al documento pdf (come faremo su ilfattoquotidia no.it) sulla home page del sito di Palazzo Chigi.
Soprattutto visto il momento di crisi: “In un contesto di generalizzata riduzione delle spese sociali a causa della congiuntura economica - scrivono i giudici - le contribuzioni a favore delle confessioni continuano, in controtendenza, a incrementarsi avendo, da tempo, ampiamente superato il miliardo di euro”.
Il modello spagnolo spiegato dai magistrati
La Corte spiega cosa accadrebbe se fosse eliminato il meccanismo della suddivisione della parte non optata dell’8 per mille, come in Spagna: “L’applicazione della normativa spagnola all’Italia comporterebbe per la fiscalità generale un risparmio annuo di 600 milioni di euro”. Ovviamente non bisogna dimenticare il ruolo sociale svolto nei fatti - anche grazie ai soldi dell’8 per mille - dalla Chiesa cattolica e dalle altre confessioni. Per esempio le Assemblee di Dio dichiarano di destinare più del 99 per cento a interventi caritativi. La Corte ricorda che solo il 23,22 per cento dei fondi dell’otto per mille della Chiesa cattolica sono andati nel 2012 verso interventi caritativi; il 33,15 per cento al sostentamento dei ministri del culto, scopo iniziale della legge, mentre il 43,62 per cento delle somme sono destinate alle misteriose ‘esigenze di culto e pastorale’. La Corte riporta un passo della relazione del 2005 della Commissione paritetica Cei-Italia che, da parte italiana, ribadisce che la crescita della quota degli interventi caritativi “non appare ancora proporzionata all’aumento del flusso finanziario”.
Poi la Corte bacchetta lo Stato
Le somme attribuite dai contribuenti che decidono di devolvere all’Italia la loro quota di 8 per mille dovrebbero essere destinate a finalità come la lotta alla fame nel mondo, l’assistenza ai rifugiati, le calamità naturali e la conservazione dei beni culturali. Per la Corte però: “la quota destinata allo Stato è stata drasticamente ridotta e dirottata su finalità antitetiche rispetto alla volontà dei contribuenti, violando l’affidamento derivante dalla sottoscrizione sull’utilizzo della stessa”. Secondo la Corte “le distrazioni rappresentano oltre i due terzi delle somme assegnate”, In pratica lo Stato ha dirottato finora 1,8 miliardi in 24 anni.
Nel 2011 e nel 2012 la quota di intervento dello Stato è stata addirittura azzerata e nel 2013 portata alla ridicola somma di 404 mila euro destinati a 4 progetti per la lotta alla fame in Africa che non si sa se facciano più sorridere o piangere. I contribuenti che optano per lo Stato (invece che per la Chiesa) non sanno che spesso i loro soldi sono usati per risanare le chiese. “Non appare coerente con la ratio dell’istituto - scrive la Corte dei conti - l’accentuata propensione al finanziamento di opere di restauro di edifici di culto o di proprietà di confessioni”. Nel 2010, per esempio, il 48,8 per cento dei fondi dello Stato paria a ben 53 milioni sono andati al risanamento di beni culturali della Chiesa cattolica. Gli edifici dello Stato invece hanno attinto a questo capitolo di spesa solo per 51,8 milioni.
La Corte dei conti denuncia poi, anche per la parte dello Stato, “la ancora non soddisfacente quantità di risorse destinate agli interventi caritativi”. Più in generale “lo Stato - secondo la Corte dei conti - mostra disinteresse per la quota di propria competenza, cosa che ha determinato, nel corso del tempo, la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore”.
Come correggere il sistema
Secondo i giudici “a ciò ha contribuito la totale assenza (negli oltre 20 anni di vigenza dell’istituto) di promozione delle iniziative, risultando lo Stato l’unico competitore che non sensibilizza l’opinione pubblica sulle proprie attività con campagne pubblicitarie”. Alla fine la Corte dei conti non si limita a presentare l’elenco delle doglianze ma propone anzi dispone i correttivi: “al fine di garantire la piena esecuzione della volontà di tutti, la decurtazione della quota dell’8 per mille di competenza statale va eliminata: è, infatti, contrario ai principi di lealtà e di buona fede che il patto con i contribuenti venga violato.
Peraltro, sono penalizzati solo coloro che scelgono lo Stato e non gli optanti per le confessioni, le cui determinazioni, al contrario, non sono toccate, cosa incompatibile con il principio di uguaglianza”.

il Fatto 29.11.14
8x1000, opere di bene ma soprattutto televisione e spot
A chi finiscono i quattrini
Gli scontri tra prelati
di Carlo Tecce

QUASI DIECI MILIONI SPESI SOLTANTO PER LA CAMPAGNA SULLE RETI MEDIASET. POI C’È IL CAPITOLO DEI GIORNALI E DALLA SATELLITARE TV2000: EROGAZIONE IN CRESCITA

Quanto fa 8x1000 per la Chiesa cattolica? Un miliardo e poco più di 55 milioni di euro. Il calcolo è trasparente, la ripartizione viziata dall’ultimo Concordato tra lo Stato italiano e il governo vaticano. Il resto è buio. Questa somma di denaro, che puntualmente il Tesoro versa ai vescovi italiani, proviene da 41.499.535 milioni dichiarazioni dei redditi. L’8per1000 è una donazione volontaria e obbligatoria: sì, un paradosso. Perché soltanto in 15 milioni hanno barrato la casella Chiesa cattolica quest’anno, ma un complesso meccanismo di moltiplicazione per legge, consente la distribuzione di oltre l’82% del ricavato totale (1,276 miliardi) alla Conferenza episcopale italiana. Quel che avanza, viene diviso fra lo Stato e cinque organizzazioni religiose, Ebrei, Valdesi, Luterani, Avventisti e Assemblee di Dio. Il bonifico con in calce la firma italiana viene incassato da Cei e il miliardo poi viene gestito sul conto di Deutsche Bank che la Santa Sede ha intestato in Germania. Questioni di vincoli e controlli. A papa Francesco non sono sconosciute le disfunzioni dell’8x1000 e, pare, non siano mancate proteste dettagliate e invocazioni di intervento tramite documenti spediti presso la sua abitazione in Santa Marta.
A chi finiscono i quattrini
Ogni anno, a maggio, i vescovi italiani si riuniscono e approvano il bilancio Cei. Mentre dentro si consumano le consuete battaglie, all’esterno viene diffuso un frontespizio che, in maniera poco esaustiva come certifica la stessa Corte dei Conti, illustra le voci di spesa. Ci sono tre categorie onnicomprensive: 433 milioni di euro per le esigenze di culto e pastorale, 245 milioni gli interventi caritativi e 377 milioni per il sostentamento del clero. Nei rivoli di un abbondante miliardo di euro, però, si possono celare i flussi di denaro per giornali, propaganda, televisioni, seminari, convegni. Soltanto lo stanziamento per il “terzo mondo”, pari a 85 milioni di euro, né aumenta né diminuisce mai. Tutto è variabile. Tutto può significare opere di bene o niente. Tutto può contenere la costruzione di una casa di accoglienza per giovani madri emigrate, un campetto di calcio per l’oratorio oppure un grande parata per adunate di prelati e politici. Quando la somma viene stabilita e i moduli Irpef sono consegnati ai commercialisti, s’interrompono i video in tv che reclamizzano l’8x1000 con il ritornello “Chiedilo a loro”.
La musica suscita emozioni, le immagini attirano l’attenzione, si vedono suore o preti che arrancano in luoghi di dolore, bambini, malattie, disperazione. Come per la vendita di un prodotto tradizionale, la Cei si affida a martellanti campagne pubblicitarie, per un decennio ideate da Saatchi&Saatchi, una azienda che promuove le esplorazioni petrolifere di Eni, le macchine elettriche di Toyata o le cialde da caffé di Illy. Oggi viene coinvolta anche “Another Place”, le gigantografie di volti segnati dalla sofferenza sono a cura di questa brillante società.
Perché sono davvero numerosi i “cantieri” aperti con l’8x1000 fra parrocchie, ristrutturazioni, beneficienza.
I canali per la pubblicità e i mezzi di comunicazione
In Italia la raccolta pubblicitaria è crollata negli ultimi anni, le concessionarie rimediano con sconti altissimi, ma la Cei è un investitore importante, perché garantisce almeno 10 milioni di euro. I dati ufficiali Nielsen, relativi al 2013, ci consentono di quantificare in 9,824 milioni la spesa su Mediaset & C. dei vescovi per convincere gli italiani a destinare l’8x1000 alla Chiesa italiana. In quattro anni, la Cei ha investito quasi 45 milioni di euro. Non vanno definiti sprechi, possiamo aggiungere con un po’ di ironia, perché, nota persino la Corte dei Conti, la presenza in tv della Conferenza episcopale ha oscurato lo Stato in questa competizione per l’8x1000. Nel rendiconto stilato da Cei non c’è traccia dei contributi ai media di proprietà dei vescovi: il quotidiano Avvenire, il canale satellitare Tv2000, l’emittente Radio In Blu e l’agenzia di stampa Sir. Per rispettare le regole italiane, la Cei finanzia i suoi media attraverso due fondazioni: la “Santi Francesco e Caterina”, la prima in ordine di costituzione che porta i nomi dei patroni nazionali si occupa e preoccupa di Avvenire e Sir; la “Comunicazione e Cultura” è depositaria del pacchetto di maggioranza di “Rete Blu”, la società che edita la radio e il giornale. A “Rete Blu”, la Cei ha conferito 37 milioni di euro per il 2013. Quest’anno l’erogazione potrebbe crescere, perché i vescovi pensano di poter consolidare la posizione di Tv2000, da qualche mese diretta da Paolo Ruffini, ex di Rai3 e di La7, e in fase di sperimentazione. Sarà una rete quasi “generalista”, per dirla con termini ormai desueti. A parte questi 37 milioni per “Rete Blu”, ce ne sono di solito 15 per Avvenire e 7 per la Sir. Non è finita. Perché le iniziative dell’ufficio per la Comunicazione sociali, che riempie un calendario sempre denso di appuntamenti, sono molto dispendiose. I fondi per l’8x1000 servono anche a rifocillare l’ambizioso Ente per lo spettacolo. Per confrontare queste cifre qui esposte con i diretti protagonisti, il Fatto Quotidiano ha contattato i responsabili per i rapporti con i media dei Vescovi. Ci hanno cortesemente risposto senza commenti particolari.
Gli scontri tra prelati
Il potere Cei è in capo a monsignor Angelo Bagnasco, che presiede la Conferenza episcopale da 7 anni, e fu indicato da Benedetto XVI. La sostituzione del segretario generale Mariano Crociata con Nunzio Galantino è soltanto il preludio all’uscita di Bagnasco. Le ultime assemblee hanno ospitato accese dispute tra i vescovi proprio sull’8x1000. I vescovi di Trento (Luigi Bressan), Como (Diego Coletti) e di Mantova (Roberto Busti) non tollerano l’eccessiva generosità con cui si sovvenziona il sistema di comunicazione. Il gruppo non è sempre coeso e le scelte non vengono prese tra implacabili entusiasmi. Qualunque siano le decisioni della Conferenza Episcopale, un po’ di informazione in più per i cittadini-paganti non guasterebbe. Non ci sono dogmi a rischio.

il Fatto 29.11.14
1929-1984
Dai Patti Lateranensi di Mussolini al Concordato di Bettino Craxi

IN PRINCIPIO furono i Patti Lateranensi del 1929 voluti da Benito Mussolini, con cui – fra le altre cose – l’Italia s’impegnava a pagare lo “stipendio ai preti” (la cosiddetta “Congrua”). Il meccanismo fu poi aggiornato dal Concordato del 1984, premier Bettino Craxi, che inventò l’attuale meccanismo dell’8 per mille. Come dovrebbe funzionare. Volontariamente– cioè attraverso un atto formale durante la dichiarazione dei redditi – un pezzo del gettito Irpef del singolo contribuente (l’8 per mille appunto) viene devoluto alla Chiesa per il sostegno del clero. L’accordo prevede pure che se il gettito è superiore agli impegni concordatari, l’aliquota venga rivista al ribasso. Alla bisogna esiste un’apposita commissione mista italo-vaticana, che però a giudicare dai curricula dei partecipanti sembra più vaticano-vaticana: nonostante, infatti, gli “stipendi” siano ormai all’ingrosso solo un terzo dei circa 900 milioni di gettito dell’8 per mille che finisce ai vescovi italiani, il tema di abbassare l’aliquota non è mai stato posto all’ordine del giorno.
L’escamotage. L’8 per mille si basa su un meccanismo discutibile: quel pezzo di Irpef, infatti, viene distribuito tutto, anche quello di chi non firma per alcuna confessione. In sostanza, il fondo da un miliardo totale viene ripartito “proporzionalmente sul totale delle scelte espresse”, che sono poco più del 40% dei contribuenti. Tradotto: negli ultimi anni la Chiesa cattolica col 37% circa delle “preferenze” si accaparra assai più dell’80% del malloppo. In soldi si traduce così: gli italiani avrebbero dato ai vescovi meno di 400 milioni, invece lo Stato gliene dà più del doppio. Se non è carità cristiana questa.

il Fatto 29.11.14
La campagna pubblicitaria
“Chiedilo a loro”, il messaggio per convincere a firmare
di Fausto Nicastro

LA REGIA è curata, la fotografia ancora di più. I quartieri degradati rimangono sullo sfondo, soffusi, per dare l’idea di un contesto ma non devono disturbare troppo l’occhio dello spettatore. Anche quando suor Lisa porta i bambini sulla spiaggia un cielo è grigio incombe su Reggio Calabria. Sulle note di un pianoforte triste ma vivacizzato da un riff di chitarra acustica si sente la voce narrante che racconta le storie difficili a cui l’8X1000 pone rimedio. Come per Noemi e i volontari di Bologna “attraversano la notte” per prendersi cura delle ragazze sfruttate.
LA LUCE, invece, è sbattuta fuori dallo schermo attraverso i primi piani dei protagonisti. Fermi, con gli occhi spalancati, con il sorriso di chi ha sofferto e che adesso ha una speranza mentre la voce narrante si chiede come sarebbe la vita di molti senza l’8 per mille alla Chiesa cattolica: “Chiedilo a loro”. Ogni fotogramma è studiato per emozionare e il movimento della telecamera che accompagna lo sguardo dell’ex galeotto Angelo, da terra verso le figure sante delle Chiese rupestri dei Sassi di Matera, è senza dubbio molto efficace.
C’è anche il sito web dedicato, dove oltre agli spot si possono visitare i contenuti extra con tutti gli approfondimenti: interviste ai protagonisti e fotoreportage dai luoghi dove le storie di chi è aiutato dall’8 per mille alla Chiesa cattolica vengono raccontate.

il Fatto 29.11.14
Erdogan e Francesco pari sono
Abbraccio islamico al papa
Il presidente turcoi riceve il Pontefice ad Ankara in una conferenza stampa fianco-a-fianco
Poi critica l’Occidente dopo le accuse di sostegno all’Isis
di Roberta Zunini

La tre giorni di Papa Francesco in Turchia è stata accolta da uno spiegamento senza precedenti di giornalisti, novecento da ogni parte del mondo. Le ragioni di questa spasmodica attesa sono molteplici, ma una sovrasta tutte le altre: la risposta che il presidente Erdogan, considerato dall'Occidente troppo riluttante nell'offensiva contro lo Stato islamico (Isis) che ha preso di mira tutte le minoranze religiose, a partire da quelle cristiane, avrebbe dato alla richiesta di Francesco di opporsi alle violenze perpetrate in nome delle religioni.
LA RISPOSTA è arrivata nell'incontro avvenuto “pariteticamente” – il Papa e il presidente hanno parlato sullo stesso palco, fianco a fianco, come due capi di Stato, hanno sottolineato i media turchi – all'interno del nuovo sfarzoso e contestato Palazzo presidenziale di Ankara. Erdogan, dopo aver sottolineato che nel mondo sta crescendo l'islamofobia, ha affermato che la comunità internazionale usa “due pesi e due misure” nel giudicare il terrorismo: “Oltre a quello islamico esiste anche un terrorismo di Stato, ed è quello perpetrato dal regime siriano di Bashar al Assad e da Israele a Gaza. Si tratta di un'ingiustizia”.
Il presidente, fondatore del partito islamico sunnita Akp, al governo da dieci anni, ha quindi condannato lo Stato islamico (Isis), i miliziani nigeriani di Boko Haram legati ad al Qaeda, accusandoli di “sfruttare le disillusioni delle popolazioni”. Proprio ieri la stampa dello Stato ebraico riportava che Israele ha chiesto a Nato e Usa di adottare misure contro la Turchia. “È illogico – sostiene il governo israeliano – che un membro Nato ospiti un’organizzazione terroristica che addestra uominie pianifica attacchi”.
I sevizi israeliani sostengono che le autorità turche abbiano autorizzato Hamas ad aprire un quartier generale a Istanbul dove si starebbero organizzando attacchi contro Israele.
PAPA FRANCESCO, che tra l’altro due giorni fa ha concesso la sua prima intervista a un quotidiano ebraico, Yedioth Aronoth, prima di partire, aveva scritto una lettera a Napolitano in cui spiegava di andare in Turchia “per favorire l’incontro e il dialogo tra culture diverse, per rafforzare il cammino dell’unità dei cristiani e per condividere momenti di preghiera con fratelli e sorelle nella fede”. Subito dopo l’incontro con Erdogan, Bergoglio ha fatto visita all’autorità per i servizi religiosi, esprimendo la sua volontà di lavorare per il dialogo interreligioso. Oggi sarà a Istanbul e tutti si domandano se durante la visita al museo di Santa Sofia e alla Moschea Blu, si raccoglierà in preghiera, come fece il suo predecessore, o se invece si limiterà a meditare per non indisporre i musulmani.

il Fatto 29.11.14
Trappola nera per bimbi rom
A Roma la manifestazione di Blocco studentesco ha impedito ai figli dei nomadi di andare a scuola
di Valeria Pacelli

