sabato 31 marzo 2018

il manifesto 31.3.18
Barghouti: unità e mobilitazione popolare
Palestina. Secondo il teorico della resistenza non violenta anche Hamas comprende che solo la mobilitazione popolare e pacifica può raggiungere gli ‎obiettivi che sono di tutti i palestinesi
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Esponente di spicco della società civile palestinese e storico sostenitore della resistenza ‎popolare contro l’occupazione, Mustafa Baghouti vede nella massiccia partecipazione a ‎Gaza alla Grande Marcia del Ritorno il nuovo orizzonte al quale la popolazione e le forze ‎politiche palestinesi dovranno guardare da oggi in poi. Lo abbiamo intervistato mentre da ‎Gaza giungevano continue notizie di morti e feriti.‎
Sangue e politica, Gaza dimostra ancora una volta la sua centralità nella questione ‎palestinese
Non è stato solo un giorno di morte e dolore di cui è responsabile solo Israele. Ci sono due ‎punti molto importanti emersi dalla Grande Marcia del Ritorno. Il primo è che oggi ‎‎(ieri,ndr) abbiamo visto sul terreno una manifestazione concreta dell’unità palestinese. ‎Uomini , donne, ragazzi, bambini hanno partecipato a un’iniziativa che per giorni gli ‎israeliani hanno etichettato come violenta, aggressiva, minacciosa e che invece voleva solo ‎commemorare la Nakba e il Giorno della terra e ribadire che i palestinesi non ‎dimenticheranno mai i loro diritti. L’unica aggressione è arrivata da Israele che ha schierato ‎carri armati, blindati e tiratori scelti contro civili disarmati che manifestavano per i loro ‎diritti e per difendere la loro memoria storica. Il secondo è che tutte le formazioni politiche ‎palestinesi, incluso Hamas, hanno adottato la resistenza popolare non violenta. Il ‎movimento islamico al di là dei suoi proclami e delle sue manifestazioni di forza, in realtà ‎ora comprende che solo la mobilitazione popolare, non violenta, può raggiungere gli ‎obiettivi che sono di tutti i palestinesi. A cominciare dalla fine dell’assedio di Gaza. Sono ‎sicuro che vedremo sempre di più (nei Territori palestinesi occupati) manifestazioni con ‎migliaia e migliaia di persone.‎
Chiedete alla comunità internazionale di intervenire
Condannare Israele è il minimo che è chiamata a fare ciò che definiamo come la comunità ‎internazionale. L’Europa, ad esempio, a parole difende diritti e democrazia e poi resta in ‎silenzio davant ai crimini e agli abusi che commette Israele. Non fiata e quando lo fa è solo ‎per ripetere slogan e formule sterili che non servono a nulla in una situazione regionale e ‎internazionale profondamente mutata in cui, peraltro, gli Stati Uniti hanno adottato ‎apertamente la politica (del premier israeliano) Netanyahu proclamando Gerusalemme ‎capitale di Israele e disconoscendo la storia della città e le rivendicazioni palestinesi.
Donald Trump probabilmente sarà di nuovo a Gerusalemme a metà maggio, per ‎partecipare all’apertura dell’ambasciata Usa nella città.‎
E quando sarà qui si renderà conto che i palestinesi non si arrendono e continuano la lotta ‎per i loro diritti malgrado debbano fare i conti con un Paese molto potente come Israele e ‎con la superpotenza mondiale, l’America. Sono certo che la resistenza popolare vista a Gaza ‎e in Cisgiordania in queste ore non solo andrà avanti fino al 15 maggio, quando Trump ‎dovrebbe essere qui, ma proseguirà dopo quella data. Si trasformerà in un movimento di ‎massa, pacifico ma molto determinato contro l’occupazione. Questa è l’unica strada che ‎abbiamo per resistere all’oppressione israeliana e per liberarci di essa. Il resto si è dimostrato ‎fallimentare.
Ritiene l’Autorità nazionale palestinese ai margini, non importante per la lotta ‎popolare che lei si aspetta nelle prossime settimane
Non dico questo ma certo l’Anp dovrà cambiare radicalmente la sua strategia e rinunciare al ‎suo attaccamento agli Accordi di Oslo del 1993 e alla formula negoziale degli ultimi venti ‎anni. Non ci crede più nessuno e il governo Netanyahu utilizza quelle vecchie intese per ‎proseguire indisturbato le sue politiche di occupazione e colonizzazione. La prima cosa che ‎l’Anp dovrà fare è mettere fine alla frattura (con Hamas, ndr) perché nessun palestinese la ‎vuole e può ancora tollerarla.‎

il manifesto 31.3.18
Il «panico» del ritorno uccide la pace
Israele/Palestina. Di fronte a un atto simbolico evocante l’idea del ritorno, l’uso della forza da parte israeliana è un messaggio ben chiaro: chi vuole attraversare la frontiera può essere solo un uomo morto
di Zvi Schuldiner


Non è un semplice scontro e non lo si può misurare solo con il numero delle vittime. Comunque, a poche ore dall’inizio degli incidenti alla frontiera che chiude la Striscia di Gaza, i morti mentre scriviamo sono già quindici e centinaia i feriti.
Già nelle scorse settimane, la tensione era palpabile e sempre più crescente: le varie manifestazioni in programma recavano un titolo, «la marcia del ritorno», che scuoteva l’essenza stessa di Israele. Il ritorno dei rifugiati palestinesi.
Il ritorno di quanti furono espulsi dalle loro case o decisero di fuggire nel 1948. La guerra del 1967 cambiò la realtà territoriale del conflitto israelo-palestinese e la questione territoriale offrì – forse lo fa tuttora – la possibilità di arrivare un accordo storico fra i due popoli, fra due movimenti cresciuti a partire dalla fine del XIX secolo.
Da una parte, il sionismo che proponeva «il ritorno alla terra dopo l’espulsione» quasi duemila anni prima; dall’altra il nazionalismo palestinese che iniziava a manifestarsi e si accentuava nel confronto con il sionismo. E a partire dal 1948 ecco l’idea del «ritorno alla terra dopo l’espulsione», come parte dell’essere palestinese.
L’inesistente processo di pace dopo l’assassinio del premier israeliano Ytzhak Rabin da parte di un israeliano estremista nel 1995, offre teoricamente la possibilità di un accordo basato sulla spartizione: i territori occupati nel 1967 sarebbero la base per uno Stato palestinese e il tanto atteso ritorno sarebbe circoscritto a quei territori e – forse – alcuni chilometri quadrati torneranno a quello che adesso è Israele.
L’altra possibilità, uno Stato unico in tutti i territori attualmente occupati da Israele, apre la porta a due possibilità: un apartheid sotto il dominio israeliano, oppure uno Stato democratico senza più la connotazione ebraico-sionista attuale.
I 343 chilometri quadrati della Striscia di Gaza nella quale due milioni di palestinesi vivono in miseria e sulla soglia di un’enorme crisi umanitaria, sono circondati da una zona militare chiusa che però non è ermetica, tanto che frequentemente alcuni palestinesi riescono ad attraversarla. Ma nelle ultime settimane il nervosismo è cresciuto enormemente; tutti temevano quanto sarebbe successo di fronte a una massa di palestinesi pacificamente in marcia per cercare di materializzare visivamente il ritorno.
Che succederà? Dovremo reprimerli con la forza e il mondo ci accuserà di crimini contro i civili? Il panico creato da questo possibile «ritorno» tocca i sentimenti più profondi degli israeliani. È anche la giornata della terra. In questo stesso giorno, nel 1976, le confische delle terre palestinesi in Israele portarono a scontri sanguinosi e la polizia israeliana assassinò sei palestinesi cittadini arabo-israeliani.
Oggi, in una delle espressioni più imponenti della resistenza palestinese, migliaia di persone stanno manifestando lungo il confine della Striscia. Enorme il nervosismo fra le truppe israeliane: «Potrebbero passare il confine e minacciare lo Stato»; ed ecco le prime vittime.
Era «previsto». Di fronte a un atto simbolico evocante l’idea del ritorno, l’uso della forza da parte israeliana è un messaggio ben chiaro: chi vuole attraversare la frontiera può essere solo un uomo morto, la forza è dalla nostra parte, attenzione.
Tutto ciò appartiene a una storia che la destra israeliana non può più permettersi: il panico creato dal ritorno è un chiaro condizionamento nei confronti della necessità di arrivare a un processo di pace evitando un peggioramento certo della situazione.
Dopo un lungo periodo di «quasi silenzio» del mondo intero, durante il quale solo proteste sporadiche hanno fatto ricordare agli israeliani che non possono continuare a dominare milioni di palestinesi senza diritti, ora la frontiera esplode.
È un nuovo giorno della terra e il sangue versato è un’avvisaglia di conseguenze più gravi se non si prenderà una nuova strada.

Il Fatto 31.3.18
“Una reazione di guerra, sproporzionata e illegale”
Le Ong di Gerusalemme - Le organizzazioni umanitarie anti-militari e contro l’occupazione (malviste dal governo di destra), accusano l’esercito
di Roberta Zunini


Da un anno a questa parte le organizzazioni non governative indipendenti, che informano sulle violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito e delle autorità nei Territori palestinesi occupati, sono demonizzate e bollate come “traditrici”. Con il pretesto dei finanziamenti stranieri, gli ex soldati e i riservisti israeliani di Breaking the silence e gli attivisti ebrei contro l’occupazione di B’Tselem sono stati messi nel mirino del governo di destra-religioso guidato da Benjamin Netanyahu.
Secondo il portavoce di B’Tselem, fondata nel 1989 da Zehava Gal-On e dallo scrittore David Grossman, il comportamento dell’esercito israeliano nei confronti dei dimostranti di Gaza è stato “del tutto illegale”. Uno dei tanti problemi irrisolti da parte della comunità internazionale e lasciato sulle spalle stanche dei gazawi, quasi tutti profughi della prima ora. Entrambe le organizzazioni hanno sottolineato che: “Sparare a dimostranti disarmati è illegale e qualsiasi alto ufficiale che consenta un’azione del genere sta agendo al di fuori della legge”.
Già alla vigilia del sit-in a ridosso della zona di sicurezza – creata da Israele sul territorio riconosciuto dalle stesse autorità israeliane come appartenente a Gaza e quindi erodendo altro spazio alla già esigua Striscia – B’Tselem aveva pubblicato sul suo sito un comunicato in cui sottolineava che “le zone in cui si tengono manifestazioni pacifiche o disarmate non possono essere considerate zone di combattimento o guerra”. Un attivista dell’Ong che preferisce rimanere anonimo per evitare ritorsioni, ha spiegato al Fatto che “va anche messo l’accento sulla sproporzione della reazione israeliana contro civili disarmati”.
Ma non tutti erano disarmati, come è emerso da filmati e fotografie. “Pietre e molotov non possono essere considerate alla stregua dei carriarmati e dell’artiglieria pesante che l’esercito israeliano ha utilizzato per sparare ad altezza uomo sulla folla”. Le delucidazioni pubblicate dall’Ong israeliana spiegano che: I funzionari israeliani il giorno precedente la manifestazione hanno ripetutamente minacciato di rispondere con munizioni vere, ignorando completamente il disastro umanitario a Gaza e la responsabilità di Israele, inquadrando indistintamente tutti gli eventuali manifestanti come terroristi e riferendosi a tutta Gaza come a una zona di combattimento”. Tradotto: i vertici delle forze armate israeliane e il ministero della Difesa hanno a priori deciso che i palestinesi che avrebbero partecipato al sit-in sul confine sarebbero stati presi di mira, ancora una volta, con pallottole vere, indipendentemente da cosa avessero in mente di gridare e usare per chiedere il riconoscimento di un diritto decretato dalle Nazioni Unite.

