sabato 7 febbraio 2009

Assalto al Quirinale
Berlusconi usa Eluana
per muovere un attacco
senza precedenti
Avanti Presidente!

Attacco allo Stato
di Concita De Gregorio

Eluana non c’entra. Questo pregio almeno ha avuto la terribile giornata di ieri. Sgombrare il campo da un residuo per quanto improbabile dubbio: che fosse un’umana convinzione o una fede a guidare l’azione del presidente del Consiglio. Non è così. È convenienza. È una spaventosa battaglia di potere che viene giocata sulla carne di una donna in coma. Eluana è un pretesto. È doloroso, quasi impossibile dirlo. Eppure è così. Eluana non c’entra.
Silvio Berlusconi ha sferrato ieri un definitivo assalto al Quirinale, ha aggredito la più alta delle istituzioni repubblicane, ha minacciato di cambiare la Costituzione se essa sarà di ostacolo alla sua volontà, ne ha additato il custode, Giorgio Napolitano, come si fa col responsabile di un delitto. E ha commesso la più ignobile delle mistificazioni: usare la sofferenza di una persona e di una famiglia come leva emotiva e demagogica per attaccare la più alta carica del Paese e scardinare le regole di uno Stato di diritto: ignorarle, irriderle. Ha trattato come strumenti del suo potere il Vaticano, il governo, il Parlamento. Ha cacciato via con un colpo di mano mesi e mesi di calvario trascorsi da una famiglia tra appelli e ricorsi ad aspettare la decisione definitiva della giustizia. La giustizia ha parlato, ma più forte parla lui. E se qualcuno si oppone, via con un gesto del braccio anche costui, chiunque egli sia.
Non è l’ansia di popolarità che sempre lo guida attraverso il suo strumento-feticcio, i sondaggi, questa volta a muoverlo. I sondaggi dicono: pace per Eluana, rispetto. La maggior parte degli italiani è con Beppino Englaro e condivide la sua pena. La partita è un’altra, molto più grande e decisiva: il potere che lo aspetta, le regole del gioco da scrivere o da riscrivere, la posta in palio il Quirinale. Con qualunque mezzo. Pazienza se la tremenda partita a scacchi di queste ore, una vera corsa contro il tempo, si traduce in un supplizio, in una tortura fisica su un corpo inerme: la fine dell’alimentazione forzata è stata avviata, l’organismo esanime si sta abituando, domani con una legge potrebbe riprendere, poi magari diminuire di nuovo e poi aumentare ancora. Una manopola che cambia le dosi seguendo i singulti della politica. Orribile.
Ha detto, ieri: Eluana potrebbe avere figli. Come, da chi? Ha detto: un’indagine veloce che abbiamo commissionato a un istituto di ricerca - un sondaggio, sì - ci dice che gli italiani pensano che suo padre dopo 17 anni possa essere stanco. Un fior di sondaggio. E dunque? Dunque il padre si faccia da parte, saranno le suore ad occuparsi di sua figlia. Parole irricevibili, inascoltabili. Ma la partita è altrove, appunto. Questi sono dettagli, è l’occasione che si è presentata per la prova di forza. Lo scontro è definitivo e ci riguarda tutti, ci mette tutti in pericolo di vita: vita democratica. Il capo dello Stato si erge con coraggio, con la forza semplice del richiamo alle leggi, come baluardo di un sistema di convivenza fondato sulle regole di tutti e non sulla parola di uno solo. Viviamo un tempo oscuro di violenza sorda. Siamo tutti con Napolitano. I nomi qui accanto sono i primi di una lunghissima serie di persone che hanno cercato questo giornale, ieri, per dirlo. Siamo con lei. Avanti, presidente.

Sit in, appelli e messaggi: l’Italia si schiera con il Quirinale
di Virginia Lori

Il Paese si ribella. Subito in piazza contro il governo e applausi per Napolitano. Sit-in spontaneo di 500 persone sotto Palazzo Chigi. Cori e slogan contro Berlusconi e il Vaticano. «Fini, vieni con noi».
Cori e fischi al governo. Lunghi applausi per Napolitano. E c’è chi grida dal megafono: «Fini, vieni con noi». Contro l’approvazione del decreto sul caso Eluana, l’Italia si mobilita. Palazzo Chigi è «assediato» da un sit-in spontaneo di 500 persone. Donne, uomini, ragazze e ragazzi, delusi, arrabbiati, sgomenti. Ci sono i Radicali e le bandiere del Pd, della Cgil, della Fiom. Simpatizzanti dell’Uaar, l’Unione Atei per lo sbattezzo, l’Associazione Luca Coscioni. Marco Pannella quasi indossa le vesti di vigile urbano e si arrabbia con chi occupa via del Corso, la strada dello shopping vicina al Palazzo dove Silvio Berlusconi ha convocato un Consiglio dei ministri d’urgenza: «Vi sentite rivoluzionari occupando la strada - rimprovera i manifestanti -. Se non tornate sui marciapiedi, lascio il sit-in». Ed ecco che accorrono alcuni sventolando un tricolore listato a lutto.
Le proteste
Non solo Roma. Altre manifestazioni sono state annunciate per oggi in altre città: a Milano alle 17 in piazza San Babila ci sarà il Pd e la sinistra. A Catania è previsto nel pomeriggio con un sit-in della Cgil in difesa della laicità dello Stato. Presidi sono previsti anche davanti alle Prefetture d’Italia, fa sapere il Partito dei Comunisti italiani. In Liguria il segretario regionale del Pd, Mario Tullo, ha convocato una manifestazione davanti alle prefetture di Genova e La Spezia. A Napoli è nato un comitato di sostegno al capo dello Stato: «Io sto con Napolitano» e a Bologna liberi cittadini e il sindacato Cgil hanno organizzato per lunedì due presidi.
Il tam tam
Sms e interventi su Facebook, che solo nel primo pomeriggio di ieri ha raggiunto 6000 contatti fino a sforare oltre i mille: ecco il tam tam. Il gruppo «Rispettiamo la vita di Eluana Englaro», è amministrato da Mina Welby, che dall’altra notte ha cominciato uno sciopero della fame.
Gli slogan
Cantano «Bella ciao» i manifestanti guardati a vista dalle forze dell’ordine e confinati dietro le transenne della piazza. Gridano «Sciacalli, sciacalli: governo italiano, governo vaticano». «Ma quale cura, per Eluana, volete la tortura!». Appesi al collo hanno cartelli che attaccano la scelta «vergognosa» del governo. Su quello di Pannella c’è scritto: «Banda di torturatori». «Pdl, partito dei lefevriani» su quello di Marco Cappato. E grande è il sostegno al presidente della Repubblica che non ha firmato il decreto: «Napolitano non mollare, vai avanti così». Critiche invece al ministro per le Pari Opportunità, Stefania Prestigiacomo, che si era detta contraria ad un intervento dell’esecutivo sul caso Eluana: «Voto all’unanimità, Prestigiacomo dov’eri?». Il leader radicale commenta: «Il decreto annunciato da Berlusconi è una misura penosa e allucinante, corrisponde agli interessi e alla cultura di questo presidente del Consiglio». Gli fa eco Bobo Craxi: «Il governo è entrato a gamba tesa su questa materia così delicata. Hanno trasformato Palazzo Chigi in un ospedale, dove si parla della salute dei cittadini». Rincara la dose Angelo Bonelli (Verdi): «Da parte del governo un comportamento golpista che minaccia il capo dello Stato: o si fa il decreto oppure cambiamo la Costituzione».
Palazzo Chigi
Mentre la protesta monta arriva a piedi Andrea Ronchi, il ministro delle politiche Ue che sottolinea: «Tutti hanno il diritto di manifestare, però considero questi slogan truculenti contro il governo ignobili e falsi. Da questa manifestazione si capisce chi ha a cuore la cultura della vita. Non discutono del decreto legge o del ddl. Cosa c’entra “Bella ciao” con la vita di Eluana? È una brutta speculazione politica», commenta il ministro prima di scomparire nel Palazzo. Ileana Argentin: «Qualunque sia la posizione del partito andrò avanti contro l’arroganza di Berlusconi».

Repubblica 7.2.09
La svolta bonapartista
di Ezio Mauro

Una questione di vita e di morte, una tragedia familiare, un caso di amore e di disperazione tra genitori e figlia che cercava di sciogliersi nella legalità dopo un tormento di 17 anni, è stato trasformato ieri da Silvio Berlusconi in un conflitto istituzionale senza precedenti tra il governo e il Quirinale, con il Capo dello Stato che non ha firmato il decreto d´urgenza del governo sul caso Englaro, dopo aver inutilmente invitato il Premier a riflettere sulla sua incostituzionalità, e con Berlusconi che ha contestato le prerogative del Presidente della Repubblica, annunciando la volontà di governare a colpi di decreti legge senza il controllo del Quirinale. Pronto in caso contrario a "rivolgersi al popolo" per cambiare la Costituzione.
Il Presidente del Consiglio non era mai intervenuto in questi mesi nel dibattito morale, politico e culturale sollevato da Beppino Englaro con la scelta di chiedere la sospensione della nutrizione artificiale per sua figlia, ponendo fine ad un´esistenza vegetativa di 17 anni, giudicata irreversibile da 14. Ma ieri l´istinto populista ha consigliato al Premier di scegliere proprio il dramma pubblico di Eluana, giunto al culmine della sua valenza emotiva sollecitata dalla cornice di sacralità guerresca del Vaticano, per sfidare Napolitano su una questione di fondo: il perimetro e la profondità del potere del suo governo, che Berlusconi vuole sovraordinato ad ogni altro potere, libero da vincoli e controlli, dominus incontrastato del comando politico.
È uno scontro che segna un´epoca, perché chiude la prima fase di un quindicennio berlusconiano di poteri contrastati ma bilanciati e ne apre un´altra, che ha l´impronta risolutiva di una resa dei conti costituzionale, per arrivare a quella che Max Weber chiama l´"istituzionalizzazione del carisma" e alla rottura degli equilibri repubblicani: con la minaccia di una sorta di plebiscito popolare per forzare il sistema esistente, disegnare una Costituzione su misura del Premier, e far nascere infine un nuovo governo, come fonte e risultato di questa concezione tecnicamente bonapartista, sia pure all´italiana.
Il caso Eluana, dunque, nel momento più alto della discussione e della partecipazione del Paese, si è ridotto a pretesto e strumento di una partita politica e di potere. Berlusconi aveva infine ceduto alle pressioni del Vaticano e all´opportunità di dare alla sua destra senz´anima e senza tradizione un´identità cristiana totalmente disgiunta dalle biografie e dai valori, ma legata alla precettistica e alle politiche concrete della Chiesa: così ieri mattina ha annunciato al Consiglio dei ministri la volontà di varare un decreto legge di poche righe, per vanificare la sentenza definitiva della magistratura che accoglie la richiesta di Beppino Englaro, e per impedire la sospensione già avviata ad Udine dell´alimentazione e dell´idratazione per Eluana.
Il Presidente della Repubblica, che già aveva spiegato giovedì al governo l´insostenibilità costituzionale del decreto, ha deciso di assumersi su un caso così delicato una pubblica responsabilità, che non si presti ad equivoci davanti all´esecutivo, al Parlamento, alla pubblica opinione. Dando forma e sostanza all´istituto della "moral suasion", ha scritto una lettera a Berlusconi in cui spiega le ragioni che rendono impossibile il decreto, se si guarda – come il Capo dello Stato deve guardare – soltanto alla Costituzione, ai suoi principi, ai criteri che stabilisce per la decretazione d´urgenza. C´è una legge sul fine-vita davanti al Parlamento, dice Napolitano nel messaggio, c´è la necessità di rispettare una pronuncia definitiva della magistratura, se non si vuole violare "il fondamentale principio della separazione e del reciproco rispetto" tra poteri dello Stato, c´è la norma costituzionale dell´uguaglianza tra i cittadini davanti alla legge, quella sulla libertà personale, quella sulla possibilità di rifiutare trattamenti sanitari. Ci sono poi i precedenti di altri inquilini del Quirinale – Pertini, Cossiga, Scalfaro – che non hanno firmato decreti-legge, e soprattutto c´è la funzione di "garanzia istituzionale" che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Da qui l´invito al governo di "evitare un contrasto", riflettendo sulle ragioni del no del Presidente.
Con ogni probabilità è stato questo richiamo al ruolo di garanzia del Quirinale, unito al gesto pubblico di rendere nullo il decreto del governo, rifiutandosi di emanarlo, che ha convinto Berlusconi a sfruttare l´occasione per aprire la contesa suprema sul potere al vertice dello Stato. In conferenza stampa il Premier ha spiegato la sua scelta sul caso Englaro con motivazioni morali («Non mi voglio sentire responsabile di un´omissione di soccorso per una persona in pericolo di vita») ma anche con giudizi medico-scientifici approssimativi («Lo stato vegetativo potrebbe variare»), e con affermazioni incongrue e sorprendenti: «Eluana è una persona viva, che potrebbe anche avere un figlio».
Ma il cuore del ragionamento berlusconiano è un altro: la lettera di Napolitano è impropria, perché il giudizio sulla necessità e urgenza di un decreto spetta per Costituzione al governo e non al Quirinale, mentre il giudizio di costituzionalità tocca al Parlamento. Non solo, ma il decreto d´urgenza è l´unico vero strumento di governo in un sistema costituzionale antiquato. E se il Capo dello Stato «decidesse di caricarsi della responsabilità di una vita», non firmando il decreto, il governo si ribellerebbe invitando il Parlamento «a riunirsi ad horas» per approvare «in due o tre giorni» una legge stralcio che anticipi il testo in discussione al Senato, bloccando così l´esito della vicenda Englaro. Eluana, tuttavia, è già sullo sfondo, ridotta a corpo ideologico e a pretesto politico. Ciò che a Berlusconi interessa dire è che non si può governare il Paese senza la piena e libera potestà governativa sui decreti legge. «Si può arrivare ad una scrittura più chiara della Costituzione. Senza la possibilità di ricorrere a decreti legge, tornerei dal popolo a chiedere di cambiare la Costituzione e il governo».
La sfida è esplicita, addirittura ostentata. Quirinale e Parlamento devono capire che il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l´unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica. Berlusconi vuole decidere da solo, in un´aperta trasformazione costituzionale che realizza di fatto il presidenzialismo, aggiungendo potestà legislativa all´esecutivo nella corsia privilegiata della necessità e dell´urgenza, criteri di cui il governo è insieme beneficiario e giudice unico, senza lasciar voce in capitolo al Capo dello Stato. Un Capo dello Stato minacciato pubblicamente dal Premier, se non firma il decreto per un deficit costituzionale, di «caricarsi della responsabilità di una vita». Qualcosa che non era mai avvenuto nella storia della Repubblica, per i toni politici, per i modi istituzionali, per la sostanza costituzionale: e anche per la suggestione umana.
La risposta di Napolitano poteva essere una sola: con rammarico, il Presidente non firma, perché il decreto è incostituzionale. L´assunzione di responsabilità del Quirinale rende nullo il decreto, e costringe Berlusconi a imboccare la strada parlamentare, sia pure con le forme improprie annunciate ieri. Ma la lacerazione rimane, il progetto di salto costituzionale anche. È un progetto bonapartista, con il Premier che chiede di fatto pieni poteri in nome del legame emotivo e carismatico con la propria comunità politica, si pone come rappresentante diretto della nazione e pretende la subordinazione di ogni potere all´esecutivo. Avevamo avvertito da tempo che qui portavano le leggi ad personam, i "lodi" che pongono il Premier sopra la legge, la tentazione continua di sovraordinare l´eletto dal popolo agli altri poteri. Ieri, Napolitano ha saputo opporsi, in nome della Costituzione. La risposta del Premier è stata che il Capo dello Stato non potrà mai più opporsi, e la Costituzione cambierà.
Ecco perché la data di ieri apre una fase nuova nella vita del Paese, una Terza Repubblica basata su una nuova geografia del potere, una nuova legittimità costituzionale, un nuovo concetto di sovranità, trasferito dal popolo al leader. Si può far finta di non vedere cosa sta accadendo, con l´immorale pretesto della tragedia di Eluana? Ieri la voce più forte a sostegno di Napolitano è stata quella del Presidente della Camera, che sembra ormai muoversi in un perimetro laico e costituzionale, da destra repubblicana. Dall´altra sponda del Tevere, mai così stretto, è venuto il plauso a Berlusconi del Cardinal Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace, e la sua "profonda delusione" per la scelta di Napolitano di non firmare il decreto. Come se insieme alle chiavi di San Pietro il Vaticano avesse anche la golden share del governo italiano e delle sue libere istituzioni. Certo, sotto gli occhi attoniti del Paese e sotto gli occhi che non vedono di Eluana Englaro ieri è andato in scena uno scambio di favori al ribasso, col Dio italiano consegnato alla destra berlusconiana, come un protettorato, in cambio di una difesa di valori disincarnati e precetti vaticani, da parte di un paganesimo politico servile e mercantile. Dal caso Eluana non nasce una forza cristiana: ma un partito ateo e clericale insieme, che è tutta un´altra cosa.