Le madri con i loro figli ieri hanno avuto paura a uscire dal campo rom. Davanti ai loro occhi c’era un cordone di 400 persone con fumogeni che urlavano zingari, siete sporchi”. Una donna racconta la giornata di ieri a Torrevecchia, zona a nord di Roma dove si è tenuta una manifestazione di Blocco Studentesco, costola del movimento di estrema destra Casa-Pound, che ha sbarrato – secondo la denuncia delle associazioni – l’uscita dei rom per andare a scuola. Così da una parte c’erano i nomadi che da trent’anni occupano il campo, dall’altra 500 ragazzi di Blocco Studentesco. Nel mezzo c’era la rabbia, sia delle famiglie rom, sia degli studenti con i loro fumogeni e i loro striscioni con scritto: “Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono”.
IL SIT IN si è tenuto davanti agli istituti Tacito e Domizia Lucilla, il primo è un liceo classico, il secondo un istituto alberghiero che ospita solo due studenti rom, due ragazze di 16 e 17 anni. Entrambe le scuole si trovano in via Cesare Lombroso, proprio accanto al campo nomadi, che si sono visti assediare dai giornalisti dopo che qualche giorno fa alcuni giornali locali hanno raccontato le storie di violenza fatte dai rom ai danni di chi frequentava l’istituto. E Blocco Studentesco ieri era lì per manifestare proprio contro questa situazione. Secondo la denuncia dell’associazione Arci Solidarietà e della cooperativa Eureka, i manifestanti avrebbero impedito ai rom di uscire dal campo per andare a scuola. Versione confermata anche da Humila Halilovic che da qualche tempo, per l’attenzione mediatica, si è fatta portavoce del campo rom. “C’era una folla di persone all’entrata del campo – racconta Humila raggiunta dal Fatto – Saranno stati in 400. Non sapevamo quello che volevamo ma le madri erano spaventate. Ci minacciavano”. Qualcuno con le auto è riuscito ad uscire. “Sono passati dalla strada laterale - continua la donna – ma solo perchè c’erano polizia e vigili che li proteggevano. Tante altre madri non hanno avuto il coraggio di superare la folla”.
Blocco Studentesco smentisce di aver impedito l’uscita dei nomadi dal campo: “È una ricostruzione priva di fondamento – dice Fabio Di Martino, coordinatore di Blocco Studentesco – La manifestazione si è svolta davanti agli istituti, non davanti alcampo rom che sfortunatamente, per miope scelta non nostra né degli studenti, dista qualche centinaio di metri”. “Con questa manifestazione spontanea e pacifica - continua Di Martino – abbiamo voluto esprimere la nostra solidarietà agli studenti che sono stati bersaglio di lanci di sassi, bottiglie e anche di offese e stiamo preparando una manifestazione più grande per venerdì prossimo”.
L’episodio a cui si riferisce il portavoce di Blocco Studentesco e che ha scatenato questa reazione è quello riportato alcuni giorni fa dai giornali locali. Un dirigente scolastico aveva raccontato di alcuni ragazzi provenienti dal campo rom che avevano fatto irruzione nella scuola, a bordo di un motorino rubato. Quando i bidelli se ne sono accorti, i due giovani sarebbero scappati scavalcando il cancello. A questo episodio sono stati aggiunti altri dettagli, come le dichiarazioni di alcuni studenti che raccontavano di sassi e bottiglie lanciate contro di loro dal campo accanto alla scuola. Dopo due giorni dalla pubblicazione di queste storie però sono arrivate le smentite da parte di alcune istituzioni, come Valerio Barletta, Presidente del XIV Municipio che anche ieri ha ribadito: “Posso dichiarare adesso con certezza che nessuno dei fatti pubblicati è mai stato denunciato nei scorsi giorni e nelle scorse settimane. I dirigenti delle due scuole coinvolte su una notizia costruita ora sono spaventate”.
STESSA VERSIONE fornita dall’Assessore alle Politiche sociali Barbara Funari e dall’Assessore alla Scuola Daniela Scocciolini dello stesso municipio che nei giorni scorsi hanno dichiarato che “Entrambe le Dirigenti hanno stigmatizzatoquesto clima strumentale e di allarme intorno alla scuola affermando che la situazione non desta preoccupazione”.
Insomma non ci sarebbe alcun clima di violenza. Sul caso del ragazzo rom entrato nell’istituto alberghiero, la cooperativa Eureka dà una versione diversa, spiegando che si tratta di un giovane che, accompagnato dal fratello, era andato a scuola a chiedere di essere riammesso. I bidelli a quel punto, poiché non era iscritto, lo avrebbero mandato via. Lui irato, avrebbe scavalcato il cancello, lasciando così il motorino all’interno. Versioni diverse, con un unico risultato: altro odio. Come se non bastasse quello che aveva già sconvolto un’altra zona di Roma, Tor Sapienza.

La Stampa 29.11.14
Scuola Pound
di Massimo Gramellini

L’immagine rilanciata dai titoloni dei media sembra l’inizio urticante di un film dove nessuno si salverà. Eccola: in un punto della sterminata periferia romana appaiono cinquecento ragazzi che inalberano cartelli dai caratteri fascisti inneggianti all’italianità offesa e cercano di impedire ai bambini del vicino campo rom di andare a scuola. Nella totale assenza di qualsiasi rappresentante dello Stato, per esempio la polizia.  
Poi fioccano le ricostruzioni. I manifestanti di Casa Pound sostengono di essersi limitati a picchettare due istituti superiori, bersaglio nei giorni scorsi di un lancio di pietre da parte dei rom. Le cooperative di sinistra che lavorano con i nomadi negano il lancio di pietre e ribadiscono la versione emotivamente più dura: il picchetto fascista ha impedito ai bambini rom che frequentano le elementari di uscire dal campo per raggiungere le loro classi. Mi auguro con tutto il cuore che abbiano torto, perché picchettare una scuola è la cosa più feroce e stupida che si possa fare. La scuola è l’unica timida speranza che abbiamo di porre fine a queste guerre tra poveri che non si parlano, non si capiscono e perciò si odiano. Altro che impedire ai piccoli rom di frequentarla. Bisognerebbe trascinarvi anche quelli, purtroppo ancora moltissimi, che vengono indotti a sfuggirla per andare a mendicare. Quanto ai fascisti di Casa Pound, non riesco a credere - ma nemmeno a dimenticare - che Grillo e Salvini li abbiano legittimati come interlocutori democratici, in questa Repubblica che ha ripudiato i propri genitori e vaga sbandata e vergognosa in cerca di identità. 

Repubblica 29.11.14
Un’operazione a sangue freddo
La caccia al rom viene orchestrata da piromani smaliziati cercatori della prova di forza a contatto diretto col nemico etnico
di Gad Lerner

È RICOMINCIATA in Italia la caccia al rom, o zingaro che dir si voglia, da sempre il più comodo e popolare dei bersagli con cui prendersela quando anche tu vivi ai margini e te la passi male.
SOLO che stavolta la caccia al rom viene orchestrata da piromani a sangue freddo. Smaliziati cercatori della prova di forza a contatto diretto col nemico etnico. Professionisti che mirano all’incendio delle periferie metropolitane, dove si contendono i marciapiedi con i centri sociali antagonisti. È lì, nel vuoto della politica, che costoro hanno intravisto lo spazio in cui costruire un nuovo polo di destra radicale. Una destra verdenera, o fascioleghista, pronta a plasmarsi sul modello di un alleato robusto come il Front National di Marine Le Pen. Il loro credo è l’etno-nazionalismo, il loro faro è Putin, la costruzione da abbattere è l’Europa.
Ma intanto si comincia dal basso: dall’insofferenza degli inquilini delle case popolari quando i nuovi assegnatari o, peggio, gli occupanti abusivi, sono le famiglie rom e sinti che hanno lasciato i campi nomadi, come succede nei quartieri milanesi del Lorenteggio e del Giambellino. Oppure dalla richiesta di chiudere quegli stessi campi nomadi in cui — parole del consigliere comunale vicentino Claudio Cicero — agli zingari piacerebbe «vivere nella sporcizia, come i maiali ».
Ieri a Roma gli studenti organizzati da Casapound hanno bloccato l’uscita ai residenti del campo di via Cesare Lombroso, impedendo ai bambini di andare a scuola. Come sempre avviene, i prevaricatori capovolgono la realtà atteggiandosi a vittime che finalmente trovano il coraggio di reagire. I manifestanti reggevano uno striscione appositamente studiato: “Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono”. Sarebbero loro, il drappello d’avanguardia degli italiani coraggiosi. E poco importa che la devianza e la criminalità diffuse nei campi nomadi non rappresentino certo la fonte principale della sofferenza sociale cresciuta con la povertà materiale e la miseria culturale. Sono nemici per lo più inoffensivi ma fisicamente riconoscibili, difenderli risulta impopolare, e quindi vanno additati come corpo estraneo, stranieri anche quando si tratti di rom e sinti con la cittadinanza italiana.
L’operazione politica, studiata a sangue freddo, prevede il gesto ardito, la provocazione, il contatto diretto. Come il blitz mascherato da “ispezione” architettato da Matteo Salvini al campo sinti bolognese di via Erbosa, con il seguito prevedibilissimo dell’aggressione su cui il segretario leghista ha lucrato elettoralmente.
Da allora il meccanismo è stato replicato più volte a favore di telecamere. Ci sono trasmissioni televisive specializzate nella messinscena della rabbia popolare costruita ad arte. Si mettono d’accordo con Mario Borghezio che naturalmente si presta volentieri e finge di voler fare un sopralluogo, di volta in volta a un campo rom o a un centro d’accoglienza per rifugiati stranieri. Ne scaturisce una gazzarra. Oppure si convocano insieme il comitato dei cittadini arrabbiati e un paio di malcapitati rom, scatenando il putiferio.
Borghezio, eletto nella lista romana della Lega Nord con il sostegno di Casapound, rappresenta l’anello di congiunzione ideale di questa estrema destra nascente. Trova sempre un microfono compiacente, proprio lui che definì “vero patriota” il generale serbo-bosniaco Mladic, cioè il boia di Srebrenica; e che ammise di riconoscersi nelle idee del fanatico norvegese Anders Breivik, autore della strage di Utoya. Neanche questo basta a limitare il suo spazio mediatico, nell’autunno della rabbia.
La crisi della destra post-berlusconiana libera pulsioni reazionarie sempre in cerca dell’incidente, alimentando un clima di violenza dagli esiti imprevedibili. La caccia al rom stavolta non è un moto spontaneo, ma un vero e proprio cinico progetto politico.

La Stampa 29.11.14
La destra in Europa sceglie di chiudersi
Timori e sfiducia agitano l’orizzonte europeo: da Cameron a Front national, la politica cavalca la paura
di Cesare Martinetti

il Fatto 29.11.14
E oggi a Milano arrivano i neonazisti europei
Al via l’Hammerfest 2014
Tra le band invitate “I Gesta Bellica” che arrivano da Verona e che hanno dedicato un loro brano al comandante delle SS Erich Priebke
Ancora “segreta la località dove si svolgerà il concerto
Attese oltre mille persone
di Davide Milosa

Il meeting point è stato fissato nelle ultime ore: parcheggio della tangenziale est, uscita 14 a Carugate, hinterland a nord di Milano. Questo il centro di raccolta dove oggi pomeriggio confluiranno oltre mille persone da tutta Europa per partecipare all’Hammerfest 2014, raduno nazi-rock. Milano così si trasforma da città medaglia d’oro della Resistenza a nuova capitale del neonazismo europeo.
IL BATTAGE PER L’EVENTO gira da settimane sui siti specializzati. Nella zona di Linate sono già stati prenotati tre alberghi. Il cappello sull’organizzazione, come già nel 2013, lo mette la Skinhouse di Bollate il cui volto pseudo “istituzionale” è rappresentato dal movimento di estrema destra Lealtà e Azione che ha recentemente partecipato a un meeting organizzato ad Atene dal movimento Alba Dorata. Qualche coordinata per capire cosa andrà in scena oggi. La Fratellanza Hammerskin è un movimento a carattere internazionale che dichiara di voler perseguire “lo stile di vita White Power”. Molti i riferimenti soprattutto negli Stati Uniti dove la Fratellanza viene fondata negli anni Ottanta da fuoriusciti del Ku Klux Klan. Tra le tante band che animeranno il festival ci sono i tedeschi Lunikoff, la cui denominazione originaria era Endlosung (“Soluzione finale”). Il logo della band è composto da una L e da una spada, chiaro riferimento alle insegne della divisione SS Lutzow creata da Himmler. Dall’Ungheria, invece, arrivano i Vérszerzodé legati al circuito Rac (Rock Against Communism). Il ritornello di uno dei loro brani recita: “Ein Volk, ein Reich, ein Führer”. Stessa linea per i milanesi Malnatt che cantano: “Sarò me stesso finché ci sarò, / con il braccio teso ti saluterò! /Sono della Resistenza bianca! ”. Da Verona arrivano invece I Gesta Bellica che dedicano un testo al comandante delle SS Erich Priebke chiamato il Capitano. Milano nera, dunque. Rock e politica. Con la Questura che ieri ha diffidato i partecipanti a compiere atti contrari alla legge Mancino. Oggi si canta. Ma il lavoro è in prospettiva. Obiettivo: 29 aprile 2015, quando correranno i 40 anni dall’omicidio del giovane missino Sergio Ramelli, ucciso nel 1975 da due ragazzi di sinistra.
La tensione è alle stelle visto che il fronte opposto, quello dell’autonomia diffusa, prepara disordini per il primo maggio quando sarà inaugurato l’Expo 2015. Intanto, per il corteo di Ramelli del 2013 la Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per 16 persone. Tutti sono accusati di aver violato la legge Scelba che punisce “le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista”.
IL CAPOLUOGO LOMBARDO, dunque, si ripropone come cantiere dei nuovi scontri sociali a livello nazionale. Sul fronte degli Hammer, il movimento milanese da qualche tempo ha trovato un leader. Si tratta di Mimmo Hammer in rapporti con il presunto narcos montenegrino Milutin Tiodorovic. Il suo nome (non iscritto nel registro degli indagati) compare in una intercettazione messa agli atti di un’inchiesta della Finanza che ha fotografato i rapporti tra la ‘ndrangheta e la malavita serba. Si allarga anche l’ala di CasaPound gestita politicamente da Marco Clemente, già candidato del Pdl alle Comunali del 2011 e intercettato (ma non indagato) a colloquio con personaggi legati ai clan.

il Fatto 29.11.14
Miglioristi
Il commiato di Re Giorgio al compagno Togliatti
di Fabrizio d’Esposito

Una delle primissime volte che Giorgio Napolitano conobbe Palmiro Togliatti da vicino, sul piano umano oltre che politico, fu nell’autunno del 1950. Napolitano, classe 1925, era un quadro della federazione comunista di Napoli, quella “stalinista” di Cacciapuoti e Amendola, e fu delegato a vigilare sulla convalescenza del Migliore a Sorrento dopo un grave incidente automobilistico. Togliatti era con Nilde Iotti e la piccola Marisa Malagoli, appena adottata e Napolitano rimase con loro per due settimane.
QUASI sessantacinque anni dopo, l’immagine più forte e suggestiva del congedo del capo dello Stato dalla Camera dei deputati, in vista delle sue dimissioni di gennaio, è questa: il presidente, in piedi, che si appoggia sul bastone comparso nelle sue ultime uscite, la piccola Malagoli Togliatti diventata una signora anziana, infine Emanuele Macaluso, altro compagno migliorista come “Giorgio” e amico del capo dello Stato. Di fronte a loro Laura Boldrini, presidente della Camera, e Giuseppe Vacca, a capo della Fondazione Istituto Gramsci, che ieri hanno inaugurato a Montecitorio, nella Sala della Regina, la mostra dedicata a Palmiro Togliatti “padre della Costituzione” nel cinquantesimo anniversario della sua morte, nel 1964. Alle 17, i primi ad arrivare, mani dietro alla schiena e in anticipo di mezz’ora, da comunisti vecchio stampo, sono stati Aldo Tortorella, lo stesso Macaluso, Alfredo Reichlin, la Rodano. Un pezzo di Pci cui si è aggiunta la vecchia guardia della Ditta sbaragliata da Matteo Renzi: Pier Luigi Bersani che ha parlato tutto il tempo con Pier Ferdinando Casini (probabilmente delle ambizioni del leader dell’Udc per il Quirinale), Guglielmo Epifani, Gianni Cuperlo e in ordine sparso altri deputati della minoranza dem. Assente Massimo D’Alema, ma solo perché impegnato a Napoli per un’iniziativa su Enrico Berlinguer, nel trentennale della scomparsa.
UNA GIORNATA del ricordo comunista, piena di silenzi ed emozioni. Al punto che Pasqualino Laurito, titolare della Velina rossa e decano dei giornalisti parlamentari, non manca di notare: “L’unico che non ricorda Togliatti è il presidente del Consiglio. Lui fa la pizza con Blair ma non viene qui”. C’è un solo ministro ed è Andrea Orlando, guardasigilli come lo fu Togliatti dal 1945 al ’46. È una questione antropologica più che generazionale. Renzi in questo contesto non funzionerebbe. La parlantina da Ruota della fortuna e le battute da Twitter evaporerebbero a confronto con lo stile denso e profondo dei comunisti di una volta (e Togliatti fu uno dei leader più presenti in Parlamento). Quando i discorsi di Boldrini e Vacca si esauriscono, il capo dello Stato va a visitare la mostra e si ferma davanti a un biglietto di Togliatti sull’articolo della Costituzione dedicato al Senato. Qualcuno gli fa notare l’attualità della questione, con l’abolizione di Palazzo Madama prevista dalle riforma della Boschi e dell’inquisito Verdini. Napolitano ride, ma non dice nulla. Poi il paragone tra i due grandi della Costituzione, Alcide De Gasperi e il Migliore. Macaluso obietta: “Togliatti fu grandissimo”.
Nella lunga agenda del commiato di Napolitano dal Quirinale, dopo la visita privata a Francesco ecco un altro appuntamento altamente simbolico. A novant’anni da compiere nel prossimo giugno, il capo dello Stato rende omaggio al suo vero maestro politico, nel senso più largo del termine. Come scrisse nella sua autobiografia del 2005: “La nostra era stata un formazione, direi, integralmente togliattiana, via via sviluppatasi anche attraverso la tendenza a interpretare la lezione di Togliatti in una chiave piuttosto che in un’altra”. Quando venne eletto nel 2006 al Quirinale, Paolo Franchi definì Napolitano come l’ultimo degli homines togliattiani. E del Migliore, da capo dello Stato, ha continuato ad applicare la lezione del principio di realtà. Realismo, in una parola. Quello che nel novembre del 2011, per esempio, non lo portò a sciogliere le Camere, come voleva Bersani, e a chiamare Mario Monti a Palazzo Chigi. Non avremmo avuto Renzi, oggi. Ma la storia non si fa con i se e con i ma. E ieri Napolitano è come se avesse preso congedo dalla sua storia di comunista.

il Fatto 29.11.14
Fassino ha ritrovato Gramsci: in una stanza a cinque stelle
di Angelo D’Orsi