La Stampa 31.3.18
Hamas sposta le masse al confine e punta al ritorno dei profughi del ’48
Messi all’angolo dalla strategia Usa, i leader oltranzisti rilanciano Persa la battaglia su Gerusalemme, sfuma l’obiettivo dei due Stati
di Giordano Stabile


Un’onda umana, una fanteria disarmata fatta di donne, bambini, ragazzi, per sfondare il confine e riappropriarsi dei territori perduti, fossero pure pochi metri quadrati e per pochi minuti. La strategia adottata da Hamas ha messo in difficoltà Israele e costretto i suoi militari nella difficile posizione di chi deve sparare sui civili. L’esercito se lo aspettava, perché i preparativi andavano avanti da giorni, ma non era facile trovare contromisure. Alla fine il capo di Stato maggiore Gadi Eizenkot ha annunciato l’invio di «cento cecchini», come monito ai dirigenti palestinesi perché non forzassero la mano. Le capacità organizzative del movimento, per quanto fiaccato da dieci anni di assedio, si sono rivelate però impressionanti. Trentamila persone sono state spostate in otto tendopoli allestite lungo la frontiera, a ridosso della recinzione che separa la Striscia Gaza dalla Stato ebraico.
Dall’altro lato, in realtà, ci sono territori israeliani all’interno dei confini del 1967, ma Hamas rivendica il «diritto al ritorno» in tutta la Palestina storica, «i confini del 1948». «La linea rossa è molto chiara – ha replicato il premier israeliano Benjamin Netanyahu -: restino dalla parte di Gaza e noi restiamo in Israele». L’idea di spingere civili disarmati contro le linee dell’esercito era già stata minacciata da Hezbollah nel Sud del Libano, ma mai messa in pratica. Ieri non è andata così: la Giornata della Terra, che si celebra ogni 30 marzo, nasce da una manifestazione finita nel sangue nel 1976, quando gli arabo-israeliani protestavano per l’esproprio delle loro terre a favore di insediamenti ebraici in Galilea. Sei rimasero uccisi. Un bilancio superato ieri, e di molto. Le proteste, nei piani di Hamas, dureranno fino al 15 maggio, giorno della Nakba, la data dell’indipendenza di Israele e dell’inizio della guerra 1948-1949 conclusa con la sconfitta degli eserciti arabi e palestinesi e che quindi quest’ultimi ricordano come il “disastro”.
Quest’anno il 15 maggio segnerà anche il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, «l’ultimo chiodo sulla bara» delle speranze palestinesi di arrivare a una patria indipendente. La mossa dell’amministrazione Trump non ha «spezzato l’incantesimo», come sperava la Casa Bianca. Invece di spingere i palestinesi a un compromesso, ad accontentarsi di meno per arrivare all’accordo di pace, ha favorito la posizione oltranzista di Hamas. Tanto vale provare un’insurrezione totale, ragionano, con la popolazione civile in marcia, a costo di immolarla, e rivendicare l’intera Palestina, i «confini del 1948», cioè prima della nascita di Israele.
Al-Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen, è costretto ad accodarsi. Ieri il suo portavoce Yusef al Mahmoud ha chiesto «un intervento internazionale per fermare lo spargimento del sangue». Ramallah, Betlemme, Nablus si preparano a marciare come Gaza. Il vecchio raiss è stretto fra un’America schierata come mai prima con Israele e una popolazione stanca, esasperata. La sua strategia di coinvolgere Onu, Europa, Russia, scavalcare Washington e rivendicare i diritti dei palestinesi su Gerusalemme, è fallita. Alla fine tutto quello che ha potuto offrire è il rabbioso insulto «ibn al-kalb», figlio di un cane, rivolto all’ambasciatore americano David Friedman, che già vive a Gerusalemme e ha aperto un altro fronte, quello degli insediamenti in Cisgiordania, «legittimi» a suo parere. Il governo di Netanyahu ha pronta la legge per annetterli e ha giurato che mai saranno smantellati. Lo Stato palestinese, se mai nascerà, si fa più piccolo di giorno in giorno e oltre ad Hamas anche movimenti laici come quello di Mustafa Barghouti vogliono abbandonare la strada dei «due popoli, due Stati» a favore di «uno Stato unico», dove ebrei e palestinesi godranno degli stessi diritti.
È una soluzione inaccettabile da parte dello Stato ebraico, e lo sanno, perché lo «Stato unico» presto non sarebbe più «ebraico». Nonostante l’aumento della natalità fra gli ebrei, i rapporti demografici si stanno invertendo. L’ultima relazione del Cogat, Coordination of government activities in the territories, registra in Cisgiordania 2,7 milioni di arabi, 2 milioni a Gaza, 1,8 milioni in Israele. In totale 6,5 milioni, mentre gli ebrei sono 6,7. Significa, ha notato il colonnello Uri Mendes, che per la prima volta dal 1967, «fra il Mediterraneo e il fiume Giordano» gli arabi hanno quasi raggiunto la parità. E Hamas vuole anche il ritorno dei profughi, dal 1948 in poi, che con i discendenti sono 5 milioni. Per la prima volta Israele si è trova di fronte a una muraglia umana che avanza, disarmata, e per questo più difficile da fermare.

«ieri era il 30 marzo, e cioè il “Yom al Ard”, che in arabo significa “Giorno della terra”. È una ricorrenza molto sentita dai palestinesi perché ricorda l’uccisione nello stesso giorno del 1976 di sei arabo-israeliani che si opponevano alla confisca delle loro terre in Galilea da parte dello Stato ebraico. Quella tragedia unì il popolo palestinese come raramente era accaduto prima. Oltre alle proteste, i palestinesi di solito piantano anche una pianta di ulivo per il diritto alla terra. Le proteste dureranno fino al 14 maggio, ossia il giorno della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, che i palestinesi ricordano con la parola “Nakba”, la “catastrofe”.»
Repubblica 31.3.18
Lo scrittore arabo-israeliano Sayed Kashua
“Dialogo ormai inutile questo è un ghetto”
di Antonello Guerrera


«Ai palestinesi non è rimasta nemmeno la speranza». Sayed Kashua è il più celebre scrittore arabo-israeliano, oltre che per romanzi come Due in uno è conosciuto in Israele anche per il suo humour, ma Kashua non riesce più a ridere. La sua voce è quasi sempre affranta, anche in questa conversazione al telefono da New York, dove vive da qualche anno dopo aver abbandonato la sua Gerusalemme. Eppure aveva lottato per incarnare la speranza della pace tra palestinesi e israeliani: viveva nel quartiere ebraico, mandava i figli a scuola ebraica, ma poi ha mollato tutto perché anche il suo sogno ha perso ogni speranza.
E non le sarà tornata dopo le immagini di ieri dal confine.
«Impossibile. Oramai a Gaza le persone sono pronte a morire al confine. Non hanno più niente da perdere. Non hanno cibo, dignità, aspirazioni. Sono come fantasmi che ogni tanto ritornano sulla scena internazionale. Gaza è il ghetto dei palestinesi, una prigione a cielo aperto nell’indifferenza generale di Israele, responsabile di questa immonda tragedia».
E le responsabilità di Hamas che governa la Striscia dedicando gran parte delle sue risorse per attaccare Israele?
«Non sono un sostenitore di Hamas, ma non credo che sia centrale in questo discorso.
Questa è una rivolta di un popolo umiliato e distrutto, dimenticato da tutti. È ben diversa dalla Prima e dalla Seconda Intifada dove c’era molto più coordinamento».
Un popolo dimenticato anche dall’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania?
«Il presidente Abu Mazen insiste col dialogo, ma in questi anni non ha ricavato un bel niente. Difende gli abitanti di Gaza solo se c’è una strage, se no tace. Oramai non rappresenta più nessuno. Ma in realtà tutto il mondo arabo ha abbandonato i palestinesi, vedi i riposizionamenti di sauditi e egiziani al fianco di Israele di Netanyahu e degli Usa di Trump. Io spero sempre che la politica possa fare qualcosa, ma nella questione palestinese la diplomazia non è servita a nulla».
Teme che ci sarà un’escalation di violenza?
«Alcuni continueranno a morire perché non hanno altro modo per far sentire la propria voce. Per altri è ancora fresca la ferita della guerra del 2014 e non vogliono riaprirla.
Persino Hamas di recente ha limitato le operazioni belliche contro Israele. In ogni caso, tutto questo non fermerà questo fiume di persone che continuerà a sfidare la morte».

Repubblica 31.3.18
Il demografo di Gerusalemme Sergio Della Pergola
“Dobbiamo separarci non abbiamo più scelta”
di V. N.


«Israele attraversa ancora una grave crisi di sicurezza, e questa volta sono le manifestazioni di Hamas organizzate nella Striscia di Gaza. Ma la soluzione non può che essere una soltanto nei rapporti con i palestinesi: è quella di far marciare il Paese verso una separazione dei nostri destini da quelli dei palestinesi. La soluzione dei “2 popoli-2 Stati” è l’unica che potrà salvaguardare Israele, ormai i numeri, la demografia ce lo dicono più chiaramente di quanto non facciano gli atti di terrorismo».
Sergio Della Pergola è il decano dei demografi israeliani: professore alla Hebrew University di Gerusalemme, israeliano di origini italiane, da una vita studia e analizza le variazione demografiche di Israele, dei palestinesi e di tutta la regione.
Professore, che cosa pensa di quello che accade a Gaza?
«Non sono un esperto di sicurezza, ma posso ripetere ciò che ho detto quando sono state pubblicate le ultime statistiche del Cogat, l’organismo israeliano che sovrintende ai Territori. Lo dico da 15 anni, Israele deve fare una scelta se vuole rimanere uno Stato dall’identità ebraica e dai valori democratici: dobbiamo separarci dai palestinesi, dobbiamo negoziare e permettere che nasca una entità palestinese, altrimenti diventeremo minoranza in uno Stato unico oppure dovremo essere uno Stato che non rispetta la democrazia, che non rispetta cittadini ebrei e palestinesi riservando loro gli stessi diritti.Come il Sudafrica dell’apartheid».
Quali sono i numeri del Cogat?
«Ci sono quasi 5 milioni di palestinesi fra Cisgiordania e Gaza, se aggiungiamo il milione e mezzo di arabi israeliani che vive nello Stato di Israele si arriva circa a 6 milioni e 400 mila palestinesi dal Giordano al mare. Gli ebrei sono 6 milioni e 500 mila, a cui possiamo aggiungere i 400 mila cittadini dell’ex Urss che i rabbini non considerano perfettamente ebrei ma che sono cittadini di Israele. Quindi Israele di fatto oggi ha una debole maggioranza ebraica, del 52 per cento contro il 48. Non c’è Paese al mondo che abbia una “minoranza” così importante: metà della popolazione».
La destra dice che i palestinesi offrono dati falsi. È vero?
«Sarà pure vero. Vero che i palestinesi saranno meno di quello che dichiarano. Ma la dinamica è questa. Abbiamo 3 alternative: lavorare per uno Stato ebraico, senza Gaza e Cisgiordania, in cui ci sia una maggioranza di ebrei, diciamo l’80 %, E allora dobbiamo separarci.
Oppure escludere solo Gaza, e allora siamo con gli ebrei al 61/62 %, ma Gaza preme come stanno facendo oggi i capi di Hamas.
Oppure ancora tutti dentro, ebrei e palestinesi di Gaza e Cisgiordania, e sarebbe ingestibile». – V.N.

Repubblica 31.3.18
Gli scontri a Gaza
Tre debolezze una tragedia
Sembra ormai quasi che il sangue e la disperazione siano gli unici ingredienti utili soltanto a perpetuare gruppi fondamentalisti e terroristi, partiti nazionalisti e corrotti e leadership in declino. A un prezzo altissimo: le vite di persone normali, le sofferenze e le paure di popoli rassegnati. Servono leader forti, speranze e progressi concreti, progetti chiari per risolvere, e non rimuovere, il problema. Perché in quella regione la somma di tre debolezze fa una tragedia.
di Daniele Bellasio


Un problema rimosso non è un problema risolto e un problema irrisolto nel vicino Oriente è sempre un potenziale dramma capace di riesplodere con ferocia da un momento all’altro. È quello che sta accadendo in queste ore ai confini tra Israele e Gaza, con i media palestinesi che parlano di 16 morti e oltre 1.400 feriti tra i manifestanti chiamati da Hamas a marciare nei pressi della barriera difensiva d’Israele.
Già la parola “confini” in quella sofferente regione evoca sangue e disperazione. Quando poi il contesto politico e diplomatico è assente, quando i protagonisti sono deboli, in declino e privi di una reale visione per il progresso loro e dei loro vicini, amici e nemici, il sangue e la disperazione si mescolano in un vuoto esplosivo che nessun appello alla calma e alla ragionevolezza riesce a colmare. Il vicino Oriente è una lunga miccia accesa che nessuno ha davvero più intenzione e forza di disinnescare, mentre il conflitto israelo- palestinese perde sempre più posizioni tra le priorità nelle agende degli interessi dei principali attori della politica internazionale. Vengono prima l’Iran, la Corea del Nord, la crisi della globalizzazione, i dazi, la Siria. Sono altri i nuovi campi di battaglia. Fino a quando poi, all’improvviso, quel vuoto riesplode, quella miccia si innesca e attira nuovamente le nostre attenzioni per un breve tratto nella primavera del nostro scontento occidentale. Ma la realtà è cocciuta e ormai il mondo è tutto vicino, è tutto ai nostri confini, spesso anche dentro. Per queste ragioni dobbiamo interrogarci su ciò che sta accadendo e purtroppo potrà ancora accadere.
L’Oriente vicino è oggi privo di qualunque contesto politico generale. Nessuna reale iniziativa diplomatica è in corso, mentre gli Usa guardano sempre altrove e l’amministrazione Trump vagheggia di ipotetici piani di pace in arrivo, mentre sposta l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Le potenze della regione, che dei palestinesi hanno sempre e soltanto sfruttato la causa, piuttosto che farla davvero propria, sono ora impegnate a proteggere i loro regimi e a scegliere accuratamente da che parte stare: se con i sauditi o con l’Iran, se con Putin o Erdogan, meglio magari con tutti e due i nuovi rais, il russo e il turco. Dell’esistenza della Lega araba si sono perse le tracce. La questione israelo-palestinese è semplicemente abbandonata a se stessa. E per di più in un quadro di particolare debolezza politica dei tre protagonisti principali.
Hamas, indebolita militarmente da Israele e superata in egemonia non solo militare da Hezbollah, è fragile, dunque gioca la carta della piazza, della disperazione e della provocazione. L’Autorità nazionale palestinese non ha più reali e forti interlocutori esterni e vive una profonda crisi di leadership e di legittimazione interna. L’anziano rais Abu Mazen non è mai stato Yasser Arafat, nel bene e nel male, e ha sempre ottenuto poco o nulla agli occhi di gran parte del suo popolo. Anche Israele ha i suoi problemi interni, con gli scandali e le inchieste per corruzione che indeboliscono il primo ministro Netanyahu. Inoltre, sembra che la politica israeliana, vedendo come per tutto il mondo la questione del conflitto con i palestinesi sia abbandonata a se stessa, si sia convinta, salvo rare eccezioni, che ormai sia soltanto un tema legato alla sicurezza. Cecchini e muri forse possono proteggere i confini di uno Stato democratico come Israele, ma è la forza della politica e del dialogo che ne può garantire davvero un futuro di pace e di prosperità.

