sabato 22 ottobre 2011

l’Unità 22.10.11
A sei giorni dagli scontri di San Giovanni, la Fiom riempie pacificamente piazza del Popolo
Camusso: «Marchionne bugiardo, governo complice». Landini: «Noi parte migliore del Paese»
Roma torna aperta
Operai in corteo per lavoro e diritti
Diecimila operai di Fiat e Fincantieri manifestano con un «corteo» a Villa Borghese. Gli operai sfilano con le forze dell’ordine “inutilizzate”. Polemiche per le parole del prefetto Pecoraro
di Massimo Franchi


Il «primo corteo ambientalmente sostenibile» (Landini dixit) riporta una manifestazione a Roma a sei giorni dallo scempio di piazza San Giovanni. Nonostante le ordinanze e i divieti, l’orgoglio operaio attraversa pacificamente Villa Borghese. Da Porta Pinciana, dove parcheggiano un centinaio di pullman da tutta la penisola, ci si incammina verso piazza del Popolo scortati da poca Polizia. Il grosso delle forze dell’ordine sono a piazzale Flaminio con i blindati presenti in forza ma inutilizzati. Diecimila operai riempiono piazza del Popolo. Nessun incidente (se non la contestazione di un esagitato a Nichi Vendola in un bar vicino alla piazza), solo tanta rabbia e tanta dignità.
Sul palco di piazza del Popolo per tre ore sono stati progatonisti i lavoratori. Per ogni stabilimento dei gruppi Fiat (più componentistica e settore bus) e Fincantieri un operaio ha spiegato la situazione e la sua storia. Da Monfalcone a Termini Imerese, dall’Iveco di Brescia alla Fma di Pratola Serra, dalla Bredamenarinibus di Bologna alla Fincantieri di Castellamare di Stabia, l’Italia è ancora un paese pieno di fabbriche. Nonostante Marchionne e Bono abbiano aumentato la cassa integrazione ovunque e messo a rischio migliaia di posti di lavoro.
La prima a prendere la parola è Silvia, lavoratrice Irisbus di Valle Ufita, azienda chiusa dalla Fiat ad ottobre, che da 107 giorni è in sciopero e in presidio permanente. «Noi donne siamo solo il 10 % dei 00 lavoratori perché siamo entrate solo come categoria protetta, ma in questa lotta siamo diventate protagoniste e vogliamo continuare a lavorare. Marchionne non ci può lasciare in mezzo a una strada».
Sotto il palco tanti esponenti politici, dal leader di Sel Nichi Vendola a Paolo Ferrero di Rifondazione, dal responsabile Economia del Pd Stefano Fassina al capogruppo in commissione Lavoro Cesare Damiano. Rimangono ad ascoltare interessati, scambiano abbracci con Landini e Camusso. A parlare invece viene invitato un ospite inatteso. L’intervento del professore Stefano Rodotà viene molto applaudito dalla piazza: «Dovrebbe esserci un sentimento di gratitudine per la Fiom. Oggi non sta difendendo solo i diritti dei lavoratori, ma i diritti di tutti. Il diritto al lavoro, fondamento di una Costituzione ormai messa oggi giorno in discussione, un diritto al lavoro messo in pericolo dall’articolo 8 della manovra. E ancora di più il diritto a manifestare. Perché in questo è compreso quello a tenere i cortei e oggi è stato negato».
Poi è toccato a Maurizio Landini. Il segretario generale dei metallurgici Cgil ha criticato duramente le parole del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro: «Dire che noi non dovevamo manifestare perché eravamo in piazza anche sabato è offensivo. Noi, che non abbiamo bisogno di patenti, continueremo a manifestare per cacciare questo gorveno e per riportare la democrazia nelle fabbriche. I miei predecessori mi hanno insegnato che bisogna resistere un minuto in più del tuo padrone e noi lo faremo sapendo che abbiamo un consenso sempre più largo. Siamo la parte migliore di questo paese e per questa ragione continueremo a lottare», conclude Landini.
CAMUSSO RICONQUISTA LA PIAZZA
A chiudere la manifestazione è stata Susanna Camusso, salita sul palco con la felpa rossa della Fiom. Quando il segretario della Cgil ha preso la parola una sparuta minoranza della piazza l’ha fischiata (il gruppo “Operai contro” della Ferrari di Maranello). Ma durante il discorso e alla fine ci sono stati solo applausi. Per Camusso il piano "Fabbrica Italia" ha portato «solo alla chiusura di tre stabilimenti e a nessuna soluzione per gli altri. Marchionne farebbe bene a tacere o a non dire bugie, come quando ha detto che in nessun paese al mondo lui spiega quali modelli produrrà. È falso perché lo ha fatto in Serbia, in Brasile e con Obama. E il governo è stato suo complice. Noi continueremo a manifestare, venerdì prossimo lo faremo qui con i pensionati e il 3 dicembre ci riprenderemo piazza San Giovanni per mettere al centro la questione del lavoro».

il Fatto 22.10.11
Soldi all’editoria, B. non ha più amici
Ora che Lavitola è senza giornale arriva la mannaia di Governo
di Chiara Paolin


“La Fnsi non sarà né il medico né l’infermiere dell’eutanasia dei giornali. Riformatori sino in fondo sì, complici di un delitto mediatico no”. Così la Federazione Nazionale della Stampa, sindacato unitario dei giornalisti italiani, ha rotto il silenzio sui fondi per l’editoria. Argomento antico, minaccia incombente, taglio preannunciato ma ancora fumoso: si sa solo che dai 194 milioni previsti per il 2011 a copertura del 2010 si dovrà procedere a un drastico taglio per l’abbinata 2011/2012. Solo tre anni fa il budget era di 450 milioni: che succederà ora? “Un massacro - spiega Lelio Grassucci, presidente dell’associazione Mediacoop - perché dai famosi 194 milioni bisogna eliminarne 75, come deciso da Tremonti con la legge di stabilità. Dei restanti 119 ne andranno via 50 per il debito che ha lo Stato con Poste Italiane (per le facilitazioni sulle spedizioni), mentre altri 40 servono per il contratto di servizio che la Presidenza del Consiglio ha con la Rai. Ergo, la cifra davvero a disposizione dei giornali resta esigua, venti o trenta milioni da dividere tra tutti gli aventi diritto. Una vera condanna a morte per circa 100 testate e 4mila lavoratori”.
Il sottosegretario con delega all’informazione, Paolo Bonaiuti, a inizio ottobre ha organizzato una consulta permanente sulla questione. Dopo alcune sedute interlocutorie, e con le intercettazioni di Lavitola ben in vista sul tavolo, i toni si sono fatti più aspri: “L’incontro di giovedì è finito male - conferma Franco Siddi, segretario Fnsi -. Abbiamo posto in modo chiaro le opzioni possibili, purtroppo le risposte sono rimaste vaghe. Esempio: i giornali di partito siano messi in carico al partito tramite l’apposito finanziamento. Risposta governativa? Nessuna. Capitolo finti giornaletti a uso personale: ho denunciato il caso del l’Umanità, non senza causarmi inimicizie, ho segnalato da tempo anomalie tipo l’Avanti, ho chiesto di utilizzare un metro severo. Anche qui, nulla di fatto”.
E POI ci sono altri passaggi delicati, tipo quello delle grandi testate che tramite il controllo di piccole cooperative chiedono - e ottengono - contributi, come nel caso di Libero e il Riformista, o come La Stampa con il Corriere Mercantile. “Questo governo continua a improvvisare - attacca Giovanni Rossi, segretario aggiunto Fnsi -. Serve un progetto organico con tempi di transizione rapidi ma rispettosi di realtà importanti. Testate locali che mantengono cultura e occupazione, giornali storici che non si possono abbandonare al proprio destino : al di là delle idee e delle ideologie, restano un patrimonio collettivo”. Giovedì prossimo la consulta sull’editoria ha annunciato una conferenza stampa alla Camera, e Siddi pare intenzionato a dichiarare apertamente il distacco Fnsi: non vuole firmare accordi che decretino la fine delle testate piccole ma virtuose in nome di un’operazione immagine. “È un momento difficile - aggiunge il direttore dell’Ansa, Luigi Contu -. Noi l’anno scorso abbiamo avuto un taglio di 6 milioni solo dalle convenzione con il ministero degli Esteri. Se continua così sarà impossibile mantenere il livello degno della più importante agenzia di stampa nazionale”. Molti enti e istituzioni pubbliche stanno inviando lettere in cui dicono di non voler confermare gli abbonamenti: “La vostra offerta eccede il nostro fabbisogno informativo”, si legge. Il che significa appoggiarsi a fonti preselezionate come le rassegne stampa di Parlamento e ministeri.
Perché il punto vero, oltre a quello occupazionale, sta proprio nel restringimento delle notizie in circolazione, o meglio nella messa all’asta a prezzi ribassati dell’autonomia giornalistica: quante testate minori ma libere saranno costrette a cercare finanziamenti alternativi, cedendo magari a qualche smussatura pur di sopravvivere? “Eppure basterebbe pochissimo - chiude Siddi -. Una volta fatta la dovuta pulizia, istituiamo una tassa dell’uno per cento sulla pubblicità tivù per un fondo pro editoria. Sarebbero 450 milioni all’anno, cioè il volano del comparto e della libertà di stampa. L’ha fatto Sarkozy, perché Berlusconi no?”.

il Fatto 22.10.11
Così si prova il voto di scambio
di Bruno Tinti


Pubblico ufficiale è chi esercita una pubblica funzione legislativa, giurisdizionale o amministrativa. Come tutti sanno, il Parlamento fa le leggi e dunque i parlamentari, che se lo meritino o no, sono pubblici ufficiali. Altra premessa un po’ banale. Il codice pena-le prevede, all’articolo 319, la corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio (Il pubblico ufficiale che, per compiere un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da due a cinque anni). Scendiamo dalle previsioni astratte a esempi concreti. La maggioranza di B&C si sta sfaldando; pezzi importanti l’abbandonano e i Pdl rischia di trovarsi in minoranza. Se succede, il Presidente della Repubblica scioglierà (forse) le Camere e ci saranno nuove elezioni.
IL MOMENTO è nero, i sondaggi sono pessimi e B&C rischiano di perderle. Se le perdono, sarà un grave problema: B non riuscirà a far approvare le leggi che gli servono per non farsi processare e rischierà anche la prigione; i C di B rischieranno di non riuscire a fare ancora i parlamentari e di dover andare a lavorare; qualcuno di loro di condividere il destino giudiziario del capo. Giusto prima della votazione decisiva, alcuni parlamentari dell’opposizione passano alla maggioranza e, con il loro voto, la salvano dalla sconfitta. E questo non succede una volta sola. Alcuni di questi sono, poco dopo, nominati vice ministri o sottosegretari o sono mandati a ricoprire importanti cariche pubbliche. Altri parlamentari, rimasti con l’opposizione, raccontano di essere stati avvicinati, prima del voto, da componenti autorevoli del Pdl che li hanno invitati – dicono – a passare dalla loro parte con questa argomentazione: “Dimmi cinque cose che desideri, sarai accontentato”. In diritto penale si parla di “fattispecie”: significa ciò che risulta dall’applicazione della legge penale al caso concreto. Sicché si potrebbe ipotizzare questa fattispecie: alcuni parlamentari (pubblici ufficiali), eletti tra i partiti che sono all’opposizione, hanno deciso di abbandonarla e di schierarsi con la maggioranza, votando a favore delle leggi da questa proposte (atto contrario ai doveri di ufficio); e ciò hanno fatto perché gli sono stati dati o promessi soldi o perché gli sono state promesse importanti cariche pubbliche (denaro o altre utilità). Non ci piove, se le cose stanno così, si tratta di corruzione, prigione da 2 a 5 anni. Se le cose stanno così. Questo è il punto. Che le cose stiano così bisogna provarlo.
1 – Il parlamentare non ha vincolo di mandato. Questo vuol dire che non è obbligato a restare con il partito che lo ha inserito nelle liste elettorali e che lo ha fatto eleggere (ovvero, attualmente, con il porcellum, che lo ha nominato). Una vola eletto può fare quello che gli pare. Se, colpito da improvvisa luce come Paolo sulla via di Damasco (questa luce è frequentissima nei palazzi parlamentari), si rende conto che l’interesse supremo del paese è meglio servito da quella maggioranza contro la quale, fino a ieri, ha sputato veleno, nulla gli vieta di abbandonare il partito di origine e schierarsi con un altro che di questo è fiero avversario. Dite che in questo modo si creano le condizioni ottimali per la sagra dei voltagabbana? Sì, proprio vero, però le cose stanno così. E, se stanno così, non si può parlare di atto contrario ai doveri di ufficio. Il mio dovere è votare secondo coscienza: la mia coscienza mi dice che il voto giusto è quello a favore di B&C; io seguo la mia coscienza. Questo il man-tra dei voltagabbana.
II – Però ti hanno promesso che, se cambierai partito, ti nomineranno sottosegretario o chissà cos’altro. E, in effetti, sottosegretario sei stato nominato. Sì, ma, che c’entra? Quando io ho visto la luce e mi sono comportato come mi dettava la mia coscienza, io non mi aspettavo nulla; ho solo fatto quello che mi pareva giusto, un imperativo etico a cui mai mi potrei sottrarre. Solo che i nuovi compagni di viaggio hanno scoperto in me qualità eccezionali; si sono resi conto che sono un uomo di valore. E hanno deciso di utilizzarmi nell’interesse del Paese e del partito. E anche questo fa parte dei miei doveri. E, se le cose stanno così, non si può parlare di danaro o altra utilità (la nomina a cariche importanti) come compenso del cambio di schieramento. Il convertito ha agito per via della grande luce, mica per i soldi o il sottosegretariato.
III – Ma, veramente, noi crediamo che tu la grande luce non l’hai proprio vista. È venuto un signore importante, emissario di B, che ti ha detto: “Se vieni con noi soddisferò 5 tue richieste”. Si è vero, io non ci avevo pensato a cambiare bandiera. Ma poi mi hanno promesso che le mie battaglie nell’interesse dei miei elettori, del mio paese, dell’ Europa, del mondo sarebbero state considerate importanti (come sono) e che mi avrebbero appoggiato. E io per questo faccio il politico, per salvare l’Italia, l’Europa, il mondo. E, se le cose stanno così…
DITE CHE, come linea di difesa, vale quanto il 2 di picche con briscola a denari? Eh, non lo so. Un sacco di gente e più di metà di questi parlamentari pubblici ufficiali integerrimi dicono di credere che B si è speso con la Questura di Milano perché era convinto che Ruby fosse la nipote di Mubarak. Sicché… A parte gli scherzi, ogni imputato (e figuriamoci un integerrimo parlamentare) può dire qualsiasi cosa: provate voi che non è vera.

