martedì 26 luglio 2011

Il Tempo Adnkronos 27.7.11 ore 16.02
Psichiatria: Fagioli, Breivik schizofrenico paranoide

Roma, 27 lug. (Adnkronos Salute) - "In Breivik c'è un'onnipotenza di anaffettività. Queste persone non hanno rapporto interumano. Ad armarli è la perdita di ogni rapporto con la realtà umana. Vedono soltanto il male assoluto. E' l'estremismo della ragione, questo radicalismo razionale che finisce nel fascismo nazismo". Ad affermarlo è Massimo Fagioli, lo psichiatra dell'analisi collettiva, in un'intervista al settimanale 'Left' in edicola venerdì 29 luglio.L'esperto individua gli aspetti patologici della personalità di Anders Behiring Breivik, autore della strage in Norvegia, e indaga le matrici ideologiche del gesto. "Sono convinto, vista tutta la preparazione, che questa sia schizofrenia paranoide - spiega Fagioli - c'è il delirio assurdo, mostruoso fuori da ogni realtà. A differenza della sindrome paranoicale, qui c'è la percezione delirante, per cui d'improvviso in un'altra persona si vede Satana". Per Fagioli la culla di questa violenza fredda è da cercare nella cultura di destra."Non bisogna dimenticare che il nazismo è nazionalsocialismo - avverte l'esperto - cioè spesso questi movimenti hanno una matrice popolare, di sinistra. Poi diventano delle dittature: lucide, fredde, pazze, come quelle di Hitler. E questa percezione delirante arriva alle conseguenze di eliminare il primo diverso, gli ebrei. Poi il secondo diverso, gli zingari. Di seguito il terzo diverso, i comunisti. Fino - chiosa - all'eliminazione di tutta l'umanità per restare da soli". "Alla base c'è il fondamentalismo cristiano, quello che storicamente parte da Paolo di Tarso", sottolinea Fagioli. In conclusione del suo intervento lo psichiatra dà una definizione storica di schizofrenia paranoide: "è una logica nettissimamente nazista, che passa per Spinoza, Hegel, Heidegger, Binswanger. Tutto quel filone di pensiero - conclude - per cui, banalizzando, si arriva a teorizzare che i malati di mente sono incurabili, quindi si possono ammazzare tutti, mezzo milione, così facciamo del bene alla nazione e a loro stessi".

Adnkronos 27.7.11
Norvegia, lo psichiatra Fagioli, in Breivik schizofrenia paranoide

Intervista a "LEFT". le persone così vedono soltanto il male assoluto: La percezione delirante arriva alle conseguenze di eliminare i diversi
Roma, 27 lug. - (Adnkronos) - ''Queste persone non hanno rapporto interumano. Ad armarli e' un'onnipotenza di anaffettivita', la perdita di ogni rapporto con la realta' umana. Vedono soltanto il male assoluto. E' l'estremismo della ragione, questo radicalismo razionale che finisce nel fascismo-nazismo''. In un'intervista a 'Left', in edicola venerdi', il professor Massimo Fagioli, lo psichiatra dell'Analisi Collettiva, individua gli aspetti patologici della personalita' di Anders Behiring Breivik, autore della strage di 76 persone in Norvegia e indaga le matrici ideologiche del gesto. ''Sono convinto, vista tutta la preparazione, che questa sia schizofrenia paranoide -spiega Fagioli- C'e' il delirio assurdo, mostruoso fuori da ogni realta'. A differenza della sindrome paranoicale, qui c'e' la percezione delirante, per cui d'improvviso in un'altra persona, non posso neanche dire in un avversario, c'e' Satana. Quindi ci si organizza, si sistema tutto per distruggere il male. Questa si chiama schizofrenia paranoide''.
Per Fagioli la culla di questa violenza fredda, e' da cercare in una certa cultura di destra. ''Non bisogna dimenticare che il nazismo e' nazionalsocialismo -afferma lo psichiatra- spesso questi movimenti hanno una matrice popolare, di sinistra ma poi diventano delle dittature lucide, fredde, pazze, come quelle di Hitler. E questa percezione delirante arriva alle conseguenze di eliminare prima il 'primo diverso' che sarebbero gli ebrei, poi il 'secondo diverso' che sarebbero gli zingari poi il 'terzo diverso', ovvero i comunisti. Fino all'eliminazione di tutta l'umanita', per restare da soli''. ''Alla base -rileva Fagioli- c'e' il fondamentalismo cristiano, quello che storicamente parte da Paolo di Tarso. E' noto, lo dice bene Flores D'Arcais nel suo ultimo libro, che dal cristianesimo mistico, dalla fede come follia, si e' passati e ci si e' alleati alla razionalita' greco romana''. ''Per tornare a questa schizofrenia paranoide -conclude lo psichiatra dell'Analisi Collettiva- e' una logica nettissimamente nazista, che passa per Spinoza, Hegel, Heidegger, Binswanger, tutto quel filone di pensiero per cui, banalizzando, si arriva a teorizzare: 'visto che i malati di mente sono incurabili, ammazziamoli tutti, mezzo milione. Cosi' facciamo del bene alla nazione e a loro stessi'''. (Sin/Zn/Adnkronos) 27-LUG-11 13:21 NNNN

