sabato 22 settembre 2018

Il capitalismo: business is business
Il Sole 22.9.18
Dopo i Bitcoin la speculazione ha scommesso sulla marijuana
È il momento delle società che hanno a che fare con il business legale della marijuana
di Vito Lops


I titoli del settore - così come fondi hedge specializzati come il Tribeca global natural resources che solo lo scorso anno ha guadagnato il 153%, migliore al mondo nella classifica stilata dalla società di consulenza Prequin - sono in rialzo da diversi mesi. Ma è da questa estate che è partita la vera accelerazione, talmente forte che in molti già riconoscono i germi di una bolla finanziaria. La notizia “scatenante” è stata la decisione del Canada di legalizzare da giugno l’uso della marijuana a scopo ricreativo, seguendo la scelta analoga della California di gennaio (dove l’uso terapeutico è stato sdoganato nel 1996). A quel punto è subentrata la speculazione e i multipli delle società del settore hanno iniziato a volare, complice l’ingresso di investitori rodati. Il fondo di private equity Privateer Holdings - che tra gli investitori annovera anche il magnate della Silicon Valley Peter Thiel - possiede il 76% di Tilray, la società canadese esempio del boom (e probabilmente della bolla) del settore. Quotatasi a luglio a 17 dollari, l’azienda mercoledì ne valeva oltre 300, per poi scendere ieri a 130 (a testimonianza anche dell’elevata volatilità).
Ad aprile 2017 è sbarcato sui mercati anche il primo Etf sulla marijuana, il “Medical Marijuana Life Sciences”. Da allora ha guadagnato il 124%, di cui una buona parte (+70%) è stata ottenuta nell’ultimo mese.
I fondi stanno quindi tessendo la tela dei capitali sull’industria della cannabis che potrebbe generare un giro d’affari annuo di 57 miliardi entro il 2027, ipotizzando che altri Paesi seguano l’esempio del Canada. Ma non bisogna dimenticare che talvolta tra le valutazioni e la realtà c’è di mezzo l’irrazionalità. Tanto per restare ancorati ai bilanci, nel 2018 la Tilray ha fatturato 42 milioni mentre in Borsa è arrivata a valere 20 miliardi. Questo percorso può evocare quanto accaduto nell’ultimo anno e mezzo sull’universo parallelo delle criptovalute. Dopo un’accelerazione devastante che ha portato il valore del Bitcoin e dei suoi “fratelli” fino a 835 miliardi di dollari, ora questo universo ne vale 220, praticamente un quarto.
Così come molti piccoli investitori che sono entrati nel momento sbagliati sulle cripto - tra Natale e gennaio - oggi stanno perdendo oltre il 60%, non è da escludere che ai valori attuali gli asset finanziari legati alla marjiuana possano riservare brutte sorprese. Ne è convinta anche la Sec, l’autorità che regola il mercato Usa, che ha lanciato l’allarme sulle quotazioni, che potrebbero risultare “drogate”, non escludendo inoltre il pericolo di «truffe per gli investitori» e di «manipolazione del mercato».

Il Sole 22.9.18
La cannabis sbarca nelle Borse europee
Società quotate.
Le prime 50 società a livello globale valgono in Borsa 65 miliardi di dollari con soli 2,4 miliardi di ricavi complessiviIn un anno il settore è in rialzo del 296%
di Andrea Franceschi


Le valutazioni. Le prime 50 società a livello globale valgono in Borsa 65 miliardi di dollari con soli 2,4 miliardi di ricavi complessivi
Business del futuro o bolla speculativa? Questa è la domanda che tanti investitori si fanno a fronte delle performance da record messe a segno dalle aziende che operano nel settore della cannabis legale. Negli ultimi 12 mesi i 50 maggiori titoli del comparto, quotati sulle piazze di Canada e Stati Uniti, hanno messo a segno uno spettacolare rialzo del 296% in Borsa. Una fiammata che ha portato la loro capitalizzazione oltre i 65 miliardi di dollari. Numeri notevoli considerando che, messe insieme, queste aziende fatturano appena 2,4 miliardi di dollari. Il mercato per ora ignora i campanelli di allarme dei multipli di Borsa e continua a scommetterci. Anche sulla scorta di notizie, come quella uscita nei giorni scorsi dell’intesa tra Coca Cola e la canadese Aurora per studiare una bevanda a base di Cbd (il principio attivo non psicoattivo della pianta), che avvalorano la tesi della svolta “mainstream” della foglia a cinque punte. Ora anche l’Europa di prepara a farsi contagiare dalla febbre delle “cannastocks” con il debutto in Borsa di StenoCare, una piccola azienda danese che quest’anno ha ottenuto il permesso dal ministero della sanità locale per coltivare o importare cannabis per produrre olio di Cbd da distribuire nelle farmacie. È un’operazione di piccola entità che tuttavia potrebbe essere indicativa della sensibilità del mercato europeo.
La crescente evidenza scientifica dell’efficacia dei principi attivi della pianta nella cura delle più varie patologie ha spinto in questi anni i governi di molti Paesi a rimuovere i divieti che per anni ne hanno ostacolato l’impiego terapeutico. Ciò ha creato il terreno per lo sviluppo dell’industria anche perché, di pari passo, c’è stato un allentamento della legislazione per quanto riguarda l’uso «ricreativo» della pianta. Negli Usa nove stati e il distretto di Washington hanno legalizzato e dal prossimo mese il Canada si prepara a fare altrettanto. Notizia, quest’ultima, che ha contribuito molto al recente rally delle «cannastocks» in Borsa.
L’Europa non è rimasta immune dal fenomeno. «Negli ultimi sei mesi l’industria è cresciuta più che negli ultimi cinque anni» si legge nell’ultimo rapporto di Prohibition Partners in cui si stima che una regolamentazione del settore potrebbe generare entro i prossimi 10 anni un mercato da 115 miliardi di euro. L’Italia è stata tra gli apripista sul fronte della cannabis terapeutica ma ci sono ancora molti freni allo sviluppo del mercato. Da una parte la legislazione varia molto da regione a regione. Dall’altra non si riesce a far fronte alla crescente domanda nè con la produzione in regime di monopolio dello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze nè con le importazioni dall’Olanda. «Il rischio di questa situazione - spiega Pietro Paolo Crocetta, presidente di Crystal Hemp, azienda che si occupa di estrazione di principi attivi derivati dalla Cannabis - è che i pazienti si rivolgano ai tanti siti che vendono prodotti non certificati e di dubbia sicurezza».

Il Sole 22.9.18
La grande impresa tedesca in campo contro il razzismo
Lunedì un manifesto di industria e finanza a favore di diversità e tolleranza
di Isabella Bufacchi


FRANCOFORTE «Commerzbank è un’azienda cosmopolita, accompagniamo i nostri clienti in 150 Paesi. Respingiamo fermamente la xenofobia e l’estremismo, crediamo nella condivisione e nella tolleranza e continueremo a batterci per questi valore in futuro». Interpellato dal Sole 24 Ore sulla posizione della banca nei confronti di episodi crescenti di razzismo in Germania, il portavoce del secondo istituto di credito tedesco scandisce con enfasi il messaggio che in questi giorni tutte le principali aziende tedesche si stanno impegnando a rilanciare con vigore: no al razzismo e all’intolleranza, sì alla diversità. Deutsche Bank, Allianz, EY e Commerz per la finanza, Daimler, Bmw, Mini, VW per l’auto e poi ancora Siemens, Metro, Adidas, Basf, DB: chi su Facebook, chi Twitter, chi su Instagram.
Lunedì l’associazione tedesca della Carta delle pari opportunità e uguaglianza sul lavoro, “Charta der Vielfalt”, pubblicherà un comunicato congiunto delle 24 grandi aziende tedesche per prendere una posizione forte e comune contro razzismo e xenofobia. «Vogliamo che il nostro messaggio arrivi forte e chiaro, più forte dei manifestanti estremisti di Chemnitz», sottolineano i rappresentanti di Charta, che dallo scorso giovedì ha creato l’hashtag #Flagge für Vielfalt per le aziende che vogliono sostenere pubblicamente la diversità. Anche la piattaforma web Wir-zusammen, fondata nel 2016 da 36 grandi imprese tedesche per promuovere l’inserimento dei rifugiati, conferma l’anti-razzismo: in poco più di due anni ha aiutato 230 imprese tedesche, di cui 19 quotate sul Dax, a dare posti di lavoro a 33.500 rifugiati, e altri 22mila sono ora assistiti.
«Non è mai accaduto prima di ora, in maniera così eclatante, che tutto l’establishment industriale e finanziario tedesco prendesse una posizione pubblica così forte e unita contro il razzismo», ha commentato un banchiere tedesco, ricordando che nell’ultima grande ondata di razzismo risalente al 1993 il mezzo dirompente di comunicazione dei social networks non esisteva. E come gli estremisti di destra hanno usato con grande efficacia il passa-parola sui social networks in tutta Germania per radunarsi copiosi a Chemnitz, così il mondo dell’industria e della finanza alza ora la sua voce sui social. Per ora sono i grandi marchi a fare notizia. Ma quel che farà veramente la differenza, a livello sociale oltrechè economico, sarà l’adesione delle piccole e medie imprese a iniziative comuni contro il razzismo. Sono in migliaia le aziende tedesche piccole e medie che hanno già aderito alla Charta per la diversità.
È indubbio che comunque la Germania conti ora come in passato sull’immigrazione per contribuire ad alimentare e potenziare il motore della crescita. Sebbene il 90% circa dei lavoratori in Germania abbia il passaporto tedesco, stando a statistiche riportate da Handelsblatt la manodopera straniera ha pesato per il 52% sui 750mila nuovi assunti tra il maggio 2017 e il maggio 2018: di questi, uno su cinque proviene dall’Europa dell’Est, 7% da Ucraina e Russia, 13% i richiedenti asilo da Siria ed Eritrea e solo il 3% da Italia, Spagna e Portogallo. E in aggiunta, guardando avanti, la Germania conta sui non-residenti per trovare la domanda per 430mila posti di lavoro in offerta per manodopera con bassa specializzazione o non qualificata, rifiutati dai tedeschi .
Non basta però l’impegno del mondo industriale, imprenditoriale e finanziario in Germania per contrastare e contenere questa nuova ondata di estremismo di destra che si sta caratterizzando sempre più in una lotta contro gli immigrati, con derive razziste e persino naziste. È alla classe politica e alle istituzioni democratiche, che la Germania tollerante guarda ora. E quel che vede, non può piacerle. Ieri l’ultimo sondaggio sul gradimento degli elettori ha per la prima volta dal 1997, dall’inizio delle rilevazioni, registrato l’unione CDU-CSU sotto il 30%, al 28%. (-2%), AfD (Alternativa per la Germania) è il secondo partito con il 18% (+1%) dopo aver sorpassato l’Spd in calo al 17% (-1%).
La Germania deve ora andare alla ricerca di una nuova unificazione, economica, sociale e morale. È sempre più evidente che l’ ex-Germania dell’Est non abbia fatto lo stesso percorso, il “mai più” della Germania dell’Ovest, sul nazismo e sull’Olocausto. Ma la Germania è spaccata anche tra le regioni ricche al Sud e i Länder più poveri al Nord. E la disuguaglianza, sia pur in calo come rileva l’Ifo, c’è anche in un Paese come la Germania che ha il più grande ciclo economico di crescita dal 1990 e che ha toccato piena occupazione. Esiste poi un netto divario tra le grandi città e le zone rurali. C’è il disagio dato dalla crescita dei posti di lavoro a tempo determinato e part-time. E grava su tutti l’incertezza data dall’invecchiamento della popolazione. Problemi che la GroKo guidata da una indebolita e stanca Angela Merkel potrebbe affrontare attingendo a 100 miliardi di spesa pubblica in più, senza far deragliare i conti pubblici.


https://spogli.blogspot.com/2018/09/il-capitalismo-business-is-business-il.html
La Stampa TuttoLibri 22.9.18
Kelsen, se la democrazia soffre bisogna aggiustare il Parlamento
di Massimiliano Panarari