Corriere della Sera 22.10.11
Il «testimone assente» delle stragi in Argentina
di Matteo Collura


Il giorno dopo avere inviato ai giornali una lettera aperta alla giunta militare argentina
(25 marzo 1977), un duro j'accuse sulle sofferenze del suo popolo e le gravi violazioni dei diritti umani, del giornalista Rodolfo Walsh non si è saputo più nulla. Il suo nome è nel lungo, tragico elenco dei desaparecidos. Il modo migliore per ricordarlo è leggere le sue coraggiose cronache dei crimini perpetrati dai governanti argentini del suo tempo.
Ci incita a farlo un libro appena pubblicato da La Nuova Frontiera, Operazione massacro
di Rodolfo Walsh (introduzione di Alessandro Leogrande, traduzione di Elena Rolla, pp. 253, 12), coinvolgente resoconto di una strage di civili, avvenuta in Argentina nel 1956, in cui erano implicati i vertici delle forze armate che avevano rovesciato il peronismo. Grande prova di giornalismo narrativo e d'inchiesta, questa che precede di otto anni A sangue freddo di Capote; e una conferma che la letteratura è in grado di far parlare i morti: Rodolfo Walsh è «el testigo ausente» (il testimone assente).

il Fatto 22.10.11
Gustavo Zagrebelsky

La neolingua del potere: “Terribilmente povera”
di Silvia Truzzi


Si può dire tutto e non succede più niente. Significa che le parole della politica si sono svuotate e impoverite, delegittimando il pensiero che esprimono. Etica e istituzioni ma anche solidarietà e uguaglianza. Si usano ma nessuno le ascolta più. Gustavo Zagrebelsky, giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale, ha scritto per Einaudi un pamphlet: “Sulla lingua del tempo presente”.
Professore, partiamo dalla “questione morale”: tanto sbandierata non ha più nessuna corrispondenza con la realtà.
La morale attiene all’intimo degli individui, è poco appropriato applicarla alla politica.
Diciamo etica?
L’etica è il tessuto di valori e principi della cultura politica che fanno sì che ci si riconosca in un vivere comune. È lo spirito in cui la res diviene publica. Senza etica pubblica, ciò che deve essere di tutti si trasforma in terreno di conquista per fini personali. Allora, come si può chiedere di rinunciare a qualcosa d’individuale per un bene che riguarda tutti?
 “Etica” è una parola svuotata.
Anzi: sospetta. Le espressioni che attengono a un’idea comune sono associate al pensiero giacobino-totalitario. Quello che riguarda tutti è diventato sinonimo di ciò che schiaccia la libertà degli individui.
E “libertà”?
Lo stesso. Una cosa è la libertà nel senso di “tutto ciò che posso è lecito”: la libertà libertina. Un’altra cosa è la libertà come liberazione dall’oppressione e dal bisogno: la libertà di cui parla la Costituzione. Oggi, in che senso si parla di libertà?
“Solidarietà” è un termine desueto?
Sì. Ha a che vedere con l’etica pubblica. È una parola costituzionale, la troviamo nell’articolo 2. È la traduzione in termini non illuministico-rivoluzionari della fraternità, con in meno l’aggressività. La “fraternità” è un esempio dell’ambiguità delle parole. La loro forza può trasformarsi in violenza, la benevolenza può trasformarsi in ferocia. Tra fratelli ci si ama, ma chi non ci è fratello, se ci pare mettere in pericolo la fratellanza, quello lo si deve odiare.
Fraternità del Carroccio?
Infatti, nei momenti di esaltazione mistica della dea “Padania”, i padani si chiamino fratelli, ma non mi risulta che parlino di solidarietà.
Il lessico della Lega va nel senso dell’imbarbarimento. Addirittura nella sostituzione della gestualità al linguaggio, come il dito medio di Bossi.
Ormai è un’icona di una sorta di “riduzione al minimo”. La democrazia è un sistema di governo in cui i singoli sono messi nelle condizioni di ragionare sui fini e sulle scelte che riguardano la loro vita collettiva e per questo ha bisogno di idee. Un regime autoritario è nemico delle idee. Democrazia è uguale a tante idee. Le idee vivono socialmente attraverso le parole.
Se noi, per paradosso, sapessimo dire soltanto o “sì” o “no”, cosa saremmo?
Un regime plebiscitario, in cui si risponde con il dito – ma il pollice – rivolto verso l’alto o verso il basso. Se poi sapessimo solo dire sì, saremmo finiti. Saremmo ridotti a una massa di manovra in mani altrui. Bisogna coltivare le buone parole, cioè le parole oneste. Ma bisogna preoccuparsi anche del loro numero.
Linguaggio troppo scarno?
Gli esseri umani, quali noi tutti siamo, sono prima di tutto degli animali. Abbiamo una comune natura: comunichiamo. La marmotta, quando vede un pericolo, lancia un grido. Gli animali sono come gli uomini ma hanno un numero di segni linguistici molto più limitato. Tanto più si riducono gli strumenti capaci di esprimere idee, tanto più ci avviciniamo agli animali. Il lessico televisivo dei politici è di una povertà spaventosa.
Eccezioni?
Nichi Vendola: usa un linguaggio ricco che attira l’attenzione perché mette in movimento le idee di chi ascolta. Ha una prosa di per sé accattivante per le persone che vogliono usare l’intelletto. Naturalmente mi riferisco al modo di comunicare. Che cosa si comunica, poi, è cosa oggetto di altro genere di valutazioni.
Tornando alla Lega, non c’è stata una sottovalutazione di certi pericoli padani anche per via di questo lessico folkolistico?
Heidegger assimila la lingua ai muri di un’abitazione. Noi siamo nella casa, la lingua è ciò che ci consente gli scambi da dentro a fuori. Per intendere la lingua non dobbiamo solo ascoltare come risuona fuori: mentre esce di casa porta con sé ciò che sta dentro. Bisognerebbe prestare attenzione a questo retroterra implicito. La disattenzione crea assuefazione, senza che ce ne accorgiamo.
Facciamo un esempio.
Fuori dal linguaggio leghista: la “discesa in campo” di Berlusconi. Sembra un’innocua immagine sportiva. Sottintende una concezione della politica alla stregua di un match, dove la posta in gioco è vincere o perdere, sconfiggere l’avversario o essere da lui sconfitto. Il governo della società, come vero oggetto della politica passa in secondo piano, viene oscurato dalla partita da giocare. Il potere da acquisire o da perdere, invece di essere mezzo, diventa fine a se stesso. È ciò che vediamo tutti i giorni accadere nel nostro Paese, dove la lotta tra le parti è feroce, ma a che cosa serva, se non a conquistare, accumulare accrescere il potere, non si vede affatto. A “fare le riforme”? Ma c’è ancora qualcuno che ci crede?
Un’altra tanto meravigliosa, quanto trasversale, espressione è “non mettere le mani nelle tasche degli italiani”.
Trasversalissima: quando qualcuno inventa una formula volgare o pericolosa c’è una specie di corsa ad adeguarsi. Cosa sta dietro questa frase? L’idea che lo Stato sia un borseggiatore. Quindi è chiaro che i cittadini hanno diritto a cercare di difendersi. È un messaggio implicito.
Abbiamo assistito anche all’ingresso in politica del linguaggio romantico. Con espressioni tipo “L’Italia è il paese che amo”.
Si, un modus berlusconiano ripreso subito dall’opposizione. Il documento fondativo del Pd cominciava così: “Noi, i democratici, amiamo l’Italia”. E’ un’operazione che va decrittata: la politica in cui si mettono i sentimenti diventa la politica dell’amico-nemico e dell’amore-odio. Il che è molto pericoloso.

il Fatto 22.10.11
Piccolo dizionario delle parole vuote
“Senso dello Stato”: chi ne parla non ce l’ha
di Marco Filoni


L’ammazzaparole. Ecco il mestiere del lessicografo Henri Cinoc. Per decenni ha cancellato parole, eliminando quelle vecchie e desuete dal dizionario Larousse. Anche noi abbiamo i nostri Cinoc. Peccato però che non provengano dalla penna felice e visionaria di Georges Perec, che s’inventò il personaggio nel suo insuperabile La vita istruzioni per l’uso. No, i nostri sono persone reali in carne e ossa. Loro non cancellano le parole, è vero. Ma fanno qualcosa di più sottile: le svuotano di senso. Certo, una lingua subisce variabili storiche e sociali che la portano a trasformarsi. Eppure vi sono parole che sono concetti, con una storia e un valore da non modificare. Sono parole da difendere. Perché gli italici emuli di Cinoc – facile riconoscerli – nel loro sprezzante abuso del linguaggio producono danni. Del resto aveva ragione il linguista Leo Spitzer quando diceva che le parole sono spie dello stato psichico di chi se ne serve. Ecco perciò un piccolo dizionario delle parole da conservare affinché il blatericcio quotidiano non le saccheggi del loro vero significato.
CONCERTAZIONE . Era una pratica di governo delle relazioni industriali, in cui i sindacati partecipavano alle decisioni di politica economica. Oggi è un problema per le aziende. Un ostacolo da schivare, pena il trasferimento all’estero. Visto lo spirito dei tempi, proponiamo di sostituirla con crowdsourcing: un neologismo che significa un modello di sviluppo in cui si richiede la partecipazione, dal basso, dei soggetti interessati. Magari qualche idea buona viene fuori. Con questo metodo in Islanda ci hanno scritto nientemeno che la nuova Costituzione.
DIALOGO . Da Platone in poi, il dialogo propriamente detto è quello in cui le persone che vi partecipano non sono d'accordo, e intendono mettersi d'accordo. Una vera e propria arte, nella quale con l'ingegno e la retorica si cerca di convincere l'altro, di tirarlo dalla propria parte o confutarlo con argomenti validi. Oggi dialogano soltanto gli interessi, quasi sempre individuali e non della comunità. La politica viene meno alla condizione necessaria del dialogo, cioè l'ascolto. I politici danno voce a monologhi. Il loro è un dialogo muto.
ETICA . Si tratta del giudizio della condotta dell'uomo, i criteri in base ai quali si valutano i comportamenti e le scelte. È associata all'azione, nel senso che l'etica deve indicare i valori che orientano le scelte di chi agisce. Non a caso, per secoli e secoli, l'etica veniva posta di fianco alla politica. Da non confondere però con la morale, perché sono due cose distinte : banalizzando, la morale è individuale (perciò si parla di morali, al plurale); l'etica è il sistema, quindi morale concreta, storica e pubblica. L'etica dovrebbe dar forma a uno stile di vita. Ecco, basterà questa constatazione (e la lettura dei titoli dei giornali) per capire quanto oggi sia totalmente assente dal dibattito pubblico. Ormai si parla di etica associandola non più alle virtù, bensì ai vizi. Aveva ragione Bertold Brecht quando diceva che prima viene lo stomaco e solo dopo la morale. Ma un avvertimento, prezioso, lo ritroviamo nell'esortazione di Bertrand Russel: “Senza moralità civile le comunità periscono; senza moralità privata la loro sopravvivenza è priva di valore”.
INNOVAZIONE . Significa progresso e genera un cambiamento positivo verso il meglio. Cioè l'applicazione degli elevati livelli di conoscenze (tecnologiche, scientifiche, sociali) che garantiscono un miglioramento della qualità della vita dell'uomo. Va da sé, è strettamente legata alla ricerca. Che da noi non se la passa troppo bene. Anzi. Le uniche innovazioni a cui assistiamo sono sempre piuttosto macchinose. Ma se un'innovazione è troppo difficile da introdurre significa che non è necessaria. E poi in Italia non seguiamo la “Legge di Terman” sull'innovazione, variabile applicata della Legge di Murphy: “Se vuoi formare una squadra che vinca nel salto in lungo, trova una persona che salti nove metri, non nove che ne saltano uno”.
ISTITUZIONE . È una cosa seria. E andrebbe riservata alle persone serie. L'istituzione è una sorta di casa dell'uomo nella quale tutti e ciascuno possano riconoscersi e dalla quale possano essere riconosciuti. Istituti umani, quindi politici e sociali. L'istituzione è l'ombra allungata dell'uomo, come la descrisse R.W. Emerson. Oggi l'istituzione, ahinoi, ha assunto la forma farsesca del “Lei non sa chi sono io!”. Peccato. Perché l'istituzione è fatta dalle persone. E pensare che una volta, quando Chirac era presidente francese, al suo passaggio un uomo gli gridò dalla strada connard (stronzo). Lui gli andò incontro con la mano tesa dicendogli: Chirac, c'est moi!
LIBERTÀ . Montesquieu la definì come il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono. Nell'Ottocento il filosofo inglese John Stuart Mill lo corresse, dicendo che la libertà consisteva nel fare ciò che si desidera. Pare che qui da noi questa seconda definizione abbia preso il sopravvento. Nonostante la difficoltà di definirla, comunque, si può sostenere che la libertà non è mai fine a se stessa, ed è possibile soltanto in un paese dove il diritto ha più forza delle passioni.
RIFORME . Il riformismo nasce come alternativa alla rivoluzione. Nasce a sinistra, muore a destra. Oggi tutti sono riformisti. Chi per vezzo, chi per virtù. Molti lo sono in stile ottocentesco, il cui motto era “Riformate , affinché possiate conservare”! Il problema non è la riforma in sé: si parte sempre dall’esistente, che può esser sempre migliorato. Il problema è il contenuto e chi fa le riforme. Cavour sosteneva che riformare rafforza l’autorità. Ma se a riformare è un buon governo. Altrimenti aveva ragione Tocqueville, per il quale – l’esperienza insegna – il momento più pericoloso per un cattivo governo è quello in cui comincia a riformarsi.
RIVOLUZIONE LIBERALE Molti la invocano. Quasi fosse una sorta di epifania alla risoluzione di tutti i mali. Nasce come progetto di applicazione delle teorie liberali, da Von Hayek ai sostenitori del laissez-faire. Nella realtà non è mai avvenuta. Gli stessi teorici pongono parecchi distinguo: una tale rivoluzione praticata senza vincoli potrebbe condurre la società a gravi difficoltà. Aveva ragione George Sorel quando affermava che la rivoluzione liberale è un’utopia. Ma alle utopie si può anche credere. Bisogna però far qualcosa affinché si realizzino. Un esempio? I giornali che invocano la rivoluzione liberale perché non rinunciano ai contributi pubblici e si mettono così in regime di libera concorrenza?
SENSO DELLO STATO . Qui siamo messi davvero male. Poche, rarissime eccezioni, sotto i nostri occhi. In generale dovrebbe essere la considerazione per l'incarico che si riveste, colmandolo di virtù affinché venga preso come esempio. Invece oggi è un'attitudine che si può riassumere con una citazione: “Lo Stato deve essere l'amministrazione di una grande azienda che si chiama patria appartenente a una grande associazione che si chiama nazione”. No, non è una dichiarazione recente di qualche politico aziendalista. L'ha scritto quasi cent'anni fa Filippo Tomaso Marinetti, che era un futurista e quindi un po' burlone. Il testo che conteneva queste parole si intitolava, tutto un programma, così: Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio.

