sabato 23 aprile 2011

Repubblica 23.4.11
I paradossi della fede
di Antonio Gnoli


Qualche tempo fa, in un confronto con il teologo John Milbank (poi edito nel libro La mostruosità di Cristo, ed. Transeuropa), Slavoj Zizek si interrogava sul senso della frase che Cristo pronuncia sulla Croce: «Padre, perché mi hai abbandonato». Non è un paradosso che la fede del figlio di Dio vacilli? Altrettanto assurdo può apparirci che il sacrificio sulla Croce salvi il mondo. «Credo perché è assurdo» afferma Tertulliano, sulla scorta di San Paolo. Assurdo è quanto di più distante ci sia dalla logica rassicurante della ragione. Ma è su questo abisso che si fonda la fede. Wittgenstein affrontò il significato del credere, precisando che la religione nulla aggiungeva alle nostre conoscenze, ma scopriva aspetti dell´umano cui la scienza non dava risposta. Anche John Wisdom – che gli successe alla cattedra di Cambridge – si interroga ne La logica di Dio (Quodlibet) sul paradosso della fede. Accoglierla o rifiutarla cade nel dominio dell´inesprimibile. Essa può divenire dogma o sofferenza. E la Chiesa percorse entrambe le strade. Ha praticato la fine del dubbio e al tempo stesso ha colto la grandezza salvifica del dolore. Gran parte dell´iconografia della Croce – da Holbain a Grünewald, da Bruegel a Juan de la Cruz – ha ritratto i volti della sofferenza del Cristo e di quell´abbandono gridato. Alla vigilia di Pasqua è giusto ricordarlo.

l’Unità 23.4.11
«Il premier ha paura di tutto, sa di avere perso i consensi»
Il vicepresidente dei senatori pd: così trasforma la democrazia parlamentare in un regime camuffato
di Claudia Fusani


Senatore Zanda, l’ultima è che il governo presenta un decreto per sminare anche il referendum sull’acqua. Il premier teme anche questo?
«Berlusconi è in una fase in cui ha paura di tutto: del referendum perchè può diventare un sondaggio a favore o contro la sua persona; del voto a Milano; di Tremonti e di Galan; di Scilipoti tanto che scrive le prefazioni al suo libro; dei giudici di Milano, di Ruby e delle ragazze che la sera andavano a Arcore».
Paura di cosa?
«Di non trovare più il consenso che racconta ancora di avere». Come definire i tentativi di levare di mezzo i quesiti referendari, strumento di controllo fondamentale del cittadino elettore?
«Sono pezzi di una tecnica collaudata per trasformare una democrazia parlamentare in un regime camuffato». E gli altri pezzi della strategia?
«La fine del Parlamento che come ha giustamente osservato il presidente uscente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo non fa più le leggi ma converte e vota solo quello che gli mette sul tavolo il governo. Il continuo accerchiamento della magistratura e della Corte Costituzionale, il dominio dell’informazione». Nel merito, che dire di questa idea di decreto per far nascere l’authority per l’acqua?
«In linea di principio potrei anche essere d’accordo. Il problema è che questo governo considera le varie Autorità quasi fossero dependances. In un paese dove non esiste una norma che regola il conflitto di interessi, il rischio è che mi ritrovo Berlusconi o chi per lui a gestire l’acqua. Quindi non possiamo che chiedere che l’acqua resti pubblica. E andare a votare». Sembra quasi che il populista per eccellenza, Berlusconi, abbia in realtà paura proprio del suo popolo. «E’ così. Quello che è grave è che riduce il quorum degli elettori a strumento per boicottare il referendum. Uno strumento di bocciatura o approvazione. Questo è contrario allo spirito costituzionale del referendum. Il fatto è che la maggioranza di centrodestra ci ha abituato a manipolazioni grossolane del nostro ordinamento. Il condizionamento del quorum è solo l’ultimo e, tra l’altro, è sfacciatamente contraddittorio del populismo berlusconiano. Siamo in un paese in cui da una parte c’è l’indecente proposta di Ceroni di costituzionalizzare il populismo e dall’altra il governo che mette il bavaglio agli elettori».
Lei era in aula nei giorni scorsi quando il ministro Romani ha cancellato con un emendamento la sua politica energetica. Crede che il quesito referendario sul nucleare sarà cancellato dalla Cassazione?
«Non credo e aspetterei con fiducia la decisione della Cassazione quando mai e se mai dovrà pronunciarsi. Il governo in realtà ha introdotto una sospensione e non una bocciatura. Lo stesso giorno dell’annuncio di Romani Idv e Pd avevano portato in aula un emendamento (alla moratoria al nucleare contenuta nel decreto omnibus, ndr) che prevedeva la rinuncia definitiva dell’Italia al nucleare. Il governo l’ha bocciata. Questo significa che il governo non vuole la bocciatura ma solo la sospensione».
Boicottare nucleare e acqua per far fuori anche il quesito sul legittimo impedimento? «E’ chiaro. E torniamo sempre al gioco sporco sul quorum. È implicito in quel voto un giudizio sulla sua condotta morale».
Sotto attacco anche l’istituto dei referendum? «Non me l’aspettavo. Devo dire che in quanto a spregiuticatezza Berlusconi ne inventa una più del diavolo».
Quale il limite?
«Non lo conosciamo. E a questo punto lo possono definire solo gli italiani cacciandolo via».

il Fatto 23.4.11
“Afascisti” e antifascisti
di Maurizio Viroli


Non ricordo un 25 aprile così carico di preoccupazioni come questo che ci prepariamo a celebrare. É ormai evidente a tutti che l'attuale scontro politico in Italia è fra il signore con la sua corte da una parte e la Costituzione repubblicana dall'altra. La nostra Costituzione, ricordiamocelo, è antifascista, non afascista. I Costituenti avevano quale loro ideale guida, pur con le grandi differenze politiche e ideologiche che li dividevano, la volontà di mettere per sempre al riparo l'Italia da una ricaduta nell'orrore del fascismo. Per questa ragione, che era in sintesi un'esigenza di libertà, vollero inserire nella nostra carta fondamentale tutti i principi che il fascismo aveva deriso e calpestato: i diritti individuali, il valore supremo della persona umana, l'idea che il potere sovrano deve procedere dal basso all'alto, il concetto dei limiti imposti all'esercizio del potere sovrano da parte della Costituzione, la centralità del Parlamento, l'indipendenza della magistratura, il puntiglioso elenco delle libertà individuali, il rifiuto di qualsiasi discriminazione di razza e religione.
E PER TOGLIERE ogni dubbio in merito allo spirito che sostiene ed ispira la nostra Costituzione deliberarono, pur fra contrasti e preoccupazioni serie, di collocare fra le disposizioni transitorie e finali la norma che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Non si può dunque difendere la Costituzione senza difenderne in modo intransigente il carattere antifascista.
E invece, in questa povera patria in cui si stanno perdendo anche le più elementari cognizioni di rigore intellettuale e di serietà politica e morale, l'attacco alla Costituzione tocca già l'antifascismo, e quel che più avvilisce è che si vuol distruggere l'antifascismo in nome della libertà.
È infatti in nome della libertà di esprimere le proprie idee che il senatore Cristiano De Eccher e i suoi sodali vogliono abolire la norma FINALE non transitoria (proprio non ci arrivano a capire la differenza!) XII che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Come si fa a non essere d’accordo? Il fascismo è un’idea politica come le altre e dunque chi vuole professarla, in uno Stato democratico e liberale, deve essere libero di farlo.
Il problema è che lo scopo di ogni partito politico non è dibattere idee ma governare. Un partito democratico vorrà governare secondo i principi della democrazia; un partito liberale secondo i principi liberali; un partito socialista secondo i principi socialisti; un partito fascista secondo i principi del fascismo. Il che vuol dire, per essere precisi, assassinare, mettere in carcere o inviare al confino di polizia gli oppositori politici; abolire la libertà di stampa; dichiarare illegali gli altri partiti; trasformare le elezioni in ratifiche di nomine dall’alto; perseguitare gli ebrei; scatenare guerre di conquista. La riorganizzazione di un partito fascista sarebbe dunque un vero e proprio atto di guerra contro la libertà. Favorirla o non ostacolarla, vuol dire aiutare la libertà a morire, altro che difenderla.
E NON TIRIAMO fuori i soliti argomenti: ‘lasciamoli fare tanto non sono un pericolo’; ‘ma il fascismo non può tornare’ e altre cretinate del genere. Nel 1922, 1923, 1924, nessuno, o pochissimi, pensavano che Mussolini avrebbe instaurato un regime come il fascismo. Quando l’élite politica si rese conto del pericolo, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti , era troppo tardi. Per questo bisogna agire ora, con assoluta intransigenza.
La mentalità comune italiana è intrisa di anticomunismo, di razzismo, di disprezzo per il parlamento e per i metodi della democrazia, per non parlare della spaventosa ignoranza storica. Ci sono parlamentari che copiano senza batter ciglio frasi intere del ‘Manifesto degli intellettuali fascisti’ redatto da Giovanni Gentile nel 1925 per dare base ideologica al nuovo regime. In un contesto simile un partito fascista troverebbe facilmente proseliti.
E quando ciò avverrà, cosa faremo? Lo lasceremo prosperare fino a quando conquisterà il potere? O dichiareremo uno stato d’emergenza con leggi eccezionali che metteranno a repentaglio la libertà di tutti? Non trascuriamo poi il fatto che appena abolita la norma, i fascisti sfileranno liberi ed esultati nelle piazze inneggiando al duce e ai campi di sterminio. Chi sarà allora in grado di impedire gravi disordini e inevitabili tragedie?
QUANDO SI tratta di libertà e di fascismo ciascuno deve fare la sua parte, subito, senza aspettare. Anche la Chiesa deve fare sentire la sua voce. Dica la verità, dica che il fascismo è incompatibile con la fede cristiana perché questa si fonda sul carità e quello la derideva e disprezzava come segno della mentalità dei deboli, e predicò e praticò una dottrina delle razze superiori e delle razze inferiori che ripugna alla fratellanza in Cristo.
Facciano sentire, una buona volta, una voce indignata e unanime le forze politiche, le associazioni che si riconoscono nell’antifascismo e gli intellettuali. Si schierino apertamente contro l’abolizione della norma XII tutte le persone che amano davvero la libertà e non voglio metterla in pericolo per la colpevole irresponsabilità di senatori che hanno studiato il liberalismo alla corte del signore.

Repubblica 23.4.11
Il vilipendio al potere
di Mario Pirani


Quanto più esplode con voluta sfrenatezza l´odio berlusconiano per le garanzie costituzionali, tanto più un nutrito gruppo di opinion makers si prodiga in deprecazioni per le reazioni risentite dell´opposizione.
bbandonasse ad una altrettanto rabbiosa e biasimevole violazione del galateo politico. Non è neutrale questa raffigurazione. Anche quando è delineata in buona fede essa presuppone la rimozione delle caratteristiche devastanti della situazione italiana. Si ignorano le degenerazioni tipiche del berlusconismo e si finge di assimilarle a quelle sussistenti nei normali contenziosi politici d´oltre frontiera.
Il panorama preferito da questi pittori della domenica nel dipingere i loro affreschi fintamente ingenui è quello che rappresenta gli italiani nella loro essenza fisognomica come tutti eguali, berlusconiani e avversari del premier, distinti solo dal secolare spirito di parte che dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini li ha sempre spinti ad azzannarsi fra loro con quella esasperazione partigiana che sopravanza un pacato esame delle ragioni altrui. Se, invece, analizzassero con fredda oggettività le linee del contendere si accorgerebbero presto che esse passano, come in tutte le altre democrazie occidentali, per attaccamento a valori compatibili, se pur dialetticamente contrapposti, con la destra che predilige la libertà rispetto all´eguaglianza e la sinistra l´eguaglianza rispetto alla libertà. Insomma, saremmo degli inglesi, fieri della loro Westminister, se non fosse per le caldane iraconde da curva sud che ci fan scambiare i mulini a vento del Cavaliere per draghi e guerrieri vogliosi di distruggerci. Se poi a qualcuno sorge il dubbio che le cose non stiano proprio così e che Berlusconi abbia sdoganato e reso più accettabili comportamenti incivili tra il plauso dei suoi fan, basta lasciar da parte con noncuranza il fastidioso problema e rifarsi al solito vizio caratteriale, quella specificità negativa italiana della partigianeria che i politici eccitano, anziché moderare. In ogni caso, insomma, quale chi sia l´interprete, il dramma italiano sarebbe destinato a una eterna replica della disfida tra Capuleti e Montecchi. Tutti si somigliano e tutti si odiano perché tale è il loro destino caratteriale. Dopo di che non resta che acquistare il biglietto, sedersi in poltrona, applaudire o fischiare i commedianti nei quali ci rispecchiamo.
Debbo dire che il copione non mi soddisfa e il racconto mi sembra ingannevole. Eppure, data la diffusione che queste idee tendono ad assumere, credo utile contestarne la validità senza veruna indignazione di maniera. Ora, se è una banalità antropologica ricordare che gli italiani dell´una e dell´altra sponda sono tutti italiani e, in quanto tali, hanno molti tratti che li accomunano, va anche ribadito che la scissione che oggi ne divide le azioni e i pensieri non scaturisce da una tara caratteriale che li renderebbe naturalmente impenetrabili alle ragioni comuni ma da una ben individuabile fase della loro storia. Solo analizzando questo aspetto potremmo forse capire le odierne avversioni come le specificità di una situazione non paragonabile a quella delle altre nazioni democratiche e tale da far temere il nostro progressivo scivolamento verso un regime plebiscitario. Per contro, se poniamo al centro la Storia e la Politica, capiremmo assai meglio le cose e ricorderemmo meglio anche un passato non troppo lontano. Mi riferisco al periodo conclusivo del secondo conflitto mondiale, quando con il disastro bellico venne meno il consenso di massa al regime fascista. E poi al cinquantennio che ne seguì, quello della ricostruzione, della Repubblica, della Costituzione, del miracolo economico, dell´adesione all´Alleanza atlantica e al Mercato comune. Infine, il terrorismo. Il periodo si concluse con la caduta del Muro di Berlino e con Tangentopoli. Non si può dire, peraltro, che antropologicamente gli italiani fossero diversi da quelli di oggi né che le avversioni non avessero spazio per esplicitarsi nelle lotte e manifestazioni di piazza, negli scioperi, nelle elezioni, negli scontri parlamentari. Eventi che, per di più, si collocavano in un retroterra internazionale segnato dalla guerra fredda e da schieramenti di campo che vedevano gli uni sodali con l´universo sovietico, gli altri con gli Stati Uniti e il Vaticano. Tutto poteva scoppiare da un momento all´altro, ma non scoppiò mai. Il senso del reciproco limite e la valenza delle leggi e delle istituzioni che avevano assieme costruito fece sì che non solo i capi e i gruppi dirigenti, ma le masse che li seguivano, metabolizzarono un codice non scritto di tolleranza e di civiltà pur nelle fasi di asperrimi contrasti. "Don Camillo e Peppone" fu assai più di una felice serie filmica, quanto un quadro realistico della società nazionale. La proporzionale, i cui difetti si aggravarono nel periodo ultimo della degenerazione partitocratica, permise, peraltro, una rappresentanza anche alle forze minori, laiche, liberali e socialiste che assicurava elasticità e potenziali capacità di mediazione al sistema nel suo assieme.
Con l´Ottantanove, con Berlino e Tangentopoli, i partiti storici, fiaccati dal mancato rinnovamento, illusi di poter sopravvivere sulle fortune di un passato stravolto da una svolta radicale della Storia, crollano su loro stessi. Alcuni tentano di riprendere il mare raccogliendosi in una sola scialuppa (il Pd, post cattolico e post comunista). Altri sperimentano strade diverse. Non si può qui analizzare l´evolversi di ognuno. Prendono il potere e vi rimarranno due forze eversive, in quanto mai partecipi alla Storia della nazione, mai attori delle sue fortune e sfortune. L´una, Forza Italia, è un partito-azienda che si identifica col suo padrone e fondatore, l´altra, la Lega, una formazione che si richiama alla Penisola preunitaria e divisa in Stati e staterelli. Un tempo, prima del compiersi del Risorgimento, erano soprannominati austriacanti, papalini o borbonici, a seconda delle origini regionali; oggi si dicon tutti padani. La mancanza di ogni retroterra storico culturale a far da remora, permette a Berlusconi, unico in Europa, di raggiungere la maggioranza unendo tutti, dal Centro all´estrema destra. S´inventa un collante per aggregare il consenso, mai usato da nessun governo. Tutti quelli che lo hanno preceduto, dal liberalismo cavouriano alla destra crispina, dal riformismo giolittiano all´autoritarismo fascista, dalla duplicità costituzional-stalinista togliattiana al cattolicesimo interclassista dc, tutti trasmettevano una pedagogia di valori etici (il patriottismo, il nazionalismo, l´internazionalismo, la solidarietà di classe, i doveri del cittadino o del cattolico e così via). Non sempre, a volta raramente, questi venivano coerentemente applicati ma rappresentavano una tavola dei comportamenti, cui tutti cercavano di apparire adeguati e se la violavano si sforzavano di non farsene accorgere. Per la prima, e speriamo l´ultima volta, nella Storia, il consenso è incassato esaltando ogni tipo di offesa alle virtù civiche, dal vilipendio quotidiano della Giustizia e di chi è chiamato ad esercitarla al dileggio per chi paga le tasse nel paese della massima evasione fiscale («volete vivere sotto la dittatura della polizia tributaria?»), dal vilipendio delle Istituzioni alla proclamata oscenità sessuale e machista. Da ultimo, con l´attacco all´Europa e la minaccia di uscire dall´Unione, le basi tradizionali della nostra politica estera sono messe in forse. I difetti storici – non antropologici - degli italiani, il basso tasso di civismo, il mancato senso dello Stato, il familismo amorale, il sotterfugio delle leggi vengono esaltati come virtù di governo e richiamo fortissimo al consenso. Berlusconi li impersona nella sua personale biografia. Per questo tanti italiani ci si ritrovano e circa altrettanti no.

l’Unità 23.4.11
Esplode la protesta nel primo giorno dopo il decreto che cancella lo stato d’emergenza
Manifestazioni e violenze in molte città. Versioni discordanti sul numero delle vittime
Siria in rivolta, 60 morti Scontri alle porte di Damasco
Da nord a sud, da est a ovest. Nel «Venerdì santo», la Siria si scopre unita nel rivendicare diritti e libertà. La risposta del regime è una brutale repressione. Cecchini in azione. Ma la protesta non si ferma...
di Umberto De Giovannangeli