il manifesto 31.3.18
Truppe francesi a Rojava. Erdogan: «Sarete target»
Siria. Indiscrezioni dopo l'incontro all'Eliseo tra il presidente Macron e una delegazione curdo-siriana: secondo Le Figaro, truppe speciali sarebbero dirette a Manbij. Intanto ad Afrin Ankara trasferisce 13.400 jihadisti e impedisce il rientro degli sfollati
di Chiara Cruciati


A 12 giorni dall’occupazione di Afrin da parte delle truppe turche e dell’Esercito libero siriano e lo sfollamento di 300mila civili, la Francia sarebbe pronta a inviare proprie unità militari a Rojava, nella città di Manbij, contro un’eventuale (e minacciata) offensiva turca.
A riportarlo è Le Figaro, a seguito dell’incontro all’Eliseo tra il presidente Macron e una delegazione del Partito Democratico dei Popoli (Pyd) e delle unità di difesa popolari Ypg/Ypj, tra cui spiccava il nome di Asya Abdullah, co-presidentessa del Tev-Dem (la Federazione del Nord della Siria).
«Macron – si legge nella nota ufficiale – ha espresso la speranza di avviare un dialogo tra governo turco e Sdf», quelle Forze Democratiche Siriane, federazione di curdi, arabi, circassi, turkmeni che liberò dallo Stato Islamico proprio Manbij nell’agosto 2016.
Quello che la nota non dice e che riporta invece il quotidiano francese è che Parigi sarebbe intenzionata a inviare nella città settentrionale siriana truppe speciali a sostegno dei duemila marines Usa di stanza nell’area. Il tutto per impedire ad Ankara di fare quanto minacciato più volte: avanzare da Afrin verso oriente, verso Manbij, Kobane, Qamishli, e occupare l’intera regione curdo-siriana.
L’ambasciatore francese in Turchia, aggiunge Le Figaro, sarebbe stato incaricato di riferire tali intenzioni al presidente Erdogan. Che ha già reagito: la Francia, ha detto ieri, «ha un approccio completamente sbagliato» sulla Siria. «Chi sei per mediare tra la Turchia e un gruppo terroristico?», ha tuonato.
Il vice premier Bozdag si è accodato definendo Parigi «target della Turchia» nel caso di un ingresso via terra: «Chiunque attacchi la Turchia al fianco dei terroristi riceverà lo stesso trattamento».
Resta da vedere quanto la tardiva presa di posizione della Francia (forse sulla spinta di antichi legami coloniali, con la Siria tuttora vista come teatro da cui Parigi non intende esimersi dall’intervenire) possa concretizzarsi: con Afrin già caduta e devastata, Manbij è da settimane – se non mesi – oggetto del negoziato tra Stati uniti e Turchia.
Washington, che alle Sdf ha fornito armi e supporto militare contro l’Isis, non può perdere del tutto la faccia accettando un’invasione turca in silenzio. Si parla insistentemente di un accordo segreto per far evacuare le Ypg da Manbij, evitare uno scontro diretto e aprire la strada alla futura avanzata di Ankara, con la conseguente creazione dell’agognata zona cuscinetto. E giovedì lo stesso presidente Trump, durante un comizio in Ohio, ha prospettato un’uscita degli Stati uniti, «molto presto», dalla Siria.
Al momento è in fase di realizzazione nell’ovest di Rojava: il distretto di Afrin è dal 18 marzo, giorno della caduta, oggetto di una sostituzione della popolazione. Fuori i curdi, dentro rifugiati siriani e miliziani islamisti. Dopo aver saccheggiato la città e occupato le abitazioni, truppe turche e unità di opposizione al soldo di Ankara stanno impedendo fisicamente il rientro degli sfollati che al momento si trovano a Kobane, Tal Rifaat e nella zona di Shahba, ad Aleppo.
«Dopo 69 giorni di resistenza contro il secondo esercito della Nato centinaia di migliaia di persone del cantone di Afrin restano sfollate – scrive l’Information Center del Tev-Dem – Migliaia di jihadisti sono stati trasferiti da Ghouta est ad Afrin per realizzare un cambiamento demografico e implementare un ordine turco-islamico».
Si tratterebbe, aggiunge, di 13.400 persone, tra miliziani islamisti e loro familiari. Secondo i locali, molte famiglie che avevano tentato di rientrare sono state catturate e trasferite in zone sconosciute o in villaggi in mano a gruppi islamisti.

il manifesto 31.3.18
Lezioni di resistenza all’abbandono di sé
Filosofia. «Il potere», secondo volume dei tre previsti del corso di Gilles Deleuze su Foucault, per ombre corte
di Girolamo De Michele


Il potere, secondo volume dei tre previsti del corso di Gilles Deleuze su Foucault del 1985-86 (trad. di Marta Benenti e Marta Caravà, ombre corte, pp. 388, euro 29), raccoglie le lezioni di Deleuze attorno al «secondo asse» del pensiero foucaultiano. Si tratta di uno snodo fondamentale non solo del corso, ma dell’intera lettura di Deleuze, che anticipa in modo sorprendente le interpretazioni successive alla pubblicazione dei Corsi: è infatti all’interno di queste lezioni, che cominciano dal «passaggio al potere» di Foucault e si concludono col «fuori del potere» (l’asse «greco» della soggettivazione), che avvengono quegli slittamenti che preparano la comprensione del terzo asse, relativo alla soggettivazione.
Si ricorderà che Fréderic Gros aveva definito il libro di Deleuze su Foucault una fiction métaphisique, il racconto del sogno di un Foucault metafisico, che gli appariva «lontanissimo dall’effettivo lavoro di Foucault»; e che dopo aver ascoltato le registrazioni di queste lezioni, Gros aveva radicalmente mutato parere: Deleuze, che non poteva conoscere le lezioni del Collège de France ancora inedite, aveva colto con tale giustezza la direzione in cui si era avviato Foucault, da esprimerla con formulazioni nelle quali le parole di Foucault e Deleuze sono indistinguibili.
LA CHIAVE è nella lezione del 7 gennaio, che si apre con un commosso ricordo di François Châtelet, l’amico e maestro morto dello stesso male che già affligge Deleuze, il cui ricordo getta un’ombra che si allunga, attraverso il tema della morte e della vita come «ciò che resiste alla morte» (Bichat) su tutto il corso.
In questa lezione, Deleuze elenca quei principi che costituiscono dei contro-postulati delle teorie classiche del potere (proprietà, localizzazione, subordinazione, essenza o attributo, modalità, legalità), e che definiscono un’analitica del potere sotto forma di meccanismi positivi produttori di sapere, moltiplicatori di discorsi, induttori di piaceri e generatori di poteri. L’elenco dei postulati di Deleuze, leggermente diverso da quelli in vari momenti prodotti da Foucault, e soprattutto quello delle funzioni del potere, sono debitori in modo evidente della conferenza Il soggetto e il potere, la cui ripetuta lettura fa segno a ciò che Foucault aveva esposto nelle lezioni al Collège, ma anche in quelle interviste e conferenze ora raccolte nei Dits et écrits, che Deleuze seguiva nel periodo del grande freddo fra i due. Dalla comprensione del potere come «rapporto di forze che si esercita su altre forze», Deleuze trae un ricco insieme di concetti. Fra questi il «diagramma», già presente, che diventa ora (come sottolinea Fadini nella sua introduzione) duplicazione della storia con il divenire che «ci restituisce il carattere costruttivo dei rapporti di forza, dei micropoteri».
L’indagine di questi rapporti conduce Deleuze a ri-formulare (lezione dell’8 aprile) il concetto foucaultiano di società di controllo o sorveglianza, con affinità e variazioni, rispetto a Foucault, rilevanti: dove in Foucault è chiaro trattarsi di un décalage di tecniche che inclina verso la trasformazione della sorveglianza da strumento disciplinare a tecnica autonoma, Deleuze sembra talora pensare a una soluzione di continuità fra due modelli.
MA CIÒ CHE PIÙ RILEVA è che l’analitica delle forze che scaturisce dal pensare in comune dei due autori fa giustizia ex ante dei tentativi di ridurre Foucault a un tardo epigono del liberalismo.
Accanto al diagramma, il dehors: non solo lo spazio del fuori, ma anche la «linea del fuori», nella quale convergono la linea del potere e quella della morte. Che Blanchot fosse un autore centrale per Foucault non era certo una novità: ma qui viene usato da Deleuze non solo come chiave per la comprensione di un Foucault «nascosto», ma soprattutto per un’esplicita contrapposizione fra l’on meurt di Blanchot e l’essere-per-la-morte di Heidegger.
Deleuze mette in luce un asse Bichat-Blanchot-Foucault che disegna un diverso rapporto con la morte e un altro nichilismo, contrapposto a quello decadente e destinale di Heidegger (che verrà alla luce nelle lezioni sui cinici, come manifestazione di una filosofia militante), e fa giustizia del tentativo agambeniano di mettere i lederhosen a Deleuze per menarlo a errare lungo cammini che non portano in alcun luogo
UN ALTRO CONCETTO fondamentale è quello di «piega», che assume un’importanza rilevante nell’ultimo Deleuze (basterà pensare al libro su Leibniz). La sorpresa, per il lettore di Deleuze, è scoprire che questo concetto nasce all’interno della riflessione su Foucault, e che è allo stesso Foucault che l’autore (nella lezione dell’11 marzo) attribuisce la primogenitura. E ancora, che dietro Foucault c’è quel «vitalismo su fondo di mortalismo» (come si legge nella Nascita della clinica) di Bichat: il piegarsi e ripiegarsi dei tessuti che fa della piegatura la matrice della sostanza vivente. E dunque, quello «strano vitalismo», quella bizzarra ontologia foucaultiana che delinea un vitalismo resistenziale, una filosofia della vita come resistenza alla morte (lezione del 25 marzo).
È in questa resistenza, contrapposta all’abbandono heideggeriano, che la linea si prolunga nel concetto di soggettivazione: «Immaginiamo che il fuori, la linea del fuori, questo al di là del potere sia preso in un movimento che lo strappa al vuoto o che lo allontana dalla morte. Immaginate che la linea del fuori, che rischia di cadere nel vuoto o nella morte, abbracci un movimento che la strappi dal vuoto e l’allontani dalla morte».
SE LA LINEA DEL FUORI «è qualcosa di diverso dal vuoto e dalla morte», costituisce un terzo asse «un asse di passione violenta, una sorta di scommessa tra la vita e la morte»: che finora era rimasto nascosto dall’intreccio con gli assi del sapere e del potere, «che già opera sotto gli altri due». Sarà questo asse che permetterà (come si vedrà nel terzo volume) di oltrepassare la linea: «sarà esso stesso il superamento della linea».

il manifesto 31.3.18
La fortuna editoriale di papa Francesco
Scaffale. Un percorso di letture, senza agiografie, sulla figura di Bergoglio e il suo papato. Dal libro di Andrea Riccardi a quello, più critico, di Marco Marzano
di Luca Kocci