Già, quale migliore viatico alla conoscenza di Gramsci nel mondo, di un hotel categoria 5 Stelle lusso?! Così la pensa Piero Fassino, intervenuto alla cerimonia d’inaugurazione dell’Hotel Carlina, nell’omonima piazza, avvenuta l’altro ieri a Torino, nell’edificio dove abitò Antonio Gramsci dal 1914 al 1922.
Già il direttore della Fondazione Piemontese Gramsci, mesi fa, quando fu ventilata l’ipotesi (poi scongiurata) di intitolare l’hotel a Gramsci – un nome considerato ormai un brand internazionale, essendo l’autore italiano dopo il XVI secolo più studiato e tradotto nel mondo – aveva sostenuto che quello fosse un ottimo modo per ricordare Gramsci. Dimenticando che il fondatore del PCI, non era stato solo un pensatore, ma un rivoluzionario, vittima del regime fascista, e che non aveva mai avuto una vera casa e che anche in piazza Carlina, sotto la Mole, aveva abitato in uno spazio minuscolo, oggi distrutto, in subaffitto.
Prima aveva vissuto in pensione, e anche quando, eletto deputato nel 1924, si trasferì a Roma dopo aver vissuto ramingo per l’Europa (in particolare in Russia, dove conobbe la donna che divenne sua moglie) a partire dal 1922, quando abbandonò Torino, affittò una camera presso una famiglia tedesca residente nella Capitale.
DIMENTICANDO l’intero Pd torinese (e ovviamente nazionale: ricordo le parole di Luciano Violante che aveva sostenuto che quella fosse una via “laica” alla memoria), che quel luogo, pubblico, da secoli adibito all’accoglienza degli indigenti (l’antico Albergo di Virtù, poi finito all’Istituto Case Popolari), trasformato in luogo, privato, dell’ospitalità, a pagamento, per i ricchi, o i super-ricchi, avrebbe costituito un oltraggio alla memoria di Gramsci.
Dimenticando, o non tenendo in nessun conto che, in storia come in politica, i simboli contano; e il messaggio che da tutta questa vicenda giungeva era chiaro, e certamente non era gramsciano. Anzi, il messaggio era ed è un autentico rovesciamento di qualsivoglia insegnamento si possa trarre dallo straordinario zibaldone di pensieri rappresentato dai Quaderni, dalle Lettere, e dagli scritti giornalistici di Antonio Gramsci.
Del resto che cosa può avere oggi in comune Gramsci, con il suo lascito teorico e pratico, con il Pd? Nulla, semplicemente. E le stesse fondazioni a Gramsci intitolate, a cominciare da quella di Torino, sembra che siano impegnate, oltre che a sopravvivere in tempi duri, prima di tutto a far dimenticare il loro “vizio d’origine”, appunto, l’essere, almeno nominalisticamente, dedicate ad Antonio Gramsci. Del resto, già nel 2000 Veltroni, segretario allora del Pds, dichiarò, alla cerimonia di festeggiamento per il cinquantenario della Fondazione Gramsci (la prima, quella nazionale, di Roma) “non appartenere più” al patrimonio della sinistra “moderna”; in effetti, il sardo che “scelse Torino” non fu incluso nel “Gotha” del Pd (rammentiamo che il traghettatore verso la nuova forza politica fu proprio Piero Fassino), dove invece vennero accolti John Kennedy e Martin Luther King...
Oggi, dunque, giunto a conclusione questo nuovo capitolo della infinita “Operazione Gramsci”, il costruttore, titolare di una ditta da sempre vicina alla leadership del Pd piemontese, che ha avuto un ruolo importante nella trasformazione urbana di Torino degli ultimi 10/15 anni, può essere soddisfatto: ha portato a termine l’impresa, ha salvato un edificio fatiscente, abbandonato all’incuria dalle pubbliche amministrazioni (gliene va dato atto).
MA, PER FAVORE, Fassino, lasci stare Gramsci. I milioni di turisti da lui previsti che entrando nell’albergo ammireranno la targa che ricorda il più importante pensatore politico italiano dopo Machiavelli, ucciso dal fascismo, sono figure dell’immaginario retorico di un imbonitore. Il quale facilmente perde il controllo, e si arriva alla perla: “quale miglior strumento di un albergo, visitato da migliaia di persone, per diffondere la conoscenza del fondatore del Pci? ”. Agghiacciante, potrebbe commentare Antonio Conte, già allenatore della squadra per cui tifa Fassino.

il Fatto 29.11.14
Non è disaffezione. La democrazia è finita
di Massimo Fini

ALL’INDOMANI delle elezioni amministrative della primavera del 2012 in un articolo intitolato “Ecco perché il voto del 2013 potrebbe segnare la fine della democrazia” (Il Gazzettino, 11 maggio 2012) di fronte a un’astensione che stava montando di tornata in tornata, scrivevo: “Nel 2013 (...) l'astensione potrebbe diventare valanga. I partiti non sembrano rendersi conto che stanno ballando sull'orlo di un vulcano in eruzione. La crisi ha aperto gli occhi ai cittadini che scoprono di essere presi in giro da almeno trent'anni, governasse la destra o la sinistra o tutte e due insieme”. E concludevo: “Le elezioni del 2013, Grillo o non Grillo, potrebbero segnare, con un’astensione colossale, la fine della democrazia rappresentativa”.
NEL 2013 ci fu un’ulteriore erosione dell'elettorato, ma quell’“astensione colossale” che io prevedevo già per quell’anno è arrivata ora, nell’autunno del 2014.
E solo adesso, tranne Renzi che fa il pesce in barile e definisce l'astensione “secondaria” e Matteo Salvini che finge di aver vinto un’elezione che invece ha perso, come tutti, perché dai 116.394 voti delle europee è passato ai 49.736 di oggi, tutti gli esponenti di partito, i commentatori, i giornalisti scoprono l'esistenza del fenomeno.
Naturalmente cercano di sminuirne la portata attribuendolo al tempo ridotto per votare, agli scontri in atto all'interno del Partito democratico e a quelli con i sindacati, agli scandali emersi in Emilia Romagna, alle inchieste della magistratura e a qualsiasi altra causa cui possano appigliarsi.
Ma tutte queste ragioni non possono aver avuto che un'incidenza molto parziale, direi minima, su un fenomeno così esteso. La realtà è che la gente non crede più a questo sistema, non crede più al balletto delle elezioni, non crede più alla democrazia rappresentativa e, forse, alla democrazia tout court.
I partiti che si scannano per dividersi quel poco di elettorato che gli è rimasto appiccicato fanno la stessa impressione di chi, in un castello che sta andando in fiamme, si preoccupi di assicurarsi comunque gli appartamenti migliori, mentre là fuori sono circondati da milioni di arcieri che non hanno ancora trovato il loro Robin Hood, ma che prima o poi occuperanno quelle macerie fumanti.
IL FENOMENO non è solo italiano. Negli Stati Uniti un deputato, in un momento di sincerità, ha affermato che “gli elettori contano poco o nulla e non sanno neanche perché e per chi votano”.
Tuttavia, come ho già avuto modo di osservare, l'Italia è, storicamente, un “paese laboratorio” e la fine della democrazia da noi potrebbe preludere alla fine anche delle altre democrazie occidentali.
A differenza di quanto ha scritto Antonello Caporale sul Fatto Quotidiano, non ha vinto “il partito della pantofola”. Chi è rimasto a casa è uno che ha esaurito ogni pazienza e, non essendo vincolato, a differenza di Grillo, a una rivoluzione pacifica che agisca all'interno delle regole democratiche, il giorno che, esasperato, deciderà di uscire allo scoperto lo farà, per usare un eufemismo, con le mazze da baseball. E saranno guai. Perché, come dice la Bibbia, “terribile è l’ira del mansueto”.

il Fatto 29.11.14
Grasso ci spera: ”Il capo dello Stato sia eletto in fretta”
“MI AUGURO che ci sia una maturità delle forze politiche che possa riuscire a raggiungere molto rapidamente un consenso perché è importante che si risolva rapidamente la questione della successione del presidente Napolitano, anche se io personalmente spero che stia il più a lungo possibile perché rimane un faro e un punto di riferimento per noi tutti”. Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso, parlando a Palermo della successione del capo dello stato Giorgio Napolitano. Anche il presidente di Fca (l’ex Fiat) John Elkann, rispondendo ai giornalisti a margine di un evento organizzato dalla Fondazione Agnelli, è intervenuto sul tema: “Giorgio Napolitano è un presidente della Repubblica che ha dato grande stabilità al nostro Paese durante tutti questo anni complicati. Mi auguro che se e quando ci sarà un suo successore sarà alla sua altezza”

il Fatto 29.11.14
Ultime note dal Nazareno: Muti, un Maestro al Colle
Renzi e il nome del direttore d’orchestra gradito anche a Berlusconi
di Giampiero Calapà

Chi può dire di no a Riccardo Muti? Perfino i grillini, come potrebbero non votare una personalità del genere, non un politico, il vero Made in Italy, un brand vincente per l’Italia nel mondo? Poi, come da accordi presi con l’interessato, sarà Gianni Letta il segretario generale del Quirinale. Questo sarebbe stato il ragionamento del premier Matteo Renzi, l’interlocutore è il capo di Forza Italia Silvio Berlusconi, il luogo Palazzo Chigi, l’incontro quello del 12 novembre per il rinnovo del Patto del Nazareno, l’accordo che dovrebbe ridisegnare l’Italia, dalla legge elettorale agli assetti istituzionali fino al Colle più alto, la Presidenza della Repubblica. La risposta di Berlusconi, già informato dal grande tessitore Gianni Letta prima del vertice, entusiasta.
L’EX CAVALIERE avrebbe ribadito di esser lui stesso il miglior presidente della Repubblica possibile, ma purché non sia Romano Prodi gli andrebbe bene anche un direttore d’orchestra, anche meno bravo di Muti se servisse, anche Walter Veltroni, avrebbe osato Berlusconi. Veltroni non può essere nei piani, perché la gente non lo capirebbe, l’ultima replica di Renzi. Quindi lo scambio di un sorriso e un’ideale stretta di mano, prima di cambiare argomento. Il premier non ama l’opera, preferisce di gran lunga gli U2, ma ha già avuto modo di incontrare Riccardo Muti da sindaco di Firenze. Muti, storico direttore del Maggio musicale fiorentino, dal 1968 al 1980, quando Renzi era solo un bambino, è tornato a collaborare con il coro e l’orchestra della città più volte, anche in occasione del progetto di impegno civile “Le vie dell’amicizia”, che da Sarajevo a Nairobi lo ha portato a dirigere concerti in giro per il mondo dal 1997 al 2011.
ULTIMANOTA di merito e di stima per il Renzi-pensiero è il modo in cui Muti ha lasciato l’Opera di Roma, dove ricopriva la carica di direttore a vita, in polemica con i sindacati impegnati in una difficile vertenza a fine settembre. Ma il vero tessitore dell’operazione-Muti è appunto Gianni Letta, il cui primo obiettivo è quello di far tornare un cattolico al Quirinale, perché al di là di quanto si pensi le gerarchie ecclesiastiche contano ancora e non gradirebbero un terzo presidente laico dopo Carlo Azeglio Ciampi e Napolitano. E Letta esegue, provando a unire più esigenze: quella di Renzi di avere una personalità non politica, prestigiosa e riconosciuta nel mondo, ma “governabile”; quella di eleggere un cattolico, appunto, meglio se conservatore, e Muti corrisponde all’identikit. Il passo successivo sarebbe la nomina dello stesso Letta a segretario generale del Quirinale, in modo di mantenere le mani ben salde sulla macchina dello Stato, nel ruolo di garanzia per Berlusconi e per nulla sgradito allo stesso Renzi, per cui il Letta sbagliato è il nipote Enrico. Zio Gianni e Muti, d’altra parte, sono un sodalizio di lunga data, numerose le cene romane in cui si sono incontrati e insieme hanno inaugurato la nuova sede del Conservatorio de L’Aquila dopo il terremoto.
Napoletano, ravennate d’adozione, classe 1941, Muti arriverebbe al Colle a 73 anni. Quale parlamentare, sarebbe convinto Renzi, potrebbe dire no a un curriculum così? Gran croce della Repubblica italiana, verdienstkreuz (grand’ufficiale) della Repubblica federale tedesca, legion d’onore in Francia (già cavaliere, insignito del titolo di ufficiale dal presidente Nicolas Sarkozy nel 2010), cavaliere dell’impero britannico per volere della regina Elisabetta II, premiato con l’Ordine dell’amicizia dal presidente russo Vladimir Putin. La sua direzione del Teatro alla Scala di Milano è la più lunga di sempre, dal 1986 al 2005. Le lauree honoris causa non si contano, l’ultima nel 2013 dalla DePaul University di Chicago. Ma, soprattutto, la gran croce di San Gregorio Magno, conferitagli da papa Benedetto XVI, è il sigillo del gradimento che Muti riscuoterebbe nel mondo cattolico. Nel 2011 il suo Nabucco incantò il presidente Giorgio Napolitano alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Un nome perfetto, un colpo di genio per Renzi, un affare per Berlusconi e Letta.
LA PATERNITÀ dell’idea potrebbe prendersela Vittorio Sgarbi, lo ripete da più di un anno con appelli sul Giornale e interventi alla Zanzara su Radio 24: “Io un nome per il Quirinale ce l’avrei, Riccardo Muti. Chi meglio di lui? Se Berlusconi fosse intelligente lo capirebbe e si metterebbe d’accordo con Renzi. Ma siccome non lo è, non lo farà”. Un incontro riservato tra Renzi e Muti sarebbe già in agenda nei prossimi giorni.

il Fatto 29.11.14
La cattiveria
Bologna, vandali distruggono un circolo Pd all’arrivo di Renzi. I soliti leccaculo

Il Sole 29.11.14
Istat: a ottobre 55mila posti in meno
Disoccupati al 13,2% - Renzi: con noi 100mila occupati in più - Terzo trimestre: 400mila nuovi posti fissi
di Claudio Tucci

ROMA Segnali in chiaroscuro sul mercato del lavoro: dopo due mesi consecutivi (agosto, +20mila posti e settembre, +51mila, sempre nel confronto congiunturale) il numero di occupati, sul mese, ad ottobre è tornato a diminuire di 55mila unità. Si "azzera", così, l'incremento di 116mila posti registrato a settembre, rispetto ai 12 mesi prima: a ottobre, sull'anno, l'occupazione è tornata «sostanzialmente stabile», ha rilevato ieri l'Istat.
È schizzato in alto il numero dei senza lavoro che hanno raggiunto la soglia record di 3 milioni e 400mila unità (la crescita è stata del 2,7% rispetto a settembre, pari a 90mila persone in più, e del 9,2% sull'anno, +286mila unità). Anche il tasso di disoccupazione, ad ottobre, è tornato a salire, superando la soglia del 13%, 13,2% per la precisione, e rispetto al 12,3% dell'anno prima ha fatto registrare un significativo balzo in avanti: «È stato il più elevato», assieme alla Finlandia, registrato da Eurostat tra i 18 paesi dell'Eurozona (qui il tasso di disoccupazione è rimasto stabile all'11,5%). E l'Italia è in affanno anche sui giovani: da noi il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è salito al 43,3% (in aumento di 0,6 punti sul mese). Ci confermiano al terz'ultimo posto nell'Eurozona: peggio di noi solo Spagna (53,8%) e Grecia 49,3% (dato di agosto). Alle prime posizioni i soliti paesi virtuosi: Germania (7,7% di disoccupazione giovanile), Olanda (9,7%) e Austria (10%).
I dati relativi al mese di ottobre hanno "gelato" i timidi segnali positivi registrati nel terzo trimestre 2014, dove, nel tendenziale, l'occupazione è aumentata di 122mila posti; e sono cresciuti, soprattutto, i rapporti di lavoro con contratto a tempo indeterminato, pari a oltre 400mila nuovi contratti, +7,1% rispetto a un anno prima, secondo l'anticipazione delle comunicazioni obbligatorie fornita dal ministero del Lavoro. Certo, bisognerà attendere il dato sulle cessazioni per capire l'effettivo peso dell'occupazione stabile. Sembra invece funzionare il decreto Poletti che ha semplificato i contratti a termine ed è intervenuto parzialmente sull'apprendistato: i rapporti a tempo, che continuano a rappresentare il 70% circa delle nuove attivazioni, sono saliti dell'1,8% (nel confronto con il terzo trimestre 2013), mentre gli apprendisti sono aumentati del 3,8% (un risultato, tuttavia, ancora modesto se confrontato con il +16% del secondo trimestre 2014). Il Governo ha guardato al "bicchiere mezzo pieno": «C'è ancora tanto lavoro da fare. Ma l'occupazione sta aumentando, con più di 100mila occupati da febbraio». E se crescono i disoccupati, ha aggiunto il sottosegretario, Graziano Delrio, «è per il calo delle persone inattive, diminuite di 377mila unità». «Anche i numeri del ministero del Lavoro sono positivi - ha aggiunto il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei -. Ma l'aumento dell'occupazione si concentra tra gli over50, mentre gli under35 faticano». Più cauto il ministro, Giuliano Poletti, che ha parlato di «un mercato del lavoro altalenante che segue un'economia dove la ripresa deve ancora fare i conti con la coda di una lunga crisi».
Del resto, non è un mistero, che l'Italia è ancora in profonda difficoltà: e per questo la fotografia dell'Istat «non mi sorprende, d'altronde basta guardarsi in giro», ha commentato il numero uno di Confindustria, Giorgio Squinzi. Il fatto è che i primi segnali di ripresa «arrivano dalla parte marginale del mercato del lavoro, donne, pensionati e ragazzi che per aumentare il reddito familiare si rimettono in cerca di un impiego - ha commentato l'economista del lavoro, Carlo Dell'Aringa -. La parte centrale del mercato fa invece segnare un sostenuto utilizzo della cassa integrazione e riduzioni di orari di lavoro». Il part-time involontario riguarda infatti il 63,6% dei lavoratori a tempo parziale. E c'è pure un problema di «forte aumento della disoccupazione di lunga durata che è arrivata al 62,3 per cento della percentuale complessiva dei senza lavoro - ha aggiunto il capo economista di Nomisma, Sergio De Nardis -. Si tratta di un fenomeno da monitorare perché rischia di innestare effetti di persistenza nelle sacche di disoccupazione».