Hanno sparato ad altezza d’uomo, trasformando il «Venerdì santo» nel «Giorno della mattanza». Una mattanza «targata» Bashar al Assad. Oltre 60 persone sono state uccise ieri dalle forze di sicurezza durante le proteste anti-regime che
hanno scosso quasi tutte le città siriane, stabilendo il triste record del giorno più sanguinoso dall'inizio della mobilitazione cinque settimane fa. A decine di migliaia hanno sfidato il divieto, imposto nei giorni scorsi dal ministero degli Interni, di non manifestare, e hanno risposto «presente» agli appelli circolati da giorni sui social network per «raggiungere la libertà».
BAGNO DI SANGUE
Nel «Venerdì Santo» di preghiera comunitaria per i musulmani e di raccoglimento per tutti i cristiani è apparsa, per la prima volta dall'inizio della mobilitazione a metà del marzo scorso (oltre 260 vittime), una piattaforma comune degli organizzatori delle proteste. In un comunicato firmato dai «Comitati locali per il coordinamento» si afferma che «tutti i prigionieri politici devono essere liberati, l'attuale apparato di sicurezza deve essere smantellato e sostituito con uno che sia regolato da una legislazione precisa e che operi nel rispetto delle leggi». Nel testo, preparato nei giorni scorsi via email, Facebook e Twitter da giovani attivisti, oppositori in Siria e intellettuali all'estero, si invoca «libertà e dignità per il popolo siriano», ma si afferma che quest'ultimo rischia di rimanere «un semplice slogan senza un cambiamento pacifico del regime e l'instaurazione di un sistema politico democratico».
All'ennesimo giorno di mobilitazione anti-regime, le autorità avevano risposto preparando un massiccio schieramento a Damasco e nelle altre principali città del Paese, sin dalle prime ore della mattina, di agenti in borghese delle forze di sicurezza, di militari dell'esercito, di squadre di lealisti armati di bastoni, di check-point. Quando i fedeli cristiani, membri della minoranza confessionale più protetta dal regime dominato da una minoranza di un' altra minoranza (gli Assad e gli altri clan alawiti), erano già rientrati nei loro quartieri dopo aver assistito alle messe del Venerdì Santo celebrate in sordina e a porte chiuse, sono cominciati ad affluire nelle moschee decine di migliaia di fedeli-manifestanti. Damasco è stata percorsa da un'inedito corteo all'interno della cintura di protezione eretta dalle forze dell'ordine nel quartiere di Midan, roccaforte del conservatorismo sunnita. Un centinaio di persone sono uscite dalla moschea locale gridando «Il popolo vuole la caduta del regime».
In quelle stesse ore si sono radunati a migliaia i curdi a Qamishli, Amuda, Ayn al-Arab, località nella regione del nord-est al confine con Turchia e Iraq, sfilando in corteo con striscioni in arabo e curdo che ribadivano «l'unità del popolo siriano». Un migliaio di giovani sono tornati in piazza anche a Latakia, nel nord-ovest, seconda città, dopo Daraa, a esser presidiata dall'esercito.
Mentre in 10mila hanno occupato le strade di Salamiya, località a maggioranza ismailita nei pressi di Hama. Col passare delle ore sono giunte le prime notizie di feriti, quindi di morti, uccisi anche da cecchini appostati sui tetti dei palazzi: ad Azraa, località nei pressi di Daraa, a Homs a nord di Damasco, a Duma, Jawbar, Zamalka e Daraya (sobborghi della capitale). Nel pomeriggio si era manifestato anche a Banias e Jabla, cittadine costiere della regione a maggioranza alawita da cui proviene la famiglia presidenziale, e a Daraa, Raqqa, Idlib, Maarrat an-Numan, la remota Albukamal al confine orientale con l'Iraq e Dayr az-Zor, capoluogo della regione dell'Eufrate. E persino ad Aleppo, roccaforte assieme a Damasco, della borghesia commerciale cooptata dal regime.
CONTO ALLA ROVESCIA
«Dopo la carneficina di oggi (ieri, ndr), Bashar ha firmato la sua condanna politica e quella dell'intero sistema da lui rappresentato», dice Wissam Tarif, attivista di spicco per la difesa dei diritti umani in Siria. «Gran parte della Siria prosegue non ha più paura ormai di invocare la fine del dominio del Baath ( partito al potere da quasi cinquant'anni, ndr.), di chiedere il rilascio di tutti i prigionieri politici, di esigere che i responsabili delle uccisioni siano arrestati e rispondano dei loro crimini».

l’Unità 23.4.11
I diritti dei nati qui
Quei «cittadini» che aspettano da troppo tempo
di Khalid Chaouki


Basta parole. Vogliamo vedere i fatti. Le seconde generazioni figli di immigrati scendono in piazza insieme al Forum Immigrazione del Partito Democratico il prossimo mercoledì 27 aprile alle ore 11 davanti a Montecitorio per protestare contro la sparizione della proposta di riforma della legge sulla cittadinanza dal dibattito parlamentare. Circa un milione di ragazzi e ragazze, figli di immigrati nati o cresciuti in Italia, non possono più sopportare una grave ingiustizia che fa di loro dei perenni stranieri in attesa di cittadinanza nell’unico paese che effettivamente essi riconoscono ormai come la loro prima patria. Per lunghi diciotto anni una ragazza nata a Roma e colpevole di essere figlia di genitori filippini deve fare la fila in Questura e chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno nel Paese in cui è nata. Questa è la condizione di umiliazione a cui sono sottoposti i figli della cosiddetta seconda generazione, esclusi dal diritto di essere cittadini italiani a causa di un arcaico concetto di cittadinanza basato sul legame di sangue. L’Italia non può più permettersi una legge così arretrata e gravemente lesiva dei diritti dei tantissimi bambini e ragazzi che popolano le nostre scuole e di fatto sono il volto nuovo di questa Italia che compie i suoi 150 anni e che deve inevitabilmente guardare al futuro. Negare il diritto di appartenere a un Paese in cui si nasce, si cresce, si studia e via dicendo è una intollerabile ingiustizia che di fatto preclude a chi nasce e cresce in Italia di sentirsi effettivamente riconosciuto alla pari dei suoi coetanei italiani. Egli durante tutta la fase fondamentale di crescita non potrà essere libero di immaginarsi medico, giudice, poliziotto, avvocato, giornalista, ambasciatore e tanto altro. Tutte professioni che richiedono come primo requisito l’essere cittadini italiani. Ma ancora di più, sarà compromessa la sua libertà di movimento, perché relegata all’ottenimento del permesso di soggiorno e alle condizioni di regolarità dei propri genitori.
Un grave ritardo legislativo di cui è stato ed è complice una destra populista e a tratti con gravi derive xenofobe e razziste, che fanno di tutto per confondere le carte mischiando scientemente l’ultimo barcone arrivato a Lampedusa, l’operaio che lavora a Treviso da almeno vent’anni e la studentessa universitaria nata a Bologna da genitori immigrati.
Chiediamo a tutti voi, italiani e immigrati, giovani italiani e figli di immigrati di portare avanti tutti insieme questa battaglia di civiltà e di diritto che deve riguardare tutti i cittadini aldilà degli schieramenti politici. Perché i figli di immigrati non sono altro che i figli di questa nostra nuova Italia. Chi nasce e cresce in Italia è italiano!

l’Unità 23.4.11
Discriminate le minoranze non magiare. Evacuati nomadi per un campo paramilitare dell’ultradestra
Ungheria, villaggio rom in fuga Amnesty denuncia la Costituzione
Amnesty denuncia la nuova Costituzione ungherese: «Viola i diritti umani». L’opposizione chiede al presidente di non firmare il testo e prepara il referendum. E intanto i rom, minacciati dall’ultradestra, fuggono.
di Marina Mastroluca


Dopo aver visto le ronde per le strade di Gyongyospata e un campo d’addestramento di tre giorni alle porte del loro villaggio, hanno deciso di andarsene. Ieri la Croce rossa ha caricato 277 tra donne e bambini rom su cinque pullman, portandoli in un posto più sicuro, dove non ci fossero milizie armate determinate a «ristabilire l’ordine» contro «la criminalità tzigana». Vederoe, Forza di difesa, si chiama così l’organizzazione paramilitare che di esercita nell’uso delle armi ed è diventata il braccio armato del partito dell’ultra destra xenofoba d’Ungheria, Jobbik.
«NAZIONE ETNICA»
La polizia ha lasciato fare, come già in passato. E stavolta con qualche ragione in più. Da pochi giorni il parlamento con i voti della sola forza di maggioranza Fidesz ha approvato una nuova Costituzione che ha messo in allarme anche il segretario dell’Onu Ban Ki-moon. Oltre a indicare Dio e cristianesimo come «elementi unificanti» del Paese, a discriminare i gay, ad aprire la strada al divieto di abortire, la nuova Carta firmata dal premier Viktor Orban identifica la «nazione politica» con la nazione etnica, estendendo il diritto di voto agli ungheresi oltre confine: un pessimo segnale per le minoranze non magiare, a partire dai rom che già sono stati messi all’indice per statuto da partiti come Jobbik. Altro pessimo segnale, l’inclusione nella nuova Costituzione del cosiddetto diritto all’autodifesa, che poi non è altro che il diritto di possedere armi anche senza licenza. I rom di Gyongyospata hanno tirato le somme, anche se Jobbik non ha votato a favore della nuova Carta. Per quel che li riguarda potrebbe essere benissimo l’inizio di un’era di pogrom.
Amnesty international denuncia la Costituzione ungherese perché «viola gli standard internazionali ed europei sui diritti umani» e cita in particolare i princìpi anti-aborto, la definizione del matrimonio come unione di uomo e donna, la mancanza di tutela contro le discriminazioni sessuali. Non sono solo questi in realtà i punti controversi. Il testo limita l’autonomia della magistratura e vincola il parlamento ad un Consiglio di bilancio legato alla Banca centrale, che avrà il potere di sciogliere le camere. Un «golpe», così la nuova Carta è stato definita dall’opposizione. «Siamo sulla strada per
diventare una seconda Bielorussia», ha detto il leader socialista Ferenc Gyurcsany. Insieme ad altre organizzazioni il partito socialista ha chiesto al presidente Pal Schmitt di non firmare il testo, che dovrebbe entrare in vigore il prossimo 1 ̊ gennaio. Gruppi della società civile si stanno organizzando per chiedere un referendum contro la nuova Costituzione.
Il Consiglio d’Europa ha sollecitato l’invio di una missione in Ungheria per preparare un rapporto, esperti andranno a Budapest il prossimo 18 maggio. Ma in Europa è la sola Germania ad aver manifestato apertamente la sua preoccupazione, per il varo di un testo lontano dai valori Ue. Budapest ha respinto le critiche come «inaccettabili» interferenze. E i rom cambiano aria.

Corriere della Sera 23.4.11
Pogrom anti-rom in Ungheria Donne e bambini messi in fuga L’esodo dei civili minacciati dalle milizie di ultradestra
di Maria Serena Natale


Gli uomini restano, donne e bambini salgono sui pullman diretti al «campo estivo» : 277 rom in fuga da miliziani dell’estrema destra, in un’Ungheria che sembra aver riportato indietro le lancette di un secolo. È la prima volta dalla Seconda guerra mondiale che la Croce rossa evacua civili ungheresi minacciati da un’organizzazione paramilitare. Durante il weekend pasquale la c i t t a d i n a d i Gyöngyöspata, 2.800 abitanti ottanta chilometri a nord-est di Budapest, ospita un «campo di addestramento» del gruppo Vedero («Forza di difesa » ), che intende «migliorare la salute dei giovani magiari instillando in loro la disciplina militare» e dal suo sito Web invita i simpatizzanti a presentarsi in uniforme per lezioni di tiro al bersaglio e uso delle armi. Il tutto a un centinaio di metri dal quartiere che ospita i 450 membri della comunità rom. È da oltre un mese che a Gyöngyöspata e in altre località delle zone rurali Vedero e organizzazioni come la Guardia civile per un futuro migliore conducono pattugliamenti «per ristabilire l’ordine e difendere la maggioranza ungherese terrorizzata dalla criminalità zingara» — espressione ancora diffusa nelle aree dell’Europa centro-orientale dove un persistente pregiudizio anti-rom si salda all’avanzata di movimenti di estrema destra dichiaratamente razzisti. Fenomeno aggravato in Ungheria dalla recente approvazione di una Costituzione di prossima promulgazione, fiore all’occhiello del governo di centro-destra di Viktor Orbán, che cita l’ «etnicità» tra i valori fondanti dello Stato ed è accusata da Amnesty International di violare i diritti umani. Vedero è una delle organizzazioni paramilitari che gravitano nell’orbita del partito nazionalista Jobbik, entrato in Parlamento nel 2010 come terza forza. «Gyöngyöspata è un campo di battaglia, subiamo continue intimidazioni e abbiamo paura — denuncia il vice presidente del consiglio locale rom Janos Farkas —. Abbiamo mandato via i nostri figli perché qui non avrebbero preso sonno» . «Allarmismo — ribatte il capo di Vedero, Tamas Eszes— la criminalità rom è un problema ma il campo non si occuperà di questo. Ci accusano di razzismo, noi perpetuiamo l’antica tradizione ungherese dell’addestramento militare» . Ieri pomeriggio la polizia ha fermato alcuni miliziani e lo stesso Eszes: portato via in manette, ha urlato ai suoi di andare avanti. Il governo di Budapest, che ha fatto dell’integrazione dei rom uno dei temi principali dell’attuale presidenza di turno Ue e che ieri ha definito l’esodo una «provocazione politica» slegata dalle esercitazioni, ha annunciato multe di 100 mila fiorini (400 euro, un salario medio) per chiunque partecipi alle ronde. «Il mantenimento dell’ordine è monopolio dello Stato» , ha dichiarato il portavoce di Orbán annunciando un decreto anti-pattugliamenti. In Ungheria vivono 800 mila rom: una serie di attacchi ai campi nel 2008-2009 fece sei vittime. Solo poche aggressioni, denunciano gli attivisti, furono classificate come «crimini dell’odio» .

il Fatto 23.4.11
Ruspe e polizia: i Rom fuggono dal sindaco e si rifugiano in basilica
A Roma occupata San Paolo, ma Alemanno non si ferma
di Silvia D’Onghia


Carne da macello. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, non indietreggia di un millimetro: dopo aver deciso che la Capitale deve essere liberata dall’emergenza rom (settemila persone su una popolazione di oltre tre milioni), ogni giorno distrugge le baracche, e la vita, di centinaia di loro. Ieri è stata la volta di via dei Cluniacensi: le ruspe sono arrivate di mattina e hanno costretto 300 rom a recuperare in fretta e furia i propri bagagli e a mettersi in cerca di un’altra soluzione. Provvisoria, s’intende, considerato che il Comune offre come unica alternativa l’alloggiamento nei Cara (Centri per i richiedenti asilo), dove le famiglie vengono divise, donne e bambini da una parte, uomini dall’altra.
   E così ieri i rom hanno dato vita ad una protesta pacifica: circa 200 di loro hanno occupato la basilica di San Paolo. “Ci appelliamo alla Chiesa – hanno spiegato – perchè ci aiuti ad affrontare questa situazione. Oggi le nostre baracche sono state distrutte, ieri quelle di altri rom a via del Flauto, e prima quelle della Miralanza, di via Severini e Lungotevere San Paolo. È questa la nostra settimana santa”. Con loro, oltre alle associazioni che si occupano di integrazione, c’era anche don Pietro, parroco della chiesa della Natività di via Gallia: “Io so’ prete – ha detto in romanesco – e sto in chiesa e faccio come mi pare. Mica mi faccio cacciare da un gendarme”. Un presidio che ha consentito ai fedeli di assistere alle celebrazioni per il Venerdì Santo.
I ROM non ne possono più e ne hanno tutte le ragioni: quasi ogni giorno, dall’approvazione del Piano nomadi, polizia e vigili urbani buttano giù i campi abusivi sparsi per la capitale. Dall’inizio dell’anno, fa sapere la Prefettura, sono stati effettuati 33 sgomberi di piccoli e grandi insediamenti. Oltre 400 persone, forse molte di più, la Prefettura non sa essere precisa. Nessuno dei rom lasciati per strada ha accettato l’assistenza nei Cara. “Abbiamo scoperto che si tratta di stagionali – si giustificano dal Palazzo del governo –. Vengono a Roma in primavera per andare a lavorare nei campi, per esempio a Fondi”. Come se un lavoratore stagionale costruisse una baracca sotto i ponti romani per fare ogni giorno 200 chilometri e raggiungere il posto di lavoro.
Ma dove sono finite le soluzioni alternative promesse da Alemanno? “L’undicesimo campo di transito previsto dal Piano – raccontano ancora dalla Prefettura – non è ancora stato allestito. La tendopoli non si è fatta (come invece aveva annunciato il sindaco, ndr) perchè ha dei costi altissimi. Si va passo passo. Prima dobbiamo pensare a risolvere l’emergenza”.
   In realtà, Alemanno ha il terrore che nei campi abusivi possa scoppiare un nuovo incendio, come quello che a febbraio è costato la vita a quattro bambini sulla via Appia. Ma ha anche la speranza (e con lui il delegato alla Sicurezza , Giorgio Ciardi) che, continuando ad abbattere baracche, alle famiglie passi la voglia di costruirle. Qualcuno in Campidoglio già parla di vittoria, soltanto perchè nei giorni di Pasqua alcuni rom di origine romena sono tornati (temporaneamente) a casa. Alemanno ha le idee chiare: “Vengono qui perchè pensano di guadagnare di più”, ha sostenuto in risposta alle critiche della Comunità di Sant’Egidio.
Il sistema creato da sindaco e Prefetto è un cane che si morde la coda. E ne sa qualcosa la Questura: una volante che partecipa ad uno sgombero, il giorno successivo è costretta a tornare sulla stessa area, perchè l’insediamento si è già ricreato. Un dispendio di risorse e di energia, oltre che un disprezzo per la vita umana.
MA, DEL RESTO, Alemanno va a braccetto con Berlusconi, che ieri ha trovato il coraggio di scrivere - in una lettera al Papa - che l’Italia è “impegnata nell’assistenza alle migliaia di persone in fuga dai Paesi del nord Africa. In ossequio al rispetto della dignità e del valore della persona umana sancito - come ha affermato il Santo Padre - dai Popoli della terra nella carta dell'organizzazione delle Nazioni Unite, si sta adoperando al meglio per rispondere con generosità a tanta sofferenza”.

il Fatto 23.4.11
I ragazzi del Muro d’Israele e le colpe dei leader palestinesi
A Bil’in nella manifestazione attaccata dall’esercito di Gerusalemme. Molte critiche anche ad Hamas e Fatah
di Giampiero Calapà


