sabato 13 aprile 2013

l’Unità 13.4.13
Bersani apre il confronto nel Pd sul voto per il Colle
Il leader democratico incontra D’Alema e Bindi per discutere le prossime mosse
L’ex premier: «Nessuna scissione»
La presidente: «Non si può fare un governo appeso al Pdl»
di Maria Zegarelli


ROMA È la stretta finale e come andrà lo si comincerà a capire oggi, dopo gli appuntamenti pubblici del Pd a Roma, con Pier Luigi Bersani a Corviale, ma soprattutto del Pdl con Silvio Berlusconi a Bari. L’incontro B&B ha davvero aperto spiragli per un presidente della Repubblica eletto con un’ampia maggioranza? «Se entro martedì non si arriva alla quadratura del cerchio allora salta tutto», raccontano dal Nazareno.
Pier Luigi Bersani, in vista del secondo giro di incontri con le forze parlamentari (con M5S siamo ancora al primo, forse lunedì) vede al Nazareno i big del partito e fa il punto della situazione sulle consultazioni avvenute con Silvio Berlusconi, Roberto Maroni, e Pier Ferdinando Casini (incontrato ieri mattina, «molto positivo» l’esito, così viene descritto), e in vista di quella con il M5S. Al Nazareno arrivano Walter Veltroni (giovedì sera), Massimo D’Alema e Rosy Bindi ieri mattina (con Dario Franceschini e Enrico Letta i contatti sono costanti), per un confronto schietto in vista delle prossime mosse. Il segretario sa che il suo partito è tormentato, che il congresso sembra ormai lanciato, che Matteo Renzi chiede un governo o il voto immediato. Se il Pd si spaccasse sul Colle sarebbe una vera Caporetto.
Bersani a cui non sono state risparmiate le critiche di aver condiviso le sue decisioni solo con il «tortello magico», come polemicamente qualcuno definisce il gruppo ristrettissimo di consiglieri del segretario dunque, apre il confronto interno in vista della stretta finale sul Quirinale e cerca di capire se può ancora contare sui big del partito. «Abbiamo fatto il punto della situazione: dobbiamo cercare di stringere nei prossimi giorni e dobbiamo cercare di allargare queste consultazioni che non sono solo un dialogo tra noi e il Pdl», racconta D’Alema lasciando il Nazareno. C’è una grande preoccupazione per la situazione del Paese, spiega, e la consapevolezza della necessità di un governo al più presto. D’Alema resta convinto che l’ipotesi di un governo di minoranza sia difficile da realizzare e vede il rischio di precipitare verso un governo del Presidente, che a quel punto avrebbe poche cose da fare prima di accompagnare il Paese a nuove elezioni. Il presidente del Copasir allontana anche il fantasma della scissione «non esiste il problema» e Dario Franceschini quando l’ha evocata, «è stato malinteso». Sul suo lungo incontro con Renzi (che ha suscitato parecchi malumori tra gli ex popolari, la diffidenza dei quali verso il sindaco di Firenze è molto cresciuta dopo le sue dichiarazioni contro l’elezione di Franco Marini al Colle) non si sofferma molto, tutto è stato già scritto, quindi chiosa, «una chiacchierata simpatica», di cui ha riferito a Bersani. Cerca di sminuire sulla tensione interna. Se volano stracci? «Non ho visto stracci onestamente, c'è una discussione politica e mi pare che rispetto alla complessità della situazione sia civile, estremamente corretta e rispettosa, per lo meno da parte mia».
E non è difficile immaginare cosa abbia detto Veltroni: complicata la via verso un governo di minoranza. Idem Rosy Bindi, «non possiamo dare vita ad un governo appeso ai voti del Pdl o con il Pdl». Su questa linea, secondo la presidente Pd, non si può arretrare. «Pier Luigi è stato poi il seguito del ragionamento, il mio sostegno non è mai venuto meno e neanche la mia lealtà, per questo non possiamo nasconderci i problemi che abbiamo nel partito». Cioè le geografie che si montano e smontano, il rischio che l’asse viri tutto a sinistra (i giovani turchi che lavorano all’allargamento a Sel, Fabrizio Barca che presenta il suo manifesto). Movimenti che non piacciono per niente a bindiani ed ex popolari tutti, compreso Beppe Fioroni. «Non è quello il partito a cui abbiamo lavorato, può essere una scelta quello di farne un partito socialdemocratico ma di sicuro non è la mia scelta», commenta l’ex ministro.
Su una cosa tutti i dirigenti sembrano d’accordo con il segretario: si deve arrivare all’elezione del Capo dello Stato con una larga convergenza. L’incontro con Casini è andato bene, il rapporto tra i due leader è consolidato, ma Bersani sa che dentro Lista civica i montezemoliani hanno forti tentazioni a destra e se per il Colle sa che l’intesa è possibile, sul governo è tutto molto più complicato. E tutto sommato positivo è stato anche l’incontro più complicato, quello con Berlusconi.
«Il Pdl non sembra stia bleffando, i tentativi di far saltare l’intesa per il Colle li sta facendo chi vuole andare al voto subito», racconta un parlamentare democratico. «In queste ore continua c’è chi sta lavorando ad affossare qualunque ipotesi e noi dobbiamo evitare che questo accada». Ovvio il riferimento al sindaco fiorentino. Resta da capire quali sponde troverà. E se in pubblico Berlusconi continua a dire che se non si farà un governo con il Pdl allora meglio le urne, in privato sfuma i toni. Su un governo di centrosinistra con ministri palesemente non sgraditi al centrodestra, flessibile a futuri ampliamenti oltre i confini del centrosinistra si potrebbe ragionare.
Tutto piuttosto confuso, ancora. Di certo ci sono solo i requisiti su cui tutti concordano per l’inquilino del Colle allo stato c’è solo un nome che sembra incarnarli tutti, a partire dalla larga condivisione: Giorgio Napolitano. Ma malgrado le pressioni che anche in queste ore arrivano, «il Presidente è irremovibile».

l’Unità 13.4.13
Renzi-Barca, competizione al congresso. O forse no
Il sindaco si candiderà alla guida del Pd se questo ruolo tornerà a coincidere con la guida del governo
Il ministro vuole invece una guida del partito distinta dall’esecutivo
di Vladimiro Frulletti


Chissà, forse s’è trattato solo di una coincidenza, tuttavia proprio quando Fabrizio Barca rende noto il suo manifesto per il nuovo partito (iniziativa che dal Nazareno fanno sapere di aver apprezzato molto) e prende contemporaneamente la tessera del Pd, Renzi (che nella email personale ha già le 55 cartelle scritte da Barca) per la prima volta ammette che sì, forse potrebbe anche correre al prossimo congresso per la segreteria dei democratici. Succede, giovedì sera, poco prima che partano i titoli di coda di Porta a Porta quando il sindaco annuncia la propria disponibilità («non me la sento di dire dei niet») alla corsa interna per la leadership del Pd. Un’ipotesi che in passato era stata sempre messa in secondo piano. «Chi è Obama lo sanno tutti, ma chi è che conosce il nome del segretario del partito democratico Usa», la sua battuta più ricorrente per dire che fare il segretario di partito non apparteneva alle sue corde. «Il punto vero è il suo ragionamento dell’altra sera è che succede. Se si va a votare tra un anno e la gara per la segreteria è la gara per chi fa il candidato leader. O magari, come qualcuno dice, si cambia lo statuto e si fanno il candidato leader e il candidato premier».
Ecco, Renzi sarebbe in campo, ma solo nel caso in cui la figura del segretario e quella del candidato premier coincidano. Questo del resto prevede lo statuto del Pd. È quello che era accaduto con Veltroni e poi con Bersani. Norma poi temporaneamente sospesa su richiesta di Bersani proprio per consentire a Renzi di contendergli via primarie la candidatura alla premiership del centrosinistra. Il Pd nella sua struttura del resto è stato concepito come partito a «vocazione maggioritaria», cioè partito se non unico, almeno centrale di tutto il centrosinistra e quindi il cui leader, che è scelto da primarie aperte a tutti gli elettori e non solo agli iscritti, è anche naturalmente il candidato premier. Il che coincide anche con la sua idea che in Italia servano due soli grandi partiti e che i cittadini siano chiamati a scegliere o di qua o di là, o sinistra o destra. È questa insomma la chiave che potrebbe far vincere la naturale ritrosia di Renzi a occuparsi delle “cose” interne del Pd e in qualche modo “costringerlo” a giocare una partita in un campo che non sente come suo.
Ma è anche questo il punto in cui si registra la maggiore distanza dal modello di partito che ha in testa Barca. Al di là di alcuni termini poco noti («Grazie a @fabriziobarca ho scoperto l’esistenza del termine “catoblepismo”. E sono appena a pagina 2» twitta Matteo Orfini), il ministro del governo Monti disegna un partito di «sinistra» senza altri aggettivi attorno. «Ho cambiato opinione sul Pd, credevo spiega a Youdem che l’Italia per le sue caratteristiche avesse bisogno di un partito socialdemocratico che si alleasse con una componente cristiano sociale. Oggi quel melting pot è avvenuto, oggi vedo posizioni di sinistra, di un partito di sinistra». Insomma il Pd con Barca non andrebbe a sinistra perché «a sinistra c’è già» e perché non servono spostamenti al centro dato che «la gente ha bisogno di forti coinvolgimenti». Tanto che Barca si augura una convergnza fra Pd e Sel. L’obiettivo è un partito nuovo ma strutturato, «non liquido» ma «saldamente radicato nel territorio», slegato dal finanziamento pubblico, sostenuto principalmente dagli iscritti e quindi libero dal legame con lo Stato. Concretamente vuol dire che il partito non solo deve fare a meno dei soldi pubblici, ma anche evitare di concepire la propria funzione solo in chiave elettorale. Una struttura che non si mette in moto solo alla vigilia del voto per selezionare candidati, ma una «palestra» aperta anche fra un’elezione e l’altra. Così non stupisce la critica al bipolarismo e l’idea che l’alternanza in sé possa «curare i partiti». Invece si sono visti i «leader-clan» e una democrazia interna svuotata da «pletoriche assemblee» (la cui origine va ricercata nella elefantiaca assemblea, di «nani e ballerine» denunciava Nino Formica, del Psi craxiano) e dal moltiplicarsi di incarichi che hanno prodotto poi il «partito debole». Né possono esserne rimedio «le primarie del popolo» che invece «tendono a dare legittimità al “cesarismo”, appagando a poco prezzo la domanda di democrazia dei cittadini, e accentuano il tratto personalistico dei partiti».
È ovvio che non è questo un partito che Renzi sentirebbe come suo. Salvatore Vassallo (uno dei padri dello statuto del Pd) ad esempio dice che si tratta di «una cosa che col Pd non c’entra nulla» facendo notare come Barca ricostruisca «il confine fra chi è dentro e chi è fuori dal partito», mentre abbattere quello steccato era una delle ragioni costitutive del Pd. Ma non è detto che il progetto Barca sia indigeribile per Renzi. Soprattutto perché nella netta distinzione che Barca fa fra «leader del partito e candidato premier» ci potrebbe essere quella divisione dei compiti (anche se lui al momento smentisce di puntare alla guida del Pd) che consenta al sindaco di Firenze di arrivare alla premiership senza dover passare dall’esame interno al partito. «Io contro Renzi? Non è così, anche se a qualcuno farebbe comodo fosse così», sottolinea il diretto interessato.

La Stampa 13.4.13
Il caso Barca scuote i democratici
Ma nel team di Bersani giurano: “Non c’è il segretario dietro di lui”. Critici renziani ed ex popolari
di Carlo Bertini


«Il mio documento l’ho mandato a Bersani, Vendola e Renzi. Mi auguro che non prevalgano i personalismi che inquinano. Mi auguro invece che su questo testo si apra un confronto sulle idee e non sulle persone. Iscriversi a un partito e candidarsi, il giorno dopo, a segretario sarebbe grottesco e sarebbe il modo di uccidere quello che ho scritto nel documento».

«Ha colto bene il fatto che non si governa senza partiti forti ed è una visione che condivido profondamente». Parola di Massimo D’Alema. Ha un bel dire Fabrizio Barca, dopo aver lanciato la sua proposta per rilanciare il Pd, di non ambire affatto a scalarne il vertice, «perché iscriversi a un partito e candidarsi il giorno dopo a segretario sarebbe grottesco. E sarebbe il modo di uccidere quello che ho scritto nel documento». Considerazione presa per buona da molti dirigenti del suo partito, ma foriera di interrogativi in chi invece si chiede che sbocchi avrà un’operazione così ambiziosa nelle premesse.
A smentire che Barca possa essere «l’anti-Renzi» alle primarie su input diretto di Bersani sono gli stessi uomini del leader Pd: «Non c’è un’operazione con noi registi dietro le quinte per lanciarlo come candidato contro Renzi. Insomma non c’è il segretario dietro di lui, è un errore crederlo. Barca dimostra la vitalità del Pd e siamo contenti di questo. Punto». Così come i «giovani turchi» di Orfini negano che il neo-iscritto al Pd possa essere considerato automaticamente il loro candidato alla guida del partito. Mentre gli ex Ppi come Fioroni, lo giudicano «una risorsa per il Pd con un progetto interessante, a condizione che sia lui, sia Renzi, si rendano conto che un partito che è di centrosinistra grazie alla presenza del cattolicesimo democratico, non può diventare un organismo geneticamente modificato». Tradotto, chi pensa ad uno schema con Renzi candidato premier e il Pd in mano a Barca, sa che i cattolici si metteranno di traverso.
Ma in una fase di massima incertezza in cui lo sguardo è rivolto anche ad un possibile voto a breve e molti scommettono su una sfida alle primarie tra Barca e Renzi, è chiaro che questa etichetta dello sfidante del «rottamatore» sarà difficile da rimuovere. «Non ho capito in che modo entri nella partita, ma lo capiremo meglio nei prossimi giorni», si chiede il renziano Rughetti. «Io contro Renzi? Non è così anche se a qualcuno farebbe comodo. Il mio documento l’ho mandato a Bersani, a Vendola e anche a Renzi con una mail. Levando dal tavolo i personalismi che in questa fase inquinano tantissimo l’Italia e anche altri paesi, mi auguro che si apra un confronto sulle idee e non sulle persone», dice l’interessato.
I capitoli sulla forma partito elaborati dall’ex ministro sono piaciuti molto ai bersaniani. Il «turco» Orfini apprezza il documento, ma al quesito clou se possa essere candidato per la leadership, risponde che «sarebbe un “papa straniero” uno che si iscrive due mesi prima del congresso mirando a diventare segretario. La sua serietà non può prevedere uno sbocco del genere». E a chi evoca scenari di scissione, con l’ala sinistra pronta a dar vita ad una nuova formazione di stampo socialdemocratico, Orfini replica che «noi e Renzi, che siamo i poli opposti, non ce ne andremo, il tentativo casomai è quello di fare un partito un po’ più grande e attrattivo. E l’arrivo di personalità come Barca e Rossi Doria è un segnale importante». Nel merito, l’unica critica che Orfini sente di muovere è che «la riflessione sulla forma partito sconta un po’ il distacco da quello che oggi è già il Pd. E forse avrei declinato di più il tema di come si ricostruisce un radicamento in quei ceti sociali in cui il Pd non esiste più».
I più critici, va da sè, sono i renziani. Paolo Gentiloni lo definisce «un contributo interessante e la sintesi semplificata che lui voglia fare un nuovo partito insieme a Sel gli fa torto, è riduttiva di un lavoro che alza il livello del dibattito». Ma quel che non piace «è la negazione stessa del partito democratico: perché dipinge con riferimenti internazionali la prospettiva di modernizzazione di un partito post-comunista della sinistra italiana». Insomma, per Gentiloni, «il Pd era nato con un’altra missione e con una ragione sociale era ben diversa» e la tesi di Barca «è legittima, ma bisognerebbe dichiarare prima il fallimento di un partito all’americana e plurale dicendo che conviene tornare nel solco di una sinistra post-comunista».

Corriere 13.4.13
Barca sposta l'asse a sinistra. Per Bersani si apre un altro caso
Il manifesto del ministro. Fioroni: no a mutazioni genetiche
di Monica Guerzoni


ROMA — «Gli schiaffoni sono dietro l'angolo. Passati applausi e schiaffoni si comincerà a ragionare, forse». Alle sei della sera Fabrizio Barca, 59 anni, affida a Twitter un primo bilancio della sua discesa in campo: gli elogi incassati e le sberle che arriveranno. Il documento con cui il ministro sogna di rivoluzionare il Pd e farne una forza di sinistra, senza il centro e senza complessi, è piombato su un partito in crisi di nervi, scosso da venti scissionisti e incapace di trovare la quadra sul Quirinale.
I cattolici sono in allarme, Beppe Fioroni ritiene «Barca e Renzi una risorsa», ma si prepara alle barricate: «Ci opporremo alla mutazione genetica del Pd in un soggetto di sinistra, conteso tra socialdemocratici e liberal, in cui la cultura cattolico democratica verrebbe rimossa». Affrontare l'elezione del capo dello Stato con il Pd ridotto a un «Vietnam» è un rischio che Bersani non può permettersi, anche per questo ha chiamato al Nazareno, uno dopo l'altro, Veltroni, Bindi e D'Alema. E a ciascuno di loro, in incontri separati, ha ribadito il «niet» a un governo di larghe intese.
E proprio nel giorno in cui l'aspirante premier prova a serrare i ranghi di un partito che si affanna in ordine sparso, ecco che Barca ufficializza il suo manifesto: «Ci ho pensato mesi, non sono un centometrista». Bersani gli aveva offerto il Campidoglio, lui ci ha pensato su ma si è convinto di «non essere la persona adatta». E adesso, quando tutti lo danno già in corsa per la leadership contro Renzi, il ministro prende tempo: «Iscriversi a un partito e candidarsi il giorno dopo a segretario sarebbe grottesco», dice a Youdem. E ancora: «Sono un semplice iscritto del circolo di via dei Giubbonari e l'itinerario che ho intrapreso non è breve, non è per il dopodomani». Nel Pd pensano che sia per l'oggi e ritengono che il congresso sia virtualmente iniziato. Michele Emiliano è «pronto al ticket con Renzi» e Barca smentisce di essersi schierato contro il sindaco: «Non è così, anche se a qualcuno farebbe comodo». L'irruzione sulla scena del figlio di Luciano Barca, partigiano e parlamentare del Pci morto lo scorso autunno, è accolta senza slanci dall'entourage di Bersani. Il problema non è tanto il merito, quanto la tempistica. «Il segretario lo stima, la sua posizione non aiuta e non dà fastidio», è l'aria che tira al Nazareno.
D'Alema ammette che il momento è difficile e riconosce a Barca «passione politica» e «tantissime qualità». Tra le correnti è sfida aperta, sforzi e polemiche sono concentrati sul voto per il Quirinale eppure tutti guardano già al dopo Bersani. E di certo al segretario non è sfuggito quel passaggio della memoria politica (che Barca ha mandato a lui, Renzi e Vendola), in cui il ministro critica con forza l'istituto fondante del Pd. «Le primarie del popolo tendono a dare legittimità al cesarismo» avverte Barca, che guarda con preoccupazione ai «controllori di tessere» e però ha in testa l'esatto contrario del partito liquido teorizzato da Veltroni e poi da Renzi. Un Pd che si apra alla fusione con Vendola, si ispiri all'austerità predicata da Enrico Berlinguer e riscopra le scuole di formazione per i suoi quadri. Un «partito palestra» saldamente radicato nel territorio, animato (e finanziato) dai militanti e dai volontari, «robusto» e «rigorosamente separato dallo Stato». Il metodo è lo «sperimentalismo democratico», la filosofia è la «mobilitazione cognitiva» e il contributo di Barca, denso quanto complesso, oltre a molti incoraggiamenti scatena le ironie del web. Cosa sarà mai il «catoblepismo»? Su Twitter il termine usato da Barca va fortissimo e il ministro, che vuole liberare la politica dal «mito della democrazia istantanea» ma non teme il confronto sulla Rete, risponde a chi ne critica il linguaggio: «Il Paese è cresciuto, la casalinga di Voghera magari è più intelligente di noi». Barca non ha incontrato Bersani, però ha già visto i metalmeccanici, i pensionati, la Cgil. «Mi è ben chiaro che la mia è un'ipotesi ambiziosa — riconosce —. Però è un disegno possibile, senza cui non può esservi una svolta nel governo del Paese». La «doccia fredda» per rinnovare la politica è una sfida allo Stato, oltre che alla dirigenza del Pd: «Mi piacerebbe che attraverso il confronto sulle idee emergesse una squadra».
Ma il ministro, convinto che le «soluzioni tecnocratiche» non salveranno il Paese, sa bene che si farà «molti nemici»...