Agi 27.7.11
Norvegia: Fagioli, in Breivik onnipotenza di anaffettività

Behring Breivik? Queste persone non hanno rapporto interumano: ad armarli e' un'onnipotenza di anaffettivita', la perdita di ogni rapporto con la realta' umana. Vedono soltanto il male assoluto. E' l'estremismo della ragione, questo radicalismo razionale che finisce nel fascismo nazismo. Lo afferma in una intervista al settimanale 'Left' in edicola venerdi' prossimo, lo psichiatra Massimo Fagioli. "Sono convinto, vista tutta la preparazione - spiega lo psichiatra - che questa sia schizofrenia paranoide. C'e' il delirio assurdo, mostruoso fuori da ogni realta'. A differenza della sindrome paranoicale, qui c'e' la percezione delirante, per cui d'improvviso in un'altra persona, non posso neanche dire in un avversario, c'e' Satana. Quindi ci si organizza, si sistema tutto per distruggere il male. Questa si chiama schizofrenia paranoide". Per Fagioli la 'fonte' di questa violenza fredda, e' da cercare certamente nella 'incultura' di destra. "Non bisogna dimenticare che il nazismo e' - precisa lo psichiatra dell'Anaslisi Collettiva - nazionalsocialismo. Cioe' spesso questi movimenti hanno una matrice popolare, di sinistra ma poi diventano delle dittature lucide, fredde, pazze, come quelle di Hitler. E questa percezione delirante arriva alle conseguenze di eliminare prima il primo diverso che sarebbero gli ebrei, poi il secondo diverso che sarebbero gli zingari poi il terzo diverso che sarebbero i comunisti, fino all'eliminazione di tutta l'umanita' per restare da soli". Poi, "alla base c'e' il fondamentalismo cristiano, quello che storicamente parte da Paolo di Tarso - conclude Fagioli - E' noto, lo dice bene Flores D'Arcais nel suo ultimo libro, che dal cristianesimo mistico, dalla fede come follia, si e' passati, ci si e' alleati alla razionalita' greco romana. Per tornare a questa schizofrenia paranoide, e' una logica nettissimamente nazista, che passa per Spinoza, Hegel, Heidegger, Binswanger, tutto quel filone di pensiero per cui, banalizzando, si arriva a teorizzare: 'visto che i malati di mente sono incurabili, ammazziamoli tutti, mezzo milione, cosi' facciamo del bene alla nazione e a loro stessi'". (AGI) Red/Pat 271325 LUG 11 NNNN

Comunicato dell'Ufficio stampa di Left. Roma, 27 luglio 2011
Norvegia, lo psichiatra Massimo Fagioli a Left: “In Breivik c’è un’onnipotenza di anaffettività”.
di Giovanni Senatore

