sabato 21 maggio 2016

Repubblica 21.5.16
Oggi in tutta Europa è la “Notte dei musei”
ROMA. Torna oggi in tutta Europa “La Notte dei musei”. L’iniziativa, giunta alla dodicesima edizione, prevede l’apertura straordinaria degli spazi espositivi, di musei, gallerie e siti archeologici che resteranno aperti fino alle 2 al prezzo simbolico di ingresso di un euro. A Roma aderiscono all’iniziativa, con i principali musei statali e civici, anche la Camera e il Senato. Sia Montecitorio che Palazzo Madama apriranno ai visitatori dalle 20 (ultimo ingresso all’1,30). La manifestazione è posta sotto il patrocinio del Consiglio d’Europa, dell’Unesco e dell’ICOM e, al fine di valorizzare l’identità culturale europea, si colloca tradizionalmente a ridosso dell’International museum day, evento annuale promosso dall’ICOM fin dal 1977 e rivolto alla valorizzazione dei Musei e del Patrimonio culturale. All’edizione 2015 hanno aderito oltre 3000 musei in 30 nazioni europee. L’elenco dei musei che aderiscono è sul sito
www. beniculturali. it.
il manifesto 211.5.16
La trappola della verginità
Tempi presenti. «Dio odia le donne», il nuovo libro di Giuliana Sgrena, uscito per Il Saggiatore. Una ricognizione, anche in chiave autobiografica, sulle ambiguità e le efferatezze delle religioni perpetrate ai danni del corpo (e della mente) femminile
di Alessandra Pigliaru

Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore. Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico.
il manifesto 21.5.16
Un maschio portato al settimo cielo
Il fondamentalismo religioso vuol cancellare il protagonismo della libertà femminile
di Lea Melandri

Non si può negare il fatto che la religione sia un prezioso archivio della memoria degli individui e della specie, di vicende che stanno ai confini tra inconscio e coscienza. C’è la stupidità del fanatismo, ma ci sono anche sublimi simbolizzazioni, interrogativi che vanno alla radice dell’umano. È su questa stratificazione di simboli che va portato lo sguardo, riconoscendoli come proiezioni del modo in cui viviamo.
Il pensiero laico e il pensiero religioso sono in realtà imparentati, anzi «consanguinei», come dice Stefano Levi nel suo Laicità, grazie a Dio (Einaudi) che alcuni anni fa presentammo al Festival delle Letterature di Mantova: se la religione è quella che cerca le «cause occulte» delle cose, lo stesso fanno la filosofia e la metafisica. E la religione sembra avere la precedenza.
Ora, riflettere sul pensiero, sulle forme che ha preso nelle sue costruzioni, laiche o religiose che siano, vuol dire chiedersi innanzi tutto chi è il soggetto del pensiero e come si è configurata, nella storia che abbiamo conosciuto – opera di una comunità di soli uomini – la sua nascita. La consanguineità fra la religione e le altre costruzioni simboliche sta prima di tutto nel fatto di discendere dalla stessa matrice: quel «principio maschile» che – come scrive Bachofen ne Il matriarcato – «nell’ambito dell’esistenza fisica è al secondo posto, subordinato al principio femminile».
Da ciò si deduce che la «consanguineità» tra pensiero laico e religioso è molto più di una «contaminazione»; discende dal fatto che traggono la loro origine da quel soggetto unico maschile, da quella visione unica del mondo che ha violentemente e astrattamente differenziato – complementarizzato e posto secondo un ordine gerarchico- materia e spirito, natura e cultura, individuo e genere, corpo e pensiero, identificando e confondendo l’uscita dall’animalità e la nascita del linguaggio con il destino del maschio e della femmina.
La «consanguineità» sta dunque in quello che Otto Weininger – singolare figura di intreccio tra filosofia e religione, posta all’inizio del Novecento ed espressione della crisi della ragione occidentale, nel momento in cui avanza l’emancipazione femminile – chiama l’enigma del dualismo, collegandolo col peccato originale. Il corpo, la sessualità, comparendo sulla scena pubblica – sono gli anni della scoperta della psicoanalisi -, rappresentano una minaccia per quello che era stato il fondamento etico, filosofico/religioso della cultura occidentale, greca-romana-cristiana. In questo discorso appare chiaro come la trascendenza, su cui la religione costruisce il mistero di Dio, l’Essere perfetto, il Valore assoluto, è imparentata con la trascendenza che si è attribuita l’Io maschile. Alla donna, che rappresenta la sessualità, la materia, il non essere, e che perciò incarna per l’uomo la caduta, la colpa, si impongono regole morali superiori a quelle dell’uomo: la purezza, la verginità.
Per essere «redentrice» dell’uomo deve «essere uccisa e riportata in vita». L’Io maschile e Dio si pongono così su una linea di continuità: L’Io (Dio) come tempo è volontà. La volontà diventa valore (l’uomo diventa Dio) quando esce dal tempo.
Per concludere allora, l’essenza dell’idea di Dio e la sua importanza per l’umanità, è che «Dio è l’uomo perfetto», e l’uomo perfetto, come Gesù Cristo, è Dio.
Le figure e i gesti che la mente religiosa proietta sull’oscurità del mistero parlano dunque dell’origine della civiltà maschile, del modo con cui ha inteso differenziarsi dalla natura, dal corpo femminile che genera e che porta perciò i segni dei limiti mortali dell’umano. Parlano della ri-nascita o ri-generazione del mondo spostata sul versante di un principio maschile spirituale: una genealogia di padre in figlio dove la donna è mediazione simbolica, contenitore.
Forse è proprio in queste rappresentazioni così vicine all’origine e a quelle domande insopprimibili dell’umano, che hanno a che fare con la nascita, la morte, il diverso destino toccato all’uomo e alla donna, che la religione esercita un fascino così duraturo. Nella rappresentazione del sacro, si può dire che il soggetto maschile della storia ha tentato di dare un senso, volgendolo a proprio favore, al mistero della nascita e della morte, all’uscita della coscienza dall’animalità, all’angoscia dell’originaria in distinzione col corpo della madre, al bisogno di differenziarsi e di controllarne la potenza.
La rivalsa delle religioni oggi può essere legata alla crisi delle istituzioni politiche, ma anche al protagonismo che hanno preso il corpo, la sessualità e la libertà femminile.
Si può pensare che la durata e il fascino della religione venga dal fatto che l’aspetto sessuato e sessuale lì è esplicito – non rimosso -, teatralizzato e spettacolarizzato.
Vi si possono leggere confusi amore e violenza, il sogno di armonia degli opposti e il sessismo, il razzismo. Ecco perché non stupisce leggere il recente interesse giornalistico sul rapporto fra donne e religioni, soprattutto monoteistiche, nel volume appena pubblicato da Giuliana Sgrena, con il titolo provocatorio Dio odia le donne (Il Saggiatore).
La religione parla di madri, figli, padri, nascite, morti e resurrezioni, dannazione e riscatto della carne, dell’umano, del femminile. La religione sublima in modo evidente il rapporto tra i sessi, le figure di genere nella loro ambiguità: figure che strutturano rapporti di potere ma anche d’amore, che tengono dentro la complementarietà e la spinta alla riunificazione.
Affrontando le problematiche del corpo, dei sessi, il femminismo ha portato la laicità al suo fondamento primo. Ma non ha affrontato la religione direttamente, nelle sue costruzioni simboliche, così come non ha affrontato il sogno d’amore, la fusionalità, l’unione mistica. Forse è proprio da ricercare in questa ambiguità la ragione prima del consenso di cui la religione gode anche presso le donne.
Repubblica 21.5.16
Siamo davvero in grado di autodeterminarci?
Secondo il Grande Inquisitore di Dostoevskij cerchiamo un potere a cui consegnarci
Un uomo solo è schiavo due amici sono liberi
di Vito Mancuso

Siamo davvero in grado di autodeterminarci? Oppure come sembrano suggerire i dati dello neuroscienze si tratta di un’illusione? Tra letteratura, filosofia e religione, l’idea controversa della salvezza umana
Possiamo iniziare a chiederci quanto nella storia si sia effettivamente data la presenza allo stato puro del binomio dittatura- schiavitù e del suo opposto democrazia-libertà: forse né gli schiavi dell’antica Grecia e dell’antica Roma erano così privi di libertà come in prima battuta si ritiene (per rendersene conto basta pensare alla figura del servus callidus nelle commedie di Menandro e di Plauto), e forse noi cittadini delle democrazie contemporanee non siamo esenti da forme di servitù a volte così pesanti da trasformarsi in auten–
tiche schiavitù. La questione del grado di libertà della nostra esistenza diviene poi ancora più complessa se si prendono in esame i diversi livelli di cui si compone la vita, e oltre al livello economico- sociale e a quello politico si considera quell’intricato labirinto che chiamiamo coscienza individuale. Ognuno di noi rispetto a se stesso (rispetto al codice genetico, alle determinazioni familiari e ambientali, alle esigenze corporee, al carattere, alla psiche, all’inconscio…) è libero o schiavo? Siamo veramente dotati di libero arbitrio oppure si tratta di un’illusione, come sembrano suggerire i dati delle neuroscienze e della microbiologia? Aveva ragione Erasmo da Rotterdam che contro Lutero scrisse nel 1524 il De libero arbitrio, oppure aveva ragione Lutero che a Erasmo replicò nel 1525 con il De servo arbitrio?
Né si può evitare un’altra domanda: gli esseri umani vogliono davvero esseri liberi? Oppure in realtà non cercano altro che una grande potenza a cui consegnare tutti insieme questa scomoda e inquietante condizione detta libertà? È quanto Dostoevskij sostiene nella celebre Leggenda del Grande Inquisitore: il cardinale capo dell’Inquisizione riconosce Cristo tornato sulla terra, lo imprigiona e nella notte gli tiene una vera e propria lezione di psicologia e di filosofia del potere in cui sostiene che gli esseri umani sono mossi da un angoscioso interrogativo: «Dinnanzi a chi inchinarci? ». Essi infatti non cercano la libertà, perché «nulla mai è stato per l’uomo e per la società più intollerabile della libertà». Secondo questa prospettiva la schiavitù non è una prigione in cui gli uomini, originariamente liberi, sono stati condotti, ma è un’oscura quanto originaria condizione dell’esistenza fisica e psichica. La questione a questo punto diviene di natura squisitamente filosofico-teologica: lo scopo della vita è di essere liberi in quanto autonomi e indipendenti, oppure è di legarsi a qualcosa di più grande di noi che ci libererà veramente da noi stessi e dalle nostre angosce? E in questo secondo caso, come far sì che tale legame, di natura inevitabilmente asimmetrica, non si trasformi in schiavitù ma generi liberazione e vera libertà?
Questo è lo sfondo teoretico su cui porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del quale la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia incrementato la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già nella Bibbia a partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto sacrificio di Abramo. Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo Isacco, generando nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai più sarebbe guarito (non a caso due volte nella Genesi Dio è designato “Terrore di Isacco”)? La risposta è una sola: per ottenere la più assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per un uomo di più prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo. Come denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il proprio figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti nemici della propria religione. Se la religione ha versato, e continua a versare, tanto sangue, è a causa di questo modello di fede, un’obbedienza così totale e sottomessa da essere in realtà schiavitù.
È a questa prospettiva che a mio avviso sono riconducibili i fenomeni degenerativi e violenti che hanno a lungo accompagnato il cammino delle religioni, per la Chiesa cattolica si pensi all’Inquisizione, all’Index librorum prohibitorum e alla sistematica opposizione contro l’affermarsi dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza e di stampa, suffragio universale, emancipazione femminile, laicità dello Stato. Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato». L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù. È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» ( Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva » ( Apocalisse 18,6). Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger).
A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» – Giovanni 15,15), si
può chiamare amicizia.
IL FESTIVAL Vito Mancuso partecipa a èStoria “ Schiavi”, il festival internazionale della storia, ideato e diretto da Adriano Ossola, a Gorizia fino a domani. Info: www. estoria. it
Repubblica 21.5.16
Tra i medici di Gorizia sulle orme di Basaglia “Insegniamo agli stranieri a chiudere i manicomi”
Il Dipartimento di salute mentale chiamato a portare in Slovenia la rivoluzione dello psichiatra
di Maurizio Crosetti