Corriere della Sera 22.10.11
Nel nome del padre
Un libro in Francia riaccende la discussione sulla divisione dei ruoli fra genitori
Uno psichiatra contro la tirannia della madre
Gli uomini devono riscoprire la parte dura del loro mestiere
di Rossella Burattino

qui

Corriere della Sera 22.10.11
Porte chiuse per Ovidio nella notte di Roma
di Eva Cantarella


Non è cosa nuova: in tutti i tempi agli innamorati è accaduto a volte, e tuttora accade, di trovarsi di fronte a una porta inesorabilmente chiusa. A volte è l'amata a non volerla aprire, a volte il padre di lei che glielo vieta, le circostanze sono diverse, il desiderio uno solo: che la porta si apra… In Grecia e a Roma il problema era meno grave di oggi. Allora, infatti, si credeva nell'efficacia magica della parola: bastava «incantare» la porta cantandole una nenia, un ritornello magico e si sarebbe aperta. A dircelo sono, tra gli altri, Plauto e Ovidio. Plauto, nel Curculio, racconta che il giovane Fedromo progetta di fare alla bella Planesio una serenata. Detto fatto, eccolo dinanzi alla porta, ed ecco (nella traduzione di Ettore Paratore) il suo canto: «Chiavistelli, chiavistelli, che piacere salutarvi /io vi amo, vi scongiuro e desidero implorarvi:/ fate grazia all'amor mio, chiavistelli miei carini,/ trasformatevi per me in romani ballerini,/ vi scongiuro, sussultate, consegnatemi il mio amore/ che mi fa morire e beve tutto il sangue del mio cuore!». Ed ecco il racconto di Ovidio: l'amica che corteggiava ha chiuso la porta: che fare? «Ripresi le mie armi, le canzoni d'amore, il lieve distico./ Alle parole dolci s'intenerì la dura porta./ Gli incantamenti traggono a noi le corna sanguinose della luna,/ richiamano i bianchi cavalli del sole./ Squarcia i serpenti dalle fauci lacerate, l'incantamento,/ fa risalire l'acqua del fiume alle sue fonti./ All'incantesimo dei versi s'è arresa anche la porta/ benché di rovere, ha ceduto il paletto nel battente».

La Stampa TuttoLibri 22.10.11
Camus vigila su Elèuthera
di Mirella Appiotti


Eloquente sin dal titolo, uno tra i saggi fondamentali del catalogo Elèuthera: in Mi rivolto dunque «siamo», Camus parla «al singolo, esortandolo a ripensare l’azione collettiva e a non arrendersi all’individualismo». Invito che non ha nulla da spartire con il 15 ottobre a Roma. L’anima anarchica dell’autore della Peste, in perfetta assonanza con il programma della editrice al traguardo dei suoi primi 25 anni, e l’«idea esagerata di libertà», imperativo cui la cooperativa milanese è da sempre fedele, sono prima di tutto una spinta di vita, anche se «noi non siamo non violenti» è stata sin dal principio la dichiarazione d’intenti ora ribadita dalla responsabile Rossella Di Leo e da molti dei suoi collaboratori (presenti nello splendido dvd di compleanno).
«Violenza», ma della ragione, «forza», ma dell’immaginario; critica radicale «del potere e del principio di autorità», scorrerie («più che marinai siamo pirati») in tutte le espressioni dell’arte nel suo orizzonte più ampio: i due percorsi su cui Elèuthera (nomen omen: l’isola caraibica, insediamento di eretici inglesi nel ’600) procede con totale dedizione. In progress è la proposta di un «anarchismo possibile», frutto dell’incontro tra la classica «A cerchiata» degli eredi di Bakunin e di Errico Malatesta ( Non ho bisogno di stare tranquillo, la sua biografia scritta da Vittorio Giacopini esce nel 2012) e la vocazione libertaria degli anni 70. Sempre in fuga «dalle tante persecuzioni dell’oggi: omologazione, acquiescenza, banalità...».
«Le due vie in realtà si fondono - fa osservare Di Leo -, l’immaginario attraversa tutti i nostri libri e i nostri autori»: Castoriadis e Eduardo Colombo, Enrico Baj e Philippe Godard ( Contro il lavoro, il suo ultimo discusso pamphlet), Judit Malina, Laborit e il Latouche del Tempo della decrescita. Il Tempo, con lo Spazio (le città, l’abitare), esplorato da Marc Augé, l’antropologo portato in Italia proprio da questi editori-guastatori-poeti. A fine inverno la sua nuova Guerra dei sogni, preceduta dai quasi natalizi Costruttori di Babele, scovati da Gabriele Mina in un’avventura «sulle tracce di architetture fantastiche e universi irregolari in Italia». Utopia abita ancora qui.

l’Unità 22.10.11
Alle Scuderie del Quirinale
Filippino Lippi e Sandro Botticelli nella Firenze del ’400
di Renato Barilli


A cura di A. Cecchi Roma, Scuderie del Quirinale
Fino al 15 gennaio Catalogo: 24 ore cultura

Questa volta le romane Scuderie del Quirinale non ci danno una mostra compatta ed essenziale come già avevano fatto nei casi di Antonello da Messina, Giovanni Bellini, Caravaggio. Se infatti avessero puntato in misura monografica su un artista di uguale statura quale Sandro Botticelli, avrebbero subito urtato nell’ostacolo di farne venire dagli Uffizi di Firenze i due massimi capolavori, la Primavera e la Nascita di Venere, non rimovibili. Pertanto hanno preferito mettere a fuoco una figura laterale, Filippino Lippi (1457-1504) che però, come risulta da questa mostra, appare di statura decisamente minore, verrebbe quasi da ricorrere al classico nomen omen, già il diminutivo del nome preannuncia un destino inferiore, per esempio, a quello del padre Filippo (1406-1469), che lo aveva procreato in modo irregolare, lui monaco da una compagna anch’essa monaca. Ma Filippo fu personaggio di prima grandezza, nella pattuglia degli homines novi che, attorno a Leon Battista Alberti praticarono la prospettiva da ardenti neofiti, e infatti il suo dipinto qui esposto è pieno di muri capziosi, quasi in una corsa ad ostacoli per applicare gli arditi teoremi appena conquistati.
Filippino non fu affatto trascurato dal padre, che anzi lo mise nello studio del Botticelli, da cui il giovane prese un po’ troppo, senza però averne la maestria nell’articolare le figure, riempiendone la scena ma preservando per ognuna di loro una giusta e armonica gesticolazione. Filippino invece semplifica, sfoltisce, irrigidisce, per questo verso il suo Tre arcangeli e Tobiolo (Torino, Sabauda), è del tutto tipico, con i quattro che si ergono a intervalli regolari, posti sull’attenti, mentre le fisionomie riprendono i tratti botticelliani. Filippino infatti era assai abile nell’adattarsi ai panni altrui, lo aveva già fatto quando venne chiamato a completare gli affreschi del grande Masaccio nella Cappella Brancacci, riuscendo a indossarne i panni in misura conforme.
ABILE RIPETITORE
Anche il suo capolavoro, Apparizione della Vergine a san Bernardo, pur imponente, soffre del medesimo limite di staticità, con pochi personaggi in scena, e forse si può sospettare che l’enorme roccia posta al centro del dipinto sia quasi un espediente per ridurre l’obbligo di gestire gli umani, riponendoli ai margini. Al Lippi junior, insomma, toccò la parte di un ripetitore pur abile ed efficace non solo di Botticelli, ma anche degli altri interpreti della terza manieravasariana,ilPerugino,ilPinturicchio, Signorelli, offrendone una silloge perfetta, come appare negli affreschi della romana Cappella Carafa. Forse consapevole dei suoi limiti naturali, egli tentò di reagire sia animando certe narrazioni quasi con ritmi neogotici (Storia di Lucrezia), sia accendendole con esasperazioni di sapore espressionista avanti lettera (la fiorentina Cappella Strozzi), ma in sostanza, ancora peggio dei suoi colleghi più anziani, non seppe varcare la soglia verso la modernità, che fu aperta solo dal pur quasi coetaneo Leonardo.

l’Unità 22.10.11
All’Argentina
Paolini dialoga sui massimi sistemi
di Francesca De Sanctis


ITIS Galileo di Francesco Niccolini e Marco Paolini con Marco Paolini
Roma, Teatro Argentina Fino al 30 ottobre

Inizia con «un minuto di rivoluzione» l’Itis Galileo di Marco Paolini: e in quei 60 secondi il pubblico urla, ride, fa strani versi... Ciascuno è libero di sfogarsi come meglio crede, commenta il mattatore veneto, che per «rivoluzione» intende il movimento che la Terra compie intorno al sole ad una velocità di 1800 chilometri al minuto... «Eh, quante corse devono fare i neutrini in quel tunnel scavato nel Gran Sasso prima di percorrere 1800 chilometri!» Il primo affondo è per il ministro Gelmini, d’altra parte come evitare una battuta sin troppo facile in uno spettacolo dedicato a Galileo Galilei?
Ma le incursioni nella politica in questi 140 minuti di monologo sono poche e sparse (per un attimo viene chiamato in causa Vendola...) perché Paolini punta tutto sulla vita dello scienziato pisano quel vecchio «nato con la barba...» che all’attore serve per poter mettere sul piatto l’eterna lotta tra ragione e superstizione, e naturalmente per avviare un Dialogho sopra i due massimi sistemi del mondo (tolemaico e copernicano), titolo del libro che nel 1632 costò a Galileo il processo e la condanna della Santa Inquisizione.
Un dialogo, dicevamo. È questo che stavolta tenta di fare Paolini, soprattutto nella prima parte.
STORIA DI UN SUCCESSO
Poi inizia il racconto vero e proprio della vita di Galileo: dagli anni universitari («quando disse che voleva studiare Matematica i suoi genitori reagirono come reagirebbero oggi i genitori di un ragazzo che vuole fare il Dams») alla cattedra nell’Università di Padova («Galileo è stato il primo precario della storia e per campare faceva gli oroscopi»), e poi su e giù da Pisa a Firenze, da Roma a Venezia, fino al successo dello scienziato che culmina con la scoperta del canocchiale.
Nel frattempo popolano la narrazione tanti personaggi passati alla storia: Aristotele e Platone, Tolomeo e Copernico, Brahe e Keplero, Giordano Bruno e Shakespeare, al quale l’attore rende omaggio recitando dei versi dell’Amleto in dialetto veneto. È questo uno dei momenti più belli dello spettacolo, che poco dopo ci regala un’altra godibilissima perla: l’omaggio alla Commedia dell’arte attraverso un «duello» tra filosofi che non fanno altro che «menarsi filosoficamente».
Intanto il viaggio continua e il pubblico s’incammina nei meandri della scienza e della fisica, della letteratura e della magia, dell’arte e della matematica. Attenzione, però, a non perdersi tra i massimi sistemi.

Repubblica 22.10.11
Dal Forum di Matera parte l´iniziativa: servono 50 mila firme
Una nuova legge per salvare il libro
di Simonetta Fiori


Tra i punti del progetto gli sgravi fiscali per le donazioni fatte per la lettura e il coordinamento tra i vari organi che adesso si occupano della promozione

Potrebbe sembrare un paradosso, ma non lo è: una legge di iniziativa popolare per un´attività e un oggetto tra i meno popolari in Italia. Il libro e la lettura. A rilevare l´apparente incongruenza è Gian Arturo Ferrari, presidente di quel Centro per il libro chiamato a svolgere un ruolo centrale nella nuova geografia disegnata dalla legge. Un progetto ambizioso, che sarà discusso oggi pomeriggio al Forum per il libro ospitato a Matera. Poi l´approdo in Parlamento, ma solo dopo aver raccolto cinquantamila firme.
La legge di iniziativa popolare - promossa da Giuseppe Laterza, Giovanni Solimine e dalle innumerevoli associazioni che fanno capo al Forum - si propone di attenuare il grave ritardo culturale che affligge il nostro paese. I dati sono sempre gli stessi - metà degli italiani non legge un solo libro e il 70 per cento non riesce a comprendere fino in fondo il significato di un testo - ma come per altre cose abbiamo finito per farci l´abitudine. Senza capire che, anche in conseguenza di questo analfabetismo diffuso, il declino italiano rischia di virare in catastrofe.
Potrà una leggere risolvere il problema? Certamente no. Però può rimettere in moto un meccanismo arrugginito, motivando l´eroica comunità che opera intorno ai libri. Innanzitutto sarebbe necessario trovare un raccordo tra i vari livelli istituzionali e le diverse amministrazioni che hanno competenza nel settore. «Una delle maggiori difficoltà», spiega Solimine, «è la frammentazione delle competenze, oggi distribuite tra presidenza del Consiglio, ministeri, organismi centrali come la Siae, Regioni ed Enti locali». Da qui l´idea di potenziare il Centro per il Libro, trasformandolo in agenzia indipendente che possa funzionare da catalizzatore di iniziative pubbliche e private.
Il Centro per il Libro, tuttavia, oggi dipende dai Beni Culturali. E dunque andrebbe sganciato da quel ministero. A questo sta già lavorando Gian Arturo Ferrari, il quale vorrebbe trasferirlo alla vicepresidenza del Consiglio, così come inizialmente era stato progettato. «Essendo il suo compito la promozione alla lettura», dice Ferrari, «il Centro starebbe meglio presso la vicepresidenza, che ha già competenze in questo campo, mentre il ministero dei Beni Culturali è un ente preposto alla tutela e alla conservazione». Una struttura agile è quella che ha in mente Ferrari, in grado di mettere insieme pubblico e privato.
Trasferito nella nuova sede, il Centro dovrebbe definire un programma nazionale e pluriennale di promozione della lettura, con il concorso dell´amministrazione centrale e degli enti locali, ma anche del mondo della scuola e degli editori. Con quali fondi? «Intanto», risponde Solimine, «occorrerebbe utilizzare bene i fondi che già ora lo Stato, le Regioni e gli Enti locali destinano alla promozione, evitando sovrapposizione e sprechi». Ma è ipotizzabile che tutti questi soggetti accettino di essere coordinati da una struttura centrale? «Non è certo immaginabile una struttura centralizzata e piramidale», interviene Ferrari, «semmai bisognerebbe costruire un centro propulsore che spinga in avanti e funzioni da modello nazionale, intervenendo là dove gli Enti locali non arrivano».
Tutti d´accordo? Marco Polillo, presidente degli editori, mostra scetticismo. «Unificare le competenze di cinque ministeri in un unico centro? Mi sembra dura. Nel migliore dei mondi, può accadere che ci si metta d´accordo. Per come sono organizzate le cose in Italia, vedo molte difficoltà».
Dal laboratorio di Matera arrivano tante idee che potrebbero avere una traduzione concreta. «Tra le nostre richieste», spiega Solimine, «è che venga esteso al Centro per il libro, alle biblioteche, agli istituti scolastici il regime già previsto per le ONLUS, in modo che possano essere destinatari del cinque per mille dell´Irpef». Altra proposta è quella di consentire alle donazioni realizzate a favore della lettura gli sgravi fiscali contemplati per altro genere di mecenatismo. «Se un privato contribuisce al restauro di un monumento», esemplifica Ferrari, «ha dei vantaggi fiscali. Non li otterrebbe se destinasse i soldi per la promozione della lettura». Idee utili, applaude Polillo, che possono essere messe in pratica. Da Matera parte dunque la nuova sfida. E non a caso la sede scelta è la regione con gli indici di lettura più bassi. Ancora un paradosso, o forse un auspicio: rendere popolare ciò che non lo è.