In un momento in cui si riapre il dibattito fra difensori e i detrattori dell’inferno (fra questi ultimi ci sarebbe anche il pontefice, «intervistato» da Scalfari), gli anniversari sono occasioni per fare il punto su un evento che ha segnato una discontinuità nella storia, tanto più se, essendo ancora in corso, disegna anche un’ipotesi di futuro.
Il quinto anniversario dell’elezione di papa Francesco (13 marzo 2018) non è sfuggito a questa prassi: sui banchi del mercato editoriale sono comparsi molti titoli sui cinque anni di pontificato.
Dai libri apologetici che rafforzano la papolatria già piuttosto diffusa, a quelli che tentano analisi più accurate. R
esta centrale la domanda dello storico Andrea Riccardi – nel volume da lui curato Il cristianesimo al tempo di papa Francesco, Laterza, pp. 375, euro 22 – su «quanto il tempo di papa Francesco inciderà nella storia di lungo periodo del cattolicesimo. L’aspettativa dei settori critici è che il suo pontificato rappresenti una parentesi. Tuttavia è una stagione intensa, che può dar luogo a un profondo cambiamento».
IL TEMA È QUELLO della «rivoluzione» – vera, finta o presunta – di Francesco, a cui i cardinali che lo hanno eletto («gli insofferenti alla Curia, gli stanchi dell’insistenza sui ’valori’, gli estimatori della sua figura spirituale») hanno chiesto «una riforma della Curia». Ma Bergoglio, scrive Riccardi, più che un riformatore, è un comunicatore, che mette tra parentesi gli interventi strutturali e parla «della fede e della vita delle gente», anche perché «non ha una cultura istituzionale», né si vede «un disegno organico attorno alla riforma del governo romano».
«Francesco ha innescato nuovi percorsi senza sapere esattamente cosa avrebbero prodotto, mostrando di avere un’idea chiara sulla direzione in cui bisognava andare» ma «senza definire la strada per arrivarci», aggiunge lo storico Agostino Giovagnoli, in un altro contributo del volume (che raccoglie, fra i tanti, saggi degli storici «di sant’Egidio» Gianni La Bella sull’America latina e il «laboratorio argentino», Marco Impagliazzo su cristianesimo e islam, Roberto Morozzo della Rocca sul ruolo diplomatico della Santa sede; di Massimo Faggioli sui laici e di Marinella Perroni sulle donne). Quella di Francesco, scrive Riccardi, non è una rivoluzione istituzionale, ma «culturale», che «attende una risposta dalle periferie, dalla base e dai vari attori ecclesiali».
DAL PUNTO DI VISTA strutturale, quindi, nella Chiesa cattolica è cambiato poco. Lo afferma, con un’analisi spietata, il sociologo Marco Marzano (La Chiesa immobile. Francesco e la rivoluzione mancata, Laterza, pp. 163, euro 18). Un volume che introduce numerosi spunti di riflessione critica, sebbene talvolta rischi di semplificare eccessivamente complessità e tortuosità di un’istituzione con duemila anni di storia che non può essere assimilata a una qualsiasi organizzazione sociale.
Il punto di partenza di Marzano è la distanza fra la narrazione del «papa rivoluzionario» e la reale azione su quattro temi decisivi: riforma della Curia, mutamento delle norme etiche sulla vita sessuale e affettiva, abolizione del celibato obbligatorio del clero, condizione delle donne nella Chiesa. Aspetti sui quali gli interventi di Francesco non hanno prodotto modifiche, tranne minimi aggiornamento sulla possibilità di accesso ai sacramenti da parte dei divorziati risposati. Diagnosi indiscutibile, anche se vengono trascurati altri aspetti, irrilevanti sul piano strutturale, ma che hanno spostato l’asse della Chiesa dalla dottrina al sociale.
La Chiesa non può cambiare. Secondo Marzano questo è accaduto solo in tempi di crisi (nel ’500, con il Concilio di Trento, in risposta alla Riforma protestante), e quella odierna non è una fase di crisi: la Chiesa cattolica arranca nelle società secolarizzate di Europa e America, ma cresce in Africa e Asia. E in realtà Francesco non vuole cambiare un’istituzione che «mostra una naturale tendenza verso l’inerzia, la stabilità e la conservazione».
PIÙ CHE DA RIFORMATORE agisce da «distrattore»: mostra attenzione ai temi economico-sociali (rimanendo saldamente ancorato alla Dottrina sociale della Chiesa) e pratica una indifferenziata «politica dell’amicizia», fuori (luterani e ortodossi) e dentro (lefebvriani e teologi della liberazione, secondo Marzano ormai «sconfitti e ridotti all’assoluta irrilevanza») le mura della Chiesa.
Azioni che fungono da «surrogato» e da «freno per la riforma strutturale dell’istituzione» e che confondono i riformisti, anch’essi soggiogati da un «papismo» che agisce come «trappola cognitiva» che «allontana e distoglie dalla verità».

il manifesto 31.3.18
I migranti sono il nostro inconscio
di Ginevra Bompiani


Da quando Freud ha chiamato inconscio quella terra di nessuno che ci abita, additandolo come il selvaggio che dobbiamo riconoscere per nostro, l’inconscio ha allargato pian piano il suo territorio, divorando tutto quello che ha trovato sul suo passaggio.
Anche Prospero, alla fine della ‘Tempesta’, dice del mostro che ha cercato inutilmente di educare: «Questa cosa oscura la riconosco per mia». Dopo di che, insieme ai sovrani e agli innamorati, abbandona l’isola a Calibano.
Oggi sembra che anche noi stiamo abbandonando la terra a ‘quella cosa oscura’, senza riconoscerla per nostra. Sembra che tutto stia diventando inconscio, che tutto sia insieme per noi oscuro, selvaggio e straniero. E invece quel tutto è nostro.
Ed è certo nostra l’infelicità, la violenza, la povertà, la distruzione che ci assalgono da ogni parte. Siamo noi stessi che ci assaliamo da fuori. La terra si sta invadendo da sola.
E quella popolazione affamata, martoriata e spaventata che assalta le nostre spiagge e si nasconde nei nostri anfratti, il popolo migrante che fugge dalle guerre che facciamo, dalla siccità che provochiamo, verso le illusioni che diffondiamo, questo popolo che vorremmo respingere e cancellare, è il nostro inconscio.
I migranti sono il nostro inconscio. È la parte ‘non pensata’ di noi e della nostra società, quella che ci invade con la sua miseria, ma con la quale, una volta uscita allo scoperto, dovremo fare i conti, entrare in commercio, creare mediazioni, a meno che non continuiamo a cercare di nasconderli, ‘rimuoverli’, soffocarli, per la gran paura che ci fanno.
Finché non sapremo vedere la nostra nudità nei loro corpi lucidi e stanchi che escono fradici dall’acqua, o riconoscere la nostra paura nei loro occhi affamati, o l’intimità di vita e morte nei bambini che pendono dalle loro braccia, ci sembreranno stranieri, invasivi e spropositati. Saremo continuamente mossi da pietà e rigetto, e non sapremo capirli finché non riusciremo a pensarli.
Ora andrà al governo chi non li vuole proprio pensare e finge di poterli annientare, come se si potesse sopprimere il proprio inconscio senza conseguenze. I futuri governanti si vanteranno di essere spietati e daranno dei gran morsi nelle proprie carni.
Ma a dire la verità, neanche chi ha governato finora ci ha mai speso un pensiero. La loro soluzione è stata quella di nasconderli: nei cosiddetti centri di accoglienza e nelle case di tortura libiche e turche. Gli uni come gli altri credono che l’inconscio si possa affrontare rimuovendolo. Ma l’inconscio non nasce dal nulla, e il rimosso è anche rimorso. E se non vogliamo abbandonare loro la terra, come fa Prospero, dobbiamo insegnarci reciprocamente a convivere, perché noi possiamo togliere loro la vita, ma loro a noi la ragione per viverla.

Corriere 31.1.18
L’inchiesta

Immigrazione
Dal foglio di via alla strada. Così nascono i «fantasmi»
di Goffredo Buccini


Sunday è scappato, perché scappare dall’hotspot di Taranto, giura, «era facilissimo»: poi è saltato su un pullman, pensava d’arrivare alla periferia di Roma e s’è ritrovato a Perugia senza sapere come. Pure Mustafa è scappato, da un Cas, un centro d’accoglienza romano dove dice che lo mangiavano vivo gli insetti e avevano un bagno in quattrocento: è finito a Milano, sfruttato da un connazionale, a svuotare in nero cantine in zona Maciachini. Amir no, non è scappato, l’hanno semplicemente buttato fuori da un Cie («tornatene a casa tua») con un foglio di via in mano: lui non ha capito nemmeno cosa c’era scritto in mezzo a quei timbri ed è rimasto 24 ore seduto sul marciapiede di fronte al cancello, in trance, abbracciato al fagotto dei suoi stracci. «Mi sentivo un fantasma», sospira.
Ecco come si diventa fantasmi in Italia. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie della scorsa legislatura ha stabilito che sul territorio nazionale vagano circa 500 mila «invisibili»: migranti senza dimora e senza identità, quasi tutti rifluiti nella clandestinità per effetto di qualche passo falso più o meno grave o di una domanda d’asilo respinta che li ha fatti scivolare senza paracadute fuori dai circuiti dei Cas, dei Cie, degli Sprar (sigle esoteriche per livelli d’accoglienza diversi).
«Campano per strada»
Qualche mese fa il prefetto di Roma, Paola Basilone, ha illustrato il meccanismo ai commissari con estrema chiarezza: «Un censimento degli invisibili? Le forze di polizia lo fanno ogni volta che ne prendono qualcuno: lo identificano e gli consegnano il foglio di via. Soprattutto se non hanno precedenti penali, queste persone non possono essere arrestate e condotte nei Cie. Viene assegnato loro un termine entro il quale devono lasciare l’Italia, dopodiché è finita lì. Questo va a incidere pesantemente sul degrado della città, perché sono tutte persone che campano per strada... una situazione terribile».
Così terribile che possiamo considerare il tunisino Amir, 36 anni, l’egiziano Mustafa, 18 e mezzo, e il nigeriano Sunday, 19, tre ragazzi fortunati. Perché a ripescarli dalla strada e a dar loro una seconda chance è apparso don Vittorio Bernardi, un prete tosto che a Roma li accoglie a Casa San Giovanni, in fondo alla Prenestina, senza prendere un soldo dei famosi 35 euro pro capite da sempre al centro delle polemiche. Fa tutto «con il cinque per mille e qualche donazione», don Vittorio, che ce l’ha col sistema, coi politici, con noi giornalisti. «Sia bravo: copra l’identità dei ragazzi con altri nomi, se no non troveranno mai più lavoro», è la sola condizione a questi colloqui. Sa bene che basta un bivio sbagliato perché i «suoi ragazzi» scivolino di nuovo fuori dal circuito, nella terra di nessuno dove i migranti diventano malacarne.
E magari sarebbe toccato ad Amir quel giorno d’estate del 2011 in cui lo misero alla porta del Cie: «Mi avevano negato l’asilo politico ma non avevo commesso reati e non volevano più trattenermi. Così mi dissero: vattene, hai sette giorni. Ma non avevo documenti né soldi». Pareva uno zombie sul marciapiede quando lo vide Floriana, una psicoterapeuta buona che lo aveva assistito nei suoi cinque mesi al centro: «Che stai a fa’ qua?», gli chiese. E lo portò da don Vittorio. «Da allora ho lavorato coi cani», dice lui: «Li addestro». Ora però è disoccupato, anche se alla fine ha ottenuto almeno la protezione umanitaria. «Eh, ma tra un anno mi scade: se non trovo un altro lavoro rischio di tornare un fantasma!».
«Il pullman sbagliato»
Sulla Prenestina c’è insomma questo via vai di anime. Inquieta, assai inquieta è l’anima di Mustafa, fuggito (forse) per fame a 13 anni dall’Egitto. Nove mesi a Priolo, Sicilia. «Poi sono scappato. Mi hanno ripreso. Sono riscappato». I mesi di Milano sono un altro brutto ricordo. «Adesso voglio fare l’imbianchino e riprovare a prendere la terza media, m’hanno bocciato perché avevo troppo sonno per studiare dopo il lavoro, non sono pigro, giuro».
Sunday voleva studiare davvero, a Lagos, a casa di suo zio. Ma è cristiano, lo zio musulmano gli ha detto «convertiti e ti manderò a scuola». Lui se n’è andato via a 16 anni: calvario classico, sevizie incluse, fino alla costa libica. Dall’hotspot di Taranto è riscappato perché, dice, nemmeno lì lo facevano studiare. A Roma, in uno Sprar per minorenni, pareva avesse trovato pace (e libri: ha preso con successo il diploma di terza media). Ma un giorno d’inverno sono arrivati i poliziotti: «Tu non sei minorenne, mi hanno detto». Lo era ancora, ma è finito per strada. Morto di freddo, è salito su un pullman: «Volevo andare a un commissariato per spiegarmi, farmi aiutare». Non era il pullman giusto: s’è addormentato e s’è risvegliato a Perugia. Da don Vittorio l’hanno portato tre giorni dopo, spaventato come un gatto. Ha chiesto asilo («ma non me lo danno perché nella mia zona della Nigeria non c’è Boko Haram», solo uno zio integralista non basta). Lavora da pizzaiolo a Ponte Milvio. In nero. «Senza contratto non mi danno il permesso di soggiorno e senza permesso di soggiorno non mi danno il contratto». Sembra un tragicomico Comma 22. Invece è l’ennesima curva dove si può deragliare.
«I migranti che escono dalle misure di protezione, perché non hanno titolo o commettono reati, non possono stare liberi nella nostra comunità, vanno mandati in un luogo confinato». Lo sosteneva Romano Carancini, non un naziskin, il sindaco pd di Macerata: il nigeriano Innocent Oseghale, tracimato da uno Sprar e diventato spacciatore, era da poco in galera con l’accusa di avere massacrato Pamela Mastropietro. Luca Traini aveva appena sparato a sei migranti «per rappresaglia».