Rileggere gli avvenimenti della Repubblica di Weimar si rivela sempre utile. E riflettere su quello spettro (e «zombie») politico travolto dal nazionalsocialismo risulta ancor più opportuno in questa nostra «era della sfiducia» (come l’ha chiamata Pierre Rosanvallon), dove l’egemonia politica è stata (ri)conquistata da populismi e sovranismi. E anche se la storia non si ripete mai secondo le stesse modalità (attualmente non è in corso alcun «biennio rosso», e a prevalere da subito sono state le pulsioni e le tendenze di destra radicale), alcuni parallelismi con quel contesto appaiono inoppugnabili.
L’opportunità per ragionare sulla fragilità sistemica di quell’esperimento di democrazia liberale seguito alla disfatta dell’impero guglielmino è offerta dalla ripubblicazione di una coppia di scritti di Hans Kelsen: l’altra interpretazione di riferimento della crisi weimariana, contrapposta alla «versione di Carl Schmitt», pilastro della cultura antiliberale e autoritaria del Secolo breve, e intellettuale di spicco del Terzo Reich. Un dualismo essenziale della teoria giuridica e politica del Novecento.
Nino Aragno porta in libreria Due saggi sulla democrazia in difficoltà, uno del 1920 (Intorno alla natura e al valore della democrazia) e uno del ‘25 (Il problema del parlamentarismo), curati e introdotti da un testo brillante (e attualizzante) di Mario G. Losano. Due scritti che apparvero in italiano per la prima volta sul finire degli anni Venti, «bizzarramente» su iniziativa della Scuola di scienze corporative dell’Università di Pisa, che gravitava nell’orbita del fascismo movimentista di Giuseppe Bottai e puntava a confutare uno dei massimi esponenti europei del liberalismo e dell’orientamento antitetico al corporativismo.
Kelsen fu il campione del normativismo, del giuspositivismo e della dottrina pura del diritto, che miravano a contrapporre al giusnaturalismo e al marxismo fondati sulla costante produzione di giudizi di valore l’avalutatività weberiana, perché – come indicava qui – «nelle cose politiche bisogna abituarsi a distinguere tra realtà e ideologia». Tuttavia, la centralità nell’elaborazione kelseniana del piano della formalizzazione della legge costituiva anche un tentativo di fornire una risposta alla crisi della civiltà europea stando nell’alveo del Progetto moderno e dell’Illuminismo (e neokantismo). Anche per questo il grande giurista, laureato con una dissertazione sulla dottrina politica di Dante Alighieri, fu giudice costituzionale nell’Austria che usciva dalla dissoluzione dell’impero asburgico; e, soprattutto, fu uno dei padri costituenti e collaborò attivamente con il cancelliere Karl Renner – uno dei principali teorici dell’austromarxismo – nell’edificazione della nuova Repubblica che verrà poi abbattuta dall’austrofascismo.
In questi due saggi troviamo una tipica analisi kelseniana, orientata verso la definizione teorica, della nozione di regime democratico. La democrazia scaturisce dalle rivoluzioni borghesi del 1789 e del 1848, e trova le sue radici nella tensione tra le concezioni (in negativo) di libertà e eguaglianza. Con tutta una serie di ambiguità e cortocircuiti derivanti proprio dal suo processo di formazione storico, come riguardo il principio di divisione dei poteri, nel quale compariva la volontà di ripristinare un primato del monarca (costretto ad accettare il costituzionalismo) su quel potere legislativo mediante cui si esprimeva in via esclusiva la volontà popolare – e che si è infatti frequentemente ritrovato scavalcato da quello esecutivo (tradizione ritornata prepotentemente in voga). Per Kelsen la democrazia rappresentativa coincideva tout court con il parlamentarismo (e con la sua dimensione formale e procedurale) che, negli anni Venti, dopo il primo conflitto mondiale, si trovava a dover affrontare nuove spinte verso l’autocrazia: il bolscevismo e, di lì, a poco il totalitarismo fascista. Ideologie illiberali che aborrivano quella che per lo studioso austriaco era «la premessa filosofica del pensiero democratico», vale a dire il «relativismo dei valori» in virtù del quale diventa possibile la sottoscrizione dei compromessi che consentono il funzionamento di questa forma di governo (una categoria che fa riecheggiare, nuovamente, un concetto weberiano, quello del «politeismo dei valori»).
La divisione del lavoro e la complessità delle società moderne non rendono difatti possibile la democrazia diretta, da cui la «grande finzione» (indispensabile) della democrazia rappresentativa, che richiedeva però – come Kelsen ben percepiva di fronte al montare dei populismi violenti della sua epoca – aggiustamenti e correttivi. A partire, come scriveva, dal superamento dell’anacronistico istituto dell’immunità parlamentare (superfluo in assenza di un monarca minaccioso) e dall’introduzione, in talune occasioni, del referendum per ridare la parola direttamente al popolo.

La Stampa TuttoLibri
Al donnaiolo che scelse Franco fa gola l’oro dei repubblicani
Torna Lorenzo Falcó, la spia che si muove “come uno scorpione” nella guerra di Spagna La missione impossibile è recuperare un mercantile prima che cada in mano ai russi
di Marcello Simoni


C’è l’Arturo Pérez-Reverte storico-avventuroso del ciclo secentesco del capitano Alatriste e quello dei thriller alla Club Dumas. In entrambi i casi, possiamo riconoscere il suo stile elegante, contrassegnato da una molteplicità calviniana che si colora di un languore tipicamente spagnolo. Ma esiste anche un altro Arturo Pérez-Reverte, lo scrittore noir, ed è proprio qui che entra in gioco il suo nuovo romanzo, L’ultima carta è la morte, che vede come protagonista il ritorno di Lorenzo Falcó, già incontrato nel Codice dello scorpione.

Siamo nel marzo 1937, a meno di un anno dal golpe che portò allo scoppio della Guerra civile spagnola. Il contrasto tra fronte nazionale e quello repubblicano, di ispirazione marxista, si dipana su una scacchiera quantomai mobile, dove soltanto spie, informatori e sicari prezzolati sembrano trovarsi a loro agio.
È proprio in questo clima, nelle vaghe luci di una Lisbona notturna, che la trama prende le mosse per condurci fino a Siviglia e a Tangeri. La posta in gioco è un carico d’oro del Banco de España affidato a un mercantile repubblicano che vaga da mesi come una nave fantasma per il Mediterraneo, inseguita da incrociatori, sottomarini e idrovolanti delle forze nazionaliste. Con l’abilità degna di un grande marinaio, il suo capitano è riuscito a eludere ogni blocco tra Valencia e Marsiglia per vedersi costretto ad attraccare in un porto protetto dal regime internazionale: Tangeri.
È in questa zona neutrale che Falcó verrà inviato dalle alte sfere franchiste col delicato incarico d’impossessarsi dell’oro prima che cada definitivamente in mano ai russi. Un incarico da agente segreto, dunque, con licenza non solo di uccidere ma anche di corrompere, di manipolare e di mentire, scivolando tra le tinte di un affresco crudele e al tempo stesso affascinante.
Pérez-Reverte è un maestro nel plasmare le ambientazioni labirintiche delle città marine. I colori dell’azzurro e del giallo torrido, il bianco smagliante di viuzze che si trovano al di qua e al di là di Gibilterra, i canti etnici, il jazz, gli sguardi allusivi, gli eleganti caffè e i mercati esotici sono la cifra di una narrativa concepita per offrirci un mosaico in cui Oriente e Occidente s’intrecciano. Parliamo di realtà di frontiera dal «denominatore comune meticcio», un tappeto persiano in cui il viavai di una spia non rappresenta che il passaggio di un ago tra mille ricami.
È così che ci compare Tangeri, la città bianca dalle palme agitate dal levante. Una città antica e moderna incarnata dall’enigmatica Moira Nikolaos, vecchia conoscenza di Falcó: donna non più giovane, senza un braccio eppure bellissima, che d’un tratto troveremo stesa su un divano alla turca, illuminata da un candelabro ebraico e accarezzata dalle note di un grammofono. Con i suoi zigomi dai tatuaggi berberi, le unghie laccate di rosso e gli occhi annebbiati dall’hashish, si contrappone a una sfuggente spia russa, Eva Neretva («alias Eva Rengel, alias Luisa Gómez, alias chissà che»), che pare aver lasciato una cicatrice nel cuore di Falcó.
E in questa scacchiera dai rutilanti colori marocchini, ecco comparire le due pedine principali: due navi, una repubblicana e una nazionalista, una piena d’oro e l’altra di militari franchisti, entrambe attraccate al porto, a poca distanza, come due universi antitetici messi a confronto. Se la prima salperà in cerca di fuga, la seconda non esiterà ad attaccarla.
C’è forse una filosofia dei contrari nascosta in questo romanzo noir: un’intesa tra uomini d’onore appartenenti a bandiere diverse; una storia di equipaggi all’apparenza nemici ma disposti a far fronte comune e, se necessario, a mescolarsi.
L’unica mosca bianca è proprio Lorenzo Falcó. Donnaiolo, ex trafficante d’armi e venduto alla causa franchista, antepone all’adagio della «vita del bandolero» (saltar muri e fuggire / dormire nei letti altrui / negli ospedali morire) il suo «codice dello scorpione» (guarda, pungi e scappa). Sembra non conosca alternative per rapportarsi a una realtà in cui l’unico modo di spuntarla è quello di voltare le spalle a ogni ideale, se non a quello di sfoggiare un completo elegante e di frequentare locali alla moda, tra sorrisi fasulli, donne facili e mariti cornuti.
Un James Bond del nazionalismo spagnolo, verrebbe da dire. In realtà la genesi di Falcó è più profonda, meditata, e lo stesso Pérez-Reverte ce lo rivela alludendo ai gusti letterari del suo stesso protagonista. Si tratta dei «racconti di detective e i romanzi a puntate delle riviste illustrate, con avventuriere internazionali chiamate Margot e Edith, eroi inglesi con il ciuffo ribelle sulla fronte e cinesi malvagi tipo Fu Manchu. E qualche volta, più sul serio, un libro di Blasco Ibáñez o di Somerset».
La Stampa TuttoLibri 22.9.18
Ben Jelloun, i diciotto mesi all’inferno
che non riuscii mai a confessare
Da giovane fu incarcerato e torturato per avere partecipato a una manifestazione studentesca pacifica: lo scrittore marocchino racconta la “punizione” che gli ha segnato la vita (e un doloroso segreto)
di Maurizio Molinari


Ogni scrittore ha almeno un segreto da raccontare e Tahar Ben Jelloun sfrutta l’occasione del suo ultimo libro, La punizione edito da La nave di Teseo, per descrivere l’esperienza di detenzione in Marocco nel 1965, sotto il regno di Hassan II. 135 pagine che accompagnano il lettore in un viaggio che richiama alla mente, in riedizione maghrebina, Il Castello di Kafka ovvero un universo di potere, silenzi e contraddizioni in cui l’unico fine è l’oppressione di chi ha la sventura di trovarsi in una sorta di inferno terreno.
La storia, personale ed autobiografica, che l’autore racconta è una detenzione illegittima, la propria. Ben Jelloun, allora ventenne, ha semplicemente partecipato insieme ad altri ragazzi a una manifestazione studentesca, pacifica. Siamo nel Marocco degli Anni Sessanta in piena stagione di decolonizzazione, con i giovani contagiati dalle idee di libertà che arrivano dall’Europa e dall’Occidente, protagonisti di sogni destinati al più amaro dei fallimenti. Tali emozioni iniziali del ventenne Ben Jelloun sono però utili per ricordare che c’è stato un momento in cui i giovani arabi, non solo nel Maghreb ma anche in Medio Oriente, hanno davvero immaginato la possibilità di vivere in nazioni dove libertà e democrazia fossero dei valori condivisi. Ovvero, il nazionalismo arabo ha avuto una sua primavera a metà del Novecento prima della scelta omogenea, da parte delle più diverse dittature, di dedicarsi soprattutto alla conservazione del potere di piccole élites. C’è stata una finestra di opportunità per gli Stati nazionali arabi per costruire società basate sullo Stato di Diritto ma è andata perduta per l’impatto di una miriade ti storie simili a quella di Ben Jelloun.
Il romanzo inizia quando un gruppo di militari arriva a bussare alla porta dei genitori di Tahar, dicendo loro che il figlio il giorno dopo deve presentarsi in una lontana prigione militare del Paese. Tutti sanno che può essere l’inizio della fine: il Marocco attraversa un periodo di regime molto autoritario, in cui la monarchia, con i suoi apparati militari, reprime tutto, soffocando qualsiasi espressione di libertà. Il giorno dopo Ben Jelloun parte, accompagnato dal fratello, sapendo che forse non tornerà mai più indietro. È un viaggio difficile, tra mille difficoltà e miserie ma soprattutto nell’angoscia della fine. Arrivati alle porte della prigione, il fratello lo saluta e lì inizia un periodo di reclusione di 18 mesi che si rivela, pagina dopo pagina, in una discesa negli inferi. La descrizione accompagna il lettore nelle ferite più profonde causate dal regime ad una nazione antica.
I ragazzi vengono malmenati, costretti a lavori forzati - costruire un muro enorme e poi riabbatterlo e poi ricostruirlo, per il puro gusto di farli morire di fatica - sottoposti a condizioni igieniche tremende e costretti a non mangiare o a mangiare cibo avariato. Molti si ammalano, alcuni muoiono, il tutto mentre i gerarchi del regime se la godono mangiano, bevono e ricevono donne. E poi c’è la violenza psicologica: nessuno dei ragazzi sa cosa lo aspetta, nessuno spiega niente, tutti vivono aspettando il peggio da un momento all’altro.
A un certo punto si ammala anche Tahar e per questo viene portato in ospedale. La clinica in realtà è una parentesi felice, perché lì le condizioni sono migliori. Quando ne esce, fisicamente ristabilito, viene spedito in un’altra prigione, non più quella iniziale atroce, dove vive in condizioni materiali leggermente migliori ma subisce torture psicologiche ancor più pesanti. Il regime è militare stretto e prepara gli internati ad una guerra, seguendo ritmi e imposizioni pesantissime. Quando però l’ipotesi del conflitto svanisce, e senza nessuna ragione precisa, Tahar e pochi altri vengono liberati e così, dopo 18 mesi di incubo, può tornare a casa e riabbracciare i genitori. Ma proprio quando cerca faticosamente di recuperare una vita normale, uscire dallo shock, riprendere a studiare, l’incubo sembra riaffacciarsi: viene infatti richiamato dal capo militare che lo aveva «torturato», che convoca lui e altri suoi compagni di sventura per un determinato giorno per una «sorpresa». Per Tahar torna il terrore. Se non si presenta, diventerà un disertore, ma se si presenta, ricomincerà tutto l’incubo. Opta per la diserzione. Appena inizia il tentativo di fuga, arriva la notizia: c’è stato un golpe militare, poco dopo represso dal re nel più cruento dei modi. Era dunque quella la «sorpresa» in cui il capo militare voleva coinvolgerlo, e in cui certamente sarebbe morto.Può tornare a casa, senza essere disertore ma ha bisogno di 50 anni per riuscire a rielaborare e raccontare questo segreto. Che suggerisce come i dispotismi arabi costruiscono il loro potere sull’immagine di un nemico esterno ma poi in realtà combattono all’interno dei confini una sfida senza limiti di tempo il cui unico intento è sottomettere la popolazione civile. Ben Jelloun parla in questi termini, amari ed autobiografici, del suo Marocco divenuto nel corso degli ultimi 20 anni, fra i Paesi fra i più aperti e tolleranti del mondo arabo-musulmano.
La Stampa 22.9.18
Galileo, eppur non si abiura
A Londra la lettera perduta con la versione più forte della tesi condannata dalla Chiesa
di Emanuela Minucci