Repubblica 7.2.09
Giornata nera per la Repubblica
di Stefano Rodotà

È una pessima giornata per la Repubblica. Siamo di fronte ad un conflitto costituzionale davvero senza precedenti.
E cioè ad un governo che sfida il Presidente della Repubblica che si era fatto fermo difensore delle ragioni della Costituzione e dei diritti fondamentali delle persone. La gravissima decisione del Governo di intervenire con un decreto nella vicenda di Eluana Englaro, dopo che Giorgio Napolitano aveva pubblicamente motivato le ragioni del suo dissenso, sovverte gli equilibri istituzionali, apre una fase in cui si va ben oltre quella "tirannia della maggioranza", di cui ci ha parlato in modo eloquente il liberale Alexis de Tocqueville, e si entra in una "terra incognita" dove la partita politica è dominata non dal senso dello Stato, ma dalla brutale volontà del presidente del Consiglio di offrire rassicurazioni agli esponenti di una potenza straniera a qualsiasi costo, anche quello dello sconvolgimento della stessa democrazia costituzionale.
È così, anche se una affermazione tanto netta può sembrare brutale. Con una sola mossa vengono colpiti molti bersagli. La Costituzione, unica carta dei valori democraticamente legittimata, vera "Bibbia laica", viene travolta per porre al suo posto un´etica di Stato attinta ai diktat delle gerarchie vaticane (non a un sentire diffuso nello stesso mondo cattolico, che alla vicenda di Eluana Englaro si è avvicinato con rispetto e pietà). La sovranità del Parlamento viene ulteriormente mortificata, perché ad esso si nega la prerogativa d´essere il luogo privilegiato per discutere e decidere quando si tratta di diritti fondamentali. L´autonomia della magistratura scompare nel momento in cui si cancellano le sue decisioni con un atto d´imperio, creando un precedente devastante per la sopravvivenza stessa di un brandello di Stato di diritto. I diritti fondamentali delle persone non sono più affidati alla garanzia della legge, ma alle pulsioni delle maggioranze.
Ma il bersaglio maggiore è proprio il Presidente della Repubblica, che mai come in questo momento incarna limpidamente la sua funzione di massimo garante della Costituzione. Ispirandosi al principio della "leale collaborazione" tra gli organi dello Stato, Giorgio Napolitano aveva nei giorni scorsi manifestato al governo le sue perplessità su un decreto che, rendendo impossibile l´esecuzione di una decisione della magistratura, si esponeva evidentemente al rischio dell´incostituzionalità. Quando è stato reso noto il possibile contenuto del decreto, che alcune contorsioni interpretative rendevano ancor più inaccettabile (la sentenza n. 334 del 2008 della Corte costituzionale ha chiarito che la competenza in materia spetta alla magistratura), il Presidente della Repubblica ha inviato una lettera al presidente del Consiglio per ribadire il suo punto di vista, con un atto di straordinaria trasparenza e responsabilità, reso necessario proprio dall´eccezionalità della situazione e dall´emozione con la quale viene seguita una vicenda così drammatica. Mai come in questo momento l´opinione pubblica ha bisogno di chiarezza, di comportamenti istituzionali immediatamente decifrabili, e non dell´eterno gioco dei sotterfugi, dei percorsi obliqui. Dopo la forzatura dell´atto di indirizzo del ministro Sacconi, rivelatosi privo di una pur minima base giuridica, diveniva ancor più evidente la necessità di seguire percorsi costituzionalmente impeccabili. La lettera di Napolitano è la testimonianza di un scrupolo istituzionale raro, di un rigore argomentativo al quale nessuno dovrebbe sottrarsi.
Nelle sue dichiarazioni, invece, il presidente del Consiglio rivela una distanza abissale dalla logica costituzionale, una concezione proprietaria della decretazione d´urgenza che, a suo dire, sarebbe completamente sottratta a qualsiasi valutazione da parte del Presidente della Repubblica. Tesi costituzionalmente non proponibile, come nella sua lettera aveva già chiarito il Presidente della Repubblica con indicazioni che Berlusconi volutamente ignora, passando addirittura alle minacce: dichiara, infatti, che, se non gli viene consentito di usare i decreti legge a suo piacimento, cambierà la Costituzione. Così, com´è sua collaudata abitudine, schiera se stesso e le sue troppo docili truppe per un nuovo e devastante assalto alla legalità, seguendo il suo collaudato copione plebiscitario che lo porta addirittura ad ignorare quali siano le procedure per la revisione costituzionale, visto che afferma che ritornerebbe "dal popolo a chiedere un cambiamento della Costituzione". Mai dichiarazione fu più rivelatrice di questa. La Costituzione non è la regola delle regole, ma un impaccio di cui ci si può tranquillamente liberare. La rottura costituzionale è dichiarata.
Così Berlusconi gioca il governo contro il Presidente della Repubblica e si prepara a rendere concreta un´altra minaccia. Visto che il Presidente della Repubblica ha già dichiarato che non firmerà un decreto "incostituzionale", porterà in Parlamento un disegno di legge sul testamento biologico da approvare in tre giorni. Così gioca il governo anche contro il Parlamento, esplicitamente declassato dal Principe a buca delle lettere, a luogo dove la sua volontà dev´essere ratificata senza discussione.
Si apre, dunque, una fase in cui al grande tema del morire con dignità si affianca quello, grandissimo, della difesa della Costituzione. Immediata, allora, diventa la responsabilità di tutte le forze politiche, degli organi istituzionali chiamati ad una pubblica assunzione della responsabilità loro propria, come ha già fatto, dimostrando senso dello Stato e della legalità, il Presidente della Camera, Gianfranco Fini. Responsabilità tanto maggiore in quanto, sia pure attraverso il discutibile strumento dei sondaggi, l´opinione pubblica si è espressa, dichiarandosi per il 79% a favore del morire dignitoso di Eluana Englaro e addirittura per l´83% a favore di una Chiesa che parli alle coscienze e non pretenda di imporre la fede attraverso gli atti del legislatore. Torna qui alla memoria il diverso spirito dei cattolici democratici, che si coglie nelle parole dette da Aldo Moro al consiglio nazionale della Dc all´indomani della sconfitta nel referendum contro la legge sul divorzio, nel 1974, con le quali si metteva in guardia contro le forzature «con lo strumento della legge, con l´autorità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani»; e si consigliava «di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Ma il limite all´intervento del legislatore non trova il suo fondamento solo in ragioni di opportunità. Ricordiamo le parole alte e forti con le quali si chiude l´articolo 32 della Costituzione, dedicato al fondamentale diritto alla salute, dunque al governo della propria vita: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». È proprio questo il caso di Eluana Englaro e di tutti coloro che vorranno liberamente decidere sul loro morire. Vi è un confine costituzionale che il legislatore non può varcare � né con decreti legge, né con altri strumenti normativi � oltre il quale compare la persona con la sua autonomia e la sua libertà.
Quei sondaggi, allora, sono un monito e una risorsa. Un monito alle forze politiche, che di quei cittadini dovrebbero essere consapevoli interlocutori. E si tratta di una risorsa che sono gli stessi cittadini a dover utilizzare, levando forte la voce perché la forzatura istituzionale non passi. Nessun dialogo, nessuna collaborazione politica possono svilupparsi in panorama disseminato da macerie istituzionali.

Repubblica 7.2.09
La scelta sofferta di Napolitano "Io devo difendere le istituzioni"
Il capo dello Stato ha appreso del dl dalle agenzie di stampa
di Massimo Giannini

«L´avevo detto subito a Gianni Letta: non vedo proprio le condizioni per un decreto legge. Non ne hanno tenuto conto. Ma io, Costituzione alla mano, non potevo fare altrimenti».
È tardo pomeriggio, e nel suo studio Giorgio Napolitano riflette a voce alta, sul corpo di Eluana trasfigurato in totem simbolico, e ora svilito in vessillo ideologico di un conflitto che non ha precedenti nella storia italiana. Il presidente della Repubblica lo vive con dolore personale, ma anche con la consapevolezza di aver fatto solo il suo dovere istituzionale. «Quel decreto non potevo firmarlo», ripete. Se non al prezzo di «snaturare le funzioni che la Carta costituzionale mi assegna». Non è stata una scelta a cuor leggero. Prima ancora che Capo dello Stato, Napolitano è padre e nonno. Conosce cos´è «il dono dei figli». Cos´è «la scoperta del sentimento più tenero, quello che si prova per i bambini dei propri figli». Cos´è «il senso profondo della famiglia». E dunque sa cosa costa il suo diniego alla firma del provvedimento d´urgenza varato dal governo per impedire la sospensione dell´alimentazione di Eluana. Ma sa anche quanto vale «la natura di garanzia istituzionale» della sua carica. Quanto vale il rispetto dei principi che reggono il nostro Stato di diritto. Quanto vale una corretta dialettica tra l´esecutivo, il giudiziario e il legislativo.
Napolitano aveva capito che il governo avrebbe tentato l´affondo già da giovedì pomeriggio, quando cominciavano a trapelare le prime voci su un possibile decreto d´urgenza. A questo si riferisce il Capo dello Stato, quando dice «l´avevo detto subito a Gianni Letta». Era stato proprio il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, su incarico di Berlusconi, a telefonare al Quirinale nel pomeriggio di due giorni fa, per sondare l´orientamento del presidente su una «prima bozza» del provvedimento. «Non vedo le condizioni», era stata la risposta immediata di Napolitano. Ma il premier non aveva desistito. Poco più tardi gli sherpa di Palazzo Chigi erano tornati alla carica, ipotizzando addirittura una possibile visita di Berlusconi a Napolitano. «Se volete venite pure - era stata la risposta di rito degli uffici del Colle - ma sappiate che il presidente su questo punto è irremovibile: c´è una sentenza della Cassazione, e un decreto legge che stabilisca il contrario costituirebbe una lesione palese dei vincoli costituzionali che legano l´esecutivo al rispetto del principio di intangibilità del giudicato». Ma neanche questo era bastato. E così, alle undici di sera, sul Colle era arrivata l´ultima telefonata di Letta, quasi trionfante, che parlando con il segretario generale del Colle Donato Marra sventolava un parere informale del presidente emerito Valerio Onida come «la soluzione definitiva del problema».
A quel punto Napolitano ha capito che il governo non si sarebbe più fermato, e che sarebbe arrivato fino allo strappo istituzionale. Così, già dalla nottata di giovedì, ha messo al lavoro i suoi tecnici e i suoi collaboratori dell´ufficio legislativo, Salvatore Sechi e Loris D´Ambrosio, per stendere un testo motivato e tirare fuori i precedenti di decreti legge non controfirmati dai suoi predecessori. Così è nata la lettera che ieri mattina il Quirinale ha recapitato a Palazzo Chigi. Una lettera inequivocabile. Che giudica «inappropriato» lo strumento del decreto legge in una materia del genere, ribadisce la mancanza dei requisiti di necessità e di urgenza e il contrasto con gli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione, e ricorda i precedenti di Pertini, Cossiga e Scalfaro.
Una lettera indirizzata personalmente al presidente del Consiglio. Una lettera che doveva restare riservata, perché fin dall´inizio del confronto Quirinale e Palazzo Chigi avevano operato all´interno della cosiddetta «moral suasion», che presuppone una collaborazione leale ma informale tra le due istituzioni. Una lettera che, secondo gli obiettivi di Napolitano, poteva offrire «per tempo» al Cavaliere una «via d´uscita» dignitosa. Ma Berlusconi ha deciso di rompere gli equilibri, di rendere pubblica la lettera del Capo dello Stato e di andare alla guerra aperta. C´è un dettaglio che la dice lunga sul fairplay del premier e sulla sua volontà di rompere: il Capo dello Stato ha appreso la notizia dell´avvenuta approvazione del decreto solo dalle agenzie di stampa. «Ho fatto il possibile per evitare tutto questo», riflette ora il presidente. E la chiave di questo suo tentativo di conciliazione preventiva, fa notare, sta nelle ultime tre righe della sua lettera: «Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione d´urgenza, che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare».
Questa era la «via d´uscita». Il premier ha preferito non imboccarla. Così è deflagrato qualcosa di più di un «contrasto formale». «Ma io non potevo cedere», è il ragionamento di Napolitano. Ne va della sua funzione costituzionale. E ne va della difesa della democrazia parlamentare. E´ questo, soprattutto, che adesso il Capo dello Stato non riesce a tollerare. Berlusconi che dopo il Consiglio dei ministri dice in conferenza stampa «sono pronto a cambiare la Costituzione sul tema dei decreti legge». In questa affermazione c´è lo stravolgimento del dettato costituzionale. E c´è anche la violazione di un «patto» che Napolitano e il premier, proprio sulla decretazione d´urgenza, avevano raggiunto nell´autunno scorso. Era il 7 ottobre 2008, quando il presidente della Repubblica, rispondendo sulla «Stampa» ad un articolo del costituzionalista Michele Ainis che denunciava la trasformazione del Parlamento in votificio, affermava con forza: «Sui decreti legge vigilerò con rigore».
Un´uscita che fece scalpore, e che spinse Berlusconi a recarsi sul Colle il giorno stesso per un chiarimento. Ora Napolitano ricorda che a fine colloquio il premier uscì raggiante, dettando testualmente alle agenzie: «Sui decreti legge il Capo dello Stato non si troverà mai più di fronte a un fatto compiuto». Sono passati solo quattro mesi, e il fatto compiuto è arrivato. Il presidente della Repubblica non poteva lasciar passare quello che chiama «l´ennesimo vulnus» al fondamentale principio della «distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato». È chiaro che nel rapporto tra i due presidenti molto si è consumato e molto è andato perduto, in questa dissennata battaglia sul corpo di Eluana. «Non voglio portare la responsabilità di lasciar morire quella ragazza», ha detto ieri il Cavaliere, quasi a voler scaricare quella responsabilità sul Capo dello Stato. E´ l´ultima offesa che ha voluto «dedicargli». Napolitano non replica. Né ai veleni del Cavaliere, né agli anatemi della Chiesa. Ripete solo una frase: «Mi rammarico molto per quel che ha fatto il governo». E in quel rammarico c´è tutto. L´amarezza di un uomo, ma anche l´asprezza di un politico che, d´ora in avanti, non farà più sconti a nessuno.