La Stampa 29.11.14
Disoccupazione record: a ottobre è al 13,2%. L’Istat: nel quarto trimestre attesa crescita zero
In aumento di 0,3 punti percentuali sul mese e di uno nei 12 mesi
Tra i giovani 43,3%
L’istituto statistico nazionale certifica anche la stagnazione: nel 2014 Pil a -0,3%

Corriere 29.11.14
Renzi, Poletti e quel palinsesto della fiducia
di Dario Di Vico

Nel lessico quotidiano dei manager televisivi viene chiamata comunemente “controprogrammazione”. E funziona grosso modo così: quando sai che un tuo concorrente ha messo in palinsesto in un determinato giorno e a una data ora un programma con forti chance di catalizzare gli ascolti decidi per tempo cosa vuoi giocargli contro. Più riesci ad essere sorprendente più hai la possibilità di catturare una parte del pubblico potenziale e toglierlo così al rivale. Ebbene, ieri il governo ha messo in atto qualcosa del genere: ben sapendo che era attesa in mattinata la pubblicazione della rilevazione mensile Istat sull’occupazione e prevedendo facilmente che i dati sarebbero stati negativi, ha dato disposizione al ministero del Lavoro di sfornare delle altre statistiche. Ovviamente di segno opposto e con una fenomenologia non immediatamente confrontabile con la tradizionale rilevazione dell’Istat. Così facendo però il governo ha trattato l’istituto di statistica come un concorrente dotato di un palinsesto “pericoloso” per l’audience e quindi da tenere a bada ricorrendo alla controprogrammazione. In concreto è avvenuto che mentre l’Istat ha comunicato che la disoccupazione nell’ultimo mese è aumentata di nuovo toccando il massimo storico, il ministero del Lavoro ha fatto sapere agli italiani che nel terzo trimestre 2014 sono stati creati nuovi 400 mila posti fissi. Il lavoro e gli indicatori di occupazione sono di conseguenza diventati l’ennesimo terreno di scontro della battaglia della comunicazione cara a Matteo Renzi, che le assegna un ruolo decisivo per scardinare gli equilibri di potere. La cosa forse non deve scandalizzare più di tanto, la modernizzazione della politica ha i suoi pregi e i suoi difetti. Il dubbio, caso mai, riguarda l’opportunità di giocare “contro” l’Istat. Perché una cosa è battagliare tra partiti e schieramenti contrapposti, altro è imbastire un duello de facto tra un ministero con forti responsabilità sociali e un’authority indipendente inserita in un organismo europeo come l’Eurostat. Speriamo, dunque, che quello di ieri resti un episodio isolato, un unicum e non si abbia in mente di fare il bis magari quando sarà reso noto il dato definitivo del Pil. Se poi l’esecutivo vuole dimostrare a tutti i costi la propria capacità di comunicare, il pane per mettere alla prova i suoi denti non manca: si cimenti nel rivitalizzare Garanzia Giovani. 

il Fatto 29.11.14
Occupati, contratti, crescita
Pessimi dati e solite bugie
Il premier e Poletti si inventano i numeri sul lavoro, ma la crisi non è finita
di Marco Palombi

I numeri, come i nudi fatti, non significano nulla. Solo il loro inserimento nel contesto, la loro trasformazione in racconto, li rende vivi. Questo, al governo, lo sanno bene: il problema è che il racconto in cui inseriscono quei numeri è falso. Niente di nuovo sotto il sole, per carità, ma nel caso del governo Renzi c’è il sospetto che gli interessati non sappiano nemmeno di mentire. E questo è più preoccupante. Veniamo ai dati di ieri.
I numeri a caso di Renzi sui nuovi posti di lavoro
Il 20 novembre il premier diceva alla radio, con la giusta dose di contrizione, che “in sei anni l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro. Negli ultimi sei mesi ne abbiamo recuperati 153.000. Non mi basta”. Ieri, invece, dopo che l’Istat ha certificato che il tasso di disoccupazione a ottobre era al 13,2% - oltre 3,4 milioni di senza lavoro, più della metà da oltre un anno, un dato da dopoguerra nel senso letterale del termine - il nostro ha ostentato ottimismo, cambiando però le cifre: “La disoccupazione ci preoccupa, ma il dato degli occupati sta crescendo: da quando ci siamo noi ci sono 100mila posti di lavoro in più”. Urge dunque chiarire all’ex sindaco di Firenze quanto segue: a ottobre il dato sugli occupati è sceso di 55mila unità (“sostanzialmente stabili su base annua”, chiosa Istat) ; se proprio vogliamo contarli dal momento in cui si è seduto a palazzo Chigi come se fosse prima e dopo Cristo il dato dice che a febbraio gli occupati erano 22,323 milioni, ieri 22,374 milioni: all’ingrosso fa 51mila in più “da quando ci siamo noi”, né il doppio, né il triplo. Peraltro va sempre ricordato che queste dell’Istat sono stime, molto utili a indicare un trend, ma non certo il Vangelo (per restare in tema) quanto a numeri assoluti: 51mila su 22 milioni e dispari insomma non vuol dire nulla, se non che l’economia italiana è - se va bene - in stagnazione, come d’altronde lasciano pensare anche gli altri indicatori economici. Conclusione: “da quando ci siamo noi”, cioè Renzi, non è cambiato niente.
Crescita zero: un nuovo, tranquillo anno di recessione
Sempre l’Istat ieri ha pubblicato la sua nuova nota mensile sull’andamento dell’economia italiana. Certificato che per i primi nove mesi dell’anno siamo stati in recessione, per il prossimo trimestre (ottobre-dicembre) la previsione è di una crescita zero. Per la precisione “l’intervallo di confidenza ” dell’Istituto di statistica è -0,2/+0,2%. Siamo in stagnazione, appunto. Spiegazione: “Per il 2014 il rallentamento dell’Economia è previsto pari a -0,3%, a sintesi di un contributo negativo della domanda interna, condizionata dalla brusca caduta degli investimenti, e di un modesto aumento del contributo della domanda estera”. Insomma, l’Italia è moribonda e dà blandi segni di vita grazie alle esportazioni. Poi la mazzata finale: “In questo scenario la crescita acquisita per il 2015 è pari a -0,1%”. Cioè l’anno prossimo inizia in salita. Bizzarro che qualcuno ieri sostenesse che questo significhi “che si è arrestata la caduta del Pil”.
Sogni da ministro: l’aumento dei “tempo indeterminato”
Ha sostenuto ieri Giuliano Po-letti, ministro del Lavoro, che “da un’anticipazione dei dati forniti dal Sistema Informativo delle Comunicazioni Obbligatorie sull’avviamento di nuovi rapporti di lavoro dipendente e parasubordinato, relativi sempre al terzo trimestre del 2014, emerge che i contratti di lavoro a tempo indeterminato aumentano del 7,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”. Cioè circa 400mila in più: “Questi dati - sostiene il ministero - confermano che il decreto Poletti ha prodotto l’esito che era auspicabile”. Ecco, questa è una bugia. Quell’aumento dei contratti a tempo indeterminato è infatti figlio dell’unico aumento verificatosi quest’anno, quello del primo trimestre, quando il decreto Poletti (emanato a marzo, convertito a maggio) era ancora nei cassetti dell’ex presidente di Legacoop. Al contrario nel secondo e terzo trimestre 2014 i “tempo indeterminato” sono diminuiti rispetto al periodo precedente. Tradotto: l’aumento c’è stato inassoluto rispetto al 2013, ma il decreto Poletti non ha nulla a che fare con questo. In realtà, il racconto montato coi numeri dei contratto è ancora più falso di così: la percentuale di “tempo indeterminato” rispetto al totale dei contratti attivati è scesa quest’anno come continua a fare almeno dall’inizio della crisi. I dati Istat sul terzo trimestre raccontano proprio questo: un aumento dei contratti a termine e persino dei Cocopro, che sembravano sul viale del tramonto. E ancora: “Non si arresta la flessione degli occupati a tempo pieno, che riguarda i dipendenti a ‘tempo indeterminato’ e gli indipendenti”, mentre continua a crescere il “part time involontario”, cioè quello di chi vorrebbe lavorare a tempo pieno, ma non può. Non proprio quel che dice Poletti, ma l’ottimismo, si sa, è il sale della vita.

Repubblica 29.11.14
Lucrezia Reichlin: “Il nostro debito è poco sostenibile in Europa è a rischio la stabilità finanziaria”
intervista di Eugenio Occorsio

«Il dato sulla disoccupazione non fa altro che confermare le difficoltà dell’Italia, che da metà 2014, come gli altri paesi inclusa la Germania vive un nuovo rallentamento. Se la stagnazione è un problema comune, la crisi italiana è la peggiore». Lucrezia Reichlin, economista della London Business School, lancia un vibrato allarme. «Il caso Italia preoccupa l’Europa e anche il mondo. Se la crescita del reddito rimarrà cosi debole, il debito si installerà in un cammino di non sostenibilità, cosa che può innervosire i mercati i quali possono di nuovo mettere in dubbio la sopravvivenza dell’euro. È un rischio di stabilita finanziaria per tutti, non solo per l’Italia».
È per questo che Juncker ha evitato di sanzionare l’Italia?
«Il mancato sanzionamento per la verità mi sembra che indichi uno stato di confusione mentale della Commissione. La situazione è tale da dover ripensare alla governance europea: sediamoci intorno a un tavolo e cambiamo le regole. Se le manteniamo e a discrezione non le rispettiamo, ci mettiamo nella situazione peggiore. Le regole perdono credibilità e si crea caos e incertezza. Non fa bene alla crescita né alla stabilità. Bisogna avere il coraggio di dire che abbiamo bisogno di nuovi strumenti per rilanciare la domanda, alleggerire il peso del debito e poi andare avanti nell’integrazione».
L’Italia è fuori dalle regole per il debito ma non per il deficit, a parte la questione del deficit strutturale.
«Il problema del deficit strutturale è legato al debito perché un deficit strutturale alto mette a rischio il consolidamento del debito. Ma il calcolo del deficit strutturale richiede quello del reddito potenziale, risultato di un calcolo sta- tistico. Ci sono vari modi di calcolarlo e i margini di errore sono ampi. Si può avere un’opinione diversa dalla commissione, ma essa ha la responsabilità istituzionale di questo calcolo e adotta gli stessi criteri per tutti i paesi. Malgrado la regola sia discutibile, l’Italia, secondo quella regola, è in infrazione ».
Ma non contano i miglioramenti degli ultimi anni?
«C’è una flessibilità che tiene conto dell’andamento ciclico e della recessione. Ma questa flessibilità sul calcolo del deficit, di fronte allo tsunami post-2008 non è sufficiente. Le regole dell’euro andavano bene in tempi tranquilli, non hanno retto alla prova della crisi. Se siamo d’accordo che questa non è finita e nessun paese riesce a soddisfare le regole che ci siamo dati, inclusa la Germania che ha un surplus eccessivo, che neanche la Bce rispetta l’obiettivo di inflazione e che il debito pubblico e privato cresce, allora dobbiamo dire: ridiscutiamo tutto. È come dopo la fine della guerra quando i Paesi devastati si riunirono per un piano di azione collettivo».
Le privatizzazioni non aiuterebbero?
«Probabilmente ha ragione Padoan quando dice che è meglio rinviarle a momenti di mercato più favorevoli. Ricordiamoci che ciò che conta e il debito netto, non quello lordo».
E il piano Juncker darà il suo contributo?
«Soldi sul tavolo ce ne sono pochi. Però bisogna apprezzare la discontinuità rispetto alla gestione precedente. L’Europa ha un bisogno disperato di investimenti: non solo il loro rapporto sul Pil è crollato dalla crisi ma ha un trend discendente da trent’anni. Bisogna però affiancare agli investimenti un deciso aumento della produttività».

Corriere 29.11.14
Bonus mamme, il pasticcio dei 600 euro
Si presenta la richiesta ma la cifra (e il limite di reddito) può cambiare
di Lorenzo Salvia

ROMA Sarebbero 600 euro netti al mese per sei mesi. Ma potrebbero diventare meno, se i soldi non dovessero bastare. O potrebbero essere esclusi quelli che hanno un reddito superiore ad una certa soglia. Poi si vedrà, intanto state pronti con le domande (che però non si possono ancora presentare e non si sa nemmeno quali documenti servono). L’avevano chiamato il «voucher dimenticato», l’assegno per le donne che, finito il periodo di maternità obbligatoria, decidono di tornare al lavoro e con quei soldi possono pagare la baby sitter o l’asilo nido. Dimenticato perché, lanciato in via sperimentale nel 2012 dal governo Monti, è stato utilizzato solo da 3 mila persone. Un clamoroso flop. Per questo, giusto un mese fa, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti aveva annunciato in Parlamento il rilancio della misura, rispondendo ad un’interrogazione di Renate Ghebard, del Südtiroler Volkspartei: raddoppio della cifra, da 300 a 600 euro netti al mese, ed estensione ai dipendenti pubblici, prima esclusi con pericolosa valanga di ricorsi in avvicinamento. Al di là delle buone intenzioni, però, l’operazione, per la quale ci sono 40 milioni di euro in due anni, rischia di complicare le cose ancora di più. 
Dal giorno dell’annuncio, sono stati tanti i cittadini che hanno chiamato l’Inps per capire come presentare domanda. Nessuna informazione perché, prima di aprire il bando, è necessario che le parole di Poletti vengano tradotte in un decreto. Il decreto ora è stato firmato ma è ancora in attesa del visto della Corte dei conti, che ha 60 giorni per dare il parere. Fin qui il solito labirinto burocratico che separa gli annunci dalla vita reale delle persone. Ma oltre al problema dei tempi c’è il rebus della sostanza. Dice il decreto che le domande saranno accolte «secondo l’ordine di presentazione». Chi prima arriva meglio alloggia, senza precedenze legate al reddito o ad altri criteri. Ma forse no. 
Dice l’articolo 3 dello stesso decreto che «in relazione all’andamento delle domande», con un successivo decreto «può essere indicato un valore massimo dell’Isee, l’indicatore delle situazione economica» o, «anche in via concomitante, rideterminata la misura del beneficio». Se le domande saranno tante, cioé, i 600 euro diventeranno meno e qualcuno potrebbe essere escluso. La certezza del diritto.Il decreto stabilisce anche che le domande vanno presentate entro il 31 dicembre. Considerato che il bando ancora non c’è e che difficilmente arriverà prima di 15 giorni, chi vuole partecipare alla gara per il voucher dimenticato dovrà tenersi pronto anche nei giorni di festa. In realtà la scadenza potrebbe essere rinviata. Almeno questo. 

il Fatto 29.11.14
Renzi cambia verso, ora vuole piacere agli operai
In viaggio al Sud il premier diventa più morbido, ma lo contestano ovunque
di Wanda Marra

Sud contestazione Cgil Fiom. Ho fermato la macchina per parlarci. Sul #jobsact abbiamo idee diverse. Ma i lavoratori Micron sono salvi”. Sono le 12 e 15, e Matteo Renzi è già al terzo degli otto tweet che farà nel corso del suo tour al Sud, dalla Sicilia, alla Campania, passando per la Calabria. Iper produzione social che segna un nuovo “cambio di verso”. O almeno un tentativo.
Dopo giornate passate sotto traccia a livello mediatico, con commento in sordina alle elezioni in Emilia Romagna e in Calabria e poco trionfalismo sul Jobs Act, il premier ha capito che è arrivato il momento di tornare a lavorare su quello che gli riesce meglio: il consenso. E ha deciso di andarselo a prendere al Sud. Pronto al riuso lo slogan “il meglio deve ancora venire”. Ma ormai fischi, contestazioni e lanci di uova, sono garantiti.
Visita in preparazione da una settimana. Confermata giovedì sera: dopo l’ultimo incontro con Napolitano è diventato chiaro al premier che la minaccia delle elezioni, con le dimissioni del presidente della Repubblica e l’Italicum di là da venire, sta diventando una pistola scarica. E che i prossimi mesi il rischio palude sarà sempre più alto, con la minoranza dem pronta a mettergli i bastoni tra le ruote su tutto. A partire proprio dall’elezione quirinalizia. E dunque, si riparte da imprese e fabbriche. Doppio messaggio: agli imprenditori, l’invito ad assumere. Ai lavoratori, una mano tesa: “Il Jobs Act potrà piacere o no, ma noi risolviamo problemi concreti”.
IL PRIMO TWEET: “Italia ha tanti problemi, ma anche tante storie bellissime. Non mi faccio chiudere nei palazzi e vado ad ascoltarle, come sempre #sud”. Inizio a Catania: il primo appuntamento alla 3Sun, azienda del gruppo Enel Green Power che produce pannelli solari di ultima generazione. Prima di entrare ferma la macchina, e parla con gli operai della Micron. Eccolo lì, il Matteo di sempre, quello abituato a stringere mani e a regalare sogni. Peccato che i lavoratori della Micron non siano proprio convinti, e lo aspettino in presidio. Poi è la volta dell’azienda dolciaria Condorelli di Belpasso.
Un video opportunamente realizzato e messo sul sito del governo lo ritrae in grembiulino, in mezzo ai torroncini, mentre avanza trionfale. Tra un po’ è Natale. Ecco il tweet: “Ai piedi dell'Etna il #sud delle aziende familiari. Come la Condorelli che esporta torroncini in oltre 30 Paesi del mondo”. Ancora, la sede dell’acceleratore Working Capital di Telecom Italia. “Acceleratore di imprese a Catania. Un luogo dove i sogni possono diventare progetti. E posti di lavoro. Anche questo è #sud”. E poi, in Comune, insieme al sindaco Enzo Bianco. Un immortale. È costretto a entrare dal retro, causa contestazione. “Vergogna”, gli urlano, lanciando fumogeni. Ma lui non si perde d’animo: “Si stancheranno prima loro di noi. Non ci stanchiamo di stare in mezzo alle comunità locali. C’è un clima in cui tutto viene letto in una chiave negativa”. Via, alla volta di Reggio Calabria, alla Ansaldo Breda: “I treni della metropolitana di Copenaghen, Milano, Lima sono realizzati a Reggio Calabria: il profondo #sud regala opportunità e innovazione”. Lo accompagnano il neo presidente della Calabria Oliverio e il sindaco, Falcomatà. Anche qui manifestanti, fermati dalla polizia.
INFINE, AVELLINO. Prima alla Ema, azienda di eccellenza del gruppo Rolls Royce. Il marchio piace: “Il #sud è anche la Rolls Royce che investe in Irpinia a Morra de Sanctis e crea nuovi posti di lavoro in tecnologia e innovazione”. Contestazione della Cgil. Ma anche incontro con gli operai della Irisbus. Vertenza risolta. E dell’Isochimica: promessa sull’amianto. Poi, il Comune. Presente, Ciriaco De Mita. Uno dei primissimi sponsor del giovane Matteo. È già tarda sera quando arriva all’ultima tappa, la Atitech a Capodichino, manutenzione di aeromobili. “Vengo a vedere il sud possibile”. Il racconto deve andare avanti. Lo show pure.

il Fatto 29.11.14
Linguaggi
Renzi ha finito le metafore, aiuto
di Daniela Ranieri