Non era neanche troppo nascosta. La lettera perduta in cui Galileo Galilei mise giù le sue tesi contro l’idea, sostenuta dalla Chiesa, che fosse il Sole a ruotare intorno alla Terra, si trovava in una biblioteca di Londra. In possesso della Royal Society - la prestigiosa associazione scientifica britannica fondata il 28 novembre 1660 - da almeno due secoli e mezzo, era inspiegabilmente sfuggita all’attenzione degli storici per tutto questo tempo. É stata rintracciata e scoperta da Salvatore Ricciardo, giovane ricercatore dell’università di Bergamo che fra l’altro visitò il 2 agosto scorso con tutt’altri obiettivi. «Non potevo credere ai miei occhi - commenta il ricercatore - si trattava della lettera che tutti hanno cercato per oltre due secoli e non si nascondeva in un posto sperduto, ma proprio nella Royal Society Library».
La missiva considerata perduta è stata scoperta proprio da questo studioso nella biblioteca della Royal Society. Del testo sinora si conoscevano due copie, ma in nessuno dei due documenti la teoria galileiana che gli costò, il 22 giugno 1633 la condanna per eresia, l’abiura forzata delle sue concezioni astronomiche e infine il confino nella sua villa di Arcetri.
Si tratta di una scoperta sensazionale perché dimostra che lo scienziato, vent’anni prima del processo, ribadì in modo più netto le sue teorie.
Il documento è scritto con la sanguigna, contiene qualche correzione ed è lunga sette pagine e firmata in calce G. G. Il padre della scienza moderna la indirizzò all’amico Benedetto Castelli, monaco cristiano e illustre matematico e fisico dell’università di Pisa.
In queste pagine Galileo sostiene per la prima volta che la ricerca scientifica deve essere libera dalla dottrina teologica. Una lettera che scatenò un putiferio, ma che si tinse anche di giallo.
Il testo venne inviato all’Inquisizione il 7 febbraio del 1615 dal frate domenicano Niccolò Lorini e la copia di quella lettera è custodita ora negli Archivi Segreti Vaticani. Una settimana dopo, Galileo scrisse anche all’amico Piero Dini, suggerendo che la versione spedita dal Lorini all’Inquisizione fosse stata alterata. Galileo allegò anche una versione «edulcorata» della lettera spedita a Castelli, presentandola come la versione originale, e gli chiese di farla avere ai teologi vaticani.
Scrivendo a Dini, Galileo - che nel 1633, dopo la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, sarebbe stato processato e condannato per eresia - si lamentava della malvagità e dell’ignoranza dei suoi nemici e si diceva preoccupato che l’Inquisizione potesse essere ingannata “da questa truffa, coperta dal mantello dello zelo e della carità”.
Com’era andata davvero? Galileo affidò davvero all’amico Castelli il suo sfogo contro le ingerenze e le pressioni della Chiesa o qualcuno inviò una lettera falsa all’Inquisizione contro lo scienziato?
Il documento ritrovato da Ricciardo mostra che lo scienziato avrebbe corretto ed edulcorato le proprie parole, per evitare l’ira dell’Inquisizione. Il testo - Castelli a un certo punto aveva rimandato a Galileo la sua lettera - è puntellato da correzioni, con modifiche significative, come nota Nature, che ha anticipato la scoperta. In un punto, ad esempio, l’aggettivo “falso” attribuito ad “alcune affermazioni della Bibbia” è sostituito con un “appare diverso dalla verità”. Ma sotto le modifiche e le cancellature, il testo originale risulta proprio quello trasmesso da Lorini al Tribunale dell’Inquisizione.
Ricciardo, insieme al suo supervisore Franco Giudice e allo storico Michele Camerota dell’università di Cagliari, ha verificato l’originalità della lettera confrontando singole parole con altre simili scritte da Galileo nello stesso periodo. La scoperta è descritta in un articolo che sarà pubblicato sulla rivista Notes and Records della Royal Society.
La Stampa 21.9.18
Ritrovata a Londra la lettera che costò a Galileo l’accusa di eresia


«Non potevo credere di avere scoperto la lettera che tutti gli studiosi di Galileo credeva irrimediabilmente perduta», ha detto Ricciardo a Nature. «È ancora più incredibile - ha aggiunto - perché la lettera non era custodita in un’oscura biblioteca, ma nella biblioteca della Royal Society».
È stato lo stesso Ricciardo, con i colleghi Giudice e Camerota, ad analizzare la lettera e a descriverla in un articolo in via di pubblicazione sulla rivista Notes and Records, della Royal Society. Al momento, riferisce Nature, molti studiosi si riservano ogni commento in attesa di leggere l’articolo, una volta pubblicato. Soltanto lo storico della scienza Allan Chapman, dell’Università di Oxford e presidente della Royal Society per la storia e l’astronomia, lascia spazio all’entusiasmo: «è così importante - ha detto a Nature - che permetterà nuovi approfondimenti in questo periodo critico».
Della lettera, indirizzata a Benedetto Castelli, esistono diverse copie e due versioni diverse. Di queste ultime, una è custodita negli Archivi Vaticani ed è quella che il 7 febbraio 1615 venne inviata all’Inquisizione, indirizzata al domenicano Niccolò Lorini.
Poiché finora la versione originale della lettera si credeva perduta, è rimasta aperta la questione se i toni usati da Galileo fossero effettivamente duri come l’Inquisizione sosteneva. Il ritrovamento dell’originale potrà ora rispondere a questa domanda aperta da secoli.
Il Fatto 22.9.18
La scappatella dell’evoluzione: sesso tra i Sapiens e i Neanderthal
Giorgio Manzi racconta l’incontro tra due specie differenti nel tardo Pleistocene: “Tutte le popolazioni, tranne quelle africane, ne portano ancora oggi le tracce”
La scappatella dell’evoluzione: sesso tra i Sapiens e i Neanderthal
di Giorgio Manzi


Ormai è sulla bocca di tutti: qualche scappatella c’è stata. Anzi, più di qualcuna. Parliamo di eventi preistorici che iniziamo ormai a conoscere talmente bene da poterli quasi considerare “storia”. Ci riferiamo a incontri sessuali di un tempo remoto, a incroci genetici e ibridi fertili, dei quali molti di noi portano ancora le tracce nei propri cromosomi. Ma vediamo meglio. Cominciamo col dire che nel tardo Pleistocene, i Neanderthal – cioè le popolazioni della specie estinta Homo neanderthalensis – occupavano tutta l’Europa e parte dell’Asia. In quello stesso periodo, la nostra specie (Homo sapiens) era comparsa in Africa e si andava diffondendo anche fuori da quel continente. Quando le due specie entrarono in competizione ecologica per gli stessi spazi, in Asia occidentale e poi in Europa, i Neanderthal erano già duramente colpiti dagli effetti dell’ultima glaciazione e accusarono la presenza dei nuovi venuti.
Alla fine, intorno a 40 mila anni fa, i Neanderthal si estinsero.
È una storia di grande fascino. Ci sarei voluto essere (come osservatore impalpabile, sia chiaro) quando le due specie umane, differenti ma strettamente imparentate, si confrontarono per decine di millenni su territori a est e a nord del Mediterraneo. Nel corso della storia è successo innumerevoli volte che popolazioni di diverse etnia, regime economico e risorse tecnologiche abbiano interagito, spesso anche brutalmente, ma si è sempre trattato di popolazioni della stessa specie. Là invece, nel tardo Pleistocene, in un orizzonte geografico che dal Sinai si apre a ventaglio fra lo stretto di Gibilterra e la Mongolia, a incontrarsi e competere per le risorse furono popolazioni di specie differenti. Ce lo dice la morfologia dei loro resti scheletrici e ce lo conferma il loro Dna, che da una ventina d’anni abbiamo imparato a estrarre anche dai fossili.
Sappiamo anche che già verso 100 mila anni fa, gruppi di esseri umani anatomicamente moderni ormai traboccavano fuori dall’Africa. I loro scheletri vengono dal territorio di Israele, proprio in corrispondenza dell’unica via di terra dall’Africa verso l’Eurasia. Da sempre, quel territorio rappresenta un crocevia di migrazioni e diaspore umane. Lì ci deve essere stato un prolungato periodo di coesistenza con le popolazioni levantine dei Neanderthal. Fu quasi una “fase di studio”; come fosse il primo tempo di una partita di calcio fra due squadre forti e blasonate, che saggiano la forza dell’avversario. Fu proprio in questo lasso di tempo e proprio lì in Vicino Oriente che le due specie si incrociarono geneticamente. I dati a nostra disposizione suggeriscono che l’ibridazione sia avvenuta solo in quelle determinate circostanze, visto che tutte le popolazioni umane dell’intero pianeta, tranne quelle africane, ne portano ancora oggi le tracce e queste non sono maggiori nelle altre aree dove i Neanderthal si confrontarono a lungo con i nostri antenati.
Africani a parte, siamo tutti figli di quei gruppi umani di origine africana che nel tardo Pleistocene passarono per la medesima strettoia geografica. Se poi si analizza accuratamente il nostro Dna si scopre che quello dei Neanderthal con cui ci siamo incrociati ha contribuito con bassissime percentuali al genoma degli esseri umani attuali. I geni che sono passati da una specie all’altra sembra che all’inizio siano stati molto più numerosi, ma una gran parte si è diluita nelle nostre popolazioni, mentre ci espandevamo sempre più e il Dna esogeno contenuto nelle nostre cellule si andava per così dire polverizzando.
Va inoltre sottolineato che l’ibridazione avvenne tra esseri umani che appartenevano a specie distinte, anche se affini. Neanderthal e uomini moderni provenivano da contesti genetici ai limiti della compatibilità biologica, tanto che i discendenti diretti delle loro unioni avrebbero avuto una ridotta fertilità, particolarmente gli ibridi maschi. Questo lo deduciamo dal cromosoma X di Homo Sapiens, che porta una modesta dose di Dna Neanderthal (un quinto circa) rispetto ad altre parti del genoma. Sarebbe stato “ripulito” a ogni generazione proprio a scapito della frazione maschile.
Tutto ciò ci ricorda le storie raccontate da Björn Kurtén, nel suo romanzo preistorico del 1978, La danza della tigre, dove immaginò ibridi che erano per certi aspetti più vigorosi, ma almeno parzialmente sterili. Fu visionario, anzi preveggente, visto che la paleogenetica ha iniziato solo diversi decenni dopo a scoprire le tracce fossili di quelle scappatelle. Da rileggere.
Il Fatto 22.9.18
Messina, stato d’emergenza (per il terremoto del 1908)
In seimila vivono ancora nelle baraccopoli “ereditate” dal post-sisma
Messina, stato d’emergenza (per il terremoto del 1908)
di Giuseppe Lo Bianco