Corriere della Sera 7.1.09
Lite istituzionale che divide anche Colle e Santa Sede
di Massimo Franco

Col senno di poi, l'espressione «braccio di ferro» è un eufemismo. Il caso di Eluana Englaro ha provocato una frattura fra Quirinale e palazzo Chigi che delinea una crisi istituzionale grave e dagli esiti imprevedibili. Sancisce qualcosa di più di un'incrinatura nei rapporti fra Giorgio Napolitano ed il Vaticano, finora ottimi. E lascia intravedere una spaccatura parlamentare che ricorda tanto i fronti referendari del passato sull'aborto e sul divorzio. Con il centrosinistra ed i radicali contrari a sospendere le procedure che porteranno alla morte della ragazza; ed il centrodestra di Silvio Berlusconi in lotta con il tempo per approvare una legge che le sospenda.
Il conflitto era in incubazione dall'altra sera, quando sono trapelate le perplessità del presidente della Repubblica sul decreto studiato dal governo. Ma le voci ufficiose secondo le quali Napolitano in realtà non si era pronunciato l'aveva congelato. Ieri mattina, però, la situazione è precipitata. Berlusconi, incalzato dalle gerarchie cattoliche, ha deciso che il decreto andava comunque presentato in Consiglio dei ministri. E mentre il governo stava decidendo, è arrivata la lettera del capo dello Stato che preannunciava il rifiuto di firmare il provvedimento. Doveva essere l'estremo tentativo per evitare lo scontro; e invece ha finito per drammatizzarlo.
Il premier ha sospeso la riunione, e mostrato una missiva che nelle intenzioni era riservata. E alla ripresa, pretendendo e ottenendo l'unanimità, Berlusconi è andato avanti, respingendo la lettera al mittente. Evidentemente, la speranza di bloccare l'iniziativa del governo con un altolà era mal riposta. Quella nota nel bel mezzo della riunione è stata interpretata come un tentativo di «commissariare» il governo. Ed ha permesso a Berlusconi di lanciare una sfida che si è appena iniziata ed accenna a salire di tono.
Finora il premier non aveva mai reagito frontalmente alle critiche di Napolitano. La diplomazia informale fra i due palazzi aveva sempre scongiurato contrasti. Ed erano stati costruiti in tre anni rapporti istituzionali più che cordiali e corretti. Berlusconi ha sferrato l'offensiva scegliendo lui il terreno, meno scivoloso di quello della riforma della giustizia. Il fatto che ad una domanda rivoltagli in conferenza stampa abbia risposto che non è sua intenzione promuovere la messa in stato d'accusa del capo dello Stato è rassicurante a metà. Soltanto affacciare questa ipotesi rende l'idea della piega che rischia di prendere il conflitto istituzionale.
La difesa compatta di Napolitano che proviene dal centrosinistra insiste sulla correttezza della lettera; e sul calcolo a freddo del premier di scontrarsi col Quirinale. Perfino Antonio Di Pietro, che nelle scorse settimane non ha esitato ad attaccare pesantemente il presidente della Repubblica, adesso si schiera con lui insieme all'estrema sinistra ed ai radicali. Ma tanta solidarietà politica dell'opposizione, alla quale si aggiunge quella del presidente della Camera, Gianfranco Fini, potrebbe risultare a doppio taglio. Invece di puntellare e rilanciare il profilo sopra le parti offerto sempre da Napolitano, minaccia di farlo diventare l'icona degli avversari del governo. Un epilogo paradossale, che può aggravare e radicalizzare il conflitto.

Repubblica 7.2.09
Il regista e lo sciopero "anti-italiani" "È ora di pensare a un sindacato europeo"
"Gli operai inglesi? Hanno fatto bene"
"Il razzismo non c´entra nulla in questa storia, siamo un Paese multietnico"
intervista di Carlo Moretti

È il cantore del mondo operaio, il regista socialista e impegnato di Riff Raff, il film che nel 1991 offrì un impietoso ritratto dell´Inghilterra devastata da dieci anni di politica thatcheriana. Ken Loach, 73 anni, figlio di un elettricista, diplomato ad Oxford e con un passato da attore teatrale, valuta a modo suo quanto accaduto a Grimsby, dopo gli scioperi selvaggi degli operai inglesi e il difficile accordo che nei giorni scorsi ha sbloccato il lavoro nella raffineria della Total.
Signor Loach, cosa pensa di quanto avvenuto nel Lincolnshire?
«Sono assolutamente solidale con gli operai inglesi. Il loro sciopero non era affatto un´iniziativa protezionistica contro i lavoratori italiani e portoghesi, come hanno invece tentato di farci credere i media inglesi e il nostro governo. La loro giusta rivendicazione si pone come un invito al mondo politico e sindacale e riguarda la necessità di trovare nuove regole che siano condivise in tutta Europa. È folle e profondamente ingiusto che i lavoratori, da qualunque parte essi arrivino, lascino le loro famiglie nei paesi di origine per accettare contratti meno garantiti e salari inferiori rispetto a quelli in vigore nel paese in cui arrivano per lavorare».
Sta parlando della necessità di nuove regole comunitarie e di una contrattazione del lavoro europea?
«È ormai assolutamente necessaria. I sindacati in Gran Bretagna hanno dimostrato di non avere la minima capacità di analisi politica di quanto sta avvenendo nel mondo del lavoro. Ci sono individualità capaci, sindacalisti bravi anche qui in Inghilterra, ma nel complesso le Unions dimostrano gravissimi limiti di intervento».
Per la verità, nei giorni dello sciopero gli operai inglesi hanno fatto loro lo slogan lanciato qualche mese fa da Gordon Brown: "Lavori inglesi ai lavoratori inglesi".
«Mi lasci dire che quando ha pronunciato quella frase Gordon Brown si è comportato come un pazzo. I lavoratori qui in Inghilterra hanno le idee chiare e hanno capito benissimo qual è invece la posta in gioco: le regole del mondo del lavoro devono essere le stesse per tutti. Il comportamento di qualche operaio isolato non cambia la questione di fondo».
Negli anni Ottanta lei girò una serie di documentari sulla risposta dei sindacati inglesi alle sfide lanciate dal Primo ministro dell´epoca Margareth Thatcher. La debolezza dei sindacati di oggi è un effetto di quella difficile stagione?
«Direi di sì ma non solo, perché quanto accade ricade anche sotto la responsabilità delle politiche sociali e sul lavoro praticate da Tony Blair prima e ora dal Primo ministro Gordon Brown. In Inghilterra il problema delle capacità di leadership non può ancora dirsi risolto».
Quanto è accaduto ha fatto dubitare molti sull´antica vocazione inglese a proporsi come modello di società aperta, solidale e multietnica. È forse finita un´era?
«Non credo affatto che sia finita un´era. L´Inghilterra, e non solo una città cosmopolita come Londra, è e resterà aperta e solidale, e continuerà a proporsi per molto tempo come modello di società multietnica. Lo ripeto, il problema è che l´Europa è ufficialmente unita nelle istituzioni attraverso le quali si rappresenta ma resta nei fatti ancora troppo divisa per ciò che riguarda le regole, soprattutto quelle che devono valere nel mondo del lavoro».
Farebbe un film sul caso della Total di Lindsay?
«Ci sono tanti altri temi che al momento mi appassionano ma forse sì, potrei raccontarlo in un film».
A cosa lavora in questo momento?
«Ho appena terminato la post-produzione di una commedia molto divertente sul mondo del calcio e sui suoi fan ossessivi in cui recita l´ex calciatore del Manchester United, il francese Eric Cantona, un uomo davvero speciale, molto simpatico. C´è anche una descrizione del mondo marginale dei tifosi più radicali ma per una volta ho voluto dedicarmi a un tema leggero, del resto sarebbe troppo stressante affrontare sempre temi impegnativi. Soprattutto, non si può assolutamente fare sempre lo stesso film».

Più concentrate o più creative, le nostre facoltà dipendono anche dalle tonalità di cui ci circondiamo L´ultimo studio, dopo Aristotele, Newton e Goethe, arriva dalla British Columbia. E dal marketing

Repubblica 7.2.09
Rosso o blu, così reagisce la mente
Pubblicata su Science, la ricerca ha utilizzato anche gli spot pubblicitari
di Elena Dusi

La bottega di un orologiaio dovrebbe avere pareti rosse. Per scrivere un nuovo romanzo occorre iniziare dipingendo la stanza di blu. Il colore che ci avvolge riesce infatti a cambiare il modo in cui il cervello funziona. Come in un gioco di specchi, un ambiente color cielo senza nubi predispone la mente a creatività, pensiero positivo, ricerca della novità. Il rosso favorisce invece l´attenzione: un pericolo è forse incombente. Meglio concentrare le risorse del cervello per cogliere ogni dettaglio ed evitare distrazioni.
Più accurate o più creative, le nostre facoltà dipendono anche dalle tonalità che ci circondano. L´ultimo studio su mente e colori ci arriva da una studiosa di marketing, la professoressa dell´università canadese della British Columbia Juliet Zhu. I suoi esperimenti sul rosso e sul blu si concentrano sulle capacità di concentrazione e di inventiva di un gruppo di studenti. Le misurazioni sono state condotte attraverso dei test su computer. Ma l´articolo appena pubblicato su Science è solo l´appendice di un fenomeno naturale che ha intrigato giganti come Aristotele, Newton, Schopenhauer e Goethe. Lom scrittore tedesco, che era anche pittore, nella sua Teoria dei colori se la prese molto con Newton che aveva ridotto la luce in tutte le sue vesti a un fenomeno fisico, smontabile e ricomponibile con un semplice prisma. "Il suo errore - scrisse Goethe riferendosi al rivale - è stato quello di fidarsi della matematica anziché delle sensazioni degli occhi".
Dall´800 a oggi lo spettro dei colori è finito nel prisma di molti esperimenti scientifici. Nel 2007 una ricercatrice dell´università di Newcastle pubblicò su Current Biology che il blu è in assoluto il colore preferito dal genere umano, ma le donne preferiscono una tonalità tendente verso il rosa. Nell´ateneo di Durham contarono le vittorie degli atleti impegnati nei match di pugilato, tae kwon do e lotta greco romana delle Olimpiadi di Atene. Chi indossava la maglietta rossa era riuscito a sconfiggere l´avversario vestito di blu nel 60% degli incontri: percentuale troppo alta per essere casuale, conclusero i due antropologi inglesi autori dello studio apparso su Nature nel 2005. Inevitabile che si arrivasse a toccare il tema dell´attrazione sessuale. Infatti Andrew Elliot dell´università di Rochester misurò il colore che più è in grado di favorire l´eccitazione negli uomini. Senza troppe sorprese, a ottobre del 2008 scrisse sul Journal of Personality and Social Psychology che le donne più attraenti sono quelle vestite di rosso. E che gli uomini sono del tutto inconsapevoli di essere guidati nelle loro scelte dalla tonalità di un vestito.
Che i colori abbiano un potere di condizionamento subliminale è anche la tesi di Juliet Zhu, che non a caso fra i test da sottoporre ai suoi volontari ha inserito una serie di messaggi pubblicitari. Lo spot sul dentifricio capace di prevenire la carie (che permette cioè di sfuggire un rischio) si è rivelato più efficace con uno sfondo rosso. Se invece la promessa era quella di ottenere denti più bianchi (previsione di un´azione positiva) i volontari lo trovavano più convincente con il contorno blu.
Gli altri test che hanno coinvolto gli oltre 600 volontari (quasi tutti studenti della stessa British Columbia) prevedevano per esempio la correzione di alcune bozze o la memorizzazione di una lista di parole. In questo caso, lo sfondo rosso del computer si è rivelato in grado di migliorare il punteggio degli studenti del 31%. Quando si trattava invece di escogitare tutti i possibili usi di un mattone simile al Lego, o di progettare un nuovo giocattolo partendo da un gruppo di forme geometriche, gli studenti con gli occhi nel blu hanno raggiunto performance migliori. «Certo - ha ammesso alla fine la Zhu - non tutti i popoli associano il rosso al pericolo. In Cina, che è il paese da cui vengo, è legato all´idea della gioia. Ed è probabile che i risultati dell´esperimento possano risultare molto diversi da luogo a luogo».

Corriere della Sera 7.1.09
Il reportage Il governo di Kabul ammette: «Le figlie restano proprietà delle tribù»
La prigione delle ragazze afghane: schiave, spose forzate, suicide
di Andrea Nicastro

HERAT — Sorride dolce Leilah, l'assassina. Arrossisce Fatemeh, l'adultera. Si nasconde Guldestan che in un paio di settimane ha perso tutto: papà, mamma, tre sorelle, l'intera rete familiare, probabilmente il futuro. Ha visto il padre uccidere la madre perché sospettava che sotto il burqa covasse il tradimento; ha visto lo zio uccidere il padre per vendicare l'onore della sorella; lei stessa è diventata assassina sparando a quello stesso zio che aveva adottato lei e le sorelle. L'uomo dormiva dopo averla stuprata. Guldestan è in prigione, le sorelline, dai 3 agli 11 anni, in orfanotrofio.
La maggior parte delle detenute del carcere minorile di Herat non sono arrivate a tanto. Sono colpevoli di aver disobbedito alla legge tribale e alla tradizione. Ragazze in fuga da matrimoni forzati con uomini che non avevano mai visto, più o meno vecchi, danarosi o poligami, comunque decisi a portarsi a casa manodopera gratuita e compagnia notturna. Sono ragazze pagate al padre-padrone 5-6 mila dollari oppure tre tappeti, otto capre e due paia di scarpe, come nel caso di Sarah. Ragazze che a 13-14 anni si sono trovate una mattina il mullah in casa che chiedeva loro se volevano fidanzarsi, il padre che le minacciava e l'aspirante sposo che le blandiva con un vestito nuovo in mano. «La famiglia prepara tutto in segreto — racconta Chiara Ciminello, cooperante per l'Ong italiana Intersos — e senza capire quel che succede le bambine si ritrovano fidanzate. A quel punto dire "no" diventa reato».
Se l'adulterio viene consumato, in teoria, la condanna è ancora la lapidazione prevista dalla Sharia, ma il governo di Kabul ha imposto una moratoria. Gli ospedali funzionano abbastanza da verificare la verginità e, se non c'è stato tradimento, la condanna per la ribellione di una minorenne varia da 3 mesi a un anno di carcere. Il peggio viene dopo. Le famiglie non vogliono riaccogliere chi, con la disobbedienza, ha portato il disonore. La Ong inglese World Child lavora a Herat per aiutare proprio il reinserimento delle reprobe. Ma il problema è enorme. Lo stigma della rivolta mette queste ragazze ai margini della società. Chi non ha una rete familiare attorno non può lavorare, affittare casa, vivere sola. L'esito della ribellione per amore o libertà diventa così la prostituzione.
Meglio morire. Lo pensano in tante. Così a Kabul le fidanzate a sorpresa o le giovani spose si danno fuoco al ritmo di due-tre a settimana. In tutto l'Afghanistan si calcola che le suicide siano minimo una al giorno. Herat, forse la provincia più sviluppata del Paese, non fa eccezione. Nel 2006, una (rara) Commissione governativa ha contato una media di 7 torce umane al mese. «Il nodo è che le figlie sono considerate una proprietà. Prima dalla famiglia del padre poi da quella del marito — spiega ancora Ciminello —. A Herat la situazione è particolare a causa della vicinanza all'Iran. Mentre tra i sunniti, soprattutto se pashtun, le cifre sono importanti, tra gli sciiti di influenza iraniana l'uso di pagare la moglie è quasi simbolico. A volte lo sposo firma una sorta di caparra, la shirbaha,
per cui in caso di divorzio si impegna a risarcire la donna con una buona uscita che le permetta di tirare avanti. Ma quel che manca in entrambi i gruppi è il rispetto della volontà delle ragazze». In attesa di un piano dalla nuova Casa Bianca di Barack Obama, per sopravvivere all'Afghanistan la comunità internazionale si affida alla triade «sicurezza, ricostruzione, governabilità ». L'ordine non è casuale: consistente è l'impegno mi-litare, scarsi i soldi per la ricostruzione, insufficienti i risultati in materia di legalità. La supremazia resta alle tradizioni tribali più ancora che religiose. A Herat il riformatorio è una delle principali realizzazioni in sette anni di presenza internazionale. Costruito nel 2007 dagli ingegneri militari del Prt italiano (Provincial Recostruction Team) con 2 milioni di euro, all'80 per cento europei. E' una bella scatola con alcuni problemi, il riscaldamento per dirne una, ma le mura da sole non incidono sui rapporti sociali.
«Il nostro è un impegno a lungo termine — dice il generale Paolo Serra, comandante della Nato per la Regione Occidentale afghana —. I successi ci sono. Abbiamo costruito 34 scuole, convinto molti capi villaggio a far studiare anche le bambine, aumentato del 20 per cento le elettrici per le prossime presidenziali. Però le condizioni di partenza sono quelle che sono. Dubito sceglieranno da sole chi votare, piuttosto seguiranno le indicazioni dei capi clan. La strada per una democrazia come la intendiamo noi è lunga».