GORIZIA Primo cancello, secondo, terzo, quarto cancello. Il parco. A sinistra gli uomini, due palazzine, a destra le donne. In fondo, i cronici e gli agitati. Il mondo cominciava a finire dopo i quattro pilastri e il terrazzo d’ingresso, sotto la scritta rossa Ospedale Psichiatrico Provinciale. Ma 38 anni fa, il 13 maggio 1978, le prime figure lente e dondolanti, le prime persone opache e fragili, i matti senza più lacci ai polsi né fili elettrici in testa uscivano per sempre da qui. Il loro liberatore, il professor Franco Basaglia, sarebbe sopravvissuto appena due anni. Ma le sue idee, la battaglia perché un malato fosse soltanto un malato e non la sua malattia, restano vive e fresche come il primo giorno. Talmente vive che la Slovenia, dove ancora esistono sei manicomi, adesso ci chiede aiuto per diventare come noi e aprire le porte della reclusione sociale e del dolore indicibile.
«È un progetto da dieci milioni di euro e l’Italia ne sarà il modello. Per una volta, sono gli altri a copiare noi». Franco Perazza è uno psicologo. È alto, lungo, magro. Dirige il Dipartimento di salute mentale goriziano ed è orgoglioso che proprio qui, dove nel 1962 tutto iniziò con Basaglia, molto ancora continui. «Gli sloveni ci hanno chiesto di aiutarli a creare sul territorio un’assistenza sociale simile alla nostra, e di formare il personale. In Friuli-Venezia Giulia la legge 180 ha trovato piena realizzazione, abbiamo quattro centri di salute mentale per 4 mila persone in cura da Gorizia a Latisana. Non si ospedalizzano neppure i trattamenti sanitari obbligatori, ma si viene seguiti in emergenza e poi a domicilio. Non tutti sanno che l’Italia è stata la prima nazione a chiudere i manicomi».
Dov’era la cappella mortuaria, oggi c’è un laboratorio musicale gestito da una cooperativa che dà lavoro agli ex malati. E nelle stanze degli agitati hanno sistemato gli uffici. Nel parco Basaglia, un monumento di pietra ricorda un abbraccio o forse un ventre di donna. «Abbiamo anche piantato dieci ulivi insieme ai ragazzi delle scuole, qui gli alberi ormai cadevano e basta». Gianni Cavallini è il direttore sanitario dell’Aas 2. Non porta il camice bianco. «Andiamo, che vi offro un caffè con brioche in Slovenia, sono quattro passi». Le due Gorizie, quella “di qua” e quella “di là”. Il muro del vecchio manicomio correva lungo il confine, «qui i ricoverati scappavano in Jugo e poi li riportavano indietro». Scavalcavano la rete e fuggivano sotto i tigli dove finisce Gorizia e comincia Sempeter. La pietra bianca che segna la frontiera porta inciso da un lato “R. d’Italia 1947” e dall’altro “R. Slovenija”. Appena più avanti c’è il Sent, il centro riabilitativo psichiatrico con i lavoretti dei pazienti appesi ai vetri e un calciobalilla contro il muro. Di fronte, il baretto è pieno di slavi che alle nove e mezza di mattina già ci danno dentro con bianco e pivo, la birra che qui costa niente. Ma l’atmosfera antica svanisce dopo un paio di curve, e Nova Gorica si trasforma in una piccola Las Vegas punteggiata dai casinò illuminati a giorno, tra i palazzoni del socialismo reale: banche e outlet ne hanno cancellato il senso, non le architetture. Qui ci sono i soldi e si vede.
La dottoressa Petra Kokovarev ci aspetta nel suo ufficio alla Zdravsteni Dom, cioè la Casa della Salute che dirige da pochi mesi. Ha solo 40 anni. Quando Basaglia liberava i matti, lei andava all’asilo. «Il modello italiano è molto importante, molto interessante per noi. In questo momento una trentina di malati di Nova Gorica sono ricoverati al manicomio di Idria, nella Slovenia occidentale. Ancora non siamo pronti, purtroppo, ad utilizzare una rete di servizi sul territorio ma ci arriveremo. Serve unità. Dobbiamo dirlo, mentre l’Europa alza nuovamente assurdi muri contro l’integrazione. Un giorno, un malato sloveno potrà curarsi in Italia e viceversa ». Qui si era tentato di far nascere i bimbi italiani dopo la chiusura del reparto maternità di Gorizia. L’esperimento non ha funzionato perché le partorienti, in media appena una al giorno, hanno preferito Monfalcone, Palmanova e Trieste. «Ma con la malattia mentale sarà diverso », assicura Petra.
Quando la dottoressa Kokovarev aveva due anni, Norberto Bobbio definì la chiusura dei manicomi «l’unica vera legge di riforma del nostro Paese». Nel ’78, Basaglia l’avevano fatto scappare da Gorizia, già lavorava a Trieste. «È stata tutta una rimozione, e il senso di colpa ancora non è svanito». Il dottor Perazza ci accompagna in quello che fu lo studio del padre dell’antipsichiatria: in apparenza rimane, di quel tempo battagliero e prezioso, una semplice libreria in legno, però i muri sono pieni di manifesti colorati e dalle finestre entra il canto mattutino degli uccelli. Impossibile percorrere stanze e viali senza pensare allo strazio che contennero, alle mostruosità da campo di concentramento. «Ma la sottrazione di ogni diritto è diventata possibilità di una vita diversa, è diventata dignità, non dimentichiamolo mai». Curare e non più segregare. Non soltanto sedare. Tra qualche mese comincerà la gestione comune tra Italia e Slovenia per un bacino di quasi 80 mila abitanti, una piccola rivoluzione che non finisce mai. «Vedrete che tra un paio di generazioni Gorizia, Nova Gorica e Sempeter saranno per tutti una città sola». Ne è sicuro il direttore Cavallini mentre ci accompagna ai giardini di corso Verdi, dove alla Casa della Cultura hanno allestito la mostra “Le memoria restituita”. Alle finestre, uno striscione cubitale: “La libertà è terapeutica”. A metà mattina passa pure il sindaco Ettore Romoli, giunta di centrodestra. Un poco scherza, «ehi, siamo forse tornati al ’68?» e un poco no.
Il recupero del vecchio archivio del manicomio è una miniera di storie, spunti, documenti. Entrando, si sbatte contro un manichino con addosso la camicia di forza. Ci sono le lettere dei malati, un libro della biblioteca dell’ospedale che avrà forse alleviato qualche pena. Sulla parete scorre il documentario di Sergio Zavoli, “I giardini di Abele”, anno 1968, modernissimo esempio di giornalismo. Parla Basaglia, camminando nervosamente avanti e indietro («…la definirei una denuncia civile prima che una proposta psichiatrica »), si vedono scarpe e vestiti ammucchiati come ad Auschwitz, poi un malato che suona lo xilofono, chiavistelli, infermieri che si difendono («Non è vero che li picchiamo, dobbiamo solo proteggere gli altri ricoverati! »), ombre dolenti che barcollano nei viali e si tengono la testa tra le mani, muti. Si vedono i cancelli che cadono e, forse, l’inizio di una vita diversa. Quella di prima è qui nella stanza, appoggiata su una mensola: si chiama Convulsor. È una cuffia per l’elettroshock con morsetti e fili elettrici, grossi e attorcigliati come serpenti. Sui libro dei visitatori, una mano ha scritto mai più.
(13 - continua)
il manifesto 21.5.16
Christie's
I quadri del nonno Mirò all’asta per i rifugiati
Messe all'asta 28 opere di Joan Mirò

«Ho fatto semplicemente quello che avrebbe fatto mio nonno», Joan Punyet Miró, il nipote di Joan Miró, ha messo all’asta 28 opere del pittore catalano per aiutare i migranti.
Il ricavato della vendita sarà infatti donato alla Croce Rossa della Catalogna che a sua volta li destinerà all’accoglienza dei rifugiati. L’asta, tenuta dalla casa londinese Christie’s, ha raccolto quasi 70mila dollari, più dei 50.000 obiettivo della vigilia
Corriere 21.5.16
L’errore di Genscher Come morì la Jugoslavia
risponde Sergio Romano

I media hanno riportato la notizia della scomparsa, a 89 anni, di Hans-Dietrich Genscher, che fu tra i più longevi ministri degli Esteri della Germania in questo dopoguerra (1974-92). Molto apprezzato dalla cancelliera Merkel per le sue raffinate doti di negoziatore nelle stagioni della Ostpolitik e della riunificazione (anche se, come precisa il Corriere , l’ambasciatore americano Burt lo definì a slippery man, un uomo sfuggente), si distinse anche come inflessibile sostenitore dei famosi parametri di Maastricht. Ne sanno qualcosa i nostri governi dell’epoca, nei riguardi dei quali il ministro Genscher ogni mattina se ne inventava una nuova. Oltre agli innegabili meriti, non crede che si debba ricordare anche questo?
Lorenzo Milanesi

Caro Milanesi,
Genscher merita quasi tutte le lodi con cui la sua figura politica e la sua personalità sono state rievocate in occasione della morte. La prova più brillante del suo impegno professionale fu probabilmente il modo risoluto e volitivo con cui seppe affrontare la crisi dei cinquemila turisti della Repubblica democratica tedesca, in visita a Praga nell’estate del 1989, che non volevano tornare a casa e avevano chiesto asilo all’ambasciata della Repubblica federale. Genscher approfittò di alcune circostanze favorevoli (le esitazioni e le incertezze della dirigenza della Germania comunista nell’era di Gorbaciov), ebbe colloqui a New York con i ministri degli Esteri dell’Urss e di alcuni Paesi satelliti, corse a Praga per annunciare ai dissidenti della Rdt che erano liberi di partire per la Germania dell’Ovest. Non riuscì a terminare la frase perché le sue parole furono sommerse da un entusiastico coro di applausi.
Ma vi è un’altra pagina della sua vita professionale che non merita altrettante lodi. Quando la Slovenia e la Croazia proclamarono la loro indipendenza, nel 1991, la prima reazione della Comunità europea fu il tentativo di ricucire lo strappo promuovendo la creazione di un nuovo stato jugoslavo confederale. La formula si scontrò con molte difficoltà locali, ma non poteva ancora dirsi irrimediabilmente fallita allorché Genscher tagliò corto e annunciò che la Germania aveva riconosciuto i due nuovi Stati. Quando gli fu osservato che quel riconoscimento significava la disgregazione della Jugoslavia, Genscher replicò che occorreva punire la Serbia per l’assedio di Vukovar e i bombardamenti di Dubrovnik; e aggiunse che non vi era altro modo per mettere fine al conflitto. Di fronte al fatto compiuto i colleghi europei di Genscher si allinearono sulla politica tedesca e condannarono lo Stato creato da Tito a quattro anni di guerra civile.
È probabile che Genscher credesse di lavorare nell’interesse della Germania. Invece di uno Stato comunista vi sarebbero state, non lontano dalle sue frontiere meridionali, due piccole nazioni cattoliche che avevano lungamente appartenuto all’orbita delle nazioni di lingua tedesca.
Mentre creava perplessità nell’Europa comunitaria, la mossa di Genscher piacque a una grande autorità morale. Giovanni Paolo II, il Papa polacco, fu lieto che la componente cattolica degli slavi del sud si fosse affrancata dalla dominazione dei serbi, un popolo che aveva il doppio difetto di essere stato comunista e di essere ortodosso. Genscher fu ministro degli Esteri sino al febbraio 1992 e non dovette gestire le conseguenze della sua politica jugoslava. Papa Wojtyla, invece, fu Papa sino al 2005 e dovette subire gli effetti di una scelta che non era piaciuta né a Belgrado né a Mosca. La Chiesa ortodossa non gli permise di fare visita a Sarajevo e il Patriarca di Mosca non volle che il pontefice romano facesse una vista pastorale nella Grande madre Russia.
Il Sole 21.5.16
Ma l’economia di Taipei ha bisogno della Cina
di Rita Fatiguso