Corriere 13.4.13
L'attacco al «catoblepismo» scalderà i militanti?
Dal comizio alla severa lezione accademica
Barca contesta «l'élite estrattiva» e auspica lo «sperimentalismo democratico»
di Pierluigi Battista


Quelli che conoscono la materia dell'economia e della finanza dicono che sì, il «catoblepismo» evocato da Fabrizio Barca nel suo manifesto di insediamento per la leadership del Pd indica un problema sentito nella comunità scientifica. Ora si tratta di scaldare anche i cuori democratici nella tempesta post elettorale. Ma intanto Barca ha sfoderato tutte le arti del suo lessico didattico. Ascoltandolo non sembra di stare a un comizio di partito, ma a una severa lezione accademica. O forse no, il parlar difficile in politica non è sempre il tratto distintivo degli intellettuali che amano il linguaggio gelido e astruso della cattedra. Massimo Cacciari, per dire, è capace di separare di netto i due ambiti disciplinari. Quando parla e scrive di filosofia non si risparmia vertiginose allusioni al gergo contorto del profondismo metafisico (sempre con il trattino: l'«Ur-pflanze goethiana»; «la vita-per-la-morte di Heidegger»), ma quando entra nell'agone politico è di una chiarezza cristallina, una perfetta incarnazione del polemista senza diplomazie lessicali. Oppure, al contrario, il parlar difficile di Nichi Vendola è un'ipnosi della «narrazione» che si tiene rigorosamente su un piano di incomprensibilità («a Nichi, ma che stai a dì», come recita l'irriverente titolo di una rubrica ad hoc del Foglio) ma malgrado tutto trascina nell'avventura, allarga gli orizzonti, ti scaraventa in un nebbioso futuro. Il «manifesto» con cui si è presentato Barca, e che ieri ha scatenato il solito iconoclastico cinguettio nel fatato mondo di Twitter , è invece sia l'espressione di un tecnico a lungo immerso, e con brillanti successi, nella scienza dell'economia, sia l'espressione di un'antica passione ideologica che mette in stretta sintonia il Barca fervente militante giovanile del Pci e il Barca ministro del governo Monti per la «coesione territoriale».
Una creatura linguistica molto complessa in cui il «catoblepismo» è solo una parte, e forse nemmeno la più impervia. Nella «forma partito» e nel «partito palestra» resuscitate da Fabrizio Barca si sente di più il lascito delle militanze di un tempo, in cui un certo dottrinarismo si accoppia a una notevole passione per la teoria pura. L'«élite estrattiva», ecco, questa è effettivamente di più faticosa decodificazione. L'«Addendum» finale, invece, non è il solito latinorum di memoria manzoniana, ma è un cedimento alle abitudini del saggio accademico (sarebbe una postilla. O un post scriptum, però più elaborato). Il «telaio sociale» è espressione mutuata da una certa fantasia sociologica, che forse può risultare di difficile comprensione per l'eventuale giovane del Pd che volesse aggiornarsi sul programma del nuovo leader, ma che pure contiene una sua potenza vendolianamente narrativa. Importante, perché ripetutamente citato nel «manifesto», l'indicazione di Barca dello «sperimentalismo democratico», che dovrebbe essere una terza possibilità (una «terza via», per restare nell'ideologismo più consueto) tra due modelli di partito ambedue insoddisfacenti. Poi c'è la «procedura deliberativa», che il militante del Pd deve saper riconoscere come la forma democratica del partito, ma anche, sembra di capire, del tipo di Stato che rifiuta di essere ridotto ai compiti assegnatigli dall'ideologia «minimalista» frequentemente attaccata da Barca in luogo di «liberista» o addirittura «liberale».
Un certo scalpore l'aveva fatto già nei giorni scorsi l'obiettivo che Fabrizio Barca aveva indicato come compito del Pd in cui si accingerebbe, sia pur da poco tesserato, a competere con Matteo Renzi per la leadership: quello della «mobilitazione cognitiva». Un certo scalpore e anche una certa costernazione per chi voleva fossero indicati obiettivi più chiari e comunque espressi con parole di immediata comprensione. Ma adesso si aggiungono anche un problematico «monitoraggio in itinere» e anche una molto impegnativa «disintermediazione». Parole difficili che però, a meno che non si voglia scadere nel più vieto anti intellettualismo, possono anche rappresentare nuove mete per un partito frastornato e ancora scosso dal non smagliante risultato elettorale. E che ha bisogno di una forte mobilitazione. Morale, ma anche cognitiva.
p.s. Catoblepismo — da catoblepa, secondo la Treccani leggendario quadrupede africano, con il capo pesante sempre abbassato verso terra — dovrebbe significare la perversa alleanza tra banche e affari denunciata da Raffaele Mattioli.

il Fatto 13.4.13
Barca, evviva il catoblepismo e la libertà
di Giorgio Meletti


Pier Luigi Bersani è figlio di una stazione di servizio di Bettola. Fabrizio Barca è figlio del prezioso “Dizionario di politica economica” degli Editori Riuniti, con cui suo padre Luciano negli anni dell’avanzata berlingueriana spezzò per il popolo comunista il pane della scienza economica. Dettagli che pesano e che spiegano la distanza siderale tra il finto ingenuo e rurale bersanese, che per esprimere il disorientamento dice “andar per frumentoni”, e il professorale barchese, che oppone allo spaesamento della sinistra “l’interferenza cognitiva”.
GIOVEDÌ POMERIGGIO il 59enne Barca, intellettuale vero ma simpatico, si è iscritto al circolo Pd romano di via dei Giubbonari, ex sezione Pci nella quale militò da giovane, e tre ore dopo si è candidato alla guida del partito. Comunque vada la sua avventura, gli rimarrà il merito di aver costretto almeno per un giorno il brizzolato popolo degli ex comunisti a rimettersi a studiare come facevano da giovani sui libri di suo padre. Perché le 55 pagine del suo progetto politico sono una specie di tesi accademica, con tanto di note bibliografiche e un linguaggio così “aderenziale e desemplificato” (Vittorio Gassman, La congiuntura, 1964) da doverlo leggere con il vocabolario sotto mano. Per tutto il pomeriggio quel popolo sfiancato dalle sconfitte, ma ancora volitivo si chiama su Twitter: “Che cosa sono i caveat, pagina 1? ”. Indovina indovinello. Aiutino: è una parola latina, Mario Monti e gli altri consulenti della Goldman Sachs direbbero warning. E che diavolo è il catoblepismo? Spiazza tutti un pidino di ascendenza democristiana, l’ex direttore di Europa Nino Rizzo Nervo: “Sappiatelo, il catoblepa lo cantarono già Elio e le Storie Tese nel 1992”, ma omette che alla fine della canzone il catoblepa, essere antropomorfo, viene sodomizzato e muore. Ma che cosa spinge il compagno Barca a far seguire alla limpida frase “dare robustezza alla propria voce” la nota a pie’ di pagina “il riferimento evidente è a Hirschman (1970) ”? Perché umiliare il lettore con quell’ “evidente”? Perché patronage al posto del più commestibile clientelismo? E a che cosa pensa quando scrive sperimentalismo democratico, mobilitazione cognitiva, addendum, élite estrattiva? Pensa cose dense, e qui può finire l’ironia: se finirà nel mirino di Maurizio Crozza avrà vinto lui, e intanto ha messo in campo una proposta politica vincente forse, ben strutturata sicuramente.
Sintesi: senza partiti non si esce dalla crisi perché sono l’unico strumento per avere “un buon governo”. Il partito leggero che ha affascinato e rovinato i dirigenti ex comunisti suoi coetanei ha aperto la strada alla tecnocrazia dei governi come quello di cui Barca fa ancora parte, ma che boccia senza appello. I partiti personalistici servono solo a perpetuare la “élite estrattiva”, che sarebbe la casta detto meglio, gente che estrae denaro e altri benefici personali dalla cosa pubblica. I sindacati e le associazioni non bastano a elaborare una politica. La Rete aiuta, anzi non se può fare a meno, ma anch’essa non basta. Il “partito nuovo” (idea non nuovissima, Togliatti 1944) è un luogo, tanto per cominciare, prevalentemente autofinanziato dai militanti.
QUI I GIOVANI non entrano per fare carriera o nell’illusione “che il partito costituisca un’agenzia di collocamento”, ma dove si discute e si mettono in comune le conoscenze e le idee “evitando il prevalere di gruppi chiusi di controllori di tessere”. È un partito “separato dallo Stato”, dove gli incarichi di partito sono incompatibili con le cariche elettive, e i funzionari sono assunti a tempo per non più di due anni. Quanto basta per fare molta più paura del renzismo all’apparato piddino attuale.
È poi un partito schiettamente di sinistra, senza centro e trattino, che si batte per il rispetto e l’attuazione della Costituzione, tutta, non solo i diritti fondamentali dell’uomo, ma anche l’articolo 46 sulla partecipazione dei lavoratori “alla gestione delle aziende”, e l’articolo 4 su “le condizioni che rendano effettivo” il diritto al lavoro.
Nel Pantheon di Barca ci sono l’austerità di Enrico Berlinguer, trasfigurazione della figura paterna (“per una profonda trasformazione della società”), il leader socialdemocratico tedesco Willy Brandt, l’economista indiano Amartya Sen. Astenersi attori, cantautori e registi.

La Stampa 13.4.13
Vendola: “Si apre la strada per un soggetto unico della sinistra italiana”
“Ma è sbagliato pensare Fabrizio già come leader”
intervista di Riccardo Barenghi


Fabrizio Barca «movimenta il quadro della sinistra italiana». Chi parla è Nichi Vendola, che quel documento lo ha letto in anteprima visto che Barca l’ha mandato a lui e a Bersani proprio per sottolineare che vuole parlare alla inistra e che dunque i suoi interlocutori principali sono gli attuali lsuoi eader.
Allora, Vendola, torniamo al Partito con la P maiuscola, quello morto con la seconda repubblica?
«Nel saggio di Barca io leggo anche una sorta di comprensibile rimpianto per le grandi organizzazioni di massa del Novecento. E, se posso permettermi una critica, penso che la sua diagnosi sulla crisi dei partiti colga l’effetto della malattia ma non la sua causa. Che sta nella mutazione della nostra società, che ha prodotto una terribile atomizzazione. sono saltati i legami sociali, l’individualismo trionfa, il Partito salta per aria perché prima sono saltate la famiglia e la città. Al posto di tutto questo è nata la Rete, certamente importantissima ma non sostitutiva né della famiglia, né della città e dunque nemmeno del Partito».
Una critica che riguarda il passato, ma il futuro che immagina Barca lei lo condivide?
Appunto, si tratta di un progetto che guarda al futuro. Che a me interessa discutere a fondo. Intanto perché c’è una critica radicale della metafisica della tecnica e delle oligarchie tecnocratiche. Cioè dell’idea che esista un’avanguardia di elite il cui sapere tecnocratico può surrogare le procedure democratiche. Una critica tanto più importante perché fatta da un ministro del governo tecnico».
La seconda invece?
«Beh, se qualcuno ricomincia a parlare di destra e sinistra in tempi in cui la retorica del cambiamento è tutta incentrata sul conflitto anagrafico o sul nuovismo, io non posso che essere d’accordo. Così come sottoscrivo in pieno l’idea di Barca che la sinistra debba assumere il lavoro come punto di vista sulla società e sul potere».
Ma la sinistra oggi in Italia sembra lontana anni luce da quella che immagina Barca.
«Proprio per questo lui pensa che vada riorganizzato il campo. Una sollecitazione sacrosanta che deve costringerci a lavorare molto, e tutti insieme per costruire una proposta politica».
E come ci si arriva?
«Cominciamo un cammino, tutti insieme. La destinazione finale la vedremo strada facendo».
Tutti insieme?
«Sì, tutti insieme.. Poi saranno le cose a determinare, eventualmente divisioni e separazioni. Io non metto me stesso davanti agli altri, metto idee e proposte. Voglio verificare nella discussione chi è d’accordo con chi. Se qualcuno mi chiede se sto sciogliendo Sel, i o rispondo che semmai sto sciogliendo il Pd in qualcosa di più grosso, e più importante. Appunto il soggetto del futuro per tutta la sinistra».
Di cui il leader sarà Barca?
«Se partiamo dal leader significa che non abbiamo capito niente del discorso che ci ha proposto Barca».
Oggi proporrà alla vostra assemblea nazionale di entrare nel Partito socialista europeo?
«Sì, è quello il luogo in cui si può rimettere in discussione l’egemonia liberista».
Il nuovo Capo dello Stato va eletto con l’accordo tra sinistra e destra?
«Non deve essere il frutto di un accordo tra nomenklature. Il metodo giusto quello usato per Boldrini e Grasso. Poi sarei ovviamente contento se fosse votato da tutto il Parlamento».
Lei ha una rosa di nomi?
«Vorrei solo che avesse un nome come la rosa, ossia femminile».
E il governo, Vendola ancora scommette su Bersani?
«Sì, non mollo. Bisogna assolutamente togliere di mezzo l’ipotesi di un governo con la destra di Berlusconi. e invece andare in Parlamento con in mano il progetto del governo di cambiamento e verificare lì se i gruppi politici e i singoli parlamentari si assumeranno la responsabilità di ucciderlo prima di farlo nascere».

Repubblica 13.4.13
Intervista a Fabrizio Barca
"Non punto a fare il segretario Renzi ha le carte per la premiership"
Ecco il mio programma per il Pd, partito di sinistra
di Sebastiano Messina


Il contributo degli iscritti deve essere determinante. Il finanziamento pubblico va ridotto
Penso che il Pd sia un partito di sinistra. La componente ex dc è di sinistra: si chiamava così quando era nella Dc
Governare è straordinario. Ho scoperto che Nenni si sbagliava: la stanza dei bottoni c´è. Ma ho sbattuto contro l’assenza dei partiti

ROMA - Ministro Barca, giovedì pomeriggio lei ha preso la tessera del Partito democratico...
«Alle cinque meno dieci, per l´esattezza».
Sta prenotando il posto di segretario?
«No. Ma no sul serio. Voglio aprire un dibattito, con l´ambizione di far parte del nuovo gruppo dirigente. Punto».
Come mai non si era iscritto prima? Non condivideva l´idea del Partito democratico?
«Quando nacque, ebbi la sensazione che fosse forzata la confluenza delle componenti ex comuniste, ex democristiane e liberalsocialiste, e la non ricchezza del dibattito di questi anni mi aveva confermato quel dubbio. Invece nell´ultimo anno ho potuto constatare che nel Paese ci sono molti militanti che sono figli di questo mix culturale, e allora ho capito che il mio giudizio era sbagliato».
Nelle 55 pagine del documento con cui si presenta al Pd, lei delinea l´identikit di un partito di sinistra. Proprio qualche giorno fa, però, Walter Veltroni, che del Partito democratico è stato uno dei padri e forse quello più convinto, ha detto che il Pd ha un´identità «post-ideologica» e una «vocazione maggioritaria». La sua idea del nuovo Pd contraddice questo ritratto?
«La mia idea non contraddice l´identità del Pd ma la lettura che Veltroni ne dà. Io penso che il Partito democratico, se non si usano ipocrisie, sia un partito di sinistra. La componente ex dc è di sinistra: si chiamava così quando era nella Dc. Ed è di sinistra anche la componente laica. Quanto alla vocazione maggioritaria, non vi vedo alcuna contraddizione, visto che la sinistra governa a momenti alterni tutti i maggiori Paesi del mondo».
Posso chiederle come ha votato alle ultime elezioni?
«Ho dato un voto al Pd e uno a Sel».
Suo padre fu uno dei dirigenti del Pci. Ma nel pantheon dei suoi punti di riferimento politici c´è o no Enrico Berlinguer?
«Sì, per me Berlinguer rimane un punto di riferimento fondamentale».
Lui teorizzò il centralismo democratico. Lei vuole lanciare lo «sperimentalismo democratico». Ma che cos´è, esattamente?
«Lo sperimentalismo democratico è un metodo per l´assunzione di decisioni pubbliche che avviene con un forte ruolo dello Stato, ma con una fortissima consapevolezza da parte del centro della propria ignoranza. Quindi il presidio nazionale attiva un confronto locale che restituisce informazione e conoscenza. Non è una mia invenzione: è quello che sta facendo Obama negli Stati Uniti».
Ma questo riguarda il ruolo lo Stato, non il partito.
«Sì, ma come possiamo pensare di arrivare allo sperimentalismo democratico senza una mobilitazione delle persone, senza un partito che prema e pretenda dagli amministratori che ha fatto eleggere l´avvio di questo processo?».
Grillo risponderebbe: c´è la Rete, i cittadini possono decidere sul Web.
«Il Web può essere utile quando si tratta di dire sì o no, o quando ci si vuole far conoscere. Ma se affrontiamo una questione complessa, quando dobbiamo prendere una decisione articolata che richiede il confronto, nulla può sostituire quell´azione faticosa ma indispensabile che è il dibattito, la discussione faccia a faccia».
Torniamo al partito. Addio al finanziamento pubblico?
«Se il partito è quello che racconto io, la prima condizione è che il contributo degli iscritti e dei simpatizzanti deve essere determinante. Il finanziamento pubblico così com’è non può più continuare. Bisogna ridurlo, sganciarlo dalla dipendenza dai gruppi parlamentari e dargli nuove forme più trasparenti».
Lei dice di voler portare fuori i partiti dallo Stato, rompendo la «fratellanza siamese» di oggi. Significa che i partiti, a cominciare dal Pd, dovrebbero uscire dalla Rai e dalla sanità, giusto per fare due esempi?
«Assolutamente sì. Il partito deve restare assolutamente fuori dagli enti pubblici. E´ la cartina di tornasole: se non finisce la «fratellanza siamese», il nuovo partito non nasce. Se la gente si convince che andando al partito sta venendo a fare da copertura, perché ci sono altri che si stanno cucinando carriere destinate a terminare nelle aziende municipalizzate, i migliori non vengono».
E come pensa che sia possibile rompere il meccanismo della lottizzazione?
«Applicando una concorrenza trasparente che faccia prevalere la competenza e il merito e non l´appartenenza o la fedeltà. E stabilendo regole deontologiche assai rigide che portino anche all´espulsione dal partito di chi accetta o assegna un incarico calpestando i diritti di chi è più competente o più meritevole».
Glielo chiedo così: chiunque sia il successore di Bersani, secondo lei non dovrebbe candidarsi alla guida del governo?
«E io le rispondo che anche per il successore di Bersani, secondo me, dovrebbe valere la regola dell´incompatibilità tra incarichi di partito e cariche pubbliche. E´ chiaro?».
Chiarissimo. E Matteo Renzi? Che ruolo vedrebbe per lui nel nuovo partito?
«E´ talmente ambizioso l´obiettivo che ho in mente, che se forze come quella di Renzi non sono dalla parte del cambiamento diventa quasi impossibile realizzarlo».
Potrebbe essere, il sindaco di Firenze, un buon candidato premier?
«Una persona che si presenta alle primarie, e in 40 giorni agita il Paese, coinvolge tanti giovani e raccoglie un consenso così vasto dimostra di avere delle carte significative per fare questo mestiere».
Lei non sembra attratto da Palazzo Chigi. Perché?
«Governare è stata un´avventura straordinaria. Ho scoperto che Nenni si sbagliava: la stanza dei bottoni c´è davvero. Ma sono andato a sbattere contro l´assenza dei partiti. E allora mi appassiona la sfida di provare a cambiare il luogo dove si forma la volontà democratica: i partiti, appunto».
Ma se la convocasse il prossimo presidente della Repubblica, offrendole l´incarico di formare il governo, gli direbbe di no?
«Cercherei di convincerlo a non farlo».