“Queste persone non hanno rapporto interumano. Ad armarli è un’onnipotenza di anaffettività, la perdita di ogni rapporto con la realtà umana. Vedono soltanto il male assoluto. È l’estremismo della ragione, questo radicalismo razionale che finisce nel fascismo nazismo”. In un’intervista a Left in edicola venerdì 29 luglio 2011, il professor Massimo Fagioli, lo psichiatra dell’Analisi Collettiva, individua gli aspetti patologici della personalità di Anders Behiring Breivik, autore della strage di 76 persone in Norvegia e indaga le matrici ideologiche del gesto. “Sono convinto, vista tutta la preparazione, che questa sia schizofrenia paranoide. C’è il delirio assurdo, mostruoso fuori da ogni realtà. A differenza della sindrome paranoicale, qui c’è la percezione delirante, per cui d’improvviso in un’altra persona, non posso neanche dire in un avversario, c’è satana. Quindi ci si organizza, si sistema tutto per distruggere il male. Questa si chiama schizofrenia paranoide”.  Per Fagioli la culla di questa violenza fredda, è da cercare nella cultura di destra. “Non bisogna dimenticare che il nazismo è nazionalsocialismo - afferma -. Cioè spesso questi movimenti hanno una matrice popolare, di sinistra ma poi diventano delle dittature lucide, fredde, pazze, come quelle di Hitler. E questa percezione delirante arriva alle conseguenze di eliminare prima il primo diverso che sarebbero gli ebrei, poi il secondo diverso che sarebbero gli zingari poi il terzo diverso che sarebbero i comunisti… fino all’eliminazione di tutta l’umanità per restare da soli”. “Alla base c’è il fondamentalismo cristiano, quello che storicamente parte da Paolo di Tarso - conclude Fagioli -. È noto, lo dice bene Flores D’Arcais nel suo ultimo libro, che dal cristianesimo mistico, dalla fede come follia, si è passati, ci si è alleati alla razionalità greco romana. Per tornare a questa schizofrenia paranoide, è una logica nettissimamente nazista, che passa per Spinoza, Hegel, Heidegger, Binswanger… tutto quel filone di pensiero per cui, banalizzando, si arriva a teorizzare: ‘visto che i malati di mente sono incurabili, ammazziamoli tutti, mezzo milione, così facciamo del bene alla nazione e a loro stessi’ ”.

Repubblica R2 26.7.11
Marco Bellocchio: "A Bobbio lungo il fiume ho sfiorato la felicità"
intervista di Dario Cresto-Dina


Intervista con il regista che ricorda le lunghe estati sull´Appennino piacentino "Così ho scoperto libertà e solitudine"
"Da giugno a settembre andavo nel paese di mio padre, una zona franca dove ho cominciato ad allontanarmi da Dio"
"Sulle rive del Trebbia cercavo una nicchia per dedicarmi all´estraniamento e immaginare il futuro"