Lo schiaffo di Tsai Ing-wen ha lasciato tracce ben visibili sul volto delle massime autorità cinesi.
La prima presidente dal 1949, da quando Taiwan ha accolto i nazionalisti del Kuomintang rifugiatisi nell’isola tallonati dai comunisti di Mao Zedong, non ha ottemperato alle aspettative di Pechino che considera irrinunciabile il principio del consensus del 1992, l’unico in grado di suggellare l’unità della Cina.
Dopo la feroce dittatura negli anni Ottanta, a Taiwan è arrivata la democrazia, così la donna che ha inflitto una pesantissima sconfitta al Partito Kuomintang al potere negli ultimi otto anni grazie al riavvicinamento con Pechino, ha deciso, invece, di far di testa sua.
L’ira di Pechino lascerà segni profondi, un segnale immediato ieri è la stretta alle comunicazioni, di Tsai si trovavano notizie solo datate 24 ore prima, i firewall erano al massimo dell’intensità, il disgelo delle relazioni con Pechino è archiviato, dopo aver raggiunto il top in novembre con il primo Summit congiunto dalla separazione tra la Cina continentale e l’Isola di Taiwan. Come pure la storica stretta di mano a Singapore tra il presidente uscente Ma, accusato di essere troppo filocinese,
e il presidente cinese Xi Jinping.
La presidenza di Tsai Ing-wen ha rimescolato le carte, la laureata alla London School of Economics, ex ministro per gli Affari continentali da 2000 al2004, ieri ha osato l’inosabile.
Sulle sue spalle ha il peso dei 4 milioni e passa di turisti cinesi (il 40% del totale e la metà degli incassi) nel 2015, contro i 5 e mezzo taiwanesi che hanno visitato Mainland China. Un interscambio tra Cina e Taiwan di 188,56 miliardi di dollari che fa di Taiwan il settimo trading partner e il sesto Paese di import. L’anno scorso 1,54 miliardi di dollari di investimenti sono stati effettuati da Taiwan per progetti in Cina, il totale dell’interscambio tra le due sponde dello Stretto è stato di 62,69 miliardi di dollari.
Da oggi in poi del futuro di tutto questo (e molto altro) proprio mentre Taiwan è nel bel mezzo di una stagnazione economica e avrebbe bisogno di mantenere almeno rapporti normali, nulla si può prevedere.
Il Sole 21.5.16
Alta tensione tra Taiwan e Pechino
L’insediamento a Taipei di Tsai Ing-wen fa infuriare le autorità cinesi: «Impediremo qualsiasi tentativo di indipendenza»
Nel primo discorso la nuova presidente non cita il consensus del 1992 su «una sola Cina»
di Rita Fatiguso

Pechino. Tsai Ing-wen, la nuova presidente di Taiwan, omette, nel discorso di insediamento di ieri, ogni riferimento al consensus del 1992, l’intesa che sancisce il riconoscimento informale del fatto che la Cina è una sola, e tanto basta a scatenare il putiferio e a mandare le relazioni tra Taiwan e Mainland China sull’orlo del baratro.
L’ufficio dello State Council per gli affari di Taiwan sfodera il pugno di ferro e consegna all’agenzia Xinhua un comunicato che non lascia margini di interpretazione.
«La Cina rimane determinata come non mai e ha ancora più forte capacità di sostenere la sovranità nazionale e l’integrità territoriale della Cina», si legge nel comunicato. «L’indipendenza di Taiwan rimane la più grande minaccia alla pace nello Stretto di Taiwan e la crescita pacifica delle due sponde dello Stretto. Il fatto di perseguire l’indipendenza di Taiwan non può in alcun modo portare pace e stabilità nelle relazioni dello Stretto di Taiwan. Siamo risoluti nel prevenire eventuali movimenti separatisti e le monovre per perseguire l’indipendenza di Taiwan in qualsiasi forma».
E aggiunge: «Ci sono tre domande principali alle quali le autorità di Taiwan devono dare una risposta esplicita con azioni concrete. Tra queste la scelta di difendere il fondamento politico comune che incarna il principio di una sola Cina e di perseguire proposizioni separatiste di «indipendenza di Taiwan», come «l’esistenza di due Cine» o «un Paese su ogni lato dello Stretto»; la scelta tra rimanere sul percorso di crescita pacifica delle due sponde dello Stretto e ripetendo la prassi antica di provocare tensioni e instabilità; infine, la scelta tra migliorare il benessere delle persone sui lati dello Stretto o recidere i loro legami di sangue e minare i loro interessi fondamentali.
Quindi: «Mainland China continuerà ad aderire alla fondazione politica del consensus del 1992 continuando ad opporsi all’indipendenza di Taiwan con fermezza per sostenere il principio di una sola Cina e di lavorare con i compatrioti di Taiwan e di tutti i partiti politici dei gruppi che a Taiwan riconoscono entrambe le sponde dello Stretto di Taiwan che appartengono auna stessa Cina, per salvaguardare la pace e la stabilità nello stretto di Taiwan, mantenere e far avanzare la crescita pacifico delle due sponde dello Stretto e lottare nella prospettiva della riunificazione pacifica della Cina».
Parole pesantissime, che si abbattono su quelle di Tsai che premette di voler rispettare «le intese e lo scambio di informazioni» raggiunte tra le parti nel 1992, aggiungendo che Taiwan lavorerà «per mantenere meccanismi per il dialogo e la comunicazione attraverso le relazioni esistente tra le due sponde dello Stretto», ma l’assenza di ogni riferimento alla dichiarazione nota come consensus del 1992 che sancisce l’esistenza di una sola Cina, molto cara a Pechino, non c’è stata.
Eletta lo scorso 16 gennaio dopo aver sconfitto, alla testa del Partito Democratico Progressista (PDP) il partito nazionalista del Kuomintang con il 56,12 % delle preferenze contro il 31,04% del rivale Eric Chu, che ha incassato una sconfitta storica e anche la perdita della maggioranza in Parlamento a urne chiuse la nuova leader aveva chiesto a Pechino di rispettare il «sistema democratico, l’identità nazionale e l’integrità territoriale» di Taiwan perché «qualsiasi forma di violazione influirà sulla stabilità delle relazioni tre le due sponde dello stretto». Una delle priorità della nuova presidente sarà anche il rilancio della crescita economica, in forte perdita di velocità.
L’aria, comunque la si veda, è davvero cambiata.
Il Sole 21.5.16
Il rebus Libia e il ruolo del generale Haftar
di Vittorio Emanuele Parsi

Il filo conduttore principale dell’interessamento internazionale per la Libia e per il Levante è essenzialmente uno: la lotta a Daesh. Se rispetto alla Siria fu la sensazione che il califfato potesse dilagare a spingere la “comunità internazionale” a convocare la prima conferenza di Vienna lo scorso anno, in Libia fu la comparsa di Daesh a fornire impulso a quella romana del 13 dicembre scorso. Il 16 maggio a Vienna lo schema si è ripetuto ed è quindi soprattutto rispetto all’obiettivo della lotta contro Daesh che devono essere valutati i provvedimenti proposti e ancor di più gli sviluppi che si stanno verificando in questi giorni.
La decisione di provare a rilanciare l’ipotesi di un governo di transizione a Damasco, del quale saranno chiamati a far parte anche esponenti del regime e che non prevede il preventivo allontanamento del presidente Assad, rispecchia perfettamente la priorità della lotta a Daesh, più che mai cruciale dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles. Grazie al massiccio appoggio russo e a quello costante dell’Iran e degli Hezbollah libanesi, il regime sta infatti giocando un ruolo chiave nell’offensiva militare contro i seguaci di al-Baghdadi (oltre che contro le forze ribelli in generale). Sarebbe evidentemente folle privarsi di assetti che si stanno rivelando ben più cruciali dei raid aerei della coalizione guidata da Washington, per cui, nel nome della nuova “war on terror” l’Occidente non solo accetta la presenza russa ma anche la sua posizione negoziale, da sempre più possibilista sul futuro del regime.
Per le stesse ragioni, rispetto alla Libia, se ribadiva il sostegno al governo di Serraj, la conferenza di Vienna, “apriva” nei confronti del generale Haftar, uomo forte del governo di Tobruk sostenuto da sauditi ed emiratini e, soprattutto, dall’Egitto di al-Sisi. La logica era evidentemente la stessa: mentre il governo di alleanza nazionale (Gan) fa estremamente fatica ad affermarsi e, militarmente, deve appoggiarsi alle milizie islamiste di Misurata, Haftar ha uno strumento militare assai più robusto, che lo spinge a proporsi come solo interlocutore affidabile nella guerra contro Daesh. Un compromesso quindi, ma dall’esito ben più incerto.
Nel giro di 48 ore, infatti, il generale Haftar ha chiarito con estrema rudezza, che non intende mettersi agli ordini di Serraj, mentre continuerà una lotta senza quartiere contro terroristi e “Fratelli musulmani”. Proprio l’inclusione della “Fratellanza” tra i suoi nemici chiarisce due punti: che nessun accordo è possibile tra Haftar e Serraj (visto che le sole forze militari del secondo appartengono a movimenti che si richiamano ai Fratelli) e che Haftar non intende assolutamente concedere che nella “sua” Libia i nemici di al-Sisi possano avere un ruolo.
Così, quella strada che in Siria sembrerebbe aprirsi (il condizionale è d’obbligo) verso un governo di transizione che possa escludere solo Daesh appare invece preclusa in Libia: sia per motivi “domestici” (Haftar è convinto di poter vincere e quindi è poco disposto a trattare) sia per motivi regionali (l’appoggio di Egiziani, sauditi ed emiratini ad Haftar).
Per tentare di consentire anche a Serraji di inserirsi nella lotta a Daesh si pensa di alleggerire l’embargo sulle armi. Comprensibile: a condizione però di sapere che seppur ciò portasse a una maggiore efficacia della lotta a Daesh, comunque alimenterà inevitabilmente la guerra civile in corso, prolungandone la durata.
Il governo italiano è stato tra chi si è maggiormente speso per il varo di un governo di unità, in grado di ottenere l’appoggio di quello illegittimo (e islamista) di Tripoli e di quello (legittimo fino al giorno prima) di Tobruk, del quale Haftar è il capo militare. A favore di tale scelta militavano ragioni sia prosaiche sia di principio: solo un nuovo governo poteva garantire l’unità del Paese e con ciò la continuità dei contratti e delle concessioni petrolifere (che un frazionamento della Libia avrebbe reso assai più incerta); solo un nuovo governo avrebbe dato concretezza a quella “soluzione politica”, capace di andare anche oltre la lotta a Daesh (con migranti e stabilizzazione in primo piano), per cui l’Italia si era sempre impegnata con estrema fermezza, di fronte all’ondivagare degli alleati (Obama incluso).
Ora, l’impossibilità della quadratura del cerchio rischia di far pagare proprio a Roma il prezzo maggiore (oltre che alla Libia, evidentemente). Se Haftar dovesse dimostrarsi affidabile nella lotta contro Daesh, infatti, gli americani potrebbero essere disposti a “mollare” Serraj: anche come forma di compensazione a sauditi, qatarini ed egiziani per il boccone amaro che, sempre nel nome della lotta al califfo, hanno dovuto ingoiare in Siria, a favore di Assad e dei suoi patroni russi e iraniani.
Corriere 21.5.16
Tunisia, la svolta di Ennahda «Archiviamo l’Islam politico»
Il partito ispirato ai Fratelli musulmani annuncia: basta con le interferenze religiose
di Francesco Battistini