Repubblica 22.10.11
Da Shakespeare ai vittoriani i tabù di un mondo intimo
Breve storia della camera da letto
Il grande autore inglese mise nel testamento che alla moglie doveva andare il talamo matrimoniale
L’ultimo libro dello scrittore illustra l´evoluzione della casa e degli spazi della vita privata
Nell´Ottocento si diffuse la paura che i corpi, di notte sotto le lenzuola, emanassero tossine: meglio dormire separati
di Bill Bryson


La camera da letto è uno strano posto. Non esiste altro luogo in tutta la casa in cui passiamo più tempo facendo di meno, e facendolo per lo più in silenzio e senza averne coscienza, eppure è la camera da letto che fa da sfondo a molte delle più profonde e persistenti infelicità dell´esistenza. Se siete in punto di morte o malati, esausti, sessualmente frustrati, in lacrime, in preda all´ansia, troppo depressi per affrontare il mondo o comunque privi di serenità e gioia, la camera da letto è il luogo in cui sarà più probabile che vi troviate. È così da secoli, ma, più o meno nello stesso periodo in cui il reverendo Marsham stava costruendo la sua casa, alla vita che si consumava dietro la porta della camera da letto venne ad aggiungersi una dimensione del tutto nuova: la paura. Nessuno aveva mai avuto più ragioni di cui preoccuparsi in uno spazio limitato dei vittoriani nelle loro stanze da letto.
I letti stessi diventarono una fonte di particolare inquietudine. Sembrava che non appena si spegnessero le luci anche gli individui più puliti si trasformassero in masse fumanti di tossine. «L´acqua emessa nella respirazione» spiegava Shirley Forster Murphy in Our Homes, and How to Make Them Healthy (1883) «è piena di impurità animali; si condensa sulle pareti interne degli edifici, cola in fetidi rigagnoli e [...] penetra nei muri», causando danni di grave ma imprecisata natura. Come mai non provocasse gli stessi danni quando si trovava all´interno del nostro corpo non veniva spiegato, né evidentemente preso in considerazione.
Alle coppie sposate si raccomandava l´uso di letti singoli, non solo per evitare il brivido vergognoso di un contatto casuale, ma anche per ridurre la mescolanza di impurità personali. Come spiegava in toni cupi un´autorità medica: «L´aria che circonda il corpo sotto le lenzuola è estremamente impura, impregnata com´è delle sostanze tossiche fuoriuscite dai pori». Fino al quaranta per cento dei decessi in America, stimava un dottore, era causato dall´esposizione cronica all´aria malsana durante il sonno.
I letti erano anche una gran fatica. Rivoltare e sprimacciare i materassi era un´incombenza fissa e alquanto pesante. Un tipico materasso di piume conteneva diciotto chili di imbottitura. Cuscini e guanciali ne aggiungevano quasi altrettanti, e tutti i vari pezzi dovevano essere periodicamente svuotati per lasciar respirare le piume, che altrimenti avrebbero cominciato a puzzare. Molte famiglie tenevano branchi di oche, che spennavano per i loro letti forse tre volte all´anno (una cerimonia che doveva essere seccante tanto per la servitù quanto per le oche). Un letto di piume sprimacciato poteva anche avere un aspetto divino, ma presto gli occupanti si ritrovavano sprofondati in una fenditura priva d´aria e dal fondo rigido stretta fra due gonfie colline. Il sostegno era fornito da un reticolo di corde che, quando cominciavano a cedere, potevano essere tese con un´apposita chiavetta, ma non risultavano mai molto comode. I materassi a molle vennero inventati nel 1865, ma nei primi tempi non erano affidabili perché a volte le molle si torcevano, e l´occupante rischiava seriamente di finire infilzato.
Un popolare libro americano del diciannovesimo secolo, Goodholme´s Cyclopedia, divideva i materassi secondo dieci livelli di comodità. In ordine decrescente, c´erano: piumino, piume, lana, fiocchi di lana, crine, cotone, trucioli di legno, alghe, segatura, paglia. Quando trucioli e segatura figurano fra le dieci migliori imbottiture per un letto, si capisce che si sta parlando di un´età disagevole. I materassi erano ricettacoli non solo di cimici, pulci e tarme, ma anche di topi e ratti. I furtivi fruscii sotto il copriletto erano il triste accompagnamento di molte notti.
I bambini che dormivano in letti estraibili a poca distanza dal pavimento avevano più probabilità di familiarizzarsi con la baffuta presenza dei ratti. Nel 1867 un´americana di nome Eliza Ann Summers raccontò di come ogni notte lei e sua sorella andassero a letto cariche di scarpe da lanciare contro i ratti che attraversavano la stanza. Susanna Augusta Fenimore Cooper, figlia di James Fenimore Cooper, diceva di non aver mai dimenticato, o meglio superato, il ricordo dei ratti che zampettavano nel suo lettino d´infanzia. Thomas Tryon, autore nel 1683 di un libro sulla salute e il benessere, si lamentava del fatto che le piume, «luridi e nauseanti escrementi», attirassero le cimici. Al loro posto suggeriva paglia fresca in abbondanza. Pensava anche (a buon diritto) che le piume fossero inquinate dalle feci degli sventurati uccelli a cui venivano strappate.
Storicamente l´imbottitura più comune era la paglia, le cui punture attraverso la tela erano un celebre tormento, ma in realtà la gente usava spesso quello che trovava. Nella casa d´infanzia di Abramo Lincoln venivano usati i cartocci essiccati delle pannocchie, un materiale che doveva essere tanto rumoroso quanto scomodo. Se non ci si poteva permettere di usare le piume, la lana o il crine di cavallo erano alternative più economiche, ma tendevano a puzzare. E la lana era spesso infestata dalle tarme. L´unico rimedio sicuro era estrarla e bollirla, un procedimento assai tedioso. Nelle case più povere a volte si appendeva dello sterco di vacca alle colonne del letto nella convinzione che respingesse le tarme. Nei climi caldi, gli insetti estivi che penetravano dalle finestre creavano fastidi e pericoli. A volte venivano drappeggiate reti attorno ai letti, ma sempre con una certa dose di apprensione, perché erano altamente infiammabili. Intorno al 1790 un uomo in visita nel Nord dello stato di New York raccontò di come i suoi anfitrioni, in un tentativo di fumigazione dettato dalle migliori intenzioni, gli avessero riempito la stanza di fumo appena prima che lui si ritirasse, costringendolo a raggiungere il letto a tentoni in una nebbia soffocante. Le zanzariere per le finestre erano state inventate relativamente presto (Jefferson le aveva a Monticello), ma non erano molto diffuse per via del costo.
Per gran parte della storia, il letto, in una casa, fu l´oggetto più prezioso. Ai tempi di William Shakespeare, per esempio, un letto a baldacchino decente costava cinque sterline, metà del salario annuo di un maestro di scuola. I letti erano considerati così pregiati che il migliore della casa veniva di solito tenuto al pianterreno, a volte in soggiorno, dove poteva essere mostrato ai visitatori o notato dai passanti attraverso la finestra. In teoria questi letti erano riservati ai visitatori più importanti, ma in pratica venivano usati di rado, una circostanza che ci aiuta a contestualizzare la famosa clausola del testamento di Shakespeare in cui il poeta lasciava alla moglie Anne il secondo miglior letto di casa. La cosa è stata spesso considerata un insulto, mentre in realtà il secondo miglior letto di casa era quasi sicuramente quello matrimoniale, vale a dire quello legato ai ricordi più teneri. Perché Shakespeare lo avesse nominato esplicitamente resta un mistero, visto che in condizioni normali Anne avrebbe ereditato tutti i letti di casa, ma non è affatto detto che si trattasse di un affronto come vorrebbero certe interpretazioni.
(traduzione di Stefano Bortolussi)

Repubblica 22.10.11
Una vita da manuale
Le donne al potere, di Giorgio Bàrberi Squarotti
“La moda della poesia patetica ha rovinato la letteratura”
di Nello Ajello


La sua antologia è un classico su cui hanno studiato generazioni di studenti Così, a 83 anni, l´italianista Bàrberi Squarotti racconta il suo ultimo saggio
"Il timbro emotivo che non piaceva a Leopardi è ancora il più diffuso: penso ad Alda Merini"
"I ragazzi di oggi sono capaci come quelli di ieri ma è la scuola che non dà più i fondamentali"

Le donne al potere è il titolo di un libro di Giorgio Bàrberi Squarotti, classe 1929, uno dei maggiori italianisti contemporanei, docente emerito di letteratura all´ateneo di Torino, autore di un diffusissimo manuale scolastico. L´opera di cui parlavo, appena uscita dall´editore Manni, è una cavalcata all´inseguimento dei personaggi femminili che nutrono le pagine di Ludovico Ariosto e di Giovanni Boccaccio. Il lettore viene accolto in un´isola dove il poeta dell´Orlando furioso ambienta una storia di "femmine omicide" intente a costruire una singolare Repubblica vietata agli uomini: dopo cruente decimazioni, essi sono ammessi unicamente a svolgere mansioni erotiche al servizio del sesso "dominante" (e, sotto questo aspetto, insaziabile). Eroine ugualmente scaltre e vogliose dominano i capitoli che il libro riserva a ciò che potremmo chiamare il "femminismo" boccaccesco.
Due grandi della nostra letteratura vengono dunque "raccontati" con un piglio moderno che ne coglie in pieno le ironie e la deliberata sventatezza. Da qui parte il mio colloquio con Bàrberi Squarotti, del quale sono amico da molti anni. Gli ho chiesto che cosa rappresenta per lui quest´ultimo suo volume sulle donne. È uno scherzo, una vacanza, un´evasione?
«È il tentativo di guardare alle novelle di Boccaccio e ad episodi dell´Orlando furioso in una prospettiva diversa dal consueto. Specie ora che sono esente da obblighi accademici mi sembra di poter comunicare con libertà ciò che penso e sento. E lo faccio con tanta maggior passione in quanto oggi la critica tende ad occuparsi di letteratura a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, concentrandosi per di più su autori molto modesti. Ciò che viene disertato è la letteratura italiana dei secoli che vanno dal Duecento al Seicento. Dopo di allora, certo, ci sono stati grandi scrittori, ma non più una tradizione rigorosa e continuativa».
Tu hai insegnato a Torino per 37 anni, e sei in pensione dal 2003. Mi torna in mente una frase, presa in prestito da Franco Fortini, che spesso ti ho sentito ripetere: la letteratura è un´attività secondaria rispetto al normale ritmo della vita, al mangiare, al dormire, e così via. E tuttavia senza la letteratura, non capiremmo noi stessi e il mondo. Bàrberi Squarotti, sei ancora dello stesso parere?
«Ne resto convinto. Non a caso ho sempre insegnato ai miei allievi la necessità della lettura e il piacere della bellezza e della verità. Trovo quel piacere tanto più valido in un momento come l´attuale, tetro e rovinoso, e non solo per la letteratura».
Ancora prima che per i numerosi saggi dedicati a grandi nomi delle nostre lettere, tu sei noto come autore di quella Storia e antologia della letteratura italiana (Atlas editore), edita e riedita negli anni: un testo sul quale hanno studiato generazioni di adolescenti. Il "Bàrberi" non è la sola opera del genere, largamente adottata nelle scuole. Basti pensare � esempio illustre � ai tre volumi di storia medievale, moderna e contemporanea, di Rosario Villari, editi a più riprese nella "collezione scolastica" di Laterza. Tornando a te, mi piacerebbe sapere se ti riconosci ancora in quella funzione di educatore "di massa". Che impressione ti farebbe, oggi, mettere piede in un liceo?
«Ci vado molto volentieri, quando mi invitano. Amo discutere con i giovani».
Ma come li vedi, i licealisti del Terzo Millennio?
«Le loro capacità sono esattamente uguali a quelle dei loro coetanei di trenta o quarant´anni fa. Ciò che s´è impoverito sono le basi. L´idea che si vada a scuola soltanto per stare insieme agli altri è nefasta. È svanito il senso che si vada lì per comprendere la storia e i sentimenti attraverso la letteratura, la filosofia, le arti. La nostra era una buona scuola. È andata sempre peggiorando. Mi pare che adesso si sia dispersa».
Quando ha cominciato a cambiare in peggio?
«È stata la banalizzazione di certe idee del Sessantotto a segnare la svolta verso la rovina. Tutto deve essere facile, piacevole, divertente: ecco lo slogan. Intanto, i figli dei ricchi frequentano le scuole private e imparano. Gli altri vengono tagliati fuori. Io lo so bene, perché da ragazzo appartenevo alla seconda categoria, agli "altri". Studiavamo per emanciparci dalla sfavorevole situazione di partenza. Chi può farlo, oggi?».
Oltre che critico di poesia, tu sei poeta in proprio. Ricordo il titolo d´un tuo saggio, a suo modo polemico, Addio alla poesia del cuore. Che cos´è questa "poesia del cuore"? E che cosa significa dirle addio?
«Quel mio lavoro riguardava la letteratura del Sette-Ottocento e mostrava i limiti di una poesia di marca patetica, che è di moda ancora oggi».
Insomma, esprimevi antipatia o dileggio per chi scriveva versi con il cuore in mano.
«Appunto. È sempre qualcosa di inferiore dal punto di vista espressivo. Non a caso Leopardi, che è il contrario di tutto questo � fa cioè una poesia filosofica, di contenuto, non sentimentale o emotiva � diceva: cuore mio taci, non parlare più».
Vuoi citarmi un esempio di "poesia del cuore", in Italia, negli ultimi decenni?
«Alda Merini. Il suo mi sembra il caso più tipico».
Hai studiato a fondo la narrativa italiana del secolo scorso. Se dovessi indicare due nomi, solo due, che consideri fondamentali per il nostro Novecento, chi sceglieresti?
«Carlo Emilio Gadda e Stefano D´Arrigo. Hanno reinventato il romanzo. Non il romanzo di moda, di quelli che vengono premiati e dopo un mese è come se non fossero mai esistiti. Quei due parlano invece dell´amore, della morte, della guerra, insistono sui principali aspetti dell´esistenza. Sulla linea, in fondo, inaugurata dall´Iliade e dall´Odissea. Già allora, credimi, c´era tutto. Dopo, si è trattato di variazioni, anche se spesso fondamentali».
È quasi un luogo comune accennare al tuo "antistoricismo". Si ricorda un testo che pubblicasti nel 1980, Il romanzo contro la storia. Trattava dei Promessi sposi. In un altro volume, che risale al 1990, ancora sul Manzoni, parlavi delle "delusioni della letteratura". Che intendevi dire?
«Sostenevo che la storia è sempre contraddittoria. Ci racconta come sono andate le cose, ma dopo qualche decennio si scoprono altri documenti che spingono a interpretare tutto in maniera diversa. La letteratura, invece, si spinge sul significato, sui "perché". Manzoni, osservavo, non raccontava i fatti. Ne carpiva il senso».
Ma perché quell´accenno alle "delusioni della letteratura"?
«Quando scrive La colonna infame, Manzoni si rende conto che il romanzo può inventare gli eventi, concludendo per esempio che, alla fine, nonostante tutto, i protagonisti (così accade ai suoi) si sposino. Nella storia il lieto fine non è contemplato. E perciò, secondo me, Manzoni non ha più scritto romanzi. L´ho chiamata la sua delusione».
Tu sei il direttore del più monumentale dizionario della lingua italiana, quello in 23 volumi iniziato nel 1961 da Salvatore Battaglia ed edito dalla Utet. Eppure la tua immagine pubblica non è quella di un filologo compassato. A detta dei critici, le tue poesie sono percorse da inquietudini esistenziali, sospese fra allegoria e ironia. Chissà se ti riconosci in questo ritratto.
«Sì, mi ci riconosco. L´ironia che mi attribuiscono può dipendere dal fatto che tutto ciò che viviamo e sentiamo è precario. L´importante è parlarne senza tristezza. Anzi, con allegria».