Il Fatto 31.3.18
Sui migranti decide tutto l’Italia: la Libia non esiste
Il caso Open Arms - Il nostro governo si comporta con i libici come con un protettorato, ma rifiuta di assumersi le proprie responsabilità
di Barbara Spinelli


È ora di fare chiarezza sulla politica italiana e dell’Unione europea concernente i rifugiati provenienti dalla Libia. I fatti, innanzitutto.
La zona libica di ricerca e soccorsi in mare (zona Sar) è un’invenzione di comodo: dal dicembre scorso non esiste più. Lo ha confermato l’Organizzazione Marittima Internazionale (Omi), e lo ha ammesso tra le righe il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, rispondendo il 26 marzo a una mia domanda nella Commissione libertà pubbliche del Parlamento europeo: “Non considero come acquisita la zona Sar della Libia. Ci fu una dichiarazione unilaterale nell’estate 2017 che creò una certa situazione che non riesco per la verità a qualificare”. La risposta è volutamente evasiva e il motivo delle ambiguità europee è evidente: la zona Sar lungo le coste libiche fu proclamata per ridurre drasticamente le attività delle navi Ong e per scaricare sulla Libia (governo provvisorio e milizie) la responsabilità giuridica connessa al rimpatrio e alla detenzione sempre più cruenta dei migranti in fuga verso l’Europa. Sotto forma di finzione tale responsabilità libica deve continuare a esistere, e infatti la Commissione si è guardata dal far proprie le ammissioni del direttore di Frontex.
Quel che invece appare sicuro è il ruolo italiano – e dell’Unione – nella gestione dell’area chiamata tuttora, abusivamente, zona Sar della Libia. Se ne è avuta certezza definitiva in occasione del sequestro della nave dell’Ong spagnola ProActiva Open Arms. Nel decreto di convalida della confisca, il giudice per le indagini preliminari di Catania ha detto come stanno le cose in maniera difficilmente equivocabile: “La circostanza che la Libia non abbia definitivamente dichiarato la sua zona Sar non implica automaticamente che le loro navi non possano partecipare ai soccorsi, soprattutto nel momento in cui il coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina militare italiana, con propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici” (il corsivo è mio). L’affermazione è cruciale, perché per la prima volta si dice che è l’Italia a coordinare le cosiddette guardie costiere libiche (il più delle volte miliziani ed ex trafficanti non controllabili). Le indagini giudiziarie sulle attività di ProActiva OpenArms diventano a questo punto non tanto secondarie quanto pretestuose. La vera questione riguarda l’attività del governo italiano e le intese tra quest’ultimo e il governo di Accordo Nazionale nonché le milizie libiche, intese appoggiate dall’Unione europea.
Ne consegue che l’Italia ha una responsabilità diretta nella decisione di respingere migranti e richiedenti asilo verso la Libia o altri paesi africani, e di esporli a grave rischio umanitario. Come sostiene Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi): “Sembra fuori discussione il fatto che le azioni poste in atto dall’Italia, intervenendo con propri mezzi, uomini e risorse, anche se al di fuori del territorio nazionale, costituiscano esercizio della propria giurisdizione con tutte le conseguenze che ne conseguono, in primis il fatto che l’Italia risponde alla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo”. Si ripetono così i respingimenti che già una volta, nel caso Hirsi del 2012, spinsero la Corte europea per i diritti umani a condannare l’Italia di Berlusconi: per i respingimenti collettivi operati nel 2009 e per aver esposto i rimpatriati forzati al “rischio serio di trattamenti inumani e degradanti”. Vero è che le autorità italiane si limitano oggi a “gestire” le guardie costiere libiche anziché intervenire di persona, ma il coordinamento fa capo a loro.
La via scelta dalle autorità italiane e da quelle dell’Unione è quella di perseguire gli operatori umanitari che si assumono l’onere di portare le persone soccorse in mare non nei luoghi “più vicini” bensì in luoghi sicuri (place of safety), come prescritto dalla Convenzione Sar del 1979. È una scelta – quella italiana – fatta in violazione del diritto internazionale, come affermato da 29 accademici europei in un appello che chiede al Consiglio di sicurezza dell’Onu di occuparsi del caso Italia-Libia.
Una denuncia simile era già venuta il 1 marzo dal relatore speciale Onu sulla tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, Nils Melzer: “Gli Stati devono smettere di fondare le proprie politiche migratorie sulla deterrenza, la criminalizzazione e la discriminazione. Devono consentire ai migranti di chiedere protezione internazionale e di presentare appello giudiziario o amministrativo contro ogni decisione concernente la loro detenzione o deportazione”.
Il ruolo dell’Italia sta divenendo sempre più oscuro, anche alla luce del caso, denunciato lo scorso 27 marzo dal Libya Observer, secondo cui le autorità libiche avrebbero delegato un cittadino italiano appartenente alla Missione di assistenza alla gestione integrata delle frontiere in Libia (Eubam Libia) a rappresentare ufficialmente la Libia in una conferenza internazionale. Questo in violazione della sovranità e dell’indipendenza della Libia, secondo la denuncia presentata dal delegato libico presso l’Organizzazione mondiale delle dogane Yousef Ibrahim al ministero degli Esteri di Tripoli, al direttore generale delle dogane e all’incaricato d’affari libico a Bruxelles.
Il governo italiano si sta comportando come se la Libia fosse un suo governatorato (la storia si ripete, e non è una farsa), ma senza assumersi responsabilità rispetto alla legge internazionale e allo specifico divieto del refoulement e dei trattamenti inumani.

Il Fatto 31.3.18
“Chi ha ucciso la sinistra? Renzi le ha dato il colpo di grazia: un delitto premeditato”
Lo scrittore dei “Bastardi di Pizzofalcone” indaga sull’esito delle elezioni
“Chi ha ucciso la sinistra? Renzi le ha dato il colpo di grazia: un delitto premeditato”
di Luciano Cerasa


Il creatore dei Bastardi di Pizzofalcone, lo scrittore Maurizio de Giovanni, indaga per noi sul delitto del momento: chi ha lasciato a terra agonizzante la sinistra, dopo il fallimento elettorale che ha investito quel che ne rimaneva, riducendola a mal partito? Dal confronto con lo smaliziato “papà” dell’ispettore Giuseppe Lojacono emergono indizi inquietanti e i nomi dei primi responsabili: “È un delitto maturato diversi anni fa in ambienti insospettabili, ma è stato portato sicuramente a compimento dall’ultimo segretario del Pd, Matteo Renzi e dalla vecchia guardia dei Ds”.
Andiamo con ordine: questa spietata guerra tra elettorati ha registrato diversi vincitori, ma ha lasciato sul campo qualche sopravvissuto dei vecchi equilibri e una vittima accertata ben nota alle cronache: chi ha ammazzato la sinistra?
Temo che, purtroppo per lei, la sinistra sia ancora viva ma con un’identità frammentata, le manca un partito di riferimento e le sue idee si sono ormai disperse tra le formazioni populiste e il sostanziale fallimento di LeU e di Potere al Popolo, che dimostra come le giuste istanze siano state mal rappresentate; prendiamo ad esempio il gruppo dirigente di Liberi e Uguali: è apparso vecchio, troppe facce che rievocano la prima Repubblica hanno coperto il volto dei giovani come Speranza, Fratoianni e Civati e in politica l’immagine è importante
A quanto le risulta è un delitto recente o smuovendo il fondo è soltanto venuto a galla il corpo?
Il tentativo di soppressione parte da lontano, si tratta evidentemente di un delitto premeditato da tempo; il Partito democratico prova da molti anni ad accedere all’elettorato moderato rinunciando alla rappresentanza dei giovani, degli operai, delle famiglie più disagiate e cercando il consenso tra la borghesia e le lobby finanziarie, sono interessi che con la situazione delle casse dello Stato sono difficilmente conciliabili
I maggiori indiziati sono Salvini e Di Maio o sotto c’è qualcosa di più?
I Cinque Stelle e la Lega difendono il territorio, ma hanno un atteggiamento negativo verso gli immigrati, non tengono conto della Ue e avanzano proposte economicamente insostenibili: non credo possano essere considerati una vera calamita per l’elettorato di sinistra anche se gran parte dei voti al M5S viene da lì, penso invece che hanno saputo riempire un vuoto e cavalcare il dissenso con proposte che hanno dato una speranza, soprattutto ai giovani alla ricerca di una diversità rispetto alle politiche seguite finora.
Si indaga soprattutto nel Mezzogiorno: perché i killer hanno potuto godere di tanto appoggio tra la popolazione locale?
Il Sud voleva cambiare e la proposta del reddito di cittadinanza a quattro milioni di disoccupati ha fatto sicuramente breccia anche se non è stato solo questo il motivo: il Meridione è stanco di vedere investimenti e infrastrutture tutti concentrati al nord del Paese.
Il Pd si è dato alla latitanza e i tanti capi si dividono tra coloro che cercano un accordo con il gruppo dei Pentastellati e chi vuole rimanere fuori dal giro in attesa che si calmino le acque, come finirà?
Non si può aprire una trattativa con l’M5S e tantomeno con quelli del centrodestra, qualsiasi cosa si facesse adesso stando al potere non sarebbe sufficiente per sostenere una diversità alle prossime elezioni e sarebbe una macchia sulla fedina che gli elettori non capirebbero, non ci si può assoggettare agli altri e fare da stampella a coloro che ti hanno coperto d’insulti fino a ieri; l’opposizione di tutte le forze che si vogliono rifare alla sinistra è l’unico modo per ridarsi una dignità, aspiro al nascere di una formazione realmente di sinistra e non “smussata”.
Dopo la pesante sconfitta il capo Matteo Renzi potrebbe passare definitivamente la mano?
Qualsiasi leader in qualsiasi parte del mondo, dopo aver fallito così clamorosamente e aver perso tanto credito, dovrebbe farsi da parte ma sappiamo che il Pd è capace di grandi autolesionismi.

Corriere 31.3.18
Ma da Orlando a Franceschini si allarga il fronte per il dialogo
di Tommaso Labate


ROMA «Franceschini, Orlando, Zanda, magari con l’aiuto esterno di Veltroni... Non è finita, ci proveranno in tutti i modi a spingere il Pd a sostenere un governo coi Cinquestelle...». Venerdì santo, metà pomeriggio. Le vie del centro della Capitale sono appannaggio dei pochi romani rimasti in città e dei turisti che sono venuti a trascorrerci le vacanze di Pasqua. I palazzi del potere sono vuoti, le mille trattative sul futuro dell’incerta legislatura appena iniziata si sono fermate. Quel «con Di Maio ci sentiremo dopo Pasqua», pronunciato da Matteo Salvini, ha avuto il suono di un rompete le righe, un time-out che rinvia la madre di tutte le questioni — e cioè il dibattito sulla nascita di un governo — al rientro dalle mini-vacanze.
Eppure al Nazareno, quartier generale del Partito democratico, c’è più di una luce accesa. È in corso una delle tantissime riunioni della maggioranza renziana in cui riecheggia l’oscuro presagio che l’ex segretario ha consegnato ai suoi prima di lasciare Roma: «Non è finita, ci proveranno in tutti i modi a spingere il Pd a sostenere un governo con i grillini».
Perché è questo che pensa Renzi. Ed è più di una sensazione. Da Dario Franceschini a Andrea Orlando, passando per Walter Veltroni, Michele Emiliano, Sergio Chiamparino e Luigi Zanda, l’elenco di tutti quelli che spingono perché il Pd esca dal guscio dell’opposizione si sta allungando a vista d’occhio. E potrebbe aumentare la propria spinta quando, con l’inizio delle consultazioni, anche il Quirinale entrerà formalmente nella partita.
L’opzione minima è quella che comprende più o meno lo stesso pensiero espresso l’altro giorno dal filosofo Massimo Cacciari durante una puntata di Otto e mezzo : «Il Pd avrebbe dovuto offrire l’appoggio esterno a un governo M5S. Dichiarandosi disponibili a lasciar fare un monocolore grillino, avrebbero ottenuto uno sconquasso incredibile». L’opzione massima è un’altra, il «jolly» che molti renziani intravedono nel taschino di Franceschini e Orlando. «Stanno facendo una pantomima per prendere tempo», si sente dire in riunioni come quella di ieri. «In realtà, aspettano il momento giusto per dire a Di Maio che sarebbero pronti a sostenere un governo coi Cinque Stelle a patto che non sia lui a guidarlo. E magari sono già d’accordo con lui…».
Perché c’è anche questo, nella testa dei fedelissimi di Renzi. La paura che ci sia un pezzo del Pd che sta già trattando sottobanco con il capo politico pentastellato, e che quest’ultimo avrebbe già messo in conto di fare quel passo di lato più volte smentito.
Ugo Sposetti, lo storico tesoriere degli ex ds, ben sintonizzato tanto con le antenne radio dell’opposizione interna a Renzi quanto col gli ambienti vicini al Quirinale, lo dice chiaramente: «Il Pd è il secondo partito italiano e non può continuare con questa strategia dell’Aventino. Siamo il centrosinistra, giusto? E il centrosinistra in questo momento ha un solo compito: impedire che i Cinque Stelle finiscano tra le braccia della destra. O lo capiscono i nostri dirigenti, e si danno una mossa. Oppure stiano fermi, ché il nostro popolo l’ha già capito…». Fuor di metafora, è un altro invito ad andare a vedere le carte di Di Maio.
E dire che pochi giorni fa, quando il patto Lega-Cinque Stelle sui presidenti delle Camera sembrava aver semplificato il quadro sollevando il Pd da ogni responsabilità futura, il capo degli Enti locali del partito Matteo Ricci declinava gli incubi di una scissione al tempo passato: «Si va verso un governo Di Maio con Salvini vice, noi stiamo tranquilli all’opposizione e Renzi non avrà alcun margine per farsi un partito tutto suo». Adesso, però, torna tutto in gioco. Compresa l’ipotesi che l’ex segretario torni a minacciare di farsi un partito tutto suo .