Non c’è stato solo il terremoto del Belice del 1968 a lasciare baraccati dopo 50 anni, ma anche quello di Messina del 1908, però nessuno, in Sicilia, se ne era accorto. Così, a 110 anni dal sisma che devastò le sponde dello Stretto provocando oltre 120 mila morti, la giunta regionale di Nello Musumeci, su richiesta del sindaco Cateno De Luca, ha deliberato lo stato di emergenza “socio sanitaria ambientale” determinato dagli oltre 6000 abusivi delle favelas messinesi a rischio di ammalarsi per l’amianto dei tetti. Per i nipotini dei terremotati la Regione è pronta a battere cassa con il governo nazionale per ottenere i 35 milioni di euro per le bonifiche e i nuovi alloggi. Sembra di stare su Scherzi a parte, ma nella città che per 34 anni ha ospitato la società Stretto di Messina, tuttora in liquidazione, per gestire un ponte che non c’è, tutto viene preso terribilmente sul serio. In Sicilia la macchina è già partita, De Luca ha avviato lo sgombero dei 6400 baraccati e Musumeci ha tuonato in una nota: “La baraccopoli di Messina costituisce una vergogna per la politica nazionale e regionale. La delibera della richiesta di dichiarazione del gravissimo stato di emergenza igienico-sanitaria-ambientale è per noi un atto dovuto e sentito. Ora la palla passa a Roma’’. Su come impiegare i soldi di Palazzo Chigi a Palazzo d’Orleans hanno le idee chiare: “L’Agenzia per il risanamento – scrive Musumeci – deve essere lo strumento più agile per cancellare questa pagina disonorevole’’. E “il Piano di lavoro della Protezione civile regionale e prevede, prima, la bonifica delle aree e successivamente la demolizione delle baracche. Secondo la stima degli interventi effettuata dal Comune, il costo complessivo dovrebbe essere di circa 35 milioni di euro. Nel contempo l’amministrazione comunale sta provvedendo a reperire gli alloggi (temporanei e definitivi) per gli oltre duemila nuclei familiari’’. E i dati pubblicati da La Gazzetta del Sud indicano 2487 immobili tra case, box, depositi, stalle, negozi da demolire.
In realtà i baraccati di oggi hanno poco a che vedere con i terremotati di 110 anni fa: a Messina non c’è più una sola baracca costruita per ospitare i 40 mila sopravvissuti del sisma del 1908, e negli anni attorno alla città, su oltre 230 mila metri quadrati delle borgate di Annunziata, Giostra-Ritiro-Tremonti, Camaro, Fondo Saccà, Bordonaro-Gazzi-Taormina e Santa Lucia sul modello di quelle del terremoto sono sorte baracche, box, depositi, magazzini, stalle di lamiera tramandate di famiglia in famiglia dall’occupazione abusiva, nonostante il muro improvvisato di mattoni e l’otturazione dello scarico dei bagni sperimentati dallo Iacp per impedirne l’occupazione. E se oggi fanno paura i rischi di asbestosi, la malattia dell’amianto, denunciati in Europa dall’europarlamentare del Pd Michela Giuffrida, che a Strasburgo ha chiesto l’intervento del commissario alla Salute, Vytenis Andriukaitis, “per verificare se vi siano le condizioni per un intervento urgente”, finora gli accertamenti sanitari avrebbero rilevato un solo caso di malattia dell’amianto.
La Stampa 22.9.18
Leggi razziali, ottant’anni dopo arrivano le scuse delle università
“Diversi”: il documentario arriva nei cinema l’11 ottobre e il 23 va in onda su Sky Arte che con Tangram ha collaborato alla produzione
di Ariela Piattelli


C’è un’immagine, un disegno, che può riassumere la spietatezza e l’effetto devastante che ebbero le leggi razziali sull’Italia, sul mondo accademico, sulla scuola, sugli ebrei. E’ un frame del film documentario “1938. Diversi” diretto da Giorgio Treves. C’è un bambino che siede solo e afflitto nel grande cortile della scuola da cui è stato appena cacciato, in un silenzio palpabile, circondato da alberi spogli. Chi non è con lui ha obbedito o è rimasto indifferente, come spiegano poi i testimoni e gli storici ascoltati da Treves nel documentario presentato al festival di Venezia, dove ha vinto il HRNs Award 2018, il Premio Speciale per i Diritti Umani e che affronta il tema delle leggi razziali in tutti i suoi aspetti, dalla loro genesi, la propaganda antiebraica, fino alle conseguenze, l’esclusione e poi le deportazioni. Il bambino dell’animazione è Roberto Bassi, che nel ’38 era iscritto alla scuola elementare Armando Diaz di Venezia.
«Prima ci raccontarono che esistevano le razze», poi un giorno la maestra lo cacciò dalla classe. «Mi ritrovai solo, nel cortile della Diaz e scoppiai a piangere» ricorda Bassi, ripercorrendo commosso i corridoi della scuola e le emozioni di allora. I “provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, controfirmati il 5 settembre del 1938 da Vittorio Emanuele III a Pisa, nella tenuta di San Rossore, già firmati da Benito Mussolini e dall’allora ministro all’educazione nazionale Giuseppe Bottai, sono il primo atto della campagna antisemita attuata dal fascismo.
I provvedimenti decretavano l’allontanamento dei docenti ebrei dalle università, dalle accademie, e l’espulsione di insegnanti, presidi e alunni di religione ebraica da tutte le scuole d’Italia. Le conseguenze di quei sette brevi articoli furono devastanti: 448 docenti vennero allontanati dagli atenei, 727 studiosi cacciati dalle accademie, 279 tra presidi e professori dalle scuole medie, altre centinaia dalle elementari, e circa 7.000 studenti, tra scuole e università. «L’esclusione degli ebrei dalle università conferma gli obiettivi perseguiti dal regime. L’eliminazione progressiva di tutti gli ebrei dai gangheri della nazione.» e ancora «Ha perduto qualcosa la nostra cultura? No. Perché quei 98 professori erano ebrei. Non erano italiani.»: sono citazioni di Giuseppe Bottai e Giorgio Almirante, interpretate nel film dall’attore Alessandro Federico, che assieme a Stefania Rocca e Roberto Herlitzka, danno voce ai carnefici e alle vittime che non ci sono più, e che si alternano alle testimonianze di chi quelle infami leggi le subì, come la Senatrice Liliana Segre, l’avvocato torinese Bruno Segre, Alessandro Treves, Rosetta Loy ed altri ancora.
Giovedì in un altro cortile, a pochi chilometri da San Rossore, nel Palazzo della Sapienza dell’Università di Pisa, si è tenuta la “Cerimonia del ricordo e delle scuse”: il rettore dell’università pisana Paolo Mancarella ha pronunciato le scuse alla Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, a nome dell’intera accademia italiana che ottant’anni fa ha aderito, applicato le leggi razziali, ed ha epurato docenti e professori dagli atenei di tutto il Paese, lasciando i loro posti agli usurpatori; pochi tra loro dopo la Liberazione hanno restituito le cattedre ai colleghi ebrei epurati. E’ la prima volta che l’università italiana fa i conti con le sue colpe e responsabilità, in prima fila alla cerimonia rettori da tutti gli atenei. E se a qualcuno queste scuse sono risultate troppo facili o paradossali poiché postume, così gli ha risposto Liliana Segre: «A coloro che credono che quest’atto di scuse sia tardivo, rammento che poteva non essere mai compiuto».
Il Fatto 22.9.18
Arezzo, le morti e il tempo ormai scaduto
di Tomaso Montanari


Morire di patrimonio culturale. È terribilmente noto, oscenamente ovvio: in Italia di lavoro si continua a morire. Ma nelle due morti dell’Archivio di Stato di Arezzo c’è qualcosa in più: c’è la fotografia estrema e inquietante del lavoro culturale in Italia. Un comparto dove la dignità del lavoro è ancor più umiliata, dove la sicurezza è spesso del tutto ignorata.
Saranno naturalmente le indagini a dire cosa è successo all’impianto antincendio di Arezzo, a spiegare perché l’argon si sia riversato non nei condotti, ma nella stanza delle bombole, trasformandola in una letale camera a gas per Filippo Bagni e Paolo Bruni. Dalle prime verifiche, l’impianto risulterebbe verificato nei tempi prescritti, e la manutenzione regolarmente eseguita. Ma bisognerà capire quali fossero le condizioni delle condutture, e di tutta la struttura. Perché chiunque frequenti le biblioteche, gli archivi pubblici e anche gli scavi e i musei (persino quelli più famosi), sa bene in quale stato di prostrazione materiale essi si trovino: uno stato – scrive la Cgil Funzione Pubblica – “derivante dai mancati investimenti, dai tagli ai bilanci che hanno inciso sulle spese di manutenzione ordinaria, e dalla insostenibile leggerezza con la quale si bypassano le misure di sicurezza, in nome delle politiche di valorizzazione”. Il sindacato rivendica: “Abbiamo denunciato, inascoltati, gli effetti di politiche che hanno fortemente indebolito i cicli di tutela e manutenzione del nostro patrimonio culturale, non dobbiamo aspettare i morti sul lavoro perché questo tema diventi centrale nella coscienza collettiva”.
Questo è il punto: il patrimonio culturale sconta decenni di oblio, definanziamento, malcelato disprezzo da parte della classe dirigente del Paese (la cosiddetta élite che oggi si vorrebbe difendere). La stagione renzian-franceschiniana non ha cambiato di una virgola questo triste andamento, lo ha solo nascosto dietro una cortina fumogena di storytelling e di marketing politico che ha indotto una stampa servile a parlare di “rilancio” o addirittura di “rinascita” del patrimonio culturale: tutte balle, purtroppo.
Era stata indettaper il prossimo 6 ottobre, a Roma, ben prima del disastro di Arezzo, una grande manifestazione per la cultura e il lavoro che oggi assume un’importanza maggiore. Il larghissimo fronte di lavoratori della cultura che l’ha indetta ha denunciato che “la riforma culturale, promossa dai precedenti governi di ogni colore, si è servita di una stampa compiacente per sciorinare dati relativi ad aumenti entusiasmanti di visitatori e incassi, glissando sul netto peggioramento delle condizioni professionali, sulla mortificazione delle competenze, sull’uso indiscriminato di volontari, sulle continue richieste di lavoro gratuito, sul progressivo smantellamento di istituzioni storiche, sull’utilizzo improprio di teatri, siti archeologici e sale museali per eventi mondani o privati che nulla hanno a che vedere con la cultura”. La conseguenza è che “ogni anno migliaia di giovani professionisti della cultura in Italia si trovano costretti a scegliere tra stipendi indecenti e vergognosi, tirocini di sfruttamento, stage senza prospettive, servizio civile, contratti a chiamata, volontariato, rimborsi spese o il cambiare mestiere, o l’estero”.
Si chiederà, dalla piazza, una radicale inversione di rotta.
Alla prima manifestazione di piazza per la cultura, il 7 maggio 2016, il Movimento 5 Stelle partecipò con un suo striscione e una folta rappresentanza di parlamentari. Oggi il Movimento ha conquistato il ministero per i Beni culturali: tra incredibili riconferme di ceto dirigente franceschiniano, e inconcepibili battute sull’abolizione della storia dell’arte dalla scuola, si stenta a vedere un solo segno di sostanziale cambiamento. Ma le morti di Arezzo, e il generale collasso del patrimonio, ci dicono che ormai il tempo è scaduto.
Corriere 22.9.18
L’accordo vaticano-cina un successo di francesco
di Andrea Riccardi

La firma dell’accordo fra Santa Sede e Repubblica popolare cinese è ormai certo. Mons. Antoine Camilleri, sottosegretario vaticano per i rapporti con gli Stati, sottoscrive in questi giorni il primo testo in comune tra due «potenze» così asimmetriche, la Cina e la Santa Sede, le quali non hanno mai avuto rapporti ufficiali dal 1949, quando Mao Zedong proclamò la Repubblica Popolare.
Nel 1951, l’internunzio vaticano a Pechino, Riberi, che non aveva avuto alcuna relazione con le nuove autorità comuniste, dovette lasciare il Paese e si recò a Hong Kong. Cominciò un lungo inverno tra Pechino e il Vaticano, considerato dai cinesi, nel clima della Guerra Fredda, una forza straniera, occidentale e imperialista.
Conseguente a questa visione, fu la creazione dell’Associazione patriottica cattolica cinese nel 1958 per organizzare i cattolici nel nuovo quadro politico. Così, sessant’anni fa, cominciarono le ordinazioni di vescovi non nominati né riconosciuti dal Vaticano, in genere preti che credevano di dover assumere quella posizione per salvare il salvabile.
Nasceva quella che sarebbe stata definita la «Chiesa patriottica», che conservava edifici e luoghi di culto, aperti ai fedeli. D’altra parte si è parlato di una «Chiesa clandestina», con vescovi riconosciuti da Roma, che credevano di dover resistere al controllo governativo. Tra i due mondi, i patriottici e i clandestini, non è avvenuta una biforcazione netta, ma ci sono stati contatti e sovrapposizioni: pur nel quadro di un’unica Chiesa in Cina, il cattolicesimo risulta diviso.
Il primo risultato dell’accordo tra Cina e Vaticano è unificare l’episcopato in unione con il Papa: si crea così una guida unitaria per una Chiesa, sfidata dalla secolarizzazione che tocca in specie i cattolici più giovani, dall’inurbamento, dalle Chiese neoprotestanti, molto attive e organizzate spesso in comunità domestiche. È un grande successo, perché non c’è al mondo una Chiesa così divisa come quella cinese e una divisione tra cattolici non è mai durata così a lungo. L’unificazione è la premessa per un nuovo slancio del cattolicesimo in Cina.
Un altro significativo risultato è che il governo cinese prende sul serio la Santa Sede come interlocutore, anche per risolvere una questione religiosa tra cinesi. In fondo, la Cina, all’apogeo della sua forza politica e economica, assorbita da tante problematiche geopolitiche, avrebbe potuto considerare la diplomazia del Papa come «quantité négligeable». Così non è stato ed oggi il rappresentante del Papa entra a Pechino per la porta principale. Non più negoziati segreti, ma un accordo ufficiale che riconosce dignità alla Santa Sede e al cattolicesimo cinese. È un successo di papa Francesco e del suo segretario di Stato, Parolin, da tempo impegnato nelle questioni cinesi.
Non sono mancate critiche ai negoziati e all’accordo. L’accusa principale è che si consegna il cattolicesimo al potere politico e, con un accordo parziale, si svende una Chiesa che ha avuto tanti martiri.
È la consapevolezza delle sofferenze, assieme alla necessità di affrontare nuove sfide, che ha spinto il Vaticano su questa via, conscio della delicatezza della situazione e del sacrificio di tanti cattolici nel passato. Entrare in un’altra stagione forse non sarà facile per tutti i cattolici. Ma la Chiesa vuole trovare nuovi spazi, in una società divenuta molto più plurale e cangiante che in passato. La politica dell’accordo è quella dei «piccoli passi».
Significativamente il testo firmato non sarà reso pubblico. L’accordo individua un meccanismo, considerato provvisorio e da rodare, per la nomina dei vescovi. È un fatto decisivo per la Chiesa, su cui si è trovato un compromesso: comunità cattoliche cinesi, governo e Santa Sede avranno, tutte e tre, un ruolo nel processo di scelta. Il Papa conserva la possibilità di rifiutare la nomina. Sono meccanismi utilizzati in passato. I governi spagnoli e portoghesi, con il «patronato regio», sceglievano i vescovi dei loro domini, che poi il Papa istituiva. Nella Cina del passato, molti affari religiosi erano gestiti dalla Francia. Anche la Spagna di Franco e alcuni Paesi latinoamericani sceglievano i vescovi.
L’accordo non conclude un processo, ma apre una strada, che esigerà un costante rapporto negoziale tra Vaticano e Cina. A questo fine, una rappresentanza vaticana stabile a Pechino aiuterebbe i contatti e l’individuazione di candidati all’episcopato adatti, pastorali e accettati dalla Cina e dai cattolici cinesi. Resta il fatto storico che l’accordo di Pechino, nonostante le discussioni che susciterà, fa cadere uno degli ultimi muri della Guerra Fredda.
La Stampa 22.9.18
La resa dell’America
Le mani di Pechinosull’Oceano Pacifico
Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin al summit economico di Vladivostok.
Le isole artificiali costruite dalla Cina negli atolli del Mar Meridionale Cinese
di Paolo Mastrolilli