Corriere della Sera 22.10.11
Cure omeopatiche, il bimbo muore
Il padre è medico psicoterapeuta comportamentale ed omeopata
Infuso di finocchio per la gastroenterite. Indagato il padre medico alternativo
di Andrea Pasqualetto


MILANO — Pallido, magrissimo, sfibrato. Luca è giunto così giovedì mattina al pronto soccorso dell'Ospedale di Tricase (Lecce) dove i medici hanno potuto solo scuotere la testa davanti al suo corpo senza vita. Con loro c'era il padre che l'aveva portato all'ospedale in braccio, molle come un fantoccio: «Luca aveva una gastroenterite, un'influenza — ha detto a chi è intervenuto e poi ai carabinieri —. Gli abbiamo dato un bicchiere di tisana al finocchio e la situazione è precipitata». Il padre non è un profano. È il dottor Luigi Marcello Monsellato, cinquantaseienne psicoterapeuta di Miggiano (Lecce), ex responsabile del Centro dell'Istituto di dinamica comportamentale di Ferrara, dove ha lavorato 20 anni, e, soprattutto, omeopata e presidente onorario dell'Amos, l'accademia nazionale di medicina omeosinergetica.
Davanti ai colleghi ospedalieri, disperato, non ha fatto mistero di aver utilizzato solo la medicina naturale e alternativa per Luca. Il sospetto, dunque, è stato subito quello: cura inadeguata. Come sembra emergere dal primo, pesantissimo, referto. I medici scrivono di un bambino in evidente stato di malnutrizione, pancia gonfia, capelli e ciglia bianche, ecchimosi sugli arti inferiori. «Mio figlio aveva anche una dermatite», ha spiegato il padre. Ma le dure conclusioni dell'ospedale «Panico» di Tricase sono comunque finite prima sul tavolo del comandante dei carabinieri e poi su quello della Procura della Repubblica di Lecce. Il pm Alberto Santacatterina ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo, inizialmente come atto dovuto e, dopo appena ventiquattr'ore, con un'accusa precisa nei confronti di entrambi i genitori. «Per aver cagionato la morte del figlio Luca nato l'11 novembre 2007 — scrive nella notifica —. Colpa consistita nell'omettere di prestargli le necessarie cure specialistiche pur in presenza di un perdurante grave e preoccupante quadro patologico». In sostanza, il sostituto procuratore della Repubblica contesta al dottor Monsellato e a sua moglie di aver protratto la scelta della medicina naturale, escludendo quella tradizionale, fino alle estreme conseguenze. E ha disposto per questa mattina un'autopsia sul corpo di Luca, unico figlio della coppia, per sapere con esattezza quali siano state le cause della morte. Ad analizzare la salma del piccolo saranno in quattro, due consulenti del pm (un medico legale e un pediatra) e due della difesa, nominati dalla famiglia attraverso l'avvocato Alfredo Cardigliano, il quale, per triste ironia della sorte, è pure responsabile al Centrosud del coordinamento internazionale delle associazioni per la tutela dei diritti dei minori. «La mia sarà una difesa tecnica», ha tagliato corto ieri il legale.
Il dottor Monsellato, che ha due studi privati, a Lecce e Ferrara, ha studiato a lungo le medicine bioterapiche e l'agopuntura e da oltre 25 anni si occupa di omeopatia. La sua terapia ha un solo nome: medicina omeosinergetica. «Una medicina rievocativa delle leggi della natura e stimolativa delle sue energie — scrive lui stesso, presentandosi ai pazienti —. È la vera medicina preventiva, una medicina della salute e non solo della malattia... La malattia è un processo biologico di autoguarigione».
Con il piccolo Luca qualcosa, forse, non ha funzionato.

Corriere della Sera 22.10.11
a Milioni si curano con l’omeopatia, per evitare tragedie servono regole
di Margherita De Bac


A Lecce un bambino di quattro anni è morto forse per una forma influenzale curata in modo improprio con l'omeopatia. Sarà l'inchiesta della Procura a chiarire le circostanze della triste storia. Non è il primo caso né sarà l'ultimo di genitori che scelgono le medicine non convenzionali. Nella popolazione è infatti molto radicata una convinzione errata. Che cioè omeopatia, fitoterapia e tutte le altre terapie cosiddette complementari siano naturali e innocue. Il rischio è che se ne abusi e vengano utilizzate anche per patologie severe, spesso senza l'intervento di un vero medico. Con conseguenze pericolose per la salute. Evidentemente però manca la percezione del rischio da parte di quei circa 9 milioni di italiani che si stima siano favorevoli e abbiano fatto ricorso almeno una volta ai prodotti non convenzionali.
Malgrado il successo costante nel nostro Paese questo fenomeno andrebbe inquadrato almeno dal punto di vista normativo. Tutte le leggi presentate ad ogni rinnovo di legislatura non hanno mai visto la luce. Ed è ancora molto indietro il lavoro dell'Agenzia italiana del farmaco (l'Aifa) che dovrebbe valutare la documentazione di 31 mila specialità «alternative» in base a nuove regole europee. Tra l'altro nell'ambito dell'Agenzia non esistono funzionari esperti, specializzati del settore. Altro problema è quello del foglietto illustrativo e dell'etichetta che non sono previsti nelle confezioni in commercio in Italia. La sicurezza del cittadino dovrebbe passare anche attraverso l'informazione e la consapevolezza di quello che sta usando. Al di là dell'insoluto problema sulla reale efficacia di questi prodotti forse è venuto il momento di smettere di ignorarli. Bisognerebbe al contrario sdoganarli visto che esistono, sono una realtà. Così è stato fatto in Toscana. A Pitigliano è nato il primo ospedale integrato: medicina convenzionale e alternativa non sono concorrenti ma si completano l'una con l'altra.

Corriere della Sera 22.10.11
«In gita sul pedalò ha annegato il figlio»
Arrestata la madre. «Ci aveva già provato nella vasca»
di Lavinia Di Gianvito e Flavio Haver


ROMA — Non è stata una disgrazia. Non è stato il mare a portarselo via in un calda mattinata di agosto, a pochi metri da una spiaggia affollata dell'Argentario. Il piccolo Federico Cassinis è stato ucciso, a sedici mesi soltanto. E la mano che gli ha tolto la vita è quella di chi, fino al giorno prima, l'aveva nutrito e accarezzato: la mano di sua madre, che già aveva tentato di annegare il bimbo a marzo scorso.
È questa l'agghiacciante ipotesi del procuratore di Grosseto, Franco Verusio, che ha chiesto e ottenuto l'arresto di Laura Pettenello, 45 anni, per omicidio volontario. Le manette sono scattate ieri sera, quando i carabinieri di Orbetello hanno condotto la donna nel carcere di Rebibbia. Il marito, Lorenzo Cassinis, 49 anni, commercialista come la moglie, con uno studio noto a Roma e a Milano, è rimasto solo in casa con i due figli più grandi, di sei e dieci anni. Ma anche lui è stato travolto dall'inchiesta: i magistrati lo accusano di favoreggiamento.
Quello che era sembrato un incidente risale al 9 agosto. Spiaggia della Feniglia, a Porto Ercole, una delle più belle della Maremma: è qui che attorno alle 9.15 la Pettenello noleggia un pedalò. È sola con Federico: gli altri due bambini sono a casa con la baby sitter; il marito è a Roma per l'ultimo giorno di lavoro. A terra nessuno si accorge di nulla, ma nel giro di un'ora in mare si consuma la tragedia. Che più tardi la commercialista racconterà così ai carabinieri: «All'improvviso è arrivata un'onda e Federico è scivolato in acqua. Mi sono tuffata, l'ho afferrato e l'ho riportato sul pedalò. All'inizio sembrava che stesse bene, anche se era spaventato, ma dopo una decina di minuti ha iniziato a vomitare». A quel punto la Pettenello torna a terra e corre al pronto soccorso, ma ormai è tardi: inutili i tentativi di rianimazione che durano 50 minuti.
Il giorno dopo la commercialista viene iscritta nel registro degli indagati per omicidio colposo: un «atto dovuto», spiega la procura di Grosseto, per poter disporre l'autopsia. Ma c'è qualcosa che non torna: sembra strano, soprattutto, che in momenti così drammatici la donna non abbia chiesto aiuto a nessuno, non abbia pianto, non abbia gridato. Un silenzio che suscita parecchi dubbi. Perciò l'inchiesta va avanti, con la richiesta ai carabinieri di compiere altri accertamenti.
Il risultato è inatteso anche per chi indaga. Emerge, secondo gli inquirenti, che quella mattina la Pettenello si allontana sul pedalò quanto basta per sfuggire agli sguardi degli altri turisti, afferra il bambino e lo mette sott'acqua. Federico si dibatte, ma la madre insiste e molla la presa solo quando si accorge che il piccolo è ormai immobile. Solo a quel punto lo tira su e raggiunge l'ospedale, raccontando poi la storia della disgrazia. Non solo: le indagini rivelano che la commercialista aveva già provato a uccidere il bambino a marzo, all'età di undici mesi. Anche quella volta la Pettenello è sola, ma in casa: riempie d'acqua la vasca da bagno e cerca di annegare il figlio. Il tentativo fallisce solo perché lo crede morto: invece quel giorno, al policlinico Umberto I, per un soffio i medici riescono a salvarlo.
Durante le indagini è emerso anche che la commercialista è in cura per problemi psicologici. Ed è alle eventuali responsabilità dei medici che ora punta l'inchiesta: c'è stato qualche errore, si è sottovalutato lo stato di salute della commercialista? La tragedia sarebbe comunque accaduta oppure, ipotizza la procura, una maggiore attenzione avrebbe salvato la vita del piccolo Federico ed evitato alla madre di precipitare nella follia dell'omicidio?

Repubblica 22.10.11
Il risveglio dei cattolici nel Paese malato
di Enzo Bianchi s. j.