«Le primavere arabe non hanno portato solo l’inverno dell’Isis: oggi a Tunisi comincia l’estate delle democrazie musulmane!». Islam politico, addio. Hanno provato a sconfiggerlo le guerre di civiltà, la repressione in stile egiziano, l’ambiguo sostegno a regimi impresentabili. Ora tocca ai Fratelli musulmani tunisini. Che cinque anni fa sostennero la prima Rivoluzione dei Gelsomini contro il satrapo e ora, un venerdì di maggio inoltrato, escono dalla moschea e nello Stade Olympique di Rades sono i primi a pronunciare la loro preghiera laica.
A 74 anni, davanti a 1.200 delegati, il vecchio leader Rashid Gannouchi s’è convinto. La linea è tracciata. E il decimo congresso del partito islamista Ennahda sarà quello della storica svolta: «L’Islam politico — dice — non ha più alcuna giustificazione in Tunisia. Ci occuperemo solo d’attività politica, non di religione. Sarà un bene per i politici, che non saranno più accusati di strumentalizzare la religione. E lo sarà per la religione, mai più ostaggio della politica».
Basta col fondamentalismo e con le prediche fanatiche e con gl’imam attivisti. Nessuna interferenza dei chierici sui leader. E non ci sarà più una shura che da sola gestisca il partito e le moschee, il proselitismo e le opere di carità sul modello dei Fratelli egiziani. D’ora in poi, «la nostra politica verrà separata dalla religione» e il valore di riferimento d’Ennahda — nato negli anni 70 sulle idee di Sayyid Qutb, l’ideologo egiziano spesso considerato il cattivo maestro del jihadismo arrembante d’oggi — sarà una «democrazia musulmana» ispirata alla «civilizzazione islamica e a quella moderna».
Il cambio di stagione non è una sorpresa. E potrebbe portare anche a un nuovo nome: i sondaggi dicono che è favorevole il 73% dei tunisini. Perché Ennahda, letteralmente «il movimento della rinascita», a lungo in clandestinità e rinato nel 2011 con la caduta di Ben Ali, s’è trovato a scontrarsi con una società molto matura (e poco disposta a privarsi di libertà civili in nome della sharia ): dopo due anni, vista anche la mala parata dei Fratelli in Egitto, ha dovuto lasciare il governo e alle ultime elezioni è stato sconfitto dai laici di Nida Tunis, fondato dall’attuale presidente Beji Caid Essebsi.
C’è da fidarsi? «Molti pensano che sia un tipico esempio di taqiya — osserva un analista politico vicino a Essebsi, Sayed Al Gharbi —, l’arte della dissimulazione tipica della Fratellanza: ti faccio credere d’essere cambiato, ma non lo sono affatto». A sostegno della tesi, la storia dello stesso Gannouchi: prof di filosofia e storico propugnatore della «salvaguardia del Corano», nasserista deluso, la stampa tunisina oggi ricorda come nel 2012 l’uomo giustificasse ancora gli assalti all’ambasciata Usa a Tunisi. «È una rivoluzione straordinaria, questo può essere il modello musulmano moderato che aspettavamo da anni — commenta invece Pierferdinando Casini, presidente commissione Esteri del Senato, invitato al congresso con Fabrizio Cicchitto —. Oggi nasce una specie di Ppe islamico. È una svolta che mi ricorda molto la Dc degli anni 50: separare con chiarezza i ruoli della religione e della politica in una società moderna». Non per nulla, sostengono gli entusiasti, Gannouschi lo ripete da anni: «Perché ci paragonate a modelli lontanissimi da noi, come i talebani o i sauditi? Dimenticate la Turchia, la Malesia, l’Indonesia…». E la Tunisia: se vincerà le prossime elezioni, si vedrà. E se son Gelsomini, fioriranno.
Corriere 21.5.16
I cuori solitari sono 11 milioni, il problema dell’Iran
di Antonella Baccaro

Diciannove divorzi ogni ora: un matrimonio su quattro che va in frantumi. Un tasso di natalità crollato da sette figli per donna a 1,5. Metà della popolazione tra i 18 e i 35 anni single, per un totale di 11 milioni di cuori solitari. Benvenuti nella Repubblica islamica dell’Iran, uno dei Paesi più giovani al mondo con una popolazione di 80 milioni di persone e un’età media di 28 anni, dove evidentemente nemmeno la religione e le regole sociali fanno più da argine alla disgregazione del modello di famiglia tradizionale.
Secondo quanto racconta il quotidiano Arman , l’appello rivolto due anni fa dall’ayatollah Ali Khamanei agli iraniani affinché si sposino e facciano figli, fino a diventare una popolazione di 150 milioni di persone nel 2050, è caduto nel vuoto. Al primo posto tra le cause del fenomeno c’è la crisi economica: l’alto livello di disoccupazione, l’inflazione e il caro-affitti scoraggiano la formazione delle coppie. Anche a Teheran i giovani restano a casa con i genitori.
Ma tutto questo non basterebbe a spiegare un fenomeno così diffuso destinato a spopolare il Paese e a produrre, a causa della crescita-zero, la scomparsa di 30 mila villaggi. Anche in Iran, malgrado le leggi islamiche, si sta diffondendo la convivenza, i rapporti tra uomini e donne si sono fatti sempre più possibili, liberi e labili. Al punto che il giornale Arman commenta che tra i giovani «manca il senso di responsabilità», considerati anche fenomeni come l’alcolismo e l’assunzione di droghe che stanno dilagando.
Come il governo cinese, alle prese con lo stesso problema, anche quello iraniano è preoccupato per la sorte della famiglia. Il viceministro degli Affari sociali Mohammad Hadi Ayazi ha una ricetta: corsi per preparare i giovani al matrimonio. Mentre Mahmoud Golzari, dirigente del ministero della Gioventù, propone di migliorare «l’atteggiamento della società verso il matrimonio, usando tutti i mezzi culturali a nostra disposizione, come film, libri, stampa e persino musica». Perché non hanno ancora sperimentato i miracoli della televisione.
Corriere 21.5.2016
Turchia, via l’immunità ai deputati Timori di arresti nell’opposizione
Erdogan prosegue nella sua stretta autoritaria: ora nel mirino c’è il partito curdo
di Monica Ricci Sargentini

Da ieri l’immunità parlamentare in Turchia non esiste più. L’ha cancellata con un colpo di spugna la Camera dei rappresentanti approvando, con la maggioranza dei due terzi, una legge che non dovrà neanche essere sottoposta a referendum. A favore della revoca dell’immunità hanno votato i 316 parlamentari dell’Akp, i 40 nazionalisti dell’Mhp, ma anche una ventina di deputati dell’Chp che ieri aveva lasciato libertà di voto attirandosi le critiche dell’Hdp, il partito filocurdo, che ha sostenuto di essere l’unica vera opposizione in Parlamento.
Ora almeno cento deputati saranno inquisiti e molti rischieranno di finire in prigione. Tra questi ci sono 50 dei 59 rappresentanti dell’Hdp, la forza politica che nel giugno scorso era entrata per la prima volta in Parlamento superando la difficile soglia del 10%. Ma a rischiare di dover lasciare la politica sono anche i leader dei due principali partiti di opposizione: Kemal Kiliçdaroglu, il capo dei kemalisti del Chp che ha 41 procedimenti pendenti e Devlet Bahçeli che ne ha nove. Il leader dell’Hdp Selahattin Demirtas, anche lui con decine di indagini a suo carico, ha gridato al golpe e ha annunciato il ricorso immediato alla Corte Costituzionale: «Nessuno dei nostri deputati andrà volontariamente in tribunale. Dovranno venire a prenderci con la forza, perché in Turchia non c’è un potere giudiziario indipendente».
Ma anche in Europa si sono levati segnali di disagio. Il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, ha detto che «il governo di Berlino segue con preoccupazione la crescente polarizzazione della politica interna turca» assicurando che la cancelliera ne parlerà con il presidente Erdogan lunedì prossimo. Il ministro dell’Interno tedesco, Thomas de Maizie’re (Cdu), ha detto che la legge «getta un’ombra sulle nostre relazioni» mentre il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, ha dichiarato in un tweet che «il voto è un colpo alla democrazia turca e alla libertà politica».
Chi gioisce è invece il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che finalmente vede a portata di mano la riforma costituzionale che trasformerà il Paese in una Repubblica presidenziale. «È un voto storico — ha detto ieri —. Il mio popolo non vuol vedere in questo parlamento colpevoli di reati, in particolare i sostenitori delle organizzazioni terroriste del separatismo». Un chiaro riferimento ai rappresentanti dell’Hdp da sempre accusati dal sultano di Ankara di essere il braccio politico dei terroristi del Pkk. Di certo la decisione del parlamento è la pietra tombale sulla speranza di riavviare il processo di pace con la minoranza curda che si era fermato lo scorso luglio dopo una tregua di 2 anni e mezzo. Da allora nel Sudest della Turchia ci sono stati centinaia di morti, anche tra i civili.
Domenica l’Akp consacrerà il nuovo premier e leader dell’Akp: il ministro dei Trasporti Binali Yildirim, un fedelissimo di Erdogan e, pare, grande sostenitore del presidenzialismo .
La Stampa 21.5.2016
Il fascino di Putin in Europa
di Cesare Martinetti