Repubblica 31.3.18
Quel dilemma che minaccia il futuro del pd
di Stefano Folli


Mercoledì, quando cominceranno le consultazioni del presidente della Repubblica, sarà passato giusto un mese dalle elezioni del 4 marzo. Un mese di schermaglie e messaggi trasversali che non hanno risolto il rebus del prossimo governo, ma sono serviti a chiarire un punto: l’Italia non è alle prese con una normale crisi di inizio legislatura; al contrario sta vivendo una svolta politica quasi senza precedenti, carica di incognite come nessun’altra.
Né i Cinque Stelle post-Grillo né la Lega salviniana, qualunque cosa si voglia pensare delle loro politiche, sono assimilabili alle forze protagoniste di un passato più o meno recente. Ne deriva che le loro azioni non sono riconducibili a logiche sperimentate.
Di sicuro rappresentano una minaccia costante verso i due soggetti perdenti ma sopravvissuti allo scossone elettorale.
Forza Italia sa che l’obiettivo di Salvini è ridurla al rango di partito satellite, senza escludere un’annessione parziale della corrente più nordista. E il Pd si rende conto che il movimento di Di Maio rappresenta uno spietato concorrente a sinistra, nel senso di dare voce in modo spregiudicato ma efficace a un malessere sociale rimasto troppo a lungo senza risposta.
Berlusconi e il Pd hanno scelto strade diverse per fronteggiare il declino.
Il primo si tiene attaccato al carro di Salvini così da condizionare il dialogo con il M5S, nella speranza non troppo segreta di un fallimento che apra la strada a un esecutivo di transizione capace di evitare un immediato ritorno alle urne. Il Pd invece rischia di dividersi a metà tra i renziani fedeli alla linea dell’opposizione intransigente e i possibilisti (da Franceschini a Orlando) desiderosi di esplorare altre vie nel confronto con Di Maio. È singolare che nel giro di poche ore due esponenti legati all’ex segretario, come Richetti e Nardella, abbiano alluso a una “estinzione” del Pd. Estinzione è un termine drammatico e definitivo che segnala un salto di qualità del dibattito.
È come se Renzi, che parla attraverso i due collaboratori e di fatto continua a essere una sorta di leader ombra (vedi l’analisi di Ignazi ieri su questo giornale), avesse messo le carte in tavola. Se il Pd scivola verso una qualche forma di intesa con i Cinque Stelle, variamente modulata, ciò equivarrà a un’estinzione. Quel che resta del partito subirà l’egemonia del M5S e dovrà rassegnarsi a un ruolo subordinato. È fin troppo facile prevedere che in questo caso avremo una scissione da destra: Renzi e i suoi, compresa una parte forse consistente dei gruppi parlamentari, rifiuterebbero di “estinguersi” nell’abbraccio con Di Maio e cercherebbero altre strade. Il che comporterebbe, fra l’altro, che il connubio fra M5S e Pd anti-renziano (più il gruppetto di Liberi e Uguali) non avrebbe voti sufficienti in Parlamento, specie al Senato.
La questione è molto insidiosa. Escluso che i Franceschini e gli Orlando, consapevoli delle conseguenze, abbiano voglia di stipulare con i Cinque Stelle una vera e propria intesa politica di maggioranza, la domanda è: cosa accadrebbe fra un paio di mesi di fronte allo stallo e a un appello del capo dello Stato? Il Pd risponderebbe unito o si frantumerebbe ugualmente? È troppo presto per dirlo. Certo è che un eventuale futuro governo aperto a personalità non di stretta osservanza partitica potrebbe aggirare la trappola dei “veti”. Specie se la sua base parlamentare fosse più ampia di una piccola intesa M5S-centrosinistra. E a patto che non appaia come la rivincita dei “perdenti”, considerate la natura e la retorica dei due vincitori.

il manifesto 31.3.18
Le trappole attive del socialismo
Intervista. Un incontro con il filosofo e politologo tedesco Axel Honneth, in Italia per una serie di conferenze proprio durante i giorni del terremoto elettorale. «La sinistra dovrebbe avere il coraggio di rendere nuovamente plausibile l’idea di una forte regolazione politica dell’economia e della finanza»
di Giorgio Fazio


«Nel socialismo vi è ancora una scintilla viva. Per scorgerla bisogna separare nettamente l’idea guida del socialismo dal suo guscio concettuale, radicato nel terreno del primo industrialismo».
Da quando Axel Honneth – il direttore del celebre Istituto di ricerche sociali di Francoforte, l’autore di Lotta per il riconoscimento e uno dei più acuti filosofi contemporanei – ha invitato a rimettere al centro dell’agenda culturale e politica «l’idea di socialismo» con il suo libro del 2015 (tradotto in italiano nel 2016), la sinistra politica europea, specie quella di estrazione socialdemocratica, ha inanellato una sconfitta dietro l’altra. Ma per l’allievo di Habermas, in Italia per una serie di conferenze proprio nei giorni seguiti al terremoto politico del 4 marzo, gli ultimi risultati elettorali non hanno fatto altro che confermare l’urgenza di ritornare alle origini: di riaprire gli archivi dimenticati della storia del movimento socialista.
«Il nostro compito oggi è quello di non concedere spazio al pessimismo e di sforzarci di trovare vie d’uscita alla profonda crisi in cui versa il socialismo. Una crisi che si manifesta non solo nella perdita di consensi, ma nel fatto che si sono allontanati dai partiti socialisti i ceti subalterni. Oggi sono i movimenti populisti, anche di carattere nazionalista e razzista, che sembrano essere divenuti i portavoci delle ansie e dei bisogni di quegli stessi ceti».
Da dove dovrebbero ripartire i partiti di sinistra per invertire la rotta?
Direi che bisogna partire dalla comprensione di un dato: le riforme avviate negli anni Novanta dal Labour Party di Blair o dalla Spd di Schröder, in particolare nel mercato del lavoro, sono state avvertite come un tradimento di conquiste sociali ottenute in decenni di lotte. I membri della classe operaia e del proletariato dei servizi si sono sentiti abbandonati e lasciati soli. Anche perché quelle riforme venivano presentate non come misure temporanee, imposte da necessità economiche, ma come conquiste: come la nuova visione della socialdemocrazia. Oggi la sinistra dovrebbe avere il coraggio di rendere nuovamente plausibile l’idea di una forte regolazione politica dell’economia e della finanza. Rimettere al centro il valore dei beni pubblici: ospedali, scuole, piscine comunali ben attrezzate, spazi pubblici sottratti al consumo. Pensare ad una nuova politica sociale delle abitazioni che faccia fronte alla grande emergenza abitativa, sul modello della Vienna rossa degli anni 20. Avviare una profonda riflessione culturale sul significato cruciale della scuola pubblica, in quanto organo essenziale per la costruzione delle basi della democrazia, tanto nell’economia quanto nella sfera politica.
Quale era la visione originaria del socialismo?
Tornando a leggere i testi del primo socialismo e di Marx, mi sono reso conto che il caposaldo del primo movimento socialista non era tanto l’idea di uguaglianza, quanto una visione della libertà cooperativa e sociale. Un’idea che voleva sfidare la concezione individualistica e atomistica di libertà che si era affermata con l’espansione dell’economia di mercato capitalistica. È l’idea che la mia libertà è dipendente da quella dell’altro, può esistere solo in un agire l’uno-con-l’altro, persino in un agire l’uno-per-l’altro. A mio modo di vedere, è importante ripensare il socialismo alla luce di questa idea, ma anche poi differenziarla dal collettivismo, presente invece nelle tendenze comuniste, anch’esse sorte con Marx. Nell’idea di libertà cooperativa è sempre in questione la libertà individuale e le condizioni della sua realizzazione, ossia le interazioni solidali con la libertà dell’altro. In una concezione collettivistica, come quella fatta propria dal comunismo, in primo piano è invece la libertà del collettivo. E questo porta con sé un’idea centralistica, perché sulle finalità condivise all’interno del collettivo, decideva solo una minoranza, ossia il partito.
A suo avviso erano presenti però anche dei limiti nella tradizione del socialismo…
Ci sono tre tare teoriche che hanno pesato negativamente sull’idea di socialismo, facendogli perdere progressivamente persuasività. In primo luogo si dava per assodato che il proletariato fosse il soggetto rivoluzionario, e che la teoria dovesse essere semplicemente il suo organo riflessivo. In secondo luogo, c’era una concezione fortemente deterministica del progresso, per cui il socialismo sarebbe succeduto al capitalismo in modo necessario e in una forma già prefigurabile. In terzo luogo, c’era un’eccessiva concentrazione sulla sfera delle attività economiche, quale unico spazio di realizzazione della libertà sociale. La conseguenza è stata quella di non accordare alcun valore indipendente alla democrazia politica, ridotta tendenzialmente a semplice sovrastruttura dell’economia. Questo ha determinato una chiusura teorica gravida di conseguenze nei confronti delle richieste normative di ulteriori processi di democratizzazione della politica e di estensione dei diritti fondamentali. Oggi non possiamo più pensare il socialismo senza due irrinunciabili insegnamenti del liberalismo: il primo è l’idea che il centro dei nostri sforzi, anche degli sforzi socialisti, deve rimanere sempre la libertà del singolo; l’altro è il significato irrinunciabile dei diritti fondamentali di libertà.
Il socialismo però non si lascia riassorbire nell’orbita del liberalismo, anche perchè non rinuncia all’idea di una trasformazione sociale della sfera economica.
Il socialismo è sempre partito dall’assunto secondo cui determinate forme di proprietà, in particolare la proprietà privata dei mezzi di produzione, impediscono la realizzazione della libertà sociale. E oggi è del tutto evidente che l’accumulazione di capitale nella sfera della produzione e della finanza, mina qualsiasi processo di governo democratico della società. Tuttavia, a mio modo di vedere, il compito più importante oggi consiste nel revocare l’equiparazione tra economia di mercato e capitalismo, e riprogettare delle forme alternative di utilizzo del mercato.
Il socialismo è rimasto troppo a lungo intrappolato nell’idea che l’unica valida alternativa al mercato capitalistico fosse un’economia pianificata in modo centralizzato. Questa idea ha atrofizzato la fantasia istituzionale del movimento socialista. Innanzitutto esistono sfere elementari della proprietà, che riguardano l’abitare, il vestirsi, oggetti primari che concernono la persona, a cui non possiamo rinunciare. E io non trovo in nessun modo scandaloso parlare di una certa proprietà privata dei mezzi di produzione.
Ma al di là di ciò, si è sempre riflettuto troppo poco sulla grande varietà di forme alternative alla proprietà privata. Non esiste solo la proprietà collettiva dello Stato, ma anche forme di proprietà cooperative, familiari, comunitarie. Pensare secondo dualismi è sempre improduttivo. I dualismi bloccano la nostra fantasia e il nostro sperimentalismo nel concepire modelli di economia politica alternativi.
Dal 1996 è alla guida dell’Istituto di Ricerche Sociali di Francoforte, un nome che evoca passaggi cruciali della storia culturale del Novecento. Di cosa si occupa oggi l’Istituto da lei diretto?
Da quando sono diventato direttore dell’Istituto ho voluto recuperare l’idea originaria di Horkheimer e Adorno, ossia quella di focalizzare le ricerche interdisciplinari su un tema centrale. E mi è sembrato particolarmente indicato concentrare i nostri sforzi sugli effetti paradossali prodotti dal capitalismo neoliberale.
L’esempio più lampante è quello delle riforme di flessibilizzazione del mercato del lavoro, legittimate come strumenti di estensione dell’autorealizzazione individuale nel lavoro, ma rovesciatesi in nuovi dispositivi di disciplinamento e di repressione: nei nuovi imperativi sociali della mobilità e della flessibilità.
L’idea di una teoria critica della società sta o cade con la possibilità di individuare un potenziale critico nella società, che fa segno verso il trascendimento delle attuali forme di dominio. Quali sono oggi i potenziali a cui riallacciarsi?
È una questione difficile, proprio perché oggi massive forme di disprezzo, di umiliazione, di invisibilizzazione, patite in particolare dal proletariato dei servizi e dalla classe lavoratrice, trovano un megafono nelle forze nazionalistiche e populistiche di destra. Questa sofferenza sociale rimane comunque il potenziale a cui bisogna ricollegarsi.