In questi ultimi anni abbiamo più volte indicato non solo l´afonia dei cattolici in politica � la debolezza di rilevanza nella progettazione e nella costruzione della polis � ma anche le cause che l´hanno prodotta, tra cui l´intervento diretto in politica di alcuni ecclesiastici e la scelta di agire come un gruppo di pressione. La diaspora dei cattolici in politica all´inizio degli anni Novanta appariva non solo come una necessità motivata ma anche come una preziosa opportunità, una "benedizione": rendeva infatti evidente che la comunità cristiana vive di fede e di coerente comportamento etico, ma non di soluzioni tecniche nella politica e nell´economia. Di fatto però questa diaspora si è ridotta a irrilevanza e, fatto ancor più grave, ha lasciato segni di contrapposizione e forti divisioni tra i cattolici stessi. In tale ambiguità, proprio per l´esposizione diretta avuta da alcune figure rappresentative della Chiesa, questa ha subìto una perdita di credibilità e nella comunità cristiana è apparso, dopo una stagione di grandi convinzioni, un sentimento di scetticismo, di frustrazione, anche di cinismo... Potremmo dire che comunità cristiane depresse sul versante politico, per incarnare comunque il Vangelo hanno scelto di privilegiare una presenza sociale fatta di volontariato, di carità attiva, finendo però anche per aumentare la sfiducia verso la politica. Alcuni hanno tentato di essere "cattolici in politica" senza integralismi e cercando di restare ispirati dalla propria fede.
Ma sono stati irrisi come "pretenziosi cattolici adulti", considerati inadeguati alla strategia in atto se non addirittura presenze nocive nel necessario confronto con la polis.
Ora il vento è cambiato e ha fatto sentire quanto una certa "aria ammorbata" vada purificata: si ritiene allora opportuno abbandonare la strategia adottata in questi ultimi vent´anni, senza tuttavia confessare gli errori compiuti, senza assumersi alcuna responsabilità per questo impoverimento del tessuto ecclesiale e, di conseguenza, della presenza dei credenti in politica. Ecco allora, ancora una volta, il ricorso alle associazioni cattoliche, minoranze ispirate dalla fede cristiana ancora attive e presenti nel paese, ecco l´appuntamento di Todi.
Evento certamente importante, che viene dopo anni di non ascolto reciproco, nonostante da parte dell´autorità ecclesiastica si sia tentato di far cessare guerre e inimicizie tra le varie associazioni già alla fine degli anni Novanta. E il ritrovarsi questa volta è finalizzato a rispondere a una domanda: quale presenza significativa i cattolici possono avere in politica in questo momento giudicato di grave crisi a tutti i livelli per il nostro paese?
Ma proprio questo evento suscita anche una domanda di fondo negli appartenenti alle comunità cristiane: perché un incontro su tematiche che riguardano tutti i cittadini cattolici viene riservato invece alle associazioni che, salvo l´Azione Cattolica, peraltro soffrono attualmente di un forte depotenziamento a livello di convinzioni? Più volte in questi vent´anni abbiamo auspicato un "forum" che nelle varie chiese locali raggruppi tutti i cattolici per favorire la conoscenza e il confronto su temi che richiedono una traduzione politica. Abbiamo specificato che questo forum, aperto a rappresentanti di tutte le componenti della Chiesa, dovrebbe, in un dialogo libero e fraterno, cercare ispirazione dal Vangelo e confrontarsi con la dottrina sociale della Chiesa, restando tuttavia su un terreno prepolitico, preeconomico, pregiuridico, nella consapevolezza che la traduzione di queste ispirazioni cristiane messe a fuoco insieme appartiene ai singoli cattolici che devono confrontarsi negli spazi politici in cui sono presenti e con tutti gli altri cittadini.
Nessun integralismo, nessuna pressione lobbistica, nessuna imposizione, ma la riaffermazione che essere cattolici in politica significa da un lato restare ispirati e coerenti con la propria fede e, d´altro lato, nel dialogo rispettoso con gli altri cittadini, cercare faticosamente soluzioni politiche, economiche, giuridiche adeguate alle esigenze che si presentano e al bene comune che intende salvaguardare e costruire. Così facendo, se anche i cristiani apparissero una minoranza, non ci sarebbe nulla da temere perché sarebbero una presenza significativa capace di contribuire alla formazione di politici con a cuore il bene comune, alla progettazione di un nuovo patto educativo, all´ideazione di un futuro per le giovani generazioni, una presenza in grado di fornire esigenze etiche di umanizzazione e contributi decisivi in quel confronto di idee e di visioni che oggi purtroppo tanto difetta.
Quello di Todi non è stato un forum di questo tipo, anzi: ha rischiato di cedere alle sollecitazioni perché fornisse soluzioni solo politiche e contingenti. Eppure c´erano state alcune indicazioni che avrebbero potuto mettere in guardia i partecipanti, a partire da quelle del segretario della Cei, monsignor Crociata che, ai politici che si dicono cattolici, ha recentemente ricordato che esiste un primato della fede, luce per ogni scelta, una comunione tra cattolici che li precede e che deve manifestarsi nel discernimento di ciò che il Vangelo chiede; ma al contempo ha sottolineato che c´è un diverso ordine che riguarda il carattere contingente della scelta politica di schieramento e la forma politica in cui i cristiani sono chiamati a operare.
Nessun partito cattolico, quindi, e neanche "di cattolici" hanno ripetuto diversi vescovi, né tantomeno un "partito della Chiesa". La laicità della politica va assolutamente salvaguardata e i cattolici dovranno inevitabilmente operare con responsabilità una scelta di campo che li renda una "parte" di schieramenti o di spazi politici in cui si collocano.
Ma non è questo, per ora, ad apparire decisivo, quanto piuttosto il recuperare le ragioni profonde dell´azione nella polis, il tessere un dialogo nella comunità cristiana per essere muniti di ispirazione, il sapersi collocare nella compagnia degli uomini senza esenzioni ma assumendosi responsabilità, il saper parlare di progetti e ragioni in termini non dogmatici ma semplicemente umani, antropologici, affinché gli altri comprendano e possano confrontarsi liberamente con i cristiani, lasciando poi alle regole della democrazia e ai suoi criteri di determinare le scelte necessarie ai diversi livelli e le esigenze del legiferare per il bene della convivenza.
E in questo spazio prepolitico di confronto, i cattolici potrebbero anche imparare un´esigenza fondamentale per la loro fede: l´importanza di non fare letture parziali del Vangelo, privilegiando alcuni principi e valori e dimenticandone altri... Secondo Paul Valadier, lo statuto del cristianesimo è quello di essere una "religione anormale": perché per ogni cristiano il rispetto assoluto della vita umana, il rifiuto della guerra, la salvaguardia della pace, la giustizia e l´eguaglianza sociale, il perdono del nemico, la riconciliazione nei conflitti sono tutti valori irrinunciabili. Impresa non facile certo, soprattutto in una stagione in cui riemerge l´atavica tentazione della religione: andare a braccetto con il potere politico finché il vento non cambia direzione.

Corriere della Sera 22.10.11
Perché il «prossimo tuo» ha rivoluzionato la fede
La svolta del Vangelo: anche il nemico va amato
di Massimo Cacciari


È necessario iniziare dai testi decisivi in cui risuona il mandatum novum: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e tutta la tua anima e tutte le tue forze e tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Luca 10,27). Il verbo agapán viene usato per indicare sia l'amore che è dovuto al Theós, che quello verso il prossimo, plesios. Anche la traduzione latina, proximus, rende bene l'importanza del termine: proximus è infatti un superlativo. Non può trattarsi di un semplice «vicino». Il plesios in quanto proximus ci riguarda con una intensità che nessuna vicinanza, nessuna contingente contiguità potrebbero raggiungere. Neppure si tratta, certo, di una voce inspiegabilmente nuova, venuta da qualche misterioso altrove. Anche questo mandatum è pleroma, non katalysis della Legge, salvezza del nomos stesso nel suo radicale rinnovarsi. Il precetto del pieno rispetto dei diritti dell'ospite, così come del compagno, dell'alleato, dell'amico era stato affermato, infatti, con pieno vigore dai profeti — e tuttavia il rea‘ del Primo Patto, che i Settanta traducono per lo più con plesios, anche quando designa lo straniero, lo concepisce sempre come legato a noi, o dal simbolo dell'ospitalità, o da rapporti di reciproca fiducia, garantiti da patti e forieri di accordi utili alle parti. Il timbro del mandatum evangelico «eccede» completamente questa dimensione. Già il fatto di accostare immediatamente l'amore per il Signore a quello per il prossimo costituirebbe vera novitas, anche se plesios qui traducesse esattamente rea‘. Ciò che veniva comandato insieme ad altri doveri, qui completa addirittura la Prima Parola! Il Logos che sta a fondamento dell'intera vita di Israele non si esprimerebbe compiutamente, resterebbe imperfetto, se non significasse in se stesso amore per il prossimo. È evidente che plesios è chiamato, allora, in questo contesto, ad assumere una pregnanza in-audita — ma, ancor più, è evidente che la visione stessa di Dio muta per questa sua straordinaria prossimità al plesios. Solo in un punto, forse, nel Primo Patto si giunge ad un'intuizione analoga — ed è del più grande significato che ciò avvenga in Giobbe. L'intero dramma di Giobbe potrebbe essere così interpretato: questo egli chiede, non che gli vengano risparmiati i supplizi (semmai le chiacchiere degli advocati Dei), ma che Dio gli si mostri rea‘, plesios, proximus (16,21): «come un mortale fa col suo rea‘ (plesion autoú)» egli vuole incontrarlo faccia a faccia e difendere l'uomo davanti a Lui. Anche Mosè parlava col Signore come un uomo parla al suo rea‘ (Esodo 3,11), ma la scena in Giobbe è radicalmente mutata: in Esodo appare evidente la forma dell'accordo, anzi: dell'alleanza imperitura; rea‘ esprime qui una prossimità attuale e incontestabile; per Giobbe, invece, il Signore dovrebbe farsi rea‘; egli reclama che la relazione tra il mortale e il suo Dio divenga una relazione tra prossimi.
Si potrebbe però sostenere che Giobbe esiga la compagnia, l'amicizia, la vicinanza di Dio nel senso di quella fiduciosa reciprocità, che il termine rea‘ sostanzialmente esprime. Egli vuole amare il suo Signore come il prossimo, nell'aspetto del prossimo, ma ciò non equivale affatto a amare il prossimo come il Signore. E se ciò avviene, è evidente che il significato che attribuivamo a rea‘, e al plesios dei LXX, viene rivoluzionato. È stato detto: «Amerai il tuo prossimo (agapeseis ton plesion soú)» — ma vi è stato anche detto: odierai il nemico, odierai chi non è con te nel vincolo delle leggi dell'ospitalità, nel senso più ampio del termine. Ma questo non lo sanno forse anche i gentili? «Questo però io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per chi vi perseguita». In Luca il paradosso dell'estrema vicinanza tra amore per Dio e amore per il prossimo; in Matteo quello della relazione che viene a stabilirsi tra plesios e echthrós, tra proximus e inimicus. Il nemico non può essere amato sul fondamento di un patto, né in vista di qualche utile, né sperando reciprocità. E tuttavia va amato come plesios. Nel termine viene compresa, cioè, la massima lontananza. Prossimo, «superlativamente» prossimo, è lo stesso nemico (l'hospes che non solo si dichiara apertamente hostis, ma addirittura inimicus, echthrós).
Il testo qui pubblicato è tratto dal saggio di Enzo Bianchi e Massimo Cacciari, «Ama il prossimo tuo» (pp. 144, 12), undicesimo e ultimo volume della collana «I Comandamenti» edita da il Mulino

Corriere della Sera 22.10.11
Così fu aggiunta al Decalogo una regola in più
di Armando Torno


Esce l'ultimo volume, undicesimo della serie dedicata a «I Comandamenti», dell'editrice il Mulino. Il titolo Ama il prossimo tuo ricorda il supremo comandamento cristiano. Firmano il libro Enzo Bianchi e Massimo Cacciari. Il primo tratta nel suo saggio «Farsi prossimo con amore», il secondo analizza la «Drammatica della prossimità». Ed è dallo scritto di Cacciari che pubblichiamo un estratto nel quale il filosofo ricostruisce l'itinerario di amore (e di giustizia) che porta il cristiano a non odiare il nemico.
Diremo innanzitutto che il termine ebraico ricordato da Cacciari rea' indica colui che è un compagno di gruppo, non scelto (può essere di etnia o un vicino appartenente a quelle dimensioni che ci precedono, come la famiglia, il clan, il popolo, il territorio). Parola abbastanza generica, non troppo utilizzata nei libri profetici dove si preferisce il concreto, è però ben presente nella Bibbia, soprattutto nella formulazione del Decalogo. In esso quanto si riferisce al dovere sociale ha sempre come oggetto il prossimo. Per esempio, il divieto di uccidere o di commettere adulterio si riferisce al prossimo che sta alla fine di tutte le formulazioni. Ora, l'avere unito questi due momenti sintetici, ovvero «Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Deuteronomio 6,5) e «Amerai il prossimo come te stesso» (Levitico 19,18), è la sintesi del Decalogo e di tutta la Tôrah. Non a caso queste due dimensioni fondamentali delle «dieci parole» usano — e lo fanno soltanto questi due versetti — la formula «e amerai», we'ahavtà in ebraico. L'amore verso Dio della prima parte abbraccia la seconda, rivolta agli altri. I due amori tra l'altro, nella dimensione verticale e in quella orizzontale, si incrociano nel mezzo del Decalogo nel comandamento del sabato. Che diventa il baricentro della vita spirituale, teso tra Dio e il prossimo.
Aggiungere a questo progetto de il Mulino un comandamento è stata una sottolineatura doverosa. Non a caso esso rappresenta la sintesi dei cinque riguardanti il prossimo. Cacciari, scrivendo il percorso dell'amore verso gli altri, sino al nemico, ha anche offerto una sorta di genealogia della rivoluzione cristiana. Le cui radici sono ebraiche. Per questo l'ultima parola del Decalogo è «re'èka», ovvero «il tuo prossimo».

L’Osservatore Romano 22.10.11
Laicità creativa
Pubblichiamo stralci dell'intervento dell'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione tenuto a Roma nel pomeriggio del 20 ottobre in un dibattito con l'onorevole Pierluigi Bersani, deputato italiano e segretario del Partito democratico

di Rino Fisichella

All'incontro, moderato da Piero Schiavazzi, erano presenti, tra gli altri, Francesco Maria Greco, ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, i cardinali Coppa e Re, e il direttore del nostro giornale.