Repubblica 13.4.13
Pd, Bersani convoca i big "Basta con il gioco al massacro serve una tregua o salta tutto"
Il leader: non sarò io ad ostacolare una soluzione
Per la tregua il segretario potrebbe rinunciare al suo governo di minoranza
La paura del leader è che il partito affronti diviso l’elezione del capo dello Stato
di Giovanna Casadio


ROMA - «Una tregua tra di noi è indispensabile, basta con il gioco al massacro». Bersani convoca i big al Nazareno, la sede del Pd. Non si può - dice il segretario democratico - affrontare una fase così delicata, le scadenze del voto per il Quirinale e poi del governo, con un partito che rischia di somigliare a una maionese impazzita. «Il problema non sono io», è il mantra ripetuto a Walter Veltroni, che ha incontrato giovedì, a Massimo D´Alema e a Rosy Bindi con i quali ha avuto colloqui ieri mattina, sempre per parlare di Quirinale, ma anche di un partito diviso. Lo va dicendo da giorni, il segretario, anche a Dario Franceschini e al vice Enrico Letta. Ha ammesso che per ottenere la tregua è disposto a sgombrare il tavolo dal "suo" governo di minoranza: se è questo a dividere, a creare tensione - afferma - allora accantoniamolo per ora. È evidente che la rotta bersaniana resta sempre quella del "governo di cambiamento": precisa Maurizio Migliavacca, il coordinatore della segreteria, che con Vasco Errani e Davide Zoggia ha riunito l´area-Bersani, fedelissimi e "giovani turchi", giovedì, per un "serrate le file".
«C´è bisogno di compattezza, di unitarietà», ribadisce Migliavacca. Perché è proprio questa la grande preoccupazione di Bersani, che cioè alla vigilia del voto per il Quirinale la prima mancanza di "condivisione" sul candidato sia proprio nel Pd. Con il caos che c´è nel partito - è il ragionamento - altro che fare confluire i consensi su un solo nome. «Rassereniamoci», ha invitato. «Non sarò io l´ostacolo a una soluzione di governo, lo sapete», aveva già assicurato. Ora l´idea che si possa pensare a un´altra formula di esecutivo, senza restare inchiodai al governo di minoranza, si va facendo strada nella stessa segreteria.
Un Bersani irritato per le continue bordate di Renzi (e per l´annuncio dei renziani di voler votare Prodi al Colle) è disposto a resettare tutto? D´altra parte, il sindaco "rottamatore" è ormai lanciatissimo verso le urnei: «Personalmente sono pronto ad andare alle elezioni anche domani mattina - ha rincarato da Napoli - Ma se si vuole fare l´accordo con il Pdl lo si faccia e lo si comunichi, perché fare passare il concetto che i nostri elettori non capiscano è offensivo e allucinante, e rischia di farci perdere le prossime elezioni se non cambiamo». Incalza: «Il Pd e Bersani devono dare risposte in tempi certi». E il segretario si è irritato per l´affondo del "rottamatore" che gli ha consigliato di pensare meno a sé: sull´abnegazione e sul senso di responsabilità, con cui ha agito finora, Bersani non vuole sentire critiche. Quindi mentre Renzi accelera verso le elezioni, Bersani deve provare a tessere personalmente la tregua per evitare che il partito salti. L´iniziativa di Fabrizio Barca di scendere in campo con un manifesto per il Pd, anche se vista con simpatia dal segretario democratico, è pur sempre un´altra occasione di fibrillazione nel partito. Il sindaco da un lato e il ministro dall´altro puntano, ciascuno a suo modo a un superamento del Pd così com´è. Sulle barricate ci sono i cattolico-democratici. Beppe Fioroni, leader dei Popolari, avverte: «Barca e Renzi sono due risorse a condizione che non provochino la mutazione genetica del Pd rendendolo un soggetto politico socialdemocratico oppure laburista. La cultura cattolico democratica e Popolare è elemento fondante del Pd. Non lo si snaturi». Il partito di sinistra, quello di cui Barca parla, è per gli ex Ppi la fine dei Democratici.
Bindi, leader cattolica, convocata in mattinata da Bersani, ha sostenuto vivacemente la sua opinione, ovvero che non c´è bisogno di un governo fragile, e che va chiarito che non ci saranno baratti con Berlusconi né sul Colle né su altro. D´Alema, consapevole del clima democratico e dei pericoli, ripete: «La situazione è difficile ma siamo impegnati perché il partito ne esca bene, non ci sono scissioni e le parole di Franceschini sono state fraintese». L´ex capogruppo infatti, aveva agitato il pericolo dello strappo. Ha riunito nei giorni scorsi la sua corrente, Areadem, rilanciando il progetto della mescolanza delle culture che sta all´origine del Pd, ne è la scommessa originaria. «Dobbiamo evitare in ogni modo una spaccatura, per questo ampliamo il mescolamento casomai», è la ricetta di Franceschini. Le manovre per il congresso del Pd sono già in corso. Matteo Orfini ha proposto un´accelerazione e l´apertura delle porte a Vendola. Fumo negli occhi per i cattolico-democratici.

il Fatto 13.4.13
Giochi sul Colle: D’Alema presidente, perché no?
Il Lìder Maximo ha fatto tutto, dal premier al segretario
Piace a Berlusconi e potrebbe incaricare subito Renzi
di Wanda Marra


Ma sì, voteremmo anche D’Alema. Perché no? Per noi l’importante non è il nome, ma che ci sia l’accordo. Per un governo di larghe intese”. Parola di Daniela Santanchè, vicinissima di Berlusconi. D’altra parte, la linea l’ha data lui, il Caimano. “Siamo pronti a votare anche un pd al Colle”. In cambio, chiaramente di “un governo di larghe intese”. Dice in un’intervista a Repubblica. Mentre toglie persino il salvacondotto come condizione dal tavolo della trattativa. Dunque, un pd. Come tattica di disturbo, Berlusconi ha già lanciato Bersani. Il quale ha smentito di essere in corsa. C’è da crederci: forse al segretario democratico piacerebbe anche, ma si sta giocando un’altra partita. Franco Marini? Lo vogliono i Fioroni e i Franceschini, ma Bersani no. E neanche Renzi. Prodi, che i renziani sarebbero pronti a indicare se non c’è accordo già dalla quarta votazione? Non va bene a B. Ecco allora, qualcuno meno ostile: Giuliano Amato, Lucia-no Violante, già endorsato da Cicchitto, Anna Finocchiaro, che in quanto donna corrisponde all’ultima indicazione del segretario Pd. Presso B. garantisce Violante. Ma regola e consuetudine vogliono che i nomi che si fanno, si bruciano. E allora, perché non D’Alema, che nel toto-Quirinale arriva agli ultimi posti in lista? Al Caimano potrebbe andare bene (hanno già fatto la Bicamerale insieme), a favore delle larghe intese s’è pronunciato pure nella direzione del Pd post-voto, è preda di un nuovo attivismo (giovedì ha visto Renzi, ieri Bersani).
ANCHE Cicchitto fa intendere che la questione è aperta, sempre in chiave di “un accordo politico”. Le voci su D’Alema in gara per il Colle sono balzate agli onori della cronaca con la sua visita al sindaco di Firenze. Che i due si sian detti qualcosa di importante si è visto soprattutto dal silenzio in merito dell’ex Rottamatore. A Renzi non conveniva ostentare questo rendez-vous. Ma gli sarebbe bastato partire per Roma alla volta degli studi tv un paio d’ore prima per evitarlo. E dunque, cosa aveva da offrire il Lìder Maximo al giovane Matteo? Raccontano i renziani che l’ex premier è andato a dirgli che Bersani sta sbagliando tutto, che l’idea del governo di minoranza è folle, frutto di una strategia non lucida. E ad assicurargli che il futuro è lui. Quando inizia il futuro? In un retroscena su Libero, ispirato a un pezzo di Keyser Soze, pseudonimo di un insider democratico su Panorama, si raccontava che mentre D’Alema era a casa di Vissani, il suo cuoco preferito, qualche giorno fa, avrebbe telefonato a Matteo proponendogli di andare subito a Palazzo Chigi. Un incarico che gli darebbe lui stesso. Suggerendo un patto. Tutti, vicini e lontani, sono pronti a negare che D’Alema si stia giocando questa partita. Ma chi sarebbe pronto a confessarlo, in uno scenario così incerto? Per dirla con l’insider succitato “il sindaco di Firenze teme di fare la fine dell’eterna promessa”. E infatti Renzi si dibatte tra una lucida coerenza (non esce dal Pd neanche se lo cacciano a calci, ha detto, e non fa il premier perché vuole una consacrazione popolare) e la paura di essere fregato ancora una volta dall’apparato democratico insieme all’ambizione sfrenata, venata da senso di responsabilità. “Matteo vuole fare il premier ora? No, ma se proprio glielo chiedono... ”, dicevano i suoi prima del pre-incarico a Bersani. D’Alema dal canto suo 7 anni fa al Quirinale non c’è arrivato per un soffio: alla fine fu lui a spendersi per Napolitano. Ma a quell’ambizione non ha mai rinunciato. D’altra parte ha fatto tutto: il segretario del partito, il direttore de l’Unità, il presidente del Consiglio (due volte), il ministro degli Esteri, il vicepresidente dell’Internazionale socialista, il presidente del Copasir, il presidente della Bicamerale... Nell’identikit condiviso del nuovo capo dello Stato dovrà essere “una figura di livello, dotata di credibilità internazionale”. Anche qui ci siamo: tra viaggi negli States e conferenze organizzate da Italianieuropei con tutti i leader socialisti del continente, D’Alema ha tessuto la sua tela. E poi è nato nel 1949: vuoi mettere un presidente così giovane in tempi così bui?

La Stampa 13.4.13
Esecutivo di scopo e D’Alema al Colle. L’ultima tentazione del Cavaliere
di Amedeo La Mattina


Berlusconi fa il suo ingresso trionfale al Palace Hotel di Bari con la fidanzata Francesca Pascale che tiene stretto sotto braccio il cagnolino Dudù. Ad accoglierlo tutto lo stato maggiore del Pdl, Raffaele Fitto in testa che alle politiche di febbraio ha riportato il partito ad essere primo in Puglia. Cena alla Sala Zonno sul lungomare di Bari con 400 imprenditori, liberi professionisti, amministratori locali, tutti paganti (mille euro a posto). Bisogna finanziare la manifestazione di oggi in piazza della Libertà, pagare le centinaia di pullman, mettere da parte i soldi per l’eventuale campagna elettorale di fine giugno se dovesse saltare tutto.
Il Cavaliere è pronto a questa eventualità. Nella scenografia del palco, oltre alla solita frase «l’amore vince sempre sull’odio», ha voluto che comparisse proprio lo slogan «o un governo stabile o voto subito». È sull’esecutivo che batte il martello berlusconiano. Un esecutivo «solido e duraturo - dice ai giornalisti che lo aspettano davanti l’albergo - perché ne abbiamo un grandissimo bisogno. Ci sono troppe cose che si devono fare per uscire da questa crisi recessiva che sta diventando troppo grande». Un governo di coalizione PdPdl, ovviamente. Del resto, spiega Alfano, il lavoro dei saggi «dimostra che collaborare è possibile». Ma in effetti si pensa a un governo del presidente.
Le dichiarazioni e il comizio preelettorale di oggi fanno parte del regno della propaganda. Agitando le urne, Berlusconi mostra i muscoli: non molla, l’accordo per il Quirinale deve comprendere anche quello per il governissimo. Ma dietro le parole c’è il pragmatismo del Cavaliere che attende la rosa dei nomi per il Colle che gli presenterà Bersani. Si attende i nomi di D’Alema, Marini, Amato, Finocchiaro, Violante. Spera che non ci sia quello di Prodi. E il bussolotto del grande capo del Pdl, con molta probabilità, si fermerà su D’Alema. È il nome più gettonato nel suo partito ed è quello che a suo avviso lo garantisce di più. Non solo sul versante della giustizia, ma sulle prossime mosse per il governo.
Il Cavaliere sa benissimo di non poter fare un accordo con Bersani sul Quirinale e Palazzo Chigi. Teme pure che il segretario del Pd possa giocargli un brutto scherzo pur di essere mandato davanti alle Camere per tentare di ottenere la fiducia. Una soluzione che Bersani potrebbe ottenere con un nuovo Capo dello Stato compiacente. La bestia nera di Berlusconi è sempre Prodi, magari eletto alla quarta votazione con i voti dei grillini. Tutta un’altra musica invece con D’Alema o Marini. La stessa Finocchiaro non è vista male. Ma è Massimo la personalità che gli dà più affidamento. Quel D’Alema che ieri ha tenuto distinte le due partite della presidenza della Repubblica e di Palazzo Chigi. «Non si può fare il mercato generale. E visto che il Capo dello Stato è l’arbitro, sarà il nuovo a decidere. È difficile fare il governo prima di aver eletto il nuovo Presidente della Repubblica, sarebbe come decidere la formazione prima di avere l’allenatore». Così il líder máximo che si muove con i suoi contatti discreti, sente Gianni Letta, ricuce con il rottamatore Matteo Renzi.
Berlusconi oggi agita la piazza e urla che non c’è una terza strada tra grande coalizione e urne. Invece avanza la terza soluzione. Osserva le divisioni profonde del Pd e su queste vuole giocare. Capisce che con uno come D’Alema al Quirinale potrà bloccare Bersani e il suo tentativo di fare un governo di minoranza. A quel punto il pragmatico Cavaliere sa che dovrà «accontentarsi» di un esecutivo del Presidente, di scopo, sostenuto dal Pdl e dal Pd, con ministri indicati dai partiti ma di area.

Corriere 13.4.13
Il fronte (da Renzi a D'Alema) che punta su Prodi per il Colle
L'ok di Veltroni e la preoccupazione del segretario
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il primo, inequivocabile, indizio è la presenza quasi quotidiana di Arturo Parisi alla Camera e il suo insistere sul fatto che «all'Italia serve un De Gaulle». Il secondo è l'intervista di Graziano Delrio all'Unità, per spiegare che «Prodi al Quirinale sarebbe una figura di garanzia». Il terzo è rappresentato dalle parole di Matteo Renzi a Porta a Porta: «Prodi è uno dei candidati. Berlusconi farà di tutto pur di averne un altro, ma tutto dipende da un fatto: se si farà o meno l'accordo con il centrodestra». Il quarto lo fornisce sempre il sindaco di Firenze quando annuncia il suo «no» a Franco Marini. Insomma, per farla breve, lo scontro congressuale del Partito democratico si è spostato sul campo di battaglia del Quirinale: in questo momento si stanno confrontando due armate, una punta su Prodi, l'altra su Marini. E una cosa è certa: ci saranno morti e feriti.
Bersani, che l'altro ieri mattina ha sondato Veltroni e ieri D'Alema e Bindi, in questi giorni ha fatto il nome di Marini come quello di un possibile candidato condiviso con il Pdl. Ma Veltroni, che ha invitato il segretario a consultare maggiormente il Pd in questo frangente delicato, perché, altrimenti, per dirla con Ermete Realacci c'è il rischio che «i gruppi parlamentari non diano una risposta convinta alla proposta che verrà fatta», non pensa che Marini possa essere il candidato giusto, pur apprezzandolo e stimandolo. Anche D'Alema ha delle perplessità, legate all'identikit del futuro presidente della Repubblica. Secondo l'ex premier il nuovo capo dello Stato deve avere «credibilità internazionale». Fioroni e Franceschini, invece, non la pensano così: loro sono posizionati su Marini e non vorrebbero discostarsi di lì.
Ma ora che Renzi ha ufficializzato il suo «no» all'ex presidente del Senato, proprio dopo l'incontro con D'Alema, i giochi sono cambiati. L'ex premier sta cercando un candidato condiviso. Non con il Pdl. Ma prima di tutto dentro il Pd perché capisce che sennò non si va da nessuna parte. Perciò ha voluto parlare con Renzi e ha cercato di convincere Bersani a seguire un percorso più lineare. A D'Alema Prodi non dispiace. E nemmeno a Veltroni. Infatti Fioroni cerca di correre ai ripari: «Renzi e gli altri che vogliono un presidente divisivo non pensano all'interesse generale del Paese».
E Bersani, che pensa di Prodi? L'altro giorno Angelo Rughetti, neo deputato renziano, ragionava così con un capannello di colleghi di partito: «Mi pare che siamo alla "nuova" politica dei due forni. C'è il piano A, che prevede l'accordo con Berlusconi per Marini al Quirinale e un governo Bersani delle "quasi larghe intese". Poi c'è il piano B: accordo con il Movimento 5 Stelle per Rodotà o un personaggio simile, che garantirebbe l'incarico a Bersani, ma in questo caso gli sarebbe più difficile ottenere la fiducia». Le riflessioni ad alta voce di Rughetti sono condivise da molti. Ma la domanda che si fanno tutti o quasi è questa: «Come farà Bersani a dire pubblicamente no a Prodi?». Già, il progetto è di mettere il segretario con le spalle al muro e metterlo di fronte a un bivio: dire ufficialmente che in nome dell'accordo con Berlusconi preferisce sacrificare il leader fondatore dell'Ulivo o accettare la candidatura di Prodi? La novità in questo campo è anche un'altra: Casini, che ieri ha visto pure lui Bersani, si sta spostando su Renzi perché con il sindaco di Firenze candidato premier non avrebbe problemi a schierarsi con il centrosinistra. E il leader dell'Udc non disdegna l'idea di appoggiare Prodi.
Insomma, i giochi per il Quirinale in casa democratica sono complicati, anche se si sta lavorando per trovare un'unità interna su un nome (ma Matteo Orfini, per esempio, ancora ieri sparava sia su Prodi sia su Marini). E anche in questo campo Renzi ha introdotto la sua innovazione: «Non pugnalerò mai Bersani alle spalle e non vi saranno franchi tiratori». Insomma, il dissenso verrà reso pubblico, con gli effetti mediatici che ne conseguiranno. Alla luce di queste vicende l'esclusione del sindaco di Firenze dai grandi elettori operata da franceschiniani e bersaniani assume un significato prettamente politico, che non può essere derubricato a fatto locale.

l’Unità 13.4.13
Grillo grida all’hacker per coprire la bufala
«Quirinarie» annullate per «intrusioni esterne»: in realtà il misterioso attacco appare funzionale alla strategia propagandistica di Casaleggio
E sul web fiocca l’ironia: comprate l’anti-virus
di Toni Jop