Bil’in (Cisgiordania). Il corteo procede verso il Muro. La punta più avanzata è appena arrivata là sotto quando si sente il primo boato. Lacrimogeni seguiti da proiettili di gomma. La manifestazione dei palestinesi del villaggio di Bil’in non ha fatto neppure in tempo a vederlo da vicino questo maledetto muro che subito è stata spezzata. La gente retrocede, gli occhi lacrimano, non si vede più nulla, pare che manchi il respiro. Folate di vento portano anche più indietro i gas dei lacrimogeni atterrati altrove. I più sfortunati restano vittime di questi lanci dei soldati israeliani. Due ambulanze della Mezzaluna rossa fanno avanti e indietro nella piccola stradina che dal promontorio scende fino al muro. Per dare assistenza immediata. Un manifestante palestinese viene colpito alla gamba, un altro alla testa. Solo pochi minuti per la medicazione sull'ambulanza per loro, poi per terra, seduti sui sassi a cercare di riprendersi.
E i gas lacrimogeni sparati dall'esercito israeliano possono uccidere. È successo lo scorso dicembre a Jawaher Abu Rahma, 36 anni. Aveva inalato troppi gas sotto il Muro, nel corteo del 31 dicembre. È stata portata all'ospedale di Ramallah, ma niente da fare: morta per avvelenamento il giorno in cui il mondo ha festeggiato l'anno nuovo. Suo fratello Bassem era stato ucciso nel 2009, sempre durante una protesta del movimento di resistenza popolare di Bil’in.
IERI LA SENSAZIONE è stata quella di una gabbia in cui il corteo finisce per cacciarsi. Dall'altra parte c'è l'insediamento dei coloni israeliani di Modi’in Ilit, e il Muro è servito qui per dare terra alla colonia privando gli abitanti del villaggio di appezzamenti che fino a 5 anni fa erano loro. L'esercito ha ordine di respingere. Basta il primo sasso tirato da un bambino palestinese di solito, ieri la reazione è stata addirittura preventiva. Mentre altri militari salivano dalla destra nel corridoio così detto No man's land , usato come zona cuscinetto, accerchiando i manifestanti, partivano i primi getti degli idranti. Un liquido puzzolente che infierisce sulla testa di un corteo di trecento persone al quale hanno preso parte anche cittadini europei, soprattutto francesi e italiani. La manifestazione è ripetuta dagli abitanti del villaggio ogni venerdì. Ma una volta l'anno, in concomitanza con la chiusura della Conferenza internazionale di resistenza popolare, registra la partecipazione di un maggior numero di persone, provenienti anche dall'estero . Non mancano gruppi di giovani anarchici israeliani, pronti a manifestare in solidarietà e protezione dei coetanei palestinesi. Alcuni di questi, insieme a altri palestinesi, hanno provato a forzare la No man's land, scavalcando la recinzione. Subito le camionette dell'esercito li hanno fermati, un ragazzo investito in pieno si rialza per miracolo aiutato dai compagni. Poco più in là agenti con divise diverse, scure. È la temibile polizia di frontiera, armata di tutto punto. Se intervenissero loro sarebbe una carneficina. Fortunatamente l'occasione non si presenta. Qualche bambino continua il lancio di pietre, ma il corteo arretra, sconfitto per l'ennesima volta, fino a disperdersi.
Quale futuro per una resistenza palestinese che pare non avere sbocco, proprio come nella gabbia disegnata attorno a Bil'in dal Muro? Provano a dare una risposta i giovani, tra cui molte ragazze, vent'anni o poco più, del Movimento 15 marzo. Nato per chiedere l'unità tra Cisgiordania e Gaza, separate oltre che dall'occupazione anche dalla faida tra Fatah e Hamas: “Questa classe dirigente palestinese non ci rappresenta minimamente, chiediamo che il Consiglio nazionale venga riformato”. Sentono parlare di dichiarazione di settembre, quando l'Anp (Autorità nazionale palestinese) dovrebbe annunciare la nascita dello Stato di Palestina, ma non ci credono: “Che cosa vorrebbe dire? Una gabbia un po' più bella. La soluzione dei due Stati non ci convince. Vogliamo libertà, giustizia e uguaglianza”. Propongono un rilancio della resistenza: “Non parliamo di violenza o di armi, i nostri modelli sono Gandhi, Mandela e il movimento per i diritti civili degli Usa. La comunità internazionale deve sanzionare Israele per i suoi crimini. Mentre noi dobbiamo farci forza e scendere in strada a manifestare: cosa succederebbe se 50 mila persone si ritrovassero davanti al check point di Kalandia (l'accesso a Gerusalemme, ndr)?”. Le voci di Syheir, Ashira, Hurriyah, Saradat, universitari che sognano di portare anche in Palestina la primavera araba, per oggi si spengono sotto il lancio dei lacrimogeni.

l’Unità 23.4.11
Negozi aperti il 1 ̊ maggio Camusso a Renzi: provochi
Nel botta e risposta sulla festa dei lavoratori un altro capitolo dello scontro tra il sindaco e il segretario Cgil. Sindacati contro il «rottamatore»: sciopero
di Osvaldo Sabato


Non perdono occasione per pungolarsi. Era già successo nel pieno della polemica sui lavoratori del Maggio fiorentino bloccati a Tokyo per il terremoto. Ora il duello a colpi di dichiarazioni si rinnova sull’apertura dei negozi per il Primo Maggio. I protagonisti di questo duello sono il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, e la segretaria della Cgil, Susanna Camusso. Uno scontro che rischia di avere dei riflessi anche dentro lo stesso Partito Democratico. Il sindaco “rottamatore” da tempo sta pensando di mandare definitivamente in pensione la Festa dei lavoratori a differenza del sindacato, che da tempo ha lanciato una sua campagna contro il lavoro domenicale. L’argomento è di quelli caldi, e gli stessi sindacati sembrano compatti contro Renzi tanto da dichiarare uno sciopero regionale, bollato dal sindaco «ad personam». Il miracolo renziano di aver unito la Cgil con la Cisl e Uil nello sciopero del commercio è la sintesi di questo dibattito. E la Cgil, quasi come una sfida, decide di convocare per il 29 aprile a Firenze l’assemblea nazionale dei lavoratori della grande distribuzione con le conclusioni della segretaria Susanna Camusso. In Toscana la questione fa discutere e lo stesso presidente regionale, Enrico Rossi, annuncia una legge sulla chiusura dei negozi nelle feste principali, fra cui anche il Primo Maggio, per evitare che ogni città faccia come le pare.
Anche il segretario del Pd della Toscana, Andrea Manciulli, è contro Renzi («È giusto fare festa) e il sindaco si è trovato contro i giovani democratici che per protesta hanno organizzato anche un flash mob. «È una polemica che divide inutilmente» osserva l’europarlamentare Debora Serracchiani. Da sottolineare che anche lo stesso Rossi prenderà parte all’assemblea nazionale della Cgil, un segnale chiaro di presa di distanza da Renzi, che accusa i sindacati di svegliarsi su questo argomento ogni volta che si avvicina il Primo Maggio «sono tutto l’anno in tutt’altre faccende affacendati» aveva detto il sindaco «e colgono l’occasione per aprire una polemica con il Comune». Il sindaco chiama in causa la deregulation della legge Bersani. Dalla sua parte si è schierata la leader di Confindustria Emma Marcegaglia. Ma la polemica scompiglia il centro sinistra fiorentino, l’Idv è con la Cgil, e mette d’accordo il sindacato definito da Renzi «una casta» con la metà dei sindacalisti che «dovrebbe tornare a lavorare».
«Le mie opinioni sui sindacati, sui loro bilanci e sull'eccessivo numero di permessi sindacali rimando a ciò che ho scritto nel libro FUORI!: se vogliamo cambiare il Paese, non basta ridurre i costi della politica, ma bisogna dimezzare i costi e i posti di chi vive di politica, ma anche di chi si occupa di sindacato» dice il sindaco di Firenze. «Nell' idea di Renzi di aprire i negozi del centro storico il Primo Maggio» spiega la Camusso, a Trieste,per un attivo sindacale ci sono degli elementi di provocazione e ricerca della visibilità, ma al fondo aggiunge c'è davvero un'idea sbagliata che continua a evidenziarsi spesso nelle politiche delle amministrazioni». «Si pensa che siccome c'è la caduta dei consumi allora si aprono di più i negozi e i consumi risalgono, ma non è vero. La ragione della caduta dei consumi continua Camusso è che sono diminuiti i redditi e c'è la crisi».
Il segretario generale della Cgil sottolinea che «in qualche occasione nei toni del sindaco di Firenze abbiamo notato una volontà dissacratoria che devo dire sarebbe bene che usasse per altro, perché di dissacratori del lavoro conclude ne abbiamo fin troppi». «Stupisce che in questo momento della vita del Paese il problema principale della Cgil possa essere il Comune di Firenze» replica Renzi, prima dell’affondo finale «la dottoressa Camusso dicesi avventura poi in una lettura delle nostre scelte che suona semplicistica e banale».

Repubblica 23.4.11
Manna e miele ferro e fuoco
Natura e sentimento l´epica popolare delle donne selvatiche
Il nuovo libro di Giuseppina Torregrossa cerca la complicità del lettore Con una scrittura tutta al femminile rappresenta un´eroina coraggiosa
di Leonetta Bentivoglio


Giuseppina Torregrossa è una scrittrice tutta "al femminile", senza esitazioni di genere: non s´immagina una sua sola riga scritta da un uomo. Nelle sue storie miscela pancia e cuore. In più è siciliana, e come la maggior parte dei suoi conterranei percepisce quest´origine come "la" radice esistenziale. Ogni sua pagina esprime sicilianità, intesa come sentimento della natura poderosa dell´isola e come istinto irrinunciabile del proprio territorio; e quest´aspetto è una linfa che addensa ulteriormente la sua scrittura grondante di femminilità. Il che equivale a una spiccata devozione per il materico, a una complicità materna con il lettore (c´è una sorta di melodia cantabile e cullante nel suo narrare speziato da zone dialettali) e a un incedere pervaso da odori, sapori, giochi tattili e flussi di emozioni interne. Quasi ossessivo il suo affondo nella sensualità, con persistenti accensioni veristiche.
Quest´amabile signora, che ha lavorato a lungo come ginecologa curando tumori al seno (notizia utile per capire il rapporto con il corporeo che impregna la sua scrittura), ottenne un bel successo un paio d´anni fa con Il conto delle minne: un tenero quadro di famiglia (sicula, ovviamente) guidato dal filo conduttore di un´esaltazione del seno femminile, che conquistò notevoli cifre di vendite e dieci traduzioni all´estero. Ora, con Manna e miele, ferro e fuoco, in uscita per Mondadori, l´autrice palermitana, senza rinunciare alla sua impronta, si è posta obiettivi più ambiziosi.
Se il libro precedente era un´affettuosa fiaba mediterranea, con venature di biografismo e tratti esilaranti, l´attuale storia non solo si lancia nell´invenzione pura, senza appigli documentari o soggettivi, ma sembra volersi misurare con l´impianto "classico" del romanzone popolare femminile. Perciò è sospinto da un´eroina coraggiosa, oppressa dai soprusi di un contesto maschilista e a poco a poco in grado, dopo un gran succedersi di sofferenze, di ricostituire la sua dignità e il suo libero arbitrio: una rivendicazione che deve molto a un contatto intenso con le forze naturali, come in certe figure di donne selvatiche e possenti create da Isabel Allende.
Mira in alto anche lo sfondo scelto per Manna e miele, ferro e fuoco, la cui vicenda, ambientata tra i boschi delle Madonie, si sviluppa nel momento-chiave della transizione verso l´Unità d´Italia, col crollo del regno borbonico, l´impresa di Garibaldi al Sud e l´instaurarsi del governo sabaudo nel Meridione. Gli accenti amari e disillusi sui destini della Sicilia, osservati durante l´arduo passaggio, sembrano cogliere spunti da I Viceré, non a caso il libro prediletto dalla Torregrossa. E pure l´arco di tempo attraversato, da metà Ottocento agli anni Ottanta dello stesso secolo, è il medesimo del capolavoro di De Roberto.
Ma gli accadimenti storici sono solo una cornice: il motore della trama è il personaggio di Romilda, seguita dalla nascita alla maturità. La madre Maricchia sognava una figlia femmina, e quando arriva, ultima dopo tre maschi, se ne innamora alla follia, trasmettendole molte certezze su se stessa. Il padre Alfonso, quasi uno stregone, è "u mannaluoro": il suo mestiere è estrarre dai frassini la manna, una sostanza rara e preziosa usata come dolcificante e prodotta nel triangolo compreso tra Castelbuono, Cefalù e Gangi. Romilda cresce all´aria aperta e ha una bellezza fuori dall´ordinario. E´ una fata in sintonia con le più solide e inconoscibili correnti della terra, una regina che fiorisce nel verde e tra gli alveari: le api diventano le sue migliori amiche e le sue ancelle. Dal padre impara il segreto magico della manna, da raccogliere scortecciando i tronchi: arte chirurgica riservata ai maschi, esige destrezza e sapienza. Romilda se ne appropria così bene - meglio dei suoi fratelli - che diventerà la prima mannaluora femmina delle Madonie.
Spezza l´incanto il barone di Ventimiglia, un orco vecchio e incattivito dal brutale esercizio del potere, che la vuole in sposa quando è poco più di una bambina. Comprata e schiavizzata, Romilda patisce ogni notte gli assalti del marito come stupri. La sua energia si sgretola, il suo corpo è un tempio profanato. E quando partorisce due gemelli non riesce ad accettarli. Poi però, dopo un succedersi di morti e varie disavventure, ritrova la strada delle sue montagne e si riconcilia con il battito profondo della vita.
Lungo il romanzo abbondano gli amplessi, ora goduti ora subiti, e sempre esplorati con malizioso gusto anti-censorio del dettaglio. Il sesso incombe al positivo e al negativo: tanto è turpe quello del barone ai danni della sua moglie-bambina, quanto è armonico e ricco di risonanze quello che unisce fino alla vecchiaia i due umili e appassionati genitori della ragazza. Ed è la sponda più felice dell´eros a vincere nell´epilogo, quando Romilda, splendida e rigogliosa tra i suoi frassini come una dea della fertilità, si fa possedere, finalmente consapevole e partecipe, dal giovane Lorenzo.
Tra manierismi e squilibri strutturali, l´affresco serba comunque la gradevolezza di un abbraccio, e sa ancorarsi con abilità a un´intera mappa di perni seduttivi: trionfo della superiorità "naturale" della donna; fervido culto ambientalista; femminismo addolcito fino alla stucchevolezza (manna e miele ci inondano a ogni passo); il tema intramontabile del fascino del selvaggio.

Corriere della Sera 23.4.11
L’adolescenza delle bambine comincia alle scuole elementari
di Stefano Montefiori


O voi genitori fieri della piccola Lucille che a tre anni sa già leggere e scrivere le prime parole, papà ossessionati dal mito di Mozart che a cinque compose il primo concerto, mamme attente ad accompagnare la bambina al corso di danza, inglese, nuoto, violino prima ancora delle elementari, tecnofili orgogliosi dei figli «nativi digitali» che a quattro anni già sfiorano i touchscreen, non abbiate troppa fretta: la precocità potrebbe esigere presto il suo prezzo. I bambini sono sempre più sollecitati, stimolati, incoraggiati a bruciare le tappe per accumulare esperienze che faranno di loro — questa è la speranza— adulti realizzati, colti, competenti ed esperti. Solo che poi, a sette-otto anni, le bambine cominciano a preoccuparsi della peluria sulle gambe e a chiedere la depilazione, a esibire jeans attillati a vita bassa, e talvolta a mostrare i segni anche fisici di una pubertà precoce. L’orgoglio di mamma e papà per una bambina «avanti per la sua età» , alla prima maglietta striminzita, si trasforma in sconcerto. L’adolescenza anticipata è un fenomeno in crescita e le cause sono ancora poco chiare: si evocano inquinamento da Pcb ed estrogeni nella carne, una dieta troppo ricca di grassi, l’ansia da prestazione e l’iper-stimolazione indotta da genitori troppo attenti alla performance dei figli, il bombardamento di immagini e messaggi erotizzati tipico delle nostre società, fino all’ipotesi più probabile. Cioè l’insieme di tutti questi fattori, genetici, ambientali e culturali. Per il sociologo francese Michel Fize, autore di «Les Nouvelles Adolescentes» (Armand Colin), «l’adolescenza è culturale e psicologica prima di essere biologica, e comincia ormai ben prima della scuola media. Le bambine sviluppano atteggiamenti dell’adolescenza prima di svilupparne le caratteristiche fisiche. L’adolescenza non coincide più con la pubertà. Il desiderio di uscire dall’infanzia è molto più forte oggi, e questo deriva da un ambiente sociale che induce la frenesia di una crescita rapida e di un accesso immediato alla fascia di età superiore, bruciando le tappe» . I pediatri ricordano anche la cause biologiche, genetiche e fisiologiche di questo sviluppo anticipato: l’obesità, per esempio, può accelerare la pubertà. Negli Stati Uniti, una bambina bianca su 10 mostra segni di sviluppo sessuale già a sette anni, cioè il doppio di dieci anni fa. Tra le bambine afro-americane, per motivi genetici, la frequenza aumenta a una su quattro. In Francia, secondo lo studio dell’endocrinologo Charles Sultan, l’età media dello sviluppo del seno si colloca ormai a nove anni e tre mesi. E sono i fattori culturali, quelli che dipendono direttamente dal mondo degli adulti, a inquietare di più. Il fotografo francese Alain Delorme ha voluto denunciare lo stravolgimento dell’infanzia nella serie «Little Dolls» . «Riprendo sempre una bambina, un dolce, uno sfondo colorato, i genitori. Poi comincia la trasformazione, con un software per il fotoritocco— spiega Delorme—. Trucco il viso, rimodello il naso, alleggerisco i tratti e modifico carnagione, colore degli occhi, pettinatura. Questa chirurgia estetica del pixel fa sparire il reale a favore di un’immagine interamente artificiale» . Che però esprime perfettamente una tendenza che si afferma negli Stati Uniti e sempre di più anche in Europa. I concorsi di bellezza per bambine, a lungo criticati e portati spesso ad esempio della barbarie culturale americana, erano in realtà l’avanguardia di un processo ormai attuale anche in Francia e in Italia. I sogni delle bambine si incrociano con le ambizioni dei genitori producendo «donne bambine» di otto anni, ben più precoci del mito letterario della «Lolita» nabokoviana, la dodicenne Dolores Haze. E la società ipersessualizzata, che associa in modo più o meno subliminale qualsiasi oggetto— da una bibita ai pneumatici alla colla— al corpo femminile, non manca di fare sentire i suoi effetti su bambine che colgono inconsciamente segnali continui: un «effetto Barbie» moltiplicato per mille. Dopo il servizio su Vogue francese con bambine su tacchi a spillo, che costò il posto alla direttrice Carine Roitfeld, duecento pediatri francesi hanno firmato una petizione per denunciare «l’erotizzazione dei bambini nella pubblicità e nelle immagini di moda» . «Ma dipende anche dalle mamme — ricorda al Nouvel Observateur lo psichiatra Didier Lauru —: esibiscono ed erotizzano le figlie per valorizzare se stesse» . Non sono solo le bambine, purtroppo, a giocare alle Barbie.