venerdì 6 febbraio 2009

Repubblica 6.2.09
La nuova civiltà dell’odio
di Giuseppe D’Avanzo


Quel che è accaduto al Senato con l´approvazione delle nuove leggi per la sicurezza è elementare nella sua barbarie. Per un atto di ossequio politico ai desideri xenofobi della Lega, si sono dichiarati inattuali e fuori legge i diritti degli uomini, delle donne, dei bambini che non sono nati qui da noi, che non sono cittadini italiani; che non hanno il permesso di soggiorno anche se nati in Italia; che non vivono in una casa ritenuta igienicamente adeguata dal sindaco; che non conoscono l´italiano; che stanno come una mosca sul naso della "guardia nazionale padana" (ora potrà collaborare con le polizie). La notizia è allora questa: le nuove leggi inaugurano una nuova stagione della civiltà del nostro Paese.
È una stagione livida, odiosa, crudele, foriera di intolleranze e conflitti perché esclude dall´ordine giuridico e politico dello Stato i diritti della nuda vita naturale di 800 mila residenti non-cittadini, migranti privi di permesso di soggiorno, un´esclusione che si farà sentire anche sulle condizioni di vita e di lavoro degli oltre tre milioni di immigrati regolari.
Lo stato di eccezione, che la destra di Berlusconi e Bossi ha adottato fin dal primo giorno come paradigma di governo, diventa così regola. Con un tratto di penna, centinaia di migliaia di non-cittadini, in attesa di permesso di soggiorno � che spesso già vivono nelle nostre case come badanti, che puliscono i nostri uffici, cucinano nei nostri ristoranti, lavorano nei nostri cantieri e fabbriche � perderanno ogni diritto protetto dalla Costituzione, dalla Carta dei diritti fondamentali dell´uomo, dalle convenzioni internazionali (il diritto all´uguaglianza, il diritto alla salute, il diritto alla dignità della persona). Nemmeno i bambini potranno curarsi in un ospedale pubblico senza essere denunciati (abolito il divieto di denuncia per i medici). I migranti senza carta troveranno sempre più difficoltà nel trovare un alloggio. Non potranno spedire a casa alcuna rimessa, il denaro guadagnato qui. Dovranno mostrare i documenti alle "ronde", improvvisate custodi di un privato ordine sociale. Vivranno nelle nostre città con il fiato sospeso, con il terrore di essere fermati dalle polizie, in compagnia dell´infelice pensiero di essere scaraventati da un´ora all´altra in un vuoto di diritto, da un giorno all´altro rimpatriati in terre da dove sono fuggiti per fame, povertà, paura.
Sono senza cittadinanza, sono senza "visto", saranno senza diritti: questo è il nucleo ideologico che la Lega ha imposto alla maggioranza che lo ha condiviso. I diritti "nostri" diventano gli strumenti per cancellare i diritti degli altri, di quelli che sono venuti «in casa nostra». Si sapeva da tempo � lo ha scritto qui Stefano Rodotà � che questo "pacchetto" di norme avrebbe creato un vero e proprio «diritto penal-amministrativo della disuguaglianza» in contrasto con i precetti della Costituzione. è accaduto di più e di peggio. Quel profilo di legalità costituzionale, il precetto che impegna la Repubblica «a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell´uomo», ad «adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», è apparso a una destra spavaldamente xenofoba null´altro che «un fantasma senz´anima». Più che di incostituzionalità bisogna parlare di anticostituzionalità, come ha già fatto Gustavo Zagrebelsky. Bisogna prendere oggi atto del passaggio da una Costituzione a un´altra. Va registrato questo salto nel vuoto, uno slittamento che � con il cinico progetto di trasformare la paura in utile politico � prepara una condicio inhumana per il popolo dei "senza": dei senza permesso, dei senza casa, dei senza patria. è una nuova Costituzione, non ancora scritta o discussa, che disegna una società di diseguali, «premessa dell´ingiustizia, della discriminazione, dell´altrui disumanizzazione».
è una deriva coerente con quanto il governo Berlusconi e la sua destra ci hanno mostrato in questi mesi. L´indifferenza per l´universalità dei diritti della nuova legge si connette alla distruzione della funzione parlamentare, prepara la dipendenza della funzione giudiziaria, annuncia la fine della separazione dei poteri. Lo scambio tra Berlusconi e Bossi è manifesto anche per chi non ha voglia di vederlo o fronteggiarlo. Alla Lega, federalismo e leggi xenofobe contro i non-cittadini. Al Capo, la vendetta sulla magistratura e la concentrazione del potere. Così, passo dopo passo, legge dopo legge, la nostra democrazia liberale cambia pelle per diventare democrazia autoritaria.
Non ci si deve rassegnare a quest´esito. Non ci si può rassegnare. La bocciatura del governo al Senato in tre votazioni dimostra che qualche mal di pancia c´è nella maggioranza. Svela che non tutti, in quel campo, accettano che la politica dell´immigrazione diventi, nelle mani della Lega, esclusiva questione di polizia e dispositivo di esclusione e non di integrazione. Si può, si deve credere con disincanto che qualche argomento, nel prossimo dibattito alla Camera, possa far leva sui più ragionevoli e pragmatici. è vero, psicologia sociale e cinismo politico tendono a ingrassare, con la complicità dei media, la diffidenza nelle relazioni tra le persone e tra le comunità. Come è vero che l´appello alla legalità costituzionale suona impotente e inutile in ampie aree del Paese. E tuttavia a quel ceto politico, a quell´opinione pubblica si può dimostrare come il registro disumano delle nuove leggi non protegge la sicurezza del nostro Paese. La minaccia. Come la persecuzione degli immigrati non conviene al Paese. L´esercito di badanti che oggi accudisce i nostri anziani (sono 411.776 colf e badanti in attesa del "visto") consente un welfare privato, dopo il tracollo di quello pubblico, anche a famiglie non privilegiate, dal reddito modesto. Chi può ignorare che quelle braccia che oggi dichiariamo fuori legge consentono al nostro sistema delle imprese di competere su mercati internazionali o di tenersi a galla in tempi difficili? O chi può dimenticare che il contributo al prodotto interno lordo della manodopera straniera sostiene il pagamento delle pensioni di tutti? Anche chi volesse ignorare tutto questo dovrebbe fare i conti con una constatazione concreta. Le nuove leggi di uno Stato punitivo e «cattivo», come piace dire al ministro dell´Interno Maroni, consegneranno una massa crescente di non-cittadini migranti a organizzazioni criminali che si occuperanno del loro alloggio, dei loro risparmi, finanche della loro salute rendendo più insicuro e fragile il Paese. è un´illusione � e sarà presto un pericolo � credere che «noi» cittadini possiamo negare ogni riconoscimento, anche di una nuda umanità, a «loro», ai non-cittadini. Questa strategia persecutoria per quanto tempo credete che sarà accettata in silenzio? Il nostro Paese, già diviso da ostinate contrapposizioni domestiche, non ha bisogno anche di conflitti razziali.

l’Unità 6.1.09
Sì alla legge sicurezza: clandestini senza cure
di C. Fus.


Votato dal Senato il ddl sicurezza. Un insieme di norme repressive tese a colpire gli immigrati. A partire dall’obbligo dei medici di denunciare gli stranieri clandestini quando si recano al Pronto soccorso.
La Lega sventola vessilli verdi, esultano dai banchi del Carroccio. Il capogruppo Bricolo sorride: «Dedicato ai nostri militanti». Ore 14,01, aula di palazzo Madama, sul tabellone elettronico sono stampati 154 sì e 114 no, nessun astenuto, una maggioranza netta approva il disegno di legge numero 733 «Disposizioni in materia di pubblica sicurezza».
Immagini che segnano la storia
Ci sono immagini che segnano la cronaca. Forse la storia. Questa è una di quelle. Perché il testo uscito ieri dal Senato, e che ora andrà alla Camera, cambia radicalmente due aspetti importanti della cultura del paese. Cambia l’approccio al grande tema dell’ordine pubblico. Soprattutto cambia radicalmente l’approccio alla questione immigrati. I 55 articoli voluti dai ministri Alfano e Maroni, e via via corretti in otto mesi di iter parlamentare segnato dai ricatti della Lega, contengono cose buone e utili come l’inasprimento della lotta ai boss di mafia (41 bis più duro) e una maggiore efficacia nel sequestro e nella confisca dei beni dei mafiosi. Ma in generale certificano per legge l’inizio dell’intolleranza per il diverso e per il povero e la “caccia” allo straniero. «Siamo alla persecuzione, il germe della paura prolifera nel paese», dice Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd. Ma parole simili arrivano anche dai banchi della maggioranza, prova provata di un dissidio che il premier farà fatica a tenere a bada. «E’ un errore fondamentale, indegno di un paese civile» accusa Francesco Nucara, segretario del Pri. Attaccano, dalla Camera, Alessandra Mussolini («sono indignata, saranno esclusi dalle cure anche i bambini») e Margherita Boniver. Beppe Pisanu dà l’allarme per la «pericolosa deriva». Gli altri devono trincerarsi dietro l’anonimato, come mercoledì quando hanno bocciato alcuni emendamenti, tra cui il divieto di trattenere i clandestini nei Cie per 18 mesi, grazie al voto segreto. Alcune norme danno i brividi più di altre. Una più di tutte: i medici d’ora in poi potranno denunciare gli stranieri clandestini. E’ stato abolito il divieto di non segnalazione dell’immigrato irregolare che si reca al Pronto Soccorso. Bisogna pensare alla cattiveria della norma: colpire una persona nel momento di massima debolezza, quando non sta bene. Proprio per questo, invece, per la Lega, sarà una buona arma contro i clandestini. Il presidente del Senato Renato Schifani, seconda carica dello Stato, commenta così: «La Costituzione è rispettata perché la norma non impedisce l’accesso alle cure». Come dire: la forma è salva. Si ribellano i medici, no della Cgil, della Cei, dall’Anaao, e poi tutte le sigle. L’articolo 44 fa nascere, presso il Viminale, «il registro nazionale dei senza fissa dimora». Entro 180 giorni dall’approvazione della legge le forze dell’ordine faranno la schedatura di barboni e senza fissa dimora. L’articolo 46 istituisce le «ronde di cittadini»: un sindaco può ingaggiare gruppi per vigilare sul territorio. Un emendamento di Casson (Pd) evita che siano anche armati e che «possano cooperare nello svolgimento dell’attività di presidio del territorio». Insomma, spuntate ma le ronde ci saranno. E chi le controlla? Preoccupati i funzionari di polizia: «Norma molto pericolosa che non farà diminuire i reati».

Repubblica 6.2.09
Medici in rivolta: "Sarà obiezione di coscienza"
di Marina Cavallieri


"È contro l’etica, rischi per la salute pubblica". La Cei: non denunceremo nessuno
Il presidente dell´Ordine Bianco: così si creerà una sanità clandestina

ROMA - Fanno appello al codice deontologico, invitano a praticare il dissenso, chiamano all´obiezione di coscienza. Un fronte ampio e trasversale di camici bianchi si è schierato contro la norma votata al Senato che prevede la denuncia da parte dei medici degli stranieri irregolari. Non è un dissenso formale, quello che esprimono, è una preoccupazione che assedia i luoghi della salute e le coscienze. Si rischia, dicono, una catastrofe sanitaria, una sanità clandestina gestita da gruppi etnici e religiosi, una deriva giuridica.
Spiega preoccupato Amedeo Bianco, presidente della Fnomceo, Federazione degli ordini dei medici: «È una norma che va contro l´etica e la deontologia e va contro il principio base della tutela della salute pubblica». Gli irregolari, temendo la denuncia, potrebbero «non curarsi più in strutture riconosciute, creando fenomeni clandestini di cura molto rischiosi». Di «grave rischio» parla anche il segretario della Federazione dei medici di famiglia, Giacomo Milillo: «Un clandestino potrebbe non rivolgersi alla struttura sanitaria per paura di essere denunciato». Con la possibilità che si diffondano malattie come scabbia, tbc, malaria. No anche dal fronte dei medici cattolici, sostenuti dalla Cei: «Alla Chiesa competerà sempre di aiutare le persone in pericolo di vita e non sono obbligato a denunciare nessuno», ha detto Domenico Segalini, segretario della commissione Cei per le migrazioni.
Circola tra le file dell´opposizione e dei sindacati un invito ad esercitare l´obiezione di coscienza. Carlo Podda, segretario generale della Fp Cgil, annuncia che «verranno valutate le iniziative più efficaci per scongiurare l´applicazione di questa norma, prime tra tutte la disobbedienza civile e l´obiezione di coscienza». Anche Vittorio Agnoletto e Giusto Catania, eurodeputati del Prc, propongono «all´Ordine dei medici di avviare una campagna per l´obiezione di coscienza». E l´immunologo Fernando Aiuti, del Partito della Libertà, presidente della Commissione Speciale Politiche Sanitarie del Comune di Roma dice chiaramente: «Mi auguro che i medici disobbediscano». Dicono no alla norma voluta dalla Lega anche i medici che da sempre combattono in prima linea. «Siamo sconcertati - dichiara Kostas Moschochoritis, direttore generale di Medici senza frontiere Italia - È una scelta che sancisce la caduta del principio del segreto professionale». «Delusi e preoccupati» i pediatri. In una nota la Società italiana di pediatria ricorda che «la denuncia da parte del medico degli immigrati clandestini mette in pericolo soprattutto i bambini». Che rischiano di diventare invisibili. Ed è stata una pediatra di Modena, Maria Catellani, a diffondere, già da dicembre, un appello su internet contro la norma. «Abbiamo raccolto 78 mila firme, c´è veramente una differenza di sentire tra la cosiddetta società civile e la politica». Anche su Facebook è stato aperto un gruppo che in pochissimo tempo ha raccolto centinaia di adesioni.

l’Unità 6.1.09
Camici bianchi in rivolta: «Non denunceremo nessuno»
di Paola Natalicchio


I medici del San Gallicano di Roma: tra gli immigrati si diffonderanno paura e diffidenza
Al Policlinico Umberto Igli operatori contro «una legge razzista. Non saremo spie»