I generali della Nato che dalla base polacca di Redzikowo scrutano l’orizzonte e si dicono pronti a sparare nel caso Mosca decida l’attacco all’Estonia, non hanno capito che Vladimir Putin, senza sparare un colpo, è già tra noi. Nel consiglio regionale veneto, per esempio, che l’altro giorno si è autoproclamato soggetto di politica estera ed ha riconosciuto la Crimea ritornata russa due anni fa con il primo colpo di mano alla sovietica dopo l’89.
O nei ricchi finanziamenti al partito di Marine Le Pen. Nell’appoggio all’estrema destra austriaca che domenica può arrivare al vertice della repubblica. Nel sostegno diretto o indiretto a tutti i movimenti antisistema che stanno proliferando nell’Unione europea, dall’ungherese Orban, agli spagnoli di Podemos ai tedeschi dell’AfD. Vladimir Putin è ormai un leader globale post novecentesco e cioè oltre la destra e la sinistra.
Intanto dal Veneto leghista ha incassato un riconoscimento straordinario dal suo grande sostenitore Matteo Salvini. Finora l’avevano fatto soltanto Corea del Nord, Siria, Zimbabwe, Uganda, Kirghyzstan. Naturalmente nessuno stato dell’Unione europea e tantomeno nessuna regione. Una provocazione per ottenere la cancellazione delle sanzioni di cui si sta discutendo il rinnovo. Gli elettori del pragmatico leghista Luca Zaia, governatore del Veneto, premono su regione e governo. Secondo il conteggio della Cgia di Mestre, le sanzioni sono costate circa 3,6 miliardi di euro in mancate esportazioni: 1,18 miliardi alla Lombardia, 771 milioni all’Emilia Romagna, 688,2 milioni al Veneto.
Un pezzo significativo di mondo economico che dopo il referendum in cui gli abitanti della Crimea hanno in gran maggioranza detto sì ai russi, non capisce le ragioni di tanto accanimento ideologico che da parte di americani, baltici e polacchi in questi due anni ha di gran lunga sopravanzato i toni da Guerra Fredda usati dai russi. Non sanno e non gli importa un granché del destino storico e simbolico dell’Ucraina che ha ricevuto così il secondo schiaffo dall’Europa, dopo il no del referendum olandese. Il presidente Poroshenko ha protestato, ma chi si interessa più di cosa accade laggiù? E nel Donbass si spara ancora?
Ma se la pressione dei veneti è certamente giustificata (molti in Francia e Germania la penseranno come loro) e il danno economico indiscutibile, le cose in politica estera sono più complicate. Nel reportage di Monica Perosino dalla base Nato polacca pubblicato su la «Stampa» di domenica scorsa, si respirava un clima di rilancio della guerra di propaganda da parte occidentale del tutto asimmetrica rispetto alle abili mosse di Putin. Ma davvero qualcuno pensa che possa invadere uno Stato Baltico? Il capo del Cremlino sta usando da tempo ben altre armi sulla vecchia Europa, un soft power aggiornato ai tempi. Basta leggere su internet il sito «it.sputniknews.com» («è solo l’inizio», diceva ieri a proposito del voto veneto) dove rimbalza una propaganda molto meno grossolana del passato. Anche l’incontro a Cuba tra papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill (molto fedele al Cremlino) è servito alla causa. E ora in molti ambienti ultraconservatori cattolici, in Francia ma anche in Italia, si guarda a Putin come il difensore della cristianità e il vero leader alternativo alla «dittatura» dell’Unione europea. Non si sa quanto fosse chiaro tutto questo ai leghisti veneti che dopo aver celebrato il guitto scomparso Lino Toffolo hanno riconosciuto la Crimea. Ma di certo, come dice sputniknews, è un passaggio che complica la partita.
Il Sole 21.5.16
Raffinerie bloccate, primi razionamenti in Francia
Le proteste per la riforma del lavoro. Continua il braccio di ferro tra il governo e i sindacati in sciopero
di Marco Moussanet

PARIGI Il premier francese Manuel Valls ha ribadito ancora ieri che «la legge di riforma del mercato del lavoro sarà approvata e applicata, senza alcun dubbio». Ma il braccio di ferro con i sindacati più oltranzisti (in particolare Cgt, Force Ouvrière e Sud) continua. E a farne le spese – almeno nel Nord e nell’Ovest del Paese, dove nelle ultime settimane le proteste, e le violenze, sono state più forti – sono anche gli automobilisti.
Da alcuni giorni molti depositi e raffinerie sono paralizzati dai blocchi e dagli scioperi e ieri ci sono stati i primi segnali di una penuria di carburante. In alcuni dipartimenti (l’equivalente delle nostre province) oltre un terzo delle stazioni di rifornimento hanno dovuto chiudere perché rimaste a secco di benzina e gasolio. E le prefetture (sette ieri sera) hanno varato dei provvedimenti di razionamento.
Il rifornimento delle auto, a seconda delle situazioni, è limitato a 20 o 30 litri e quello dei camion a 40 o 150. È inoltre vietato l’utilizzo delle taniche per stoccare il carburante.
Valls ha sottolineato «la determinazione del Governo a rimuovere i blocchi», e ieri sera la polizia è già intervenuta più volte. Mentre il ministro dei Trasporti Alain Vidalies ha negato che ci sia un problema di penuria diffusa e ha detto che in caso di emergenza si potrebbe ricorrere agli stock strategici del Paese. Dando anche il via libera alla circolazione dei Tir nel fine settimana per consentire il rifornimento delle stazioni di servizio.
Ma in molti casi la rimozione dei blocchi è stata seguita dalla decisione dei dipendenti di scioperare e quindi c’è davvero il rischio che raffinerie e depositi rimangano inattivi e la situazione possa peggiorare nei prossimi giorni.
Tanto più che i sindacati radicali, Cgt in testa, non sembrano avere alcuna intenzione di allentare la pressione nei confronti del Governo. E vogliono anzi accentuarla per costringere l’Esecutivo a fare marcia indietro sulla riforma. Una prospettiva che pare irrealistica, con Hollande che si gioca tutto a meno di un anno dalle presidenziali.
Una nuova giornata di proteste e manifestazioni, l’ottava in due mesi, è già stata programmata per il 26 maggio. Mentre il 14 giugno, in coincidenza con il dibattito sulla legge al Senato, è previsto lo sciopero di alcune categorie con una manifestazione nazionale a Parigi. E alcuni dirigenti spingono per uno sciopero generale.
In questo clima sociale di altissima tensione, l’appuntamento cruciale per il Governo sarà in luglio. Quando la riforma tornerà alla Camera per il via libera definitivo. Con il Governo che porrà nuovamente la fiducia e i frondisti socialisti che cercheranno di raccogliere i consensi su una mozione di censura “di sinistra”. Se dovessero riuscirci, la destra ovviamente la voterà e Valls sarebbe costretto a dimettersi. La battaglia, nelle piazze e in Parlamento, è insomma lungi dall’essere finita.
il manifesto 21.5.16
Uranio impoverito: morto a 23 anni, condanna per il ministero della Difesa
«È una sentenza storica - commenta Domenico Leggiero, dell’Osservatorio militare che da sempre segue la questione - perché conferma l’effettiva sussistenza del pericolo a cui andavano incontro i soldati in missione in quelle zone, e sono sicuro che giovedì prossimo, in audizione alla commissione che indaga sulle morti da uranio impoverito, il ministro della Difesa Roberta Pinotti terrà conto di questa importante decisione dei giudici romani»
di Costantino Cossu

CAGLIARI È stato impiegato in Bosnia per centocinquanta giorni. Congedato, il caporalmaggiore Salvatore Vacca, di Nuxis (in provincia di Cagliari),  è morto il 9 settembre 1999 a 23 anni di leucemia, contratta dopo l’esposizione a munizioni e a materiali tossici durante la missione nei Balcani. E il ministero della Difesa è responsabile di condotta omissiva per non aver protetto adeguatamente il militare. Lo stabilisce la sentenza emessa ieri dalla Corte d’appello di Roma, che ha confermato la condanna in primo grado del ministero a risarcire la famiglia del soldato per oltre un milione e mezzo di euro.
«È una sentenza storica – commenta Domenico Leggiero, dell’Osservatorio militare che da sempre segue la questione – perché conferma l’effettiva sussistenza del pericolo a cui andavano incontro i soldati in missione in quelle zone, e sono sicuro che giovedì prossimo, in audizione alla commissione che indaga sulle morti da uranio impoverito, il ministro della Difesa Roberta Pinotti terrà conto di questa importante decisione dei giudici romani». Salvatore Vacca ha prestato servizio per centocinquanta giorni in Bosnia come pilota di mezzi cingolati e blindati nella Brigata Sassari. Nella sua attività il caporalmaggiore sardo ha trasportato materiale che, scrivono i magistrati, si sarebbe dovuto considerare «come ad alto rischio di inquinamento da sostanze tossiche sprigionate dall’esplosione dei proiettili». Rischio che, dicono i magistrati alla luce delle risultanze processuali, «si deve reputare come totalmente non valutato dal comando militare». Questa condotta omissiva, secondo i giudici, «configura una violazione di natura colposa delle prescrizioni imposte non solo dalle legge e dai regolamenti, ma anche dalle regole di comune prudenza».
Salvatore Vacca è morto di leucemia linfoblastica acuta e c’è, secondo la sentenza delle Corte d’appello di Roma, un evidente nesso causale tra la malattia e l’esposizione ad agenti tossici nel corso del servizio in Bosnia. Nell’organismo del militare, infatti, sono state rintracciate svariate particelle di metalli pesanti non presenti normalmente nell’uomo e ciò è «la conferma definitiva – scrivono i magistrati – del reale assorbimento nel sistema linfatico di metalli derivanti dall’ inalazione o dall’ingestione da parte del militare nella zona operativa».
«La sentenza è importante non solo perché stabilisce la colpa della Difesa e il nesso causale tra uso di armi e materiali usati in Bosnia e malattia mortale, ma anche perché – spiega ancora Leggiero – sancisce un’importante distinzione tra indennizzo e risarcimento. La madre di Vacca, infatti, aveva già avuto un indennizzo per danno patrimoniale. Ora invece i giudici affermano che da parte delle autorità militari e della Difesa c’è stato un danno causato dall’inadempienza di misure di sicurezza dovute. E’ una sentenza unica nel suo genere. E se si parla di omicidio colposo di un militare morto e le vittime dell’uranio impoverito sono, come attestato, più di trecento, esattamente 333 e i malati oltre 3.600, allora che cos’è: una strage?».
Da notare che ancora nel marzo di quest’anno il generale Carlo Magrassi, segretario generale della Difesa, davanti alla commissione parlamentare sull’uranio impoverito aveva dichiarato: «Non mi risulta che siano mai stati acquistati per le forze armate italiane armamenti contenenti uranio impoverito. La tutela della salute e della sicurezza del nostro personale rappresenta per noi una priorità».
Una recente inchiesta del settimanale l’Espresso ha rivelato che al ministero della Difesa sono arrivate sinora 532 domande di risarcimento da parte di militari che denunciano danni gravissimi alla salute per esposizione a materiali pericolosi. Esiste un fondo di 10 milioni l’anno che il ministero ha a disposizione per i risarcimenti, istituito nel 2010 insieme con un “Gruppo progetto uranio impoverito” che ha il compito di studiare il fenomeno. Delle 532 domande presentate, ha raccontato l’Espresso nella sua inchiesta, tutte esaminate da un’apposita commissione medica, ne sono state accolte appena il 25%. Molti degli esclusi hanno però fatto ricorso, tanto che a tutt’oggi si possono contare una trentina di giudizi di condanna da parte della magistratura civile e della Corte dei Conti. La sentenza di ieri cambia completamente il quadro.
il manifesto 21.5.16
Sciopero scuola, Cgil, Cisl e Uil: «Giannini dimettiti»