Il tweet di rinculo “2-0 netto” dopo le Regionali disertate rivela che a Renzi si è inceppato il generatore automatico di metafore. Il momento difficile mostra un difetto congenito e serio del fantamondo di Matteo. Nel libretto di citazioni di Fanfani della Boschi c’è scritto che in politica le bugie non servono, ma forse trascura le metafore, figure retoriche ibride tra la bugia e la verità per le quali Matteo va matto.
Fino a pochi giorni fa pensavamo lo facesse per noi: vedi, ha la ricetta, ma è complicatissima e non ce la può spiegare. Come il medico ci evita i particolari cruenti di un’operazione con esempi alla nostra portata (“il suo cuore è una valvola”), così Renzi ha dispiegato le sue metafore salvifiche usando i simboli nazional-popolari. Primo fra tutti il calcio: “Non gettare la palla in tribuna”, “Lotterò su ogni pallone”, “il Pd ha sbagliato un rigore a porta vuota”, “Lo metto in forcing o non tocco palla”. Internet e i social media: “Se l’Europa oggi si facesse un selfie”, Non vogliamo essere solo un puntino su Google Maps”, “Le riforme sono come il PIN del telefonino”. La TV: “Non lasciare ma raddoppiare”, “Lo dico a chi ci segue da casa”. La crescita e l’impresa: “Togliamo il sasso dai binari”, “Usciamo dal tunnel della pigrizia, della stanchezza, della rassegnazione”. Ma adesso qualcuno comincia a sospettare che l’abuso di metafore sia un’abile strategia per mascherare la mancanza di strategie.
Matteo ha unito un naturale istinto affabulatorio a un uso bellico, di sfondamento, della supercazzola di Monicelli. Nativo televisivo coi riflessi da Ruota della fortuna, ha mostrato la sua marcia in più rispetto al più grande inventore di sineddochi e di racconti paralleli al vero della storia italiana (quello de “i ristoranti sono tutti pieni”) portando alla ribalta un linguaggio inaudito, fresco, tutto giochi di parole e rime spassose. Intelligenza rapida, talento da battutista, propensione alla vanagloria: gli ingredienti c’erano tutti per fare di uno scalatore da sezione di provincia il narratore di una nuova nazione, fuori dalla gora della crisi e dei tecnicismi fallimentari.
Ed è nato Matteo Renzi: a metà tra il cazzaro da Bar dello Sport e il grande statista, lui stesso metafora vivente (ultima spiaggia, rottamatore), Matteo ha pescato nei simboli più potenti dell’immaginario nazionale una caterva di metafore efficaci, mediaticamente pro-attive, familiari e gagliarde, per forma e lunghezza destinate a finire nei titoli dei giornali e nei 140 caratteri di Twitter.
E ha funzionato, finora. Dài Matteo, facce ’n’altra metafora. Ma Matteo tace. A parte la cena a base di pizza (forse una metafora) con Tony Blair, resta defilato. Sobriamente, tira fuori “onore e disciplina”, i fondamentali, dal testo meno metaforico del mondo.
Schiacciato tra i conti di Bruxelles e l’apocalisse annunciata delle dimissioni di Napolitano, ha perso le parole, perché le sue parole così festosamente vuote si rivelano inservibili di fronte alle difficoltà.
Nella manovra di effrazione del Pd e di costruzione di un sé vitalista, anti-intellettualista, visionario, Matteo pensava alla “nuova frontiera” di Kennedy e al “sogno” di Martin Luther King, potenti simboli di un afflato comunitario, ma rischia di replicare la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, grottesca metafora di una sinistra sempre più distante dal suo popolo, e di riprodurre, contratta, la parabola di Craxi delimitata dalle due famose metafore, quella felliniana de La nave va (1983) e quella autolesionista del “poker” che diceva di avere in mano per screditare Di Pietro (1993).
HA SCALATO il Pd proponendosi come discontinuo rispetto alla vecchia guardia, uno che fa e non chiacchiera. Ha rottamato il giaguaro e il tacchino di Bersani, che non erano metafore ma proverbi il cui limite era quello di evocare un mondo à la Pellizza da Volpedo che non esiste più, con la bocciofila, la cascina, l’osteria, la bottega, come disse Miguel Gotor. Ha irriso al grigiore di Letta, che non usava metafore e dimostrò la sua concretezza in extremis demolendo indocilmente il rito metaforico della campanella. Ha doppiato B., che faceva leva su elementi reali come l’invidia sociale nella costruzione di una realtà parallela, e che oggi, occupato nei suoi tristi casting per trovare un clone di Matteo, insegue il suo epigono proprio sul piano metaforico (“Salvini è un goleador”), destando la pietà generale.
Ci faccia caso, Matteo: gli unici personaggi interessanti del panorama attuale sono Landini e Salvini, che non usano metafore o perifrasi e, su versanti opposti, parlano sempre di cose tangibili e concrete.
Le regionali hanno mostrato il ritratto del vero volto di un bellissimo Dorian Gray: smantellamento dello Statuto dei lavoratori, stasi delle Riforme e svuotamento della democrazia. Perché la comunicazione impressionistica a un certo punto non comunica più; si satura nutrendosi di se stessa e si svuota di significato politico. Perseverare nel puro racconto fantasioso si rivela prima o poi per quello che è: una manifestazione di narcisismo infantile o, peggio, di inadeguatezza cialtrona.
E dopo il popolo della sinistra se ne accorgerà anche l'audience plaudente, pronta, col dito sul telecomando, a decretare la morte mediatica di chi un attimo prima l'aveva appassionata.

Corriere 29.11.14
Le contraddizioni del Pantheon di Renzi
Non si può mettere insieme il cattolico Giuseppe Dossetti con il laico Piero Calamandrei
Nè si possono accostare il segretario del Pci Enrico Berlinguer con il presidente americano anticomunista John Kennedy
di Massimo Teodori

Non entro nel merito della polemica del presidente del Consiglio con i sindacati, né intendo polemizzare con l’identità plurale, la cultura e le radici proposte dallo stesso Matteo Renzi per un Pd in cui «tutti hanno cittadinanza». Vorrei piuttosto discutere «la storia e i valori della sinistra» che, secondo il segretario democratico, sarebbero incarnati da un pantheon che include — sono parole sue — Enrico Berlinguer e Nelson Mandela, Giuseppe Dossetti e Alexander Langer, Giorgio La Pira e John Kennedy, Piero Calamandrei e Gandhi. Più che una visione fondata su culture e tradizioni di pensiero politico della sinistra occidentale, a me pare che questo pot-pourri di busti marmorei sia stato raccolto in qualche mercatino domenicale che contiene di tutto un po’. 
Il pacchetto di mischia renziano, che dovrebbe rispecchiare l’orizzonte politico-culturale del premier, non è riconducibile alla socialdemocrazia continentale del welfare state o al socialismo liberale, e neppure al riformismo democratico sperimentato in varie forme di qua e di là dell’Atlantico. Passando in rassegna quei busti marmorei si ha l’impressione che la vera preferenza di Renzi sia un mix di sinistra cristiano-integralista e italocomunismo perbenista che, tuttavia, fino ad oggi non ha dato grandi prove. L’ambizioso leader avrebbe fatto meglio a lasciar alla ricerca storica le personalità del pantheon piuttosto che sollecitare riflessioni sul loro significato politico-simbolico. 
Enrico Berlinguer è stato l’ultimo comunista che non ha mai voluto prendere atto della catastrofe politica e ideale delle democrazie popolari e si è ostinatamente aggrappato al fumoso cattocomunismo di stampo rodaniano contro la prospettiva socialista e democratica che nello stesso periodo si affermava in Europa con Olof Palme, Willy Brand e François Mitterrand. Dossetti ha rappresentato il Vaticano illiberale dell’articolo 7 di Pio XII, ed ha avversato la laica concezione dello Stato del cattolico liberale Alcide De Gasperi. La Pira ha portato a Firenze una ventata di populismo e terzomondismo che è difficile prendere a modello. Calamandrei ha contrastato a fondo il dossettismo alla Costituente in un’Italia allora funestata dal clericalismo. Gandhi e Mandela rappresentano belle immagini di realtà esotiche d’altri tempi e altri luoghi, e Langer fa la figura di una umanissima statuina in un presepe che ha bisogno di verde. Infine l’accoppiata di Kennedy con Berlinguer e La Pira è un nonsense riferito a un presidente americano che operò da fermo anticomunista a Cuba e Berlino. 
Certo, non va sovrastimato il significato della trovata renziana, che sembra nascondere più un vuoto di idee che non suggerire una visione e un indirizzo adatti a guidare il futuro d’Italia. È vero che i pantheon non sono carte programmatiche da esaminare con spirito filologico, ma qualcosa deve pur significare in termini di propositi l’elencazione di un insieme di personalità, soprattutto se l’autore è presidente del Consiglio e leader del maggior partito di sinistra alla testa del nostro Paese. 
Non si può ignorare che la celebrazione di determinate personalità implica un simbolismo spesso più eloquente di complessi ragionamenti. Ecco perché sorge il dubbio che a Renzi manchi quella cultura politica che dovrebbe essere necessaria per andare oltre i tweet che evocano l’insalata arcobaleno bianca, rossa e verde in salsa toscana. 

Corriere 29.11.14
Massimo D’Alema
«Renzi lasci la Terza Via Bisogna riscoprire lo Stato»
intervista di Paolo Valentino

ROMA Presidente D’Alema, siamo in piena rievocazione della Terza Via. Lei ne è stato uno degli iniziatori, nel 1999, con il vertice di Firenze. Quale è il suo significato attuale? 
«Nessuno. In tempi recenti sono state avanzate critiche anche aspre di quella esperienza: troppo liberismo, troppe concessioni alla deregulation. Ma cosa fu la Terza Via? All’indomani della caduta del muro di Berlino, quindi in un clima di grande mutazione, fu lo sforzo di far incontrare i principi del socialismo con una visione di tipo liberale. Penso ancora oggi che abbia avuto un impatto positivo, sia pure con effetti contraddittori che non possono essere nascosti. Ma è un’esperienza di 15 anni fa. Allora diede i suoi frutti, anche nel nostro Paese. Fu la sinistra al governo che, sulla base di quella visione, ridusse drasticamente la presenza statale nell’economia, avviò le grandi privatizzazioni, lanciò le liberalizzazioni poi continuate nel lavoro di Bersani, riformò le pensioni. Pose fine a una politica di deficit spending, tanto che noi portammo il debito pubblico dal 127 al 102% del Pil, realizzando sistematicamente un avanzo primario del 3% e liberalizzò il mercato del lavoro, per certi aspetti perfino troppo, visto che si produssero forme contrattuali che poi sfociarono in una eccessiva precarizzazione. Quindici anni dopo, i problemi sono completamente diversi. Bill Clinton, non un pericoloso estremista, ha scritto tre anni fa un libro, Back to work , sostenendo che il principale limite di quella esperienza fu di aver sottovalutato il ruolo dello Stato. La Terza Via fu pensata in una prospettiva ottimistica della globalizzazione, che si è rivelata fallace. L’eccesso di liberalizzazione ha portato a enormi diseguaglianze sociali, a grave instabilità economica e, in ultima analisi, alla crisi del 2008». 
La Terza Via corresponsabile della crisi del 2008? 
«Guardi che la deregulation finanziaria, il “liberi tutti” per banche e speculatori, in America, la fece Clinton, lui stesso lo ha riconosciuto. Quello che io trovo incredibile è che, nel tentativo di offrire un retroterra teorico nobile al governo Renzi, oggi si faccia un’operazione anacronistica. Chi ci spiega che la velocità del mondo, le nuove tecnologie impongono il cambiamento poi ci propone una piattaforma ideologica della fine del secolo scorso come la Grande Novità di oggi. Sul piano culturale è sconcertante. Primo, la riduzione del ruolo dello Stato era il tema di vent’anni fa. Secondo lo abbiamo fatto. In qualche caso forse troppo. Terzo, alcuni dei protagonisti riflettono criticamente su quell’esercizio. Oggi tutto il pensiero economico ruota intorno ad altri tempi. Ci sono Stiglitz, Piketty, Krugman. Il Financial Times ha dedicato una pagina intera al libro della Mazzuccato sulla necessità di riscoprire il ruolo dello Stato come forza propulsiva dello sviluppo. Quelli che invocano la Terza Via sembra abbiano saltato le letture degli ultimi 10 anni, ammesso che avessero fatto quelle precedenti». 
E qual è invece il dibattito giusto? 
«La crisi di oggi ha radici nella debolezza della politica e dell’azione pubblica, sia a livello europeo sia nazionale. E non si può uscirne senza politiche in grado di promuovere gli investimenti, anche pubblici. Altro che meno Stato. La crisi ha evidenziato i limiti dell’approccio liberista e ha messo la politica di fronte alla responsabilità di promuovere gli investimenti e ridurre le diseguaglianze. La crisi europea si caratterizza soprattutto come crollo della domanda interna. Oggi l’Europa è esportatore netto, malgrado l’euro. Ma il problema è il crollo dei consumi europei che deriva da un impoverimento delle classi medie e del mondo del lavoro». 
Lei sta contestando la necessità delle riforme strutturali, che ci chiedono la Commissione, la Banca centrale di Mario Draghi, a cominciare da quella in corso del mercato del lavoro, per dargli più flessibilità? 
«Secondo i dati Ocse, non miei, il mercato del lavoro è più flessibile in Italia che in Germania e in Francia. In ogni caso, trovo stravagante e incomprensibile che oggi, con i dati economici peggiori dell’eurozona, sia la riforma elettorale la priorità di un governo che dice di voler rimanere in carica fino al 2018. Non credo che l’Europa ci chieda questo. Detto ciò, la riforma del mercato del lavoro contiene molti aspetti positivi, io sono favorevole al contratto unico a tutele crescenti perché riduce la precarietà del lavoro. Ma contesto il fatto che la nuova generazione di occupati non possa accedere alla tutela dell’articolo 18, che invece rimane per i lavoratori già assunti. A partire dai principi stessi enunciati dal governo, il meccanismo proposto introduce quindi un elemento che li contraddice, fra l’altro stabilendo una diseguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, dubbia sotto il profilo costituzionale. Inoltre non credo che, approvato il Jobs act, arriveranno investimenti a pioggia o cresceranno tumultuosamente i posti di lavoro». 
Quali dovrebbero essere le priorità di un governo di sinistra? 
«La riforma dello Stato, delle amministrazioni, compreso il funzionamento della giustizia, la sicurezza. A livello europeo, la prima riforma dovrebbe essere quella dei mercati finanziari. Cominciamo, per esempio, a stabilire che all’interno dell’eurozona non sia possibile la concorrenza fiscale. Non possiamo scoprire solo ora che il Lussemburgo è un paradiso fiscale, magari per indebolire Juncker e con lui la nuova Commissione». 
E come la mettiamo con i nostri obblighi, quelli che ci impongono i Trattati? 
«Sono convinto che l’austerità come premessa della crescita sia una ricetta sbagliata». 
Ma su questo c’è accordo. Il governo Renzi si è battuto per cambiare i termini dell’equazione, privilegiando la crescita. 
«C’è accordo a parole. Nella sostanza siamo di fronte solo ad annunci. Dei 300 miliardi del piano di investimenti di Juncker pare ce ne siano solo 21. I segnali di cambiamento sono estremamente timidi. Siccome non c’è più flessibilità nella moneta, si continua a premere su misure di contenimento dei salari. Il punto vero è questo. Ma questa politica è all’origine del crollo del mercato interno europeo. Tanto è vero che oggi perfino in Germania si apre un dibattito: gli industriali tedeschi mettono in guardia da un eccessivo contenimento dei salari. All’ultimo G20 lo snodo centrale è stata la polemica tra Obama e la Merkel sulla politica dell’austerità: è Obama che ha detto alla cancelliera che l’Europa deve spendere più nella crescita. È questo il vero ostacolo alla ripresa, non l’articolo 18». 
Siamo alla fine della presidenza semestrale italiana dell’Unione Europea. Che bilancio ne fa? 
«Devo dire che, anche per ragioni oggettive, le vicende della Commissione, la battaglia sulle nomine, non mi pare abbia lasciato un segno così indelebile nella storia dell’Unione Europea». 

Repubblica 29.11.14
Minoranza Pd, la sfida del referendum
Alla Camera promette “responsabilità” sul voto di fiducia sulla legge di stabilità. Anche al Senato è tregua sul Jobs Act Ma lunedì in direzione arriverà la proposta di consultare la base del partito sulle riforme elettorale e costituzionale
di Giovanna Casadio

ROMA «Sulla legge di Stabilità saremo responsabili». I dissidenti dem che hanno spaccato il Pd sul Jobs act pochi giorni fa, si mettono in riga. Voteranno sì alla fiducia sulla manovra, lo assicura anche Stefano Fassina, l’ex ministro dell’Economia, per il quale i cambiamenti vanno poi introdotti a Palazzo Madama, però nessuno vuole tirare la corda. La sinistra dem ha deciso di offrire una tregua a Renzi e anche il braccio di ferro previsto al Senato già dalla settimana prossima proprio sull’approvazione definitiva della riforma del mercato del lavoro, sembra evitato. La battaglia sul Jobs act si traduce per ora in un documento che sarà diffuso oggi e dovrebbero firmare in 27 senatori, dal bersaniano Federico Fornero a Walter Tocci, da Cecilia Guerra a Corradino Mineo. Parlano del merito, chiedono che non sia smantellato l’articolo 18 e che sia previsto il reintegro. Però se ci sarà la fiducia, saranno due o tre dem al massimo a non presentarsi all’appello. «Se c’è la fiducia, il testo che è pure migliorato, passerà, nonostante sia un provvedimento che inserisce un principio sbagliato», è la previsione del bersaniano Miguel Gotor. Lo stesso Felice Casson ammette che, al contrario della volta scorsa, è incerto. Anche Walter Tocci, che votò sì alla fiducia sul Jobs act in prima lettura ma si dimise (le sue dimissioni sono state poi respinte), vorrebbe evitare un replay.
Ma ad annunciare battaglia è Davide Zoggia, bersaniano, che lunedì nella Direzione del partito proporrà un referendum tra i militanti sulle prossime tappe di riforme del governo, ovvero legge elettorale e trasformazione del Senato. La trincea della minoranza si sposta sull’Italicum, quindi. Fassina e Cuperlo aspettano di sentire la relazione del segretariopremier in Direzione per decidere le contromosse: «Dipende dai toni che userà», osserva Fassina. Nell’assemblea dei deputati di ieri mattina è stato sempre Fassina a chiedere «ascolto e non solo rapporti di forza».
D’altra parte anche il governo ha tutto l’interesse a un po’ di tregua nel partito e nei gruppi parlamentari. Renzi in un tour al Sud ieri visita a Reggio Calabria l’Ansaldo Breda; a Avellino l’Ema che è Rolls Royce; a Catania ascolta i sindaci della zona accompagnato da Enzo Bianco e va alla Condorelli. Dappertutto ci sono presidi di lavoratori. Contestazioni di studenti e centri sociali in Sicilia. Nessuna marcia indietro sulle politiche adottate dal governo: «Contestazioni? Si stancheranno prima loro di noi. Noi non ci stanchiamo di stare in mezzo alle comunità locali». Rilancia sul lavoro: «Chi nega il problema della disoccupazione è da ricoverare. È un problema che non ci fa dormire la notte... ».
Per evitare il redde rationem nelle file democratiche il ministro Poletti martedì dovrebbe illustrare ai senatori dem il contenuto dei decreti attuativi del Jobs act. La stessa sinistra democratica è convinta che «niente di drammatico» accadrà al Senato nell’ennesima fiducia chiesta dal governo, perché il «gentlemen agreement con Verdini» consentirà che l’uscita di un drappello di senatori di Forza Italia al momento opportuno, garantisca il numero legale. Mineo s’inalbera: «Io di certo non dico “obbedisco”. Se pongono la fiducia è scandaloso, è il disprezzo del Parlamento ». A gamba tesa interviene Massimo D’Alema accusando anche Renzi di populismo e dell’effetto boomerang sul consenso elettorale: «Il populismo si alimenta di nemici, dai vecchi da rottamare ai gufi che mettono i bastoni tra le ruote ma questo alimenta una spirale il cui effetto conclusivo è che una parte del popolo si ritrae».