Bobbio (Piacenza) Ci sono cose che restano nelle zone incerte della coscienza, come i sogni ricordati a metà. È il motivo che le rende misteriose, affascinanti e inalienabili. Le portiamo con noi, fino alla fine. Per il regista Marco Bellocchio l´acqua è una di queste. Il fiume Trebbia sotto il ponte Gobbo a Bobbio, sull´Appennino piacentino, luogo della sua infanzia e delle estati dell´adolescenza. Un posto tanto amato e ugualmente rinnegato, poi recuperato dal desiderio di tornare sotto certe carezze. Da dove cominciamo, gli domando, mentre lui mi spiega che sarà un´estate di lavoro. Alla prima sceneggiatura del suo prossimo film, idea cullata e equivocata da due anni, titolo possibile Bella addormentata, il dramma di Eluana Englaro sullo sfondo per evitare il contatto diretto con la realtà. È sempre stato così: «Racconto le storie scostandomi da esse. Se ci sto un po´ lontano mi sento più libero».
Da dove cominciamo, dunque?
«Dall´odore dei sassi marezzati dall´acqua, un misto di salmastro e d´erba. Da una pozza trasparente sotto il ponte che ai nostri occhi di bambini sembrava un lago. Dalla casa dei miei arrivavo al fiume in bici, ci mettevo tre minuti. Ricordo che la prima era di ghisa, pesantissima, finii dritto su un muro e il telaio si frantumò. La seconda era scassatissima, da battaglia. Non ho mai avuto la mania della perfezione. A dodici anni andai contro un camion e mi spaccai tutto. Sono nato a Piacenza, Bobbio è il paese di mio padre. Papà di mestiere faceva l´avvocato. All´inizio degli anni Cinquanta le famiglie della media borghesia non trascorrevano l´estate al mare, ma in campagna, come in Russia. Restavo lì da giugno fino a metà settembre. La prima volta contai le macchine in paese. Ce n´erano tre».
Com´era il suo rapporto con il fiume?
«Una metafora. Ho passato la guerra a Castell´Arquato, con mia madre, ho cominciato a galleggiare nell´Arda. Nel Trebbia si andava a pescare con la rete, ci si svegliava all´alba dopo le notti di grande pioggia, nelle acque limacciose di montagna. Al Gobbo ho imparato a nuotare, quasi tutti i ragazzi della mia età si tuffavano di testa, io no. Mi intimoriva la profondità, credo fossero tre o quattro metri. Ogni estate immancabilmente arrivava la notizia di qualcuno che c´era annegato. Consumavamo al fiume tutti i pomeriggi. Era la libertà, lo spazio aperto, lo scorrere della vita senza barriere, ma anche il piacere della solitudine. A Piacenza mi sentivo dentro un manicomio con il portone chiuso a chiave, a Bobbio le chiavi neppure esistevano».
Da che cosa voleva fuggire?
«Dall´infelicità della mia famiglia. Invidiavo quelle serene e ordinate nelle quali i figli erano, come si diceva allora, "guardati" dai genitori. Pensi che fui io a chiedere a mio padre di mandarmi in collegio, liceo classico al San Francesco di Lodi, perché preferivo la disciplina dell´istituzione cattolica all´anarchia della famiglia. Posso dire di essere stato allevato da Dio».
I Bellocchio erano una famiglia numerosa. Otto fratelli, se non sbaglio.
«Nove, per l´esattezza, uno morì piccolissimo. E molte disgrazie che non le sto a raccontare. La follia del primogenito. Le pie sorelle Maria Luisa e Letizia, sordomuta, invecchiate nubili e sicure solo tra le mura domestiche, istruite dall´intero parentado alla rinuncia, relegate a una dimensione sociale ottocentesca. Camillo, mio fratello gemello, suicida a 29 anni per la depressione provocata da un amore senza fortuna. Non ci assomigliavamo per niente lui e io, non avevamo complicità, nelle nostre estati a Bobbio frequentavamo compagnie differenti. Abitavamo in una villetta fuori del paese, dove ho girato gli esterni dei Pugni in tasca, poi, quando mio padre si è ammalato ci trasferimmo in un appartamento del centro. Eravamo appena benestanti. Noi figli tutti magri, mai un soldo in tasca. Ricordo il sapore particolare delle domeniche, il gelato e la torta della zia Laura, una crostata di prugne. Avevo diritto a una fetta, non di più».
Un quadro letterario, non crede? Qualcosa di tolstoiano che lei, infatti, ha voluto raccontare con i suoi film.
«Per carità, niente a che vedere con la grande letteratura. Nessun atto di sadismo né tracce di orrore, neanche un prete molestatore a girare per casa, anzi, la tragedia familiare era l´assenza più assoluta di una dimensione sessuale. Era il deserto. Naturalmente era proibita anche la masturbazione. La praticai in ritardo e con un senso di scontentezza, come se si trattasse di una sconfitta o di un ripiego».