Nuovo sciopero nella scuola ieri dopo quello indetto la scorsa settimana dai Cobas. Stavolta a organizzare la protesta sono stati Flc-Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola e Snals con cortei e iniziative in tutta Italia, anche davanti al ministero dell’Istruzione.
I sindacati chiedono innanzitutto di rinnovare il contratto di lavoro, fermo da anni.
Allo sciopero ha aderito il 9,04% del personale in servizio, secondo quanto ha rilevato il dipartimento della Funzione pubblica.
«Chiediamo le dimissioni del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini e se non ci saranno risposte siamo pronti a proclamare lo sciopero generale», ha detto il segretario Flc-Cgil, Luigi Rossi, alla manifestazione organizzata a Cagliari. «Un anno dopo lo sciopero di maggio 2015, ancora protestiamo contro la legge sulla Buona scuola che non dà risposte – ha proseguito – nella legge 107, infatti, non esiste alcun riferimento al personale tecnico amministrativo, né all’obbligo scolastico e tanto meno al sistema dell’apprendimento permanente».
«Ci preoccupa la direzione che sta prendendo la nostra scuola all’indietro nella storia, ci preoccupano le scuole di tendenza e la trasformazione genetica che sta avendo la scuola ad opera delle legge 107», ha detto Pino Turi della Uil scuola.
La Stampa 21.5.2016
La ginecologa che vuole il reddito di maternità
di Chiara Beria Di Argentine

«Cosa penso di Antinori? Non posso parlare dei singoli casi ma del contesto. A 2 anni dalla famosa sentenza della Corte Costituzionale che ha ammesso la fecondazione eterologa vietando (a differenza di altri Paesi europei) le donazioni a pagamento di gameti (ovuli e spermatozoi) non ci sono donne italiane che offrono spontaneamente i loro ovuli alle donne che non riescono a restare incinte. Siamo a quota zero», dice Alessandra Kustermann, la famosa ginecologa primario della Mangiagalli al Policlinico di Milano.
«Le ragioni del flop? Varie. Premesso che l’eterologa riguarda in maggioranza coppie in cui è la donna sterile sottoporsi a una stimolazione ovarica è un intervento in analgesia (per i maschi, ovvio, è tutto più semplice). La sorellanza? Un conto è la teoria. In questi casi le donatrici affrontano qualcosa d’emotivamente molto profondo: sono tuoi i geni nell’ovocita ma il bambino sarà di un’altra donna. Infine, purtroppo, nell’immaginario collettivo è passata l’idea che a cercare di avere un figlio con la fecondazione eterologa sono donne di 45 anni e più che prima si sono “godute” vita e carriera. Falsità, sapeste quanto dolore! Per alzare un po’ la quota di donatrici bisognerebbe fare una campagna stampa mirata e spiegare come le donne che hanno disperato bisogno di ovulazione sono molto spesso giovani che hanno perso le ovaie a causa di un tumore o perché sono andate in menopausa precoce».
Ospedale di via Commenda. Per capire quanto è cambiato l’universo femminile basta venire in questo luogo non solo simbolico dai tempi della mobilitazione per una legge che non costringesse più le donne ad abortire nella clandestinità o a rifugiarsi in cliniche estere. Un ospedale dove da 20 anni opera anche “SVSDonna Aiuta Donna” che assiste tutte le vittime di violenza sessuale e domestica. «Nel 2015 abbiamo seguito 804 casi, un terzo delle vittime erano minori», sottolinea Kustermann. Tante gioie e infiniti dolori. In quasi 40 anni di professione la ginecologa non aveva mai visto però un caso come quello dell’infermiera spagnola di 24 anni che ha denunciato Severino Antinori. «Lei ha dichiarato che non era consenziente. Dice che non ha venduto i suoi ovociti, le sono stati rubati. Anche questa è violenza di genere». Infatti, l’infermiera dopo il ricovero in Mangiagalli è difesa dalle avvocatesse Francesca Ardizzone e Roberta De Leo che collaborano con SVSDAD. Non solo. Dopo l’arresto di Antinori i carabinieri del Nas hanno sequestrato nella sua clinica Matris 130 ovuli, 60 campioni di liquido seminale e 600 embrioni di oltre 200 coppie e li hanno affidati perché siano conservati proprio alla Mangiagalli. Che tristezza, che insoliti corpi di reato. Ma di chi sono, che fine faranno? In attesa delle decisioni del giudice (caso per caso, alcuni ovociti della infermiera sarebbero stati già fecondati) immaginiamo l’angoscia di coppie che, oltretutto, inseguendo il loro sogno hanno speso molti soldi.
Riflette Kustermann: «In passato decidendo d’interrompere una gravidanza perché non in grado di avere un figlio e ora cercandolo con tenacia il punto è sempre l’autodeterminazione della donna. La scienza medica ha scoperto terapie che aiutano a realizzare il desiderio di maternità e la Corte Costituzionale ha detto che la gravidanza rientra nel diritto alla salute della donna che non è solo fisica ma anche psichica».
Zero donazioni, alti costi per l’eterologa (solo in Toscana, Friuli, Emilia Romagna è a prezzo di ticket), lunghissime liste d’attesa anche per le fecondazioni omologhe. Risultato: business per i centri privati e all’estero(a Modena ha persino aperto una clinica spagnola), rischio di mercato nero. E l’allarme sul crack demografico? «La politica deve trovare soluzioni per esaudire il desiderio iniziale di maternità delle donne che, secondo tutti gli studi, è avere almeno 2 figli. Ma disoccupazione giovanile e la mancanza di interventi di sostegno hanno fatto alzare l’età media al parto a più di 34 anni. Così, tante donne sono finite nella patologia dell’infertilità. Siamo un Paese cattolico solo di nome non di fatto. Il bonus bebè? Non basta. Da donna femminista e di sinistra sono per il reddito di maternità».
La Stampa 21.5.2016
Maternità a ostacoli
Ecco perché l’Italia ha smesso di fare bimbi
di Linda Laura Sabbadini

Caro Direttore,
non è stata solo la crisi a determinare un numero così basso di nascite, e non è vero che le donne non vogliono più avere bambini. Piuttosto, è vero invece, che siamo un Paese in cui è difficile vivere l’esperienza della maternità e crescere figli.
Le donne sono iperflessibili e cercano di conciliare tutto, ma incontrano enormi difficoltà perché il resto della società non lo è. E’ rigida e cambia con lentezza la divisione dei ruoli nella coppia; i congedi parentali, per stereotipi duri a morire, sono ancora presi in massima parte dalle madri. E’ rigida l’organizzazione del lavoro, specie nel settore privato, così come la pianificazione e l’organizzazione dei servizi per la prima infanzia, che sono scarsi, costosi e distribuiti in modo squilibrato a svantaggio del Sud. I tempi delle città e dei luoghi di vita non sono organizzati per rendere accoglienti e semplici le nostre vite. Il part-time non è abbastanza flessibile per migliorare la conciliazione dei tempi di vita. I tassi di occupazione femminile sono più alti per le single e più bassi per le madri, e frequenti sono le interruzioni del lavoro in seguito alla nascita dei figli. Le donne non ce la fanno più, troppo sole nell’assunzione dei carichi familiari. E’ vero che le nonne rappresentano una grande risorsa, ma l’estensione della vita lavorativa delle donne, le rende meno «disponibili» di una volta, quando erano per lo più casalinghe.
Il problema è che tutti questi elementi contribuiscono a fare del nostro un Paese in cui il clima sociale è sfavorevole alla maternità e alla paternità. Tutto gioca contro questo desiderio e la sua realizzazione. L’Istat lo ha documentato da anni. Flessibilità, termine femminile per eccellenza, deve diventare parola d’ordine di tutti se vogliamo invertire la tendenza. Soprattutto serve flessibilità maschile, quella dei luoghi di lavoro e quella delle politiche, non flessibilità solo in funzione delle esigenze delle aziende. Non basta il bonus bebè, il sostegno economico è importante, ma cambierà poco se non diventiamo una società a misura di bambino che punti allo sviluppo della qualità della vita delle cittadine e cittadini di questo Paese.
Il problema non nasce oggi, perchè il nostro è un Paese a bassa fecondità da molto tempo. Lo si affronta e lo si rimuove, in modo altalenante, senza mai adottare una strategia adeguata, di ampio respiro e di lungo periodo, per reinvertire la situazione. Il tempo passa e in mancanza di strategie complessive sono i singoli a costruirsi percorsi di adattamento alle difficoltà.
Nel nostro Paese le nascite toccarono la punta massima di 1 milione e 35 mila nel 1964 e il minimo nel 1995 con 526 mila nati, la metà. Da allora iniziò una continua seppur lenta ripresa. L’arrivo della crisi con il 2008 ha solo peggiorato una situazione già critica da anni. E’ normale che succeda, la crisi incide e agisce tradizionalmente sui rinvii delle nascite a tempi migliori, sia per problemi economici che di fiducia nel futuro. Peccato che ciò sia avvenuto in un contesto già di bassa fecondità. Ma se nel corso degli anni, e per parecchi anni, ci sono meno nascite, diminuiscono le donne giovani, cioè quelle che possono avere figli. E’ un processo a catena: meno giovani donne significa meno figli. Ormai il Sud sta peggio del Nord quanto a fecondità, prima la situazione era opposta.
Serve una strategia multidimensionale che metta al centro tutti gli elementi che agiscono sul clima sociale sfavorevole alla maternità e alla paternità: flessibilizzazione dell’organizzazione dei tempi, dei luoghi e dei soggetti, oltre a sostegno economico. Rendere praticabile la maternità e la paternità nella realtà e non solo sulla carta è la questione fondamentale. Dobbiamo creare una società in cui si possano avere realmente tutti i figli che si desiderano, dove non solo la metà delle coppie che vogliono un secondo figlio riescano ad averlo.
Una società in cui non si deleghi solo alle donne il carico della cura, della maternità e della paternità e in cui le donne non paghino il prezzo del sovraccarico di lavoro e cura. I bambini sono un tesoro inestimabile e devono tornare ad essere considerati tali, un bene comune della nostra comunità. E le donne con loro.
il manifesto 21.5.16
Chiara Saraceno: «La famiglia cementa i divari»
Fotografia statistica del paese dove più le disuguaglianze si approfondiscono
intervista di Rachele Gonnelli