Pechino ha ormai preso il controllo del Mar Cinese Meridionale. Se si esclude l’ipotesi di una guerra diretta contro gli Usa, in tutti gli altri scenari i suoi militari avrebbero la meglio. Questo avvertimento lo aveva lanciato nel maggio scorso l’ammiraglio americano Philip Davidson, durante le audizioni tenute al Congresso prima di assumere la guida dell’Indo-Pacific Command, e forse spiega meglio di ogni altra analisi la gravità della sfida in corso in quella regione, e nel mondo. Un domino che vede la Cina minacciare la supremazia costruita dagli Usa dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’aiuto destabilizzante della Russia.
Il presidente Trump finora ha concentrato l’attenzione sui rapporti commerciali con Pechino, un po’ perché sono oggettivamente sbilanciati, un po’ perché l’aggressività economica della Repubblica popolare è strategica, un po’ perché i deficit commerciali sono la sua ossessione, e un po’ perché ciò lo aiuta a conquistare voti tra i colletti blu degli stati americani più penalizzati dalla globalizzazione. In questo contesto ha abbandonato il trattato commerciale TPP, che forse sarà stata una buona notizia per la sua base, ma ha indebolito la percezione degli Usa fra i tradizionali alleati del Pacifico e ha aperto spazi proprio per il rivale Xi. La sfida però è assai più ampia di così, come dimostrano le franche parole di Davidson.
Il «New York Times» nei giorni scorsi ha volato su un Poseidon che pattuglia il Mar Cinese Meridionale, e ha sperimentato l’aggressività di Pechino. Appena l’aereo si è avvicinato al Mischief Reef, un piccolo atollo, dalla radio è arrivato l’avvertimento dei militari della Repubblica popolare: «Avete violato la sovranità cinese, la nostra sicurezza e i nostri diritti. Dovete andare via immediatamente e restare lontani». Il Poseidon ha proseguito la sua missione, perché in realtà si trovava nello spazio aereo internazionale, e il Michief Reef è più vicino alle Filippine che al territorio di Pechino. Questo episodio però dimostra la pericolosità della sfida.
La Cina ha completato la militarizzazione di sette isole nell’arcipelago delle Spratly, creando atolli dal nulla per trasformarli in basi. Così si è messa in condizione di minacciare direttamente Manila. Gli altri paesi che hanno pretese territoriali nella regione, cioè Filippine, Vietnam, Taiwan, Malaysia e Brunei, non sono abbastanza forti per resistere, e quindi gli americani continuano le missioni aeree e navali per mostrare la loro presenza e affermare il principio della libertà di navigazione. L’ammiraglio Davidson però ha ammesso che gli Usa potrebbero sconfiggere la Repubblica popolare se nel Mar Cinese Meridionale scoppiasse una guerra, ma in tutti gli altri scenari Pechino ha ormai il controllo. Se aggredisse i vicini ci sarebbe poco da fare, a meno di scatenare un confitto diretto.
La sfida però è globale. Washington ha appena imposto sanzioni ai militari della Repubblica popolare, perché hanno acquistato 10 caccia russi Sukhoi Su-35 e diversi missili S-400, violando le misure adottate contro Mosca dopo l’invasione della Crimea. Xi però è schierato con Putin su questo punto, per evitare ingerenze nei propri confini, e quindi sfida Trump perché gli servono le armi, e perché vuole contestare l’ordine internazionale promosso dagli Usa. Queste divergenze hanno dimensioni politiche e pratiche, come dimostra il fatto che i militari cinesi hanno partecipato con i colleghi russi alle grandi manovre Vostok appena condotte in Siberia, mentre gli americani li hanno “disinvitati” dalla loro esercitazione “Rim of the Pacific”. Un quadro in cui i inserisce anche la questione nordcoreana, dove Trump spera di ottenere un successo che allontani Pyongyang da Pechino, mentre Xi potrebbe avere interesse a deragliare il dialogo, se andasse contro le sue ambizioni geopolitiche.
La sfida cinese dunque si gioca su almeno tre fronti. Quello politico, che passa anche per l’intesa con la Russia; quello economico, che punta ad imporre la sua supremazia in Asia, ma pure ad espandersi in Africa e verso l’Europa, attraverso il piano Belt and Road; e quello strategico, mostrando i muscoli soprattutto nell’area del Pacifico. La risposta dovrebbe venire da Usa, Giappone e alleati occidentali, se saranno capaci di elaborare una strategia comune.
Il Fatto 22.9.18
La Cina compra armi russe e Trump s’arrabbia
Sanzioni - Washington prende di mira il dipartimento degli acquisti dell’esercito cinese
di Giampiero Gramaglia


Come ti prendo due piccioni – e grossi, la Russia e la Cina – con una fava (le sanzioni, che paiono ormai essere lo strumento di politica estera preferito da Donald Trump e dal suo staff). Certo, ci sarebbe da calcolare l’effetto domino e pure l’effetto boomerang, ma Trump e i suoi fidi non sono molto dotati nel guardare lontano. Oggi, battono un pugno sul tavolo e mettono un dito nell’occhio a Putin e Xi; domani, si vedrà.
La mossa delle sanzioni può anche avere motivazioni militari: Russia e Cina hanno appena dato vita alle più imponenti manovre militari congiunte in Siberia dalla fine della Guerra fredda: le Vostok-2018 avrebbero coinvolto – sulle cifre, l’intelligence occidentale avanza – oltre 300 mila uomini. Al confronto, la risposta della Nato sarà poca cosa: in Norvegia, alla fine di ottobre, esercitazioni impegneranno 40.000 militari di 30 Paesi alleati o loro partner.
L’annuncio delle sanzioni è stato fatto giovedì, a neppure 72 ore dall’introduzione di nuovi dazi sull’export cinese negli Stati Uniti: le misure ‘puniscono’ l’ufficio acquisti dell’esercito cinese ‘colpevole’ di avere acquisito dalla Russia 10 caccia Su-35 nel 2017 e sistemi anti missilistici terra-aria S-400 nel 2018. Il dipartimento di Stato motiva la decisione con la violazione delle sanzioni contro Mosca per le interferenze nelle presidenziali Usa 2016, quelle che Trump ha sempre negato (fin quando non è stato costretto ad ammetterle) e per l’annessione della Crimea e la guerra nell’Est dell’Ucraina. Pechino non ha mai fatto proprie le sanzioni americane.
Nella lista nera degli Stati Uniti, sono così entrati l’Equipment Development Department (Edd) dell’esercito cinese, il suo direttore, Li Shangu, e 33 altre persone: è una puntura di spillo, ma desta interrogativi e irritazioni. I commenti da Pechino e da Mosca non si sono fatti attendere e sono stati piccati, specie da parte russa, perché c’è la preoccupazione che gli strali Usa possano fare scappare altri clienti: gli S-400 si vendono bene. Nel breve termine, c’è la curiosità di vedere come Washington si comporterà nei confronti di Paesi amici e alleati, tipo la Turchia e l’Arabia saudita, che sono pure interessati a comprare dalla Russia gli S-400, evoluzione di quegli S-300 che negli Anni Ottanta spaventarono l’Occidente e l’indussero a dotarsi degli euromissili.
Le autorità di Ryad hanno già espresso l’auspicio di non finire nel mirino di Washington, nonostante la loro cooperazione militare “con la Russia stia crescendo”, ammette l’ambasciatore a Mosca Rayed Krimly. Durante la visita in Russia del re saudita Salman bin Abdulaziz Al Saud, nell’ottobre del 2017, vennero firmati numerosi accordi di cooperazione militare: quello che riguarda gli S-400 è in bilico.
Per Mosca, Washington “sta giocando col fuoco”, senza capire che la situazione può “diventare pericolosa”. Fronte commerciale, il Cremlino parla di “concorrenza sleale”. E, fronte politico, auspica che il pugno di ferro di Trump “spinga altri Paesi ad affrancarsi dagli Stati Uniti”. Pechino, dal canto suo, protesta “indignata”. Al di là dell’episodio contingente, i comportamenti dell’Amministrazione statunitense innescano nuove dinamiche sullo scacchiere internazionale e sembrano quasi incoraggiare un avvicinamento tra Cina e Russia, che, sulla carta, dovrebbe essere l’ultima cosa voluta dagli Stati Uniti.
il manifesto 22.9.18
La memoria e il futuro palestinese corrono da Sabra e Shatila a Gaza
Libano/Gaza. Ieri a Shatila le commemorazioni della strage di 36 anni fa. A Gaza un palestinese ucciso dall'esercito israeliano durante le nuove manifestazioni della Marcia del Ritorno
di Michele Giorgio


BEIRUT «Stefano sarebbe stato felice di vivere una giornata come questa, avrebbe visto che ‎i suoi sforzi sono stati ripagati. E lo stesso vale per Maurizio‎». Schiva di natura, ‎Antonietta Chiarini quasi si nasconde dietro lo striscione del “Comitato per non ‎dimenticare Sabra e Shatila” mentre risponde alle nostre domande. Il suo pensiero ‎va al fratello, Stefano Chiarini, giornalista e inviato in Medio oriente per il ‎manifesto scomparso prematuramente nel 2007, che assieme a Maurizio Musolino, ‎altro giornalista poco più che cinquantenne deceduto due anni fa, e ad amici e ‎compagni decise di tenere viva la memoria delle circa 3mila vittime del massacro ‎di Sabra e Shatila compiuto nel 1982 dalle milizie libanesi di destra con ‎l’appoggio dell’esercito israeliano che in quei giorni circondava i due campi ‎profughi palestinesi alla periferia di Beirut. Ci troviamo proprio nel memoriale ‎allestito nel campo di Shatila grazie all’impegno di Stefano. Palestinesi, libanesi e ‎decine di cittadini stranieri membri di delegazioni giunte dell’Europa e ‎dall’Oriente, partecipano alle commemorazioni di quel massacro di civili innocenti ‎per il quale nessuno ha mai pagato.‎
 Antonietta Chiarini, come tutti gli anni, assieme ad altre decine di italiani, è ‎parte della delegazione inviata a Beirut del “Comitato per non dimenticare Sabra e ‎Shatila”. Un viaggio per ricordare il passato ma che guarda anche al futuro dei ‎palestinesi, quelli sotto occupazione militare israeliana o che sono chiusi da 70 ‎anni in campi profughi. In particolare al loro diritto al ritorno nella terra d’origine ‎sancito dall’Onu ma minacciato da vecchie e nuove politiche degli Stati uniti e di ‎Israele che ora prendono di mira l’agenzia dei rifugiati Unrwa e anche dalle lotte ‎fra le varie fazioni politiche palestinesi. Tema su quale interviene Antonietta ‎Chiarini: ‎«Spero che le differenze tra le varie fazioni e partiti palestinesi possano ‎diventare una ricchezza per trovare una linea comune che permetta loro di avere la ‎forza di raggiungere il traguardo della libertà e della realizzazione del diritto al ‎ritorno». Sull’unità nazionale insiste anche Bassam Saleh, segretario del ‎movimento Fatah in Italia. «Shatila, Gaza, Khan al Ahmar (un villaggio beduino ‎in Cisgiordania che Israele intende demolire, ndr) sono tutti simboli della lotta dei ‎palestinesi per i loro diritti legittimi e che necessariamente deve tornare ad essere ‎unitaria, così come lo era in passato».‎
 Beirut ieri appariva vicina come non mai alla Striscia di Gaza. Nel giardinetto ‎del memoriale di Sabra e Shatila i presenti si scambiavano notizie e opinioni sulle ‎manifestazioni previste a Gaza per il 26esimo venerdì della Grande Marcia del ‎Ritorno cominciata il 30 marzo. Almeno 12mila abitanti di Gaza hanno ‎manifestato lungo le linee di demarcazione contro la chiusura israeliana. La ‎protesta è ripresa con forza in conseguenza del fallimento, ormai evidente, delle ‎trattative in corso al Cairo da settimane per un accordo di cessate il fuoco a lungo ‎termine tra Israele e il movimento islamico Hamas. Colloqui volti anche ad ‎allentare il blocco israeliano del piccolo territorio palestinesi. Le manifestazioni ‎sono destinate a crescere nelle prossime settimane e la risposta di Israele potrebbe ‎sfociare in una ampia offensiva militare su Gaza. Negli ultimi giorni almeno sei ‎palestinesi sono stati uccisi. Ieri la settima vittima, colpita dal fuoco dei soldati ‎israeliani in una giornata lungo le linee di demarcazione che ha vissuto momenti ‎drammatici nella fascia orientale della Striscia, in particolare all’altezza di al Burej, ‎Johr a Dik e Khan Yunis. Qui i manifestanti sarebbero riusciti, sia pure per pochi ‎secondi, a superare le barriere per poi rientrare a Gaza sotto il fuoco dell’esercito ‎che ha anche sparato su un posto di osservazione di Hamas dopo il ferimento di ‎un militare per lo scoppio di un ordigno. In serata il bilancio provvisorio delle ‎manifestazioni era, oltre al palestinese ucciso, di circa 300 feriti di cui 54 colpiti ‎da proiettili. Dal 30 marzo sono stati uccisi a Gaza almeno 183 palestinesi.‎
Il Fatto 22.9.18
“Abbiamo dato troppa voce ai razzisti. Ormai le loro idee ci sembrano normali”
Sunjeev Sahota - Il 37enne anglo-indiano oggi a Pordenonelegge con “L’anno dei fuggiaschi”
di Francesco Musolino