Il Sole 29.11.14
Verso la direzione di lunedì. La partita del Colle in primo piano: «Accordo prima nel partito, sennò si affonda»
I dissidenti Pd: referendum sul governo
di Em. Pa.

ROMA Se la giornata di ieri segna un punto in favore dell'unità del Pd, con il sì di tutta la minoranza alla Legge di stabilità che ora dovrà passare in Senato, di certo le nubi su Largo del Nazareno restano tutte. Intanto, la prossima settimana, ci sarà sempre in Senato il via definitivo al Jobs act. E dopo che 29 esponenti della minoranza dem (da Francesco Boccia a Rosy Bindi, da Stefano Fassina a Alfredo D'Attorre) sono usciti dall'Aula a Montecitorio, il capogruppo Roberto Speranza – che è anche il riferimento di Area riformista, dove sono confluiti molti bersaniani – lancia un appello all'unità: «Dobbiamo continuare a lavorare alla massima unità del Pd perché sulle spalle del partito c'è una responsabilità enorme che è quella della tenuta dell'Italia per cui dobbiamo lavorate a costruire l'unità».
Intanto, per non correre rischi, la fiducia in Senato sulla riforma del lavoro è cosa quasi certa. Ma prima dell'ultimo passaggio sul Jobs act, già lunedì è convocata la direzione del Pd per analizzare i risultati delle regionali in Emilia Romagna e in Calabria. La minoranza addebita il crollo dell'affluenza agli attacchi di Renzi ai sindacati e al suo metodo "spiccio", poco incline alle mediazioni. «Non arrivano da parte di Renzi segnali di distensione – avverte Boccia, già lettiano e sostenitore di Renzi alle primarie di partito prima di prenderne le distanze –. La direzione è ormai diventata una lunga conferenza stampa...». E allora il dissenso, oltre a esprimersi in Parlamento, prende strade diverse come quella indicata ieri dal bersaniano Davide Zoggia, uno dei 29 che non hanno votato il Jobs act alla Camera: un referendum tra i militanti sulle politiche del governo, dalla riforma del lavoro a quelle costituzionale ed elettorale. Una sorta di congresso sotto altre forme. Boccia condivide l'impostazione: «Se non si creano nelle sedi deputate del partito le condizioni di praticabilità, allora utilizzeremo gli strumenti che ci dà lo statuto».
È chiaro che dietro la fibrillazione della minoranza dem c'è l'appuntamento chiave della legislatura: quello dell'elezione del successore di Giorgio Napolitano. Ed è a questo passaggio che pensa anche Speranza quando si appella all'unità. Matteo Renzi lo sa, sa che i 29 possono diventare una slavina e trasformarsi in 101. D'Attorre lo ha detto chiaramente: il prossimo Capo dello Stato non potrà essere un renziano, ossia un garante del governo Renzi. Ecco, se Silvio Berlusconi chiede un nome che sia percepito da lui come "garante", anche la minoranza del Pd chiede un "garante". La partita è naturalmente nelle mani di Renzi, che auspica e lavora ad un accordo ampio al primo scrutinio come fu per Ciampi, ma è una partita che andrà giocata prima in casa.

Repubblica 29.11.14
E in Veneto l’incubo sono i gazebo deserti “La gente non vota nemmeno alle elezioni”
di Michele Smargiassi

PADOVA Chissà se Matteo Renzi sa dov’è Anguillara, il paese che fa lo sciopero delle primarie. Un argine, la strada che scende verso la chiesa, una storia scandita dalle piene dell’Adige. Quattromila abitanti, settanta iscritti al Pd che hanno detto no, stavolta il seggio non lo facciamo. Perché di primarie che «piombano addosso» a militanti «smossi » all’improvviso, senza il tempo necessario per «valutare una leadership», fatte solo «per trovare un candidato che abbia un’immagine », primarie che magari ti si rivoltano contro, come in Emilia, ecco, di queste primarie si può fare a meno. Chi vuole votare, domani, passi il ponte sul Gorzone e pedali sei chilometri fino ad Agna. «Noi le elezioni regionali le vogliamo vincere, faremo campagna elettorale, non è un ammutinamento », insiste la segretaria del circolo Pd, Francesca Masiero, 30 anni, educatrice del nido. «Qui, al partito ci teniamo. Ma primarie fatte così, in venti giorni, senza discussione, sono la goccia che fa traboccare il vaso». Hanno discusso, hanno scritto un documento. E rispedito il pacco con le schede. «Mandiamo un segnale». Ma almeno, singolarmente, andrete a votare ad Agna? «Ci devo pensare», esita Caterina Sieve, militante ventiquattrenne, «il malumore è forte».
Gli spettri d’Emilia guadano il Po, salgono nel Veneto che sei mesi fa regalò al Pd un risultato febbricitante, 37 e mezzo, primo partito, quattro punti sopra la destra, doppiata la Lega, e fece sognare il colpo grosso, la conquista dell’unica regione mai stata rossa né rosa. Per questo, Renzi ha richiamato da Bruxelles la sua ladylike di successo, Alessandra Moretti, miss 230 mila preferenze, che i sondaggi riservati danno come l’unica in grado di preoccupare il doge leghista Luca Zaia. Ma la politica è fluida e le cose cambiano. Doveva essere un’investitura, quella di Moretti, renziani e bersaniani d’accordo, ma è spuntata la guastafeste, l’onorevole Simonetta Rubinato, area cattolica ma fuori dagli schieramenti, ha alzato la manina, o meglio il suo hashtag # sepolfar (un podemos versione Serenissima), non è una sprovveduta, per dieci anni strappò ai leghisti il comune di Roncade. E il regolamento del Pd dice: più di un candidato, primarie obbligatorie. E primarie sono state, di corsa, firme raccolte con l’acqua alla gola, primarie lampo, tredici giorni fra candidature e urne.
Il segretario regionale Pd Roger De Menech le chiama «primarie smart ». «Nel senso di agili, svelte. Volevamo le solite primarie di sangue che durano mesi e ti logorano il partito?». Ma ora tutti hanno paura del floppone. Stampate 75 mila schede in previsione di 50 mila votanti: bene, serpeggia l’incubo di non riuscire neppure a portare ai seggi i 18 mila firmatari delle tre candidature (il terzo è il dipietrista Antonino Pipitone). «Non ho questo terrore», ostenta De Menech, «comunque sia, noi il candidato lo facciamo scegliere a migliaia di cittadini, mentre Zaia si è scelto da solo».
Sarà, ma girando paesi e città l’ottimismo scema parecchio. «L’aria è quella che è, incrociamo le dita», sospira Alessandra Brunati, segretaria Pd ad Asolo. Da Cittadella, il quartiere più leghista di Padova, il responsabile Pd di zona Adamo Zambon si lascia sfuggire: «Ce la mettiamo tutta, ma stavolta le primarie forse le avrei evitate... In certe condizioni danno poco valore aggiunto e rischiano di delegittimare il candidato». La pensa come lui Paolo Giaretta, già sindaco Dc di Padova, poi fondatore del Pd Veneto: «Le primarie non sono un valore sacro, se ne esci più debole sei un masochista a farle lo stesso. Quando il cittadino non ha voglia di votare neppure alle elezioni vere, non puoi chiedergli di scegliersi pure i candidati».
Autolesionismo? Il rischio di un’investitura debolissima si somma agli strascichi dei veleni di ogni battaglia elettorale. Non sono mancati, ovviamente, nella sfida fra le due avvocatesse. Slavine di sarcasmo sull’infelice videointervista di Moretti dove l’ex corazziera di Bersani, ora devotissima a Renzi, teorizzava per le donne in politica il dovere della bellezza e di estetista settimanale, «non mi riconosco in quelle parole». Moretti che poi accusa la sua competitor di essere stata fra i 101 traditori di Prodi (subito scagionata dalla prodissima Sandra Zampa). Sempre Moretti, infastidita perché la rivale «si è occupata solo di suore e preti», si becca la ritorsione feroce del settimanale diocesano di Treviso: «Moretti non ha peli neppure sulla lingua, del resto lì l’estetista non arriva... Ma se vuol vincere, qualche voto cattolico le servirà». Pronto ripiegamento della candidata, al forum de Il Mattino: «Sono pronipote del vescovo di Treviso».
Ma le rimbeccate, se animano gli stanchi dibattiti (ieri sera l’unico in pubblico tra i candidati, in una sala con molte sedie vuote) non risollevano l’interesse primario. Tira un altro vento. «A votare alle primarie non so se vado»: Maurizio Baratello è un commercialista veneziano, tessera Pci dal ‘72, ex consigliere comunale Ds, «questo governo non ha una linea sulla crisi economica, e io mando un segnale. Ora anche l’astensione è un’opzione politica». L’ha scelta con amarezza anche Mario Carraro, imprenditore illuminato, a suo tempo in corsa per un ministero di Prodi: «No, non andrò. Queste primarie servono solo a sancire una scelta di visibilità. Come quando contro Berlusconi si scelse Rutelli invece di Amato perché veniva meglio in tivù».
Curioso, stessa amarezza anche a Marghera, cuore operaio del Veneto bianco, percentuali (ex) emiliane al Pd. «Si vota il Jobs Act, ma pensa che siano venuti qui a discutere coi lavoratori?», si sfoga il segretario del circolo Pd Antonio Cossidente, «ci danno la linea dalla tivù. Poi però ci chiedono di dare i volantini, di fare i seggi... Siamo braccia da campagna elettorale. Ci hanno sterilizzati. Sì, sì, domenica vado a votare, stiano tranquilli, poi anche alle regionali. Ma ormai ho capito, se devo dire la mia lo faccio altrove. Sono andato alla manifestazione di Roma. Farò lo sciopero generale. Non esiste solo il voto».

Repubblica 29.11.14
Delegati Cgil a Camusso: via la tessera a Epifani e Damiano
di Matteo Pucciarelli

MILANO . Una lettera aperta alla “compagna Susanna”, con un appello che più o meno suona così: ritiragli la tessera. A chi? Agli ex dirigenti della Cgil oggi parlamentari e che hanno votato sì al Jobs Act. Con in testa Guglielmo Epifani. La richiesta arriva da un gruppo di delegati della Cgil che stanno raccogliendo le adesioni via internet. Sono componenti delle rappresentanze sindacali di Electrolux, gruppo Marcegaglia, Ilva, Hera. La campagna è in corso anche nel pubblico impiego. I promotori della petizione si sentono traditi da quelli che, fino a poco tempo fa, «stavano dalla nostra stessa parte — dice Matteo Gaddi, dipendente della Provincia di Mantova — e oggi ci hanno voltato le spalle per tornaconti politici e personali. Lo Statuto dei Lavoratori è uno dei pilastri della Cgil, non è che siccome adesso non hai più ruoli nell’organizzazione ti dimentichi dei valori che hai coltivato per una vita».
Nel documento non si fanno nomi (a parte Epifani), ma la lista in casa Cgil la conoscono tutti: dall’ex segretario generale a Cesare Damiano, una lunga carriera nella Fiom; da Teresa Bellanova, che cominciò a 20 anni con la Federbraccianti pugliesi, a Luisella Albanella proveniente dalla Cgil siciliana. E ancora: Cinzia Fontana, ex sindacalista di Crema; Anna Giacobbe, per anni a capo dei pensionati della Cgil ligure; Marco Miccoli, già dirigente nazionale della Cgil comunicazione; e infine Titti Di Salvo, che fino a pochi mesi fa stava in Sel. «Per tutti noi la Cgil non rappresenta una parentesi — scrivono — ma una scelta di vita alla quale saremo sempre legati: vorremmo che così fosse anche per chi ha la possibilità di rappresentare nelle istituzioni le ragioni dei lavoratori». Per questo «compagna Susanna ci rivolgiamo a te, per capire come tu intenda intervenire nei confronti di questi compagni che votando contro lo Statuto stanno continuamente mettendo in difficoltà la nostra organizzazione, quotidianamente attaccata e dileggiata dall’attuale presidente del Consiglio».
Le regole del sindacato, ovviamente, non prevedono “punizioni” per chi, in sede politica, disattende la linea della confederazione. In Corso Italia già si sa della raccolta firme e la si valuta per quel che è: l’ennesima prova che la distanza tra sindacato rosso e Pd si è drammaticamente allargata.

Corriere 29.11.14
Grillo, il patrimonio dilapidato
Crisi di un leader che si era illuso di poter avere il Paese in pugno
di Gian Antonio Stella
qui

Corriere 29.11.14
La miopia di una riforma che svilisce le biblioteche
di Tullio Gregory

Con la riforma del ministero dei Beni e delle Attività culturali il processo di liquidazione del patrimonio archivistico e librario affidato alle cure dello Stato giunge al suo esito estremo: le biblioteche storiche (e gli archivi) sono in gran parte private del ruolo dirigenziale, la loro direzione affidata a impiegati senza preparazione specialistica e vengono ridotte al rango di uffici periferici del ministero, variamente accorpate ad altri uffici, secondo le Regioni. 
Le biblioteche di Roma e Firenze sotto la direzione delle rispettive Biblioteche nazionali, altre ricondotte in un non ben identificato «polo museale»: la Braidense di Milano è assorbita nell’annunciata Grande Brera, l’Estense di Modena accorpata alla Galleria. 
Si dimentica che per dirigere biblioteche cariche di storia con vastissimi patrimoni librari — come la Braidense, la Laurenziana, l’Angelica e la Casanatense, l’Estense — si debbono avere alti livelli di specializzazione in storia del libro, della cultura, con ottima conoscenza delle lingue classiche e moderne. La Laurenziana, cuore dell’Umanesimo europeo, non può essere affidata a un bravo burocrate ministeriale. 
Invece, mentre per un manipolo di venti musei, elevati di rango, si prevede giustamente un concorso internazionale per la scelta del direttore, per le biblioteche statali ogni selezione concorsuale, ogni preparazione professionale appare superflua: ovviamente i riformatori del ministero non sanno cosa sia una biblioteca, ignorano che senza le nostre biblioteche e gli archivi sarebbe impossibile capire le opere esposte nei più prestigiosi musei. 
Ma tant’è: le biblioteche e gli archivi non staccano biglietti d’ingresso a pagamento, quindi non appartengono al «sistema cultura» intesa dal ministero come strumento di introiti per lo Stato. 
Nella prospettiva ragionieristica e aziendalistica ministeriale costituiscono una spesa inutile. Anzi un peso: viene in mente Gioachino Belli, «li libbri nun so’ robba da cristiani». 

Repubblica 29.11.14
“I debiti di Roma colpa di Alemanno Ora cambio tutto”
Sono stato io a chiamare gli ispettori del Ministero per controllare i conti del Campidoglio Le carte che accusano la vecchia giunta sono state consegnate al procuratore Pignatone
Il sindaco Marino: avanti nonostante il caso Panda mentre il Pd mi attaccava io trascrivevo i matrimoni gay
intervista di Paolo Boccacci

ROMA Sindaco Marino, ha letto l’inchiesta di “Repubblica”? Roma, anche dopo l’addio di Alemanno, continua a bruciare centinaia di milioni, che poi sono pagati da tutt’Italia. C’è stato il caso della Panda rossa, quello delle multe, la rivolta di Tor Sapienza contro gli immigrati, le opere incompiute, le cosche in Centro, il Pd che chiede una “nuova agenda”. Come pensa di raddrizzare il timone?
«Il colpo alla barra di timone rispetto alla politica che mi aveva preceduto l’ho dato netto chiamando la Guardia di Finanza e gli ispettori del Mef affinché venissero a certificare i libri del Campidoglio. Li abbiamo ospitati su mio invito per quattro mesi e l’anno scorso hanno scritto il documento che ieri Repubblica ha riassunto».
Dal 2009 al 2012 lo Stato ha versato a Roma per risanarne i conti 580 milioni di euro l’anno e nel 2013, lei si è insediato in estate, altri 485 milioni più 115. E i cittadini non vedono tutto questo trasformarsi in servizi migliori. Come lo spiega?
«L’analisi è corretta e infatti tutti quei soldi quando io sono stato eletto, anche quelli del 2013, li aveva già sperperati Gianni Alemanno, anche con società, che io ho dismesso, come Atac Patrimonio, dove l’ad grazie ad Alemanno aveva quasi mezzo milione di euro l’anno di salario. Quella società e quel salario li ho immediatamente cancellati. Ma, come fa un chirurgo, prima si esegue la diagnosi e poi si applica la terapia».
Sì però l’Atac è sempre una macchina mangiasoldi. Ultimamente, dopo la causa persa con la società Tpl, che gestisce le linee periferiche, il Campidoglio si è dovuto impegnare per altri 77 milioni.
Ma alla fine chi pagherà?
«Proprio questa domanda mi ha convinto il 31 di ottobre a portare le carte al procuratore capo Pignatone. Infatti l’amministrazione Alemanno ha deciso di non di impedire la costituzione di un collegio arbitrale rivolgendosi al tribunale di Roma. E come mai ha permesso che i tecnici riconoscessero un adeguamento dei prezzi al rialzo addirittura per il primo anno di attività?».
E la Multiservizi, che da anni ha l’appalto della pulizia delle scuole a 52 milioni di euro, “ bacchettata” dagli ispettori della Ragioneria Generale? Non si rischia il default? «Gli ispettori, quando io li chiamo, ridicono nell’autunno del 2013 le stesse cose che hanno scritto ad Alemanno nel luglio del 2008. Solo che quella giunta ha continuato a sperperare, mentre noi abbiamo scritto un virtuoso piano di rientro perché non vogliamo come in passato continuare a generare debiti per le generazioni future mettendo i conti in ordine ora».
Lei ha chiesto al governo un ulteriore impegno finanziario per Roma. Ma il Campidoglio non deve invece tagliare spese e far entrare i privati nelle partecipate che macinano milioni e milioni di conti in rosso?
«È proprio quello che c’è scritto nel piano di rientro concordato con Palazzo Chigi. Dismettiamo 25 aziende non strategiche e non utili ai cittadini di Roma e attraiamo danaro per investimenti e posti di lavoro. Solo lo stadio della Roma porterà un miliardo e mezzo di investimenti stranieri e 3mila posti di lavoro nuovi. E i due miliardi per il nuovo aeroporto di Fiumicino altre migliaia di posti di lavoro».
Il Pd nell’ultimo mese le ha chiesto un cambio di passo.
Non è quasi una sfiducia?
«Nello stesso periodo in cui pochi discutevano di queste cose molti cittadini si sono accorti ho trascritto i matrimoni omosessuali celebrati all’estero, ho definito il cronoprogramma della realizzazione dello stadio con James Pallotta, ho ottenuto dal ministro Padoan un allentamento di 150 milioni di euro del Patto di Stabilità, che si tradurranno in lavori di manutenzione delle periferie, ho voluto che Acea sostituisse 200 mila punti luce coni nuovi in led che inquinano meno, illuminano di più e fanno risparmiare i romani; ho anche inaugurato i primi 12,5 chilometri della metro C, che nell’idea iniziale doveva essere inaugurata nell’anno del Giubileo. E ieri all’assemblea programmatica del Pd ho ricevuto un applauso caloroso che mi ha molto, molto emozionato».