«Per tutto il giorno, i migranti sono arrivati in ospedale ansiosi. La notizia si è diffusa. Abbiamo dovuto tranquillizzarli. Ripetere che noi non li denunceremo, non chiederemo il permesso di soggiorno a nessuno. Perché la salute è un diritto di tutti gli individui. La nostra Costituzione dice così: individui, non cittadini». Parla a testa bassa. Sottovoce. Guarda spesso per terra, composto. Si interrompe, attento a pesare ogni singolo aggettivo. Come a indicare nei modi, nella postura, che una cosa molto seria è successa. Rimbalzando dalle stanze agitate della politica nella vita reale di chi fa il suo lavoro. Il professor Aldo Morrone non è un dermatologo qualsiasi. Dirige l'Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà. Lavora all'assistenza dei migranti di Lampedusa, per dire. Il suo ufficio ha sede nell'ospedale San Gallicano, nel cuore di Trastevere, a Roma, dove 10 mila migranti, ogni anno, trovano un luogo di accoglienza e di cura. Anche qui, ieri pomeriggio, è arrivata la notizia dell’approvazione, al Senato, di un emendamento della Lega Nord al Ddl Sicurezza, che fa cadere una norma di civiltà: quella per cui nessun medico che si fosse trovato a curare un immigrato senza permesso di soggiorno lo avrebbe potuto denunciare. «Vivo questa notizia con forte preoccupazione. Nemmeno nella Bossi-Fini si era arrivati a questo punto». Rassicura, Morrone. Lo ripete: per i medici non cambia niente. «L’obbligo di denuncia non c’è. Cade il divieto, che è diverso». Il problema, però, è l'ansia che rischia di scoraggiare i migranti senza permesso di soggiorno a ricorrere alle cure. «Ci abbiamo messo anni per conquistare la fiducia di queste persone. Adesso la sola ipotesi che la denuncia sia possibile, che non ci sia un freno, potrebbe spaventarli. Tenerli lontani dai circuiti della sanità pubblica. Alimentando il mercato clandestino delle cure».
Gli fa eco il professor Luigi Toma, infettivologo del San Gallicano: «Questa decisione pone soprattutto problemi di salute pubblica. Se chiudiamo l'accesso alla cura a queste fasce di popolazione, più deboli e svantaggiate, e quindi più esposte a malattie contagiose, aumentiamo i fattori di rischio per tutta la popolazione, immigrata e non, “regolare” e non». Su questo aspetto insiste un'altra infettivologa dell’Istituto, la dottoressa Ilaria Uccello, che aggiunge: « È in corso una deriva preoccupante. Una violazione dei diritti umani e di tutte le normative europee. E poi c'è altro: assicurare l'accesso alla salute ai migranti significa anche creare presidi sociali e politici. Strutture di contatto. Se si svuotano, perdiamo il polso di una realtà con cui è importante restare in relazione». Anche al Policlinico Umberto I c'è grande tensione, soprattutto tra il personale del pronto soccorso, avamposto dell'assistenza agli stranieri. «Questa è discriminazione razziale. Si colpiscono i più deboli, chi ne ha più bisogno. Noi non siamo pubblici ufficiali. Il nostro lavoro non è denunciare, ma tutelare la salute dei pazienti. Di tutti i pazienti. Non trasformeremo i nostro ospedali in luoghi di detenzione», protesta il dottor Stefano Calderale, responsabile del Pronto Soccorso Trauma. «Viene escluso il nostro dovere di curare chiunque in qualsiasi momento. E questo crea un altro problema: la gente arriverà a curarsi più tardi. In condizioni peggiori o solo in condizioni gravi, quando per noi è anche più difficile intervenire. Salterà, insomma, il lavoro sulla prevenzione», aggiunge il dottor Sergio Tibaldi, del Dipartimento Emergenza. Sconcerto, anche da Medici senza frontiere. «È stato ignorato il grido di allarme lanciato dagli ordini professionali di medici, infermieri e ostetriche e da centinaia di associazioni e rappresentanti della società civile», dichiara Kostas Moschochoritis, direttore generale di MSF Italia.

l’Unità 6.1.09
Gino Strada: norma stolta e perversa
La cura è un diritto


Secondo Gino Strada, fondatore di Emergency l’emendamento sui “medici-spia” mette «gli individui nella condizione di scegliere fra l'accesso alle cure e il rischio di una denuncia». «Secondo tutti i medici che ho conosciuto e apprezzato - dice Strada - l’unico modo giusto e civile per fare medicina è garantire a tutti la miglior assistenza possibile, senza distinzione alcuna riguardo a colore della pelle, sesso, convinzioni politiche, religiose o culturali, nazionalità o status giuridico». «Anche di fronte all’inciviltà sollecitata da una norma stolta prima ancora che perversa, sono certo che i medici italiani agiranno nel rispetto del giuramento di Ippocrate, nel rispetto della Costituzione e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani».

Repubblica 6.2.09
Via libera ai rambo delle ronde il "bastone padano" entra nel codice
Il disegno di legge le autorizza ma senza armi. Da Miglio a Borghezio la mitologia leghista dell’autodifesa
di Filippo Ceccarelli


Negli anni ´90 nasce la Guardia Padana: uniformi, giuramenti, alzabandiera
Nel 2000 a Mestre fu perfino ideata la macchina "acchiappa-clandestini"

Ronde sì, dice il disegno di legge approvato dal centrodestra, ma senza armi. Eh, troppo buoni: ci mancava solo che se ne andassero in giro, a caccia di malintenzionati, con la pistola, la doppietta caricata a pallettoni e magari pure il fucile mitragliatore.
Qualche ragionevole controversia, a questo punto, può sorgere semmai a proposito del bastone. «Per la delinquenza criminale ci vuole il bastone padano» disse nel gennaio del 1999 l´onorevole Borghezio, che di ronde senza dubbio se ne intende. Era allora il ministro dell´Interno del governo separatista del Nord, detto anche governo-sole: «E se ci chiameranno squadristi non importa, ce ne fotteremo» continuò graziosamente Borghezio. L´attuale ministro dell´Interno del governo vero, cioè Maroni, trovatosi a parlare subito dopo, cercò di ridimensionare il proposito contudente: «Non credo che ce ne sarà bisogno».
E tuttavia - ironia della sorte e ancor più delle parole - al comando delle già ben operose ronde padane c´era a quel tempo un signore che si chiamava proprio così: Max Bastoni. Candidato alle elezioni in Lombardia aveva come slogan: «Bastoni contro l´immigrazione». Un giorno, in un mercato di Milano, incrociò una candidata ds di origine eritrea, e avvenne un parapiglia.
Questo a proposito di Bastoni, e di eventuali legni, mazze e randelli. Vero è che qualche anno prima, lo stesso Borghezio, che di ronde ne ha fatte così tante da essersene inventata addirittura una di tabaccai contro i contrabbandieri, ecco, sempre in un comizio, ma stavolta rivolgendo il pensiero alla mafia nel nord, Borghezio evocò le virtù della «signora Beretta». In quel caso il raffreddamento del clima toccò in sorte a Bossi in persona, cui non venne di meglio che far lo spiritoso sulla «berretta» che ci si deve mettere in testa, anche a letto, quando fa molto freddo, ah- ah- ah...
Eppure non è questo un giorno allegro per chi, temerariamente, si attardi a rileggere la storia leghista secondo le categorie del poema eroicomico, o delle chiacchiere da bar. Sempre riguardo alla vigilanza di volontari anti-criminalità sul territorio, ieri istituzionalizzata in un ddl: nel 1993 il professor Miglio, che con il Senatùr ha poi sanguinosamente litigato, ma che ancora funziona come un faro nel buio della visceralità leghista, disse che il linciaggio - sì, il linciaggio - era «la forma di giustizia nel senso più alto del termine». Ebbene, e posto che i linciaggi non prevedono armi di sorta, con il dovuto pessimismo un po´ viene pure da chiedersi come si regoleranno, queste benedette ronde, di fronte a qualche efferato delitto. Ma poi, di slittamento in slittamento, anche in prossimità dei campi rom, sulle strade della prostituzione, nei terreni destinati a moschee, intorno ai bivacchi dei punkabestia, sulle spiagge battute dai vu´ cumprà, altrimenti detti abusivi.
E´ vero: le ronde padane esistono già da parecchio tempo. Nate su base volontaria in prossimità della svolta secessionista come «camicie verdi», a metà degli anni novanta, si pensò di organizzarle entro un corpo almeno all´apparenza abbastanza militare, la Guardia Nazionale Padana (Gnp): con abbozzo di uniforme, giuramento, alzabandiera, comandante in capo (con relativi e immediati impicci di potere). Forse giova ricordare che nel 1996 l´allora ministro dell´Interno Giorgio Napolitano definì le ronde: «Velleità fuorvianti» e «iniziative strumentali e inacccettabili». La magistratura, con il procuratore Papalia, cominciò a volerci veder chiaro: e a quel punto gli aspiranti Rambo del Volk padano parvero cautamente riconvertirsi in Protezione civile: medici, cinofili, pompieri e donatori di sangue. La Gnp fece comunque a tempo a compiere due grandi manovre, nel 1999, finalizzate a contrastare ipotetici sbarchi di immigrati a Pietra Ligure e a Iesolo. Durante la guerra dei Balcani qualche camicia verde dovette anche partire per la Serbia: o almeno così si trova scritto con qualche vaghezza sulla stampa dell´epoca.
In verità si trova anche traccia di storie a loro modo buffe, o drammatiche: invocazione e formazione di ronde, ad esempio, dopo fatti e fattacci di cronaca indebitamente attribuiti a stranieri, per lo più albanesi. La più grottesca fu la chiamata leghista alle armi dopo la storia boccaccesca degli «amanti di Capriolo», che erano tutti italianissimi: un lui si era trovato con una sbarra in testa dopo aver beccato una lei che se la spassava con l´altro. La vicenda più terribile riguarda invece dei volontari che gettarono una fiaccola su un accampamento di poveracci a Torino, e solo per miracolo in quel caso non ci scappò il morto.
I sindaci-sceriffi accompagnano il presente revival. Ma c´è una foto che più di ogni altra certifica come le ronde possano costituire esse stesse un problema, anziché la soluzione. E´ un´immagine stralunata, un sogno di natura incubatica: la macchina «acchiappa-clandestini», cioè un furgone bianco che nel 2000 i leghisti di Mestre addobbarono con simboli e manifesti. C´era montato sopra una specie di bidone-aspiratutto, sul modello di Ghost-buster, e l´equipaggio in posa, la tuta bianca, la maschera, il berrettino verde, la più pacifica e sincera incoscienza che di lì a qualche anno quella loro stramba allegoria sarebbe quasi diventata una legge dello Stato.

il Riformista 6.2.09
Maroni e lo Stato di polizia
di Andrea Romano


La misura dell'autolesionismo leghista è tutta nella nuova norma fatta approvare ieri al Senato. Una norma da stato di polizia, che insulta la dignità dei medici italiani e introduce una clamorosa disparità di diritti nell'accesso al bene primario della salute. Ma soprattutto una norma inutile. Che nella migliore delle ipotesi non produrrà alcun effetto di contenimento sull'immigrazione clandestina e nel peggiore (e più probabile) degli scenari nasconderà sotto il tappeto un buon numero di patologie ormai di massa, sottraendole al servizio sanitario nazionale e mettendo a rischio la salute di chiunque si trovi a vivere in Italia.
Il cattivismo produce dunque un altro autogol. E lo fa per la stessa ragione di sempre: il voler rispondere alla nostra percezione di insicurezza con provvedimenti essenzialmente dimostrativi, di nessuna rilevanza reale sui fenomeni criminali ma di forte impatto propagandistico su quelle che si considerano le attese del proprio elettorato. Ma la vittoria della volontà di dimostrazione sulla capacità di repressione è poco lungimirante, crea nell'opinione pubblica aspettative di rassicurazione totale che nessun governo (per quanto cattivista) può seriamente garantire.
È una trappola nella quale il centrodestra si è messo con le proprie mani, avendo scelto di declinare i temi della sicurezza nel linguaggio dell'emergenza ideologica piuttosto che in quello della ricerca dell'efficacia. Il rischio è grande soprattutto per la Lega, la cui più recente crescita elettorale è dovuta agli effetti di buona amministrazione nelle aree in cui è da anni forza di governo locale e non certo al volume della sua retorica etnica e sicuritaria. E se questi ultimi provvedimenti di governo ispirati dal suo risveglio propagandistico non produrranno effetti tangibili, com'è del tutto probabile, la credibilità politica di un partito che è ormai molto lontano dalla sua prima versione chiassosa e sovversiva rischia di uscirne frantumata. Perché se la Lega è cambiata, ancor di più è cambiato il suo elettorato. Che oggi chiede risultati molto più che identità. Ed è meno disposto del passato a tollerare, ad esempio, che una norma di puro senso dimostrativo come quella sui medici delatori si traduca nell'emergenza sanitaria paventata ieri con molto realismo dal governatore del Veneto Giancarlo Galan.
D'altra parte le difficoltà politiche in cui si dibatte la Lega sono evidenti già a livello parlamentare, se solo facciamo un passo indietro e ricordiamo che il giorno prima Maroni era stato clamorosamente battuto dalla propria maggioranza sui "Centri di identificazione ed espulsione". Segno che il nuovo cattivismo leghista comincia d essere temuto da consistenti settori del centrodestra, come una strada senza uscita che può forse servire al gruppo dirigente di Bossi e Maroni per resistere ai rischi di omologazione berlusconiana ma di certo non promette niente di buono per i risultati di governo. Resta da vedere se questo duello tutto interno alla maggioranza produrrà effetti deleteri sulla nostra qualità della vita, com'è il caso di quest'ultima norma, o se potrà essere ricondotto entro i confini di una ragionevole disputa politica.

Repubblica 6.2.09
Distinguere il possibile dall’impossibile
di Umberto Veronesi


La forte ondata emotiva che accompagna la vicenda di Eluana rischia di sviare l´attenzione dal cuore del problema. L´ordinamento del nostro Paese prevede per tutti il diritto di rifiutare i trattamenti.
Anche i trattamenti cosiddetti "di sostegno", come la nutrizione artificiale o la trasfusione di sangue, ma ora si vorrebbe calpestare questa norma fondamentale, violando il diritto di autoderminazione delle persone, che è sacrosanto per ognuno di noi. Capisco e intimamente condivido la commozione profonda che pervade in queste ore tutto il Paese, ma a questo punto il sentimento non deve impedire di capire cosa si può fare e cosa non si può fare. Cancellare la morte? Non si può fare. Evitare la sofferenza ai familiari o a chi assiste a una morte? Non si può fare. Abolire il diritto dei medici di decidere secondo scienza e coscienza? Ancora, non si può. Spazzare via con un colpo di spugna i diritti fondamentali delle persone e dei malati, conquistati con fatica e difesi per decenni? Neppure. Mettere governo e giustizia l´uno contro l´altra, con provvedimenti in cui la politica nega ciò che le Corti hanno deciso? Davvero non si può; e soprattutto non si deve. E io credo che il governo e il Parlamento non lo faranno. Nessuno oggi, se non in un momento di smarrimento e confusione, può davvero pensare di ignorare i trecento anni di storia e di grandi progressi civili che ci hanno permesso di godere di un livello di vita accettabile e di disporre della libertà personale necessaria per costruire il proprio progetto di vita. Una legge che obbliga chi cade in coma ad una vita artificiale, senza coscienza e senza risveglio per decenni, anche contro la sua volontà, va contro i principi di libertà e non verrebbe mai sottoscritta da nessun presidente di una democrazia avanzata. E tanto meno dal nostro Presidente della Repubblica, che è il custode della Costituzione e dei suoi più alti valori. Inoltre le leggi non dovrebbero mai essere fatte sull´onda delle emozioni, ma su una pacata e lucida analisi della realtà. Penso di essere in Italia, per età e per professione, uno fra coloro che maggiormente ha lottato sul campo per la vita, la sua qualità e per il diritto di viverla nella sua pienezza, e credo anche di essere fra coloro che più da vicino hanno vissuto accanto alla sofferenza, al dolore e alla morte. Così ho imparato a distinguere il possibile dall´impossibile. Ciò che si può fare, è, da parte della scienza, lottare fino all´ultimo per la salute del malato e annullare il dolore fisico, e, da parte della società, aiutare le persone nel momento di massima debolezza, quando sono colpite da malattie gravi, senza calpestare mai i loro diritti. Ora, se il Paese applica le conclusioni della Cassazione – che confermano che la volontà di Eluana era di rifiutare la vita artificiale e che questa volontà va rispettata – fa ciò che umanamente e civilmente è possibile fare di fronte al terribile dramma di questa donna e della sua famiglia. Se non lo fa, non risolve la tragedia e condanna Eluana a invecchiare incarcerata nel suo letto, senza vedere, senza sentire, senza parlare e soprattutto senza avere coscienza. In questo caso il Paese metterebbe anche pericolosamente in gioco gli stessi principi su cui ha fondato la sua esistenza e il suo straordinario sviluppo. Si tratterebbe di violare il principio della separazione dei poteri, quello giudiziario e quello politico esecutivo, che dal 1700, dalla Rivoluzione francese in poi, ha scritto la storia delle democrazie nel mondo e segnato la fine degli imperi e i governi assoluti. è importante che la gente, che oggi è comprensibilmente confusa dalle tematiche toccanti e incerte della morte, sappia comunque che se vedessimo che la politica prevarica la giustizia , sarebbe davvero preoccupante per il futuro.
Ciò che rassicura noi "ottimisti della ragione" è che un caso analogo si è già verificato negli Stati Uniti per Terry Schiavo quando era presidente George Bush. Anche Bush pensò allora di impedire che fosse interrotta la vita artificiale di Terry sospendendo una sentenza di Tribunale; tuttavia la Corte Suprema levò gli scudi in difesa dei principi fondamentali degli Stati Uniti d´America e Terry, il cui cervello all´autopsia apparve poi del tutto devastato, ha potuto così concludere la sua disumana avventura.