Corriere della Sera 23.4.11
Come fare per aiutarle a «rallentare»
di Silvia Vegetti Finzi


Un mutamento epocale vuole che l’infanzia sia sempre più breve mentre l’adolescenza tende a non finire mai. Già a nove anni molte bambine rivelano i prodromi della pubertà, fisica e psichica, una anticipazione che si registra in molti paesi europei, anche nordici. La prematurità psichica è preoccupante in quanto inaridisce i processi immaginativi, riduce il tempo del gioco, depotenzia i sogni ad occhi aperti, separa i due sessi e favorisce un’acritica adesione alla identità stereotipa proposta dai mass-media. A lungo termine ne consegue un depauperamento del potenziale creativo proprio dell’infanzia. Chi esce troppo presto dagli «anni magici» rischia un’identità emotivamente arida, un pensiero conformista, una eccessiva ricerca del consenso sociale. Certo la fretta di crescere si afferma in un contesto di generale accelerazione della vita quotidiana. Sin da piccoli i bambini vengono incentivati all’autonomia e soprattutto le bambine ricevono particolari apprezzamenti per la loro «adultità» . Ma, visti gli esiti, è forse è il caso di rallentare la corsa. Ecco una serie di consigli che mi sento di dare ai genitori: 1) meglio adottare abitini sobri senza cedere alle lusinghe del «lolitismo» ; 2) non regalare cosmetici e gioielli; 3) sdrammatizzare l’eventuale sovrappeso e non colpevolizzare il cibo; 4) evitare libri e spettacoli eroticamente stimolanti; 5) rinviare l’acquisto del cellulare e controllarne l’abuso; 6) proibire i «viaggi» in chat dove sono sempre possibili incontri pericolosi; 7) non mostrarsi lusingati per i primi corteggiamenti o alludere divertiti al «fidanzatino» ; 8) favorire le amicizie di gruppo rinviando a più tardi l’esclusività dell’amica del cuore; 9) non incentivare le esibizioni (cast di baby modelle, spettacoli, book fotografici); 10) preferire sport di squadra non competitivi; 11) accordarsi con le mamme delle compagne di classe per adottare atteggiamenti coerenti. E, infine, convincersi che la pubertà è un’età di passaggio, intermedia tra un «non più» e un «non ancora» , che va rispettata e protetta.

Corriere della Sera 23.4.11
«Il chirurgo era il principe delle truffe»
La sentenza su tre medici: pazienti considerati come pozzi di denaro
di Giuseppe Guastella


MILANO — Hanno «violato» il giuramento di Ippocrate, «con incredibile cinismo hanno tradito il rapporto fiduciario medico paziente» considerando i malati «soltanto come serbatoi» di denaro senza fermarsi «neppure davanti a pazienti particolarmente fragili e indifesi trasformati senza un barlume di pietà in strumenti per la produzione del fatturato» . I giudici di Milano spiegano perché ad ottobre hanno condannato i tre chirurghi «insensibili e spietati» della «Clinica degli orrori» Santa Rita accusati di lesioni volontarie e truffa per 79 interventi toracici dannosi e fatti solo per ottenere i lucrosi rimborsi del servizio sanitario. Sonomonumentali e destinate a fare giurisprudenza le motivazioni (1.187 pagine) con le quali la presidente della 4a sezione penale Maria Luisa Balzarotti e i giudici Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro analizzano il processo, chiusosi accogliendo pressoché tutte le richieste dei pm Grazia Pradella e Tiziana Siciliano con la condanna a 15 anni e mezzo del primario Pier Paolo Brega Massone, a 10 anni del suo braccio destro Pietro Fabio Presicci e a 6 anni e 9 mesi dell’aiuto Marco Pansera. Brega Massone è ancora in carcere accusato con Presicci e Pansera anche di quattro omicidi per la morte di altrettanti pazienti e di altri 46 casi di lesioni volontarie. Ripercorsi passo per passo gli interventi sui quali ha indagato il pm Pradella e che impegnano più di mille pagine e che descrivono «una serialità di fatti, un’intensità di dolo» da parte di tre medici: ad «elevata propensione a delinquere» e alla «continua ricerca di un pretesto per operare» . «Chissà se il chirurgo Pier Paolo Brega Massone ricorda ancora il momento in cui ebbe a prestare il giuramento di Ippocrate; chissà se lo ricordano i suoi due assistenti» si chiedono i giudici secondo i quali, sin da quando i malati venivano in contatto con il primario, si pensava di operarli, anche quando erano così malati e anziani che l’intervento era inutile. Altrimenti li si convinceva con «informazioni largamente incomplete» , terrorizzandoli con il rischio inesistente di un tumore maligno. Ma perché tanto cinismo, tanta «aggressività chirurgica» ? Brega, «principe delle condotte truffaldine» , ha «rivendicato con orgoglio» la correttezza di tutte le operazioni. «Personalità assai forte e strutturata» , «incrollabilmente convinto dell’eccellenza delle proprie qualità» , si muove per consolidare la propria posizione nella clinica e nella chirurgia nazionale e internazionale anche, è l’agghiacciante spiegazione, «grazie alla pubblicazione di lavori scientifici basati sulle casistiche operatorie» ; Presicci e Pansera «non hanno esitato ad allinearsi alle direttive» del capo condividendone gli «intenti e la spregiudicatezza» . Severo il giudizio sui consulenti della difesa Brega Massone, Ludwig Lampl e Franco Giampaglia. Le loro «imbarazzati osservazioni» vengono fatte a pezzi sottolineando come si siano contraddetti tra loro e con lo stesso Brega. Nei loro confronti i giudici esprimono «rilevantissime perplessità di metodo, così radicali da determinare un giudizio aspramente negativo sulla attendibilità delle loro conclusioni» . Ritengono che abbiano voluto «giustificare il comportamento» di Brega Massone a tutti i costi in un tentativo, «decisamente non riuscito, di trasformare il processo in una disputa accademica, una sorta di confronto tra scuole di pensiero, che il giudice dovrebbe limitarsi a registrare» . Alle critiche per «l’assenza di controlli davvero incisivi e pregnanti da parte degli enti pubblici» perché «avrebbero potuto prevenire» queste condotte, la Regione risponde: «Il sistema di verifiche lombardo è il più avanzato in Italia» .

Corriere della Sera 23.4.11
I crimini di Stalin? Spiegati (in parte) dal cervello malato
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Si sa da tempo che il cervello di Stalin era malato e che almeno negli ultimi tempi non funzionava a dovere. Il diario di uno dei suoi medici pubblicato in questi giorni ci dice ora che l’arteriosclerosi non solo lo portò alla morte ma lo rese anche particolarmente crudele e sospettoso. Il Piccolo Padre dunque perseguitò e fece uccidere milioni di persone solo perché malato? No, visto che la sua crudeltà e mancanza di scrupoli era evidente già in gioventù, quando prima della rivoluzione era noto come Koba il sanguinario. Certamente però nell’ultimo periodo, quando il leader sovietico aveva raggiunto i settant’anni, gli effetti del male si fecero più acuti ed evidenti. Se non fosse morto a seguito di un ictus quel 5 marzo del 1953, avrebbe scatenato una nuova campagna di epurazioni. Questa volta contro i medici ebrei che accusava di tramare per assassinare lui e tutta la classe dirigente sovietica. Il dottor Aleksandr Myasnikov, vicino al grande dittatore per anni, aveva tenuto un diario che alla sua morte venne sequestrato dal Kgb. Ora è stato restituito agli eredi che hanno deciso di pubblicarlo. Dopo la morte, l’autopsia rivelò l’estensione dei danni subiti dal cervello del dittatore. «Stalin— scrive ilmedico — può aver perso il senso del buono e del cattivo, del giusto e di ciò che era sbagliato, di ciò che era permesso e di quello che non lo era» . Myasnikov aggiunge che la malattia tende a esasperare i tratti del carattere, «così che una persona sospettosa diventa paranoica» . Le memorie del dottore hanno suscitato perplessità fra coloro che conoscevano Stalin e lo stesso Myasnikov il quale era certamente nelle grazie del dittatore. Anche se in vecchiaia l’arteriosclerosi potrebbe aver peggiorato il suo carattere, è certo che Stalin si comportò per tutta la vita in maniera abbastanza «coerente» : quando operava a Bakù per conto di Lenin e non era ancora quarantenne; quando ordinava deportazioni ed esecuzioni di massa negli anni Trenta ed era quasi sessantenne. Sempre in questi giorni stanno uscendo anche gli estratti di un altro diario «segreto» , quello di Lavrentij Beria, capo dell’Nkvd e braccio armato di Stalin. Non è certo che i diari siano autentici, ma anche queste pagine sembrano scritte per rendere più umano il sanguinario dittatore. Ci raccontano, ad esempio, di come Koba si commosse dopo la fine della guerra e scoppiò in lacrime davanti al suo collaboratore.

La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Intorno a Bacco si degusta la vita
di Claudio Franzoni


Simposio Un rito stabile per secoli: bere vino puro, conversare, amare, divertirsi
Scena di banchetto su un cratere a figure rosse del IV sec. a. C.

Non è accaduto a caso che a volte, in passato, il termine greco symposion sia stato tradotto con «banchetto», come, ad esempio, nel film che Marco Ferreri trasse dal Simposio di Platone nel 1988; il fatto è che ci viene naturale ricondurre alla nostra esperienza ciò che incontriamo nel mondo antico, e dunque anche le occasioni conviviali, quasi che le forme del mangiare e del bere siano le stesse sempre e dappertutto.
Negli ultimi vent’anni la saggistica di ambito anglosassone e francese ci ha spiegato invece che il simposio antico non era per niente paragonabile ai conviti, pubblici o privati, del Medioevo e dell’età moderna, tanto meno a quelli del nostro tempo. Si inserisce in questo ambito di ricerca anche il libro che Maria Luisa Catoni dedica a questo tema, facendo il punto sugli studi precedenti e aprendo nuovi fronti di discussione.
Il simposio era, come dice il nome, una «bevuta assieme», le cui forme, forse apprese dai Fenici, divennero dopo l’età omerica un vero e proprio contrassegno dello stile di vita aristocratico in Grecia. Al di là delle possibili varianti, il meccanismo del simposio dovette restare stabile per secoli: gli ospiti si accomodavano in una sala apposita della casa, l’ andrón («sala degli uomini») - termine che basterebbe a illustrare la destinazione esclusivamente maschile della «bevuta» - e qui si sdraiavano sui letti (di solito sette), modalità ereditata da forme conviviali orientali. Al centro della stanza era posto il cratere, un grande recipiente per mescolare vino e acqua: l’assunzione moderata del vino diventa infatti uno dei punti chiave dell’etica simposiale. Dal cratere si attingeva per riempire le larghe coppe decorate di ciascun invitato. Si iniziava con una libagione e una preghiera, ci si lavava, ci si incoronava con edera: azioni che iscrivevano il simposio in un ambito sacro e che ne rimarcavano il carattere rituale.
Tutto questo e molti altri dettagli si scoprono appunto in Bere vino puro , grazie anche al corredo di oltre 150 illustrazioni tratte proprio da quei vasi a figure nere e a figure rosse che servivano per lo svolgimento dei simposi e che vennero prodotti in Attica tra VI e V secolo prima di Cristo. Ma il saggio non punta tanto a descrivere lo svolgimento del simposio, quanto a osservare in questo «microcontesto quello che avviene nello spazio più ampio della polis e del mondo greco».
Del resto l’obbiettivo del simposio non era solo quello di condividere il piacere del vino, ma quello di conversare, di discutere temi filosofici, di eseguire o ascoltare canti e brani poetici; c’era posto anche per gli incontri amorosi, ed eventualmente per divertimenti, per giochi, per la baldoria finale. Attraverso queste «bevute assieme» i gruppi aristocratici rinsaldavano i rapporti reciproci e riaffermavano la propria identità; nello spazio modesto dell’ andrón viene così rappresentata la complessità della dialettica politica e sociale: basterebbe leggere i vivaci paragrafi sugli invitati e sugli esclusi (che però a volte vengono ugualmente e ne approfittano).
Ripetutamente l’autrice cambia angolazione e ordine di domande, affrontando anche problemi di metodo; in particolare, a proposito dell’interpretazione iconografica, non nasconde anche nodi problematici, come quello dei percorsi commerciali dei vasi da simposio: come mai migliaia di essi finirono in Occidente, magari destinati a conviti non greci o addirittura a corredi funerari di area etrusca?
Uno dei cardini del lavoro è l’analisi comparata di poesia e iconografie; sin dall’età arcaica infatti la lirica greca usa il simposio quale argomento, come quando Alceo incita i compagni a brindare per la morte del tiranno Mirsilo o invita a colmare le coppe «fino all’orlo» (ma di «due parti di acqua e una di vino»); nello stesso arco
Una «ricostruzione» di Maria Luisa Catoni nella antica Grecia con l’analisi comparata di poesia e iconografie

La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Come conciliare Dioniso e Apollo, ebbri e assennati
Eros e Logos La lotta tra bellezza e verità che ha caratterizzato i Greci
Per Giorgio Colli, nel solco di Nietzsche, le due divinità non si contrappongono, ma coesistono
di Marco Vozza


Il debito di riconoscenza che la cultura internazionale, non soltanto quella italiana, intrattiene nei confronti di Giorgio Colli è inestimabile, innanzitutto per averci restituito un Nietzsche integro e credibile, sottratto alle reiterate manipolazioni precedenti, attraverso l’edizione critica delle sue opere condotta con Mazzino Montinari. Ma Colli era anche un grande editore e un filosofo autonomo, seppur sempre fedele alla traccia dei suoi autori prediletti, Schopenhauer e Nietzsche fra tutti, ma in particolare i primi pensatori greci, quei sapienti delle origini che si avvalevano delle forme espressive del mito, della religione e della poesia prima che si affermasse il pensiero astratto dei filosofi classici.
Ora abbiamo la possibilità di tornare su quei temi, tra antico e moderno, in virtù di una consistente, affascinante quanto rigorosa, raccolta di scritti inediti, la cui tesi assai ambiziosa considera «apollineo» e «dionisiaco» non soltanto criteri elettivi per la comprensione del mondo greco ma «principi universali e supremi della realtà», capaci di spiegare i dualismi del pensiero filosofico ma anche la musica di Beethoven. La chiave teoretica, non soltanto estetica, che introduce Colli, dell’antitesi tra dionisiaco e apollineo come connessione indissolubile, più che contrapposizione, tra interiorità ed espressione appare già prefigurata nella filologia nietzscheana dell’avvenire che indaga il fenomeno della vita secondo istanze metafisiche.
Apollo e Dioniso rappresentano il sogno e l’ebbrezza, la forma e la forza, la visione e l’impulso orgiastico, differenti espressioni del sentimento estatico dell’esistenza, quello in cui l’uomo viene trasfigurato nell’opera d’arte. Nietzsche insiste sulla coesistenza delle due divinità che si spartiscono il dominio nell’ordinamento delfico del culto, generando un equilibrio che vede alternarsi assennatezza e dismisura, moderazione e violenza. Nell’ebbrezza dionisiaca, la natura ritrova la propria potenza unitaria, dapprima dissipata nel processo di individuazione, opera altresì la redenzione di una volontà altrimenti intristita, ora rivitalizzata da una mescolanza panico-orgiastica di affetti.
Tra Dioniso e Apollo si instaurò la lotta tra verità e bellezza, che caratterizzò la grecità fino a raggiungere, depauperata e isterilita dopo Socrate, la modernità; i Greci intesero che il fine della cultura è quello di «velare la verità», di opporre la misura all’eccesso. Si trattò per la grecità apollinea di trasformare il carattere lacerante del pensiero tragico in «rappresentazioni con cui si potesse vivere», creando un mondo intermedio tra verità e bellezza, in cui il dolore, l’assurdità e l’atrocità dell’esistenza giungessero a manifestarsi in una bella parvenza, trasferendo cioè sul piano illusorio e salutare dell’apparenza la visione annichilente di quell’abisso terrificante.
L’arte rendeva possibile la creazione di «una possibilità più alta di esistenza», che consisteva nel mantenere aperta e vibrante l’espressione degli affetti, la comunicazione dei sentimenti, la condivisione del dolore, seppur trasferita «in rappresentazioni coscienti»; in tal modo, nell’esaltazione dell’essere che si avvale della danza e dell’intero simbolismo del corpo, la bellezza veniva ad accrescere «il piacere di esistere», cioè la vita ascendente.
Colli non ne fa menzione ma la più rilevante conferma della propria tesi giunge indirettamente dalla letteratura psicanalitica: Jung pone al centro dei Tipi psicologici la dicotomia tra apollineo e dionisiaco, come modello di spiegazione dei fenomeni di introversione ed estroversione. Il dionisiaco costituisce «l’espansione diastolica», pulsionale e multiforme, dell’esistenza, mentre l’apollineo rappresenta il tentativo razionale di ripristinare nella psiche un ordine unitario. Eros e Logos convivono permanentemente nella nostra vita.

La Stampa Tuttolibri 23.4.11
Vi presento Pletone (e non è un refuso...)
Il pensatore bizantino che innestò la dottrina platonica nel Quattrocento
di Silvia Ronchey


Che cosa sarebbe il nostro mondo senza Platone? Infinitamente diverso e certamente peggiore, lo sanno tutti. Ma pochi sanno che lo sarebbe anche senza un altro filosofo, suo quasi omonimo: Pletone. Non è uno scherzo, né, o non solo, un calembour. Il nostro pensiero, la nostra cultura, la nostra politica, questa nostra civiltà occidentale, che ha origine nella Grecia antica ma è nel Rinascimento che si forma alla modernità e appunto rinasce, non avrebbero avuto il loro imprinting nella filosofia di Platone se a trasmetterla all’internazionale degli umanisti europei non fosse stato quel grandissimo filosofo bizantino. Il suo vero nome, Gemisto, nel greco del Quattrocento voleva dire «colmo» ( gemistos ); e lo stesso o quasi — «pieno», «traboccante» — significava, nel greco classico, lo pseudonimo Plethon , Pletone, che si era dato in omaggio al filosofo per cui traboccava d'amore. Con questo nome era noto in tutto il mondo, come spiega Moreno Neri nello straordinario libro — un vero evento — che oggi ci consegna la traduzione del più diffuso fra i testi di Pletone, il Trattato delle virtù , e in cui più di 400 pagine sono dedicate a un saggio introduttivo che ha lo spessore intellettuale e critico oltreché la lunghezza di un’esemplare monografia.
Da Platone a Pletone, la filosofia platonica, per dieci secoli, aveva seguito un cammino carsico, ininterrotto ma spesso sotterraneo. Inizialmente cristianizzata, eppure quasi sempre coniugata a un sincretismo religioso intrinseco ai suoi princìpi e a un neopaganesimo filosofico condiviso anche dagli esponenti ecclesiastici delle più o meno eretiche o clandestine «eterìe» o «fratrie» che seguitarono a professarla anche dopo la sua eclissi dalla teologia ufficiale divenuta aristotelica, solo alla Scuola di Pletone sarebbe riemersa alla piena luce. E con la venuta del Gran Maestro e dei suoi discepoli in Italia per il concilio fiorentino del 1439 si sarebbe trasmessa agli intellettuali e ai politici riuniti in suo ascolto.
Fu un preciso passaggio di dottrine, uomini e testi, che da Bisanzio ormai prossima a cadere sotto il dominio turco vennero portati in salvo nell’Europa occidentale. Fu un deliberato passaggio di consegne, in nome del quale Cosimo de' Medici fondò l'accademia platonica. E quella filosofia diventò, come ha scritto Eugenio Garin, «l’ideologia della sovversione europea».
«E’ solo grazie a una combinazione di talento e fortuna che Marsilio Ficino - scrive Neri resta un nome che non si scorda, mentre quello di Giorgio Gemisto è ignoto ai più, così come Shakespeare è un’icona internazionale e Marlowe no». Di Pletone, come scrisse il suo grande estimatore e traduttore Giacomo Leopardi, «la fama tace al presente, non per altra causa se non che la celebrità degli uomini, come in effetti ogni cosa, dipende più da fortuna che da ragione, e nessuno può assicurarsi di acquistarla per merito, quantunque grande».
In realtà, non sono certo mancate le ragioni per dimenticare Gemisto, o per travisarlo, se non per diffamarlo, spiega Neri, il primo dopo Leopardi ad essersi misurato vittoriosamente con il suo greco splendido e impossibile, musicale e burrascoso, arcaico e futuribile, che ha dissuaso molti dal tradurre la sua opera omnia, di cui invece questo Trattato è il primo volume.
«Detestato da tutte le chiese costituite, finita sul rogo la sua opera più importante» — il libro delle Leggi, bruciato dal patriarca Gennadio poco dopo la sua morte —, «Pletone diede vita a entusiasmi come a odi non passeggeri tra le persone più eccellenti del Rinascimento», scrive Neri. «Fu uno dei primi geni del moderno, mosso da una curiosità quasi topografica per ogni ramo del sapere». Oltre che un teologo neopagano e un eretico, era un utopista che «aveva trovato nelle dottrine platoniche e neoplatoniche, nei mitici testi zoroastriani, orfici e pitagorici, il fondamento di un radicale programma di rinnovamento politico e religioso, di una rinascita della più antica sapienza che fosse l’inizio di un nuovo tempo dell’esperienza umana». Alla sapienza nascosta del cristianesimo non potevano non essere arrivati, riteneva Pletone, gli antichi saggi ellenici e orientali. Far rivivere i loro testi e riti avrebbe portato a una religione filosofica in cui le diversità dei culti e delle confessioni storiche sarebbero state irrilevanti per gli iniziati di un alto clero illuminato. In quel mondo nuovo, ogni devozione sarebbe stata ammessa e libera di prosperare.
Pletone affermava che tutto il mondo entro pochi anni avrebbe accolto una sola religione con un solo animo, una sola mente e una sola predicazione. «Cristiana o maomettana?», gli avevano chiesto. «Nessuna delle due - aveva risposto - ma simile a quella dei gentili. Solo quando Maometto e Cristo saranno dimenticati, la verità vera splenderà su tutte le terre del mondo». I filosofi musulmani amarono quanto gli umanisti italiani le sue opere e poco dopo la sua morte ciò che restava del libro delle Leggi fu tradotto in arabo.
«Trattato delle virtù»: l’opera di uno fra i primi geni del moderno, curioso di ogni ramo del sapere Stimato e tradotto da Leopardi, detestato da tutte le chiese, un utopista radicale, politico e religioso