Salman Rushdie e la temutissima critica del New York Times, Michiko Kakutani, sono concordi: Sunjeev Sahota è un talento cristallino. Classe ’81 e sangue inglese, con L’anno dei fuggiaschi è stato finalista al Man Booker Prize, già in corso di pubblicazione in quindici Paesi. Sahota è fra gli ospiti internazionali di PordenoneLegge (oggi incontra i lettori presso l’Auditorium della Regione alle 17.30), raccontando le vicissitudini di Randeep, Avtar e Tochi, tre ragazzi indiani alla ricerca di un futuro in Inghilterra, una terra promessa in cui poter ricominciare daccapo. Ma il loro karma non muta e faranno i conti con lavori massacranti da irregolari, brutali umiliazioni e un cinismo contagioso. La forza di Sahota è proprio la capacità di raccontare i lati nascosti di ogni migrazione, ciò che siamo disposti a fare pur di sentirci finalmente liberi, rischiando di smarrire l’umanità.
Tre giovani ragazzi lasciano l’India pieni di speranza. Ma non ci sarà nessun lieto fine ad attenderli…
Ciascuno compie un proprio percorso. La nuova realtà costringe Randeep a riconoscere la violenza che porta dentro di sé, una presa di coscienza che sancisce il passaggio all’età adulta. Tochi, invece, finisce per abituarsi alla quotidianità massacrante, la vita per lui è una marcia inesorabile. Avtar è il personaggio che più di tutti mi spezza il cuore: inizialmente è il più determinato a lavorare senza risparmiarsi ma si indurisce rendendosi conto della distanza che separa le sue aspettative dalla realtà, diventando rancoroso e cinico.
Oggi si definirebbe un cittadino inglese pienamente integrato?
Non saprei dire cosa significa davvero ‘sentirsi inglese’. Mi sento come un uomo, un marito, un padre, un figlio, un amico e uno scrittore, forse questo è il mio modo di dire che non provo un forte senso di appartenenza nei confronti di una nazione. Il mio posto è alla mia scrivania o con la mia famiglia.
Cosa accadrà con la Brexit?
Il Regno Unito, per molto tempo, è stato il bambino capriccioso dell’Unione europea. Spero che la Brexit, se diverrà realtà, permetta all’Europa di sbocciare appieno.
Nel frattempo si moltiplicano i casi di razzismo in Inghilterra – e in Italia – fra pregiudizi e populismo. Cosa sta succedendo?
È stata data voce a razzisti, ai fascisti e ai suprematisti bianchi. Le loro idee vengono dibattute invece di essere denigrate, così facendo quelle opinioni vanno incontro a un processo di normalizzazione, entrano di diritto nella cultura mainstream. Sono molto preoccupato per l’avvenire.
Raccontando le storie di Randeep, Avtar e Tochi, si è chiesto se sia davvero possibile bloccare le migrazioni?
Migrare rientra tra i diritti umani, accade dalla notte dei tempi. Credo non ci sia alcun modo per fermarle, a meno che i paesi d’arrivo smettano di essere considerati una meta allettante per i potenziali migranti. Ma non accadrà.
Spesso i libri di area anglofona si concentrano su questioni di identità culturale. Come mai lei ha scelto di sottolineare le condizioni economiche disperate che molti lavoratori migranti devono affrontare?
La mia idea è che gli scrittori debbano scrivere di ciò che conoscono (o di ciò che pensano di conoscere). Le migrazioni appartengono alla storia recente della mia famiglia e sono state segnate dal duro lavoro, dal sudore, dalle fabbriche e dallecase con due camere da letto occupate da tredici persone. Volevo conferire dignità a queste storie nascoste, non limitarmi a riempire uno spazio vuoto su uno scaffale.
La Stampa 22.9.18
Imprenditori, professori e classe media
Ecco come l’estrema destra supera l’Spd
I populisti tedeschi dell’AfD secondo partito davanti ai socialdemocratici. In crisi la leadership di Merkel
di Walter Rauhe


Ricco e frustrato. L’identikit del sostenitore tipo della destra populista va ridisegnato. I vecchi schemi che lo descrivevano come un perdente della globalizzazione, escluso dal benessere e dal mondo del lavoro, non bastano più a spiegare l’esponenziale crescita di consensi a favore dell’Alternative für Deutschland (AfD) fra i cittadini tedeschi. In un nuovo sondaggio pubblicato ieri dalla rinomata agenzia Infratest-Dimap il partito sorpassa per la prima volta i socialdemocratici (al 17%) conquistando quota 18% e affermandosi addirittura come seconda forza politica nel Paese dopo i cristiano-democratici di Angela Merkel scesi al 28%. Crescono i Verdi, anche loro forza definitiva anti-establishment.
Il malcontento nei confronti della grande coalizione e l’erosione della popolarità della Cancelliera sono evidenti quanto drammatici. Rispetto alle elezioni federali di un anno fa i 3 partiti della coalizione hanno perso oltre l’8% dei consensi e oggi non disporrebbero nemmeno più di una propria maggioranza al Bundestag, la Camera bassa del Parlamento.
Il governo appare più che mai spaccato e indebolito dalle controversie in tema di migrazione, dai continui attacchi del ministro degli Interni Horst Seehofer (Csu) a Angela Merkel e dal pasticcio attorno allo scandalo dell’ex capo dei servizi segreti interni Hans-Georg Maassen, prima sollevato dal suo incarico alla guida dell’intelligence per via delle sue simpatie con l’ultradestra, poi promosso a sottosegretario al ministero degli Interni e ora rimesso in di nuovo in discussione dai socialdemocratici che, contrariamente agli impegni presi appena 5 giorni fa, hanno chiesto ieri la sua destituzione anche dalla carica di sottosegretario.
«La destra populista approfitta dell’attuale caos e del fallimento della classe politica e dei suoi rappresentanti», spiega il sociologo dell’università di Düsseldorf Alexander Häusler. «La grande coalizione ha finito per cancellare il confronto politico fra i due poli appiattendo ogni dibattito e privando gli elettori di una vera alternativa. Chi vuole esprimere il proprio dissenso nei confronti del governo non ha spesso altra scelta se non quella della destra populista».
Fondata nel 2013 da un gruppo di economisti euroscettici mobilitati da Bernd Lücke per protestare in prima linea contro i sostegni finanziari della Bce alla Grecia e ad altri Paesi in crisi e per chiedere una fuoriuscita della Germania dall’Eurozona, l’AfD è stata presa in ostaggio dalle correnti ultra nazionaliste, anti-islamiche, xenofobe e anche revisioniste capeggiate dagli attuali leader Alexander Gauland e Alice Weidel. Il primo, un ex deputato della Cdu ed editore del quotidiano di Potsdam «Märkische Allgemeine» che oggi non esita a definire la dittatura nazista come una piccola parentesi storica senza importanza (testualmente: «una cacca d’uccello a confronto della lunga e gloriosa storia tedesca»). Weidel è un’ex analista di Goldman Sachs e consulente aziendale residente in Svizzera dove vive con la compagna di origini cingalesi insieme a 2 figli adottivi, e che descrive gli arabi come «buoni a nulla, accoltellatori, portatori di burqa e nullatenenti» e non ha problemi a marciare a Chemnitz accanto a hooligan e naziskin con il braccio destro alzato per il saluto nazista («solo una piccola bravata»).
Nonostante la forte virata a destra e le posizioni politiche sempre più radicali ed estremiste, la AfD non solo è riuscita ad importare anche nella colta e altrimenti moderata Germania il populismo di destra, ma a mobilitare fasce sempre più grandi dell’elettorato.
«Inizialmente erano effettivamente i disoccupati ed emarginati, soprattutto della Germania orientale a votare AfD», spiega il politologo berlinese Hajo Funke. «Nel frattempo però la destra populista si è ben radicata anche in Germania occidentale e specialmente nelle ricche regioni della Baviera e del Baden Württemberg. Qui non sono ragioni socio-economiche a spiegare il successo dell’AfD».
In queste zone il partito conta fra i suoi sostenitori sempre più membri della classe media, piccoli imprenditori, impiegati, dipendenti pubblici, artigiani, anche insegnanti e professori. «Gente ben qualificata, con un posto di lavoro fisso e un reddito medio alto, che non si sente più rappresentata dalla vecchia classe politica, che soffre di paure socio-culturali, è in cerca di un’identità, di una comunità». Ricchi grazie ad un’economia forte e in costante crescita, ma frustrati da una leadership politica presa dal panico e incapace di reagire alla nuova minaccia del populismo.
Corriere 22.8.18
Pamphlet La stagione dei populisti
Ne «La scopa di don Abbondio», edito da Laterza, il filologo riflette sui moti imprevedibili della storia
Luciano Canfora analizza l’avanzata delle forze anti establishment oggi e nel primo ’900
di Antonio Carioti


Non si fa illusioni sugli istinti della nostra specie. A tutti coloro che, compreso lui stesso, perseguono ideali egualitari, Luciano Canfora indica ostacoli quasi insormontabili che si ergono sulla loro strada: tradizioni antiche, pregiudizi stratificati, ma soprattutto «quel ferino egoismo che costituisce il nerbo della psiche umana». D’altronde se, come scriveva nel Leviatano il filosofo inglese Thomas Hobbes, «la vita dell’uomo è solitaria, povera, sudicia, bestiale e breve» (anche se oggi un po’ meno che nel XVII secolo), è comprensibile che sia molto forte la pulsione di ciascuno ad affermarsi e a procurarsi beni di vario genere a detrimento degli altri.
C’è da perdersi d’animo, da concludere che forse con quel fenomeno atavico bisogna scendere a patti, accettando gli uomini così come sono e cercando di regolarne l’irriducibile individualismo, piuttosto che proporsi di debellarlo. Ma Canfora ricorda anche che il futuro è sempre aperto, che le esigenze di giustizia da cui sono scaturite le diverse rivoluzioni rimangono vive, che nessuna restaurazione riuscirà mai a riportare veramente una società al punto di partenza. E soprattutto che le oscillazioni imprevedibili della storia possono travolgere anche gli assetti apparentemente più solidi.
A questo si riferisce il titolo del suo breve e polemico libro La scopa di don Abbondio (Laterza). Una scopa che nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni era la peste, evento cataclismatico per eccellenza. Anche senza chiamare in causa agenti biologici come le epidemie che facevano strage di umili e potenti nei secoli passati, la storia è tuttora capace di riservare sorprese sgradite perfino ai ceti dominanti più sicuri di sé.
Quanto al presente tuttavia l’analisi del filologo classico, firma di spicco del «Corriere», è alquanto cupa. Canfora dà ormai per spacciata la democrazia politica, che a suo avviso «scivola sempre più tra le entità archeologiche». E come unica alternativa alla tecnocrazia delle élite finanziarie, eurocratiche o cosmopolite, vede avanzare le forze populiste, che a suo avviso si possono appropriatamente definire «movimenti fascistici».
Al di là delle ovvie differenze storiche con la prima metà del Novecento, tempo di rivoluzioni e guerre mondiali, si possono individuare, secondo Canfora, almeno due punti comuni tra le attuali destre anti-establishment e le camicie nere, o brune, di quel periodo funesto. Uno è l’insistenza sul richiamo nazionalista, ieri indirizzato a scopi di espansione territoriale, oggi rivolto soprattutto contro gli immigrati dai Paesi poveri. L’altro è la consapevolezza, ben viva a suo tempo nell’ex socialista Benito Mussolini, della necessità di garantire alle masse popolari una certa protezione sociale, senza urtare troppo gli interessi del grande capitale, ma ponendo limiti al mercato e rifiutando i vincoli dell’austerità finanziaria.
Nel frattempo la sinistra è sparita, denuncia Canfora, o quanto meno ha rinunciato a far valere le sue ragioni, per cui i lavoratori si sono trovati senza alcuna rappresentanza credibile ed è risultato quindi agevole per la destra più accanita «lucrare su un disagio vero (e senza prevedibile riscatto)».
Anche se l’autore non lo formula apertamente, viene spontaneo il paragone tra questo squilibrio e la situazione che Canfora stesso descrive nel capitolo del libro dedicato alle grandi religioni monoteistiche. Oggi il Cristianesimo, osserva, si è profondamente trasformato e forse snaturato, un po’ come è avvenuto alla sinistra, perché di fatto ha rinunciato al monopolio assoluto della verità e della salvezza sulla base di credenze indefettibili. È diventato insomma «una quasi-filosofia deistico-illuminista», che vede gli altri culti come vie diverse, ma legittime, per entrare in contatto con la trascendenza.
Ben differente la condizione dell’Islam, più somigliante alla destra populista per il suo atteggiamento conflittuale (da un parte la lotta tra sunniti e sciiti, dall’altra il potenziale scontro tra i nazionalismi dentro l’Unione Europea) e soprattutto per la tendenza al «massimo di aggressività verso l’esterno». Per gli integralisti musulmani contro «atei, ebrei e crociati», per i sovranisti contro il comodo capro espiatorio costituito dai residenti stranieri.
La Stampa 22.9.18
Poveri ma neri
di Mattia Feltri  