Un titolo come questo si presta a diverse possibili interpretazioni. Potrebbe essere trattato, ad esempio, da un punto di vista accademico; ciò significa determinare l'uso della conoscenza che si ha tramite la ragione in rapporto alla conoscenza che deriva dalla fede. Lo stesso termine, comunque, è utilizzato in ambito politico; in questo caso, laicità assume il valore di un impegno da parte del legislatore di giungere ad assumere decisioni che non siano determinate da una particolare confessione religiosa. Più di recente, comunque, sembra che il richiamo alla laicità sia fatto sempre più spesso in riferimento alla Chiesa cattolica, per la sua pretesa di intervento nel dibattito politico su questioni di ordine etico. In questo contesto, diventa urgente una chiarificazione. In riferimento alla laicità, infatti, lo Stato afferma che in quanto laico non pone la religione a fondamento legislativo dei propri atti, perché riconosce la dovuta separazione tra i due ambiti. Nello stesso tempo, tuttavia, in forza del richiamo alla propria identità laica, non può negare né archiviare la religione; al contrario, è obbligato a riconoscerne la presenza e la funzione perché essa è preesistente al suo stesso affermarsi e organizzarsi come Stato.
Prescindere da questa considerazione equivarrebbe a non poter spiegare il fatto, ad esempio, della formazione dei partiti all'interno dello Stato democratico che si sono richiamati direttamente ai principi del cristianesimo. Questo stato di cose, come si nota, mostra con evidenza quanto la concezione della laicità dello Stato presupponga che all'interno della società vi sia una presenza religiosa che svolga un legittimo impegno politico quando vuole perseguire delle finalità che sono espressione della propria fede, senza per questo dover essere accusata di ingerenza negli affari dello Stato o, al contrario, vedere emarginata e discriminata la sua azione. Uno Stato che dovesse perseguire una simile politica nei confronti della religione si porrebbe immediatamente fuori dal sistema di laicità a cui intende richiamarsi e negherebbe la sua stessa storia democratica.
Questa mia posizione viene confermata e forse ancora di più oltrepassata dalla recente sentenza della Grande Chambre della Corte Europea di Strasbourg dello scorso 18 marzo. Con 15 voti contro 2 è stato decretato che l'esposizione del Crocifisso nelle scuole pubbliche italiane non costituisce violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. I 15 giudici hanno affermato in maniera innovativa che laicità è una convinzione filosofica e ideologica, quindi non è neutra; anch'essa, come altre convinzioni, è una credenza che ha pari dignità delle altre. Uno Stato che sostenesse la laicità in contrapposizione alla religione non sarebbe neutrale. Nel caso specifico, quindi, il pluralismo dell'educazione pubblica non implica la neutralità confessionale, perché lo Stato deve solo garantire che non ci sia indottrinamento attraverso quel simbolo. Queste considerazioni servono come premessa per indicare che il tema della laicità si presta a diverse interpretazioni. In effetti, io non parlerei di questo tema nello stesso modo in Francia, in Spagna, in Germania o in altri Paesi europei o dell'occidente. Non perché ne manchi l'opportunità, ma perché l'Italia con la sua storia rappresenta un ambito del tutto peculiare quando si tratta questa tematica. Dimenticare che qui convivono lo Stato Italiano e lo Stato della Città del Vaticano, con tanti rispettivi ambasciatori internazionali; non considerare la storia con l'alternanza dei loro rapporti proprio in occasione dei 150 anni dell'unità di questo Paese; oppure misconoscere la tradizione politica di decenni che ha visto la presenza di un partito di cattolici e di un partito comunista confrontarsi e cercare il consenso per governare il Paese insomma, trascurare tutto questo sarebbe ingenuo e poco efficace e non permetterebbe di avere del rapporto fra laicità e religione la visione coerente. Non si può dimenticare, da ultimo, per arrivare fino ai nostri giorni, che a differenza del passato, oggi la presenza dei cattolici si è frantumata in diversi partiti e per l'antico partito comunista nel suo processo di revisione e palingenesi la sorte non è stata differente. Le ambedue realtà politiche più rappresentative sono vittime della frammentarietà che domina sovrana, impedendo di vedere all'orizzonte la soluzione per una nuova struttura dello Stato che consenta per il futuro un progetto di stabilità e genuina formazione civile e sociale delle nuove generazioni.
A questo complesso organigramma, si aggiunga che, a differenza del passato, sorgono oggi in maniera sempre più pressante nuove questioni; ad esempio, la domanda religiosa in questo decennio sembra riaffermarsi con maggior intensità anche come una forma di nostalgia per valori perduti, nonostante espressioni di indifferenza e agnosticismo; le scoperte della scienza e la tecnologia che, entrate direttamente nella progettazione della vita umana, provocano nuovi interrogativi circa il senso della vita e delle stesse scoperte scientifiche. In una parola, la "biopolitica" non è più una chimera, è diventata la realtà. La sentenza di mercoledì della Corte Europea di Giustizia con la quale si vietano i brevetti per le terapie basate su distruzione di embrione, non fa che confermare un nuovo orientamento, propriamente "laico" della problematica, oltre i conflitti politici. Dinanzi a tutti questi nuovi fenomeni, le forze che su questi temi nel passato avrebbero potuto facilmente convergere verso soluzioni condivise con molta più facilità, per una visione della società alla fin fine comune nei suoi fondamenti, oggi si trovano invece pressoché agli antipodi e questo certamente non per un modificato insegnamento della Chiesa in proposito, ma per una deriva culturale relativista che molti purtroppo hanno fatto propria, spesso inconsciamente.
In questo nostro contesto, non per amore di novità - anche perché ritengo che il termine laicità non abbia bisogno di qualificazioni - ma solo per esplicitare al meglio il mio pensiero, vorrei cercare se fosse possibile proporre il concetto di "laicità creativa", per verificare se una tale visione può aiutare a uscire dalle secche in cui spesso ci si trova e prospettare un cammino comune nel rapporto tra Stato e Chiesa. La debolezza della politica è frutto della debolezza di una società disorientata, paurosa e priva di idealità; queste non possono venire solo dalla politica, perché sono frutto di una sinergia di impegno tra quanti comprendono la drammaticità del momento e non rimandano a visioni nostalgiche del passato o utopiche del futuro. Quanto è richiesto è l'assunzione di responsabilità oggi, ognuno da parte sua, per giungere a una visione condivisa e partecipata di un progetto da trasmettere a chi verrà dopo di noi. Se la Chiesa richiama a questo impegno è fedele alla sua missione e contribuisce alla vita del Paese.
Nessuno, forse, ha la soluzione pronta. Tuttavia, il richiamo a riconoscere che nell'agire politico si deve riconoscere di non essere il demiurgo di turno, ma sempre e solo interprete di un diritto ben più antico e profondo, radicato nella stessa legge della natura, allora questa è laicità creativa che richiede di aggregare consenso oltre le diversità mediante una più forte razionalità politica. Se, però, si teorizza un pensiero debole e si vive la frammentarietà, allora è improbabile che nasca una forte razionalità politica in grado di essere progettuale. Questo spiega perché la Chiesa deve parlare con tutti e in tutte le sedi, perché la promozione e la difesa di valori secolari non sono un regalo fatto ai cattolici o alle loro gerarchie, ma un'attenzione permanente all'uomo e alla sua storia.
Un autore anonimo scrive: "L'immagine di Dio non è impressa sull'oro, ma sul genere umano. La moneta di Cesare è oro, quella di Dio è l'umanità" (Opus imperfectum in Matthaeum, omelia 42). Questa immagine di Dio, porta con sé un impegno concreto e testardo nei confronti di quei principi che nessuno può sovvertire. Questi permangono come non negoziabili nel rapporto con lo Stato perché sono a fondamento di un'immagine impressa che va oltre la nostra volontà e desiderio di scendere a patti. Questi principi sono a fondamento di ogni altro impegno a favore dell'uomo nel suo vivere sociale; ogni tentativo di volerli limitare o modificarne l'ordine gerarchico non sarebbe privo di conseguenze per il corretto impegno dei cattolici nella politica. Insomma, per concludere, laicità significa certo esprimere le proprie opinioni e insegnamenti in piena libertà; rispettarli nella loro differenza è doveroso, non condividerli lecito, deriderli è triste, boicottarli penoso, rimanervi indifferente un affronto che la democrazia non merita.

Corriere della Sera 22.10.11
Vendola aggredito al sit-in Fiom
di Andrea Garibaldi


«Non è un manifestante». Resta in cella il ragazzo con l'estintore
ROMA — Alla fine la Fiom, metalmeccanici Cgil, il sindacato più duro, incassa l'apprezzamento del questore. I poliziotti, dagli elicotteri, hanno visto una manifestazione ordinata, a piazza del Popolo: 5.000 operai Fiat e Fincantieri in sciopero. La testa di tutti era rivolta a sabato, alle auto bruciate, alle vetrine infrante. Però, questa è un'altra storia. Non si tratta di finanza internazionale, ma di diritto al lavoro.
A rendere omaggio alla Fiom, c'è anche Nichi Vendola. Quando va via, davanti al bar Canova, arriva un signore sui 60, non alto, barba bianca: «'A Vendola non ti devi permettere di dire che quelli di sabato sono barbari, hai capito? Quello che ci fanno a noi è giusto? Pezzo di merda!». L'uomo dà una spinta a Vendola, poi si dilegua. «Non è un manifestante — commenta Vendola —. Loro sono così, speculatori, parassiti, sciacalli. Vogliono la guerra».
Le conseguenze di sabato non finiscono qui. Il prefetto di Roma, Pecoraro, per giustificare la decisione sua, del questore e del sindaco di vietare alla Fiom di fare un corteo, dice: «Roma è una città ferita e non andava fatta un'altra manifestazione. Poi, da parte di chi ha partecipato all'altra manifestazione... teniamo conto». Landini gli risponde dal palco: «Parole offensive verso i 300 mila che hanno protestato pacificamente. Gli atti di violenza non erano contro il potere, erano contro di noi».
La Fiom ha accettato di manifestare a piazza del Popolo. Ma un corteo (non autorizzato) viene fatto. Gli operai raggiungono piazza del Popolo attraversando villa Borghese. Su un cartello, l'ad Fiat, Marchionne, impugna una pistola, dicendo: «O il lavoro o i diritti». In piazza, Silvia di Irisbus (700 licenziamenti) invita il presidente Napolitano a non andare il 3 novembre a Pomigliano alla presentazione della nuova Panda: «Venga dove si chiudono gli stabilimenti...». Ci sono gli operai Maserati e quelli Ferrari. Nel suo intervento, Landini si chiede: «Dove sono i 20 miliardi di investimenti promessi da Marchionne? E i nuovi modelli?».
Conclude la segretaria Cgil, Susanna Camusso. Parte qualche fischio, da pochi «operai contro» della Cnh, Fiat trattori di Modena. A dare sostegno alla Fiom, molta sinistra, presente e che fu. Bertinotti, nella folla, Diliberto, Ferrero, Paolo Cento. Orfini, Damiano, Fassina e Vita del Pd.
Ultima notizia: per Fabrizio Filippi, «er pelliccia», arrestato sabato, il gip ha convalidato l'arresto.

Repubblica 22.10.11
"Black bloc figli del precariato diamo risposte o sarà un´escalation"
Vendola: la sinistra si faccia carico della loro rabbia
di Curzio Maltese


Un attempato ammiratore degli incappucciati l´ha aspettato ieri fuori dal bar Canova, in piazza del Popolo, ai margini della manifestazione della Fiom e l´ha aggredito: «Pezzo di merda, come ti permetti di dire che quelli di sabato erano barbari? Eroi sono, eroi». È soltanto l´ultimo e in fondo meno preoccupante episodio di intolleranza nei confronti di Nichi Vendola da parte di un mondo di rivoluzionari immaginari che considera il leader di Sel, come dice lui stesso, «ormai il vero nemico, più della destra, che in fondo gli va benissimo così».
Vendola, chi sono, che cosa rappresentano questi incappucciati in nero che s´infiltrano nelle manifestazioni per distruggere le città? Figli di un tempo paradossale o un nuovo partito armato?
«Non è ancora un partito armato, ma c´è il rischio che lo diventi. Possono reclutare nella crescente disperazione delle nuove generazioni e in più godono dell´aiuto di uno stato incapace. La reazione del governo ha dell´incredibile. Non hanno saputo fare prevenzione e hanno mandato allo sbaraglio le forze dell´ordine. E dopo il disastro, che fanno? Il blocco nero chiede la guerra e lo Stato gliela concede. La proposta di leggi speciali va esattamente in quel senso. Di fatto, costituirebbero un riconoscimento politico, un fiore all´occhiello per il blocco nero. Senza contare che naturalmente non servono a nulla. Serve piuttosto che i servizi imparino almeno a leggere quanto circola sulla rete, dove c´era già tutto da giorni e settimane».
Ma da chi è composto questo aspirante partito armato?
«Il blocco nero coinvolge frammenti di antagonismo e di estrema destra sociale, mescolando vaghi miti ideologici con pratiche da guerriglia metropolitana e di semplice gangsterismo. La palestra ideologica e il luogo concreto di reclutamento sono le curve degli stadi. Quanto al programma politico, diciamo così, è piuttosto rozzo: dagli allo sbirro».
Del terrorismo rosso si disse che c´entrava, in qualche modo, con l´album di famiglia della sinistra e purtroppo era vero. Ma esiste oggi un legame reale fra black bloc e movimenti?
«Stavolta non dobbiamo avere ambiguità. Il blocco nero è l´esatto capovolgimento politico della principale idea da cui sono partiti i movimenti in questi anni, cioè la tutela dei beni comuni. Loro negano proprio il bene comune. La città, la piazza, nel significato di bellezza urbana e di luogo della politica, per il blocco nero non sono beni comuni, terreni da attraversare con amore e rispetto: sono prede. Distruggono la città per distruggere la polis, quindi la bella politica, che i movimenti vogliono invece far rinascere. D´altra parte la frattura in piazza è stata nettissima, fra gli indignati e i barbari, come continuo a chiamarli».
Una frattura politica, ma anche emotiva, fra chi comunque crede ancora in un progetto di cambiamento e chi è in preda a una furia nichilista, disperata.
«Se esiste un elemento che illustra l´egemonia culturale di questi anni è il concetto di "eterno presente" elaborato dal filosofo Pietro Barcellona. Il passato è stato abrogato, dal futuro ci si aspetta soltanto la perpetuazione del presente all´infinito. In questa terra di nessuno della memoria si muovono gli incappucciati»
Come il terrorismo è stato in fondo il miglior alleato del potere, prolungando la vita di un ceto politico finito, così questi sedicenti antagonisti possono dare una mano alla sopravvivenza di questo?
«Ma sono antagonisti a che cosa? Gli incappucciati sono l´altra faccia della violenza del Potere con la maiuscola. Ne condividono il machismo, lo spirito eversivo, perfino il gusto per la mascherata. Erigono barriere, escludono dalla lotta i deboli, hanno in testa una loro zona rossa dove si separa l´estetica della guerra dall´etica della politica»
Al potere italiano i sovversivi sono sempre piaciuti, perché?
«L´humus è lo stesso. Quello che Gramsci chiamava il sovversivismo delle classi dirigenti italiane. Il presidente del consiglio che favoleggia con un personaggio come Lavitola una specie di rivoluzione di piazza, tumulti violenti contro sedi di giornali e palazzi di giustizia, s´inserisce appunto nel filone di questa storia».
L´odio degli incappucciati nei confronti delle forze dell´ordine può essere visto come un pendant dal basso delle campagne di un potere criminaloide contro i magistrati?
«Nel nome del comune disprezzo per la legalità, che è la base del gioco democratico. Ora non voglio citare la famosa poesia di Pasolini sugli scontri di valle Giulia, ma insomma ricordare che i poliziotti sono lavoratori, vengono dalle classi popolari e sono ridotti a furia di tagli in condizioni di lavoro penose. Il crollo di consenso della destra nelle caserme è palpabile e con la frustrazione, il dolore di quel mondo una sinistra che voglia davvero cambiare le cose deve confrontarsi, dare risposte. Ed è quello che avviene già spontaneamente in piazza, anche e anzi soprattutto nella piazza del 15 ottobre. L´applauso dei manifestanti pacifici alle forze dell´ordine che caricavano il blocco nero, la carezza del poliziotto a una manifestante colpita, sono gesti nuovi e importanti».
Senza voler trovare alibi alla sociopatia, non trova che comunque fra i giovani la categoria dei non rappresentati sia pericolosamente cresciuta negli anni, col rischio di alimentare esplosioni di rabbia sociale?
«E si allargherà sempre di più fino a quando la politica e i media non capiranno che la questione del lavoro precario, della vita da precari, è il problema numero uno. Prima del debito pubblico, della crisi, dei precetti del Fondo Monetario o delle banche centrali. La precarizzazione di intere generazioni può portare a una rottura antropologica. Questo fenomeno o trova una rappresentazione mediatica e una rappresentanza politica oppure rischia di fare la fortuna dei blocchi neri, quelli di strada e quelli di palazzo. Del resto, se lo comprendono Draghi e i vescovi, confido che possa farlo anche il centrosinistra italiano».
Non esiste davvero alcun legame fra le imprese del blocco nero e l´alba del terrorismo?
«Troppa storia è passata, con cambiamenti epocali. Un solo pericolo è comune. Il fascino della vecchia idea che i fini possano giustificare i mezzi. Ora, se la storia del Novecento ci ha insegnato qualcosa è che per un mondo più gentile si può ottenere soltanto praticando la gentilezza. Un mezzo barbaro prefigura un esito di barbarie. Lo dico mentre passano queste immagini della rivolta in Libia, che mi preoccupano. Perché ho paura di chi festeggia il vilipendio di un cadavere, perfino se è il cadavere di un dittatore assassino come Gheddafi».