Saturno Il Fatto 22.4.11
Il gesto dell’architetto Wittgenstein
di Marco Filoni

qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/04/22/il-gesto-dellarchitetto-wittgenstein/106435/

il Riformista 23.4.11
Silvio scrive al Papa
«Con gli immigrati l’Italia è generosa»
In Vaticano è arrivata una lettera dal premier, in cui si sottolinea l’impegno di Palazzo Chigi sul fronte migranti e si promettono a Benedetto XVI aiuti finanziari per il Primo maggio, giorno della beatificazione di Wojtyla. Ieri Ratzinger è stato ospite di una trasmissione tele- visiva (“A sua immagine”, su Rai1): è la prima volta per un pontefice
di Francesco Peloso

qui
http://www.scribd.com/doc/53670179

venerdì 22 aprile 2011

l’Unità 22.4.11
Massimo Rendina
ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA
ORA DOBBIAMO REINVENTARE LA RESISTENZA
È urgente creare il fronte della rigenerazione democratica con tutti i partiti, gruppi civili e cittadini del paese. Rinnovare l'impegno democratico.


Repubblica 22.4.11
Nel Paese di Ponzio Pilato
di Ezio Mauro


Siamo così arrivati al dunque: la Costituzione nella sua essenza, nei suoi princìpi, nel suo fondamento. Quindi la natura della Repubblica, l´equilibrio tra i poteri che si bilanciano a vicenda, il concerto istituzionale che dovrebbe dare forma repubblicana alla democrazia quotidiana del nostro Paese. Questo è il senso – più simbolico che concreto, per ora, e tuttavia oltremodo significativo – dell´ultima iniziativa della destra berlusconiana: riscrivere l´articolo 1 della Carta Costituzionale, per sovraordinare gerarchicamente il Parlamento agli altri poteri dello Stato.
Come al solito, e come avviene normalmente per ogni legge ad personam, si parte con un test, perfettamente coerente con i propositi del leader, ma tecnicamente irresponsabile. In questo caso è una proposta firmata da un deputato del Pdl che si muove «a titolo personale», senza impegnare direttamente il partito, in modo che il vertice possa saggiare le reazioni e decidere poi se cavalcare fino in fondo l´iniziativa o attenuarla, o farla cadere. O più semplicemente, come ha fatto ieri Berlusconi, prendere le distanze dal modo e dal momento della proposta, non certo dalla sostanza. Come sempre i deputati ignoti a Roma, o i candidati consiglieri comunali di Milano interpretano non solo e non tanto la volontà del Capo.
Ma interpretano anche il suo sentimento politico più profondo, e portano alla luce le pulsioni nascoste e gli obiettivi reali, insieme con l´urgenza di uno stato di necessità. Il risultato è quello che avevamo prefigurato da tempo. Poiché l´anomalia berlusconiana cresce di giorno in giorno, andando a cozzare contro i capisaldi della Repubblica (il controllo di legalità, l´autonomia della magistratura, il sindacato di costituzionalità, l´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge), la destra sta proponendo il patto del diavolo al sistema democratico. Costituzionalizza l´anomalia, smetti di considerarla tale, introiettala: ne risulterai sfigurato ma pacificato, perché tutto finalmente troverà una sua nuova, deforme coerenza, e si riordinerà nella disciplina al nuovo potere, riconosciuto infine come supremo.
La questione sostanziale è la separazione dei poteri, il loro reciproco bilanciamento. Quando emblematicamente si vuole porre mano al primo gradino dell´edificio costituzionale, è per cambiare l´equilibrio dell´intero ordinamento. Ecco il senso della «centralità del Parlamento» inserita nell´articolo 1. E l´autore della proposta lo spiega con chiarezza: «Il Parlamento è sovrano, e gerarchicamente viene prima degli altri organi costituzionali come magistratura, consulta e presidenza della Repubblica». Questo perché, secondo il Pdl, oggi il Parlamento «è troppo debole» ed è «tenuto sotto scacco da magistratura e Consulta».
Va così a compimento quel tratto di "populismo reale", o realizzato, che trasforma una legittima cultura politica – la demagogia carismatica – in sistema, in forma di Stato. E prevede, fin dalla Costituzione, che il voto popolare trasfiguri con la sua unzione la maggioranza vincitrice nel dominus non soltanto del governo, ma di tutto l´ordine costituzionale, sovraordinando come logica conseguenza il Capo di quella maggioranza ad ogni altro potere, e liberandolo da ogni controllo. Si supera così il principio costituzionale secondo cui la sovranità non "emana" dal popolo verso i vincitori delle elezioni, ma nel popolo "risiede" anche dopo il voto, perché il popolo continua ad esercitarla, a «contrassegno ineliminabile – come dice il dibattito nella Costituente - del regime democratico».
È la negazione di quel "concerto" che deve guidare i vertici dello Stato nell´esercizio delle loro potestà, per una concezione antagonista e gerarchizzata delle funzioni e delle istituzioni che, se si introduce il principio di primazia e dunque di soggezione, devono subordinarsi e accettare il comando. Ed è anche la trasformazione – metapolitica a questo punto – del presidente del Consiglio in Capo, titolare di comando, supremazia e privilegio sugli altri poteri dello Stato. Con questa mutazione, cambia la natura stessa del sistema. Formalmente, siamo sempre nella democrazia parlamentare, potenziata semmai dal richiamo formale del Parlamento come fondamento dell´intero sistema repubblicano. Di fatto, com´è ben evidente dalla prassi di questi anni che con la riscrittura della Carta diventerebbe meccanismo costituzionale, entreremmo nella fase di un inedito bonapartismo costituzionale: con l´istituzionalizzazione del carisma e con il leader eletto dal popolo che in quanto vincitore e Capo della maggioranza parlamentare si pone al vertice dello Stato libero da ogni bilanciamento. Fino a prevalere sullo stesso Presidente della Repubblica, addirittura per definizione gerarchica.
C´è un´altra questione, che non riguarda solo le istituzioni, ma chiama in causa tutti noi. Come dovrebbe essere ormai evidente, la destra oggi al potere sta saggiando il perimetro del sistema, per vedere se i muri maestri reggono, o se per sfuggire alle difficoltà del suo leader gli sfondamenti sono possibili. Purtroppo, ha verificato negli ultimi due anni che ogni forzatura è praticabile, perché le anomalie in Italia non vengono più chiamate con il loro nome, perché ogni superamento del limite non viene giudicato, anzi viene derubricato a "conflitto", mettendo sullo stesso piano chi deforma e chi difende le regole. Le stesse regole che hanno retto il sistema per decenni, sono ormai considerate in fondo come un´ossessione privata e residua di pochi ostinati, insultati di volta in volta come "bardi", "puritani", "parrucconi", secondo la necessità di difesa del leader. Anzi, è nato il concetto nuovissimo di "regolamentarismo": è il richiamo alle regole, o alla legalità, o al diritto, trasformato in ideologismo, in burocraticismo, noioso e antiquato freno capace solo di impacciare e limitare la spada populista del comando. Una spada che se invece fosse libera e fulgida potrebbe tagliare d´un sol colpo - tra gli applausi generali, e a reti unificate - i nodi intricati della complessità contemporanea, che la politica si attarda ancora a cercare di sciogliere, perché è stata inventata per questo, prima che la riformassero.
Di chi sto parlando? Di chi ha responsabilità istituzionali, prima di tutto, e magari tace per tre giorni davanti ai manifesti ignobili sui giudici brigatisti del Pdl a Milano, e si muove solo dopo che il Capo dello Stato è intervenuto con una netta condanna. È un problema di responsabilità, com´è evidente, e di autonomia. E si capisce a questo proposito come uno degli obiettivi della destra sia stato in quest´ultimo anno quello di de-istituzionalizzare – senza riuscirci – il presidente della Camera, proprio per depotenziare questa assunzione autonoma di responsabilità istituzionale: mentre con il presidente del Senato ovviamente il problema non si pone.
Ma il tema della responsabilità, e della coscienza del limite riguarda anche la cultura, gli intellettuali italiani. Sempre pronti a parlar d´altro, a trasformare tutto in "rissa", senza distinguere chi ha lanciato il sasso e chi ha reagito, anzi invitando sempre tutti a rientrare ugualmente nei ranghi, a darsi una calmata come se fossimo davanti ad una questione di galateo e non di sostanza democratica, o come se la difesa della legalità o delle istituzioni potesse o dovesse essere messa sullo stesso piano degli attacchi. Com´è evidente, non è qui un problema di destra o sinistra. Si può essere di destra, io credo, ma dire no a certe forzature e agli eccessi che danneggiano il Paese e indeboliscono la qualità della democrazia. Il discorso vale anche per i corpi intermedi, per l´intercapedine liberale che un decennio fa il Paese aveva e che oggi non si vede, per quel network che si considera classe dirigente, e che per diventare establishment non solo da rotocalco dovrebbe dimostrare di avere a cuore certo i suoi legittimi interessi, ma talvolta anche l´interesse generale. Vale infine per la Chiesa, che ha scambiato in questi anni con questa destra, sotto gli occhi di tutti, i suoi favori in cambio di legislazioni compiacenti, e che oggi sembra incapace di una libera e autonoma lettura di ciò che sta accadendo in Italia.
Questi silenzi, queste disattenzioni, questa finta neutralità tra la forza e il diritto lasciano non soltanto solo – com´è destino al Colle – ma fortemente esposto agli attacchi, alle polemiche e alle insofferenze il Presidente della Repubblica. Il quale si trova spesso a dover intervenire per primo e in prima persona per segnalare che si è passato un limite, perché nessuno ha sentito il dovere di farlo prima di lui: che è il garante supremo, ma non può essere l´unico ad avvertire una responsabilità che è generale, e ci riguarda tutti.
Si tratta, semplicemente, di aver fiducia davvero nella democrazia. Di credere quindi che le anomalie vadano chiamate per nome, che le forzature debbano essere segnalate come tali a un´opinione pubblica che – se informata – saprà giudicare autonomamente: nulla di più. Sapendo che la destra sta giocando una partita per lei decisiva e che questi eccessi nascono in realtà dal profondo delle sue difficoltà, perché il rafforzamento numerico frutto della compravendita nasconde una debolezza politica ormai evidente. Dunque, la partita è aperta. Dipende da ognuno di noi giocarla (per la parte che ci compete) o accettare di vivere nel Paese di Ponzio Pilato.

l’Unità 22.4.11
Scagnozzi in libertà
Carta, ora tocca all’Art. 94
di Marcella Ciarnelli


Sembra che non debba esserci più giorno senza una proposta di modifica della Costituzione. Le norme che sono andate bene per tanti anni, pur nell’equilibrata consapevolezza che nulla è intoccabile e cambi in meglio fossero possibili, specialmente in conclusione di un costruttivo confronto, d’improvviso non funzionano più. Almeno così sembra. Dopo l’uscita clamorosa del deputato Remigio Ceroni, che ieri ha festeggiato il suo compleanno sommerso dall’improvvisa popolarità guadagnata con l’estemporanea idea di voler cambiare la Costituzione già dal suo primo articolo. E dopo Ceroni, peraltro sconfessato anche dai suoi, è arrivato il tempo di Luciano Sardelli, presidente dei Responsabili che ha messo giù qualche idea per cambiare l’articolo 94 della Carta, quello che detta le regole per la fiducia al governo, all’atto della formazione e nel suo percorso che, se accidentato, com’è noto può anche portare ad una conclusione anticipata dell’esperienza. E’ tempo, dunque, della «sfiducia costruttiva» che costituirebbe un altro tassello per arrivare a riaffermare la centralità del Parlamento, obbiettivo simile a quello del Ceroni, ma anche per assicurare la continuità del governo. Si prevede, allora, che nel caso di una mozione di sfiducia i parlamentari abbiano l’obbligo di proporre già un’alternativa ed anche un leader. Quindi il presidente del Consiglio cessa dalla carica solo se «il Parlamento in seduta comune approva una mozione di sfiducia motivata, contenente l’indicazione del successore, con votazione per appello nominale a maggioranza dei suoi componenti». Il nuovo premier se votato scalza il precedente. E i ministri decadono. Un automatismo in cui sfugge il ruolo del presidente della Repubblica. Al di là della norma, uno studio da affidare agli esperti, resta il fatto che non passa giorno senza che la Costituzione venga messa in discussione. Piccoli costituenti crescono. Cosa non si fa per un po’ di popolarità. E magari una poltroncina.

il Fatto 22.4.11
“Il mio inciucio con D’Alema: vi presento il patto delle riviste”
Flores d’Arcais e il dialogo con il Lìder Maximo
di Paolo Flores d’Arcais


Alla fine del nostro incontro-scontro di martedì scorso, Massimo D’Alema mi ha proposto di realizzare insieme – ItalianiEuropei e MicroMega – una serie di confronti tematici. Non me lo aspettavo. Ma sono stato ben felice di accettare e di ribadirlo qui, avanzando anche modalità e temi. Propongo quattro incontri, ai quali ogni volta partecipino, oltre lui e me, altre due personalità che Italianieuropei e MicroMega, rispettivamente, considerino particolarmente rilevanti per i temi in questione: lavoro, giustizia, informazione e riforma istituzionale, oggi assolutamente obbligati e prioritari.
So già che molti lettori di questa testata storceranno la bocca, e che pioveranno critiche e financo contumelie contro un dialogo che giudicano inutile con i rappresentanti della “Casta di sinistra”. Del resto critiche e financo contumelie non erano mancate sul sito di MicroMega al solo annuncio del dibattito dell’altro giorno all’Alpheus (che ringrazio per l’ospitalità). Ma trovo che il rifiuto aprioristico del confronto sia segno di debolezza e confini spesso con l’autolesionismo. Il giorno prima del dibattito con D’Alema era a Milano per un dialogo con Stéphane Hessel, autore delle poche ma imperdibili pagine di Indignatevi! (in Francia ha venduto finora un milione e novecentomila copie, ma quello è un paese che ha tagliato la testa al re). Un uomo straordinario: dottorando alla Scuola normale superiore, decide di entrare nella Resistenza, è uno dei collaboratori di De Gaulle, durante una missione viene arrestato dalla Gestapo. Torturato, viene deportato a Buchenwald. Il giorno precedente l’impiccagione riesce a scambiare la propria identità con quella di un compagno morto di tifo, poi fuggirà da due diversi lager. Diplomatico della nuova Francia, è uno degli estensori della “Dichiarazione universale dei diritti” del 1948, e sarà uno dei più stretti collaboratori di Mendes-France , la figura più grande della sinistra francese (e a mio parere europea) del dopoguerra.
Quest’uomo fuori del comune, che sta conoscendo a 93 anni un successo editoriale da leggenda, si rammaricava di non riuscire a discutere pubblicamente con i critici del suo libro, intellettuali parigini molto noti che preferivano lanciare accuse pesantissime sui giornali ma poi sottrarsi al confronto. Nei tre giorni precedenti, del resto, avevo partecipato alle “Giornate della laicità” di Reggio Emilia, dove il successo clamoroso di pubblico era stato pari solo alla pesantezza dell’anatema lanciato dalla Curia contro i “laicisti atei fondamentalisti che rifiutano il dialogo”. Peccato che in quanto curatore del festival avessi invitato quindici cardinali quindici, il direttore dell’Osservatore Romano, quello di Avvenire, il responsabile della sala stampa vaticana, l’ex responsabile della medesima, il predicatore del Papa, e insomma “tutto il cucuzzaro”. Il rifiuto del confronto c’è stato, sistematico, ma da una parte sola, quella della Chiesa gerarchica, non degli atei “enragés”.
Ho l’impressione che quanti nell’opposizione civile che si esprime nella piazze e nei movimenti rifiutano il confronto con i dirigenti dei partiti, mostrino la stessa debolezza, la stessa paura, la stessa scarsa considerazione per le proprie idee, degli intellettuali parigini che evitano di incrociare gli argomenti con Hessel e dei cardinali che si rifugiano nel l’anatema per evitare il faccia a faccia con le De Monticelli e gli Odifreddi.
Non c’è un solo lettore di questo quotidiano che non consideri una tragedia la prospettiva che Berlusconi vinca di nuovo le elezioni: cambierebbe la Costituzione (peggio che in Ungheria), conquisterebbe la Corte costituzionale, diventerebbe presidente della Repubblica, e insomma imporrebbe per via legale il fascismo post-moderno a cui da sempre aspira. E non c’è un solo lettore, immagino, che non capisca come eventuali liste di movimenti non potranno mai da sole vincere la prossima consultazione elettorale. Berlusconi sarà sconfitto solo se partiti e liste civiche parteciperanno insieme ad una coalizione, ciascuno con il proprio profilo e la propria identità, dando così motivazione al voto, e rappresentanza, per tutte le variegate sensibilità dei cittadini “repubblicani”. E’ questione di semplice pallottoliere, non sono necessarie neppure le tabelline. Perciò il confronto fra movimenti e partiti si deve fare. Senza infingimenti e diplomatisti, ma lo si deve fare. Con l’attuale legge elettorale (che il narcisocrate di Arcore vuole addirittura peggiorare!) è impensabile avere schieramenti omogenei. Bisogna sapersi unire sull’essenziale e coltivare – non come male minore ma come ricchezza – le differenti sensibilità che circolano tra i cittadini elettori. Lo schieramento del golpismo strisciante ci riesce benissimo: da “Dio patria e famiglia” a “col tricolore mi ci pulisco il culo”, eppure come un sol uomo contro il comunismo (ormai introvabile) e per l’evasione fiscale (più fiorente cha mai).
Possibile che noi “repubblicani” non siamo in grado di fare della realizzazione della Costituzione la bandiera comune? Le concrete scelte di governo dipenderanno poi dai risultati che le diverse anime della coalizione, in leale competizione, avranno conseguito. Ma per poter governare bisogna sconfiggere la macchina da guerra del putiniano di Arcore, e per riuscirci è necessario che nessuna forza “repubblicana” – partito o lista civica – venga discriminata o si autoescluda. Ne va della democrazia stessa.