Repubblica 6.2.09
La politica gregaria
di Ezio Mauro


Fermiamoci un momento a ragionare, se possibile, sull´azione del governo nei confronti di Eluana Englaro. La ragazza è dentro una stanza a cui guarda tutta l´Italia, con i dubbi profondi e la trepidazione che questa tragedia provoca in ogni persona non accecata dall´ideologia, e con lei c´è il padre che non chiede affatto silenzio, ma anzi sollecita una discussione pubblica, accompagnata dal rispetto per quella particolare vicissitudine: come quando in ospedale si tira una tenda intorno alle ultime ore di un malato morente. In quella stanza, dopo rifiuti e ricatti, Beppino Englaro chiede allo Stato di poter porre fine ad un´esistenza vegetativa, dopo che per 17 anni si è registrata una situazione irreversibile. Lo fa in nome di una convinzione di sua figlia, di una sentenza della Corte d´Appello di Milano e della Cassazione, e soprattutto lo fa in nome dell´amore e del dolore che lui più di ogni altro prova per Eluana.
Fuori, passando definitivamente dalla testimonianza dei valori cristiani alla militanza, la Chiesa muove fedeli e obiettori, proteste contro l´ "omicidio" e l´ "assassinio", invocazioni ad Eluana perché si "risvegli", come se questa non fosse purtroppo una superstizione, e come se la scienza che dice il contrario fosse falsa, anzi complice, dunque colpevole. Questo governo pagano, figlio di una cultura che ha paganizzato l´Italia, è diviso dalla religione dei sondaggi (i quali danno ragione alla scelta del padre di Eluana che vuole infine liberare il corpo di sua figlia da questo simulacro di vita) e il richiamo della Chiesa, che con quel corpo totemico vuole ribadire non solo i suoi valori eterni, ma anche il suo controllo della vita e della morte.
La strada più semplice per l´esecutivo è la più vile, quella dei provvedimenti amministrativi, cioè di un diktat camuffato. Si minacciano ispezioni alla clinica, si chiedono informazioni ufficiali, si cavilla sulla convenzione tra la Regione e la casa di cura, immiserendo la grandezza della tragedia, che impone a tutti il dovere di essere chiamata col suo nome, e di essere affrontata con la responsabilità conseguente, nel discorso pubblico dove la famiglia Englaro l´ha voluta portare: probabilmente per rendere quella morte non inutile agli altri, meno priva di significato.
Quando la pressione aumenta, nella sera di mercoledì, il governo pensa ad un decreto. Uno strumento legislativo di assoluta necessità ed urgenza, che in questo caso sarebbero determinate da un caso specifico, da una singola persona. E soprattutto, contro una sentenza della magistratura passata in giudicato. Tutto ciò si verificherebbe per la prima volta nella storia della Repubblica, con un´anomalia che configurerebbe una vera e propria rottura dell´ordinamento costituzionale. Vediamo perché.
La sentenza della Cassazione non impone la fine della vita di Eluana Englaro: stabilisce che si può procedere con "l´interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale realizzato mediante alimentazione di sondino nasogastrico". Questo atto di interruzione chiesto da un padre-tutore per una figlia in stato vegetativo permanente dal 1992, per la giustizia italiana non rappresenta dunque un omicidio ma l´esecuzione di un diritto previsto dall´articolo 32 della Costituzione, il diritto a rifiutare le cure.
Con questa pronuncia, la Cassazione afferma con chiarezza che l´alimentazione forzata artificiale è un "trattamento sanitario", secondo la formula della Costituzione: mentre il decreto in un unico articolo che il governo ha pensato di varare nega proprio questo principio, e dunque non consente di seguire l´articolo 32, vincolando quindi il malato a quell´alimentazione artificiale per sempre. Per aggirare la Costituzione, si cambia il nome e la natura ad un trattamento praticato nelle cliniche e negli ospedali, lo si riporta dentro l´ambito del cosiddetto "diritto naturale", fuori dalla tutela dei diritti costituzionali.
Ma in questo modo, attraverso il decreto, saremmo davanti ad un aperto conflitto tra due opposte pronunce non solo sulla medesima materia, ma sullo stesso caso: una sentenza della magistratura e un provvedimento d´urgenza del governo con vigore immediato di legge. Solo che nel nostro ordinamento il legislatore può cambiare il diritto finché una sentenza non diventa irrevocabile, cioè non più impugnabile, vale a dire passata in giudicato. Non siamo dunque soltanto davanti ad un conflitto: ma al problema dell´ultima parola in democrazia, al principio dell´intangibilità del giudicato, alla regola stessa della separazione dei poteri. Senza quel principio e questa regola, una qualunque maggioranza parlamentare a cui non piace una sentenza "definitiva" la travolge con una nuova legge, modificando il giudicato, intervenendo come supremo grado di giudizio, improprio, dopo la Cassazione.
Naturalmente il Parlamento è sovrano nel potere di legiferare su qualsiasi materia, cambiando qualsiasi legge, qualunque sia stato il giudizio in merito della magistratura. Ma questo vale per il futuro, non per i casi in corso, anzi per un singolo caso, per un solo cittadino, e proprio per vanificare una sentenza. Si tratterebbe di un decreto contro una sentenza, definitiva: e mentre la si attua. Nemmeno nell´era di Berlusconi, dove si è cambiato nome ai reati, e si è creata un´immunità speciale del Premier, si era giunti fino a questo punto, che rende il legislatore giudice di ultima istanza � quando lo ritiene � e viola l´autonomia della funzione giudiziaria.
Per queste ragioni di patente incostituzionalità è molto probabile che il capo dello Stato abbia frenato ieri sia la necessità che l´urgenza del governo, invitandolo a riflettere. La falsa rappresentazione che vuole la destra capace di parlare della vita e della morte, e gli altri, i laici, prigionieri dei diritti e del diritto, si rovescia in questo cavillare anticostituzionale del berlusconismo gregario, che riprenderà da oggi la strada della viltà amministrativa, usando qualsiasi invenzione strumentale per bloccare la volontà del padre-tutore di Eluana.
Se il decreto salta, si salva il principio dell´autonomia tra i poteri dello Stato. Resta da chiarire, purtroppo, la capacità di autonomia della politica italiana, del suo governo, del Parlamento e di questa destra davanti alle pretese della Chiesa. Che ha tutto il diritto di dispiegare la sua predicazione e di affermare i suoi valori, ma non di affermare una sorta di idea politica della religione cristiana, trasformando il cattolicesimo italiano da religione delle persone a religione civile, con forza di legge.

l’Unità 6.1.09
Scuole obbligate a tagliare i docenti
Depliant Gelmini pro maestro unico
di Maristella Iervasi


Circolare a sorpresa detta i criteri ai presidi sulla stima degli organici di prof e maestre
Iscrizioni Il tempo pieno non verrà aumentato. Via le compresenze anche nelle classi in corso

A sopresa scatta l’ora dell’ammazzacattedre: i tagli ai docenti li devono fare le scuole, entro domani. Circolare degli uffici regionali nel caos iscrizioni. E la Gelmini manda depliant pro maestro unico.
L’ultimo modello di persuasione occulta della Gelmini maestra unica - si potrebbe dire - è la lavagna nana. Basta aprire il depliant del ministero dell’Istruzione in distribuzione nelle scuole elementari d’Italia, per trovarsi di fronte ad una lavagna che quasi si rimpicciolisce sotto gli occhi del genitore che cerca il tempo pieno. Le iscrizioni per le future prime classi sono al via ed ecco il ministero che invia la propria «propaganda» agli istituti per orientare le famiglie. Modello di base a scelta: 24 ore (maestro unico) e 30 ore, scritto col gessetto bianco su una lavagna grande. Mentre il tempo pieno «bollato» come «modello a richiesta» (che la scuola potrà attivare solo in base all’organico) compare invece su una lavagna molto, molto più piccola. A a mo’ di scoraggiamento.
Depliant tautologico E non finisce qui. La Gelmini cerca di convincere le famiglie anche con giochetti linguistici: «In tutti i paesi europei - si legge nel depliant - esiste il modello dell’insegnante unico di riferimento che ha la responsabilità della classe e degli apprendimenti degli alunni». Perché ricorrere ad una tautologia? E perché solo per il maestro unico? Il tutto mentre dagli uffici scolastici regionali, in primis il Lazio, arriva un aut-aut ai direttori e presidi sugli organici del personale docente. Che suona così: «Fate i vostri tagli». Un fai-da-te sull’ammazzacattedre in formato elettronico, con tanto di criteri per la compilazione delle schede e un’imposizione sull’inoltro da tempi da record: il 7 febbraio, domani.
Proprio in questi giorni le scuole stanno raccogliendo le domande dei genitori, i termini per le iscrizioni scadono a fine mese. Non è esclusa una richiesta di tempo pieno più alta rispetto al maestro unico. Ma nel depliant della Gelmini non si parla di potenziamento: «Il tempo pieno - c’è scritto - è confermato almeno nel numero delle classi funzionanti nel 2008/2009». Le scuole hanno quindi un gran da fare e l’imposizione ad ogni scuola di «calcolare automaticamente la propria dotazione organica» con procedure «aritmetiche di calcolo» non è propizia. Invece è scattata l’ora dell’ammazzacattedre, frutto della cura dimagrante imposta da Tremonti sull’istruzione, proprio nel bel mezzo del disorientamento delle famiglie. Ma andiamo con ordine. Iscrizioni. I «tranelli» sui moduli ministeriali sono stati smascherati proprio dai genitori, che si rifiutano di indicare con ordine di preferenza tutte le scelte orarie: 24, 27, 30 e 40 ore. Ma lo spauracchio che a settembre chi ha scelto un modello si trovi invece il figlio con il maestro unico resta in piedi. Giorni di scuole aperte per sciogliere dubbi che non trovano risposte e i dirigenti scolastici sono «assaliti» anche dalle mamme dei bambini che frequentano le altre classi: «Mia figlia andrà in 3°a avrà le stesse maestre»? «Quando ho iscritto mio figlio ho firmato un contratto con la scuola e quindi con il ministero, voglio il mantenimento di quella offerta formativa. Lo metto per iscritto o vado dall’avvocato?».
Tagli, simulazione alle scuole Una doccia fredda la circolare sugli organici del personale docente. Che nessun preside e dirigente si aspettava. E invece proprio a loro tocca fare l’elenco dei prof e maestre che dal prossimo anno non saranno più in cattedra: vuoi perchè supplenti annuali o precari; vuoi perché quelli di ruolo sono troppi e una volta segnalati potrebbero finire impiegati ad altro incarico o a coprire spezzatini di ore in più classi, magari nell’ex modulo. Criteri per il calcolo sulla stima del «contigente» docente a 22 ore e senza compresenze che riguarda non solo il primo ciclo ma anche le superiori, dove invece la controriforma Gelmini partirà solo nel 2010-2011. Eppure anche qui tagli simulati, calcolando le cattedre a 18 ore.

l’Unità 6.1.09
Rosa Cantoni, partigiana
nome di battaglia «Giulia»
sopravvissuta al lager


Mi chiamo Rosa Cantoni, sono nata a Pasiani di Prato, vicino Udine, il 25 luglio 1913. Sono stata arrestata i primi di dicembre del 1944 dai fascisti, mentre andavo a un appuntamento con un compagno. Dovevo dargli delle cose e ritirarne da lui delle altre.
Mi hanno portata alla caserma della Milizia. A mezzanotte circa mi hanno accompagnato in carcere a Udine. Una mattina chiamano il mio nome. Una compagna mi tira via il fazzoletto rosso che avevo intorno al collo, un’altra mi fa il segno della croce come gesto affettuoso. «Non parlare». «No, no, non parlo, non so niente».
Entro e vedo un signore alla scrivania che mi guarda. «Buongiorno Giulia!». Il mio nome di battaglia era Giulia. Da tempo era stata segnalata una Giulia di Udine che aiutava la Resistenza, ma pensavo che non avessero fatto ancora il nome vero. «No - ho detto - mi chiamo Rosa Cantoni». Mi chiede se conosco la persona con la quale dovevo trovarmi. Rispondo che non l’ho mai visto e non so chi sia. Chiama un secondino: «Fai venire qui Tizio».
Tizio arriva a testa bassa e non mi guarda. «E questo lo conosci?» Io ormai dovevo dire di no e ho detto di no. Alla stessa domanda lui invece risponde di sì. «Come si chiama?». «Rosa Cantoni». «Che nome di battaglia ha?». «Giulia». «Come vi trovavate?» Insomma: tutto, era il compagno con cui scambiavo settimanalmente pacchi.
Le feste le abbiamo passate tutte là, in carcere. Eravamo quattordici donne. Una mattina - era il 10 gennaio 1945 - sentiamo leggere un elenco di nomi, anche i nostri. Era venuto un treno da Trieste. È stata dura, durissima. Siamo state sempre in piedi oppure accovacciate a turno. Non saprei se abbiamo fatto tre giorni e tre notti, ma sono stati un’infinità: sembrava di essere nate sul treno. Così siamo arrivate a Ravensbrück.
Come a tutti quelli che arrivavano in un campo ci tocca la spoliazione, via i vestiti e via tutto, orecchini, tutto. Io avevo un bellissimo orologio. Poi tutto il resto: i capelli e la doccia. C’erano dei mucchietti già pronti di vestiti, se così si potevano chiamare, orribili, coi pidocchi. Dicevano che erano disinfestati, ma quando siamo entrate nelle baracche che ci avevano assegnato, dalle cuciture uscivano i pidocchi come foglie secche che andavano a cercare il nutrimento: noi. Ci hanno dato un paio di zoccoli di legno, spaiati. Dopo la vestizione ci hanno immatricolate. Il numero di matricola era stato stampigliato su un pezzettino di tela bianca che dovevamo sistemare sotto il triangolo rosso. La mia matricola era 97.323. Questo ero io.
Eravamo circa centoventi, fra slovene, istriane e noi. C’erano anche due zingare. Ci hanno divise in due gruppi, tirando a sorte, e hanno cercato dove metterci. In un grande cortile c’era una tenda, dentro cui è stata un po’ di ore una compagna di Treviso, la Moimas, una tenda come di circo, grande e nera. Ci dicono «Entrate lì, tra poco verremo a prendervi per portarvi a destinazione». Entriamo e nella penombra vediamo un mucchio di donne messe a cono. Probabilmente sotto erano già tutte morte, vestite di nero, sopra alcune galleggiavano, si muovevano ancora un poco, particolarmente due. Erano bianche come la carta, con gli occhi infossati e neri. Facevano impressione. Poco dopo arrivano due inservienti, prigionieri che facevano dei lavori all’interno, con un recipiente di patate lesse. Allora queste sopra la catasta si sono allungate, una che dalla sagoma sembrava molto alta ha messo la mano sull’orlo del recipiente. Le patate sono finite sul pavimento, correvano rotonde. Si sono chinate - non stavano in piedi - per prenderle e portarle subito alla bocca. Quello spettacolo era una cosa spaventosa. Già quasi morte, aprivano appena un po’ la bocca e cercavano col dito di mandare dentro la patata. La tenevano stretta, ma non riuscivano a ingoiarla e quelle che erano sotto di loro, che ancora capivano un po’, per istinto di conservazione cercavano di portargli via il pezzettino che avevano sulla bocca. Era una cosa spaventosa.
Dopo febbraio ci hanno adunate ed è venuto un capitano delle SS, piccolo e rabbioso, con le gambe storte e la voce stridula. Ho pensato che non rappresentava tanto bene la razza forte. Questo ci ha fatto un discorso e ha detto che chi voleva andare a lavorare in fabbrica poteva venire fuori. Nessuna è uscita. Eravamo partigiane, come potevamo andare a lavorare volontarie un una fabbrica tedesca, sotto i bombardamenti americani? Siamo rimaste ancora nel campo, poi ci hanno mandato via perché a poco a poco i Russi si avvicinavano a Ravensbrück. Hanno tenuto le vecchie, che sono morte. Altre le hanno mandate a Bergen Belsen e sono quasi tutte morte. Le poche che sono rimaste e non sono morte sono state liberate dai Russi. Io con quelle del mio gruppo abbiamo avuto come destinazione Buchenwald.
Ormai tutte soffrivamo di dissenteria. Oltre ai pidocchi e alla scabbia c’era anche la dissenteria. Se veniva forte si moriva. Siamo arrivate ad Abteroda, una fabbrica vicino a un bosco. Era lunga, con tutte le macchine e in fondo una poltrona. Seduta lì c’era una matrona tedesca, vestita di scuro, tutto il giorno stava a guardare in giro. C’erano i servizi, con water e tutto quanto. Quelle che lo hanno scoperto per prime ci hanno passato la voce, che in bagno ci si poteva sedere comodamente. Quando si aveva bisogno del bagno si doveva dire una frase che si era imparata lì, «bitte frau, ich bin krank, in abort» e ci si teneva la pancia. Vicino alla matrona c’era un soldatino biondo, i capelli color pannocchia e un fucile della guerra 1915-1918 con la baionetta in canna. Quando toccava a me, dovevo presentarmi di fronte alla matrona, io piccola, con la croce sulla schiena. «Bitte frau ich bin krank, in abort» questa faceva cenno al soldato tedesco vestito da SS di seguirmi, così lui mi veniva dietro con la baionetta in canna e io su per le scale andavo al bagno. Lì si stava fino a quando lui non cominciava a battere alla porta.
Gli americani avanzavano. Una mattina siamo partite per un viaggio senza fine. Avrebbe dovuto essere un viaggio della morte, perché non sapevano più dove metterci. Abbiamo camminato solo un po’, poi ci hanno messo in un piccolo campo in mezzo alla campagna. C’erano solo ebree ungheresi, saranno state cinquecento, tutte coi loro vestiti sbrindellati. Una notte verso le due di notte ci svegliano e ci mettono nuovamente in viaggio per non si sa dove. Si girava di qua e di là, si andava in su e in giù, da una parte e dall’altra, non ci davano da mangiare, erano due giorni che non mangiavamo niente, solo erba, radicchio, come i conigli. Non so come abbiamo fatto. Si partiva e poi avanti in un altro campo, non so quale perché la debolezza era ormai tanta. C’erano anche uomini, eravamo una grande fila di donne e di uomini, mentre per aria c’erano i combattimenti, e per la strada carri armati che bruciavano. C’era stata battaglia e un aereo inglese che si abbassava per vedere per poco non ci ha toccato. Hanno capito che eravamo dei prigionieri, una colonna di disgraziati, di fantasmi. Così abbiamo continuato un giorno intero e una notte, un altro giorno e un’altra notte, poi sorgeva di nuovo un altro giorno.
Un giorno ho rimuginato tutto il tempo, decido che non vado più avanti, così quella notte sono scappata con una compagna di Udine. Non ci vedeva nessuno, siamo andate di nascosto in una casa bombardata. Lì abbiamo trovato un’altra friulana e due belghe, madre e figlia ebree, e ci siamo fermate. Abbiamo aspettato l’alba poi siamo uscite perché la guerra non era ancora finita. Abbiamo cercato un posto sicuro e siamo andate in un cimitero.
Poi sono arrivati i Russi. La storia si è conclusa bene perché sono qui a raccontarla. Sono rientrata in Italia il 27 ottobre 1945, sempre in vagone bestiame.