Il Fatto 31.3.18
Sarkozy, la grandeur ridicola del carnefice dell’“amico” Muammar Gheddafi
Senza riconoscenza - L’interventismo dell’ex presidente gollista ha portato all’uccisione del Colonnello libico, suo sponsor elettorale
«quella cultura era subalterna a quella tedesca e che ci è servita, utilmente servita, per portarci a livelli di conoscenza più alti, a Nietzsche, a Schopenhauer, ad Heidegger»
di Massimo Fini


Mi spiace per Carla Bruni, una delle donne più affascinanti d’Europa, ma il suo attuale consorte Nicolas Sarkozy fa veramente ribrezzo. Non solo e, addirittura, non tanto perché è stato il capofila dell’aggressione, del tutto illegittima sotto il profilo del diritto internazionale (ma esiste ancora un diritto internazionale?) alla Libia di Muammar Gheddafi, Stato accreditato all’Onu. Dato che sullo stesso piano possiamo mettere Barack Obama, questo mezzo nero e mezzo democratico cui fu conferito il Nobel per la Pace, all’impronta, sulla fiducia, quando quasi non aveva ancora messo piede alla Casa Bianca (mentre a Donald Trump non viene risparmiato nulla, benché in realtà, nonostante qualche ‘trumpata’ verbale, si stia dimostrando molto meno bellicoso, come dimostra la sua sostanziale ‘non belligeranza’ con la Corea del Nord). E sullo stesso piano, anzi in un piano più sotto, che è quello che gli spetta, come rango e come caimano, va messo Silvio Berlusconi che dopo essersi professato amico quasi fraterno di Muammar Gheddafi, tanto da permettergli di far evoluire i suoi cavalli berberi nella caserma intitolata a Salvo d’Acquisto, un vero eroe italiano, quando il Colonnello fu fatto fuori, grazie anche alla partecipazione italiana alla sciagurata impresa libica, le cui conseguenze si sono riversate soprattutto sulle nostre coste, se la cavò, col cinismo che gli è consustanziale, con la formula “Sic transit gloria mundi”. Quindi Berlusconi è doppiamente responsabile, politicamente, perché a quell’aggressione era contrario ma vi partecipò lo stesso, per viltà, per seguire, da cane fedele e nello stesso tempo sleale, gli americani.
“Sic transit gloria mundi”. Ci piacerebbe ripagarlo della stessa moneta quando verrà il suo momento, ma temiamo di non esser presenti perché i cinici, come dimostra la statistica, vivono molto più degli altri.
Nicolas Sarkozy fa ribrezzo, anzi moralmente schifo, al di là delle sue responsabilità politiche, per il modo in cui è stato ammazzato Muammar Gheddafi. Linciato, umiliato, sodomizzato. Una cosa che nemmeno i ‘tagliagole’ dell’Isis hanno mai fatto. Fausto Biloslavo, un inviato che merita credito perché è sempre molto vicino ai fronti di battaglia, scrive sul Giornale (23.3) che furono i Servizi segreti francesi ad armare quello scempio. Probabilmente non ne furono gli esecutori materiali ma hanno la gravissima responsabilità di non aver fatto nulla per impedirlo. Non si lincia, non si umilia, non si sodomizza il nemico, anzi l’ex amico diventato improvvisamente nemico, lo si passa per le armi, punto e basta.
E poco importa qui, se parliamo dal punto di vista etico e non politico o giudiziario, che Sarkozy avesse o non avesse interesse a chiudere per sempre la bocca a Gheddafi perché non saltassero fuori gli ingenti finanziamenti con cui il Colonnello aveva foraggiato la campagna elettorale dell’allora aspirante all’Eliseo. E chissà che Sarkozy – se dovesse finire in gattabuia, come merita ma come sicuramente non sarà perché i Vip, in Francia come ovunque, godono sempre di uno statuto speciale, in barba alle sacre e sommamente ipocrite parole della Rivoluzione – non rischi un trattamento simile a quello che toccò a Gheddafi prima di essere ucciso, a opera della teppaglia delle carceri che è comunque meglio di lui.
Da un altro punto di vista Sarkozy rappresenta la commedia di “un uomo ridicolo”. Come ridicoli, in linea di massima, sono i francesi. Con la loro mania di ‘grandeur’. La linea Maginot: e Hitler, aggirandola passando per il Belgio, dopo due mesi passeggiava sugli Champs Elysées. Le hanno prese anche a Dien Bien Phu. Certo sono molto abili, molto più di noi italiani che pur siamo degli specialisti in materia, a trasformare le sconfitte in vittorie. Furono collaborazionisti dei nazisti, molto più di noi che pur ne eravamo alleati. La loro tanto conclamata Resistenza fu, come la nostra, un fatto del tutto marginale in quella grandiosa e tragica epopea che è stata la Seconda guerra mondiale. Ma grazie alla favola convenuta del ‘governo in esilio’ di quell’altro pallone gonfiato, tipicamente francese, che risponde al nome di Charles de Gaulle, hanno potuto sedersi da vincitori al Tavolo della Pace, insieme agli inglesi, agli americani e ai russi che i nazisti li avevano combattuti sul serio.
Io sono nato intellettualmente all’‘Età della ragione’, per usare il titolo del miglior romanzo di Sartre, in piena epoca esistenzialista. L’epoca di Montmartre, di Montparnasse, della ‘rive gauche’, del Dome, della Coupole, delle ‘caves’, di Juliette Greco e, naturalmente, dello stesso Sartre, di Albert Camus (Lo straniero e La Chute), di Maurice Merleau-Ponty. Da loro ho respirato il problema della scelta e della assunzione della sua responsabilità, la rivolta, l’individualismo, l’agnosticismo, tutti concetti che sono ancora ben presenti in me. Ma se riguardo a quei tempi con gli occhi un po’ più maturi di quelli che potevo avere da ragazzo, mi rendo conto che quella cultura era subalterna a quella tedesca e che ci è servita, utilmente servita, per portarci a livelli di conoscenza più alti, a Nietzsche, a Schopenhauer, ad Heidegger.
Certo ci sono state anche altre stagioni straordinarie della cultura francese, quella dei Baudelaire (“L’unica scusante di Dio è di non esistere”), del poeta della rivolta par excellence Arthur Rimbaud, di Verlaine, di Lautréamont (Les chants di Maldoror). Ma erano altri tempi. Adesso dobbiamo confrontarci con altri palloni gonfiati della cultura e della politica francese, a cominciare da Macron il quale potrà esistere e avere un senso finché rimarrà attaccato alla gonna del tailleur, oltre che agli ordini, di Angela Merkel. Heil Angela! E qui mi fermo perché non vorrei essere accusato, e quindi liberalmente messo al gabbio, di criptonazismo. Di questi tempi democratici, molto democratici, democraticissimi, tutto è possibile.

Repubblica 31.3.18
Per una biopolitica illuminista
L’ultima lezione di Stefano Rodotà
di Roberto Esposito

Per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza dignità l’identità è povera, diventa ambigua, può essere manipolata». Il nuovo libro, postumo, di Stefano Rodotà, Vivere la democrazia, appena pubblicato da Laterza, può essere letto come un ampio e appassionato commento a questa frase di Primo Levi. Tutti e tre i termini evocati da Levi — identità, dignità e vita — s’incrociano in una riflessione aperta ma anche problematica, che ha fatto di Rodotà uno dei maggiori analisti del nostro tempo. Composto da saggi non tutti rivisti dall’autore, scomparso lo scorso giugno nel pieno del suo lavoro, il libro ci restituisce il nucleo profondo di una ricerca che definire giuridica è allo stesso tempo esatto e riduttivo. Esatto perché il diritto costituisce l’orizzonte all’interno del quale Rodotà ha collocato il proprio lavoro. Riduttivo perché ha sempre riempito la propria elaborazione giuridica di contenuti storici, filosofici, antropologici che ne eccedono il linguaggio. Rodotà ha posto il diritto, da altri irrigidito in formulazioni astratte, a contatto diretto con la vita. E non con la vita in generale, ma con ciò che è diventato oggi la vita umana nel tempo di una tecnica dispiegata al punto da penetrare al suo interno, modificandone profilo e contorni.
Ma cominciamo dalle tre parole prima evocate, a partire dall’identità. Come è noto a chi si occupa di filosofia, l’interrogazione sul significato della nostra identità attraversa l’intera storia del pensiero, trovando un punto di coagulo decisivo nell’opera di John Locke.
Cosa fa sì che il vecchio riconosca sé stesso nel ragazzo, e poi nell’adulto, che è stato nonostante i tanti cambiamenti che ne hanno segnato l’aspetto e il carattere? La risposta di Locke è che a consentire alla coscienza di sperimentarsi identica a se stessa in diversi momenti dell’esistenza è la memoria. Ma tale risposta bastava in una stagione in cui natura, storia e tecnica costituivano sfere distinte e reciprocamente autonome. Una condizione oggi venuta meno. Nel momento in cui politica e tecnica hanno assunto il corpo umano a oggetto del proprio operato tutto è cambiato. Sfidata dalle biotecnologie e immersa nel cyberspazio, l’identità umana si è andata dislocando su piani molteplici, scomponendosi e ricomponendosi in maniera inedita.
È precisamente a questa mutazione antropologica che Rodotà rivolge uno sguardo acuminato. A chi appartiene il nostro futuro? — egli si chiede con Jaron Lanier ( La dignità ai tempi di internet, Il Saggiatore) — quando l’identità non è più forgiata da noi stessi, ma modificata, e anche manipolata, da altri? Si pensi a come è cambiato il ruolo del corpo in rapporto alla nostra identificazione. Dopo essere stato centrale, al punto che sulla carta d’identità comparivano, insieme alla foto, colore di occhi e capelli, il corpo è stato in qualche modo soppiantato dalle tecnologie informatiche — password, codici, algoritmi. Per poi tornare, una volta tecnologizzato, come oggetto di attenzione da parte delle agenzie di controllo.
Impronte digitali, geometrie della mano, iride, retina, per non parlare del dna.
Tutto ciò quando la chirurgia plastica è in grado di cambiare i nostri connotati. E qui entra in gioco il secondo termine del libro, la dignità, assunta non in maniera generica, ma come un vero principio giuridico. Che ha già trovato spazio nella nostra Costituzione e poi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ma ciò non basta, se si vuol passare dal tempo dell’homo aequalis a quello dell’homo dignus. Il richiamo alla dignità, che è stato un lascito importante del costituzionalismo del Dopoguerra diventa, per Rodotà, un elemento costitutivo dell’identità personale.
Naturalmente a patto che il concetto stesso di “persona” spezzi il guscio giuridico di matrice romana, per incarnarsi nel corpo vivente di ogni essere umano, senza distinzione di etnia, religione, provenienza.
Anche la questione, largamente discussa, dei beni comuni va inquadrata in questo orizzonte storico, misurata alle drastiche trasformazioni che stiamo vivendo. Solo in questo modo anche il terzo termine in gioco — la vita — può diventare oggetto di una biopolitica affermativa.
Rodotà ne offre un esempio illuminante.
Nel 2013 la Corte suprema dell’India ha stabilito che il diritto di una casa farmaceutica di fissare liberamente il prezzo di un farmaco di largo consumo è subordinato al diritto fondamentale alla salute di chi ne ha bisogno. Che prevale sull’interesse proprietario.
Come è noto, a partire dall’entrata in vigore del Codice civile napoleonico, il principio della proprietà è stato sostituito a quello, rivoluzionario

Repubblica 31.3.18
L’allievo molestato “Il mio mentore Levine mi ha rovinato la vita e avevo solo 16 anni”
Volevo diventare direttore come lui ma quella relazione malsana mi ha allontanato dalla musica
Intervista di Anna Lombardi


NEW YORK Diceva che dovevo imparare a lasciarmi andare: era parte della mia educazione.
Avevo 16 anni e volevo diventare direttore d’orchestra come lui. Invece quella relazione malsana mi ha allontanato dalla musica». Ashok Pai, 49 anni, è uno dei quattro uomini che sull’onda del caso Weinstein lo scorso dicembre hanno raccontato di aver subito, ancora minorenni, abusi sessuali da parte di James Levine: il direttore d’orchestra alla guida del Metropolitan Opera di New York dal 1976. La storia rilanciata dal New York Times ha spinto il Met, che pure era a conoscenza di una denuncia fatta da Pai nel 2016, ad aprire l’investigazione interna che il 12 marzo ha portato al licenziamento dell’artista. I “rumors” sulle sue attitudini sessuali sono state confermate dopo aver sentito almeno 70 persone. Un atto che Levine, 74 anni, 37 Grammy, non ha accettato: chiedendo 5,8 milioni di dollari di danni al Met per aver rotto il suo contratto alla vigilia dell’attesissima Tosca.
Pai, quando conobbe Levine?
«Era il 1973, avevo 4 anni: mia madre mi portò nel backstage del festival di Ravinia, sede estiva della Chicago Symphony Orchestra, per salutarlo. I miei genitori indiani erano laici e consideravano la musica classica la loro unica religione. Avevo appena iniziato le lezioni di violino e per me fu come incontrare un supereroe.
Da allora andai ogni estate nel backstage».
Pai si presenta all’appuntamento con Repubblica al Jungle Cafè di Brooklyn con foto dell’epoca, appunti e perfino l’audio dell’ultima telefonata con Levine registrata nel cellulare: «Mangerò molto durante la nostra conversazione» dice. «È una delle mie nevrosi, quella relazione mi ha lasciato un lungo strascico di dipendenze».
Come divenne una relazione?
«A 16 anni mi trovai a frequentare un uomo di 41 senza neanche rendermene conto. Una sera, era il giugno 1985, mi accompagnò a casa. Per la prima volta mi toccò in modo imbarazzante, sensuale. Intanto diceva che mi avrebbe aiutato a diventare “speciale” come lui».
Perché continuò a frequentarlo?
«Non mi eccitava. Sono eterosessuale, non l’ho mai desiderato. Ma mi diceva che dovevo andare a New York per fare un’audizione. L’idea mi emozionava».
Andò?
«Sì: avevo 16 anni. I miei mi accompagnarono fino al suo appartamento nell’Upper West Side ma lui non li volle in casa. Mi accolse in accappatoio: facemmo una sorta di test musicale e alla fine disse che non avevo la stoffa del grande conduttore ma che lui poteva aiutarmi. Fece grandi promesse: avrebbe creato una fondazione per me. Sarei andato al Festival di Salisburgo. E tutto quello che accadeva, beh, era parte della mia educazione».
Ne parlò con qualcuno?
«Mai. Ma il fratello e l’assistente di Levine sapevano. Avevano una sorta di copione: mi invitava ai concerti dicendo che poi saremmo andati a cena per parlare. Ma succedeva sempre qualcosa. Mi mandava ad aspettarlo a casa o in hotel. E le molestie ricominciavano».
Era consenziente?
«Ero un ragazzino confuso. Tutti erano abbagliati da lui: i miei genitori, gli insegnanti, gli amici.
Nessuno mi protesse. E l’unico a trarne piacere era lui».
Com’è possibile: una relazione durata quasi 20 anni…
«So che è difficile capirlo: la sua amicizia mi lusingava, lo consideravo il mio mentore. Gli raccontavo tutto. Quando a 18 anni gli dissi che avevo perso la verginità con una ragazza mi convinse a lasciarla. “So cosa è bene per te”.
Avevo un qualche sentimento per lui. Ma cominciai a bere prima dei nostri incontri. Dopo ho capito: mi aveva reso dipendente».
Da cosa?
«La psicanalisi lo chiama “Betrayal Bond”: una forma di legame malato basato su promesse mancate.
Andava sempre allo stesso modo.
Molestie, rabbia, promesse.
Qualcosa mantenne: scrisse le lettere per l’ammissione al college.
Mi diede del denaro. Non più di 50 mila dollari in 20 anni».
Come ne venne fuori?
«Capii che ero per lui solo un oggetto sessuale. Ma se cercavo di allontanarmi mi sentivo in colpa. Mi ha aiutato uno psicologo buddista, facendomi capire che ero una vittima».
Ne parlò con Levine?
«Sì. Disse mi dispiace, ma poi ci provò ancora. Capii che non dovevo più vederlo, era il 2006».
Lo ha denunciato solo nel 2016: dieci anni dopo.
«Avevo tentato di parlare con la stampa: al New Yorker mi trattarono da millantatore. Mi rivolsi al Cd’a del Met. Dissero che se le cose stavano come dicevo dovevo andare alla polizia».
Cosa accadde?
«Indagarono: ma nel 1986 in Illinois l’età minima per un rapporto consensuale era 16 anni. Ora la legge è cambiata ma allora Levine non era perseguibile».
Sapeva di altre vittime?
«Lo capii una volta, dopo una strana telefonata. Ma fino all’articolo del
New York Times credetti di essere l’unico».
Per un uomo è più difficile denunciare?
«Solo dopo Weinstein l’atmosfera è cambiata. Ho scoperto che le voci sui comportamenti di Levine risalgono alla fine degli anni 60, ma il suo status lo ha sempre protetto».
I suoi genitori come hanno reagito alla sua denuncia?
«Mio padre è morto senza sapere.
Mia madre ha molti rimorsi».
Cosa direbbe ai ragazzi che hanno vissuto storie simili?
«Che conosco la loro furiosa vergogna. E che non sono più soli».
Levine è stato licenziato. Era quello che voleva?
«Sono una persona spezzata che cerca di curarsi. Ma Levine rifiuta di vedere che mostro è stato, al punto da chiedere milioni di danni. Si nasconde dietro l’idea del nostro consenso, anche se io e gli altri eravamo solo ragazzini. Dovrebbe affrontarci: e farsi curare lui».