Fortuna che non si trattava di una tombola on line. A quest’ora, Grillo e Casaleggio sarebbero latitanti, inseguiti da migliaia di pacifiche pensionate emiliane e romagnole con le scope in mano. Fortuna che era solo il sondaggio per raccogliere una rosa di nomi dai quali distillare i candidati finalisti per l’adozione del cittadino destinato a gareggiare, col favore delle Stelle, per l’elezione del futuro presidente della Repubblica.
Così, invece di raccogliere risentimento e rabbia popolare, l’incidente capitato ieri alla «macchina da guerra» dell’ineffabile democrazia diretta, oltre a qualche disappunto si è limitato a mietere una valanga di ironia e di punti di domanda inevasi. Poi, hanno rimediato all’errore e provveduto a rilanciare il voto, ma intanto da un blog all’altro si rideva come non capitava più da un pezzo in questo Paese, e di questo, una volta di più, l’Italia è grata a Grillo e alla sua verve. Benché il clima e le dichiarazioni pubbliche per dare un senso politicamente denso all’accaduto trascritte sul suo blog non avessero nulla di comico; di fronte alla sequenza di quelle stringate ed allarmate parole pareva di assistere ad una comunicazione del Norad (il comando di difesa aero-spaziale nordamericano). «Attacco hacker», hanno scritto e ribadito, «innalzati i livelli di sicurezza»: osti, roba forte, avrebbe commentato Jannacci.
L’ANOMALIA
Si era verificata, dicevano, una anomalia nella macchina della votazione, sufficiente per annullare il processo fino ad allora maturato e per riaprire le urne on line dopo aver rimediato. Facevano sapere che l’«intrusione» aveva «compromesso in modo significativo la corrispondenza tra i voti registrati e l’espressione di voto dei votanti». Traducendo, non ci sarebbe stata corrispondenza tra il numero dei votanti e quello dei voti. Facile immaginare che questi ultimi fossero più dei votanti; quindi o qualcuno aveva votato più volte, con il consenso della piattaforma?, oppure... siamo nel giallo, nel pieno di una guerra dei mondi.
Infatti, qui siamo, in piena guerra. Così hanno inteso affermare al quartier generale di Grillo-Casaleggio. Perché, a dispetto degli annunci e delle promesse, il tutto stava e sta maturando nei loro domìni, nel loro blog invece che su una piattaforma nella totale disponibilità e gestione dei Cinque Stelle. Questo dato è importante, perché è bene sapere come ogni click effettuato in quel Blog si traduce in soldi per la coppia di badesse, come fosse una slot-machine. Dirottare l’attività politico-istituzionale del Movimento su un’altra piattaforma significa ridurre dolorosamente gli introiti del convento che fin qui ha goduto per molti milioni di euro «a causa» di questa «seccante» dipendenza imposta ai poveri fans trattenuti nella trance di un avvento infinito. Quindi, doppio voto, doppio incasso ma siamo nel regno di una malizia che Grillo userebbe a piene mani se la sinistra fosse incorsa al suo posto in questo stato di cose.
Hanno detto «attacco esterno» ma alcuni esperti mettono in dubbio la diagnosi fornita dagli interessati. Piuttosto, obiettano, si potrebbe essere manifestata una smagliatura di programma e qui entriamo in argomenti per iniziati. Del resto, le spiegazioni sono state, lamentano, lacunose, troppo, nonostante le operazioni di voto siano state seguite (e certificate?) da una agenzia ben accreditata in questo genere di attività, la Dnv Business Assurance.
LE IPOTESI
Il blogger Michele di Salvo, per esempio, è dell’idea che la storia dell’attacco esterno sia perfettamente funzionale alla strategia di comunicazione della Grillo&Casaleggio associati. Cioè, la tesi della guerra dei mondi sostiene è ben più produttiva, politicamente, della ammissione di un errore di programma che ha reso inattendibili i risultati della consultazione. Motiva certamente di più i votanti, dà loro la forza di passare sopra la defaillance, di tornare a votare con nuova convinzione militante. Tuttavia, nessuno ha rivendicato l’aggressione, benché un banale «siamo stati noi» avrebbe dato lustro e senso alla sigla di un commando di guastatori. Smentisce senza ambiguità Anonymous Italy, per esempio, che ha intascato motivi sufficienti per non guardare il blog di Grillo con simpatia. Resterebbe in piedi l’ipotesi del gesto isolato di un singolo mattacchione; ma a questo punto non sarebbe legittimo chiedersi quanto sia affidabile la macchina della democrazia diretta messa in scena dal divin Profeta? A lui frega poco, gli basta essere sotto attacco.
Ma il web, occhio alla nemesi, non perdona e ieri all’attacco ha riservato un tripudio di buonumore più corrosivo di un errore di programma. Così, si è andati dall’accusa di aver cancellato tutto perché i risultati non garbavano ai padroni del Blog, all’osservazione secondo cui i due, per risparmiare, si sarebbero affidati ad un programma taroccato, usato, bucato. Non volevano che vincesse Tina Pica, questa la verità.

l’Unità 13.4.13
Le reazioni
Il Pd: una scorciatoia demagogica


«Le votazioni per l’elezione del capo dello Stato avranno inizio giovedì. Vi partecipano 1007 italiani, definiti per qualche giorno “grandi elettori”. Sono deputati e senatori della Repubblica, democraticamente scelti dagli italiani che hanno appena votato per la formazione del nuovo Parlamento. Sono i rappresentanti delle Regioni, 58, e occupano cariche per le quali, anche loro, sono stati democraticamente eletti nel territorio. C’è una Costituzione che ci richiama tutti». Lo dice la vicepresidente Democratica della Camera, Marina Sereni, commentando l’annullamento della consultazione on line del M5S. «Ogni scorciatoria demagogica, ogni assemblearismo di facciata, e non importa che il
veicolo sia il web o un altro conclude offende tutti quelli che partecipano alla forma democratica che insieme abbiamo scelto. E alla quale rinnoviamo la fiducia ogni volta che decidiamo chi deve essere il nostro parlamentare, il nostro sindaco, il nostro presidente di regione».
«Anche sul web siamo più bravi noi. Alla prova dei fatti si dimostra che la democrazia non si improvvisa», dice invece Roberto Cuillo: «Non hanno retto l’urto di pochi contatti quotidiani. Pochi, rispetto ai nostri che dal primo novembre al 2 dicembre abbiamo avuto una media di centinaia di migliaia di contatti unici quotidiani, con punte di 450 mila contatti nelle ultime settimane», spiega Cuillo.

Repubblica 13.4.13
Ma spuntano i dubbi degli esperti "Solo Casaleggio sa cos´è successo"
"Un sistema poco trasparente, lo spoglio è incontrollabile"
"Grillo invoca lo streaming, ma poi mantiene una piattaforma con contenuti segreti"
di Tiziano Toniutti e Luca De Vito


ROMA - Il giorno della verità sui nomi a 5 stelle per la presidenza della Repubblica avrebbe dovuto essere l´11 aprile. Ma le "Quirinarie" non hanno funzionato, almeno al primo colpo. E oltre all´attacco hacker, sul web si moltiplicano le possibili interpretazioni di quanto successo. Forse hacker, forse un risultato non gradito ai vertici del M5s. Ma la certezza su quanto avviene realmente dopo il voto online non c´è. Esiste solo la certificazione della Dnv, la multinazionale scelta da Casaleggio per validare le operazioni di voto.
Come funzionano
Per le primarie presidenziali del M5s, niente gazebo e due euro da pagare. Obbligatoria però l´iscrizione al Movimento. Per votare ci si collega una pagina web dedicata "Quirinarie", dall´indirizzo non pubblico, il sistema accetta naturalmente un solo voto. E poi più nulla, nessuna informazione o dato, ad esempio per conoscere "l´affluenza digitale", e sapere quanti altri elettori hanno votato. Solo l´attesa dello spoglio. La piattaforma di Grillo è infatti proprietaria, chiusa. Soltanto lo staff del M5s sa cosa succede dietro le quinte del sito web, fino al punto in cui Dnv certifica. Lo stop dell´11 è arrivato quando Dnv ha rilevato una "anomalia", una discrepanza tra i voti e il numero di aventi diritto. Quanto basta per pensare a un´intrusione informatica nel sistema di voto, e ad invalidare le elezioni. Ma sulle procedure di spoglio decide tutto Casaleggio. Come dire, Dnv dice se le elezioni si sono svolte regolarmente. Ma i risultati sono sotto la giurisdizione di Casaleggio. Inoltre, conoscere che tipo di attacco hacker è stato effettuato sulla piattaforma aiuterebbe a rafforzarne almeno l´idea di affidabilità. Poter realizzare un semplice "buco" e utilizzarlo per votare più volte indicherebbe l´inadeguatezza della struttura. E la possibilità di subire attacchi hacker ben più sofisticati.
Il nodo della trasparenza
Anche a trasparenza non sembra essere tra i punti forti della piattaforma di Casaleggio. «La Dnv certifica la procedura, ma poi lo spoglio lo fa lo staff di Grillo», dice Edoardo Novelli, docente di comunicazione politica all´Università Roma Tre. «E se lo spoglio viene effettuato da Casaleggio, qualche dubbio è lecito». Sul web, i commenti sono divisi tra chi giudica la piattaforma inadeguata e chi dice che se il M5s avesse voluto pilotare la consultazione, avrebbe evitato di denunciare attacchi hacker, intervenendo direttamente sui dati. Certificazione delle procedure o meno, spiega Novelli, Grillo «utilizza il web senza una vera cultura della Rete». L´apertura di internet, alla base della condivisione delle informazioni è interpretata in maniera contraddittoria: «Grillo invoca lo streaming, ma poi mantiene una piattaforma chiusa, con contenuti segreti», dice il professore, «definendo un organismo politico verticistico».
Qualcosa è andato storto
«Un´anomalia che ha compromesso in modo significativo la corrispondenza tra voti registrati e l´espressione di voto del votante». Con questa espressione - non meglio precisata - la Dnv Business Assurance, società a cui si è rivolta la Casaleggio Associati per verificare le procedure di votazione online, ha fatto sapere che qualcosa è andato storto durante le Quirinarie. Le attività di verifica, spiegano dagli uffici dell´azienda, hanno tenuto sotto controllo anche la seconda votazione. La Dnv, che sta per Det Norske Veritas, è inserita in una multinazionale della certificazione. La società è una delle tre controllate dal gruppo Dnv, una fondazione internazionale e indipendente istituita nel 1864 e con sede a Oslo. Ha 300 uffici in tutto il mondo e 10mila operatori, rilascia certificati di qualità e di garanzia ponendosi come ente terzo nella valutazione dei problemi per le aziende. In Italia la sede principale di Dnv è ad Agrate Brianza, in provincia di Milano. Ci sono poi altre nove sedi operative, per un totale di 250 dipendenti.

il Fatto 13.4.13
L’esperto, Umberto Rapetto
“Il web è anarchia Casaleggio? È stato sprovveduto”


È stato inventore e capo del Nucleo speciale della Finanza contro le frodi telematiche: Umberto Rapetto ha scoperto gli hacker che hanno violato i sistemi informatici di governi stranieri e istituzioni italiane. E soprattutto ha scoperchiato gli affari delle concessioni pubbliche alle slot machine. Troppi piedi pestati, minacce di trasferimento e dimissioni, fino alla direzione dei progetti speciali di Tele-com. I 5 Stelle lo considerano un “papabile” per il Colle. Lui, ha qualche dubbio: “È quantomeno curioso che una struttura che ritiene di poter garantire l’espressione della democrazia diretta, sia incapace di gestire un voto del genere”.
Tutto da rifare.
Mi sorprende che abbiano riparato tutto in un giorno. E se lo hanno fatto, mi stupisce che non lo abbiano previsto dall’inizio.
La notizia è stata data solo ieri mattina.
È molto curioso che si debba arrivare a consuntivo per capire che c’è qualcosa che non va. Serve un controllo immediato, che non viene diffuso per non influenzare il voto, ma fotografa la situazione in ogni istante.
Eppure l’ente certificatore dice di non poter risalire al momento in cui “l’anomalia” è cominciata.
Quella nota non ha senso. Non esiste un certificatore di sicurezza dei siti web, un “notaio” digitale. Con quel marchio hanno voluto dare autorevolezza. Ma il certificatore può scrivere quello che vuole, è quasi un atto di fede.
Potrebbero essere stati problemi di connessione?
Non credo: il blog di Grillo gestisce ogni giorno volumi molto superiori al numero degli iscritti.
Voti cancellati?
Impossibile, è un database di sola scrittura. È come chi ogni mattina passa il badge davanti alla porta. Registra il suo ingresso al lavoro, ma non vede chi sono i colleghi già entrati.
Un attacco deliberato degli hacker?
Avrebbero dovuto prevederlo, blindare il database. Parliamo di uno come Casaleggio, che ha fatto del web la sua filosofia di vita: sarebbe bizzarro se avessero lasciato qualche porta aperta. L’unica possibilità è che chi ha gestito l’archivio, abbia usato una password debole e qualcuno l’abbia trovata. Ma non sono errori ammessi per chi gestisce un’operazione del genere.
Qualcuno potrebbe aver voluto svelare i “buchi” della Casaleggio?
Se si dimostra la fragilità di un sistema considerato il train de vie di chi ha scelto la vita cibernetica, chi ne esce mortificato non è solo lui.
Si spieghi meglio.
L’immaterialità del web si presta agli interventi più disparati. Internet è l’anarchia assoluta. Tutti quelli che hanno cercato di imbrigliarlo con delle regole hanno sbagliato: dai governi agli ideologi della Rete. Volerla usare come strumento di governo e controllo è una follia. Lì davvero uno vale uno, e il primo che si sveglia ti può dimostrare che non conti niente.
Nemmeno se sei Casaleggio.
Non ho visto le sue pubblicazioni, nemmeno il video in cui prospetta la fine del mondo. Ha fatto del web la propria ragione di vita, ma non ne conosce le sfaccettature vere, non parlo di quelle commerciali: qui si tratta di gestire le vite degli altri. Non si può credere nell’infallibilità del web, è un sistema che fa errori, tant’è che, come nella vecchia politica, bisogna rifare tutto. Se il messaggio che gli hanno voluto mandare è “sappi che il web non è tuo”, è un messaggio terribile.
Tra quei nomi messi ai voti c’è anche lei.
Sono onorato di essere considerato una persona perbene. Ma se dovessi arrivare io al Quirinale, vorrebbe dire che siamo proprio alla frutta. Giuro, a infiltrarmi nel sistema, non sono stato io.

Repubblica 13.4.13
Il web si scatena sull´annullamento delle votazioni: "Casaleggio subito ministro dell’Interno"
"E ora ridateci la matita copiativa" Twitter ironizza sulle "buffonarie"
di Tommaso Ciriaco


ROMA - Geniale e crudele, Virus1979C affonda dove fa più male: «Risultati definitivi Quirinarie: ha vinto Margherita Hacker». Più che un tweet, un Bignami dello sfottò. Perché è proprio con i cinguettii che la Rete ha travolto ieri Beppe Grillo, i grillini e le fallite consultazioni per identificare il profilo giusto per il Colle.
Di buon mattino è il portavoce Claudio Messora ad annunciare proprio su Twitter la débacle. E´ una comunicazione telegrafica, come si conviene in tempi di guerra informatica: «Attenzione. Tra pochissimo si ripetono Quirinarie. Ieri gravi violazioni certificate da DNV. Innalzati livelli di sicurezza». Poco dopo è il leader in persona a twittare l´annullamento del referendum on line, lanciando l´hashtag #iorivotoilmiopresidente. Quello che il Fondatore ancora non immagina è che di lì a poco un flusso ininterrotto di ironia e sarcasmo si sarebbe abbattuto sul quartier generale del movimento.
Il copyright della battuta migliore appartiene forse a Daniele De Florio. «Avevano dimenticato di dire di leccare il tasto del mouse, in mancanza di matita copiativa», scrive, rispolverando il curioso appello grillino a inumidire la matita "elettorale" per evitare brogli alle recenti Politiche. Attivisti e simpatizzanti incassano con sportività, ma la marea di tweet non si arresta. C´è chi cita le parole del deputato grillino Sorial, pronto a sostenere che «l´attacco è stato di scala mondiale». La palla è alzata, l´utente "Cigolo" schiaccia facilmente replicando: «Niente Ufo?». La controreplica: «Di più, di scala divina». E c´è chi propone «Casaleggio ministro dell´Interno».
Molto ruota attorno al sospetto che non tutto risulti trasparente. E, d´altra parte, la riservatezza scelta nei giorni precedenti alimenta in Rete teorie del complotto. Smorzate, però, da una battuta. C´è chi scorge dietro i pirati informatici addirittura la mano di Silvio Berlusconi. E c´è chi ipotizza che la causa dell´annullamento sia da rintracciare in risultati sgraditi alla "Casaleggio Associati". «Era in testa Jenna Jameson (ex pornostar e imprenditrice, ndr)», ironizza qualcuno. E altri burloni: «No, ha vinto Rocco Casalino», anzi addirittura «Batman». La parola definitiva la pronuncia il blogger Federico Mello: «La democrazia digitale inizia in tragedia e finisce in farsa».
Anche sul blog di Grillo gli utenti si dividono. Qualcuno mette in guardia dagli inciampi del web: «La rete è democrazia, la rete è verità, la rete è libertà. Balle! La rete - scrive Dario T. - è una grande conquista, ma è pericolosa. Può essere democrazia o tirannia, verità o menzogna, libertà o schiavitù». E Blu Bliz: «Tutti bravi a parlare di Internet. Ma all´atto pratico si fanno figure meschine». I fan del leader, però, fanno quadrato. Si spendono e fanno "campagna" per le Quirinarie bis. Nonostante un esordio da dimenticare: «Sono al limite dell´intransigenza - attacca Marcello - non sopporto più l´idea che un sistema marcio nel midollo cerchi di sabotare il Blog. W il M5S!!!».

Repubblica 13.4.13
La grande illusione della web-democrazia
di Giovanni Valentini


Una pena del contrappasso mediatico o un segnale di avvertimento sulle illusioni della cosiddetta democrazia elettronica? L´annullamento delle "quirinarie" online del Movimento 5 Stelle, può essere interpretato in entrambi i sensi.
Anche, contemporaneamente, nell´uno e nell´altro. Ma si tratta comunque di un flop, tanto più clamoroso perché colpisce un movimento che proprio sulla Rete ha fondato la sua natura costitutiva, la sua identità culturale e politica. Quale che sia ora il responso del "popolo di Internet" a cinque stelle sulle candidature al Quirinale, risulterà fatalmente viziato da una riserva di legittimità e attendibilità che ne compromette il valore. Dai brogli elettorali di antica memoria, nell´era della Democrazia 2.0 si passa così agli imbrogli informatici.
Qualsiasi cosa sia successa (Grillo parla di un´intrusione di hacker, la società di controllo di semplici "anomalie"), il vertice del M5S, ha dovuto annullare questa prima tornata della consultazione online. E non è poco per un soggetto politico che finora non ha dimostrato una particolare responsabilità nel suo esordio parlamentare. Ma ora dovrebbe essere lo stesso Movimento a trarne le conseguenze, per riconoscere i limiti oggettivi di un tale strumento e adottare regole di trasparenza "erga omnes". Per non restare prigioniero e vittima del suo totalitarismo mediatico.
La vulnerabilità del sistema non è soltanto un dato tecnologico. È più propriamente un fattore genetico di quella che un autorevole studioso come Stefano Rodotà, nel suo illuminante libro Il diritto di avere diritti, chiama "la dittatura dell´algoritmo". E non certo per disconoscere la "cittadinanza digitale", ma anzi per rafforzarla e tutelarla. "Nella società dell´algoritmo - avverte Rodotà - svaniscono garanzie che avrebbero dovuto mettere le persone al riparo dal potere tecnologico". Da qui, dunque, la necessità di disciplinare la Rete in modo che non diventi il Far West o la giungla della comunicazione globale, a rischio di screditare se stessa, la propria funzione e i propri utenti. È una nuova frontiera della democrazia, da presidiare e difendere in funzione dell´interesse generale, favorendo la sua crescita sociale e civile.
Applicata alla vita politica, la lezione insegna che i legittimi diritti della "piazza virtuale" non possono essere delegati a un clic né quando si tratta di scegliere i propri rappresentanti né tantomeno un candidato alla presidenza della Repubblica. Quando è in gioco appunto la democrazia, occorrono evidentemente regole e garanzie superiori a quelle dell´e-commerce. Altrimenti, si rischia di mandare in Parlamento con una cinquantina di voti elettronici qualche sprovveduto o qualche screanzato che non conosce neppure la differenza fra Camera e Senato o, peggio ancora, di "eleggere" alla più alta carica dello Stato qualche star televisiva o qualche "cittadino comune" come fosse una nomination del Grande Fratello. Ovvero, di essere costretti alla ritirata o alla resa dai "pirati informatici".
Con i suoi otto milioni e passa di voti depositati nelle urne, il Movimento 5 Stelle rappresenta ormai una forza politica popolare che come tale va rispettata e con la quale è necessario confrontarsi a livello istituzionale. Può rappresentare una "scossa salutare" per sconfiggere la partitocrazia, la corruzione e il malaffare, se sarà capace di contribuire in modo costruttivo al rinnovamento della democrazia italiana. Quella autentica, fatta di uomini e donne, di persone e di cittadini, non solo di clic spesso anonimi o addirittura clandestini.