C’è povero e povero. C’è il povero da propaganda e c’è il povero da manovra finanziaria. Cioè, per dirla meglio, c’è il povero da promessa fatta e il povero da promessa mantenuta (se tale sarà). Per dirla proprio piatta piatta c’è il povero bianco e cattolico e c’è il povero nero (o scuretto) e chissà cosa. Ma non è razzismo, eh, quello non si può dire, ché sono accuse pesanti. Però succede che a giugno l’Istat ragguaglia: in Italia cinque milioni di persone sono in condizioni di povertà assoluta.
E lì si inalberano i paladini dei poveri. Paladino uno, Luigi Di Maio: cinque milioni di poveri, subito il reddito di cittadinanza! Paladino due, Matteo Salvini: cinque milioni di poveri, prima gli italiani! E qui già c’era un problema, perché di quei cinque milioni di poveri, un milione e sei sono poveri immigrati. Ma niente, i due vanno avanti: cinque milioni di poveri, come siamo ridotti, vergogna, tradimento, li salveremo noi! Li salveranno loro, ma non cinque milioni, solo tre milioni e quattro. Cioè hanno annunciato: reddito di cittadinanza agli italiani poveri. Agli immigrati poveri, niente. Ai loro bambini, niente.
Lo ha precisato Salvini, a scanso di equivoci, e lo ha confermato Di Maio, a scanso di collera dell’alleato. E così i poveri immigrati erano poveri come tutti gli altri quando c’erano da fare comizi, e adesso sono poveri diversi dagli altri quando c’è da tirare fuori i soldi. Diversi ma - siccome non sono clandestini, sono residenti, lavorano, pagano i contributi - diversi soltanto per provenienza. Bene, cari paladini: sicuramente non siete razzisti. Ma allora ditecelo voi che cosa siete.
Il Fatto 22.9.18
Reddito solo agli italiani? Si rischia l’incostituzionalità
di Virginia Della Sala

Mercoledì, in piena trattativa sulla manovra, il vicepremier e leader della Lega, Matteo Salvini, ha provocato il Movimento 5 Stelle sul Reddito di cittadinanza. “Sono sicuro che gli amici Cinquestelle stanno studiando una formula intelligente che lo limiti ai cittadini italiani”, aveva detto. Ieri, il vicepremier Di Maio ha replicato, in mattinata e poi la sera da Pechino: “Stiamo lavorando sulla platea”; “con i flussi migratori è logico che la devi restringere ai cittadini italiani”; “pensare di individuare una platea straniera significa che non puoi prevedere la spesa”. Il punto era già nel contratto di governo: “Uno strumento di sostegno al reddito per i cittadini italiani che versano in condizioni di bisogno”. Ma è davvero possibile riservare questa misura ai soli cittadini italiani?
Gli europei. “L’esclusione dei cittadini europei residenti sarebbe di sicuro in contrasto con il diritto dell’Ue – spiega Ennio Triggiani, professore ordinario di Diritto dell’Unione europea nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari Aldo Moro – sia in base a norme di carattere generale, dalla Carta dei diritti fondamentali al trattato sul funzionamento dell’Unione, sia in base a tutta una serie di direttive”. La non discriminazione per nazionalità è uno dei principi fondamentali dell’Ue. “Si parla di reddito di cittadinanza ma esiste la cittadinanza dell’Ue, con i diritti e i doveri che ne derivano”. Nel 2012, la provincia di Bolzano, nella concessione degli alloggi popolari, aveva esercitato una discriminazione basata sulla nazionalità e “l’Italia fu condannata dalla Corte di Giustizia europea”. Si possono prevedere vincoli stringenti, oltre alla residenza? “La Corte di Giustizia Ue si è quasi sempre espressa contro”. E infatti Il testo originario del disegno di legge sul reddito di cittadinanza presentato in Senato prevede che ne hanno diritto “soggetti in possesso della cittadinanza italiana o di Paesi dell’Ue” e “soggetti di Paesi che hanno sottoscritto convenzioni bilaterali di sicurezza sociale”.
Extra Ue. Il reddito non si può negare ai familiari extra-Ue di cittadini europei, né ai rifugiati e apolidi. “L’obiettivo del loro status non è la residenza, ma l’integrazione piena”, spiega il docente. Vale lo stesso per i permessi di soggiorno di lunga durata. “Potrebbero esserci esclusioni che riguardano stranieri extra Ue che non abbiano un permesso di soggiorno consolidato, ma si tratterebbe di eccezioni”. Al trattamento dei cittadini Extra-Ue sono dedicate specifiche direttive dell’Ue che tutelano i titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo, di permesso unico di lavoro (da rinnovare ogni due anni), di protezione internazionale, del permesso per attesa occupazione (che dura un anno) e i familiari di cittadini dell’Ue. A spiegarlo è Marta Lavanna, avvocato dell’Associazione per gli Studi Giuridici dell’immigrazione: “La Corte costituzionale ha inoltre già fatto notare – con sentenze per l’assegno sociale o gli assegni per le disabilità – che i requisiti per accedere alle prestazioni contro la povertà, che quindi richiedono un reddito inferiore a una certa cifra, contrastano spesso con i requisiti per avere il permesso di lunga durata (un reddito superiore a una certa soglia). Con la conseguenza che raramente chi ha il permesso di soggiorno riesce ad accedere ai sussidi per la lotta alla povertà”.
Il lavoro. Vincenzo Martino è invece il vicepresidente di Agi, l’associazione degli Avvocati giuslavoristi italiani. “Il rischio di incostituzionalità è alto. In base ai princìpi costituzionali, e in particolare all’articolo 3, non si giustifica un trattamento differenziato basato sulla nazionalità. Tanto più che il provvedimento, rispetto alle ipotesi pre-elettorali’, per necessità di copertura finanziaria sarà ridimensionato a sussidio temporaneo finalizzato alla riqualificazione e al reinserimento lavorativo”. Un po’ come l’attuale Naspi, l’indennità di disoccupazione limitata ai lavoratori dipendenti. “È difficile immaginare, a parità di situazione, che un extracomunitario con regolare permesso di soggiorno, che abbia svolto attività lavorative autonome o dipendenti, versando regolarmente i contributi (che per tutti gli extracomunitari, ricordiamolo, superano gli 8 miliardi di euro l’anno), sia poi escluso da una prestazione previdenziale o assistenziale riconosciuta solo agli italiani”. La Corte costituzionale ha già dichiarato illegittime discriminazioni in qualche misura simili, per esempio in tema di accesso ai servizi pubblici o alle graduatorie di assegnazione abitativa o per ottenere agevolazioni tariffarie. “Direi che solo l’esclusione degli extracomunitari irregolari appare giustificata e idonea a superare eventuali giudizi di legittimità costituzionale. Naturalmente per un giudizio preciso bisogna attendere di leggere la norma”.
Le cause. Nei mesi scorsi, ad esempio, la Corte di Giustizia dell’Unione europea è stata chiamata a dirimere una causa tra Inps e una donna straniera residente a Genova ma titolare di un permesso di lavoro superiore a sei mesi. Le avevano respinto la richiesta dell’assegno per i nuclei familiari numerosi. In primo grado, racconta l’Huffington Post, il Tribunale aveva dato ragione all’Istituto. Il giudice d’appello aveva poi ritenuto necessario chiedere un parere alla Corte Ue per una verifica di aderenza alle regole europee. La decisione: “I cittadini dei Paesi non Ue ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, a norma del diritto dell’Unione e del diritto nazionale – hanno scritto i magistrati – devono beneficiare della parità di trattamento rispetto ai cittadini di detto Stato”.
La Stampa 22.9.18
Spike Lee: “Per generazioni noi neri siamo stati cancellati”
di E. Sant.

L’inaugurazione della mostra di Theaster Gates ha aperto alla Fondazione Prada una serie di eventi sul tema dell’immagine e dell’identità afroamericana: ieri sera è toccato a un dibattito affollatissimo con l’artista, Spike Lee e la regista Dee Rees (nera, lesbica militante, allieva di Spike alla New York University), moderatore di lusso il curatore nigeriano Okwui Enwezor, già al vertice di Biennale Arte 2015 e di Documenta. In sala anche Miuccia Prada, Sofia Coppola, Germano Celant e il direttore della Mostra di Venezia Alberto Barbera.
Lee, che ha in uscita in Italia il nuovo film BlacKkKlansman sul poliziotto nero che riuscì a infiltrarsi nel KKK, ha spiegato come parlare di identità nera significhi «guardare alla storia: alle origini degli Stati Uniti c’è il genocidio dei nativi e la sottomissione in schiavitù dei deportati dall’Africa. Per nascondere questa verità era necessario che ci fosse negata ogni qualità umana. Per generazioni siamo stati cancellati, quand’ero bambino non c’erano neri raffigurati né nei libri di scuola né sui bigliettini per gli auguri di compleanno, e se penso a come quel figlio di... di vignettista australiano ha raffigurato di recente Serena Williams devo pensare che le cose non sono poi molto cambiate».
Ricordando i suoi inizi, e il valore profetico dei suoi primi film, a Enwezor che gli chiedeva se si sentisse più bravo o più fortunato, ha risposto: «La fortuna non ti bacia se non lavori come un matto, è vero che in Fa’ la cosa giusta si parla non solo di rivolte razziali ma anche di riscaldamento globale e di gentrification, eppure erano fenomeni tutti lì da vedere, la mia è stata la prima famiglia nera ad andare ad abitare in un quartiere italoamericano di Brooklyn, bastava guardarsi intorno per capire che cosa stava covando». E ancora, sul suo primo film, Lola Darling: «Il personaggio principale femminile piacque a tutti, ma pensate: quell’anno era l’unica figura nera rappresentata. Ci è sempre stata negata la molteplicità, la varietà»
Corriere 22.9.18
Le frasi choc in oncologia contro un immigrato
di Alberto Pinna


Oncologia, pazienti in attesa. È il turno di un giovane senegalese. Entra per la visita ed esce dall’ambulatorio con a fianco una dottoressa. Si allontanano verso il corridoio. Dopo qualche minuto uno dei familiari che accompagnano gli altri malati sbotta: «Chissà quanto dobbiamo aspettare per colpa di un negro!». Un altro rincara: «Prima loro poi noi». Le voci si moltiplicano: «Non se ne può più». «Basta». Interviene un’infermiera, le voci tacciono e quando ritorna il medico è tutto normale e tranquillo. «Tanto che non mi sono accorta di niente . Due giorni dopo l’infermiera mi ha riferito: “Dottoressa sa che cos’è successo…”». Specialista in oncologia e cure palliative all’ospedale San Giovanni di Dio, Maria Cristina Deidda trasecola e posta sul suo profilo Facebook: «Chiedo scusa anche a nome dei miei concittadini intolleranti. Mi vergogno profondamente». E raccoglie consensi ma anche una valanga di insulti. Fra i meno esagitati: «Quando ci invaderanno, ti passerà la voglia di proteggerli». «Gli ospedali sono ormai pieni di negri». La rampogna persino qualche sedicente collega: «Pensa a fare il medico e non a difenderli». Lei è più stupita che offesa: «Gli insulti non mi toccano. Accompagnavo il paziente da un collega per una consulenza e sono ritornata dopo qualche minuto. Razzismo? No, di più e molto peggio, perché si è manifestato in un ospedale e in un ambito, cure palliative, dove c’è dolore immenso. Tutti soffrono e noi non possiamo guarirli. Curarli vuole dire davvero prendersi cura di loro, dobbiamo farlo e lo facciamo con delicatezza, comprensione e affetto. Con tanta sofferenza come si può essere così intolleranti?». I malati, sottolinea, sono rigorosamente tutti uguali. «Sono frastornata da tanto clamore. La politica non c’entra niente e non accetto strumentalizzazioni. Quando ho scelto di fare il medico ho giurato di assistere chiunque ne avesse bisogno senza distinzione di sesso, razza, religione o ideologia. Se non ci avessi creduto avrei fatto un altro lavoro».
La Stampa 22.9.18
Razzismo in ospedale
“Attesa per colpa di un negro”
di Nicola Pinna