Corsera 31.3.18
Diliberto, da comunista viaggio in seconda classe
Insegno ai cinesi a scrivere il codice col diritto romano
di Stefano Lorenzetto

qui

Corriere 31.3.18
Prima Repubblica 

A quarant’anni dal sequestro del leader democristiano
Inutile rimpiangere il disegno di Moro Non aveva un futuro
Si affidava ai partiti che però erano in declino
di Ernesto Galli della Loggia


Sul mare di libri usciti per l’anniversario dell’assassinio di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta — che hanno diritto anch’essi a essere ricordati per nome: erano il maresciallo maggiore Oreste Leonardi e l’appuntato Domenico Ricci, entrambi dei Carabinieri, e poi il vicebrigadiere Francesco Zizzi e le guardie Giuliano Rivera e Raffaele Iozzino, della Polizia di Stato — aleggia da allora un interrogativo: che cosa sarebbe successo se il presidente della Dc non fosse stato rapito? E dalla risposta che si dà dipende quasi sempre non solo l’interpretazione dei veri motivi del delitto, ma addirittura del perché esso poté essere commesso senza che nulla riuscisse a impedirlo.
È questo per l’appunto l’interrogativo che più o meno esplicitamente percorre anche il libro di Marco Damilano Un atomo di verità (Feltrinelli): ma in questo caso con una finezza culturale e una cautela intellettuale che ne fanno, nel genere, un testo esemplare. Del quale su queste colonne ha già parlato Aldo Cazzullo, ma sulle cui pagine, proprio per la loro esemplarità, vorrei tornare per discutere di quello che è il vero centro del libro: e cioè la storia della nostra Repubblica. Non senza prima aver detto anche io, però, ripetendo quanto detto da Cazzullo, che si tratta di un libro anche letterariamente molto bello. Profondo e a tratti commovente nel suo carattere singolare che combina la rievocazione storica con una sorta di pellegrinaggio politico-sentimentale attraverso luoghi e memorie della Repubblica. Compiuto da chi quel giorno era ancora un bambino e sullo sfondo di quegli eventi ora ricorda pure se stesso, la sua infanzia e la sua gioventù, con un atto di devozione appena celata, mi pare d’indovinare, anche alla propria non dimenticata educazione cattolica.
Il filo storico che il libro svolge è l’idea che, sì, Aldo Moro fu rapito e ucciso dalle Brigate rosse, ma in realtà fu vittima di ben altro. Prendendo sorprendentemente a prestito un’affermazione di Mino Pecorelli — l’ambigua figura di giornalista implicato in affari oscuri e collegato ai servizi segreti, finito assassinato pure lui — Damilano infatti scrive: «È Yalta che ha deciso via Fani». Moro cioè sarebbe stato vittima dell’ostilità suscitata in chi, specie a livello internazionale, considerava inaccettabile la sua repentina svolta a sinistra dopo la débâcle elettorale subita nel 1968 dal governo che egli aveva presieduto nei cinque anni precedenti. Proprio il crescente terremoto sociale iniziato quell’anno sembrò averlo convinto, infatti, che solo un progressivo ingresso del Pci nell’area delle decisioni e alla fine del governo, solo l’allargamento del consenso così ottenuto, sarebbe stato in grado di assicurare al Paese la crescita economica, lo sviluppo sociale e la necessaria maturazione democratica che di per sé il partito cattolico non era più in grado di assicurare. Solo così avrebbe potuto essere posto rimedio all’intima «fragilità» e all’esasperata «passionalità» che secondo Moro minacciavano da sempre la struttura del Paese Italia. Come solo così — pensa oggi anche Damilano —, solo se Moro non fosse stato eliminato e si fosse adottato il suo disegno, la Prima Repubblica avrebbe potuto forse rigenerarsi e non sarebbe morta.
Ma per l’appunto sarebbe stato proprio un tale progetto a procurare all’uomo politico pugliese l’ostilità assoluta non solo della destra interna e internazionale — in particolare degli Stati Uniti — ma pure della stessa Unione Sovietica, desiderosa che i comunisti restassero per sempre comunisti e per sempre aggiogati al suo carro. Una duplice ostilità che di fatto segnò la sorte del leader democristiano.
Poco importa che non ci sia alcuna prova che «Yalta» (cioè gli Usa) abbia «deciso via Fani»: poco importa che l’autore stesso riconosca esplicitamente che «il rapimento e l’omicidio di Moro sono maturati nell’ambiente della sinistra estrema»; poco importa che l’ipotesi avanzata da Damilano e mille volte da mille altri — secondo la quale proprio la cabina di comando «operativa» istituita presso il ministero degli Interni per trovare Moro, essendo costituita da un emissario del governo americano e dai capi dei servizi tutti iscritti alla P2, avrebbe deciso di «bloccare tutte le indagini per salvare il prigioniero» —, poco importa, dicevo, che una tale ipotesi e in generale tutte le altre circa una qualche tenebrosa regia occulta siano state smontate in modo a mio avviso del tutto convincente. Poco importa: perché nulla conta di fronte al convincimento diffuso, e destinato ogni volta a prevalere, che i grandi eventi debbano per forza avere grandi cause, dando per scontato che tra queste non possano ovviamente esserci, come invece ahimè spessissimo ci sono, la stupidità e la malvagità degli esseri umani.
Ma Damilano non può condividere una conclusione così desolantemente banale, tra l’altro suggestionato come egli è (anche letterariamente: e con effetti su questo piano non di rado convincenti) dalle «enigmatiche e tragiche correlazioni» leggibili nelle vicende della Prima Repubblica. Alcune delle quali effettivamente colpiscono e inducono a riflettere — penso a quella tra le Br e la P2, o a quella tra il discorso di Moro in difesa di Gui («non ci faremo processare sulle piazze») e quello dell’ultimo Craxi sul finanziamento dei partiti di fronte a un Parlamento ammutolito. A differenza di altre, invece, che mi appaiono alquanto forzate: penso ad esempio all’analogia che il libro in qualche modo istituisce tra l’uccisione brutale di Moro e la morte di Pier Paolo Pasolini: autore, guarda caso (qui sta il motivo dell’analogia) del celebre «Io so» riferito a quei presunti «misteri» italiani di cui pure Moro sarebbe stato vittima, ma di cui in realtà nulla lo scrittore sapeva, essendo quel suo articolo, al di là dell’alta maestria retorica con cui era costruito, niente di più che un fazioso e furioso atto d’accusa contro la Democrazia cristiana.
La verità è che dietro questo libro, dietro l’idea (espressa in queste pagine nel modo più sapiente perché più sfumato, ma non certo a scapito della chiarezza) che l’eliminazione di Moro sia stata voluta da chi intendeva contrastare il suo disegno, dietro l’idea che tale disegno, se attuato, avrebbe cambiato il destino della Repubblica, c’è, io credo, un errato giudizio storico circa la crisi italiana, unito a un’indebita sopravvalutazione del potere della politica. Un errato giudizio e una sopravvalutazione che peraltro appaiono singolarmente analoghi a quelli che dopo il 1968 condussero lo stesso Moro a prendere le posizioni che prese.
Dopo i movimenti sociali di quell’anno Moro si convinse che il multiforme travaglio che la società italiana aveva cominciato ad attraversare e che sarebbe andato via via accentuandosi, mettendone progressivamente in luce la «fragilità» e la «passionalità», poteva essere affrontato positivamente solo realizzando aggregazioni politiche nuove, evitando contrapposizioni ormai secondo lui sempre meno giustificate, insomma accrescendo la «coesione» del sistema. E che appunto a questo fine fosse necessario istituire un rapporto con i comunisti di tipo non più antagonistico (in forme e gradi ogni volta da definire), il quale richiedeva di essere governato da quella pratica in cui egli eccelleva come nessun altro: la mediazione. In ciò egli era veramente un figlio della Repubblica del Cln, della Repubblica dei partiti. Pensava infatti che la ricomposizione di una società non potesse che iniziare dai partiti e prendere necessariamente la forma del compromesso. Ma se la via politica era l’unica possibile, essa però comportava un prezzo non indifferente: «Implicava inevitabilmente la necessità di subordinare ogni iniziativa, ogni decisione ed ogni concreto operare a logiche di partito che ben poco avevano a che fare con i problemi nuovi del Paese».
Sono parole non mie, come si capisce, bensì scritte molto tempo fa a proposito dell’azione di Moro da Pietro Scoppola (uno storico che Damilano conosce bene, essendone stato allievo): parole che hanno la portata di un lucido giudizio complessivo. Il quale ci aiuta a capire come ciò che rendeva radicalmente inadeguato il disegno di Moro fosse il fatto che le lacerazioni prodotte dalla modernità nel corpo della società italiana andavano mettendo in crisi proprio i partiti, lo strumento partito, la sua cultura, la sua struttura e il suo rapporto con i cittadini. Cittadini sempre meno caratterizzabili come militanti, sempre meno raccolti intorno alle grandi dimensioni fordiste del lavoro, della fabbrica, dei sindacati, sempre meno definiti da un’appartenenza collettiva, e viceversa sempre più orientati a riconoscersi unicamente nella propria individualità, sempre più elettorato frammentato e indistinto, sempre più consumatori e «pubblico». Senza contare un altro elemento importante, e cioè che i problemi nuovi che emergevano nell’Italia nuova allora in formazione richiedevano innanzi tutto di fare cose nuove. Richiedevano specialmente, cioè, di cambiare il governo e i suoi modi, di cambiare le istituzioni adottando, piuttosto che l’arte della mediazione e la tecnica del compromesso, la volontà della decisione. Il che però richiedeva ancora una volta di cambiare preliminarmente i partiti, di cambiare il loro sistema quale si era venuto storicamente definendo in Italia, e non già di irrigidirli e compattarli in una forte collaborazione/compenetrazione: come sarebbe inevitabilmente accaduto — perlomeno per un tempo mediamente lungo — nel caso di una qualunque «unità nazionale», «solidarietà democratica» o «larghe intese» che dir si voglia.
Il vasto dissenso riscosso dappertutto dalla prospettiva del «compromesso storico» e poi la crescente ondata avversa alla «partitocrazia» e al «sistema», che insieme caratterizzarono l’orientamento della società italiana negli ultimi anni Settanta e nel decennio successivo sono la migliore prova, a mio avviso, della inanità del disegno di Moro. Della sua profonda inattualità rispetto ai movimenti profondi della società italiana. Il cui anelito al rinnovamento istituzionale, i cui animal spirits intrisi d’individualismo, erano assai meglio interpretati, invece, da quello che può essere considerato il vero progetto alternativo al suo: il progetto che per una breve stagione sembrò rappresentato da Craxi. Progetto che tra l’altro era per più versi in sintonia — a me pare, contrariamente a ciò che pensa Damilano — con le proposte che avrebbe avanzato Cossiga verso la fine del suo mandato.
Si trattò comunque di progetti destinati, sia pure per ragioni diversissime, al nulla. Non da oggi sappiamo che il loro fallimento segnò la fine di quella Repubblica che pure aveva dato agli italiani gli anni forse migliori della loro vita.