l’Unità Roma 6.1.09
Partigiani e repubblichini? Per il Pdl sono la stessa cosa
E l’Anpi domani si mobilita
di Luca Del Fra


Alle ore 10, al Teatro Italia, l’Associazione Nazionale Partigiani ha organizzato un’assemblea popolare. «Vogliono riabilitare il fascismo: non c'è niente da fare» spiega Massimo Rendina, presidente dell’Anpi di Roma e Lazio.
Un assemblea popolare al Teatro Italia indetta domani mattina alle 10 dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia per rivendicare il no di Roma, città medaglia d’oro per la Resistenza, alla proposta di legge 1630. Firmata da 42 parlamentari del centrodestra, il provvedimento prevederebbe la creazione di un ordine del Tricolore per tutti coloro che hanno partecipato alla guerra di Liberazione. Tutti, indipendentemente dalla parte in cui hanno combattuto. Dunque partigiani e repubblichini equiparati, con la speranza che i primi ingoino il rospo vista la prebenda di 200 euro al mese. «Una vergogna! - dice senza mezzi termini Massimo Rendina, presidente dell'Anpi di Roma e Lazio - E lasciamo perdere gli errori che sono contenuti in quel testo, come per esempio dire che il riconoscimento va a tutti i partigiani e ai Gap, come se i Gap non fossero stati partigiani. Qui il problema è di sostanza: si parla di pacificazione, ma la pacificazione l’ha fatta Togliatti con l'amnistia nel 1946, e si potrebbe anche parlare dei ragazzi di Salò cercando di comprenderne le motivazioni personali, ma con questa legge si equipara la Resistenza alla Repubblica Sociale ed è tutt'altra cosa. La verità è che vogliono riabilitare il fascismo: non c'è niente da fare».
L’iniziativa
Ecco allora l'iniziativa di un assemblea popolare: «Per ribadire le ragioni della storia, perché non c'è un revisionismo buono e uno cattivo. Con le parole revisionismo e pacificazione vogliono tartufescamente esasperare gli animi – spiega ancora Rendina­, in un momento terribile per il nostro paese e il parlamento è ridotto a una mera facciata di democrazia. È per questo che abbiamo invitato anche un giudice, un giornalista come Furio Colombo che ci parlerà dello stata dell'informazione, ma anche i ragazzi dell'Onda, per spiegare da dove nasce il loro rifiuto dei partiti che restano uno dei mattoni della democrazia».

Repubblica 6.2.09
Cinque protagonisti degli anni di piombo nel documentario di Gianfranco Pannone
Il terrificante racconto delle Br
di Paolo D’Agostini


Oggetto delicato questo realizzato dal regista Pannone con il giornalista Giovanni Fasanella. Si parla di storie che hanno ferito (e ucciso) e possono ancora fare male. Intorno al ritrovarsi nella Reggio Emilia di oggi di cinque ex giovani che tra il '69 e il '70 dettero vita al cosiddetto gruppo dell´Appartamento, si snoda la memoria di sessant´anni di comunismo a Reggio. Dove «il Pci prendeva il 74 per cento e la Dc il 6». Dove non c´è quasi famiglia che non abbia avuto uno zio o un nonno nei partigiani rossi. Dove (a Cavriago, «nel paese dove è nata Orietta Berti») c´è ancora una piazza intitolata a Lenin con un busto regalato dai "compagni sovietici". Chi sono i cinque? Alberto Franceschini, famiglia partigiana, operaia, comunista (al cimitero la sola tomba «che abbia la falce e martello al posto della croce» è quella di suo padre), co-fondatore delle Br, arrestato nel '74, diciotto anni dentro, dissociato nell´83, oggi direttore di una cooperativa di servizi sociali. Paolo Rozzi, dopo l´Appartamento entra nel Pci, oggi presidente del IV Municipio a Reggio, crede nella "possibilità" del partito democratico: «mettere insieme i migliori comunisti con i migliori democristiani». Tonino Loris Paroli, operaio, brigatista nel '74, arrestato l´anno dopo, sedici anni dentro, né pentito né dissociato, oggi pittore. Annibale Viappiani, già operaio e delegato Fiom, oggi sindacalista, mai sfiorato dalla tentazione Br. Roberto Ognibene, Br nel '72, arrestato nel '74 e condannato a trent´anni, dissociato nell´86, oggi lavora in una cooperativa bolognese. Si riuniscono e rievocano. Altre due testimonianze fanno (con le note, usate per spezzare i capitoli, dei "Morti di Reggio Emilia" di Fausto Amodei) da contrappunto. L´anziano Corrado Corghi, all´epoca segretario regionale della Dc, che lasciò ritenendo «inconcepibile» appoggiare la politica Usa in Vietnam. E Adelmo Cervi, figlio di Aldo, uno dei sette Fratelli Cervi: dal '68 al '70 studente in Russia, sempre nel Pci, pensionato e dirigente Anpi.
Quello che si dice è che dalla Resistenza al mito della Resistenza tradita e al biennio di regolamenti di conti nel "triangolo della morte", ai moti del luglio '60, fino al rinascere dell´estremismo prima e della "lotta armata" poi (l´Appartamento ne fu il laboratorio, a Reggio) fu una storia sola. Quella di un´anima (non l´unica e per fortuna non la più forte) della famiglia comunista italiana. Potrà disturbare qualcuno sentir parlare cameratescamente di certe vicende. Ma lo stesso qualcuno non potrà che trarre materia di riflessione da quell´inaspettato passaggio in cui, seduto a tavola, l´esuberante Paroli dice senza fronzoli due cose. La prima è «noi non siamo stati terroristi, terrorismo era piazza Fontana», e l´altra è «sono stati commessi delitti politici, crimini. Soprattutto in carcere quando ammazzavamo i pentiti». Come quella volta che il "condannato" - e qui si rompe la voce di chi parla - disse soltanto: «cercate di fare in fretta, di farmi meno male possibile». Terrificante. Vale più di un milione di discorsi.

Corriere della Sera 6.2.09
Ottant'anni fa, l'11 febbraio 1929, la firma del Concordato Un assetto giuridico, poi riformato nell'84, che si è dimostrato vitale
Quando il Papa non fu più prigioniero
I Patti che posero fine alla Questione romana
di Ernesto Galli Della Loggia


«Non vi è mai stata, non vi è, e presumibilmente non vi sarà mai, la possibilità di separazione assoluta tra i due poteri in un Paese dell'Occidente europeo e in Italia in modo speciale. Non vi è mai stata e non vi sarà mai perché l'europeo non è divisibile. La Chiesa si può combattere; la Chiesa si può perseguitare; con la Chiesa si può patteggiare; ma la Chiesa non si può ignorare; è questo un dato di fatto che 19 secoli di storia confermano».
Queste parole, pronunciate alla Costituente in occasione della discussione sui Patti Lateranensi da un illustre parlamentare cattolico, Stefano Jacini — antico esponente del modernismo, deputato popolare dichiarato decaduto per antifascismo, infine membro del Cln dell'Alta Italia — possono riassumere abbastanza bene il senso con cui oggi guardare a quel Trattato di cui sta per ricorrere l'ottantesimo anniversario il prossimo 11 febbraio.
In realtà all'inizio — cioè subito dopo la presa di Roma nel 1870 e la fine del potere temporale del Papa che ne era seguito, apice dell'aspro scontro accesosi tra la Chiesa e il movimento liberal-nazionale italiano nel corso del Risorgimento — proprio la strada della separazione più o meno assoluta era stata quella che il neonato Regno d'Italia aveva deciso di battere. Lo aveva fatto attraverso la cosiddetta «legge delle guarentigie» (1871): le garanzie in questione erano per l'appunto quelle che in modo del tutto unilaterale l'Italia riconosceva al Pontefice dichiarandolo sottratto ad ogni sua giurisdizione, equiparando la sua persona a quella del re, assicurandogli il possesso indisturbato dei Palazzi Apostolici e di altri edifici e luoghi di Roma, riconoscendogli il diritto di legazione attiva e passiva, interdicendosi la possibilità d'intralciare in qualsiasi modo l'attività sia della Curia e della Santa Sede che del relativo personale ecclesiastico. L'Italia insomma, e sia pure con certi limiti, dichiarava l'organizzazione centrale della Chiesa di Roma, che pure aveva sede nella sua capitale, una sorta di corpo estraneo, un totalmente altro da sé.
Anche se fondato su un solido impianto ideologico di stampo liberale, fatto sinceramente proprio da tanti protagonisti del Risorgimento, il separatismo che allora l'Italia adottò fu tuttavia in buona parte una scelta obbligata. Infatti, l'esitazione di Pio IX e dei suoi successori a rinunciare ufficialmente ad un'eredità storica plurisecolare, e dunque la loro pervicacia nel considerarsi vittime di una pura e semplice sopraffazione, non le lasciarono altra via. Per sessant'anni il Papa, insomma, preferì considerarsi «prigioniero» nel Vaticano anziché riconoscere il fatto compiuto addivenendo ad un qualche compromesso.
La «questione romana » rimase così un problema aperto, anche se vissuto sempre meno drammaticamente da ambo le parti. Con il passare del tempo, peraltro, il mancato riconoscimento del nuovo regno da parte della Santa Sede finì per rappresentare non tanto un potenziale pericolo per la legittimazione internazionale del Paese, come invece si era assai temuto all'inizio da parte italiana, quanto piuttosto la causa permanente di un rapporto difficile tra il nuovo Stato e molti suoi cittadini di fede cattolica.
Quelli, per esempio, che attenendosi alle disposizioni della Chiesa non partecipavano per protesta alle elezioni politiche.
Fu questo un ulteriore aspetto del caso singolare che aveva visto l'Italia unico Paese d'Europa conseguire la propria indipendenza nazionale in contrasto con la religione della stragrande maggioranza dei suoi abitanti.
Il nodo, come si sa, si sciolse solo con il fascismo, nel 1929. Non a caso, dal momento che solo la dittatura mussoliniana era in grado di concedere alla Santa Sede ciò che a qualunque altro governo inserito nella tradizione liberale italiana sarebbe stato invece assai difficile concedere. Vale a dire, oltre al Trattato del Laterano vero e proprio — con la soluzione (già peraltro messa a punto in molte trattative precedenti) della questione della sovranità territoriale grazie all'«invenzione » dello Stato della Città del Vaticano— anche la garanzia politica aggiuntiva, il «necessario complemento» di un Concordato, come si legge nella premessa di questo. Un Concordato che, benché sempre modificabile con il consenso delle parti (infatti è stato poi modificato nel 1984), almeno nella sua primitiva versione del '29 era oltremodo comprensivo delle ragioni della Chiesa cattolica, a scapito vuoi dell'autorità dello Stato vuoi dell'eguaglianza dei cittadini. Proprio l'accettazione di un Concordato siffatto era tuttavia la prova, agli occhi della Santa Sede che l'Italia ufficiale aveva rotto inequivocabilmente con il passato e che, come ebbe a dire Pio XI con mal riposta enfasi polemica, essa era ormai intenzionata a «regolare debitamente le (sue) condizioni religiose per sì lunga stagione manomesse, sovvertite, devastate in una successione di Governi settari od ubbidienti e ligi ai nemici della Chiesa, anche quando forse nemici essi medesimi non erano».
In realtà, a partire dal 1929, Trattato e Concordato hanno cominciato a vivere una vita largamente autonoma, dal momento che la costituzione della Città del Vaticano si è dimostrata una soluzione di per sé felice e vitale, dotata di una forza e validità sue proprie. Si può anzi dire, a ben pensarci, che quella soluzione ha rappresentato un grande vittoria postuma del Risorgimento, dimostrando nel modo più chiaro che la fine del potere temporale dei Papi, lungi dall'impedire alla Chiesa di svolgere il suo magistero universale, è stata la premessa, viceversa, per un esercizio di tale missione ancora più vigoroso, vasto ed influente.
Tutto ciò, come dicevo, indipendentemente poi dall'esistenza tra la Chiesa e lo Stato italiano di un Concordato. Ormai, tra l'altro, la ragione d'essere di questo non può più essere fatta risalire all'antico contenzioso tra l'Italia laica e l'Italia clericale degli anni del Risorgimento né può più consistere in qualche sogno di «restaurazione cristiana della società» come quello che pure sognava La Civiltà Cattolica all'indomani dell'11 febbraio. Esso risponde palesemente ad altri motivi, ad altri sentimenti pubblici. Primo fra tutti al superamento del liberalismo ottocentesco per quanto riguarda il riconoscimento del carattere istituzionale della Chiesa. Finite le antiche dispute, e ammaestrato dalle sanguinose pretese totalitarie del Novecento, oggi lo Stato democratico-costituzionale può tranquillamente ammettere anche al proprio interno l'esistenza di altri ordinamenti originari con cui stabilire accordi e intese. E può farlo senza che debba necessariamente scapitarne in alcun modo né il confronto e magari anche lo scontro tra le idee, né l'irrinunciabile libertà per chiunque di credere o non credere. Ma ancor prima di ciò vi è un debito che ogni Paese ha con la propria storia. Quella italiana appare troppo inestricabilmente intrecciata alla vicenda del Cristianesimo e della Chiesa romana perché sia realmente plausibile immaginare un reciproco disinteresse, una reale indifferenza dell'una rispetto all'altra all'insegna dell'unilateralità. Alla fine, nella sua essenza e al di là di ogni possibile, anche necessaria, disputa sui suoi contenuti, il Concordato non è che la presa d'atto di questo dato.