La Stampa 29.11.14
“Cittadino di Serie B”. Su Facebook la protesta contro la legge su Israele nazione ebraica
A scatenare la rivolta sui social la designer arabo-israeliana Sana Jammalieh che ha postato un’immagine contro un’iniziativa «discriminatoria». E centinaia di giovani vogliono seguirla
di Maurizio Molinari

La Stampa 29.11.14
E’ battaglia con l’esercito israeliano, italiano ferito in Cisgiordania
Il trentenne manifestava con un gruppo palestinese: “E’ fuori pericolo”
di Maurizio Molinari

La Stampa 29.11.14
Ferito dagli israeliani in Cisgiordania:
“Mi hanno sparato”
di Maurizio Molinari

Giallo a Kfar Kaddum, in Cisgiordania, sulla dinamica del ferimento di un volontario italiano di «International Solidarity Movement» nella West Bank. L’episodio avviene al mattino di ieri quando un gruppo di militanti palestinesi dà inizio alla protesta di Kfar Kaddum contro la chiusura, da parte di Israele, di una strada locale che porta alla città di Nablus. Il volontario italiano, di origine lombarda e trentenne, partecipa alla protesta ma afferma di indossare un «corpetto fosforescente» giallo per distinguersi dagli altri manifestanti. Testimoni oculari parlano di scontri fra giovani palestinesi e soldati israeliani con i primi che arrivano in circa 400 ad appena 40 metri dalle truppe. 
È a questo punto che gli israeliani sparano proiettili. L’obiettivo sono i manifestanti con il volto coperto dalla kefiah e fra loro c’è - secondo la ricostruzione del portavoce dell’esercito - anche l’italiano, che viene raggiunto da due colpi al petto ed al ventre. È ferito gravemente e finisce la giornata con un ricovero prima a Nablus e poi a Ramallah. L’italiano si dice «sorpreso che i soldati mi abbiano sparato contro» perché «ero riconoscibile», ma il comando militare è perentorio nell’affermare è stato colpito perché «era con chi agisce contro di noi». 
Alla contrapposizione fra le versioni si aggiunge l’interrogativo sulla reale identità del ferito perché quando l’ospedale lo ricovera lui afferma di chiamarsi «Patrick Corsi» premurandosi poi di spiegare, a diplomatici e reporter, di avere «un altro nome, preferendo celarlo nel timore di provvedimenti restrittivi da parte di Israele». 
Dietro la vicenda c’è dunque il corto circuito fra i molti stranieri volontari con i palestinesi - che arrivano con aerei di linea a Tel Aviv - e le autorità israeliane.

La Stampa 29.11.14
La Germania piange “l’angelo del McDonald’s”
Picchiata per aver salvato due ragazze, era in coma. Il padre stacca la spina nel giorno del compleanno
di Tonia Mastrobuoni

La Stampa 29.11.14
Il crimine dell’indifferenza
di Ferdinando Camon

Ieri in Germania è morta una ragazzina di 23 anni, si chiamava Tugce, in coma da due settimane, perché il padre ha fatto staccare la spina. Era ormai irrecuperabile. Muore per un atto d’eroismo che commuove l’Europa: due settimane fa aveva preso le difese di due ragazzine minorenni, molestate davanti alla toilette di un fast-food a Offenbach da un gruppetto di bulli. I bulli hanno smesso, ma poi uno di loro ha aspettato di trovarla da sola e le ha sferrato un pugno in faccia, lei è caduta e ha sbattuto il cranio. Da lì comincia la sua morte. 
Tutti dicono: «Diamole la croce al merito per il coraggio civile che ha mostrato». Sì, sarebbe bello e sarebbe giusto. Ma alla ragazzina spetta anche un altro atto di giustizia. Quando lei è intervenuta a difendere le bambine, le molestie andavano avanti ormai da mezz’ora e la scena si svolgeva in un fast-food: a quell’ora il fast-food era pieno di clienti, perché nessuno ha fatto niente? La polizia ha cercato quei clienti nelle riprese delle telecamere? Non come testimoni, no, ma come corresponsabili: vedevano tutto e, non muovendo un dito, han lasciato che tutto avvenisse. 
Quando la povera Tugce è caduta e ha sbattuto il cranio, e ha perso coscienza, uno dei presenti ha chiesto a una cameriera di poter darle un bicchiere d’acqua, ma la cameriera ha risposto: «Faccia lo scontrino». Come si chiama quella cameriera? La polizia l’ha fermata? La sta interrogando? Ci liberiamo sempre di questi fattacci con la formula: «I colpevoli han fatto perdere le tracce», ma non è mai vero.
Anni fa a Pescara un ragazzo che usciva da un pub fu steso da un violento pugno in faccia, cadde a terra tramortito (poi morirà), tutti intorno continuavano la loro vita, una signora da un balcone sorseggiava la sua bibita, uomini e donne passeggiando scavalcavano il moribondo e proseguivano. Tutti a chiedere: «Chi è l’assassino?» Ma la polizia s’è chiesta: «Chi è quella donna che sorseggia una bibita guardando in faccia il morente? Chi sono questi cittadini che vanno e vengono sul marciapiede, alzando la scarpa per non urtare il moribondo?».
L’idea che c’è in questo atteggiamento, e che dovrebbe entrare anche nella mente di chi indaga sulla morte della giovane Tugce, è che l’indifferenza di chi assiste a un crimine è una concausa del crimine. 
Chi fa un crimine in un luogo pubblico lo fa sapendo che può essere visto, ma che a chi lo vede non gliene frega niente. Cominciamo col combattere l’indifferenza, consideriamola parte del crimine. Sì, diamo la croce al merito a questa eroica ragazzina: un onore per lei e per i suoi parenti. Ma diamo un attestato di vergogna a quegli che han visto e han lasciato fare: un disonore per loro e per i loro famigliari. 

il Fatto 29.11.14
Obama e il decreto sugli immigrati
risponde Furio Colombo

CARO COLOMBO, la notizia della decisione di Obama di dare la “carta verde” (diritto di vivere e lavorare legalmente negli Usa) a cinque milioni di immigrati ha fatto molta notizia e nessun commento. Qualcuno avrebbe dovuto avvertire il governo italiano che la strada giusta per evitare Infernetto e Tor Sapienza c’è, ed è lo Stato.
Bianca

LO STILE DEL PRESIDENTE Barack Obama, sempre poco enfatico e sempre basato sui fatti, mai annuncio prima ma conferma dopo, ha fatto in modo che i nostri media non prestassero molta attenzione, forse perché sono abituati allo stile “annuncistico” in cui sappiamo mesi prima del grandioso fatto che sta per accadere e poi il grandioso fatto non arriva, o è solo una delega. La frase di Obama è questa: “Un paese di immigrati non può tenere milioni di immigrati, che vivono e lavorano con noi, fuori dalla legge”. Ma lo ha detto dopo, a decreto presidenziale firmato, dopo che Camera e Senato (anche quando il Senato era ancora a maggioranza democratica) gli avevano detto di no. Il presidente ha un raro diritto al “decreto presidenziale”, con cui decide da solo, senza tener conto del Congresso. Ha deciso di usare questo potere per realizzare in tempo (prima della fine del suo mandato, e mentre il Congresso, a maggioranza politica repubblicana, gli è ostile) una delle sue promesse più importanti, e proprio nel momento in cui non si può sospettare che lo faccia per avere voti. A causa di quel decreto, cinque degli undici milioni di non statunitensi che sono entrati in tutti i modi negli Usa e sono impegnati in tutti i modi a restarvi, sono diventati residenti stabili, con una carta (la “green card”) che li autorizza a ricevere la “Social Security” (il numero universale che spetta a tutti i cittadini americani e che è garanzia di tutti i diritti), a richiedere la cittadinanza, e a essere trattati fin d’ora (salvo il diritto di voto) come cittadini. Il calcolo fatto da Obama (cinque milioni) supera tutte le proiezioni e previsione del Congresso, che comunque si opponeva, e include tutti coloro che, secondo l'economista conservatore Milton Friedman, con il loro lavoro in America restituiscono al Paese ospite molta più ricchezza di quella che riceverebbero se potessero godere dell'intera assistenza che spetta agli americani (e che esiste solo da quando Obama è riuscito a fare approvare dal Congresso, quando era ancora democratico, il cosiddetto “Obamacare” che garantisce a tutti assistenza medica universale). Il gesto di Obama sulla legalizzazione che porta alla cittadinanza è coraggioso perché, mentre viene celebrato con manifestazione di festa (“Obama ami-go”) da tutti coloro che ne sono beneficiari, è osteggiato con furore dai conservatori di destra, ma sgradito anche a molti politici democratici, che temono vedersi rinfacciato questo straordinario evento di civiltà alle prossime elezioni di Camera e Senato. Obama ha dimostrato che un vero leader non pensa al partito che lo ha candidato, ma al Paese di cui è responsabile. Ed è a tutto il Paese, non al suo partito, che lascia, come in un testamento, quello che ha fatto in questi difficili e contrastati anni. Nel frattempo, allo sfascio economico del Paese, così come era stato abbandonato dai conservatori, segue, a opera di un presidente “di sinistra” (l’accusa è di essere comunista”) una economia salva e in ordine.
Furio Colombo

Repubblica 29.11.14
Da Bill Cosby ai college quegli stupri “normali” che avvelenano l’America
Le accuse contro l’attore hanno aperto il dibattito nel paese sulle violenze sessuali troppo spesso sottovalutate e impunite
di Nicholas Kristof

LA RABBIA e lo sdegno del mondo intero in questi giorni sembrano concentrarsi su Bill Cosby, passato nella mente dell’opinione pubblica da “papà d’America” a potenziale stupratore seriale. Ma tutti noi siamo in difetto. A prescindere dalla veridicità delle accuse contro Cosby (molte donne ormai si sono fatte avanti affermando che il famoso attore le aveva drogate e violentate — nella maggior parte dei casi decenni fa — ma il suo avvocato nega le accuse), è troppo facile vedere tutta la faccenda soltanto come uno scandalo fatto di celebrità, potere e sesso, che riguarda soltanto Cosby. Il problema più generale è una cultura che consente lo stupro. Il problema più generale siamo noi.
Collettivamente siamo ancora troppo passivi riguardo alla violenza sessuale in mezzo a noi, troppo pronti a trovare giustificazioni, troppo inclini a percepire un elemento di vergogna nel fatto di essere stuprati. Sono tutti atteggiamenti che facilitano la violenza creando una coltre protettiva di silenzio e impunità. In questo senso, siamo tutti complici oggettivi. La rivelazione, sulle pagine della rivista Rolling Stone, di un presunto stupro di gruppo avvenuto in una confraternita dell’Università della Virginia mette in evidenza quanto sia sottile, a volte, la nostra facciata di civiltà. L’articolo racconta di una diciottenne al primo anno di università che va per la prima volta a un party di confraternita, viene condotta al piano di sopra dal ragazzo che l’aveva portata alla festa, e lì viene immobilizzata, picchiata e presa a pugni, e poi stuprata da sette uomini. Un preside di facoltà, intervistato da un giornalino studentesco, ha ammesso che anche quando uno studente dell’università riconosce di aver commesso un’aggressione sessuale, quasi mai si procede all’espulsione, e che l’ultimo caso di studente espulso per stupro risale ad anni fa. Il giornalino studentesco fa notare che l’Università della Virginia tratta le truffe con più severità degli stupri.
Il problema, anche in questo caso, non riguarda solo un’università, ma la cultura in senso più ampio. È un problema diffuso a tutti i livelli. Questo mese un rapporto dell’ispettorato generale di New Orleans ha rivelato che solo nel 14 per cento dei casi le denunce di aggressioni sessuali sono state seguite da un’indagine. Gli stupri nelle carceri, di cui sono vittime soprattutto uomini e ragazzi, vengono trattati troppo spesso come una barzelletta, invece che un mostruoso problema di diritti umani. Un rapporto del dipartimento della Giustizia l’anno scorso ha scoperto che nei riformatori americani in un anno quasi un ragazzo su dieci ha subito abusi sessuali. In due riformatori questa percentuale è stata del 30 per cento o superiore. Poi c’è il traffico di persone a scopi sessuali. Il National Center for Missing and Exploited Children calcola che ogni anno rimangono vittime di questi abusi negli Usa centomila bambini. Polizia e magistratura spesso rispondono arrestando le vittime — i ragazzini — invece degli sfruttatori.
Troppo spesso, fra i ragazzi maschi, la socializzazione implica una visione delle donne come giocattoli. Il risultato è che gli stupratori a volte sono incredibilmente inconsapevoli, non si rendono conto di aver commesso un reato. L’articolo di Rolling Stone racconta che la ragazza violentata all’Università della Virginia due settimane dopo l’accaduto aveva incontrato casualmente il suo principale stupratore. «Cos’è, fai finta di non conoscermi?», le ha chiesto lui tutto allegro. «Volevo ringraziarti per l’altra sera. È stato fantastico». Una studentessa universitaria mi ha mostrato una lettera che le aveva scritto il suo ex fidanzato dopo averla brutalmente violentata. Si scusava per averla costretta ad avere un rapporto sessuale, lasciava intendere che avrebbe dovuto sentirsi lusingata e le proponeva di rimettersi insieme. Prego?
Certo, gli esseri umani sono infinitamente complessi e il consenso e la coercizione rappresentano i due estremi di un continuum che scolora in zone grigie. Non dobbiamo ignorare i diritti degli uomini accusati di condotte inappropriate, e spesso può essere impossibile raggiungere la certezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma restiamo con i piedi per terra. Il problema principale non è un’epidemia di uomini ingiustamente accusati di stupro, ma di donne che subiscono violenze sessuali: fra queste, circa una studentessa universitaria su cinque, secondo la Casa Bianca. Uno studio pubblicato nel 2002 ha scoperto che più o meno il 90 per cento degli stupri commessi all’università è opera di un ristrettissimo numero di stupratori seriali.
Negli anni siamo riusciti a cambiare molte norme culturali. Guidare ubriachi non è più visto come una cosa divertente o sciocca, ma soltanto come una cosa ripugnante. Quanto ci vorrà per ottenere una risposta seria a tutte le accuse di stupro? © 2-014 New York Times News Service ( Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere 29.11.14
Costantinopoli brucia
I crociati accesero fuochi in diversi punti della città saccheggiata nel 1204
La quarta spedizione partì contro gli infedeli e portò alla conquista di Bisanzio, come narra l’opera di Niceta Coniata edita da Fondazione Valla-Mondadori
di Pietro Citati