Corriere della Sera 22.4.11
Renzi, Camusso e il Primo Maggio Battaglia nella (nuova) sinistra
Il sindaco apre i negozi per la festa e cita la legge Bersani. La Cgil si ribella
di Dario Di Vico


Nel Pd finora era stata considerata una questione tutto sommato marginale, ma da qui al Primo Maggio la querelle sull’apertura festiva dei negozi e dei grandi magazzini è destinata a catalizzare l’attenzione e avere più di qualche eco nella campagna elettorale. I protagonisti di quello che si annuncia come un duello rusticano a sinistra sono il giovane sindaco di Firenze Matteo Renzi e la Cgil di Susanna Camusso. Mentre Renzi è per la libertà dei commercianti di tenere aperto il giorno della festa del Lavoro, il sindacato ha lanciato da tempo una campagna contro il lavoro domenicale e figuriamoci se può transigere sulla sacralità politica del Primo Maggio. Di conseguenza ha indetto, con l’appoggio (tutt’altro che scontato) delle organizzazioni di categoria di Cisl e Uil, uno sciopero del commercio in tutta la Toscana. Per rafforzare la protesta e mettere in difficoltà Renzi, la Cgil ha convocato per il 29 aprile proprio a Firenze l’assemblea nazionale dei lavoratori della grande distribuzione che sarà chiusa dal segretario generale Camusso. E che vedrà sul palco addirittura il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, il quale da tempo ha promesso ai sindacati di promulgare una legge anti-deregulation che in qualche modo vincoli maggiormente i Comuni. E che dunque metta le briglie al primo cittadino di Firenze considerato troppo filocommercianti. Renzi dal canto suo non fa mistero di non amare i sindacati e la concertazione. Durante il suo mandato non ha perso occasione (riorganizzazione asili nido, regole per gli ambulanti, zona a traffico limitato) per ribadire il piglio decisionista e per cancellare i riti della negoziazione preventiva con le categorie, considerati invece inviolabili in una regione rossa. In una recente intervista al Sole 24 Ore, il sindaco ha anche esplicitato la sua visione del sindacato considerato né più né meno come «una casta» . Renzi sostiene che la metà dei sindacalisti «dovrebbe tornare a lavorare» , che la Cgil ha un sistema «di finanziamento e rendicontazione particolare» e che i confederali tanto rappresentativi del lavoro poi non lo sono, visto che per oltre il 50%gli iscritti vengono dai pensionati. Alla decisione di Cgil-Cisl-Uil di indire lo sciopero inizialmente solo per Firenze il sindaco ha replicato che si trattava di un’agitazione «ad personam» e poi maliziosamente ha aggiunto di non aver creato lui le regole per la liberalizzazione delle aperture dei negozi, bensì di averle recepite da una legge che porta il nome dell’attuale segretario del Pd ((l'ex ministro Pier Luigi Bersani). È vero che Renzi ha avanzato alla Cgil una proposta di mediazione, far lavorare il Primo Maggio solo gli interinali e non le commesse assunte a tempo indeterminato, ma i sindacalisti l’hanno letta come un’ulteriore provocazione. «E quando è troppo, è troppo» ha commentato Franco Martini, segretario generale della Filcams Cgil. Incassando subito dopo la solidarietà del «grande vecchio» della cooperazione toscana Turiddu Campaini, che ha fatto sapere che comunque lui non aprirà i supermercati Coop il giorno della festa del lavoro. Con questi presupposti (e anche se a Firenze non si vota) lo scontro tra Cgil e Renzi è destinato a movimentare ancora una volta la scena interna al Pd. Se infatti il sindaco fa, come sembra, del dissidio con la Cgil una sorta di campagna per la rottamazione bis, il sindacato diretto dalla Camusso non ha nessuna intenzione di arretrare. E anzi interpreta il no al lavoro festivo come «una riflessione sui modelli di consumo» , caricandolo dunque di una valenza politico culturale decisamente in contrasto con l’impostazione liberista del sindaco. Da Roma i vertici del Pd cercheranno di confinare la tenzone a livello locale ma è difficile che il segretario Bersani non venga tirato in ballo per difendere l’omonima legge.

Repubblica 22.4.11
I cittadini calpestati
di Stefano Rodotà


Ogni giorno ha la sua pena istituzionale. Davvero preoccupante è l´ultima trovata del governo: la fuga dai referendum. Mercoledì si è voluto cancellare quello sul nucleare.
Ora si vuole fare lo stesso con i due quesiti che riguardano la privatizzazione dell´acqua. Le torsioni dell´ordinamento giuridico non finiscono mai, ed hanno sempre la stessa origine. È del tutto evidente la finalità strumentale dell´emendamento approvato dal Senato con il quale si vuole far cadere il referendum sul nucleare. Timoroso dell´"effetto Fukushima", che avrebbe indotto al voto un numero di cittadini sufficiente per raggiungere il quorum, il governo ha fatto approvare una modifica legislativa per azzerare quel referendum nella speranza che a questo punto non vi sarebbe stato il quorum per il temutissimo referendum sul legittimo impedimento e per gli scomodi referendum sull´acqua. Una volta di più si è usata disinvoltamente la legge per mettere il presidente del Consiglio al riparo dai rischi della democrazia.
Una ennesima contraddizione, un segno ulteriore dell´irrompere continuo della logica ad personam. L´uomo che ogni giorno invoca l´investitura popolare, come fonte di una sua indiscutibile legittimazione, fugge di fronte ad un voto dei cittadini.
Ma, fatta questa mossa, evidentemente gli strateghi della decostituzionalizzazione permanente devono essersi resi conto che i referendum sull´acqua hanno una autonoma e forte capacità di mobilitazione. Fanno appello a un dato di vita materiale, individuano bisogni, evocano il grande tema dei beni comuni, hanno già avuto un consenso senza precedenti nella storia della Repubblica, visto che quelle due richieste di referendum sono state firmate da 2 milioni di cittadini, senza alcun sostegno di grandi organizzazioni, senza visibilità nel sistema dei media. Pur in assenza del referendum sul nucleare, si devono esser detti i solerti curatori del benessere del presidente del Consiglio, rimane il rischio che il tema dell´acqua porti comunque i cittadini alle urne, renda possibile il raggiungimento del quorum e, quindi, trascini al successo anche il referendum sul legittimo impedimento. Per correre questo rischio? Via, allora, al bis dell´abrogazione, anche se così si fa sempre più sfacciata la manipolazione di un istituto chiave della nostra democrazia.
Caduti i referendum sul nucleare e sull´acqua, con le loro immediate visibili motivazioni, e ridotta la consultazione solo a quello sul legittimo impedimento, si spera che diminuisca la spinta al voto e Berlusconi sia salvo.
Quest´ultimo espediente ci dice quale prezzo si stia pagando per la salvezza di una persona. Travolto in più di un caso il fondamentale principio di eguaglianza, ora si vogliono espropriare i cittadini di un essenziale strumento di controllo, della loro funzione di "legislatore negativo".
L´aggressione alle istituzioni prosegue inarrestabile. Ridotto il Parlamento a ruolo di passacarte dei provvedimenti del governo, sotto tiro il Presidente della Repubblica, vilipesa la Corte costituzionale, ora è il turno del referendum. Forse la traballante maggioranza ha un timore e una motivazione che va oltre la stessa obbligata difesa di Berlusconi. Può darsi che qualcuno abbia memoria del 1974, di quel voto sul referendum sul divorzio che mise in discussione equilibri politici che sembravano solidissimi. E allora la maggioranza vuole blindarsi contro questo ulteriore rischio, contro la possibilità che i cittadini, prendendo direttamente la parola, sconfessino il governo e accelerino la dissoluzione della maggioranza.
È resistibile questa strategia? In attesa di conoscere i dettagli tecnici riguardanti i quesiti referendari sull´acqua è bene tornare per un momento sull´emendamento con il quale si è voluto cancellare il referendum sul nucleare. Questo è congegnato nel modo seguente: le parti dell´emendamento che prevedono l´abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario, sono incastonate tra due commi con i quali il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite «nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell´agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea». E lo farà entro dodici mesi adottando una «Strategia energetica nazionale», per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare. Si è giustamente ricordato che, fin dal 1978, la Corte costituzionale ha detto con chiarezza che, modificando le norme sottoposte a referendum, al Parlamento non è permesso di frustrare «gli intendimenti dei promotori e dei sottoscrittori delle richieste di referendum» e che il referendum non si tiene solo se sono stati del tutto abbandonati «i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente». Si può ragionevolmente dubitare che, vista la formulazione dell´emendamento sul nucleare, questo sia avvenuto. E questo precedente induce ad essere sospettosi sulla soluzione che sarà adottata per l´acqua. Di questo dovrà occuparsi l´ufficio centrale del referendum che, qualora accerti quella che sembra essere una vera frode del legislatore, trasferirà il referendum sulle nuove norme. La partita, dunque, non è chiusa.
Da questa vicenda può essere tratta una non indifferente morale politica. Alcuni esponenti dell´opposizione avrebbero dovuto manifestare maggiore sobrietà in occasione dell´approvazione dell´emendamento sul nucleare, senza abbandonarsi a grida di vittoria che assomigliano assai a un respiro di sollievo per essere stati liberati dall´obbligo di parlar chiaro su un tema così impegnativo e davvero determinante per il futuro dell´umanità.
Dubito che questa sarebbe la reazione dei promotori del referendum sull´acqua qualora si seguisse la stessa strada. Ma proprio l´aggressione al referendum e ai diritti dei cittadini promotori e votanti, la spregiudicata manipolazione degli istituti costituzionali fanno nascere per l´opposizione un vero e proprio obbligo. Agire attivamente, mobilitarsi perché il quorum sia raggiunto, si voti su uno, due, tre o quattro quesiti. Si tratta di difendere il diritto dei cittadini a far sentire la loro voce, quale che sia l´opinione di ciascuno. Altrimenti, dovremo malinconicamente registrare l´ennesimo scarto tra parole e comportamenti, che certo non ha giovato alla credibilità delle istituzioni.

Repubblica 22.4.11
Perché bisogna continuare a difendere la libertà della ricerca
Il grottesco paradosso dei "manuali di Stato"
di Carlo Galli


C´è qualcosa di grottesco, ma anche di terribile, nella proposta di legge che alcuni parlamentari di destra hanno firmato, sull´imparzialità dei testi scolastici. Davvero sembra che quella dell´imparzialità dei libri di storia, e dei "professori di sinistra", sia un´ossessione non solo della maggioranza, ma anche del governo: infatti, quello dell´imparzialità è per il ministro dell´Istruzione un problema reale.
Non si può rispondere nel merito agli "esempi di faziosità" che appaiono nella presentazione della proposta. Anzi, si deve rifiutare proprio questo terreno. Per alcuni motivi che alla destra sfuggono, e che vanno ricordati. In primo luogo, la storiografia non è imparziale: tale potrebbe essere solo una cronaca assolutamente puntigliosa, infinita. E, naturalmente, inutile e insensata. La storiografia è invece ricerca mirata, orientata da qualche problema e da qualche valore; è interpretazione. Il che non vuol dire che possa essere delirante, faziosa, folle; anzi, deve essere coerente, logica, revisionabile, falsificabile da nuove prove, da nuove interpretazioni di altri studiosi. In questo rischio di confutazione, in questo dialogo, anche aspro, ma aperto e pubblico, consiste il metodo scientifico, storico-critico, delle scienze umane, che solo chi ne è del tutto all´oscuro può scambiare per partigianeria, da correggere con la goffa pretesa dell´imparzialità.
Che la verità sia dialettica e complessa, sempre da costruire e sempre da modificare, e non una merce da comperare, un oggetto da detenere una volta per tutte, un dogma, sfugge poi alla destra anche riguardo la scuola. L´insegnamento, da quanto si comprende dalla proposta di legge, consiste nell´inculcare nozioni nel cervello dei giovani, come oggetti esterni che entrano a forza in un contenitore passivo. Ovvio, quindi, che il consumatore debba avere qualche garanzia sulla qualità della merce che si porta in casa, che pretenda di sapere se sia avariata, adulterata, dannosa. Che il rapporto educativo sia l´esatto opposto, è un dubbio che non sfiora neppure gli estensori della proposta di legge, i quali ignorano che la parte principale dell´insegnamento non consiste nell´assegnare lo studio di qualche pagina di manuale, ma nell´autorevolezza personale e scientifica del docente che spiega, commenta e approfondisce un tema, e così opera la formazione dei giovani, sollecitandone lo spirito critico, e fa nascere in loro l´abitudine al giudizio informato – che implica appunto il possesso di un metodo, la conoscenza sistematica di nozioni, e il confronto con una varietà di interpretazioni, distinte chiaramente nelle loro premesse e nelle loro conseguenze. Questo delicatissimo processo, del quale fa parte anche la scelta del manuale – fra una molteplicità di testi differenti, di diverso orientamento e di uguale serietà scientifica –, è un atto di libertà sia del docente sia dei discenti: una libertà didattica e civile che è garantita dalla Costituzione come libertà di insegnamento e come libertà di ricerca.
O forse anche queste parti della Costituzione sono non gradite alla destra, proprio come quelle che affermano che la repubblica democratica è fondata sul lavoro, e che le scuole private possono essere istituite solo senza oneri per lo Stato. Forse, allora, c´è, dopo tutto, qualcosa da imparare da questa proposta di legge: non solo come la destra pensa alla scienza e all´insegnamento, ma anche come pensa alla politica e al suo rapporto con la società. Cioè secondo una modalità assai poco liberale e anzi chiusa, sospettosa, difensiva e aggressiva a un tempo. Una modalità autoritaria o da democrazia protetta; che si manifesta nell´istituzione di una commissione d´inchiesta parlamentare su qualcosa che non c´è, e non ci può essere, come l´imparzialità nel pensare la storia (e poi, per fare che cosa: sanzionare autori ed editori? Licenziare professori? Bruciare libri proibiti?); che si rivela nell´idea che debba esistere una verità "oggettiva" o di Stato (sotto le mentite spoglie della "memoria condivisa") che faccia premio sulla libera ricerca, che ne sia l´unità di misura; e che tradisce lo sconcerto davanti alla complessità della scienza e della storia, a cui si risponde non con il confronto dialettico ma con il comando politico. Di una politica che – a colpi di maggioranza o di populismo isterico – si vorrebbe sostituire alla comunità scientifica degli studiosi e alla comunità educativa dei docenti e degli studenti, all´autonomia della società civile.
Alla colonizzazione politica del sapere, che passa attraverso queste intimidazioni, si deve rispondere solo col liberalismo: scrivano anche gli storici non di sinistra dei buoni manuali (come certo sanno fare), e si sottomettano alla comune concorrenza scientifica e didattica per promuoverli e affermarli. Così la società, la scienza e la scuola si arricchiranno invece di impoverirsi come senz´altro avverrà se la proposta di legge avrà seguito.


l’Unità 22.4.11
«Chi nasce o cresce
in Italia deve essere italiano»

qui
http://www.unita.it/immigrazione/chi-nasce-o-cresce-br-in-italia-deve-essere-italiano-1.285738

«Non è forse vero che l’Occidente, i Paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo?»
I cristiani «indifferenti, distratti, pieni d’altro» . Quanta gente andrà a messa in questi giorni in Occidente? «I posti vuoti al banchetto nuziale del Signore, con o senza scuse, sono per noi, ormai da tempo, non una parabola, bensì una realtà presente, proprio in quei Paesi ai quali Egli aveva manifestato la sua vicinanza particolare»
l’Unità 22.4.11
In vista della beatificazione di Giovanni Paolo II, il Papa si sofferma sui temi più critici
Oggi in tv risponde alle domande di sette fedeli nella trasmissione «A sua immagine»
Ratzinger: Wojtyla riscatta la Chiesa dalla vergogna dei suoi peccati
Satana mette ancora alla prova la Chiesa ma Dio l’aiuta a resistere
Gli errori vergognosi della Chiesa, l’indifferenza dei credenti e di un’Europa secolarizzata: è la denuncia di Papa Ratzinger durante il «giovedì santo». Il grazie al «beato» Karol Wojtyla. Oggi le risposte tv «A Sua Immagine».
di Roberto Monteforte


«Non siamo forse noi, popolo di Dio diventati in gran parte un popolo dell'incredulità e della lontananza da Dio? Non è forse vero che l'Occidente, i paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo?». Parole amare, preoccupate e severe quelle pronunciate ieri da Papa Benedetto XVI durante la solenne messa del «crisma», della benedizione degli oli santi, celebrato nella basilica di san Pietro con il quale ha aperto il solenne rito del Triduo pasquale che si concluderà domenica. E’ la Chiesa che di fronte alla sfida della secolarizzazione che pare soccombere, provata al suo interno, come segnata da una «sonnolenza di fronte al male» aveva osservato mercoledì, durante l’udienza generale.
IL GRAZIE A WOJTYLA BEATO
Cosa sono i cristiani oggi? Cosa testimoniano con la loro vita? Papa Ratzinger invita a riflettere e a reagire. A chiedere a Dio: «Non permettere che diventiamo un non-popolo! Fà che ti riconosciamo di nuovo!». Invita a pregare perché i credenti tornino ad essere testimoni credibili di Cristo nel mondo. Ma oggi non è così. Nel momento più intenso e solenne per la cristianità il successore di Pietro invita, infatti, ad un esame di coscienza. Cosa sa dire «alla schiera delle persone sofferenti: gli affamati e gli assetati, le vittime della violenza in tutti i Continenti, i malati con tutti i loro dolori, le loro speranze e disperazioni, i perseguitati e i calpestati, le persone con il cuore affranto»? La Chiesa è chiamata a «guarire», a vivere l’«amore premuroso verso le persone angustiate nel corpo e nell’anima». Ma è così? Papa Ratzinger invita a misurarsi con i limiti, le insufficienze, le vergogne umane presenti anche nella Chiesa. Non è neanche stato necessario richiamare lo scandalo dei preti pedofili. Ringrazia e prega per chi nella Chiesa ha dedicato la sua vita a «portare un amore risanatore agli uomini, senza badare alla loro posizione o confessione religiosa». Cita figure di santi e testimoni come Maria Teresa di Calcutta. Non tutto è nero. Invita alla speranza, malgrado gli errori e le vergogne commesse anche dagli uomini di Chiesa e alla fine arriva il richiamo diretto e grato al suo predecessore. «Quando il prossimo primo maggio verrà beatificato Papa Giovanni
Paolo II, ha aggiunto penseremo pieni di gratitudine a lui quale grande testimone di Dio e di Gesù Cristo nel nostro tempo, quale uomo colmato di Spirito Santo».
In serata il vescovo di Roma, nella basilica di san Giovanni in Laterano, ha celebrato «la messa in coena domini» e il rito della lavanda dei piedi. L’offerta della celebrazione è stata devoluta alla popolazione giapponese così duramente colpita dal terremoto e dallo tsunami. Un atto concreto di solidarietà e vicinanza verso una comunità colpita
dal mistero del male e della sofferenza, delle catastrofi e del dolore innocente.
Perché tutto questo? È una delle sette domande cui risponderà oggi pomeriggio, in collegamento con la trasmissione di Raiuno «A Sua Immagine». Due sono state anticipate dai media cattolici. Quella di Elena, una bambina giapponese di sette anni, che chiede ragione della paura e della tristezza che lei e tanti bambini come lei sono stati costretti a provare. Poi vi è una madre con un figlio ventenne da anni in stato vegetativo che gli domanda: «L’anima è con lui ?».
A tutto ciò non abbiamo risposte, riconosce Benedetto XVI. « ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte».