Corriere 13.4.13
La strategia: dalla quarta votazione sì a una personalità gradita anche al Pd
di Emanuele Buzzi


MILANO — «Quirinarie», atto secondo. Cresce l'attesa per il verdetto del voto. Solo oggi in mattinata saranno resi noti i dieci nomi tra cui i militanti sceglieranno al secondo turno il candidato per il Colle. «Potremmo avere un nuovo presidente come papa Francesco, cioè una persona rivoluzionaria, se solo le altre forze politiche lo vorranno», spiega il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio. Parole che danno corpo a una suggestione che sta prendendo quota sempre più tra i parlamentari nelle ultime ore: cercare il modo di creare consenso (e scompiglio tra i partiti) su una personalità «condivisa». Il Movimento sosterrà il suo candidato di bandiera di sicuro per le prime tre votazioni. Dalla quarta — in cui basterà la maggioranza semplice per designare l'inquilino del Colle —, gli scenari potrebbero cambiare. Libertà di coscienza? Forse. Ma non solo. Fonti vicine ai Cinque Stelle ipotizzano anche un cambio di strategia per deputati e senatori. I parlamentari starebbero studiando l'idea di sostenere eventualmente anche altri nomi della decina ammessa al secondo turno — i primi tre, quattro classificati — , personalità con un forte ascendente da esercitare su altre forze politiche. Nomi su cui creare una convergenza, magari proprio con i democratici. «Nessun inciucio però», precisano. E «nessuno scambio con una eventuale fiducia», ripetono. Si tratterebbe, in sostanza, di una tentazione da mettere sul tavolo agli avversari (politici). E un modo, anche, per lasciare il primo segno indelebile nella legislatura. Intanto, c'è chi prende le distanze dalle voci circolate sui media. «L'informazione continua a sostenere che il Movimento 5 Stelle è pronto a sostenere Prodi: è una bufala», afferma Matteo Ponzano, il vj della «Cosa», la web tv del Movimento.
I nomi? «Alcuni, un buon terzo, saranno delle sorprese», assicurano alcuni deputati. Intanto, ieri è stato il giorno del caos. Anomalie, hacker o un bug del sistema? Il risultato non cambia: il popolo dei Cinque Stelle ritorna a esprimere la propria preferenza per il successore di Giorgio Napolitano. Il presunto attacco diventa un caso sul web, spopola sui social, ma in serata — secondo quanto sostiene l'Ansa — né alla polizia postale né ai carabinieri sono stati presentati esposti da parte di appartenenti al Movimento o dallo stesso Grillo per attacchi informatici. Intanto, tra i parlamentari, prosegue il dibattito sui futuri orizzonti politici. «Il rifiuto del meno peggio non deve arrivare al punto di rendere possibile il peggio», scrive su Facebook il senatore Francesco Campanella.

Repubblica 13.4.13
Ma per il Paese il tempo è scaduto
di Guido Crainz


Ci eravamo illusi che il clamoroso risultato delle ultime elezioni politiche ponesse termine alla assoluta insensibilità dei partiti italiani di fronte all´enorme sfiducia nei loro confronti. Ancora una volta ci siamo sbagliati.
I pochissimi gesti che potevano far sperare in un´inversione di tendenza sono stati progressivamente sepolti da un incredibile annaspare e da una ottusa riproposizione di antichi vizi. Le idee programmatiche essenziali messe finalmente in campo dal centrosinistra dopo la afasia della campagna elettorale sono state presto sepolte dal ritorno alle vecchie pratiche: un altro regalo alla demagogia dell´antipolitica, e solo l´organica incapacità di proposta del Movimento 5Stelle impedisce per ora una sua ulteriore crescita. "Beato quel paese che non ha bisogno di comici per essere credibile": non lo ha detto un raffinato seguace di Brecht ma il comico Enrico Brignano a "Invasioni barbariche". Qui c´è forse la sintesi del dramma che stiamo vivendo, la "rivelazione" della mistificazione che è sotto i nostri occhi. O meglio, sui nostri schermi e in palazzetti della politica sempre meno credibili. Certo, è più facile tentare di dialogare con l´indialogabile Beppe Grillo (o cercare qualche dialogante fra i suoi deputati) che dare risposte alla questione vera: perché un geniale demagogo da palcoscenico e una rispettabile adunata di boy scout, un po´ impacciati sui fondamentali della democrazia, sono diventati la Corazzata Potemkin del nostro affondare? Dell´affondare della nostre istituzioni e del nostro rispetto per esse, voglio dire.
Eppure non è difficile comprendere quale sia l´unica via che il centrosinistra può provare a percorrere, pur fra le enormi difficoltà che il suo stesso annaspare fa aumentare ogni giorno. Non può essere, occorre dirlo con franchezza, la via delle "larghe intese" con il Pdl, e non solo per l´improbabile accostamento del condannato e plurindagato di Arcore con Aldo Moro. Esse presuppongono l´esistenza di una "destra normale" che purtroppo non è all´orizzonte: al di là di ogni buona intenzione o ispirazione non è possibile rimuovere questo dato di fondo, e andrebbe avviata anche una riflessione più ampia e pacata sul fallimento della proposta di Mario Monti. Anche per altre ragioni, inoltre, non appare pertinente l´evocazione del "compromesso storico" o della sua impropria ed accidentata applicazione nell´Italia del delitto Moro. Val la pena semmai di ricordare che quella proposta - di nobile derivazione togliattiana - non nacque all´indomani del golpe cileno ma almeno due anni prima, nel clima determinato dalla "strategia della tensione" e dal corposo spostamento a destra che essa sembrava indurre. Nel settembre del 1971 Berlinguer presentava così alla Direzione del Pci l´impostazione del Congresso allora in preparazione: "Come si può andare avanti effettivamente in un Paese come l´Italia senza scatenare una reazione che stronchi questa spinta in avanti?". E nella relazione a quel Congresso, nella primavera del 1972, affermerà appunto che "una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari: comunista, socialista, cattolica". Non è possibile rimuovere quello scenario, imparagonabile con l´oggi. E non è possibile ignorare che lo stesso Berlinguer decreterà nella maniera più impietosa il fallimento di quella ipotesi: è infatti impossibile dialogare con partiti ridotti a "camarille, ciascuna con dei boss o dei sotto-boss", come dirà ad Eugenio Scalfari nel 1981. Da allora quella degenerazione ha superato ogni limite ed ha prodotto le catastrofi che sono sotto i nostri occhi.
Altro ha chiesto il voto stesso del Paese, e a quell´esigenza occorre rispondere. Occorre, perlomeno, muovere qualche passo in quella direzione ma il poco che il centrosinistra ha detto sin qui è stato presto smarrito per via, nello scorrere di giorni irresponsabilmente sciupati. È altrettanto irresponsabile che siano ancora avvolte da fitte nebbie le sue proposte reali su due questioni centrali.
Mancano ormai pochissimi giorni all´elezione del presidente della Repubblica ed è incomprensibile che il centrosinistra non abbia indicato al Paese - in primo luogo al Paese, e non in diretta streaming - un nome di altissimo profilo e indiscutibile per la più alta carica dello Stato. Negli ultimi vent´anni, di fronte all´anomalo irrompere dell´antipolitica e dell´antidemocrazia dei Berlusconi e dei Bossi, è venuta dal Quirinale la difesa più sicura e preziosa delle nostre istituzioni e del nostro stesso sentire civile. È venuta da tre Presidenti - Scalfaro, Ciampi e Napolitano - la cui storia e cultura rinviano al nostro momento fondativo e che hanno fatto comprendere bene cosa sia il "patriottismo costituzionale": non è facile ma neppure impossibile continuare su questo solco, e il centrosinistra non può più attendere neppure un minuto per fare la sua proposta. Per farla al Paese.
Vi è poi il nodo di Palazzo Chigi, e qui il tempo è ancor più gravemente scaduto. All´indomani stesso del voto solo una cosa era evidente, e riguardava il doppio ruolo di Pierluigi Bersani. Come candidato premier non aveva convinto gli elettori e non era quindi più proponibile per quell´incarico. Era però il segretario del partito con il maggior numero di consensi: spettava in primo luogo a lui, dunque, avanzare proposte diverse. Così non è stato, e il centrosinistra ha dilapidato con ostinazione il parziale vantaggio che gli elettori gli avevano dato. Oggi sembra quasi ostaggio del centrodestra sconfitto, e ha ridato fiato ad un Berlusconi che può sopravvivere solo grazie alla paralisi della politica. A questa paralisi, a questa palude il centrosinistra non può più contribuire neppure per un secondo e anche per Palazzo Chigi deve fare la sua nuova, e vera, proposta. Ogni ulteriore attesa sarebbe di gravissimo danno per tutti.

Corriere 13.4.13
Pdl e Pd recuperano 3 punti. Avanti (di poco) il centrodestra
Cinquestelle e Scelta civica perdono il 2 per cento
di Renato Mannheimer


Solo una minoranza degli italiani vorrebbe nuove elezioni a breve. La maggior parte auspica la celere formazione di un governo, dividendosi tra chi chiede una «grande coalizione» e chi preferirebbe ancora l'accordo Pd-M5S. Ciononostante, la prospettiva di tornare alle urne continua ad essere all'ordine del giorno. Secondo molti osservatori, anche il nuovo presidente della Repubblica non riuscirà a dipanare la matassa e sarà costretto a indire nuovamente le consultazioni per il Parlamento.
Come si comporterebbero gli elettori in questo caso? Nessuno può saperlo con precisione, in quanto molto conterebbe, ancora una volta, la campagna elettorale. Come si sa, sempre più cittadini elaborano la loro scelta in relazione a quest'ultima. Non a caso, in occasione del voto di febbraio, più di un terzo (35%) degli italiani ha dichiarato di avere formato la propria decisione nell'ultima settimana, influenzati anche dalla propaganda di questo o quel partito. È possibile, tuttavia, avere un'indicazione dell'evoluzione degli orientamenti intervenuti dal momento delle elezioni a oggi, basandosi sulle più recenti inchieste di opinione.
Uno dei trend più significativi, sul quale ci siamo già soffermati, è il progressivo decremento di consensi per il M5S. Dopo avere avuto un forte exploit subito dopo le elezioni, il Movimento di Grillo ha fatto registrare, settimana dopo settimana, una flessione, che si è confermata anche in questi ultimi giorni: il M5S si colloca, per la prima volta, sotto il 24%, con un regresso di quasi il 2% rispetto all'esito del voto di febbraio. Si tratta, beninteso, di una erosione modesta, ma, dato il suo andamento costante nel tempo (solo nell'ultima settimana, si registra un calo dell'1%), significativa di uno stato di insoddisfazione che caratterizza sempre più una parte del seguito di Grillo.
Una larga quota dei consensi persi dal M5S è andata a favore dei partiti maggiori: il Pdl e, specialmente, il Pd. In qualche modo, parrebbe che un segmento dei voti «in libera uscita» giunti a Grillo, motivati spesso dalla protesta, stiano, sulla base dell'esperienza di queste settimane, tornando ai partiti di origine. Il Pd, in particolare, ha visto, rispetto all'esito elettorale, un accrescimento di più del 3% e si attesta oggi poco sotto il 29%. Il buon risultato del partito di Bersani può apparire sorprendente, a fronte dei crescenti conflitti interni e dello scarso successo sin qui dei tentativi del segretario di formare un governo. Con tutta evidenza, questi fattori non hanno impedito il «ritorno» di un certo numero di consensi dati alle elezioni da un verso al M5S (i voti dati a Grillo e tornati oggi al Pd costituiscono l'8% del seguito attuale del partito di Bersani) e dall'altro, in misura però nettamente minore, a Scelta civica di Monti (analogamente, i voti dati a Monti oggi passati al Pd rappresentano il 4% dell'elettorato di quest'ultimo).
Anche il Pdl di Berlusconi fa registrare un aumento di consensi, che il Cavaliere non manca di far rilevare in ogni suo intervento. Oggi il suo partito sfiora il 25%, a fronte di poco meno del 22% ottenuto a febbraio, con un incremento di quasi il 3%. I «nuovi» elettori che oggi scelgono il Pdl provengono da diversi partiti, specie dal centro, ma anche dalle forze minori di centrodestra e dal M5S.
Si assiste dunque a una sorta di polarizzazione dei consensi, con un incremento contemporaneo di entrambe le forze politiche maggiori. Come se gli italiani tornassero a preferire la presenza di due grandi partiti e auspicassero una sorta di semplificazione del quadro politico. Ciò avviene a scapito sia, come si è detto, del M5S, ma anche, in misura rilevante, delle forze collocate nel centro. In particolare, la lista Scelta civica, capeggiata da Mario Monti, subisce un netto arretramento, attestandosi oggi al 6,5%, con un calo, rispetto al risultato elettorale, di quasi due punti. Questo andamento è dovuto, oltre che a una sorta di «delusione» frequentemente sentita nei confronti delle forze di centro, anche al fatto che la comunicazione originata da queste ultime si è, in queste settimane, molto attenuata, se non scomparsa, mentre quella delle due forze politiche maggiori sembra inalterata anche rispetto alla campagna elettorale.
Il quadro di insieme ci comunica uno spostamento di lieve entità, ma di grande importanza, rispetto all'esito del voto di febbraio. Come si ricorderà, quest'ultimo ha visto il centrosinistra prevalere, seppur di poco (0,4%) e conquistare così il decisivo premio di maggioranza alla Camera. Oggi la situazione è all'inverso: secondo i nostri dati, il centrodestra prevale per lo 0,3%. È un esito confermato in diversa misura anche da tutte le altre ricerche pubblicate in questi giorni. Dunque, se queste intenzioni di voto trovassero conferma nei comportamenti effettivi (ma su questi, come si è detto, conta la campagna elettorale) la maggioranza dei deputati sarebbe appannaggio della coalizione guidata da Berlusconi. Ma l'esiguità della differenza da noi rilevata non comporterebbe necessariamente un analogo vantaggio al Senato. Riproducendo probabilmente l'attuale situazione di ingovernabilità. Di qui, una delle prime esigenze della nuova legislatura, sempre ricordata, ma, significativamente, mai attuata: la revisione dell'attuale pessima legge elettorale.

Repubblica 13.4.13
L´interrogatorio
"Coprirono il raid fascista del figlio di Alemanno" Roma, indagati due poliziotti
Il ragazzo fu portato via dal luogo del pestaggio in auto
di Federica Angeli e Domenico Lusi


Il poliziotto insisteva a chiedermi se fossi sicura che Manfredi era con gli aggressori. Ho capito che voleva che rispondessi che non lo ero...
Le accuse dei pm: favoreggiamento e omessa denuncia, mentre il pestaggio verrà archiviato

ROMA - Un raid fascista senza colpevoli e due poliziotti, che hanno coperto quel blitz in cui era presente il figlio del sindaco di Roma Gianni Alemanno, indagati per falso in atto pubblico, favoreggiamento e omessa denuncia.
A finire sotto accusa per una vicenda raccontata dal Fatto Quotidiano che ha coinvolto Manfredi Alemanno, figlio di Gianni e nipote di Pino Rauti, sono due agenti della questura di Roma: Roberto Macellaro, autista personale nel tempo libero del sindaco e consorte, e Pietro Ronca, ispettore capo prima del commissariato Flaminio, poi trasferito a Primavalle. Ma per capire come il pm Barbara Zuin abbia iscritto i due poliziotti nel registro degli indagati (l´inchiesta nei loro confronti è in dirittura d´arrivo) bisogna tornare al 2 giugno 2009.
Il bandolo della matassa delle accuse nei loro confronti, infatti, sta in un´inchiesta aperta dal tribunale di Roma per lesioni. Nel giorno della festa della Repubblica di quattro anni fa, Manfredi Alemanno, allora quattordicenne, partecipò insieme a 4 coetanei e 4 ragazzine, a una festa nella piscina di un condominio della Camilluccia, quartiere della Roma bene. I giovani, una volta nel comprensorio, iniziarono cori che inneggiavano al duce e alzarono le mani per il saluto romano. Un gesto a quanto pare molto caro al rampollo della famiglia Alemanno, visto che, nell´estate 2012, alcune fotografie di un viaggio in Grecia con gli amici lo ritraggono, fiero, nella stessa posa.
Il pomeriggio di quel 2 giugno, però, le esternazioni di estrema destra furono bloccate da chi aveva organizzato quella festicciola: uno degli adolescenti presenti zittì i canti fascisti e invitò il gruppetto a lasciare la festa. A questo punto la situazione degenerò: uno degli amici di Manfredi, dopo aver fatto presente di far parte del Blocco Studentesco (l´organizzazione giovanile di CasaPound della quale Alemanno jr diventerà nel 2011 rappresentante nel suo liceo) annunciò vendetta. Col suo cellulare cominciò a fare decine di chiamate. Di lì a poco arrivò un gruppo di maggiorenni, 4-5 ragazzi secondo i testimoni, che iniziò a picchiare, anche con un casco, l´adolescente che si era opposto alle loro manifestazioni fasciste. Manfredi Alemanno è stato presente alla spedizione punitiva ed è fuggito soltanto quando il raid punitivo è terminato.
Ma questa verità viene coperta. E qui entrano in gioco i due agenti. Il poliziotto autista, Macellaro, che era proprio fuori dal cancello del comprensorio, fa salire in macchina Manfredi e lo porta a casa senza mai far parola con nessuno della vicenda e negando persino ai pm di aver visto entrare e uscire gli autori del pestaggio. L´altro ispettore, invece, Ronca, in forza al commissariato Flaminio, prende a verbale una delle ragazzine che aveva assistito dall´inizio alla fine al blitz, e la convince a dichiarare nero su bianco che non era sicura se nel comprensorio, insieme agli aggressori, ci fosse Manfredi. Così, la presenza del figlio del sindaco nel raid viene insabbiata.
Ed eccoci a oggi. Gli unici indagati per quell´episodio sono i due poliziotti che hanno nascosto tutto. L´inchiesta sulle lesioni commesse dai maggiorenni chiamati dagli amici quattordicenni di Alemanno jr va verso l´archiviazione: nessuna delle persone contattate telefonicamente dall´amico di Manfredi è stata riconosciuta dai presenti come responsabile del pestaggio. Quanto al figlio del sindaco, anche per lui nessuna accusa: ascoltato la scorsa estate dal pubblico ministero Zuin, mise a verbale una lunga serie di «non ricordo» e «non so chi fossero i picchiatori». Nessun commento sulla vicenda né da parte del sindaco Alemanno né da parte della moglie Isabella Rauti. «Non sappiamo nulla e non abbiamo niente da dire», rispondono a Repubblica.