Protettiva per «bamboccioni», disgregata e ignorante per i bambini sotto la soglia di povertà, sostitutiva del welfare e dello Stato che non c’è per i malati, riproduttrice di diseguaglianze di classe nelle opportunità che mancano altrove, è sempre la famiglia, croce e delizia – come in un grande melodramma tragico – che rappresenta plasticamente, in quest’ultimo rapporto Istat, i cambiamenti della società italiana.
Come è cambiata la famiglia italiana in questa nuova fotografia statistica, professoressa Saraceno?
Ciò che emerge dal rapporto e che in effetti diciamo da anni è che in Italia avere una famiglia alle spalle è una necessità, ma è anche un’arma a doppio taglio. Nel senso che nella crisi che stiamo attraversando se nei primi anni il paracadute familiare ha attutito gli effetti dirompenti della crisi stessa sulle dinamiche sociali, poi, alla lunga, il meccanismo si è rovesciato contro sé stesso. Il fatto che la famiglia sia rimasta praticamente da sola con capacità redistributive di tipo solidaristico, fa sì che le famiglie con poche risorse alla fine non ce la fanno. Ciò è molto più grave con il prolungarsi della crisi, quando l’ascensore sociale si ferma del tutto insieme alla mobilità del mercato del lavoro dove avanza solo precarietà e lavoro povero.
Però aumentano anche le donne capofamiglia nei nuclei monoreddito, come evidenziava già Linda Laura Sabbadini.
Sì, ma non credo che segnali un nuovo protagonismo femminile del tipo moglie in carriera e marito casalingo. Spesso questo avviene per necessità, non è scelto. La crisi ha colpito soprattutto i settori a più alta occupazione maschile, come l’industria e l’edilizia, così succede che molte donne con un lavoro secondario si trovano a dover mantenere, con quello, l’intera famiglia o ad accettarne uno in condizioni di svantaggio. E bisogna vedere se ciò va di pari passo a una redistribuzione dei compiti domestici, non mi pare. E ciò vale anche per le funzioni di cura delle persone non autosufficienti, o dei bambini, che anche quando non vivono sotto lo stesso tetto finisce per aggravare fortemente il carico di incombenze delle donne. È per questa ragione che spesso sono perciò costrette ad abbandonare il lavoro per accudire anziani, malati, figli e nipoti. Poi questa redistribuzione in capo alla famiglia è una riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze, che così si approfondiscono. Scuola, sistema di welfare e anche mercato del lavoro non riescono a contrastare le disuguaglianze dell’origine sociale, familiare.
Si è anche fermato del tutto il turn over, si assumono giovani solo nel commercio e turismo, che infatti risultano sovraistruiti rispetto alle offerte di lavoro. Siamo diventati un paese di camerieri?
Alta intensità di lavoro e basse qualifiche, è il problema della nostra economia e dipende dalle imprese, che sono poco competitive perché investono poco in innovazione e puntano solo sui bassi salari. Con la crisi non sono migliorate, o vengono spazzate via o sopravvivono a malapena. E l’Italia vive il paradosso di essere rimproverata dall’Europa per i troppo pochi laureati metre quei pochi sono sovraqualificati. La dice lunga sul nostro mercato del lavoro che continua a investire pochissimo nel capitale umano. Personalmente sono pessimista sulla ripresa. Continuando così l’Italia non sarà mai competitiva, senza uno scatto potrà solo galleggiare più o meno.
Ma come, la ministra Madia e il consigliere Taddei festeggiano l’uscita da una recessione senza precedenti storici e lei è pessimista?
Mi sembra che anche il presidente dell’Istat, persino lui , sia stato molto cauto. Del resto l’Istat in precedenti rapporti aveva avvertito che avremo, forse, solo nel 2050 gli stessi occupati del 2007. Oggi siamo di fronte a zeri virgola, meglio che niente, però..
Fenomeno nuovo e misterioso è quello dei cosiddetti jobless, oltre due milioni di persone che campano senza redditi da lavoro. Chi sono, rentiers?
È una categoria che ci impone l’Eurostat ma è dubbia, noi sociologi diciamo «sporca», perché indica cose diverse. Spesso ci finisce dentro chi non è del tutto senza lavoro ma lavora a meno del 20 per cento delle sue potenzialità, come i voucheristi. Ma vi fanno capo anche i ricchi rentiers. E anche i baby pensionati o le persone che, specialmente nel Sud, si arrangiano nell’economia informale, al nero. O i cosiddetti reddito zero, che magari ricevono qualche forma di assistenza o piccola pensione e arrotondano con lavoretti. C’è tanta economia sommersa dietro questo indice.
Alla fine quale fotografia dell’Italia ci restituisce?
La foto di un paese sostanzialmente fermo, con solo piccoli, deboli, segnali mentre a mio avviso servirebbe una forte scossa per ripartire. Un paese di disuguaglianze multiple – di genere, di generazione, geografiche -che si aggravano, che penalizza soptattutto i giovani. E questo per l’incidenza quasi nulla delle politiche pubbliche. Credo che servirebbe fare una riflessione compressiva su tutto ciò.
il manifesto 21.5.16
Non è un paese per giovani
Nuove povertà. Crescono i trentenni poveri senza reddito né cittadinanza
di Aldo Carra

Il Rapporto Istat 2016, che si colloca all’interno delle celebrazioni del novantesimo anno di vita di questo Istituto, costituisce una novità positiva soprattutto perché sviluppa una lettura per generazione sia delle trasformazioni demografiche e sociali che delle dinamiche del mercato del lavoro. Naturalmente, come sempre, esso comprende una dettagliata analisi dell’evoluzione dell’economia italiana, del sistema delle imprese, della competitività e del lavoro e della protezione sociale. Contiene, quindi, una mole di dati e di analisi rilevante che dovrebbe essere analizzata con attenzione facendo, se possibile, uno sforzo di lettura strutturale.
Siamo abituati quasi ogni giorno a commentare dati Istat molto attuali che si prestano a valutazioni sull’efficacia delle politiche fatte da un governo che ce la mette tutta per scegliere dal mazzo i dati più convenienti riproducendo il teatrino di gufi e civette.
Banalizzare o piegare al clima del momento sarebbe un vero peccato perché i dati forniti vanno ben oltre le polemiche elettorali quotidiane ed evidenziano, invece, problemi strutturali profondi sui quali si potrà studiare, ragionare, confrontarsi, cercare soluzioni. Qui ci limitiamo ad alcuni fenomeni di medio lungo periodo evidenziati dal Rapporto.
Cominciamo dalle famiglie che vivono senza redditi da lavoro: sono oggi 2,2 milioni, comprendono quindi sei milioni di persone, dal 2004 al 2015 sono passate dal 9.4% al 14.2%, raggiungono al sud il 24,5%. L’incremento più forte di questo fenomeno si è registrato nelle famiglie di giovani dove la percentuale è sostanzialmente raddoppiata.
Questi pochi dati mi pare già dicano tanto su un fenomeno, non attribuibile certo solo al governo attuale, che dovrebbe diventare centrale nelle scelte politiche. Se non si creano occasioni di lavoro e quindi di reddito e ci si rifiuta anche di introdurre forme di reddito di cittadinanza, qualcuno dovrebbe spiegarci come si può combattere la povertà e la sfiducia nel futuro. Quando parliamo, quindi, di un buon utilizzo di questi dati pensiamo alla necessità ed urgenza di dare priorità assoluta alle occasioni di lavoro e reddito da creare e di concentrare su questo le poche risorse che ci sono e ci saranno. E su questo elemento dell’occupazione aggiuntiva il Rapporto evidenzia che, incentivi o meno, siamo lontani dalle esigenze e che cresciamo meno di quanto non avvenga mediamente in Europa.
Un secondo aspetto rilevante che emerge dalla relazione è il rapporto tra lavoro e studio. Le generazioni più anziane avevano investito nell’istruzione ed i livelli di scolarizzazione erano diventati strumenti importanti di mobilità sociale. La crisi economica ha indebolito il rapporto tra titolo di studio ed occupazione e quindi depotenziato questo straordinario strumento di emancipazione sociale.
Oggi un giovane su tre risulta sovra istruito rispetto al lavoro e dopo tre anni solo il 53% dei laureati ha trovato una occupazione ottimale rispetto al titolo conseguito. E non è incoraggiante il dato che emerge che le professioni più frequenti sono quelle di commesso, cameriere, barista, cuoco, parrucchiere, estetista. Non perché esse non siano attività necessarie ed utili, ma perché, in parallelo, non nascono posti di lavoro sufficientemente qualificati per la totale assenza di una politica di incentivazione degli investimenti destinati all’innovazione di processo e di prodotto.
Un terzo elemento che vogliamo rilevare in questa rapida carrellata riguarda la bella panoramica delle diverse generazioni che il Rapporto contiene a partire dalla generazione della ricostruzione protagonista del Dopoguerra, alle generazioni del baby boom caratterizzate dalla generazione dell’impegno e delle lotte degli anni settanta, alle generazioni dell’identità, per arrivare alla generazione della transizione, di passaggio tra vecchio e nuovo millennio, che sta subendo i contraccolpi della recessione.
Emergono in questa disamina fattori sui quali riflettere. Fra i nati negli anni quaranta l’80% aveva vissuto un “evento di vita” come il vivere da soli, la formazione di una famiglia o la nascita di figli; tra i nati negli anni settanta quella percentuale è scesa al 60%. Così nel 2015 il 70% dei giovani tra 25-29 anni ed il 54% delle coetanee vivono ancora in famiglia. Se si dovesse scavare di più e meglio su questi dati emergerebbe non solo una classificazione generazionale, ma una classificazione territoriale e, quindi, sociale.
E’ chiaro che in una società con scarse occasioni di lavoro e di studio, nelle professioni meno qualificate di cui si parlava si trovano gli strati più popolari e che per esse con la crisi piove su bagnato nel senso che le occasioni di mobilità sociale verticale si riducono, cresce il carattere ereditario dell’istruzione e dell’accesso alle professioni più qualificate e privilegiate, la stratificazione sociale e le disuguaglianze, insomma, si perpetuano.
Fermo restando il nostro giudizio positivo sulle novità di questo Rapporto, auspichiamo che nelle prossime edizioni potranno trovare più spazio queste analisi su stratificazioni sociali, disuguaglianze, mobilità.
il manifesto 21.5.16
Un paese feroce e in guerra contro i giovani
Istat. Rapporto annuale 2016: l'Italia è il paese dove le diseguaglianze di classe sono cresciute di più al mondo dopo il Regno Unito. I giovani e i minori, schiacciati dal sistema della precarietà, sono senza giustizia. Le famiglie sostituiscono il welfare e sostengono i figli senza lavoro fisso e pensione, ma iper-precari. Invece di disinnescare questa bomba sociale che sta facendo esplodere il Welfare (familiare), si preferisce insultarli: «bamboccioni»
di Roberto Ciccarelli