Per i crociati che raggiunsero Costantinopoli, in occasione della quarta crociata, tutto quello che accadde per mare e per terra fu uno spettacolo straordinario e coloratissimo. La galera su cui partì il doge di Venezia, racconta Robert de Clari (Le Crociate, a cura di Gioia Zanganelli, Meridiani Mondadori), era tutta vermiglia, coperta da una tenda di sciàmito vermiglio: quattro trombe e molti timpani suonavano a festa. I signori, i chierici e i laici, umili e potenti, mostrarono un tale entusiasmo «che non si vide e non si udì l’eguale, né mai fu vista una simile flotta». I preti cantarono il Veni Creator Spiritus; e piansero per l’emozione e la gioia. Duecento trombe, in argento e bronzo, squillarono alla partenza insieme a timpani, tamburi e altri strumenti. Sembrava che il mare fosse un vasto brulichio, infiammato di gioia. «Era a vedersi la più bella cosa — dice Robert de Clari — che non fosse dal principio del mondo». 
Quando le navi arrivarono a Costantinopoli, furono ornate e guarnite in modo sontuosissimo. Appena gli abitanti di Costantinopoli scorsero quella flotta così splendidamente equipaggiata, la guardarono ammirati, salendo sulle mura e sui tetti delle case; mentre quelli della flotta osservarono la grandezza della città tanto estesa in larghezza quanto in lunghezza, quelle alte mura e quelle torri possenti, quei ricchi palazzi e le ricchissime chiese, e provarono un intenso stupore. 
* * * 
Il terzo volume della Grandezza e catastrofe di Bisanzio di Niceta Coniata ( Narrazione cronologica , testo critico di Jan-Louis van Dieten, traduzione di Anna e Filippo Maria Pontani, commento di Anna Pontani, Fondazione Valla-Mondadori, pagine LXXX-650, e 30) ci racconta la quarta crociata con lo sguardo della classe dirigente bizantina. Niceta Coniata nacque, intorno al 1150, a Coni, in Asia Minore, da una famiglia di piccola nobiltà locale. Andò a Costantinopoli da bambino, per prepararsi alla carriera amministrativa. Rivestì la carica di segretario imperiale, di oratore di corte, di governatore di Filippopoli, di giudice superiore, di capo degli uffici centrali. Durante la quarta crociata, fu il primo ministro dell’imperatore di Bisanzio. La Narrazione cronologica è uno dei più grandi libri di storia che siano mai stati scritti: ricchissimo di patos, di tragedia, di immaginazione metaforica, di furibondo grottesco. 
Niceta Coniata amava appassionatamente e disperatamente Costantinopoli, l’impero, la cristianità bizantina. «O impero romano — scriveva —, realtà celeberrima, dignità invidiata e venerata da tutti i popoli, che gente violenta hai dovuto soffrire! Che bruti si sono rivoltati contro di te! Che amanti sono impazziti per te!… Ah quali nefandezze! Quali cose hai dovuto vedere!...». «O città, città, pupilla di tutte le città, fama mondiale, spettacolo oltremondano, nutrice della Chiesa, guida della fede, custode dell’ortodossia, dimora di ogni bellezza… Chi tra gli uomini ha tanta copia di lacrime e di lamenti da poter degnamente piangere e salutare con le lacrime tutto questo?». Adorava le chiese, i palazzi, gli altari, gli ori, le gemme e le reliquie delle chiese, e tutti i luoghi attorno a Costantinopoli: dove spirava sempre una mite e vivificante brezza da settentrione, delfini saltavano piacevolmente sulle onde, da ogni parte sorridevano le dolcezze dei bagni, e le orecchie si ricreavano «col magico verso» degli usignoli. 
Nella seconda metà del XII secolo, Niceta Coniata scorgeva con i suoi occhi acuti e tragici — solo l’acume della vista permette di raccontare la storia — la decadenza dell’impero allargarsi, diffondersi e diventare catastrofe. I bizantini avevano perduto l’esperienza politica e guerriera del passato: avevano distrutto gli elementi sani della società, l’aristocrazia militare e provinciale: le famiglie regali erano state sterminate o allontanate dal potere; e la corte era in mano alla burocrazia degli eunuchi. «L’impero dei romani era ridotto a nient’altro che a crapula e ad ebbrezza», commentava Niceta Coniata. «Il peggio vince sempre, soprattutto presso i costantinopolitani». Non credo che il suo sguardo fosse oggettivo, tanto era dominato dal furore. I suoi ritratti imperiali sono terribili, più terribili di quelli che aveva tracciato due secoli prima Michele Psello: egli non scorgeva negli imperatori che avidità, avarizia, prodigalità, dissipazione, licenza, arroganza, sfrontatezza, stoltezza, malattie dei corpi troppo nutriti. Non c’era via di scampo: dove Niceta guardava era male: erano avidi ed empi i banchieri, i commercianti, gli artigiani, il popolo che si rivoltava continuamente, distruggendo i palazzi nobiliari e le chiese e rovinando gli imperatori. 
Come tutti gli scrittori e i politici bizantini, Niceta Coniata aveva una profonda passione teologica: discuteva, nella Narrazione cronologica , la presenza di Cristo nelle specie del pane e del vino; ma non tollerava che le cose sacre fossero portate alla luce e discusse nei trivi, come se fossero cose di poco conto. Non sopportava nemmeno la diffusione della cultura magica e astrologica, e tanto meno che gli imperatori e le imperatrici invocassero le stelle e scrutassero le costellazioni prima di prendere una qualsiasi decisione o semplicemente «muovere un passo». 
Da un lato, Niceta Coniata pensava che il caso fosse presente in modo intensissimo in ogni evento: tutto era caso, il passato, il presente e il futuro; non possiamo mai prevedere ciò che accadrà, perché il futuro non affonda nel passato. Dall’altro lato, egli era un cristiano: i libri e le dottrine sacre gli avevano insegnato che la Provvidenza domina gli eventi, li guida e li trasforma a suo modo. «Dio mostra che è lui il padrone delle ore e dei tempi, e che è lui a dirigere o a impedire il passo dei mortali». La giustizia divina osserva attentamente le azioni degli uomini e li premia e li punisce. 
Ma l’azione di Dio è oscura. Non riusciamo a capire cosa Egli ci voglia dire o ci suggerisca. La Provvidenza può essere doppia o molteplice; e propone lo stesso uomo come «esempio di altezza sovrumana» o di infinita umiliazione. Nel caso della distruzione di Costantinopoli, ora sembra che Niceta Coniata vi scorga soltanto l’opera di un caso o di un fato maligno, ora sembra che tutto ciò che accade dal 1202 al 1207 sia foggiato dalle nascoste mani di Dio, che voleva mandare un segno agli amati ma peccaminosi abitanti di Costantinopoli. I bizantini dovevano cogliere questo segno, comprendendo che la distruzione della città era stata una punizione provvisoria, perché Dio «si astiene dall’eccesso». Così a volte Niceta Coniata si libera dal suo pessimismo e cerca luci che lascino intravedere il ritorno dei bizantini a Costantinopoli. 
* * * 
Il giudizio di Niceta Coniata sui crociati non potrebbe essere più negativo, sebbene a tratti — per lampi — egli senta in loro qualcosa di robusto e di nobile. Sono iracondi: «Hanno gli orecchi rossi dal riverbero del fuoco dell’ira»; e sempre pronti a prendere in mano la spada e a ferire, uccidere, distruggere, senza ascoltare mai la ragione. Sono dissennati: ignorano completamente quella sottile diplomazia, alla quale i bizantini ricorrevano per avere rapporti con tutti i popoli e le persone. Sono vanitosi. Sono incapaci di amare il bello: «Nessuna delle Grazie e delle Muse trova ricetto presso di loro», dice Niceta Coniata. Pretendono di liberare il sepolcro di Cristo: mentre «inseguendo la vendetta del Santo Sepolcro, infuriano apertamente contro Cristo e, con la croce, perpetuano le distruzioni della croce che recano sul dorso». Molto più intelligenti sono i musulmani, e specialmente il loro capo, il Saladino: con loro i bizantini intrattengono da secoli un rapporto discreto. 
Costantinopoli era piena di statue greche, che Costantino I e i suoi successori avevano portato dalla Grecia. Piuttosto che un’interpretazione cristiana, i bizantini davano loro un’interpretazione magico-profetica: per esempio la statua stendeva il braccio destro verso la Luna e il Sole, affinché smettessero di procedere verso la città. Niceta Coniata descrive con squisita eleganza la statua di Atena Promachos eretta da Fidia ad Atene, all’esterno del Partenone, e quella di Elena. Atena era una gigantesca statua bronzea, che portava sul petto l’immagine della Gorgone. «A tal punto — diceva Coniata — il bronzo si trasformava docile ad imitare ogni singola parte, che le labbra davano l’impressione, che, a voler aspettare, si sarebbe udita una voce soave. Il capo tutto morbido si piegava nei punti in cui doveva, e, pur essendo ben lungi dalla vita, aveva preso della sua fioritura, come se fosse vivo, e faceva fluire negli occhi ogni desiderio. I capelli che scendevano dalla fronte erano una delizia per gli occhi, in quanto non erano interamente contenuti dall’elmo, ma lasciavano intravedere qualche ricciolo. Aveva il capo lievemente inclinato verso sud, e lo sguardo degli occhi che si volgeva in eguale direzione». Per questa ragione, la folla di Costantinopoli sostenne che l’Atena di Fidia volesse invitare gli invasori crociati ad assalire la città; e la distrusse furiosamente. 
Alla fine Niceta Coniata contemplò, rabbrividendo, l’incendio che distrusse la sua amatissima città d’oro, di diamante e di perle. I crociati si collocarono in molti luoghi di Costantinopoli, distanti gli uni dagli altri, e appiccarono il fuoco alle case. Il fuoco si levò più alto di ogni immaginazione per tutta quella notte, per il giorno seguente e fino alla sera del giorno successivo, consumando ogni cosa. L’incendio si disperdeva in vari luoghi, interrompeva la sua continuità e poi di nuovo si richiudeva su sé stesso, come un gorgo di fuoco. Rovinavano portici, splendidi ornamenti di piazze erano abbattuti, possenti colonne ardevano in pezzi come legna da ardere. L’incendio era inusitato, superiore ad ogni facoltà di racconto: lo spettacolo era ineffabile, com’è ineffabile tutta la storia, che Niceta Coniata ci racconta con tanto ardore e dolore. 

Corriere 29.11.14
L’Aja
Rothko incontra Mondrian: prove per un dialogo riuscito
di Sebastiano Grasso

Non è la mostra Rothko-Mondrian, ma è come se lo fosse. Meno male che non li fanno parlare come, ormai, d’abitudine, specialmente quando nei musei si cercano confronti fra esposizioni temporanee e opere fisse. 
Al Gemeentemuseum dell’Aia si cerca solo di far cogliere allo spettatore eventuali influenze e/o accostamenti di poetica. 
Mark (1903-1970) e Piet (1872-1944) hanno vissuto contemporaneamente un periodo di circa quarant’anni ed entrambi credevano che l’arte astratta fosse in grado di creare emozioni. Rothko ne era così profondamente convinto da voler coinvolgere il visitatore: «Chi, vedendo i miei quadri, dovesse piangere, rivivrebbe la mia stessa esperienza religiosa di quando li ho dipinti», diceva. Preceduto, in questo, da Mondrian ma, prima ancora, da Vassily Kandinsky(1866-1944) che, nel 1911, aveva pubblicato Lo spirituale nell’arte . 
La rassegna olandese (aperta sino al 1° marzo 2015) parte dal 1935. Sembra di essere a teatro. Particolari della metropolitana (persone colte mentre scendono le scale o leggono il giornale, in attesa dei vagoni), interni, architetture con statue, coppie che passeggiano, elementi decorativi classici. «Penso ai miei dipinti come a opere teatrali: le forme che appaiono sono gli attori sul palcoscenico — scrive Rothko —. Nascono dall’esigenza di trovare un gruppo di interpreti in grado di muoversi sulla scena senza imbarazzo e di compiere gesti teatrali senza vergogna. Tutto ha inizio come in un’avventura sconosciuta». 
L’inventiva attraversa tre lustri, prima di approdare definitivamente ai grandi dipinti astratti. Figurativo, fauve, talvolta persino surrealista (non manca qualche sorpresa: un paio di lavori richiamano il «surrealismo mediterraneo» di Alberto Savinio). Lentamente, a metà degli anni Quaranta, figure umane e oggetti diventano sempre più stilizzati, cominciano a scomporsi, entrano in un’atmosfera nebbiosa, evanescente, sino a perdersi del tutto in quadrati e rettangoli su fondo quadrato o rettangolare. 
Senso dell’avventura, s’è detto. Forse è proprio questo a suggerire a Rothko di esporre non solo in gallerie e musei, ma anche in ristoranti, grandi magazzini e chiese. Come nella composizione del dipinto, Mark diventa regista degli allestimenti: li cura in ogni dettaglio. I dipinti non possono vivere isolati, dice, per potersi ridestare e sviluppare hanno bisogno dello sguardo di osservatori sensibili. 
Americano di origine russa, Rothko (Marcus Rothkowitz), nasce in Lettonia. Famiglia di ebrei, la sua. Che emigra negli Stati Uniti quando l’artista ha dieci anni. Fa in tempo, però, a vedere le crudeltà della repressione razziale. Il bambino viene colpito al naso dalla frusta di un cosacco e gli rimarrà una cicatrice per sempre. 
Nella sua mente rimarranno immagini terribili che — secondo alcuni psicoanalisti — sublimerà proprio nei rettangoli dove, man mano, i contorni nebbiosi si stemperano in sfumature sempre più sottili, mentre le forme paiono riemergere o scomparire in un gioco di astrazione. 
Campiture multicolori, ripetute sino all’ossessione. Rosso sangue e rosso tenue mischiato col giallo. Blu notte e bianco impastato con l’arancione o con l’azzurro cupo. Verde cupo e ocra contorniato di grigio. Ogni colore, un’emozione. D’un tratto, verso gli anni Sessanta, i colori mutano, diventano sempre più cupi. Alla fine, nero su nero: il dramma. 
L’ apostolo dell’angolo retto , come lo ha definito Michel Butor, non ce la fa più. Nello studio newyorchese sulla 69^ Strada, si taglia le vene. Era il 25 febbraio del 1970. 

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Corriere 29.11.14
Boni rilegge Omero: Ulisse l’antieroe è un reduce turbato
Al via domani su Rai1 la serie sull’Odissea
di Emilia Costantini

ROMA Non è l’Ulisse eroico, l’astuto guerriero che espugna Troia, riesce a ingannare Polifemo, a sopravvivere alle Sirene...«Il ritorno di Ulisse», miniserie in quattro puntate su Raiuno da domani in prima serata, è quello di un reduce che, con l’anima devastata dalla guerra e dalle avversità, ritorna nella sua Itaca. «Potrebbe essere un soldato scampato al Vietnam — dice Alessio Boni, protagonista della fiction —. Un uomo che, con le sue ferite interiori, gli orrori che si è lasciato alle spalle, non è più capace di inserirsi nella normalità». 
Una coproduzione internazionale di Rai Fiction con Arte France e Moviheart diretta da Stéphane Giusti, a quasi cinquant’anni dal celebre sceneggiato televisivo con Bekim Fehmiu e Irene Papas. Nel ruolo di Penelope, stavolta, Caterina Murino, Telemaco è Niels Schneider. 
«Noi raccontiamo la seconda parte dell’ Odissea — continua Boni — gli ultimi dodici libri dove Ulisse ritorna nella sua isola e, tra mille tensioni e angosciosi ricordi, tenta di riappropriarsi della sua vita affettiva. È una lettura molto moderna, non quella del mitico eroe senza macchia e senza paura, ma di uomo in profonda crisi psicologica. Un guerriero che è stato capace di trucidare uomini, donne, bambini, che è riuscito in esaltanti prodezze ma che, quando torna a casa, si spoglia dell’armatura e viene assalito dai dubbi, avvitandosi su se stesso. Sarà in grado di fare ancora l’amore con la moglie? Di aprire un dialogo con il figlio che aveva lasciato bambino? Di ottenere rispetto dai suoi sudditi? Questo Ulisse è un uomo traumatizzato, vendicativo, che si chiude in se stesso e non socializza più... È spiazzante rispetto all’epopea, alla retorica del mito». 
Una lettura che esalta proprio la modernità di un classico come il poema omerico: «In ciò sta la grandezza di un’opera come l’Odissea, perché è in grado di parlarci ancora adesso di problemi che ci riguardano da vicino: Ulisse come l’uomo di oggi che, a causa della crisi epocale che stiamo attraversando, è diffidente, sospettoso nei confronti del prossimo, isolato nel suo mondo di piccoli egoismi». 
Gli sceneggiatori francesi si sono presi, tuttavia, qualche licenza poetica: l’ingresso di personaggi nuovi come la schiava Clea, il ritorno di Nausicaa che sposa Telemaco e poi muore per mano di Menelao, e il finale non è un happy end: «È un azzardo — ammette Boni — mi sono detto forse è troppo, però mi è piaciuto molto e non posso rivelarlo. Forse per questo saremo criticati dai puristi, ma non mi preoccupa». 
Nemmeno i confronti con il precedente Ulisse? «Dopo che Laurence Olivier ha interpretato Amleto non è che si è detto basta, non lo può più interpretare nessuno. Perché allora non un nuovo Ulisse?». 

Repubblica 29.11.14
Piano. E ricordate che noi italiani portiamo bellezza
di Renzo Piano

L’ARCHITETTURA è un’arte civica, ha a che fare con la comunità. C’è una cultura con la C maiuscola che non mi interessa. Non mi interessa la cultura elitaria, dei convivi, dei club, dei cenacoli. La cultura che mi interessa è quella che appartiene a tutti. È quella che ci appartiene in quanto europei. Il nostro è un paese di bellezze straordinarie, l’Italia è la casa della bellezza. C’è un giochino che potete fare a casa. Provate a guardare il Mare Mediterraneo senza l’Italia: è un grande lago. Ebbene, nel bel mezzo di questo lago, attraversato da tante culture diverse, è venuta ad adagiarsi l’Italia. Era naturale che una tale posizione privilegiata ci aiutasse a diventare la culla della cultura. Non si poteva fare altrimenti, era inevitabile.
La nostra storia poggia su una cultura profonda, una cultura che non possiamo disconoscere, che abbiamo sotto la pelle: è la bellezza del nostro Paese. Se ripenso al mio primo cantiere, al Beaubourg a Parigi, fatto insieme a Richard Rogers, capisco quali energie ci animavano. Avevamo poco più di vent’anni, era il 1971, tre anni dopo il Sessantotto, e in quel progetto la protesta era evidente. Inseguivamo qualcosa che rompesse la cultura imposta dall’alto. Allora pensammo di costruire questa gigantesca fabbrica: un cantiere enorme, al centro della piazza. Non mi sono mai sentito, neanche allora che ero giovanissimo, un semplice architetto ma un costruttore di luoghi di cultura, un amante della bellezza. La cultura, la frequentazione della bellezza, il sapere, ci rendono persone speciali. Qualsiasi lavoro facciate nella vita, ciò che vi renderà unici sarà la vostra dimensione culturale. E per cultura non intendo qualcosa di immobile, di istituzionale. La cultura è anche rompere i tabù, non può e non deve mai essere intimidente. Una volta esportavamo gli stili architettonici, ma oggi non è più così, oggi non esportiamo modelli formali ma un’idea di urbanità. Credo che la bellezza oggi sia nella trasparenza, nella luce. Attraverso la costruzione di un edificio si può rendere una città un luogo migliore, avvicinarla alla cultura. È quello che ho tentato di fare trent’anni fa quando ho costruito il museo di Houston, nel Texas, ed è quello che ispira costantemente il mio lavoro.
L’architettura, come la cultura, è sempre un’opera collettiva. Quanti operai ci vogliono per realizzare un progetto? All’aeroporto di Osaka hanno lavorato 10 mila operai. L’architettura è una strana cosa in cui la scienza, la tecnologia, l’arte e la comunità si fondono. Come nell’umanesimo. Ma è la gente a rendere i luoghi vivi. Dobbiamo sempre pensare i luoghi in funzione della gente. Pensate a cosa poteva essere Berlino dopo la caduta del muro, ci voleva un progetto che riunisse l’est e l’ovest. L’architettura deve essere capace di prodezze, richiede il lavoro di molti ed è destinata a molti.
Gli edifici costruiti per la cultura devono essere spazi della condivisione, spazi in cui avviene il miracolo della tolleranza. Il palazzo che ospita la sede del New York Times a New York è stato costruito dopo l’11 settembre, quasi come reazione alla tragedia dell’attentato.
Stare assieme, condividere i valori, capirsi. Sono questi i principi che ispirano la nostra cultura comune e devono ispirare l’architettura, che non è solo tecnica, non è solo costruzione, è anche poesia. Noi italiani, noi europei, possiamo fare tutto ciò perché poggiamo sulle spalle di un gigante: la cultura umanistica, un sapere complesso che unisce valori scientifici e artistici.
Ma come vengono le idee? A noi architetti vengono collettivamente. Un po’ alla volta, come una bolla di sapone che esce dalla cannuccia. A soffiare dalla cannuccia, però, non si è mai soli.
Essere europei, essere italiani, vuol dire avere il dono di comprendere la complessità delle cose, i chiaroscuri. Invece oggi nel nostro Paese sembra vincere un battage sulla demolizione dei valori .
Non dovete farvi prendere dallo sconforto, non fatevi demolire. Nella nostra cultura abbiamo un paracadute, uno strumento straordinario di sopravvivenza. Il nostro dna ha dentro la bellezza, la scienza, il senso della comunità. Anche il lavoro di rammendo delle periferie è un mestiere da umanista. Le periferie saranno le città del futuro. Così come negli anni Settanta e Ottanta abbiamo vinto la battaglia per la conservazione dei centri storici, oggi la nostra sfida è trasformare le periferie in città urbanizzate, fecondarle, portarci delle attività. L’architettura è prima di tutto un’arte civica, che ha a che fare con la comunità, la gente. Un’arte che tiene insieme tecnologia ed emozioni, scienza e poesia. Tutti gli aspetti della cultura umanistica, che è la nostra eredità, il nostro riparo. Voi siete involontari portatori di bellezza. Dovete saperlo e ricordarvelo, qualsiasi mestiere facciate, e non scoraggiarvi ma avere fiducia.
(testo raccolto da Raffaella De Santis)