Di fronte alle malattie, e tanto più nella speranza di riuscire a curarle, tutti si dovrebbero sentire uguali. Forse lo si dava per scontato, ma senza fare i conti con l’ondata più aggressiva di intolleranza che ha colpito il Paese. E allora accade che persino in un ambulatorio medico, dove tra l’altro si praticano cure palliative per pazienti in condizioni disperate, qualcuno protesti perché i medici si prendono cura persino «dei negri». Succede a Cagliari, nell’ambulatorio oncologico dell’ospedale San Giovanni di Dio, dove i medici operano in un delicato equilibrio tra «qualità della vita» e «qualità della morte».
A denunciarlo, e a far scoppiare il caso (ma anche una riflessione seria), è una delle specialiste più note del reparto, che qualche giorno fa ha assistito a una scena inimmaginabile: «Ben quattro persone, accompagnatori di altri miei pazienti in attesa di visita, si sono lamentate di dover attendere per colpa di un negro». In quel momento, infatti, la dottoressa Cristina Deidda si stava prendendo cura di un ragazzo senegalese, anche lui arrivato in ospedale per tentare di rendere un po’ meno doloroso il decorso troppo rapido e troppo violento della malattia. «Solo più tardi un’infermiera mi ha raccontato quello che era successo e mi è crollato il mondo addosso - racconta - Sono cose che accadono sempre più spesso, è vero, ma pensavo che nel mio ambiente di sofferenza non potesse avvenire. Per questo ho ritenuto opportuno far sapere ciò che è successo, senza alcun riferimento ideologico e politico. Al posto del paziente senegalese poteva esserci, come capita, un altro che ha bisogno di una visita più lunga o di maggiori attenzioni. E nessuno è tenuto a sindacare in un luogo di assistenza. Tra l’altro il tempo che abbiamo impiegato per visitare il paziente senegalese non ha tolto nulla agli altri, perché nel nostro reparto tutti vengono trattati amorevolmente: dove si praticano cure palliative questo è davvero indispensabile». La dottoressa ha chiesto scusa a nome dei concittadini sconosciuti ma intolleranti e ha scritto: «Mi vergogno».
Dall’episodio di Cagliari nasce ora un’iniziativa dei medici a livello nazionale, per combattere il razzismo nel Sistema sanitario. A promuovere la campagna è il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri Filippo Anelli: «Per difendere i valori fondanti della nostra professione e della nostra società, dinanzi alle quali tutti gli uomini sono uguali, a prescindere dal colore della pelle, religione, opinioni e censo».
Il Fatto 22.9.18
Niente più bambini stranieri a scuola
La stretta del sindaco leghista - Per bus scolastici e mense bisogna consegnare certificati dei Paesi d’origine impossibili da reperire, altrimenti si paga la retta più alta. Così 200 figli di stranieri ma nati in Italia si portano i panini da casa. E vengono, di fatto, esclusi
di Davide Milosa


La prima campanella della mensa suona un quarto d’ora dopo mezzogiorno. Via Ettore Archinti, complesso scolastico Cabrini. Elementari e materna, qui a Lodi, a metà strada tra il centro e la città bassa. Le prime classi iniziano a scendere. Ragazzini ordinati dietro le maestre. La mensa è nel sotterraneo. Ambiente così e così, finestre a bocca di lupo lungo le pareti. A sinistra dell’ingresso della scuola, c’è una sala che nulla ha a che vedere con la mensa. Più che una sala, un’aula docenti, anche se prima era un magazzino. Le tapparelle sono abbassate, qualche disegno, appiccicato sugli armadi di metallo. In mezzo, due gruppi di banchi e tredici sedie, con altrettante tovagliette: la signora Anna ha apparecchiato da poco. Seduti ci sono 13 bambini, quasi tutti originari dell’Egitto, che da pochi minuti si sono messi a mangiare. Panini perlopiù, un po’ di verdura, qualche frutto: tutto cibo portato da casa. Sono 13 adesso. Nel secondo turno, ne arriveranno altri otto, di bambini.
Da due giorni è iniziata la mensa a scuola. Ovunque in Italia. E anche a Lodi. Ma qui le cose vanno diversamente. Almeno per questi 21 bambini. La mensa, quella tradizionale, per loro è blindata. Con tanto di guardiania a bloccare l’accesso. Vietato entrare.
Questi bambini sono tutti nati in Italia e tutti figli di immigrati. Sono figli di lavoratori, nel nostro Paese da molto tempo, alcuni da oltre vent’anni. Famiglie numerose, tre figli, a volte anche quattro. E uno stipendio che a metterlo insieme ora dopo ora, giorno dopo giorno, non supera gli 800 euro al mese, quando va bene. Devono pagare la retta più alta per la mensa e lo scuolabus, così dispone il Comune di Lodi. E se i loro genitori non ce la fanno, come nella maggioranza dei casi, la mensa salta. Per quasi 200 bambini in tutta la città.
Ma se guadagnano 800 euroa malapena al mese, come tante famiglie di italiani, perché non pagano tariffe agevolate? La risposta, tanto semplice quanto inquietante, sta in piazza Broletto, sede del Comune. Ai piani alti. Su su fino alla poltrona del sindaco. Casacca leghista da sempre, anche se è nel 2010 che Sara Casanova entra nel partito guidato da Matteo Salvini. Prima un po’ di gavetta, sempre a Lodi, poi nel 2013 il suo ingresso in Comune. Sarà eletta primo cittadino nel giugno del 2017. Qualche settimana dopo, firma una delibera del consiglio comunale che modifica una serie di articoli del “vigente regolamento per l’accesso alle prestazioni sociali agevolate”. Fuori dai tecnicismi della pubblica amministrazione, e nella sostanza, si chiede agli stranieri, quelli non provenienti da Paesi non Ue e quindi extracomunitari, di portare, in aggiunta alla dichiarazione del reddito, anche le certificazioni di non possesso di case, conti correnti e auto nel loro Paese di origine. Documenti da recuperare in originale e per i quali non vale l’autocertificazione (pratica che invece resta in vigore per i cittadini italiani).
Tutto passa senza tanto clamore. L’anno scolastico è in corso, se ne riparlerà a settembre dell’anno successivo. E infatti oggi se ne riparla, e non poco. Il caso esplode. Qualcuno, sottovoce, parla di laboratorio Lodi. Fin da subito si comprende che dietro alla guerra di carte bollate, si gioca una partita politica tutta leghista e con un obiettivo chiaro: cacciare dalla scuola gli stranieri. E che la road map sia questa lo si comprende dalle carte e dagli obblighi: i documenti richiesti, infatti, sono da cercare al catasto dei vari Paesi, operazione quasi impossibile, costosa e da rifare ogni anno. In più non si chiede di certificare l’assenza di proprietà in una singola città, ma in tutto il territorio dello Stato di origine. Alla data del 7 settembre scorso, per il solo servizio mensa sono state presentate in Comune 132 domande: di queste 3, con documentazione ritenuta completa o ancora da valutare; 129 sono state invece rifiutate. Se si considera anche il servizio scuolabus, le domande salgono a 255. La delibera prevede una deroga solo per quattro Paesi per cui si ritiene impossibile avere accesso a tali documenti: Afghanistan, Libia, Siria, Yemen. Per definire questi Stati, è stato interpellato il ministero degli Esteri, che non ha risposto. Così il criterio scelto dal sindaco si basa su una lista di Paesi a rischio, stilata dalla società londinese Ihs Markit, ma sulla base di questioni relative agli scambi commerciali che non si capisce cosa centrino, come hanno sottolineato le opposizioni.
Niente documenti, niente mensa, insomma. “Chi vuole la tariffa agevolata per le prestazioni legate alla scuola deve portare la documentazione richiesta”, minimizza il sindaco. “Come deve fare chiunque. Loro, a maggior ragione, se vogliono integrarsi, qualche sforzo dovranno pur farlo, no?”. E intanto incassa la fiducia del governatore lombardo Attilio Fontana e dell’assessore regionale al Territorio, Pietro Foroni. Ma non pare il classico adagio leghista, “Prima gli Italiani”. Qui siamo al niente più bimbi stranieri a scuola, perché se la delibera non dovesse cambiare, il risultato è certo. E non è cosa da poco, fa notare un dirigente scolastico di Lodi che chiede l’anonimato. “Noi abbiamo il tempo pieno alle elementari, e la mensa è parte integrante del percorso didattico: è un obbligo oltreché un diritto”. E così Lodi, dopo la bufera giudiziaria sui comitati d’affari che ha portato a processo l’ex sindaco Pd Simone Uggetti, ora si ritrova agli onori delle cronache come città razzista e poco incline all’integrazione.
“L’anno scorso pagavo 1,20 euro al giorno per la mensa, ora dovrei pagarne oltre sei”. Saber viene dall’Egitto, è in Italia dal 1999. “Fino al 2013 ho sempre lavorato e ho sempre pagato le tasse qui, non certo in Egitto. Oggi vivo con un contratto di 16 ore settimanali, circa 800 euro al mese, finchè dura”. In casa, la moglie e tre bambini. Per ognuno, c’è la mensa e lo scuolabus che, con le tariffe più alte, costa 220 euro al mese per il primo figlio, 110 per il secondo, 95 per il terzo: 425 in totale ogni mese. Mohammed, di figli, ne ha uno. Attualmente in cassa integrazione, a volte lavora a Montanaso lombardo. “Anche mia figlia per ora porta il pasto da casa… non possiamo permetterci diversamente”.
Ma dalla prossima settimana, forse, niente più schiscetta in tutte le scuole di Lodi. Non che il pasto da casa verrà vietato in via generale, ma bisognerà seguire direttive precise imposte dall’Azienda sanitaria lombarda: “Dovrà anche essere valutata la modalità e il luogo di conservazione degli alimenti in attesa di essere consumati”, si legge. Ci vogliono insomma i frigoriferi. E i frigoriferi vanno comprati, e dunque? Il Provveditore scolastico di Lodi Iuri Coppi giovedì scorso, durante un incontro con i dirigenti delle varie scuole, ha proposto di imporre al Comune l’acquisto degli strumenti per la conservazione del cibo, perché non si può mandare a casa i bambini, soprattutto quelli di prima elementare, che iniziano ora il loro viaggio scolastico: è il suo ragionamento.
Le mamme di bimbi stranieri restano pessimiste. “Così andrà a finire che mio figlio a scuola non ci andrà – inizia Aisha, mamma egiziana di tre figli – e dovrò andarli a prendere, portarli a casa, farli mangiare, riportarli in classe”. Il tutto senza scuolabus, perché pure per quello dovrebbe pagare la retta massima. Le storie si accavallano una dopo l’altra. Si parla seduti ai tavolini dell’associazione Al Rahama, in via Borgo Adda. Sono le 10 del mattino. Oltre ai genitori, ci sono alcuni bambini che oggi a scuola non sono andati. L’associazione è elemento di raccordo per le famiglie, tante, almeno 150, che stanno protestando. Sono arrivati fin sotto il Comune, sabato scorso, in piazza. Breve incontro col sindaco e fumata nera: Sara Casanova va per la sua strada. Partono così i ricorsi, non al Tar, ma al Tribunale ordinario di Milano: azione civile contro la discriminazione, una discriminazione su basa etnica, dicono i legali dell’Asgi, l’associazione studi giuridici sull’immigrazione, e del Naga. Si punta il dito proprio sulla legge, applicata in modo erroneo, secondo Asgi e Naga che stanno raccogliendo i ricorsi. La legge a cui si fa riferimento è il Decreto della presidenza del Consiglio dei ministri (Dpcm) del 2013, in relazione alla dichiarazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente-Isee, dove si prevede che l’autocertificazione valga sia per gli italiani sia per gli stranieri: “Senza alcuna distinzione”. Lo dimostra anche il caso di Voghera, altra città lombarda, dove nel 2013 una delibera identica a quella di Lodi era stata approvata, salvo poi essere modificata proprio in virtù della nuova disciplina statale in materia di Isee (il Dpcm del 2013) secondo cui le componenti reddituali – patrimonio all’estero compreso – vengono assoggettati ad autocertificazione.
I ricorsi a Lodi sono già partiti, e se il Comune dovesse perdere rischierebbe la bancarotta. Ma il sindaco prosegue: “La legge italiana non ammette autocertificazioni”. E il Dpcm del 2013? Chi ha ragione si vedrà. Nel frattempo il Comune ha già deliberato una cifra importante – circa 10 mila euro – per la difesa legale. Segno che qualche dubbio ai piani alti di piazza Broletto esiste.
Nell’attesa di una soluzione, resta il dato: oggi molti bambini a Lodi vengono discriminati, e rischiano di non andare più a scuola. Pur essendo nati qui, in Italia. Il Coordinamento uguali doveri, che riunisce opposizioni e società civile contrari all’iniziativa del sindaco, chiede alle famiglie comunque di iscriversi nella fascia più alta. Al denaro ci penserà un conto corrente comune. Il segnale che non tutta Lodi sta con il sindaco. Come il gruppo di genitori italiani che ha lanciato una raccolta firme contro la delibera, o gli hacker di AnonPLus che giovedì mattinata hanno bucato il sito della Provincia “chiedendo – si legge su Twitter – di prendere provvedimenti verso la sindaca del comune di Lodi che se la prende con i bambini”. Il primo cittadino del Carroccio di discriminazione e scelte criticabili pare intendersene. Oltre al caso mense, a inizio anno ha modificato il regolamento della Polizia locale allargando il Daspo urbano anche ai venditori ambulanti di fiori e di accendini. L’8 marzo scorso, per esempio, per la festa della donna, vigili in borghese hanno sequestrato 200 mazzi di mimose, e comminato multe per 3mila euro. L’intera vicenda è stata oggetto di conferenza stampa con le mimose esposte sul tavolo come panetti di cocaina colombiana purissima. Fiori e bambini. Qualcosa qui a Lodi non pare funzionare.