Corriere della Sera 6.2.09
Il partito del no Da Gioacchino Volpe a Riccardo Bauer
Il Duce «più bravo di Cavour» ma molti dissensi furono fascisti
di Dino Messina


Un Benito Mussolini convinto di essere «più bravo di Cavour», dopo la firma dei Patti Lateranensi, la sera dell'11 febbraio non andò al ricevimento offerto dal principe Marcantonio Colonna. Volle godersi in privato quel momento di gloria e dall'appartamento di via Rasella chiamò donna Rachele, che ancora abitava a Milano, in via Mario Pagano. Dall'altro capo del filo la moglie ironizzò: «Gli hai anche baciato le pantofole a questo tuo Papa?». L'aneddoto famigliare dice quanto i primi oppositori della Conciliazione si nascondessero negli ambienti più vicini a Mussolini, nel partito, nel governo, nelle file degli intellettuali amici. Per i rappresentanti della vecchia guardia, che avevano condiviso lo slogan marinettiano «svaticanare l'Italia», accettare i Patti era difficile: da Roberto Farinacci, che aveva fomentato aggressioni fisiche contro i cattolici per intralciare le trattative, a Italo Balbo, capo delle squadre ferraresi che avevano eliminato il 23 settembre 1923 don Giovanni Minzoni, a Leandro Arpinati.
Ma l'opposizione fascista che si fece sentire di più fu quella degli intellettuali con un passato liberale. Innanzitutto Giovanni Gentile, teorico dello «Stato etico», il filosofo che nel 1925 pubblicò il manifesto degli intellettuali fascisti, condusse un'aperta campagna contro la Conciliazione. Come racconta Renzo De Felice nel secondo tomo di Mussolini il fascista, Gentile uscì più di una volta in campo aperto: «Chi parla di "conciliazione" — dichiarò il 18 ottobre 1926 alla casa del fascio di Bologna — o non ama lo Stato o non ama la Chiesa». In un articolo sul Corriere della Sera il filosofo scrisse poi che «la conciliazione giuridica sarebbe sì la fine di un dissidio... ma sarebbe pure il principio di nuovi dissidi...», così come «la separazione dello spirituale dal temporale è... un'utopia». Ma dopo l'11 febbraio il filosofo fece «una mezza palinodia», definita da De Felice «tipica e triste».
Nel febbraio 1929 sulla rivista Gerarchia lo storico vicino al fascismo Gioacchino Volpe avvertì tra l'altro che con i Patti c'era il «pericolo che si rimettano in discussione beni ormai acquisiti dallo spirito moderno; pericolo che, per reazione, si determini nuovamente quel diffuso stato d'animo da cui, in altri tempi, trassero alimento anticlericalismo e massoneria, cose che vorremmo considerare pur esse superate».
Ugo Ojetti espresse i suoi dubbi sulla rivista Pegaso in una lettera aperta al direttore della Civiltà Cattolica, padre Enrico Rosa, dicendosi però certo che il capo del governo avrebbe saputo superare le difficoltà. Gabriele d'Annunzio, nell'eremo di Gardone, non volle fare dichiarazioni pubbliche, ma in privato lanciò una delle sue battute: «Ne vedremo delle belle, col Papa mercatante e col primo ministro cristianissimo ».
Perfino il re Vittorio Emanuele III, che dal Concordato aveva tutto da guadagnare vedendo cadere l'ultima opposizione formale al regno sabaudo, ancora nel 1927 aveva confidato all'amico Vittorio Scialoja il suo scetticismo: «Io non credo affatto che s'arrivi a qualche cosa. Quelli in tonaca hanno il braccio lungo e Mussolini vuole un successo per parte sua. Le pare che stando così le cose si possa stringere?». Lo stesso dittatore nella Storia di un anno scrisse che «il re non credeva nella possibilità della soluzione della "questione romana" » e che «in un secondo tempo mise in dubbio la sincerità del Vaticano».
Invece le trattative, avviate in gran segreto nel 1924 in casa del senatore Carlo Santucci, si conclusero positivamente cinque anni dopo. I Patti vennero approvati dalla Camera dei deputati con 357 voti favorevoli e due contrari e al Senato la discussione di tre giorni, dal 23 al 25 maggio, si concluse con 316 voti a favore e sei contro (Albertini, Bergamini, Croce, Paternò, Ruffini e Sinibaldi). L'unico discorso di opposizione fu quello di Benedetto Croce, che parlò anche a nome di alcuni colleghi: «Non già che io tema — disse il filosofo— il risorgere in Italia dello Stato confessionale... ma certo ricominceranno spasimanti e sterili lotte su fatti irrevocabili, e pressioni e minacce e paure, e i veleni versati nelle anime dalle pressioni, dalle minacce, dalle paure». Croce ammonì infine che «accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa» per altri «l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi». A Croce replicò lo stesso Mussolini: «Che cosa ha detto il senatore Croce? Non è il fatto della Conciliazione in sé, ma è il modo che ancor l'offende! Ma allora qual è il suo modo? Non basta dire "il vostro modo non mi piace"; bisognava che si trovasse un altro modo con cui la questione romana doveva essere risolta». Croce per il capo del fascismo era «un imboscato della storia».
Sul fronte cattolico le dichiarazioni positive furono superiori a quelle di dissenso, anche tra gli oppositori del fascismo. Alcide De Gasperi confidò a don Simone Weber: «Il dolore dei cattolici è legittimo, ma chi potrà mettere in dubbio che la S. Sede salvaguarderà in modo meraviglioso gli interessi della Chiesa?». E l'ex direttore del Popolo Giuseppe Donati, in esilio a Parigi, sul Pungolo non esitò a scrivere che i Patti, «anche se portano la firma di alcuni assassini emeriti come Mussolini e Giunta e come Rocco», rappresentavano «un trionfo delle idee liberali». Diversa la posizione dell'ex popolare passato a Giustizia e Libertà, Francesco Luigi Ferrari, che dall'esilio scrisse una «lettera ai parroci» in cui prevedeva dopo la Conciliazione il «prosperare delle comunità protestanti ». Un certo dissenso si manifestò anche nelle comunità diocesane, come quello espresso da un gruppo di cattolici milanesi in una lettera all'arcivescovo Ildefonso Schuster: «Né il Papa né l'Italia possono benedire il fascismo».
Naturale l'opposizione compatta da parte dei comunisti e dei fuoriusciti, anche se un antifascista come Rodolfo Mondolfo avrebbe definito la Conciliazione «il punto più alto della parabola fascista ». Se Palmiro Togliatti sullo Stato Operaio
ironizzava: «Giovanni Gentile ha ragione di sentirsi a disagio. Lo spirito santo caccia di nido lo spirito assoluto» e Antonio Gramsci vedeva negli accordi tracce di «un nuovo sistema spartitorio tra regime e Chiesa», Carlo Sforza e Gaetano Salvemini espressero una dura condanna dall'esilio americano. Per Salvemini, il primo atto di un governo dell'Italia libera sarebbe stato dichiarare nullo il Concordato. Riccardo Bauer, sul foglio clandestino Nuova libertà, scrisse che il fascismo, sfociato nella teocrazia, «risolve definitivamente il problema della sovranità temporale in senso negativo». Per Ernesto Rossi i Patti erano «un'alleanza tra il manganello e l'aspersorio». Critico anche Francesco Saverio Nitti, che pure, quando era al governo, aveva tentato un accordo con il Vaticano.
Arturo Carlo Jemolo in Chiesa e Stato in Italia ricorda che dopo il duello al Senato fra Croce e Mussolini un gruppo di intellettuali torinesi raccolti attorno a Umberto Cosmo, professore di Piero Gobetti e Antonio Gramsci, mandò al filosofo napoletano un messaggio di solidarietà che fu intercettato dalla censura: «No, voi non siete un imboscato della storia». A Cosmo toccò il confino, la germanista Barbara Allason perse la cattedra.

il Riformista 6.2.09
Mostro. Mistero sulla morte di Heim, il super criminale nazista
di Anna Mazzone


Due giorni fa la tv tedesca "Zdf" e il "New York Times" hanno diffuso la notizia del ritrovamento della documentazione sulla vita e le attività di Albert Heim in Egitto, dove sarebbe morto di cancro nel 1992. Nato in Austria nel 1914 e di cittadinanza tedesca, Heim è nella lista dei super-ricercati nazisti ed è stato soprannominato «dottor Morte» per l'efferatezza delle sue uccisioni seriali. Si calcola che più di 300 prigionieri ebrei siano morti sotto le sue "cure" nei campi di concentramento di Mauthausen e Buchenwald, dove il medico nazista conduceva i suoi sadici esperimenti, amputando arti senza nessuna anestesia e iniettando benzina, acqua e altre sostanze tossiche direttamente nel cuore delle sue vittime. Arrestato dall'esercito americano nel 1945, fu però rilasciato due anni e mezzo dopo e da allora fino al 1962 condusse indisturbato l'attività di ginecologo in Germania, a Baden-Baden. Quando il cerchio attorno alla sua identità cominciò a chiudersi e sentì sul collo il fiato dei cacciatori di nazisti del centro Simon Wiesenthal, Heim abbandonò la Germania. Da allora si sono perse le sue tracce. Ieri la notizia della sua morte. Secondo l'inchiesta del "New York Times", si era convertito alla fede islamica e si faceva chiamare Tareq Hussein Farid, o Zio Tareq per gli amici più intimi. Ma Ephraim Zuroff, direttore del centro Simon Wiesenthal a Gerusalemme, resta scettico e chiede di poter rintracciare il cadavere, dal momento che non esiste alcuna prova della effettiva morte del capolista dei criminali nazisti ricercati in tutto il mondo. Dal Cairo le autorità sostengono che Heim è stato sepolto in un cimitero per poveri, dove le tombe negli anni vengono utilizzate per corpi diversi e quindi è praticamente impossibile ritrovare la sua salma. E spunta anche l'ipotesi di un'eredità di circa 2 milioni di euro che i figli potrebbero riscuotere solo se dichiarata legalmente la sua morte, il che - secondo Zuroff - spiegherebbe la «tempestività» della notizia proprio adesso.

Liberazione 6.2.09
Unità del Prc per ricomporre la diaspora
di Claudio Grassi


A distanza di pochi mesi dal congresso nazionale di Rifondazione Comunista tutto è più chiaro. Ciò che appariva avvolto nelle nebbie dell'indefinito (il «processo costituente», «la sinistra senza aggettivi», «la nuova soggettività politica») oggi ha un nome («Movimento per la Sinistra») e un primo gruppo dirigente votato da un'assemblea.
L'obiettivo immediato è dare vita ad un nuovo partito che si presenti alle prossime elezioni (europee e amministrative) in concorrenza con il Prc. Quello a medio termine, per esplicita ammissione di suoi autorevoli esponenti, è disarticolare il Partito democratico e costruire un nuovo soggetto politico con a capo Massimo D'Alema.
Da questi dati di fatto evinco alcune riflessioni.
La prima: per mesi siamo stati accusati di agitare fantasmi e siamo stati inchiodati ad un dibattito nominalistico alquanto stucchevole sulle differenze tra scioglimento, superamento e dissoluzione del Prc. Durante il congresso molti compagni hanno sostenuto il documento di Nichi Vendola proprio perché rassicurati in ordine alla persistenza politica e organizzativa del partito. Oggi possiamo dire che, per raccogliere consensi tra la "base", non si è voluto esplicitare chiaramente e limpidamente il proprio progetto politico. E' quindi del tutto naturale che molti iscritti, che nei congressi avevano votato la mozione Vendola, oggi non abbiano nessuna intenzione di uscire dal partito.
La seconda: il progetto scissionista che prende corpo in questi giorni è profondamente debole, perché fondato sul paradosso di voler unificare la sinistra separandosi da Rifondazione Comunista che comunque resta, pur con tutti i suoi limiti, il partito più rappresentativo della sinistra stessa e spaccando tanto l'area congressuale che si era raccolta a Chianciano intorno al documento «Rifondazione per la Sinistra», quanto l'assemblea che si era convocata allo scopo di formalizzare la scissione.
La terza riflessione è forse la più semplice, perché emerge con tutta evidenza dai propositi di chi è uscito da Rifondazione. La costruzione di un nuovo partito della sinistra (a maggior ragione nella variante che lo vedrebbe scaturire direttamente dalle contraddizioni interne del Partito democratico) è funzionale alla definizione di un quadro di rapporti che vedrebbe gravitare la nuova formazione politica nell'orbita del Partito democratico e del Socialismo Europeo. Con il carico di subalternità strutturale che sarebbe facile prevedere. Ma allora perché avere investito vent'anni nella rifondazione comunista? Perché avere investito nel progetto di rifondare un partito comunista respingendo all'epoca le sirene occhettiane di un soggetto della sinistra socialdemocratica?
Anche il recente esperimento elettorale dell'Arcobaleno (che alludeva implicitamente al superamento del Prc qualora l'esperimento avesse funzionato) non fa, inoltre, che confermare il destino fallimentare di qualsiasi impresa affine: moderata sul piano politico (non a caso al fondo di quell'impresa si continua a rimuovere la ragione principale della nostra sconfitta e cioè la nostra esperienza di governo) e post-comunista sul terreno dell'identità (con l'aggravante che per giustificare tutto questo si è voluto denigrare il Prc usando argomenti talmente grossolani da rendere scarsamente credibili coloro che li hanno proposti prima ancora di quanti sono stati i destinatari di quelle critiche).
Proviamo a pensare cosa sarebbe successo se, invece che produrre sei scissioni in diciotto anni, le ragioni di dissenso che le hanno motivate si fossero ricomposte all'interno di una dialettica del Partito della Rifondazione Comunista. Sarebbe oggi più debole o più forte la sinistra nel suo complesso? Sarebbe più lontana o più vicina la prospettiva di unificare la sinistra politica e sociale del nostro Paese?
Ciò di cui abbiamo bisogno è altro. Dismettere la supponenza di chi ritiene di essere Dio in terra. Di essere il depositario della "innovazione" (i cui risultati, però, non si accetta mai di sottoporre a verifica) e in nome di ciò poter perennemente denigrare i percorsi altrui. Rifondazione Comunista - che può essere criticata per mille motivi e che negli ultimi anni ha teso ad emarginare le minoranze (chi scrive ne sa qualcosa) - ha comunque un funzionamento democratico ed è attraverso un congresso democratico che si è dotata di una linea politica che è il frutto di un dibattito e, alla fine, di una sintesi tra posizioni differenti che, appunto democraticamente, si confrontano.
È un presupposto che vale per quei compagni che ancora sono esposti nel limbo che si è creato dall'ambigua oscillazione tra intenti scissionisti e propositi di restare nel nostro partito e, ancor di più, per noi e per quei compagni che hanno scelto di investire nel Prc. La storia politica italiana degli ultimi vent'anni dimostra che non c'è unità della sinistra senza unità del suo partito più forte. Noi siamo disposti a ribadirlo proponendo a tutta la diaspora della sinistra anticapitalista e comunista di entrare o rientrare nel Prc, disponibili a costruire assieme il suo nuovo profilo e proponendo a tutte e a tutti la gestione unitaria e la direzione collegiale del Partito.
*segreteria nazionale Prc