«Emma Bonino, l´altra leader dei radicali, è a New York. La sua pagina Facebook è presa d’assalto da chi le chiede di dissociarsi dalla tattica pannelliana»
l’Unità 22.10.11
I Radicali in visita da Berlusconi Rivolta sul sito


«Potremo e dovremo continuare a votare sempre contro il governo. Come abbiamo sempre fatto. Ma, almeno il premier ci ascolta. Poi vedremo...». Marco Pannella sintetizza su Radio Radicale l'esito dell'incontro con Berlusconi a Palazzo Grazioli giovedì sera.
Con Pannella, Rita Bernardini, Maria Antonietta Farina Coscioni, Valter Vecellio c’erano anche Alfano e Gianni Letta. Il racconto della serata è sul sito del partito ma anche su Radio Radicale. Si è parlato di legge elettorale, carceri, giustizia ed eutanasia. Ma sul web è polemica, molti messaggi di critica, pochi di sostegno.
Pannella e Bernardini polemizzano anche con il Pd. «Sui temi dei quali avremmo voluto parlare con Bersani, in realtà abbiamo trovato ascolto da Berlusconi. Gli abbiamo sempre votato contro, dall`inizio della legislatura fino all`ultimo voto di fiducia dello scorso venerdì 14 ottobre». Ma con il Pd «siamo riusciti a parlare nella sede pubblica due volte! Una volta con Franceschini e l`altra con l`attuale segretario. E basta! Furono comunicazioni meno ascoltate e meno seguite...».
Con ironia scrivono i Radicali sul sito: «I Radicali magneno, s'abbuffano, trattano grana, a casa ed a cena con Silvio Berlusconi». Provocazione che però i militanti non digeriscono. Già furibondi dopo il “pasticcio” dell’ultimo voto di fiducia: quando i Radicali hanno fatto fallire
la strategia di Pd, IdV e Udc di star fuori dall’aula. Al corteo del 15 ottobre molti li hanno accusati di aver salvato il governo, anche se non sono stati determinanti per il raggiungimento del numero legale.
Gli internauti protestano. Moltissime le critiche. «Almeno risparmiateci il tentativo di rivestire il mercato delle vacche in corso di un aura di impegno civile e sociale», scrive un utente che si firma "ma vergognatevi". E un altro prevede già l'ingresso in maggioranza dei Radicali: «Prima era il numero legale, poi l'astensione adesso la cena con Berlusconi. Aspettiamo le dotte giustificazioni sulla vs. entrata al governo». Ed ancora: «Ma guarda un po', i soldi fanno ballare i "cecati". Pannella nonostante tutti gli scioperi della fame ci vedi bene.

il Fatto 22.10.11
La rabbia dei militanti radicali
“Pannella come Scilipoti”
di Federico Mello


Non è un buon momento per i Radicali. Sabato scorso, nella caldissima piazza romana, è andata in scena una feroce constestazione a Marco Pannella – con tanto di sputo; nei giorni seguenti le accuse di essersi trasformati in una stampella di Berlusconi – nonostante il voto contrario alla fiducia – sono continuata sul web. Ieri, la seconda puntata, che ha scatenato la rabbia online e ha portato a minacce di rottura da parte del Pd.
Ad “autodenunciarsi” sul web lo stesso Pannella, reduce da un cena giovedì sera a Palazzo Grazioli con Berlusconi, Alfano e Letta. “I Radicali magneno, s’abbuffano, trattano grana, a casa ed a cena con Silvio Berlusconi” il racconto pubblicato sul sito di partito. Si spiega che dal premier hanno trovato ascolto sulle questioni che gli stanno a cuore, a cominciare dalla richiesta di amnistia, come mai avvenuto da parte di Bersani. Ma la loro battaglia, per quanto tipicamente radicale , non ha convinto i militanti. Sul sito – onore al merito, comunque, per tenere aperti i commenti – è partito un coro contro la cena (probabilmente “non elegante”) a casa del premier. “Su cosa possono trovare un accordo i radicali con B.? Vediamo... Amnistia? Non credo, è in calo nei sondaggi e c’ha un partito pieno di fascisti... Eutanasia? Diritti civili? Laicità? Ce lo ricordiamo cosa disse B. sul caso Englaro? E allora? Soldi per radio Radicale? Mi sa che non resta altro” scrive lo scoraggiato Nico Valerio; Claudio saluta tutti: “È stato bello... addio”; Blazer attacca: “Pannella = Scilipoti. Grandi!”. Se qualche mosca bianca si dice d’accordo: – “In tempi non sospetti ho incitato i radicali a lasciare la sinistra e volgere lo sguardo a destra!” scrive Radicalesmithiano88 –; più amaro è Ominona: “Questo governo non ha portato a casa nemmeno il federalismo per la Lega, ha fatto solo proclami e aumentato tasse e secondo voi ora dovrebbero partire le riforme grazie al pannellone???”.
In serata il Pd ha diramato una nota che mette in dubbio la stessa alleanza: “Dopo aver assunto posizioni sconcertanti e dopo l’incontro con Berlusconi, coerenza vorrebbe che si prendesse atto del definitivo esaurirsi di un rapporto tra Pd e Radicali” la dichiarazione del parlamentare Antonello Giacomelli. “Il Pd da anni rifiuta con noi Radicali qualsiasi dibattito pubblico perchè il Regime risolve il problema con un comportamento letteralmente e ferocemente di stampo totalitario fascio militar-comunista contro i Diritti Umani e Costituzionali del popolo italiano” la replica panelliana. Che forse non basterà a convincere i suoi.

La Stampa 22.10.11
I radicali tentano Berlusconi
Sulla legge elettorale apertura del premier per un “bipolarismo all’americana”
di Ugo Magri


(...)
Berlusconi avrebbe già optato per un sistema alla spagnola, dove non c’è spazio per terzi poli. Sintomatico un passaggio del discorso di ieri: «Gli Usa ci indicano la strada, e cioè il bipolarismo, perché una democrazia funziona bene se ci sono due forze in campo». Dove si coglie l’eco di quanto gli aveva detto due sere fa Pannella.
E’ una volgarità pensare che i Radicali siano andati da lui a vendersi. Continueranno a votare come sempre contro il governo, mette in chiaro Rita Bernardini. Però, dal momento che le loro battaglie non riscuotono la minima attenzione nel Pd, è giusto sentire che cosa ne pensa il premier: così funziona sul mercato della politica. La «delegazia» radicale ha trovato un Berlusconi tanto interessato quanto indeciso. Tipo «vorrei ma non posso». Sull’amnistia «bisogna fare qualcosa», ha riconosciuto, «ma è difficile trovare in Parlamento la maggioranza richiesta dei due terzi». E quando Pannella gli ha magnificato il presidenzialismo all’americana, grande sospiro del Cavaliere: «Se proponessi la Repubblica presidenziale, mi accuserebbero di voler fare il dittatore, quando in realtà non ho poteri, io non conto niente», solita lamentela con una variante: di Napolitano ora il Cavaliere parla pubblicamente bene, «è un Capo dello Stato intelligente e puntuale, i suoi interventi sono sempre precisi». Pannella, congedandosi, gli ha dato una dritta: «Il Pd aveva inserito nel programma la legge elettorale maggioritaria, non importa se a uno o due turni. Silvio, approfittane! Rilanciala tu e loro non potranno dirti di no, essendone i proponenti...». Il Cavaliere sarebbe tentato, ma nel partito convivono idee diverse, lui non sa decidersi. Alza le spalle il centrista Rao: «Tanto sono divisi, che nemmeno riescono a fare una proposta».

Repubblica 22.10.11
I Radicali a cena a Palazzo Grazioli. "Puntiamo all´amnistia"
Pannella: almeno Silvio ci ascolta e sul Web si scatenano gli insulti
"Più dialogo con lui che con Bersani" Ma il Pd gli aveva offerto di entrare nel Nuovo Ulivo
di Giovanna Casadio


ROMA - Maccheroni cacio e pepe, scaloppine ai funghetti con contorno di patate, broccoletti e spinaci, gelato di crema e la promessa di leggere bene il dossier radicale su amnistia, carcerazione preventiva e depenalizzazione. È quanto Berlusconi ha offerto a Marco Pannella, giovedì sera, nella cena a Palazzo Grazioli. Incontro lungo, dalle 21,30 a mezzanotte. Non si è parlato di "grana"; non si è parlato di compravendite; di passare dal Pd all´abbraccio con il centrodestra. Di Radio Radicale però, sì. Può quindi il leader storico del Pr, rassicurare l´opposizione e gli stessi elettori radicali? «Scherziamo! Berlusconi almeno ci ascolta, vediamo quello che succede. Il Pd rifiuta il dibattito con noi da anni. Tutto è possibile, e poi si sa da trent´anni che io sono un venduto..., e se Berlusconi torna a casa da noi, come Lassie, sgozziamo il vitello grasso».
Alza la posta Pannella, per ottenere l´amnistia, e insiste su una legge elettorale maggioritaria. Su Facebook metterà infine un post per dire che i parlamentari radicali hanno sempre votato contro questo governo. Però gli piace sentirsi conteso. Lo è ora da Berlusconi (che ha l´assillo dei numeri per un governo in agonia) e dai Democratici. «Bersani ci snobba», ripete Pannella. Ma il segretario democratico rende pubblica la lettera con cui ha offerto qualche settimana fa al Pr di entrare a far parte del Nuovo Ulivo. Come dire, non è vero.
Provoca, il leader dei Radicali, per (sua) definizione un giocatore, eclettico, gandhiano, liberale, beat con tanto di coda di cavallo. Sul sito del partito scrive: «I Radicali magneno, s´abbuffano, trattano grana, a casa e a cena con Berlusconi». Però si scatena «l´incazzatura», una marea d´insulti online. La provocazione questa volta non attacca, non è più tempo: il discredito per la casta si estende a macchia d´olio, anche ai Radicali, che pure sono i promotori dell´anagrafe degli eletti, l´unico strumento di massima trasparenza proposto in questi anni. Però sono rimasti nell´emiciclo di Montecitorio il 13 ottobre mentre il gruppo dei Democratici era sull´Aventino; il giorno dopo sono entrati in aula rischiando di garantire alla maggioranza un numero legale in bilico (in realtà, il numero legale già c´era); e quindi la cena con il premier.
«´A venduti!»; «Andate in soccorso dello psico-nano, basta»; «In Mongolia, e non tornate più»; «Senza dignità, mi fate schifo»: sono commenti tra i più soft. C´è di peggio. Peggio sono stati gli sputi e gli insulti che Pannella si è beccato nella piazza degli indignati a Roma. Si è sentito offeso? «A 80 anni passati posso passare per il venduto, il drogato, il frocio d´Italia, come millantatore dedito al millantato credito sono molto bravo». Significa? Vuol dire - spiegano i compagni radicali - che la fiducia al governo no, però se c´è un´amnistia in una riforma della giustizia, allora la votano, eccome. Qualunque sia la posizione del Pd. Che del resto ha deciso - ripete ieri Antonello Giacomelli - di mollarli al loro destino di guastafeste. Attorno al tavolo di Palazzo Grazioli (per il radicali c´erano anche Bernardini, Coscioni, Vecellio; con Berlusconi, Letta e Alfano) si è parlato anche di eutanasia. E soprattutto: l´amnistia conviene pure a Berlusconi. Pannella imperterrito: «Gli ho chiesto 10 volte quello che ha dato a Lavitola... abbiamo beccato la grana ed è D´Alema indagato!». Emma Bonino, l´altra leader dei radicali, è a New York. La sua pagina Facebook è presa d´assalto da chi le chiede di dissociarsi dalla tattica pannelliana. A inizio dicembre c´è il congresso del partito.

il Riformista 22.10.11
Se Pannella va a Palazzo Grazioli
di Federico Blandini


Ho appena saputo dalla radio che Giacinto Pannella detto Marco, insieme ad un pugno di suoi accoliti, è stato ricevuto a Palazzo Grazioli dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Allora vogliamo dirla tutta, una buona volta, anche a spiegazione dell’ignobile ma utilissima farsa del loro improvviso arrivo in aula, l’altra settimana, per salvare governo e centrodestra procurandogli quel numero legale senza il quale sarebbe saltata la tragicommedia della cinquantunesima fiducia? Diciamola tutta, allora: i radicali, con quella mossa, si sono sentiti autorizzati a riscuotere un premio dal Cavaliere. E questo premio è il solito: il rinnovo triennale! della convenzione in base alla quale lo Stato paga dieci milioni l’anno (ripeto dieci milioni l’anno) a Radio Radicale perché trasmette le sedute di Camera e Senato. “Servizio” del tutto superfluo e strumentale da quando la Rai ha istituito GR-Parlamento che dà le identiche dirette. Ma in realtà attraverso la convenzione i radicali si procurano surrettiziamente il finanziamento pubblico che hanno perduto da quando non hanno rappresentanza parlamentare. Perché nessuno dice o scrive questa elementare verità?

l’Espresso 22.10.11
I radicali non mi incantano più
di Carlo Vallone


Sono profondamente deluso, per non dire di peggio, dal comportamento dei radicali. Questi signori, per i quali in passato ho anche votato trascinato dall’urgenza di alcune battaglie civili, si sono ridotti a un gruppetto di pressione, una specie di Scilipoti moltiplicato per sei alla Camera e per tre o quattro al Senato. Si salva solo la Bonino, che non a caso si tiene alla larga da spettacolini di adesione al governo e cene private con Berlusconi.
I radicali non mi incantano più. Credono che strillare amnistia, o che altro, li legittimi per ogni tipo di giravolta politica. E lo fanno con quel tono di saccenza come se solo loro avessero la verità in tasca e per quella verità si possano mettere in gioco onestà intellettuale, correttezza politica, coerenza, lealtà e rispetto degli impegni.
Me li aspetto, a breve, votare questo governo blaterando di chissà quali alti ideali mentre intascano il rinnovo del finanziamento per la loro radio, che da questo momento mi impegno a non ascoltare più.