Corriere della Sera 22.4.11
«L’anima c’è in un corpo in coma È una chitarra dalle corde spezzate»
di  G. G. V.


CITTÀ DEL VATICANO — Davanti alla telecamera la signora Maria Teresa, di Busto Arsizio, appare accanto al figlio Francesco Grillo, 40, malato di sclerosi multipla dal ’ 93 e in stato vegetativo «dal giorno di Pasqua» di due anni fa. Mostra la croce e chiede: «Santità, l’anima di questo mio figlio ha abbandonato il suo corpo, visto che lui non è più cosciente, o è ancora vicino a lui?» . Dal Palazzo Apostolico Benedetto XVI risponde: «Certamente l’anima è ancora presente nel corpo. La situazione, forse, è come quella di una chitarra le cui corde sono spezzate e non si possono suonare. Così anche lo strumento del corpo è fragile, è vulnerabile, e l’anima non può suonare, per così dire, ma rimane presente...» . E c’è di più. Dalle 14.10 di oggi, nella trasmissione A sua immagine, condotta su Raiuno da Rosario Carello, il Papa risponderà per la prima volta nella storia alle domande dei fedeli in tv. Sette quesiti scelti fra tremila richieste. Benedetto XVI ha registrato le risposte la settimana scorsa. A cominciare da quella sull’anima dell’uomo in coma: «Io sono anche sicuro che quest’anima nascosta sente in profondità il vostro amore, anche se non capisce i dettagli, le parole, eccetera; ma la presenza di un amore la sente» , aggiunge il Papa. «E perciò questa vostra presenza, cari genitori, cara mamma, accanto a lui, ore e ore ogni giorno, è un atto di amore di grande valore, perché entra nella profondità di quest’anima nascosta. Il vostro atto è, quindi, anche una testimonianza di fede in Dio, di fede nell’uomo, di impegno per la vita, di rispetto per la vita umana, anche nelle situazioni più tristi» . Così conclude: «Vi incoraggio a continuare, a sapere che fate un grande servizio all’umanità con questo segno di fiducia, con questo segno di rispetto della vita, con questo amore per un corpo lacerato, un’anima sofferente» . Il Papa risponde anche a Elena, una bimba giapponese di 7 anni scampata al terremoto che chiede: perché i bambini devono avere tanta tristezza? E il pontefice: «Anche a me vengono le stesse domande. E non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte...» . Tra le altre domande, una mamma musulmana che vive in Costa d’Avorio e chiede di «Gesù, uomo e profeta di pace» dal suo Paese in guerra, con il Papa che torna sulla necessità del dialogo fra le religioni. Sette giovani di Bagdad che spiegano al Papa di rischiare ogni giorno la vita per il solo fatto d’essere cristiani. E ancora la figura di Maria ai piedi della Croce e il mistero della Risurrezione.

l’Unità 22.4.11
La beatificazione di Karol e la condanna di Welby
Giovanni Paolo II, come Piergiorgio, scelse liberamente di rifiutare le cure e di affrontare la morte. Il primo verrà dichiarato “beato” il primo maggio, il secondo fu lasciato fuori dalla Chiesa
di Mario Riccio


La libertà di decidere
Wojtila rinunciò a curare la sua malattia e rifiutò terapie di sostegno come l’alimentazione e la ventilazione
Perché a Welby non fu riconosciuto il diritto di una simile scelta?

Era il febbraio del 2007 quando, nel tentativo di spiegare l’assoluta linearità almeno a mio avviso del caso Welby che era morto da poco più di un mese, paragonai la sua scelta a quella di Papa Wojtyla. Morto nel 2005 ed in attesa di beatificazione il prossimo 1 ̊ maggio.
Per la precisione il tutto avvenne la sera del 6 febbraio nel corso di una lunga intervista televisiva al canale d’informazione di Sky. In quella occasione un medico molto vicino agli ambienti vaticani confermò quanto mi era già noto da tempo: Papa Wojtyla aveva rinunciato a curare la sua patologia neurodegenerativa -il Parkinson fin dagli esordi.
Questo medico sosteneva inoltre che il Cardinale Martini, anch’esso notoriamente parkinsoniano, assumendo invece la terapia specifica per contrastarne e rallentarne gli effetti, avrebbe compromesso le proprie capacità cognitive a differenza del Santo Padre che invece aveva rinunciato al farmaco appunto per mantenersi pienamente capace di intendere e volere. Tesi peraltro destituita di ogni fondamento scientifico. Ma strumentalmente utilizzata per sostenere surrettiziamente che la posizione assunta dal Cardinale Martini sulla vicenda Welby nella sostanza a favore dell’autodeterminazione in campo sanitario,tale da comprendere la scelta di Welby,anche non condividendola poteva essere frutto di una mente obnubilata dai farmaci.
È noto che il Parkinson sia malattia dall’andamento capriccioso e incostante. Ma effettivamente le condizioni cliniche di Wojtyla negli ultimi anni di vita peggioravano assai rapidamente edin maniera vistosa. Un respiro difficoltoso, una deambulazione ridotta, un eloquio rallentato, ma soprattutto i tremori particolarmente evidenti, facevano realmente deporre per una progressione della malattia senza un sostegno farmacologico, che ne rallentasse e limitasse i danni, già molto tempo prima della sua morte.
La malattia di Parkinson comporta la progressiva compromissione della capacità motoria, oltre che in taluni casi e in fase avanzata il deterioramento della funzione cognitiva. Pertanto è normale che si ponga prima o poi la indicazione clinica alla nutrizione artificiale e alla ventilazione assistita, per la difficoltà appunto di deglutire e respirare.
Di fatto è impensabile che a Wojtyla non sia stato prospettato questo scenario,per valutare la pianificazione delle proprie cure. In particolare su questi aspetti e sugli ultimi giorni di Papa Wojtyla si può leggere la documentata ed impeccabile analisi della collega anestesista Lina Pavanelli apparsa sul numero della rivista Micromega del settembre 2007.
Ma il ragionamento è un altro. Wojtyla rinuncia fin dall’inizio a curare la sua malattia. In maniera assolutamente coerente poi rifiuta anche di sottoporsi a terapie di sostegno delle funzioni vitali quali l’alimentazione e la ventilazione. Si può allora affermare che oggi Wojtyla verosimilmente sarebbe ancora vivo, anche se immobilizzato in un letto e sottoposto a ventilazione meccanica e nutrizione artificiale, se avesse fatto scelte diverse.
Le cronache riportano che si sia mantenuto lucido fino alla morte. Diversamente avrebbe supe-
rato indenne le imposizioni della legge sul fine vita del decreto Calabrò? Anche nella più benevole delle interpretazioni, sicuramente avrebbe dovuto subire quantomeno la nutrizione artificiale. Si potrebbe obbiettare ed è stato effettivamente sostenuto che le condizioni cliniche di Wojtyla erano, nell’ultimo periodo della sua vita, talmente deteriorate che ogni tentativo di cura sarebbe stato un inutile accanimento terapeutico. Premesso che è difficile stabilire cosa sia l’accanimento terapeutico, indubbiamente le condizioni cliniche finali erano assai penose.Ma tali erano appunto come diretta conseguenza della precedente decisione dello stesso Wojtyla, cioè rinunciare alle cure. Una sorta di lenta ma inesorabile eutanasia passiva? Certamente no: un limpido esempio di autodeterminazione sul proprio corpo. Wojtyla sceglie di vivere pienamente la sua malattia senza porvi alcun rimedio. Forse è una convinta decisione di farsi testimone attraverso il suo corpo sofferente di un messaggio. La sofferenza come un valore da sostenere.
La famosa frase di Wojtyla, pronunciata nelle ultime ore di vita, «lasciatemi andare alla casa del Signore» non ricorda forse la stessa vicenda di Welby, che intitolò il libro sulla sua vicenda «Lasciatemi morire»? Per questa scelta Welby è stato però aggredito violentemente e accusato di strumentalizzare la sua condizione fisica.
Sempre nel campo della sofferenza usata come strumento: non è stato forse coerente e coraggioso Welby che alla fine ha deciso comunque di provare a sopportare anche l’ulteriore prova di una vita dipendente da una macchina, immobilizzato in un letto per più di 10 anni, prima di rifiutare definitivamente ogni terapia?
Ma allora perché oggi Papa Wojtyla è stato beatificato mentre a Piergiorgio Welby furono anche negati i funerali religiosi, lasciando la sua bara sul sagrato, fuori dalla chiesa nella quale voleva entrare?
Perché la scelta di Welby è stata giudicata una forma di eutanasia e quella di Papa Wojtyla invece un percorso virtuoso? Dovremo aspettare altri 400 anni come per Galileo per una riabilitazione di Welby?
Si può aderire a qualsiasi tesi bioetica, ma deve essere coerentemente sostenuta.
Mario Riccio, medico anestesista, ha assistito Piergiorgio Welby durante gli ultimi giorni

Corriere della Sera 22.4.11
«Ordine e ingiustizia sociale: svolta autoritaria dell’Ungheria»
di Paolo Valentino


OMA — «Sono dispiaciuto per i miei connazionali. Con il passaggio della nuova Costituzione, si apre un periodo molto buio per l’Ungheria. La democrazia non è in pericolo, è finita: questo non è più un Paese democratico» . Al telefono da Budapest, il perfetto inglese di Gaspár Támás Miklós tradisce un tono grave e preoccupato. Filosofo della politica, leader morale dell’opposizione progressista, Támás è una delle voci più allarmate che si levano dall’intelighentsja ungherese contro Viktor Orban, il primo ministro che lui conosce molto bene per averci militato insieme ai tempi della dissidenza contro il regime comunista. «Questa Costituzione — spiega Támás— combina in modo originale due elementi: un testo legale neo-conservatore, che sospende ogni diritto sociale, direi un sogno thatcheriano realizzato. Dal diritto al welfare al principio del giusto compenso, ogni traccia di giustizia sociale scompare per far posto a una sostanza fortemente anti-egualitaria. L’altro elemento è quello autoritario, che centralizza il potere nelle mani dell’esecutivo, ridimensiona gli organi di controllo, limita la libertà di espressione. In altre parole, riduce il ruolo dello Stato nei rapporti sociali, ma lo aumenta a dismisura nel mantenimento dell’ordine» . Ma lei parla di fine della democrazia, non è esagerato? «Il testo costituzionale rende impossibile ogni cambiamento. Le faccio un esempio: il sistema fiscale, basato sulla flat tax del 16%, è stato scritto nella Costituzione. Come dire che nessun altro governo potrà mai cambiare la politica fiscale, poiché nessuno avrà mai più una maggioranza dei due terzi in Parlamento, anche perché la legge elettorale (anch’essa nella Costituzione) lo impedisce. Anche se il centro-sinistra dovesse vincere le elezioni, non potrà cambiare la politica di questo governo. C’è poi un punto filosofico di fondo: in contraddizione con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’Onu, i diritti non sono dichiarati come dati e naturali come nelle Costituzioni democratiche, ma sono condizionati a obblighi e compiti: per esempio, chiunque goda di un beneficio statale come la pensione o l’assistenza sanitaria, ne ha diritto, cito la Costituzione, solo se fa un’attività utile alla comunità, in base al giudizio dell’autorità statale. Quindi invece di diritti naturali, avremo diritti concessi dallo Stato» . Ma in Parlamento c’è un’opposizione, lei dice liberamente quello che pensa. Come fa a parlare di fine della democrazia? «Questo è un regime autoritario che ammette qualche forma di competizione parlamentare e una limitata libertà di stampa. Certo l’Ungheria non è la Bielorussia di Lukashenko. Ma il principio è lo stesso e la Costituzione è congegnata in modo tale da marginalizzare ogni tipo di opposizione» . Ma lei stesso dice che c’è una certa libertà di stampa… «Sì, sopravvivono piccoli giornali a diffusione limitata e qualche radio. Ma la televisione è assolutamente occupata dal governo, sia quella privata che quella pubblica. Internet è inondato da siti sciovinisti e nazionalisti» . Ma quanto potrà durare questa Ungheria nell’Unione Europea? «Assistiamo a sviluppi antidemocratici ovunque in Europa. Sarkozy e Berlusconi si inseriscono nello stesso trend. Ma Orban è stato più conseguente. Assisteremo a qualche reazione indignata, come quella del governo tedesco, ci sarà una condanna dell’Europarlamento, ma nulla di sostanziale» . La nazionalità estesa agli ungheresi oltre i confini, prevista dalla nuova Costituzione, creerà problemi e tensioni con i Paesi confinanti, come Romania e Slovacchia? «Io vengo dalla minoranza ungherese della Transilvania e conosco bene il problema. Alla classe politica rumena non importa nulla, gli slovacchi sono un po’ più preoccupati. Ma il nodo è di principio. Ad esempio, la Costituzione precedente diceva che lo Stato protegge la lingua ungherese e le lingue delle minoranze. Quella nuova protegge la lingua ungherese e basta. La giustificazione unica della cittadinanza è l’origine etnica: dalla comunità civica passiamo a quella etnica. Ciò è molto pericoloso» . Ci saranno reazioni nella società civile? «Ne sono sicuro. Il governo è così deciso e aggressivo nel liquidare ogni forma di libera espressione culturale e artistica, ci sono stati tagli di fondi e rimozioni a catena da tutte le istituzioni, che io prevedo il sorgere di una forte resistenza da parte di artisti, intellettuali e studenti. Ci saranno forme di ribellione politica. E poiché Orban è ora molto forte, grazie alla Costituzione, potrebbe anche prodursi una situazione di caos» .

Corriere della Sera 22.4.11
Hiroshima e Fukushima: psicoanalisi del Giappone
L’istinto di morte che domina la storia e la letteratura
di Guido Ceronetti


E cco, il 15 marzo 2011, terremoto e tsunami hanno provvidamente aperto il ventaglio di un’altra via. Quale? Quella di Mishima si ferma alle grida delle scuole di arti marziali. Ma nel suicidio di Mishima, avvenuto nel modo che sappiamo il 25 novembre di quello stesso anno, affiora qualcosa di più di una frustrata nostalgia guerriera. Qui sono tutti pronti a lodare il «Giappone che si riprende» (come grande produttore «inorganico e vuoto» ovviamente) ma volendo capire e sperare di meglio, guardiamoci dall’unirci a questa cantoria di castrati. Per forza, in mancanza dei segni e delle voci della lingua, dobbiamo ricorrere a categorie e termini arrischiatamente occidentali. Può essere utile (con riserva) il freudiano Todestrieb (pulsione di morte) per pensare il Giappone negli ultimi mesi della mostruosa guerra del Pacifico, tra marzo 1945 (data del primo attacco aereo suicida contro portaerei americane) e la resa (14 agosto). Pulsione o istinto o volontà di morire, che dai piloti shinpu (non usava ancora il gonfiatissimo, e quanto distorto, kamikaze), che staccandosi da un bombardiere Mitsubishi madre si dirigevano su un aliante contro le navi americane, si era estesa all’intero popolo in vista di una guerra di sterminio casa per casa finché fosse piaciuto all’imperatore. Senza la resa non si sarebbe mai visto nulla di simile. Stupefacente è il seguito: l’aggavignarsi pronto, del popolo e delle autorità votati alla morte, al vincitore, il più forte, e anche il più disposto ad aiutare il vinto, a studiarne e a curarne anche le spaventose ferite dei bombardamenti nucleari. Si stabilisce da allora un misterioso legame, che definisco volentieri amoroso, tra l’anima profonda di una nazione che ha un’anima e un destino, gli Stati Uniti, e l’anima profonda di una nazione che, ben più antica, specifica e consolidata, ha un’anima e un destino: lo Yamato, il Giappone. Il paradossale ruffiano di questa unione nippo-americana che dura ininterrottamente dal 1945, fino a Fukushima, è il pikadon (lampo-tuono), il bombardamento del 6 agosto di Hiroshima, in coppia con quello di Nagasaki del 9, eventi che persuasero gli stati maggiori e l’imperatore, senza turbare la determinazione del popolo a sacrificarsi. Nei teatri, in quello strano dopoguerra, racconta Georges Banu, l’entusiasmo degli spettatori per la bravura degli attori si esprimeva con grida come queste: «Sei bravo, sei il più bravo, sei McArthur!» . McArthur era lo sterminatore, il medico e il granaio. McArthur era il più forte. Nel bushido, la via del samurai, non esiste l’odio per il nemico: il samurai vincitore non vanta la sua vittoria (preferisce lodare i ciliegi in fiore) e se sopravvive vinto ammira e loda la forza del McArthur vincitore. Arrivo così a spiegarmi un perché tormentatore dai giorni dell’ultimo tsunami. Che cosa ha spinto (significativamente, mi pare, senza contrasto ambientalista) il Giappone a richiamare lungo le sue coste — e senza volersi detentore di quella Cosa Senza-Nome impropriamente detta «l’arma nucleare» , ottusa, ignobile, eppure fascinatrice più di Medusa— così tante centrali produttrici della stessa Energia in cui dorme, dovunque sorgano per fini industriali, una perpetua minaccia alla salute e alla specie umana? Le ragioni pratiche non m’interessano. Non indago che le psicologiche. La scelta del Giappone, che ha sparso cinquantacinque (finora) centrali nucleari in zone tutte a rischio di tsunami, viene dal Todestrieb, dalla stessa pulsione di morte dei disperati piloti suicidi, in travestimento pacifico, ma teschio uguale. E qui purtroppo devo ricorrere ulteriormente alla nostra più banale terminologia psicanalitica, vedendo l’istinto di morte generarsi da un irresistibile, più forte e segreto fantasma-madre soggiacente nei fondi di psiche: il drago sadomasochistico, il bisogno di autopunizione, di autoflagellazione, di essere «il coltello e la ferita» , il ventre aperto e il colpo di scimitarra finale. Mishima ha la vista lunga, ma non ha colto questa connotazione tragica nello stesso Giappone produttore «inorganico, vuoto, neutrale e neutro» che con la sua veemenza stilistica deplora. Se i concetti sono quelli della traduzione (Lezioni spirituali per giovani samurai, a cura di Lydia Origlia, 1988 SE), il Giappone da lui disprezzato era in realtà un produttore forsennato, con masse umane marcianti alla fabbrica (vedi Metropolis di Fritz Lang), tutt’altro che neutrale e neutro per la sua fortissima partecipazione all’inquinamento planetario (morte della terra, terricidio) sulle orme sempre del vincitore americano, e distruttore di cetacei nonostante il divieto della caccia baleniera, rovina mercuriale dei propri mari (memorabile il crimine del morbo di Minamata, che avvelenava i crostacei, consumato dai costieri): un grande «suicida» desacralizzato ma non deritualizzato. Molte vie ha, e può prendere, la pulsione di morte. Di erotismo sadomasochistico è impregnato il romanzo giapponese del XX secolo. Da quale altra letteratura avrebbe potuto una favola luttuosa come La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata, essere concepita? Dai romanzi puoi ricavare più d’un motivo di stupore e di smarrimento per il comportamento giapponese di fronte all’amore, mai separato dalla pulsione di morte. Enigmatico è anche quest’altro tratto, che riporta alla cruciale guerra del Pacifico e a un dopoguerra vaginalmente erotico di assorbimento del Vincitore: non ci trovi odio per il nemico, né durante né dopo. Neppure di amore, come l’Occidente se lo figura e lo vive. In categorie propriamente estremo-orientali (lo Yin e lo Yang) ecco il Giappone è tutto, spiritualmente e fisicamente, Yin: dominio dell’ombra, spiegamento del principio femminile, onnipotenza dell’acqua, incesto con la madre, attrazione suicida. L’Ombra è la generatrice di quelle cinquantacinque centrali. In questa disposizione di passività femminile, che è dello Yamato di sempre, Tsunami del 15 marzo e incendi dei reattori si possono dire, a prezzo anche di molte vite intrepidamente votate a morirne, accolti, seminalmente rappresi nel baratro di psiche. Ma se il bisogno inconscio di compensare il mondo per la propria follia si farà luce, il Giappone, come obbedendo a un ordine imperiale, potrebbe trasgressivamente ricavare dalla peste radioattiva che ha suscitato il dono esemplare di una totale rinuncia ad ogni forma di risorsa energetica nucleare; potrebbe addirittura, per più e più cedere al vincitore Tsunami, convertire impoverendosi la sua immensa capacità produttiva alla causa della conservazione e dell’abitabilità planetaria: la più difficile, la più disperata di tutte. Un simile evento chiuderebbe, in un risorgente gesto di bushido, il ciclo simbolico esistenziale che dai piloti suicidi, passando per Hiroshima, dopoguerra frenetico, democrazia e smania di arricchirsi, arriva al denudamento di Fukushima.