A Bobbio dove albergava questo Dio che atterriva?
«Bobbio era una zona franca, come quei posti sul confine dove sigarette e cioccolato costavano meno. Dio rimaneva a Piacenza, con la sua liturgia e la paura del peccato che ti scagliava dritto all´inferno. Il cine parrocchiale, il catechismo, la confessione del sabato, la comunione la domenica. Ho cominciato a allontanarmi da Dio proprio durante le estati trascorse a Bobbio, tra i dodici e i tredici anni. Ho poi allenato lo scetticismo in collegio, avvertivo in modo fisico l´influenza di una nuova cultura non dico marxista ma laica che mi arrivava sopra tutto dal confronto con mio fratello Piergiorgio. Ho smesso di credere a Milano quando ho cominciato a frequentare il Piccolo Teatro, Grassi, Strehler, Brecht, l´Accademia dei filodrammatici».
Fu una rottura traumatica?
«Una separazione non violenta, senza contrapposizioni. Con qualche sacerdote ho conservato legami e amicizie profonde. Non ho mai disprezzato o irriso chi crede. Ho semplicemente smesso di occuparmi della complessità religiosa, se poi qualcuno vuole vedere la presenza di Dio nei miei film è libero di farlo, ma non mi si chieda di discuterne. Il qui e ora è più importante».
Si sta autoaccusando di superficialità?
«Piuttosto di superiorità. Per me sono intollerabili il dogma e le abitudini. Credo che la felicità stia nel movimento, fisico e intellettuale. Forse per Dio sono una persona poco raccomandabile, anche se non in modo patologico».
Mi fa pensare che per lei Bobbio sia stato il luogo della cancellazione e dell´oblio, il Trebbia quasi un lavacro purificatore.
«Qui dimenticavo tutto di quanto mi avevano insegnato durante l´anno scolastico. Leggevo Salgari e Zola. Il fiume costituiva ai miei occhi un grande spazio dove cercare una nicchia per isolarmi. Mi dedicavo all´estraniamento, immaginavo un futuro di attore di teatro o di cantante d´opera. Avevo allora una voce da tenore, papà mi faceva sentire le romanze e mi invitava a intonare un´aria. Andavo nella stanza accanto, lasciavo la porta socchiusa e cantavo per lui al buio. Quella voce se n´è andata con il tempo, l´ho completamente smarrita».
Chi erano i suoi compagni sul fiume?
«Beppe Ciavetta era il figlio del presidente del tribunale di Piacenza, purtroppo è scomparso l´anno scorso; Sandro Ballerini, il cui padre faceva l´esattore delle tasse; i Malchiodi di Torino, stirpe avvocatizia; Vittorio Malacalza, papà geometra, oggi vice presidente di Pirelli e marito di una mia cugina. Poi c´erano Gianni Gabrieli, detto Giannischicchi, proveniente da una famiglia povera, e i due fratelli Cella, calciatori, Giancarlo giocò credo nel Torino, a Novara e nell´Inter».
Non ha citato nomi femminili. Non frequentavate ragazze?
«C´era tra noi un clima democristiano. I primi rapporti con l´altro sesso erano molto condizionati dal gruppo, erano incontri indotti. Ti trovavi all´improvviso appartato con una che aveva fatto un investimento su di te, mentre tu volevi solo giocare, scherzare e raggiungere al più presto gli altri che si erano maledettamente allontanati di cinquanta metri, lasciandoti sull´orlo dell´abisso. Là in fondo stava il sesso. Disegnavo figure sui margini dei libri scolastici, un giorno un compagno mi disse: "fammi una donna nuda". Non sapevo da dove cominciare, non avevo mai visto un pube femminile, non riuscivo neppure a immaginarlo. Buttai giù una roba insignificante, rubando lo spunto a una figura classica. Lui non fu per nulla soddisfatto, lo ritrovai anni dopo sul giornale, era stato arrestato per l´omicidio di una prostituta».
Da adulto prese una casa sul Trebbia.
«Lo volevo vedere ogni mattina, al risveglio».
Poi se ne andò. Perché?
«Staccai la spina alla fine degli anni Settanta. Bramavo l´altrove. Ogni passaggio era divenuto nostalgico, patetico. Mi fermavano sulla piazza per aggiornarmi su chi era morto, chi si era ammalato. Un catalogo funebre. Vendetti l´alloggio per comprare una casa a Roma. Tornai nel ´96, accettai di organizzare un piccolo corso di cinema, finalmente affrancato dalla malinconia e dal fatalismo religioso. Nel cimitero c´è la cappella dei Bellocchio. È sempre più affollata, una proprietà che mi lascia indifferente».
È stato felice qui?
«Non lo so. Ci sono stati molti momenti di speranza e avventure brevi. Frammenti di felicità».