Corriere 13.4.13
La Consulta: più diritti per le unioni gay
«Attribuire al figlio solo il cognome paterno retaggio della famiglia patriarcale»
di Alessandra Arachi


ROMA — L'occasione è una conferenza straordinaria sulle attività della Corte costituzionale. E Franco Gallo, il presidente della Consulta, ieri l'ha usata per spronare il Parlamento su molti argomenti, ma in particolare su un tema che da sempre è fronte di scontri nelle aule parlamentari: il riconoscimento dei diritti delle coppie gay.
Non ha usato giri di parole il presidente Gallo. Si è rivolto alle Camere in maniera esplicita: «Bisogna regolamentare i diritti delle coppie omosessuali nei modi e nei limiti più opportuni». Ma non si è limitato: Gallo si è spinto anche su un altro fronte dei diritti civili, quello del cognome paterno obbligatorio. Secondo il presidente della Consulta «l'attribuzione del solo cognome paterno costituisce il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia».
Quindi secondo Gallo occorre legiferare sui diritti civili. Per le coppie gay è dal 2010 che la Corte costituzionale sollecita il legislatore in questo senso, dalla sentenza numero 138 del 2010, per la precisione. «In tale pronuncia la Corte ha escluso l'illegittimità costituzionale delle norme che limitano l'applicazione dell'istituto matrimoniale alle unioni tra uomo e donna, ma nel contempo ha affermato che due persone dello stesso sesso hanno comunque il diritto fondamentale di ottenere il riconoscimento giuridico, con i connessi diritti e doveri, della loro stabile unione». Gallo ha sottolineato anche come alla Consulta su questi temi sia stato più facile interagire con le istituzioni e i giudici europei, detto proprio nel giorno in cui in Francia venivano approvati il matrimonio e le adozioni gay.
Un'esplosione di consensi alla parole del presidente della Consulta è arrivata, ovviamente, dall'intera comunità omosessuale. C'è chi, come il presidente di Gaylib Daniele Priori, vorrebbe Gallo come premier e chi come il presidente dell'Arcigay Flavio Romani non esita: «Il matrimonio gay è una conquista di democrazia, libertà e uguaglianza».
Dal fronte politico si leva forte la voce di protesta di Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato del Pdl: «La Consulta non deve dettare le regole alle Camere». E a lui fa eco la voce della parlamentare del Pdl Eugenia Roccella: «Quello di Gallo è un intervento a gamba tesa in un ambito controverso e divisivo che ci ricorda come in questi anni l'attività dei tribunali abbia sconfinato dai propri limiti».
Franco Gallo ha sottolineato quanto in questi anni le parole della Consulta siano rimaste inascoltate, in materia. E Ivan Scalfarotto, vicepresidente del gruppo Pd alla Camera, ha ricordato: «Negli ultimi anni disegni di legge sui diritti civili sono rimasti nell'angolo, mai discussi nemmeno nelle commissioni».
Scalfarotto, attualmente l'unico parlamentare omosessuale dichiarato del Parlamento, ha poi aggiunto: «In Parlamento nemmeno il disegno di legge sull'omofobia è riuscito ad avere un via libera. Per questo io adesso ho ripresentato disegni di legge sui matrimoni gay, nonché quello che estende la legge Mancino all'omofobia, già firmata da 140 deputati».
Ma all'interno del Pd le voci su questi temi non si esprimono all'unisono. Ed ecco che un altro deputato democratico, Edoardo Patriarca, non esita a mettere i paletti: «La Consulta continua a riconoscere il valore dell'istituto matrimoniale, e per quanto riguarda i diritti delle coppie dello stesso sesso parla di modi e limiti più opportuni. Dunque un netto no alle nozze gay».
Parole che si avvicinano a quelle di Carlo Giovanardi, senatore del Pdl, che non vuole sentirne parlare di matrimonio fra omosessuali. Dice, infatti: «Dobbiamo introdurre nel codice civile il cosiddetto contratto di solidarietà e convivenza, attraverso il quale i conviventi, a prescindere dagli orientamenti sessuali, possano disciplinare davanti ad un notaio tutti gli aspetti patrimoniali e assistenziali della loro vita di coppia. E in questo senso noi abbiamo presentato una proposta di legge».

l’Unità 13.4.13
Il voto del Senato
Nozze gay in Francia Anche il Senato dice «sì»
Approvata la legge che riconosce a coppie dello stesso sesso di sposarsi e adottare figli
La denuncia: «In aumento le violenze sugli omosessuali»
Via libera anche alle adozioni. La Consulta: «L’Italia faccia la sua legge»
di Marina Mastroluca


Il Senato francese approva la contestata legge che riconosce alle coppie omosessuali il diritto di unirsi in matrimonio e adottare dei figli. I primi matrimoni potranno essere celebrati già in estate e Hollande ha detto che sarà presente a quello di una coppia di amici.
Voto per alzata di mano, passa al Senato francese la contestata legge che riconosce alle coppie omosessuali il diritto di unirsi in matrimonio e di adottare dei figli. I mugugni tra le file dell’Ump per una «fretta» sospetta restano sullo sfondo, in primo piano la soddisfazione dei socialisti che incassano un successo politico necessario come il pane in queste giornate funestate dallo scandalo Cahuzac e dall’economia in picchiata. Era scritto nel programma elettorale di Hollande e il presidente a dispetto del «milione» sceso in piazza a sostegno delle nozze tradizionali, può finalmente spuntare una voce dalla sua agenda. Il testo di legge dovrà subire un nuovo passaggio tecnico nei due rami del parlamento, ma ormai è fatta. Già in estate potranno essere celebrati in primi matrimoni, Hollande ha già detto che non vede l’ora di presenziare a quello di una coppia di amici.
Qualche defezione tra le file socialiste, rimpiazzata da voti raccolti tra i conservatori, il provvedimento è passato con 179 sì contro 157 no. Più convincenti degli argomenti sollevati nel dibattito parlamentare, a far leva sulla coscienza di qualche senatore Ump sembrano essere stati alcuni eccessi della protesta di piazza, dominata nelle scorse settimane dagli exploit di quella nebulosa destrorsa che si fa chiamare «primavera francese» e che ha finito per farsi bandire dai portabandiera ufficiali della protesta, riuniti dal logo di «Manif pour tous».
Non può che rallegrarsene la ministra della giustizia Christiane Taubira, che sotto le sue treccine afro ha guidato con determinazione l’iter parlamentare di una legge che ha detto ieri rafforza la società francese «garantendo la piena cittadinanza alle coppie omosessuali». Frigide Barjot, leader della battaglia contro le nozze gay, dal canto suo ha già annunciato nuove manifestazioni di piazza la prossima il 26 maggio per chiedere di ritirare il provvedimento. L’Ump, che lamenta un’accelerazione eccessiva dei lavori parlamentari tale da poter essere interpretata come un «tentativo di intimidazione», mette in guardia Hollande. «Il presidente della repubblica ha detto si assume il rischio di un confronto violento con i francesi».
«IL VOLTO DELL’OMOFOBIA»
Qualche incidente in realtà c’è già stato nelle scorse settimane minacce, blitz, scontri, atti di vandalismo Frigide Barjot ha denunciato le frange violente di essersi appropriate degli slogan e dello stesso materiale propagandistico del cartello contrario alle nozze gay, mettendo in guardia dal non lasciarsi prendere dall’omofobia. Le organizzazioni gay denunciano però un inasprimento del clima nei confronti degli omosessuali, da quando è stata sollevata la questione delle nozze per tutti. Il gruppo di supporto Sos Homophobie ha registrato un aumento del 30 per cento delle segnalazioni di aggressioni verbali e fisiche, rispetto al 2011, con un netto incremento da quando è iniziato il dibattito parlamentare nell’autunno scorso. Anche i politici più attivi nel sostenere la legge sulle nozze gay hanno denunciato minacce telefoniche e via mail, qualcuno ha avuto il parabrezza della propria auto in frantumi.
Un clima pesante, che si è accompagnato con la pretesa della protesta di piazza, sostenuta da cattolici e gruppi conservatori, di poter rappresentare «una rivoluzione», quella del buon senso popolare contro i dettami della politica. Tanto più forte, quanto è stato debole e in declino in questi mesi la popolarità presidenziale: le nozze gay sono sembrate un buon grimaldello per scardinare le certezze del governo socialista, nonostante i sondaggi mostrino che il 53% dei francesi sostiene il matrimonio per tutti e che il 50 è a favore delle adozioni per le coppie gay.
Domenica scorsa un omosessuale vittima di un pesante pestaggio ha spopolato sul web, postando su Facebook la foto del suo volto tumefatto: gli occhi cerchiati di nero, grumi nerastri sulle labbra, il viso coperto di sangue. «Questo è il vero volto dell’omofobia», ha scritto Wilfred de Bruijn. È stato picchiato selvaggiamente per essere stato sorpreso a camminare in strada mano nella mano con il suo compagno.

La Stampa 13.4.13
Battaglia culturale
E nell’America di Obama la destra si scopre liberal
Sempre più conservatori influenti si dicono favorevoli alle nozze omosex
In molte parrocchie vengono celebrate messe ad hoc per gli omosessuali
di Gianni Riotta


«Noi gay andremo tutti all’inferno? » si chiede Elaine Sundby sul sito www.gaychurch.org, dedicato agli omosessuali cristiani. Sembrerebbe di sì, argomenta l’autrice del saggio «Calling the Rainbow Nation Home» su gay e fede, «visto che i conservatori cattolici ci piazzano tra le fiamme eterne e i colorati dimostranti alle Gay Parade cantano “Noi gay andiamo all’Inferno”». E invece no, e con dolcezza e perizia teologica Sundby spiega che Antico Testamento e Vangelo non dannano i gay.
Il vulcanico cardinale Dolan di New York, grande elettore di Papa Francesco, dichiara candido in tv all’ex braccio destro di Clinton, George Stephanopoulos, «Dico agli omosessuali vi amo, Dio vi ama, siete creati ad immagine e somiglianza di Dio e la Chiesa vuole la vostra felicità», pur fermandosi prima del sì al matrimonio gay. La grande chiesa di San Paolo, dietro l’angolo del Metropolitan Theatre, dove un tempo combattevano le gang romantiche di «West Side Story», celebra due volte la settimana funzioni religiose per i gay e www.gaychurch.org elenca città per città le parrocchie dove gli omosessuali sono benvenuti.
È molto cambiata l’America da quel giugno 1969, quando la polizia del Greenwich di New York, andata per arrestare i «ricchioni» al bar Stonewall di Christopher Street, locale di proprietà della famiglia mafiosa Genovese dove gli uomini potevano ballare tra loro, vide per la prima volta i gay ribellarsi e mettere in fuga gli agenti della Buoncostume abituati a tormentarli in cambio di mazzette. Ai tempi della caccia alle streghe l’accusa di omosessualità faceva il paio con quella di comunista, il senatore McCarthy usò la testimonianza di Whittaker Chamers per mettere alla gogna spie sovietiche e gay: l’ipocrisia del tempo venne provata con tristezza quando l’avvocato Roy Cohn, assistente di McCarthy, venne riconosciuto gay, morendo di Aids.
Oggi non solo i politici gay, nipoti del primo deputato che riconobbe la propria identità sessuale, il bravo e simpatico Barney Frank, i manager, gli intellettuali progressisti dei mille e mille – a volta interessanti, altre banali e propagandistici- corsi universitari Gay Studies, credono in una stagione di parità sociale tra generi e orientamenti sessuali. Anche conservatori repubblicani come il deputato Justin Amash del Minnesota si dicono a favore delle unioni gay. I liberal si mobilitano in nome dei diritti civili, nella rivolta di Stonewall i gay cantavano «We shall overcome» l’inno dei neri del reverendo King. La destra repubblicana è invece per la scelta gay in difesa della non ingerenza dello Stato, che già troppo pesa: meno tasse, meno regole sociali, implica anche che ciascuno può sposare chi vuole, omosessuale o etero.
L’astro della destra, senatore Rand Paul la pensa così e nella recente discussione sul tema alla Corte Suprema l’ok alle unioni gay dei liberali s’è incrociato con quello dei conservatori, unica differenza sui tempi, con le toghe a ponderare se il paese sia, o no, già maturo.
New York, di certo, lo è. La Grill Room, il ristorante progettato dai maestri architetti Mies van der Rohe e Philip Johnson, dove il vecchio Kissinger ha un tavolo fisso, ha chiuso per ospitare il banchetto nuziale del direttore di un celebre museo con il compagno. Ogni domenica il «New York Times» lancia le pubblicazioni dei matrimoni gay vip in città, i due sposi o le due spose, felici tra gli amici, che snocciolano successi e carriere per l’invidia delle coppie che non sono riuscite ad ottenere il titolo: la gelosia sociale che per anni ha roso gli etero, è condivisa dai gay, anche la vanità è un diritto. E lontano da New York, l’ex governatore del tradizionalista Utah, Jon Hunstman, scrive «Non c’è nulla di conservatore nel negare il matrimonio, una delle gioie della vita, ai gay», affidando l’editoriale alla rivista «American Conservative». Un centinaio di politici e intellettuali repubblicani hanno inviato un appello pro unioni gay alla Corte Suprema, tra le firme l’icona virile Clint Eastwood.
In attesa della Corte Suprema, la consapevolezza è che, stato dopo stato, le nozze gay saranno americane, secondo il vecchio proverbio, come la torta di mele. Il commentatore di destra Limbaugh si rassegna alla radio «Ha vinto la Mafia Gay», il suo collega O’Reilly fa il libertario «In America, ognuno fa a modo suo». Il compassato «Christian Science Monitor» spiega: «La valanga non si arresta. L’università dei gesuiti a Washington, la Georgetown, ospita solo coppie gay sul campus. Cambieranno, qualcuno li porterà in tribunale e otterrà l’integrazione».
Come sempre nella storia americana l’economia prepara i mutamenti, la politica li individua, il diritto li impone e codifica: ieri diritti civili, oggi nozze gay. Il passato resiste, Nicholas Coppola, cattolico di St. Anthony a Long Island, s’è visto togliere le deleghe in parrocchia per essersi sposato col suo partner. Il giudice della Corte Suprema. Scalia. ha una lunga antologia di citazioni antigay, dal chiedersi, con scarsa finezza, «sedersi su un palo è un diritto civile? » a giustificare la discriminazione sul posto di lavoro scrivendo «dopotutto si può non assumere chi tifa per la squadra di Chicago, è adultero o ha frequentato le scuole sbagliate… perché non i gay? ».
Ma la storia s’è mossa, e come in tutti i movimenti del XXI secolo, cercarne la dialettica in Destra-Sinistra disorienta: contano Individui, Diritti Personali, Libere scelte Sociali ed Economiche, progressisti e conservatori trovano su ogni passaggio elementi di accordo, elementi di dissenso. Oggi in Usa, domani in Europa, i gay non andranno all’Inferno, ma sul codice civile, al governo, nei bilanci delle aziende, in chiesa.

La Stampa 13.4.13
Il caso riletto da uno storico italiano
Sant’Anna di Stazzema “La Germania potrebbe riaprire le indagini”
Rivelazione dello Spiegel on line sulla base di una perizia


Potrebbero essere riaperte in Germania le indagini sugli otto ex Ss ancora in vita che il 12 agosto 1944 parteciparono alla strage di Sant’Anna di Stazzema. Lo ha scritto ieri Spiegel online, citando i risultati della perizia dello storico italo-tedesco Carlo Gentile che evidenzia lacune nel lavoro della procura di Stoccarda che archiviò le indagini.
Secondo Gentile - incaricato dall’associazione dei parenti delle vittime di verificare documenti e testimonianze utili all’incriminazione, dopo che lo scorso ottobre le indagini erano state archiviate per insufficienza di prove - la procura di Stoccarda avrebbe trascurato importanti documenti e testimonianze, che forse «non gli erano affatto noti».
Per lo storico, che vive a Colonia, gli investigatori tedeschi non avrebbero approfondito adeguatamente le informazioni utili, commettendo inoltre «chiari errori riguardo ai dati storici» e trascurando «la topografia e gli accadimenti temporali» di quel giorno di 69 anni fa.
Dopo l’archiviazione, ricorda lo Spiegel online, il ministro della Giustizia del BadenWuerttemberg, Rainer Stickelberger, aveva sottolineato come i procuratori avessero «esplorato ampiamente» tutte le possibilità, dicendosi dispiaciuto del fatto che non fosse stato possibile chiedere l’imputazione dei sospettati «nonostante i grandi sforzi investigativi». La perizia di Gentile, scrive ancora Spiegel citando l’avvocato dell’associazione delle vittime di Sant’Anna, è stata nel frattempo consegnata alla procura di Stoccarda.
«Finalmente il teorema si chiude. Sono felice che la tesi dello storico italo-tedesco Carlo Gentile, che fra l’altro vive in Germania sia stata presa in considerazione da parte della Procura tedesca», commenta il sindaco di Stazzema (Lucca) Michele Silicani. «Grazie a Gentile abbiamo ottenuto in Italia i risultati importanti sul fronte delle indagini. Il fatto che possano riaprire delle indagini che in pratica erano chiuse - osserva - non può che dimostrare che quanto sostenuto nel corso degli anni da parte nostra non può che essere stato vero».

La Stampa 13.4.13
Il social network non rimuove la pagina
Offese ad Anna Frank Facebook nella bufera


Una foto di Anna Frank con la frase «Gente che scrive “doccia time” e poi non si collega più», macabro riferimento alle camere a gas - è apparsa su Facebook, ricevendo centinaia di «condivisioni». Molti hanno chiesto a Facebook, attraverso il sistema automatico, la rimozione, ma la risposta è stata che la foto «non è risultata violare gli standard della comunità di Facebook sui contenuti che incitano all’odio, che includono foto o post che attaccano una persona sulla base della sua razza, etnia, nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia».
«Ci appelliamo a Facebook per la rimozione, altrimenti non ci tireremo indietro e presenteremo una denuncia», ha annunciato Riccardo Pacifici, presidente della Comunità Ebraica di Roma.