Repubblica 22.4.11
Un brano del testo del filosofo sul celebre mito
Quando Orfeo lascia Euridice
di Slavoj Zizek


Le diverse versioni dell´opera, da Monteverdi a Gluck, e una nuova visione della soggettività
Anticipiamo parte del testo di che compare sul nuovo numero della rivista Lettera internazionale, dedicato al rapporto fra corpo e potere.

Perché la storia di Orfeo fu il tema del teatro d´opera nei suoi primi cento anni di vita, durante i quali ne vennero prodotte quasi cento versioni? La figura di Orfeo che chiede agli dèi di restituirgli la sua Euridice impersona una costellazione intersoggettiva che costituisce, per così dire, la matrice elementare dell´opera o, più esattamente, dell´aria operistica: la relazione del soggetto (in entrambi i sensi del termine, agente autonomo ma anche soggetto dell´autorità legittima) con il suo Padrone (divinità, re o la dama dell´amor cortese) si rivela attraverso il canto dell´eroe (come contrappunto alla collettività incarnata dal coro) che è in sostanza una supplica a lui diretta affinché si mostri misericordioso, faccia un´eccezione e perdoni all´eroe la trasgressione di cui si è reso colpevole.
La prima, rudimentale forma di soggettività è la voce del soggetto che implora il Padrone di sospendere, per un attimo, la sua stessa Legge. (...) Abbiamo qui una sorta di scambio simbolico tra il soggetto umano e il Padrone divino: quando il soggetto, l´essere umano mortale, supera la sua condizione di finitezza e si eleva, con l´offerta del proprio sacrificio, a un´altezza divina, il Padrone risponde con il gesto sublime della Grazia, la prova definitiva della sua umanità. Eppure, allo stesso tempo, questo atto di grazia appare inequivocabilmente un gesto vuoto e forzato: il Padrone in definitiva fa di necessità virtù, presentando come atto autonomo ciò che in realtà è obbligato a fare se non vuole che la rispettosa istanza del soggetto si trasformi in aperta ribellione.
Per questo motivo non penso che la vicinanza cronologica tra la nascita dell´opera e la formulazione del cogito di Descartes sia solo una semplice coincidenza: si potrebbe perfino sostenere che il passaggio dall´Orfeo di Monteverdi all´Orfeo e Euridice di Gluck corrisponda al passaggio da Descartes a Kant. La novità introdotta da Gluck è una nuova visione della soggettività. In Monteverdi, abbiamo la sublimazione allo stato puro. Quando Orfeo si gira a guardare Euridice e così facendo la perde di nuovo, la Divinità lo consola: è vero, ha perduto la sua amata come persona in carne e ossa, ma da quel momento sarà in grado di rintracciarne gli adorati lineamenti in tutto ciò che lo circonda, nelle stelle del cielo, nel luccichio della rugiada mattutina… Orfeo accetta senza esitare il vantaggio narcisistico prodotto dallo scambio e si lascia sedurre dalla prospettiva di diventare l´autore della glorificazione poetica di Euridice: in poche parole, non ama più lei ma la visione di se stesso che canta il suo amore per lei.
Se questo è vero, l´eterna questione di capire perché Orfeo abbia rovinato tutto girandosi a guardare Euridice si presenta in una nuova luce. Si tratta semplicemente di una manifestazione del legame tra istinto di morte e sublimazione creativa: lo sguardo all´indietro di Orfeo è un atto perverso stricto sensu, perché egli sceglie intenzionalmente di perdere Euridice per poterla riavere come oggetto di sublime ispirazione poetica (un´idea sviluppata in particolare da Klaus Theweleit). Ma ci si potrebbe spingere oltre, domandandosi se non sia la stessa Euridice, consapevole dell´impasse in cui si trova il suo amato Orfeo, a indurlo intenzionalmente a voltarsi. Il suo ragionamento potrebbe essere stato più o meno il seguente: «So che mi ama; ma potenzialmente è un grande poeta, questo è il suo destino, che non potrà mai realizzare se ci sposeremo e vivremo insieme felici. Quindi l´unica cosa eticamente accettabile che mi resta da fare è sacrificarmi, spingendolo a voltarsi, per consentirgli di diventare ciò che merita di essere, un grande poeta».
© Lettera Internazionale. Traduzione di Stefano Salpietro
 

Repubblica 22.4.11
La donna senza eros a cui l´uomo non piace più
di Camille Paglia


Ora prevalgono attrici dalle silhouette ossute scolpite dal pilates che trasmettono diffidenza e tensione
La diva di "Cleopatra", come Ava Gardner prima di lei, possedeva magnetismo animale e spontaneità naturale
Da Liz Taylor ad Angelina Jolie, la studiosa americana spiega come è cambiata la femminilità delle star

Una volta, in un saggio per Penthouse, scrissi che Elizabeth Taylor era una «donna prefemminista», e che «esercita quel potere sessuale che il femminismo non è in grado di spiegare e che ha cercato di abbattere». Così argomentavo: «Attraverso star come Liz Taylor, percepiamo l´impatto rivoluzionario per i destini del mondo di donne leggendarie come Dalila, Salomè ed Elena di Troia».
"Il femminismo - continuavo - ha cercato di liquidare il modello della femme fatale come una calunnia misogina, un trito cliché. Ma la femme fatale esprime l´antico ed eterno controllo da parte delle donne del regno della sessualità".
Per me, l´importanza di Liz Taylor come attrice stava nel fatto che rappresentava un genere di femminilità ormai assolutamente introvabile nel cinema americano o inglese, radicato nella realtà ormonale, nella vitalità della natura. Era, da sola, un rimprovero vivente al postmodernismo e al poststrutturalismo, che ritengono che il genere non sia altro che un costrutto sociale. Vi faccio un esempio. I ragazzi stanno bene, il film di Lisa Cholodenko, è bellissimo, ma Julianne Moore e Annette Bening erano drammaticamente scheletriche, viste sullo schermo. È il classico look da inedia che ormai ci proiettano le star hollywoodiane: una silhouette ossuta, anoressica, scolpita col pilates, lontana mille miglia da quello che gran parte del mondo associa al concetto di femminilità. C´è qualcosa di quasi androide nella raffigurazione della donna irradiata da Hollywood. Se Gwyneth Paltrow fosse cresciuta negli anni ´30, sarebbe stata una ragazza irrimediabilmente imbranata, di quelle che fanno tappezzeria, presa in giro per la sua magrezza. Ma oggi viene presentata alle ragazze americane come l´ideale massimo a cui tendere.
Il personaggio di Liz Taylor inizialmente costituiva una continuazione di Ava Gardner. Tutte e due avevano una lussuria e una spontaneità naturali, un magnetismo animale, anche se tutte e due, all´inizio della loro carriera, non padroneggiavano bene le tecniche recitative fondamentali, il dialogo in particolare. È questo che la gente apprezza tanto in Meryl Streep: «Oh, è così brava con le intonazioni; oh, ha una dizione perfetta». Ma Meryl Streep non vive realmente i suoi personaggi, si limita a indossarne i panni. La Streep si traveste sempre. Ma è qualcosa di terribilmente superficiale, una questione puramente di testa, non di cuore o di corpo.
In America, negli anni ´50, le bionde erano l´estremo ideale ariano. Bionde sfacciate come Doris Day, Debbie Reynolds e Sandra Dee dominavano la scena. E poi c´era la Taylor, con quel look meraviglioso, bruno, etnico. Sembrava ebrea, italiana, spagnola, perfino araba. Era autenticamente transculturale, era una resistenza radicale al predominio della confraternita di reginette e cheerleader dai capelli dorati. E poi la sua sessualità esplicita in quel periodo puritano: era qualcosa di estremamente audace. Aveva una sorta di robustezza rispetto a quegli sconquassi di vulnerabilità ed emotività che erano Marilyn Monroe e Rita Hayworth. Anche la Hayworth proiettava sullo schermo una femminilità meravigliosa e struggente, ma la Taylor era una tosta. Aveva un istinto di sopravvivenza. E un´altra sua caratteristica era che riusciva a risollevarsi da tutte le tragedie e riusciva ad attingere alle sue sofferenze per la recitazione.
L´era delle grandi regine del cinema è senz´altro finita. Sharon Stone ha avuto il suo momento di gloria con Basic Instinct. Non solo nella famosa scena dell´interrogatorio nella stazione di polizia: in tutto il film disponeva del sesso e disponeva della telecamera. Lì ebbi un fugace momento di speranza. Pensai: «Il sesso sta finalmente tornando a Hollywood?» E invece no, non sono più riusciti a trovare un ruolo tanto convincente per la Stone, e il momento magico passò.
Angelina Jolie era fantastica in Gia, dove interpretava la parte della modella bisessuale Gia Carangi, morta di Aids. Aveva la sensualità e l´energia animale di Ava Gardner. Ma dopo essere assurta allo status di star globale, la Jolie ha deciso di diventare la grande star umanitaria. Improvvisamente si crede l´ambasciatrice delle Nazioni Unite per tutta la miseria umana del mondo. Tutto si trasforma in concetti elevati, e presto si ritrova a collezionare un serraglio multirazziale di bambini. Il risultato è un appiattimento totale della sua immagine artistica.
Da un certo punto di vista, Angelina Jolie ha il problema di essere una star nell´epoca dei paparazzi, in cui sei braccata molto più di quanto era braccata Liz Taylor. E così la Jolie è diventata difensiva e riservata, e ora c´è qualcosa di troppo calcolato e manipolatorio nel suo personaggio pubblico, e lei è diventata meno interessante di com´era. Ovviamente, non c´è nessuno che scriva grandi ruoli per lei. Le danno ruoli da film d´azione come Lara Croft in Tomb Raider, dove una donna contemporanea deve dimostrare di essere tosta e saper tenere testa fisicamente agli uomini. Ma non sono sicura che Angelina Jolie sarebbe capace di gestire alcuni dei ruoli che Liz Taylor sapeva interpretare tanto bene. C´è una rilassatezza nello stile di recitazione di Liz Taylor – e in Liz Taylor in quanto donna – che non c´è in Angelina Jolie, che trasmette sempre una sensazione di diffidenza o tensione.
Siamo in un periodo in cui tutto dev´essere tirato, nella mente e nel corpo. E in parte il motivo è che siamo nell´era del dopo-studios. La Taylor era una creazione del vecchio sistema hollywoodiano degli studios. E nello studio cinematografico si cresceva ultraprotette. Era un contesto familiare che certe persone – come Katharine Hepburn e Bette Davis – trovavano claustrofobico. Ma che invece fu molto proficuo per una persona come Liz Taylor.
La Jolie ha una vita piuttosto difficile, instabile, irrequieta. Lei è una dura, una sopravvissuta, una un po´ cinica. In Liz Taylor non si percepisce mai cinismo. Secondo tutti quelli che l´hanno conosciuta, era una donna calorosa e materna. E questa è un´altra cosa importante: tutte queste star dei giorni nostri, che accumulano figli con un esercito di tate. Nonostante tutti i suoi figli, nessuno definirebbe materna Angelina Jolie. Ma l´aspetto materno di Liz Taylor ha un ruolo fondamentale nel suo potere eterosessuale. Lei era in grado di controllare gli uomini. A lei piacevano gli uomini. E lei piaceva agli uomini. C´era una chimica fra lei e gli uomini che veniva dai suoi istinti materni.
Scrivo su questo argomento da anni, e le mie riflessioni sono state ispirate anche dalla visione di Liz Taylor sullo schermo e fuori. La donna eterosessuale felice e di successo si sente tenera e materna verso gli uomini, ma è qualcosa che è andato completamente perduto nella nostra epoca femminista. Ora le donne dicono agli uomini: tu devi essere il mio compagno, e devi essere proprio come una donna, essere il mio migliore amico e ascoltare le mie chiacchiere. In altre parole, alle donne gli uomini in realtà non piacciono più: vogliono che gli uomini siano come le donne. Liz Taylor amava gli uomini e gli uomini amavano starle intorno, perché lo percepivano. Ma lei non era una mansueta. Sapeva darle, oltre che prenderle. Erano famose le baruffe senza esclusione di colpi tra lei e Richard Burton, ed era qualcosa che lei adorava. Nessun uomo l´ha mai comandata. Nemmeno per un secondo.
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(Traduzione di Fabio Galimberti)

l’Unità 22.4.11
Alessandro Mannarino
Un cantastorie in lotta con dio
di Federico Fiume


La patchanka di Mannarino è fatta di fisarmoniche «rive gauche», fiati balcanici, stornelli romani, folk da cantastorie. Già, perché fondamentalmente Mannarino è un cantastorie, come lo si può essere nel terzo millennio, in un mondo fuori controllo da cui far scaturire sempre nuovi racconti, un po’ surreali un po’ concretissimi, abitati da personaggi al margine, quelli che la vita la devono conquistare ogni giorno con le unghie, i perdenti della società dei consumi ma, in definitiva, i più poetici ed umani fra noi. Il cantautore romano ha appena pubblicato il secondo, attesissimo album Supersantos, seguito di quel Bar della rabbia che aveva reso noto a tutti il suo talento procurandogli elogi incrociati e fans come Serena Dandini, della cui trasmissione Parla con me è stato più volte ospite. Fra le mura della sua casa, nel popolare e multietnico quartiere romano del Pigneto, Alessandro Mannarino ci racconta il nuovo album in un giorno di pioggia, fra un caffè e una sigaretta.
«Rispetto al primo, che era una sorta di Best of di quanto avevo scritto negli anni precedenti, Supersantos è fatto di canzoni più calate nel presente. Ho avuto più mezzi per realizzarlo, più tempo, più libertà». Spuntano dal cd personaggi surreali, storie tanto improbabili quanto poetiche e significative. «Certe volte, scrivendo, mi sono sentito in bilico fra neorealismo e surrealismo, fra la strada e la fantasia. Penso che sia una chiave vitale per me quella di prendere la zozzeria, anche la mia, e trasformarla in qualcos’altro. Lo puoi fare in tre modi: sognando, scrivendo o rimboccandoti le maniche per cercare di cambiare la realtà, ma questo è un processo molto lungo e faticoso». Un compito che non spetta ai cantanti, loro raccontano solo storie, ma possono essere intrise di significati ben precisi, come quella degli amanti Giuda e Maddalena, che rivendicano la carnalità del loro amore anche di fronte ad un iratissimo Dio. «Quel che volevo dire è che la Chiesa nasce dalla paura per una donna libera, che in fondo tutto quell’apparato serve solo a mettere a tacere Maddalena. Ma non so se ce l’hanno fatta, ci sono ancora tante Maddalene che parlano...».
I riferimenti alla religione, che troviamo in molte canzoni, sono sempre in una chiave che la vede come un potere oppressivo, negativo, mentre dall’altra parte c’è una sorta di elegia degli ultimi, dei barboni, della donne libere... «Credo che alla base ci sia una paura della morte intesa come morte civica, sociale, intima, che origina da un amore viscerale per la vita. I miei personaggi dicono che non hanno bisogno di un paradiso postumo, che la loro vita è qui e questa è una cosa che libera perché se mi sento oppresso non aspetto di morire per essere il primo in paradiso, mi ribello qui e ora.
IL GIOCO DELLE PAROLE
Mannarino gioca anche molto bene con le parole, tanto da inventarsi un brano come L’era della Gran Publicitè con un testo che è uno strano gramelot in cinque lingue, poco comprensibile ma molto significativo, se lo si riesce a decifrare: «E una sciarada, un messaggio criptato, dove dico peste e corna di alcuni, cose che non avrei potuto esprimere esplicitamente». Quanti possono permettersi di scrivere una canzone volutamente incomprensibile o quasi? Bisogna essere sfrontati, ma un cantastorie se non è sfrontato non è. “La parola cantastorie mi piace. Mi piacciono le storie, mi piace leggerle e raccontarle, quelle con la esse minuscola, che ti fanno amare la vita e ti spingono anche a lottare per cambiare un Paese o una società, perché sai che c’è qualcosa di bello da difendere». Ma c’è sempre una fine e ovviamente ce n’è una anche in Supersantos...«In fondo questo disco racconta tante piccole fini del mondo, piccole apocalissi personali, come quando finisce un amore o un modo di pensare. L’ultimo giorno dell’umanità chiude l’album raccontando una fine, ma aperta. C’è una luce, chiamata la luce dei lupi, che arriva immediatamente prima dell’alba. Gli uomini non la vedono, ma i lupi la percepiscono, la fiutano. I lupi sono animali associati alle tenebre, alla ferocia, ma anche loro in realtà cercano la luce. Questo disco non ha un inizio, ma ho sentito l’esigenza di metterci un epilogo, che è la luce dei lupi, la fine che sta appena prima di un nuovo inizio».