Il paese dove le differenze di classe crescono e si rafforzano. È il ritratto che emerge dal rapporto annuale 2016 presentato ieri dal presidente dell’Istat Giorgio Alleva alla Camera, alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella e in coincidenza del 90° anniversario dell’istituto nazionale di statistica. Tra il 1990 e il 2010 le diseguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate da 0,40 a 0,51 nell’indice Gini sui redditi individuali lordi da lavoro. È l’incremento più alto tra tutti i paesi per i quali sono disponibili i dati.
Chi proviene da una famiglia con uno statsu alto – ha una casa di proprietà e almeno un genitore con istruzione universitario – ha visto accrescere la distanza economica e sociale rispetto a chi proviene da famiglie di status basso: l’Italia è al 63%, percentuale quasi doppia della Francia (37%) e Danimarca (39%). Primo in classifica è il Regno Unito con il 79%, il paese della rivoluzione thatcheriana che ha rafforzato a dismisura dagli anni Ottanta in poi le differenze di classe, come ha ricordato da ultimo Anthony Atkinson nel suo libro Diseguaglianza.
Dopo veniamo noi, sintomo che è avvenuta un’analoga rivoluzione che ha premiato un’elite a svantaggio dei molti. Parliamo di una realtà antecedente all’esplosione della crisi, ma dai dati dell’Istat emerge una il ritratto di un paese dove la povertà colpisce tre volte più al Sud che al Nord, mentre la spesa sociale che cresce meno che in altri paesi è la più inefficiente al mondo. Peggio dell’Italia fa la Grecia stritolata dai memorandum della Troika dal 2010 a oggi.
Lotta di classe dall’alto
I più danneggiati dalla guerra sociale in corso sono i minori che vivono nelle famiglie in cui il capofamiglia e disoccupato, precario o lavoratore part-time: la spesa pro capite per interventi destinati a famiglie e minori è scesa tra il 2011 e il 2012 da 117 a 113 euro, con differenze territoriali decisamente importanti, dai 237 euro dell’Emilia-Romagna ai 20 euro della Calabria. I minori sono i soggetti che hanno pagato il prezzo più elevato della crisi in termini di povertà e deprivazione, scontando un peggioramento della loro condizione. Tra il 1997 e il 2011 l’incidenza della povertà relativa era al 12%. Nel 2014 ha raggiunto il 19%.
La forbice della diseguaglianza si allarga rispetto alle generazioni più anziane che nel 1997 presentavano un’incidenza di povertà di oltre 5 punti percentuali superiore a quella dei minori. Nel 2014 l’incidenza è diminuita del 10% rispetto ai più giovani. Questo significa due cose: gli effetti della contro-rivoluzione sono solo all’inizio: oggi producono precarietà di massa, domani porterà una povertà epocale tra gli attuali tredicenni. Secondo elemento: il paese è spaccato a più livelli, Sud contro Nord, tra le generazioni, tra i redditi e tra territori contigui.
Altro che «bamboccioni»
Dopo il calo del biennio 2013-2014, l’indicatore sulla «grave deprivazione materiale» si è stabilizzato all’11,5% nel 2015. Ma si mantiene su livelli alti per le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione. A livello strutturale, dunque, la tendenza è la stessa degli ultimi 25 anni. Senza contare che esiste un’ampia sfera di lavoro grigio o sommerso che deriva dalla somma di disoccupati e forze lavoro potenziali, ovvero le persone che vorrebbero lavorare ma che non trovano lavoro: 6,5 milioni nel 2015.
In questo quadro rientra la sotto-occupazione e il «disallineamento» tra le competenze e i lavori dei laureati. Uno su tre tra 15 e 34 anni è «sovraistruito» rispetto a quanto richiede il mercato. Uno su quattro è precario. A tre anni dalla laurea solo il 53,2% ha trovato un lavoro «ottimale». L’impossibilità di trovare un reddito dignitoso per sostenere un affitto, spinge 6 giovani su 10 a vivere con i genitori fino ai 34 anni. Oltre un quarto è disoccupati o inoccupato, e non cerca lavoro: 2,3 milioni. Altro che «bamboccioni». Il non lavoro, o il lavoro povero, non è una colpa, ma un problema politico.
Questa situazione coesiste con la diminuzione della disoccupazione di 203 mila unità, poco più di 3 milioni di persone (11,9%) e con la crescita di 186 mila occupati nel 2015. L’Istat, infatti, registra «un miglioramento piuttosto modesto del grado di utilizzo dell’offerta di lavoro» nei prossimi anni. Nel 2025 il tasso di occupazione – in Italia tra i più bassi dei paesi Ocse (56,7%) – potrebbe restare «prossimo a quello del 2010, a meno che non intervengano politiche di sostegno alla domanda di beni e servizi e un ampliamento della base produttiva». Per garantire un simile ampliamento serve una discontinuità radicale, superiore all’aumento occasionale, e di breve durata, prodotto dai costosi incentivi governativi per i neo-assunti del Jobs Act. Quello che sembra essere certo oggi è che il paese resterà fermo per altri quindici anni.
Bomba sociale
L’Italia è il paese più invecchiato al mondo. Prevalgono gli over 64, mentre le nascite sono al minimo storico. Sui 60,7 milioni di residenti, gli over 64 sono 161,1 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Insieme a Giappone e Germania, un altro primato. Le nuove generazioni di anziani vivono meglio del secolo scorso e dei loro genitori. Stili di vita salutari, un sistema previdenziale e sanitario migliore, nonostante i redditi bassi e i tagli e i disservizi della sanità pubblica. L’aspettativa di vita fino a 80 anni costituisce per i più giovani, figli e nipoti, un ammortizzatore sociale di ultima istanza, nella totale assenza di un moderno Welfare universalistico.
Questo è il regime biopolitico di sussistenza che dal pacchetto Treu del 1997 al Jobs Act del 2015 permette ai «riformatori» di sperimentare le loro ricette sulla precarietà che oggi interessano due generazioni: i nati negli anni Settanta e quelli tra il 1981 e il 1995. In mancanza di una redistribuzione della ricchezza esistente, si distribuisce il reddito pensionistico. Un altro modo per aggravare le diseguaglianze strutturali nel paese. Chi è nato negli anni Ottanta, ha ricordato Boeri dell’Inps, lavorerà fino a 75 anni. Con ogni probabilità, non percepirà la pensione e non sosterrà i propri figli al posto del Welfare. È la bomba sociale a cui porterà il sistema della precarietà e il regime contributivo delle pensioni a partire dal 2032.
Rimedi sbagliati
Ai sostenitori della «staffetta generazionale» non piacerà questa tendenza del mercato del lavoro. A questa ipotesi, tornata di moda nel dibattito sulle pensioni e la «flessibilità in uscita», viene affidata la flebile speranza di sostituire i pensionati che accettano di decurtarsi l’assegno con giovani precari assunti con il Jobs Act.
Il confronto tra i 15-34enni occupati e i 54enni in pensione da non più di tre anni dimostra la difficile sostituibilità «posto per posto» tra anziani e giovani. Commercio, alberghi, ristoranti o servizi sono i settori dove questi ultimi sono occupati, con i voucher (+45% nel 2016) o a termine, le uscite non sono state rimpiazzate dalle entrate: dentro ci sono 319 mila, fuori 130 mila. Nella P.A. e nella scuola, ne sono usciti 125 mila, 37 mila sono entrati.
Esiste un blocco strutturale che impedisce la realizzabilità dell’ipotesi su cui si regge l’attuale dibattito tra sindacati e governo. Ma nessuno se ne rende conto. Apparentemente.
La Stampa 21.5.2016
La marcia per i nuovi diritti è inarrestabile
di Marcello Sorgi

Da commenti e analisi dedicate alla morte di Marco Pannella è venuta una domanda, legata, seppure non esclusivamente, all’emozione sollevata dalla sua scomparsa. E cioè: ci sarà ancora un futuro, e quale, per i diritti civili in Italia, adesso che il paladino di quei diritti se n’è andato?
Senza girarci attorno, la risposta non può che essere sì. Intanto perché in quel campo, va riconosciuto, una parte del lavoro è stato fatto. L’Italia non è più, com’era ancora all’alba degli Anni Settanta, un Paese arretrato, uno degli ultimi che continuava a imporre per legge il dogma del matrimonio indissolubile. Per merito di Pannella e dei radicali - ma anche dei laici, dei socialisti e perfino dei comunisti, che abbandonarono la loro iniziale e irrazionale resistenza, e a discapito dei democristiani che si opposero, dapprima con decisione e via via sempre meno -, il divorzio è legale da quarantasei anni, e l’aborto da trentotto.
I due referendum promossi per cancellarli nel 1974 e nel 1981 si conclusero con il 59 e il 68 per cento dei voti in difesa di quei diritti (compresi moltissimi cattolici che si espressero in dissenso dalle indicazioni della Chiesa e della Dc). E da due settimane, anche stavolta, in ritardo sul resto d’Europa e del mondo, il Parlamento ha approvato la legge sulle unioni civili, che assegna per la prima volta anche agli omosessuali conviventi diritti uguali a quelli delle altre coppie di fatto e assimilabili ai coniugi uniti in matrimonio. Ciò è avvenuto per merito (o responsabilità, secondo i punti di vista) di Matteo Renzi, presidente del Consiglio appartenente a una generazione di giovani scout che d’estate, quando partecipavano alle Giornate della Gioventù, la sera, dopo aver cantato in coro con Wojtyla, si coricavano all’aperto e facevano l’amore nei sacchi a pelo, confidando nella benevolenza del Papa.
E tuttavia, dal testo varato alla fine della tormentata, ma niente affatto superflua, discussione parlamentare, sono state stralciate, com’è noto, le adozioni dei figli dei partners. Si riprenderà a discuterne, forse non si farà in tempo a inserirle in un’altra legge in questa legislatura, ma è inutile nascondersi che prima delle Camere arriveranno, anzi sono già arrivate, le sentenze che hanno riconosciuto il diritto ad essere genitori per uomini e donne gay uniti stabilmente, e in grado, secondo i giudici, di dare amore sincero e buona educazione ai loro figli. Per un numero limitato di casi di questo genere di adozioni già approvate, ci sono decine, forse centinaia, di bambini in attesa dei loro diritti di figli: anche questo è bene saperlo.
La legalizzazione dell’uso di droghe leggere, formalmente per uso medico, appare e scompare dai calendari delle commissioni parlamentari; il testamento biologico e l’eutanasia si affacciano all’inizio di ogni legislatura e poi immancabilmente si perdono per strada. Ma questo non vuol dire che il cammino dei diritti si sia fermato o sia condannato a fermarsi, perché la velocità del cambiamento della società civile ė tale che anche i politici più ciechi non possono non vederlo. Non si tratta, in altre parole, dei casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, protagonisti delle battaglie più recenti dell’ultimo Pannella per dare ai familiari di malati senza speranza il diritto di por fine alle loro sofferenze. In molti ospedali italiani, anche questo si sa, si cerca di supplire alla mancanza di norme in questo settore adoperando pietosamente, ai limiti della legge, le risorse più avanzate della scienza medica. Ed è la generosità, alle volte sorprendente, di parenti di moribondi, a incoraggiare il salvataggio di altre vite, grazie agli espianti e ai trapianti di organi.
Le carceri, non a caso motivo di un’altra predicazione laica e degli azzardati digiuni di Pannella, sono ancora il luogo di indicibili barbarie, che la civiltà giuridica non dovrebbe consentire, in quella che si vanta di essere la patria del diritto. Ma almeno, grazie all’impegno di due ministri come Paola Severino e Andrea Orlando, si ė riusciti a limitare il problema del sovraffollamento delle celle, avendo il coraggio di trovare forme alternative alla carcerazione e ponendo limiti alla condizione miserabile e disumana di moltissimi detenuti. Molto resta da fare, infine, in materia di cittadinanza, e tutto o quasi sul terreno irto di ostacoli dell’immigrazione extracomunitaria, gravata da insorgenti egoismi europei e uso esasperato di convenienze elettorali interne. Anche in questo campo gli italiani sono migliori, oggi, di quel che sembra l’Italia. La marcia verso il riconoscimento dei nuovi diritti è per questo inarrestabile. Resta solo da capire perché la politica seguiti ad essere più lenta della società che dovrebbe rappresentare.
Era così quaranta e più anni fa, quando il solitario Pannella si alzò a contestare il predominio consociativo di Dc e Pci: per salvare il patto sotterraneo con cui dal governo e dall’opposizione, ma in realtà in piena collaborazione, controllavano il Parlamento, i due grandi partiti di massa avevano messo da parte la questione dei diritti, destinata a dividerli. E avrebbero preferito continuare a ignorarla. Ma ora che la Dc non c’è più e i post-comunisti sono ridotti a minoranza del partito del premier, adesso che Papa Francesco («Chi sono io per giudicare i gay?») lascia ai vescovi il compito di protestare, giusto un atto dovuto, contro le unioni civili, ma poi consente la comunione per i divorziati e apre alle donne diacono, che ragione c’è di continuare a frenare l’evoluzione della società italiana, divenuta moderna malgrado tutto? Tra Prima e Seconda Repubblica, è duro ammetterlo, non c’è stato alcun passo avanti. Anzi s’è aggravato il meccanismo sterile delle interdizioni reciproche. Nella Terza, che dovrebbe uscire dal referendum di ottobre, chissà come andrà. La vigilia è lunga, il pessimismo dell’intelligenza sovrasta l’ottimismo della volontà. Seminare trappole per avversari mai considerati degni di diventare interlocutori, non sforzandosi di far altro, rischia di rendere la politica e i politici italiani sempre più lontani dalle attese dei cittadini. E purtroppo, non solo in materia di diritti.