La Stampa 13.4.13
“Quell’iniezione misteriosa che uccise Neruda in poche ore”
Era in clinica in attesa di partire per l’esilio e sfidare Pinochet
I testimoni ricostruiscono la morte del poeta nel Cile post-golpe
di Filippo Fiorini


Con la riapertura del processo sulla morte del poeta cileno Pablo Neruda, che secondo i libri di storia morì di cancro alla prostata nel’73, a inizio settimana è stata riesumata la sua salma, in cerca di tracce di quel veleno che si sospetta potrebbe essergli stato iniettato dagli uomini del dittatore Pinochet. A distanza di 40 anni, dalle carte ancora secretate emerge una trama inedita che potrebbe dare un nome al presunto autore del crimine: «Se il dottor Draper non è l’assassino di Neruda, sicuramente sa chi lo uccise», dice del medico che per ultimo vide il poeta vivo, l’avvocato Eduardo Contreras, che firma la querela.
Erano le 16:00 di domenica 23 settembre ’73 e Matilde Urrutia riattaccò il telefono, guardò Manuel Araya e disse: «Gli hanno fatto un’iniezione alla pancia, sta male. Dobbiamo andare subito». Il Cile aveva perso da due settimane la democrazia, a causa del golpe militare, e ora stava per perdere anche il suo intellettuale più illustre. Dopo la telefonata dall’ospedale, la moglie e l’autista corsero da Valparaiso alla clinica Santa Maria, a Santiago, dove il poeta era ricoverato da 4 giorni. Con la scusa degli esami per il cancro alla prostata, l’avevano portato nella capitale per farlo uscire dal Paese. «Non mi sono mai perdonato di averlo lasciato solo», disse molti anni dopo Araya, all’ufficiale giudiziario che scriveva la sua ricostruzione.
Neruda si era fatto convincere all’esilio dall’ambasciatore messicano, Gonzalo Martinez Corvalà. Lo afferma lui stesso nella dichiarazione al consolato cileno di Città del Messico nel 2011. «La sua vita era in pericolo», precisa l’ex diplomatico. Dopo la morte del presidente Allende era diventato la figura più influente della sinistra cilena. «Lo vidi per l’ultima volta sabato 22. Stava bene, lo informai delle atrocità che accadevano nel Paese e decise di partire lunedì 24». Sarebbe diventato il capo dell’opposizione anti-Pinochet. Ma quando il 23 donna Urrutia e Araya arrivarono all’ospedale, lo trovarono «rosso in volto, febbricitante», ricorda l’autista. «Si sollevò la maglia e mostrò il ventre. Aveva come una puntura d’insetto, irritata. Il medico mi disse che doveva prendere urgentemente l’Urobotan, un farmaco che si trovava solo in una farmacia molto lontana. Cercai di fare in fretta».
Manuel non riuscì mai a comprare quella medicina dal nome inventato. A pochi isolati fu fermato da due berline. Picchiato, sparato a una gamba, fu imprigionato dal regime nello Stadio Nazionale, dove rimase per un mese e dove seppe che «Pablito» era morto. Il quotidiano conservatore El Mercurio scrisse che era «deceduto per arresto cardiaco, dovuto a un’iniezione di calmante». Il certificato di morte firmato la sera prima diceva però: «cachessia cancrenosa cancro prostata metastasi cancrenosa», cioè dimagrimento da cancro, cancrena e metastasi.
Strano. I suoi amici, l’ambasciatore e due ex ministri democristiani che lo visitarono in ospedale, dicono che «pesava più di 100 kg»: era in sovrappeso anche il giorno che morì. «Il 23 settembre ero di turno al Santa Maria. Attorno alle 15:00 mi chiamò l’infermiera Maria Araneda, perché il paziente pativa forti dolori». Lo disse nel 2011 il dottor Sergio Draper, sotto interrogatorio. Aveva iniziato a lavorare nella clinica il 20, il giorno dopo l’arrivo di Neruda. Oggi lavora in un ospedale militare.
Il poeta che vide è diverso dal poeta «assolutamente normale» che l’ambasciatore stava facendo espatriare: «Era agonizzante, in anasarca - cioè gonfio a causa di un edema - con una frattura patologica al femore, dovuta alla metastasi. Gli somministrai un calmante: la dipirona». Poi, dice di aver finito il turno alle 19:45, sostituito dal dottor Price, che in serata lo informò del decesso. Secondo la polizia, però, nessun Price è mai stato iscritto alle facoltà di medicina, né all’Albo dei medici. Quindi, se non esiste, il dottor Draper sarebbe l’assassino? I legali dell’accusa ne sono quasi convinti. Ma perchè aspettare? «Perché l’autista ha parlato solo ora», rispondono. Perché? «Non sapevo a chi rivolgermi», dice. «In Cile non si poteva parlare», lo difendono gli avvocati, ricordando che l’iniezione letale era un metodo abituale con cui il regime eliminava gli avversari. «L’ex presidente Frei fu ucciso così». Era l’82, anche lui morì al Santa Maria, di turno c’era il Draper.

La Stampa 13.4.13
Qualunque sia la verità resta l’icona
di Mario Baudino


Dopo la sua morte il Cile scese in piazza, e fu la prima manifestazione contro il generale Pinochet, proprio mentre si avviava una spaventosa repressione. Non era solo questione di un poeta amatissimo, terzo Nobel sudamericano, nel 1971, dopo Gabriela Mistral e Miguel Asturias, ma di un simbolo. Neruda, nel volgere di poche ore, era passato dal ruolo di personaggio pubblico universalmente noto e anche discusso, per le sue posizioni sempre molto vicine alla interpretazione sovietica della parola comunismo, a quello di icona universale della lotta per la libertà e la democrazia.
Si chiudeva un cerchio del sanguinoso «secolo breve». Il poeta cileno aveva trovato la sua vera voce negli Anni 30 dedicando al grande amico Federico García Lorca (il cui assassinio definì sempre «uno dei delitti più imperdonabili del franchismo») una poesia che ha fatto il giro del mondo, e sembrava presagirne la tragica fine: «Se potessi piangere di paura in una casa abbandonata, / se potessi cavarmi gli occhi e mangiarmeli, / lo farei per la tua voce di arancio in lutto/ e per la tua poesia che vien fuori gridando». Quarant’anni dopo lo aspettava, dopo una vita di battaglie, di cariche pubbliche, di esili, di ritorni, la stessa sorte.
Allora non si parlò esplicitamente di omicidio; in quella situazione si sapeva troppo poco, indagare era molto difficile: ma la stretta connessione degli eventi (Pablo Neruda morì il 23 settembre 1973, 12 giorni dopo il golpe che aveva rovesciato il presidente eletto, Salvador Allende) non lasciava dubbi sul significato storico e umano della vicenda. La malattia, se c’era, aveva svolto un ruolo strumentale, di tramite. La responsabilità morale era comunque da ascrivere a quella destra bigotta e feroce, erede in linea diretta del fascismo europeo, che aveva rovesciato le istituzioni.
Non moriva un poeta disarmato, ma un leader cultuale influente sia dal punto di vista politico sia da quello ideale, che nel ‘70 già era stato candidato alla presidenza cilena, per ritirarsi poi e appoggiare senza riserve Allende. Neruda in quel momento era l’ultimo combattente di una guerra interminabile iniziata nel ‘36, in Spagna. La verità processuale completerà il quadro di quella storica, acquisita ormai da tempo; ma senza cambiarla nella sostanza.

il Fatto 13.4.13
Gli introvabili
Il ruolo di Togliatti nei crimini di Stalin
di Fabrizio d’Esposito


LA STORIA della Seconda Repubblica ha dimostrato che il togliattismo è un carattere eterno della politica italiana. Non solo per la famigerata doppiezza. Più volte Giorgio Napolitano, da capo dello Stato, è stato definito l'ultimo degli homines togliattiani per il metodo seguito nel suo settennato al Quirinale: realismo, ricerca del compromesso e delle larghe intese, un po' di cinismo. Per lanciare la candidatura di Violante al Colle, il berlusconiano Cicchitto ha citato Togliatti: per B., l’ex “piccolo Vishinsky” può essere l’uomo giusto per una nuova pacificazione nazionale.
Eppure sul mito del “Migliore” grava ancora oggi un clima da rimozione storica, soprattutto a sinistra. E pensare che il primo libro sui buchi neri (e sanguinosi) del togliattismo uscì già nel 1964, che è anche l’anno in cui morì il compagno segretario generale del Pci: Togliatti 1937. Come scomparvero i dirigenti comunisti europei (Rizzoli).
Lo scrisse Renato Mieli, fondatore dell’Ansa, direttore dell’edizione milanese dell’Unità nel biennio ‘47-‘48 nonché padre di Paolo. Con stile asciutto emerse per la prima volta la tremenda complicità del “Migliore” nei crimini di Stalin. Ritenuto scomodo, il volume sparì presto dalla circolazione. Nel 2008, l’ex storico segretario del “Migliore”, Massimo Caprara, rivelò che fu quel libro a causare il suo ripudio del comunismo. Togliatti 1937: tuttora introvabile.

Corriere 13.4.13
«Io e l'incubo del rogo»
Il superstite di Primavalle «Cerco la ex di Virgilio»
Sulle tracce dei ricordi dei fratelli morti
di Aldo Cazzullo


«Io mi sono salvato perché ero il più piccolo. Avevo 4 anni e dormivo qui, in camera da letto, con mamma e papà, insieme con la più piccola tra le mie sorelle, Antonella, che di anni ne aveva nove. I nostri genitori ci hanno trascinato di peso verso la porta e giù per le scale. Le due sorelle più grandi, Silvia di 18 anni e Lucia di 14, dormivano là, nel tinello, e si sono calate dal balcone».

Silvia è caduta, si è rotta due vertebre e tre costole, ma si è salvata. Virgilio, il più grande — avrebbe compiuto 22 anni ad agosto — e Stefano, che ne aveva compiuti dieci a febbraio, dormivano laggiù in fondo, nella cameretta. Sono morti bruciati vivi. E non hanno mai avuto giustizia. Prima sono state vittime di una vergognosa campagna di bugie e mistificazioni orchestrata dalla sinistra. Poi sono stati strumentalizzati dalla destra per far sopravvivere una liturgia ideologica. Io mi batto perché i loro assassini paghino. E perché la loro memoria resti viva senza bisogno di essere mitizzata o usata».
Giampaolo Mattei è un grand'uomo. E non solo perché è alto, grosso, mite. Perché è riuscito a crescere senza odio, nonostante la sua famiglia sia stata vittima di una delle vicende più turpi della storia repubblicana. Nel pavimento della sede della sua associazione, in una viuzza di periferia in riva al Tevere, ha riprodotto la pianta della casa di Primavalle, incendiata con la benzina la notte del 16 aprile 1973, quarant'anni fa, da almeno tre militanti di Potere operaio: Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo. Ma la mistificazione comincia già sui quotidiani del giorno dopo, che il superstite dei fratelli Mattei ha ritagliato ed esporrà nella mostra sugli anni di piombo a Roma, che sta contribuendo a organizzare. Ci saranno anche le foto dei suoi fratelli. Virgilio ragazzo, che sorride accanto alla sua fidanzata Rosalba. Stefano bambino, nudo sul lettone.
«Non ci sarà la foto di Virgilio affacciato alla finestra, già sfigurato dal fuoco. Lo so che è considerata il simbolo della tragedia. Ma è una foto che per la mia famiglia non esiste: abbiamo conservato le pagine dei vari giornali, e hanno tutte un buco in mezzo. Le mie sorelle ogni volta ritagliavano la foto e la gettavano via, per impedire che nostra madre la vedesse. Quando l'immagine appariva ai telegiornali, uno di noi si alzava e si metteva tra la mamma e il video. Un giorno l'Msi romano tappezzò la città con quella foto. Mio padre chiamò un dirigente per lamentarsi: i manifesti furono tolti. È l'unica volta che l'ho sentito parlare del rogo in cui morirono i suoi figli. Se n'è andato dodici anni fa, senza aggiungere altro».
«Guardi, questi sono i titoli dei quotidiani del giorno dopo. Lotta continua: "La provocazione fascista oltre ogni limite arriva al punto di uccidere i suoi stessi figli". Il Manifesto: "È un delitto nazista". L'inchiesta coinvolse Diana Perrone, figlia di uno dei proprietari del Messaggero, che fece una campagna innocentista, culminata con il titolo a tutta pagina: "Assolti! La vergognosa montatura fascista è crollata...". Gli intellettuali di sinistra si mobilitarono. Franca Rame scrisse a Lollo: "Ho provato dolore e umiliazione nel vedere gente che mente senza rispetto nemmeno dei propri morti...". Le vittime erano diventate carnefici. Quando Clavo e Grillo furono fermati in Svezia, Alberto Moravia lanciò un appello perché fossero accolti come esuli politici e non venissero estradati. Umberto Terracini li difese. Riccardo Lombardi scrisse: "Caro compagno Lollo, voglio incoraggiarti a resistere alla persecuzione..."».
In Appello i tre furono condannati per omicidio preterintenzionale, ma in contumacia. Solo nel 2003, a reato prescritto, Lollo confessò tutto in un'intervista al Corriere della Sera, poi confermata a Porta a Porta, chiamando in causa altri tre militanti. «Mi risulta che ora la Procura abbia riaperto l'inchiesta. Spero ancora che si arrivi a punire i responsabili. Nessuno tocchi Caino, d'accordo. Ma ad Abele chi pensa? Lollo oggi è un uomo libero, forse sta in Brasile. Clavo e Grillo fuggirono in Nicaragua, non hanno fatto neppure un giorno di carcere. Non li odio, ma ho dentro tanta rabbia. Quante menzogne, quante prese in giro. Guardi questo libro, non firmato: "Incendio a porte chiuse". Montarono la tesi della faida tra missini. Tirarono fuori persino presunte amanti di mio padre, per istillare il dubbio della vendetta passionale...».
«È vero che il clima all'interno del Msi era pesante: mio padre stava con Almirante, talora lo scortava, era contro Ordine nuovo e i rautiani. Ma il pericolo veniva dagli estremisti di sinistra. La sezione di cui mio padre era segretario era intitolata a Giarabub, l'oasi del deserto libico dove gli italiani avevano resistito agli inglesi. Anche papà aveva fatto la guerra, gli americani lo presero prigioniero ad Anzio e lo tennero due anni nel Fascist criminal camp di Hereford, in Texas, con Alberto Burri, Gaetano Tumiati, Giuseppe Berto. In un quartiere rosso come Primavalle, la sezione del Msi era il bersaglio. Il clima dei mesi precedenti al rogo era terribile: quasi ogni giorno una molotov, un'aggressione. Ma pareva impossibile che si arrivasse a uccidere».
«Almirante per noi era una persona di famiglia. Ai suoi comizi veniva sempre il momento in cui citava i fratelli Mattei. I militanti ci baciavano e ci abbracciavano. Io volevo saperne di più, di notte fingevo di dormire e scendevo in cantina a leggere i ritagli, quelli con il buco al posto della foto. Donna Assunta venne al mio matrimonio. Ma poco per volta siamo stati dimenticati. Fini, Gasparri, i capi della destra romana non si sono mai fatti vivi. Da quando è diventato sindaco sento Alemanno. Anche la Meloni ci ha aiutati. Veltroni ha avuto coraggio, è venuto a trovare mia madre senza telecamere, ci ha fatto incontrare i familiari dei morti di sinistra, ho abbracciato la mamma di Valerio Verbano, il padre di Walter Rossi. I militanti di estrema destra non me l'hanno perdonato. Ho ricevuto insulti, minacce. Ma io non voglio che i miei fratelli diventino pretesto per manifestazioni di revanscismo fascista e scontri con i centri sociali. I miei fratelli voglio ricordarmeli vivi. Quando nel 2008 ho scritto un libro, "La notte brucia ancora", sulla copertina ho messo una loro foto al mare, in costume da bagno, felici. Mi piacerebbe tanto ritrovare Rosalba, la fidanzata di Virgilio, perché mi parli un po' di lui. So che era romanista perché sulle bare misero il tricolore e il gagliardetto giallorosso, che però si sono polverizzati quando abbiamo tolto i miei fratelli dal loculo per seppellirli nella cappella che papà aveva preso al Verano. Con le famiglie delle altre vittime non è una pacificazione; io non ho litigato con nessuno. Preferisco parlare di condivisione. Mettiamo in comune la rabbia e il dolore, la difesa della verità e della memoria».
Aldo Cazzullo

l’Unità 13.4.13
Tra sacro e profano
Paolucci: «Alla Biennale d’arte di Venezia portiamo valori cristiani ma senza dogmi»
Il direttore dei Musei vaticani:
«Vogliamo tornare protagonisti nel dibattito artistico moderno com’era nel ’500

Per secoli la Chiesa è andata da una parte, la cultura figurativa dall’altra
Quel rapporto va ricucito. E un grande artista può anche essere non credente»
intervista di Stefano Miliani


CON OLTRE CINQUE MILIONI VISITATORI NEL 2012 I MUSEI VATICANI RESTANO UNA DELLE RACCOLTE D’ARTE PIÙ AMATE NEL MONDO. Logico, hanno capolavori incomparabili dagli antichi egizi al Laooconte, da Raffaello a Michelangelo. E proprio dai due maestri del Rinascimento inizia questa conversazione con il direttore delle raccolte del Papa, Antonio Paolucci, in vista del debutto del Vaticano con un suo Padiglione alla Biennale di Venezia (1° giugno-24 novembre 2013). Storico dell’arte nato a Rimini, affabulatore sopraffino, già soprintendente di Firenze, già ministro per i Beni culturali, Paolucci non svela i nomi degli artisti prescelti, ma segnala che con questo passo la Chiesa cattolica vuole ricucire un divorzio con le arti consumato almeno due secoli fa, che vuole inserirsi appieno nella modernità artistica e culturale sulla scia di un processo avviato da Paolo VI quarant’anni fa.
Partiamo da un dato: nel 1508 Giulio II affidava al giovanissimo Raffaello gli affreschi per le sue Stanze mentre, pochi metri più in là, l’ancora giovane Buonarroti iniziava a dipingere la volta della Cappella Sistina. Allora la Chiesa chiamava non solo il meglio ma anche le punte più avanzate dell’arte.
«Raffaello aveva 25 anni e il Papa gli commissionò le pareti del suo appartamento privato. Poco più in là a un giovane uomo di 33 anni disse: “Tu mi farai la volta della Sistina” e lui, lavorando come un matto dal 1508 al 1512, dipinse 1.080 metri quadri. Giulio II inaugurò l’opera di Michelangelo il 31 ottobre 1512, poi morirà quattro mesi dopo. Questi sono i termini: a un ragazzo di 25 anni e a un giovane uomo di 33 furono affidati capolavori della storia dell’arte universale. Però il Buonarroti aveva già una fama internazionale: nel 1504 aveva già alzato il David in piazza Signoria a Firenze e scolpito la Pietà poi collocata in San Pietro». Con il Padiglione alla Biennale il Vaticano vuol tornare a parlare il linguaggio dell’arte dei nostri tempi? Scegliendo quali artisti?
«Diremo gli autori in una presentazione ufficiale, non ora. A Venezia il Vaticano intende ricucire il divorzio tra i valori cristiani e le arti, un rapporto che è stato glorioso, ricco di capolavori, ma che poi si è interrotto con l’illuminismo e con l’inizio della modernità».
Appunto, la separazione c’è stata ed è stata netta.
«Dopo incomprensioni e divorzi, quando la Chiesa andava per la sua strada e la cultura figurativa per un’altra, nel ’900 un grande intellettuale come Giovanni Battista Montini, vale a dire Paolo VI, ha tentato di ricomporre questa scissione. Nel giugno del 1973, in una data fondamentale per le arti, inaugurava il nuovo dipartimento dell’arte religiosa moderna dei Musei vaticani con opere di Van Gogh, Morandi, Chagall, Bacon, Moore e Burri raccolte nello stesso tetto di Michelangelo e Raffaello».
Chi da tempo spinge per un approccio nuovo, non didascalico, tra religione e arti è il Cardinal Ravasi.
«Sì, è la punta di lancia di questo processo di riconciliazione che Monsignor Ravasi conduce su un piano anche laico e filosofico con il luogo di confronto del “Cortile dei gentili” (www.cortiledeigentili.com, ndr) e con la Biennale.». Esistono artisti che, senza essere credenti o cristiani, si occupano del sacro. Viene da citare, ad esempio, l’americano Bill Viola.
«Sì, Bill Viola oppure il pittore italiano Guccione. Voglio però ricordare che l’iniziatore è stato Paolo VI che ne ha scritto anche prima di diventare Papa. Negli anni ’30 e ’40 dice che bisogna distinguere fra arte e arte religiosa: quella religiosa rappresenta i dogmi, le verità, gli insegnamenti della Chiesa ma l’arte prescinde da una connotazione confessionale precisa. E tutte le volte che un artista, indipendentemente dalla sua appartenenza religiosa, che sia ateo, agnostico, cattolico o musulmano, ogni volta che un uomo si interroga sui grandi misteri della vita e sul destino di tutti di fronte alla morte, alla maternità, all’amicizia, agli affetti, ogni volta – scrive Paolo VI – che un artista, un musicista o un poeta si pone queste domande, allora fa arte “sacra” fra virgolette. È da questo principio che poteva iniziare il dialogo della Chiesa con gli artisti: se diceva loro di raffigurare la Madonna non ci sarebbe stata una risposta».
La Biennale è una finestra sul mondo: quale messaggio vuole inviare il Vaticano?
«Che vuole essere protagonista nel dibattito artistico del presente. Non è la prima volta che accade, anche se pochi lo ricordano: nella grande esposizione universale del 1937 oltre al padiglione spagnolo con “Guernica” di Picasso c’era una sezione di arte religiosa voluta dal Papa, Pio XI. Ora, grazie a Paolo VI prima, poi Benedetto XVI da intellettuale qual è, e Monsignor Ravasi, il tema conosce un’accelerazione importante».
Dovrete affrontare reazioni, critiche.
«L’augurio di Ravasi e mio è che, con tutti i dissensi e le critiche, venga avvertita la presenza cristiana: al tavolo delle arti del XXI secolo la Chiesa vuole aggregare stimoli e idee. Lo considero il segmento di un lungo processo: prima di arrivare a una riconciliazione potranno servire generazioni, è un progetto ambizioso e perfino temerario, ma bisognava cominciare».
Papa Francesco cosa ne pensa?
«Non so quali siano suoi interessi artistici, presumo ne abbia: viene dal Sud America, un continente ricco di grandi artisti».

Io Donna del Corsera 13.4.13
Alla ricerca dell’identità perduta
Scusa papà, ma dove sei finito?
“Negli ultimi quarant’anni ci si è spesi con ogni mezzo per definire superflua la figura paterna. E questo indebolimento è alla base della nostra società”
dice Claudio Risè, che al tema ha dedicato un libro
E qui indica la strada per un nuovo equilibrio
di Angela Frenda

qui

l’Unità 13.4.13
Il disagio giovanile si cura con la famiglia
L’unione tra genitori e psicoanalisti come forma di intervento per affrontare i problemi degli adolescenti
Oggi il centro milanese di Psicoanalisi Musatti terrà un convegno su queste tematiche
di Alessandra Zanelli Quarantini

psicoanalista e membro Spi

L’OSSERVATORIO DEL BAMBINO E DELL’ADOLESCENTE DEL CENTRO MILANESE DI PSICOANALISI «CESARE MUSATTI» (SPI SOCIETÀ PSICOANALITICA ITALIANA) promuove oggi a Milano il convegno «Psicoanalisti e genitori, come lavorare insieme» (presso l’Istituto Salesiano dalle 9 alle 17, ingresso libero). Il focus è sul lavoro con i genitori di bambini e adolescenti psichicamente sofferenti, in particolare di patologie gravi quali disturbi alimentari, chiusure narcisistiche, ritiri sociali, condotte autolesioniste e depressioni. Nel corso degli ultimi anni si è dato sempre più valore e attenzione ai genitori, nel percorso di cura di un bambino o di un adolescente in difficoltà. Ormai il solo lavoro clinico con il giovane paziente non è sufficientea garantirgli evoluzione e crescita, è necessario prendersi cura anche del disagio dei suoi genitori e della famiglia.
Tuttavia le strategie del lavoro clinico con i genitori sono spesso complesse e possono orientarsi verso interventi "di sostegno" alla coppia genitoriale senza ottenere reali modificazioni nelle relazioni profonde del gruppo famiglia. Altre volte si può rischiare di spiegare ai genitori come sono i loro figli o come devono modificare i reciproci rapporti, ma spesso questi interventi lasciano comunque soli i genitori, molte volte in balia di sentimenti di colpevolezza, di incapacità e di impotenza. Altre volte alcuni genitori sfuggono ad un coinvolgimento, spaventati di dover affrontare aree "buie" della loro persona, della loro relazione di coppia e della loro esperienza di figli. Occorre quindi elaborare una teoria della tecnica psicoanalitica che comporti lo sviluppo di una o più metodologie rigorose dove i genitori saranno i nostri primi alleati nel non facile progetto di aiutare un bambino o un ragazzo a ristabilire il suo percorso di crescita e di salute.
Dall’esperienza degli psicoanalisti dell’Osservatorio risulta che sono in aumento i ritiri scolastici a fronte di patologie depressive, sindromi ansiose e di chiusure relazionali dirette. Sono complici le pseudo relazioni fatte via internet (messaggistica, chat, facebook, etc) che riparano l’adolescente perché ammorbidiscono e limitano confronti, scontri, rivalità, misurazioni tra coetanei. I contatti di questo tipo permettono di costruirsi un’immagine di sè meno svilita o a rischio di frustrazioni rispetto alle relazioni dirette.
Si stima che il fenomeno sia in crescita in Italia, con una precisa diversità – a mio parere con la sindrome hikikomori giapponese. In Giappone il ritiro è nella propria stanza da letto da cui non si esce mai, in Italia è nella casa con una occupazione di tutti gli spazi, tanto che tutta la famiglia è spettatrice, spesso impotente, della passività del figlio. Questo crea corti circuiti di rabbie reciproche spesso esplosive. Normalmente si avvia con il ritiro scolastico (con motivazioni di disagio, incapacità, cattive relazioni con i compagni, i professori etc), poi man mano si espande alle altre attività e può portare alla completa chiusura.
Può capitare inoltre che vengano riferiti motivi psicosomatici che inducono alla chiusura (cefalee, sindromi vertiginose, dolori addominali, più raramente continua e dolorosa minzione) e in questo caso gli interventi possono essere all’inizio drastici (un ricovero ospedaliero) per interrompere il corto circuito, poi è particolarmente necessario, oltre alla terapia sul ragazzo, un intervento sulla coppia genitoriale che inconsciamente collude con il ritiro e con la dipendenza del figlio.

Corriere 13.4.13
Adolescenti e ricerca di sé Il diario è meglio di Facebook
di Silvia Vegetti Finzi


Commenta Anna Frank nel 1942, dal rifugio clandestino in cui vive per sfuggire alle persecuzioni naziste contro gli ebrei: «…Per una come me, scrivere un diario fa un curioso effetto. Non soltanto perché non ho mai scritto, ma perché mi sembra che più tardi né io né altri potremo trovare interessanti gli sfoghi di una scolaretta di tredici anni. Però, a dire il vero, non è di questo che si tratta; a me piace scrivere e soprattutto aprire il mio cuore su ogni sorta di cose, a fondo e completamente». Quel diario non solo le permetterà di emergere dalle strettoie di una convivenza forzata ma anni dopo, tradotto in quasi tutte le lingue, sarà inserito dall'Unesco nelle Memorie del mondo. Poche ragazzine aspirano a tanto ma il diario rimane ancora oggi la più diffusa forma di scrittura femminile e adolescenziale. Tenere un diario, per lo più scritto a mano, in bella calligrafia e con una ricerca di stile, è una scelta controcorrente nell'epoca del Web, quando si digita per impulso, senza riflettere, senza selezionare. Premendo rapidamente i pulsanti, i ragazzi cercano di sincronizzare i battiti del cuore con quelli del telefonino, di trasmettere le emozioni nel momento stesso in cui le provano. La scrittura tradizionale richiede invece di attendere il tempo e il luogo più opportuni, sottraendosi alla fretta di concludere, alla tentazione di restare perennemente connessi per sfuggire alla solitudine.
Il diario costituisce un appuntamento con sé, un incontro programmato con la propria intimità. Spesso, sigillato da un lucchetto più simbolico che reale, pretende il segreto. Anche se «casualmente» viene dimenticato in modo che la mamma lo possa leggere, altrettanto casualmente. Ma non è lei l'interlocutore privilegiato, chi scrive, anche quando evoca un corrispondente immaginario, si rivolge a se stesso nell'intento di scandagliare le parti in ombra della sua personalità e di fissare le ambivalenze e le intermittenze dei sentimenti. Le pagine del diario sono uno schermo su cui l'adolescente delinea la propria identità in modo creativo e personale, sottraendola alle attese degli altri e agli stereotipi della cultura. In esse palpitano amori immaginari e fantasie erotiche che si confidano solo all'amica del cuore, ma anche spirazioni e i desideri che orientano il futuro. Mentre le comunicazioni digitali si disperdono nella nebulosa mobile e illimitata di una fantasia collettiva, il diario conserva, nella forma autobiografica, l'unicità e la continuità della propria storia.
Durante l'adolescenza, nonostante una progressiva omologazione, i maschi s'impegnano soprattutto nella conquista del mondo esterno, le femmine nell'esplorazione del mondo interno, nella forma romantica dell'introspezione e del sogno d'amore. Prende così forma l'autobiografia, intesa come racconto congiunto dei fatti e delle emozioni, come nucleo stabile di una identità sempre più frammentata nella pluralità dell'Io e nella fragilità delle relazioni. La scrittura periodica del diario consente all'adolescente di operare un distacco critico dalla famiglia senza esasperare i conflitti, senza provocare dolorose lacerazioni. Le immagini dei genitori, mediate dalla scrittura, si allontano e si ridimensionano pur restando insostituibili figure di riferimento, mentre il dolore di vivere si stempera in una narrazione che protegge e cura. Molti anni dopo sarà possibile riconoscere, in quell'opera letteraria in miniatura, il filo rosso della propria vita, quello che ci ha aiutato a diventare al tempo stesso autrici e protagoniste della nostra storia. Per molte donne e per tante «piccole donne» il diario rappresenta quella «stanza tutta per sé» in cui Virginia Woolf riconosceva l'ambito di una fragile libertà femminile da proteggere e conservare. Ma la scrittura autobiografica, non è solo una faccenda di donne, serve anche agli uomini per ritrovare ed esprimere la parte femminile di sé. Per la sua capacità evolutiva andrebbe incentivata nella scuola senza scindere, come spesso accade, l'allievo dall'adolescente, la ricerca di sé dall'apprendimento, l'introspezione dalla conoscenza obiettiva. Il compito di disegnare la propria identità è fondamentale perché dà senso a ciò che chiediamo ai ragazzi e significato ai loro inquieti processi creativi. Accompagnandoli in questa impresa, gli educatori stabiliscono con loro una alleanza che dura nel tempo e che offre , al diventare adulti, un orizzonte possibile e desiderabile.

Corriere 13.4.13
Genitori in cerca di autorità,  ora ci provano con Machiavelli
di Monica Ricci Sargentini


Una cosa è certa: quello del genitore è un mestiere sempre più arduo. Lo constatiamo ogni giorno quando incontriamo nei luoghi pubblici tanti, troppi, bambini capricciosi e piagnoni. E così sempre più spesso salta fuori una nuova ricetta per mettere ordine nel caos e riportare alla ragione le piccole pesti. Qualche anno dopo il successo della mamma tigre di Amy Chua, ecco un nuovo libro destinato a far discutere: Machiavelli per mamme, massime su un efficace governo dei figli. L'autrice è Suzanne Evans, ex avvocato e giornalista finanziaria americana che, al secondo matrimonio, si trova a gestire quattro bambini al di sotto degli otto anni, di cui due figli delle precedenti unioni, senza riuscire a venirne a capo. Finché un giorno, al colmo dell'esasperazione, non si imbatte in una copia de Il Principe e scopre che con un combinato di astuzia, coercizione e autorità i suoi problemi sono risolti. La massima del grande scrittore fiorentino «Non esiste cosa che consumi se stessa quanto la liberalità, cioè a dire, a mano a mano che viene usata fa perdere la facoltà di usarla, conducendo alla povertà» viene tradotta da Evans in un invito a non dare ai figli tutto quello che vogliono ma a lasciare che si conquistino le cose con fatica e capendo quanto valgono. Un consiglio che i nostri nonni, generazione pre-sessantotto, mettevano in pratica senza bisogno di leggere alcun manuale. Lo stesso discorso vale per le considerazioni di Machiavelli sull'astuzia e la compassione.
La verità è che molti genitori hanno perso potere e autorità. Abbiamo talmente criticato l'educazione repressiva di un tempo che siamo diventati noi dei bambinoni apprensivi e comprensivi, pronti a tutto pur di compiacere il pargolo. Come facciamo a insegnare loro il rispetto delle regole se noi stessi le rifiutiamo? Se mettiamo in discussione l'autorità dei professori pur di difendere la nostra progenie? Disciplina non è una parolaccia. I limiti, prendiamone atto, servono a crescere bene. Una mamma chiede alla figlia perché a scuola si comporta bene e a casa no. E la figlia risponde: perché in classe non si possono fare i capricci. Chiaro e semplice.

Corriere 13.4.13
Anelli alle caviglie e bastoni sulle porte. Le usanze amorose viste da Erodoto
di Eva Cantarella


Fu il primo storico greco, Erodoto: il padre della storia. Ma fu anche — possiamo ben dirlo — il primo etnografo occidentale: grande viaggiatore, ed estremamente curioso delle culture diverse dalla sua, Erodoto descrive usi e costumi di popolazioni che, ai greci, dovevano apparire una sorta di rappresentazione del mondo alla rovescia. Soprattutto in materia sessuale: i Massageti, ad esempio, racconta nel descrivere le usanze dei popoli stanziati sulle coste orientali del Mediterraneo, pur essendo monogami usavano promiscuamente le mogli altrui. I Nasamoni, non contenti di vivere in un regime di totale promiscuità, usavano addirittura rendere pubblici i loro rapporti piantando un bastone innanzi alla casa delle donne con le quali si erano uniti. Non meno promiscui gli Agatirsi, gli Ausei e i Macli, i quali, quando un bambino raggiungeva i tre anni, decidevano chi era il padre sulla base della rassomiglianza. Per non parlare dei Gindani, le cui donne mettevano alla caviglia un anello per ogni uomo col quale si accoppiavano, e godevano di un prestigio tanto maggiore quanto più alto era il numero degli anelli. Per i Greci, c'era di che restare sbalorditi. I mondi che Erodoto descriveva erano ispirati a valori radicalmente opposti ai loro: il relativismo culturale non è certo un fenomeno di oggi.

Io Donna del Corsera 13.4.13
Teresa Mattei
Gli studi di filosofia e l’esperienza partigiana
Poi l’impegno politico (era una delle “madri” della Costituzione)
e l’idea di scegliere la mimosa come fiore-simbolo per le donne
di Lucrezia e Giorgio Dell’Arti

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Repubblica 13.4.13
L’insostenibile bellezza del Processo di Kafka
di Milan Kundera

Non dice una parola sull´aspetto fisico del protagonista, K. né sulla sua vita prima delle vicende narrate
Una combinazione unica di comicità e tristezza, gravità e leggerezza senso e non senso
Un testo dello scrittore boemo in esclusiva per "Repubblica"

Si sono scritte un numero infinito di pagine su Franz Kafka, eppure è rimasto (forse proprio grazie a questo numero infinito di pagine) il meno compreso di tutti i grandi scrittori del secolo scorso. Il processo, il suo romanzo più noto, cominciò a scriverlo nel 1914, esattamente dieci anni prima che uscisse il primo Manifesto dei Surrealisti, i quali non avevano la più pallida idea dell´immaginazione «sur-realista» di un Kafka, autore sconosciuto e i cui romanzi sarebbero stati pubblicati molto tempo dopo la sua morte. È perciò del tutto comprensibile che questi romanzi che non assomigliavano a nulla siano apparsi estranei al calendario della storia letteraria, nascosti in un luogo che apparteneva soltanto al loro autore. Eppure, malgrado l´isolamento, le loro anticipazioni estetiche rappresentavano un evento che non poteva non influenzare (anche se a scoppio ritardato) la storia del romanzo. «È Kafka che mi ha fatto capire che un romanzo si poteva scrivere in un altro modo», mi ha detto una volta Gabriel García Márquez.
Si sono scritte un numero infinito di pagine su Franz Kafka, eppure è rimasto (forse proprio grazie a questo numero infinito di pagine) il meno compreso di tutti i grandi scrittori del secolo scorso. Il processo, il suo romanzo più noto, cominciò a scriverlo nel 1914, esattamente dieci anni prima che uscisse il primo Manifesto dei Surrealisti, i quali non avevano la più pallida idea dell´immaginazione «sur-realista» di un Kafka, autore sconosciuto e i cui romanzi sarebbero stati pubblicati molto tempo dopo la sua morte. È perciò del tutto comprensibile che questi romanzi che non assomigliavano a nulla siano apparsi estranei al calendario della storia letteraria, nascosti in un luogo che apparteneva soltanto al loro autore. Eppure, malgrado l´isolamento, le loro anticipazioni estetiche rappresentavano un evento che non poteva non influenzare (anche se a scoppio ritardato) la storia del romanzo. «È Kafka che mi ha fatto capire che un romanzo si poteva scrivere in un altro modo», mi ha detto una volta Gabriel García Márquez.
Kafka, come si può vedere chiaramente nel Processo, analizza i protagonisti dei suoi romanzi in maniera del tutto particolare: non dice una parola sull´aspetto fisico di K. né sulla sua vita prima dei fatti narrati nel romanzo; anche del suo nome ci permette di conoscerne soltanto una lettera. Invece, dal primo paragrafo alla fine del libro, si concentra sulla situazione del personaggio, sulla situazione della sua esistenza.
Il Processo esplora la situazione di colui che è accusato. All´inizio tale accusa si presenta in modo piuttosto divertente: un mattino due signori del tutto ordinari giungono a casa di K., che è ancora a letto, per informarlo, nel corso di una piacevole conversazione, che è accusato e che l´esame del suo caso andrà per le lunghe. La conversazione è tanto assurda quanto comica. Del resto, quando Kafka lesse per la prima volta questo capitolo ai suoi amici, tutti si misero a ridere.
Delitto e castigo? Ah no, queste due nozioni dostoevskijane non c´entrano assolutamente nulla. Ciononostante reggimenti di kafkologi le hanno considerate come i temi principali del Processo. Max Brod, il fedele amico di Kafka, non ha il minimo dubbio che K. nasconda una grave colpa: secondo lui K. è colpevole di "Lieblosigkeit" (incapacità di amare); allo stesso modo Eduard Goldstücker, un altro celebre kafkologo, pensa che K. sia colpevole «perché ha lasciato che la sua vita si trasformasse in quella di una macchina, di un automa, di un alienato» e così facendo ha trasgredito «la legge alla quale tutta l´umanità deve sottomettersi e che recita: sii umano». Ma ancora più frequente (e io direi ancora più stupida) è l´interpretazione contraria che, per così dire, orwelizza Kafka: secondo tale lettura K. è perseguitato dai criminali di un potere "totalitario" ante litteram, com´è il caso, ad esempio, del celebre adattamento cinematografico del romanzo realizzato nel 1962 da Orson Welles.
Ora, K. non è innocente né colpevole. Egli è un uomo colpevolizzato, cosa del tutto diversa. Sfoglio il dizionario: il verbo colpevolizzare è stato usato in Francia per la prima volta nel 1946 e il sostantivo colpevolizzazione ancora più tardi, nel 1968. La nascita tardiva di queste parole prova che non erano banali: ci facevano capire che ogni uomo (se posso io stesso giocare con i neologismi) è colpevolizzabile; che la colpevolizzabilità fa parte della condizione umana. La colpevolizzabilità è sempre fra noi, sia quando la nostra bontà teme di ferire i deboli, sia quando la nostra viltà ha paura di offendere quelli più forti di noi.
Kafka non ha mai formulato riflessioni astratte sui problemi della vita umana; non amava inventare teorie; atteggiarsi a filosofo; non assomigliava né a Sartre né a Camus; le sue osservazioni sulla vita si trasformavano immediatamente in fantasia; in poesia - la poesia della prosa.
Un giorno K. è invitato (da una voce anonima, per telefono) a presentarsi la domenica successiva in una casa di periferia per partecipare a una breve inchiesta che lo riguarda. Per non complicare e tanto meno prolungare il processo, decide di ottemperare all´invito. Dunque ci va. Sebbene non sia stato convocato a una ora precisa, si affretta. All´inizio vuole prendere un tramvai. Poi si rifiuta per non umiliarsi, grazie a una puntualità troppo docile, davanti ai suoi giudici. Tuttavia non desidera prolungare lo svolgimento del processo e perciò si mette a correre; sì, corre (nell´originale tedesco la parola "correre", "laufen" si ripete tre volte nello stesso paragrafo); corre perché vuole salvare la sua dignità e, allo stesso tempo, per non arrivare in ritardo a un appuntamento la cui ora resta sconosciuta.
Tale combinazione di gravità e leggerezza, di comicità e tristezza, di senso e non senso, accompagna tutto il romanzo fino all´esecuzione di K. e fa nascere una bellezza strana e incomparabile; mi piacerebbe definire questa bellezza, ma so che non ci riuscirò mai.
- (traduzione di Massimo Rizzante)