sabato 24 maggio 2014

Repubblica 24.5.14
Il patto tradito tra padri e figli
di Gustavo Zagrebelsky



Se la politica è l’arte delle combinazioni che serve a tenere insieme le contraddizioni evitando che scoppino, il nostro sembra essere sempre meno un tempo politico e sempre più un tempo conflittuale. Nutriamo dentro di noi, nel nostro modo di pensare noi stessi rispetto agli altri, fratture che eleviamo a culture, cioè a visioni generali della vita, e che, perciò, diventano difficilmente componibili. Forse, la più profonda perché legata alla biologia, è la frattura generazionale.
A lungo abbiamo osservato e deplorato l’immobile gerontocrazia che ha dominato nel nostro Paese. Ora, i rapporti si stanno rovesciando, se già non sono rovesciati. La gioventù è portatrice d’un carisma che l’autorizza a rivendicare la guida della società. È fresca, spregiudicata, disinibita. Ha occhi ridenti e fuggitivi, soprattutto rapidi. Gli anziani sono conservatori, appesantiti dalle tante cose che hanno visto e vissuto, legati a idee che vengono da lontano, incompatibili con il mondo che cambia. Hanno occhi appannati, intristiti, fissi. Chi troppo ha visto e sperimentato, spesso è privo d’energia verso la realtà: ne conosce tanti o tutti gli aspetti e cade nello scetticismo e nell’abulia ironica. Insomma, gli anziani sono ostacoli. Ciò che una volta si considerava una virtù si è mutato in vizio: l’esperienza è diventata l’intralcio. Il futuro è dei giovani, si lascino gli anziani al loro passato. «Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è
più bello della Vittoria di Samotracia ». Forse non siamo a questo ancora, ma insomma...
Nella sua galleria delle immagini che fissano momenti cruciali della vita, qualcuno avrà forse registrato lo sguardo smarrito di Bobbio e Spadolini di fronte al dileggio cui furono esposti al tempo dell’elezione del presidente del Senato della XII legislatura. Lì si poteva già capire che qualcosa di decisivo si era rotto e che nella frattura uomini nuovi vittoriosamente venivano alla ribalta. Da allora, le cose sono andate avanti. I toni, nei confronti degli anziani, possono essere cortesi o sgarbati, compassionevoli o crudeli, rispettosi o arroganti. Dipende dalla buona o cattiva creanza, ma la materia è la stessa ed è dilagante. Chi non ricorda gli insulti alla senatrice Levi Montalcini? Chi non legge ciò che compare sui social forum non sa che l’argo- mento decisivo contro gli avversari è sempre più spesso l’anagrafe e che di questo argomento bersaglio preferito è il presidente della Repubblica. In fondo, che ci se ne renda conto o no, appartiene alla stessa visione del mondo la retorica della rottamazione, il trar motivo di vanto dall’abbassamento della “età media” di ministri e sottosegretari, fino alla polemica contro parrucconi o “professoroni”( o presunti tali). Un tempo si diceva: i giovani hanno solo il diritto di crescere studiando, cioè di cessare d’essere giovani. Oggi, le idee retrocedono e avanza la generazione. Chi viene dal passato s’adegui o, almeno, taccia! Se non arriva a capirlo da sé, c’è chi ci pensa al posto suo. Se non lo si mangia o non lo si cosparge di miele per darlo in pasto alle termiti, come in certe tribù delle civiltà precolombiane, lo si mummifica in qualche accademia: desti- no più civile e meno spiacevole, ma uguale nel risultato.
Dietro l’atteggiamento di chi fa valere la sua gioventù come plusvalore, c’è una visione del mondo cui, consapevolmente o inconsapevolmente, aderisce. Allo stesso modo c’è una visione del mondo in chi rovescia il plusvalore a favore degli anziani: i giovani hanno un solo dovere, smettere d’esserlo. Sono chiamati in causa i rapporti tra le generazioni. Tutti noi sappiamo che sono rapporti conflittuali, a partire da quelli tra genitori e figli. Prima d’essere genitori siamo stati figli e bene sappiamo che la nostra crescita si è svolta attraverso quel conflitto che poi, generalmente, acquisita la maturità e la sicurezza di sé, si ricompone in un equilibrio in cui né gli uni né gli altri sono più quelli che erano prima. Così va il mondo degli umani, così la vita procede e ha la vittoria sulla stasi mortifera e nichilista dell’immutabile. Benedetti siano, dunque, quelli che agitano le acque immobili, anche se generano temporanea tempesta.
Dalla piccola dimensione, i rapporti intergenerazionali si proiettano sulla scala vasta della vita sociale. Diventano scontro di culture politiche. Alla fine del Settecento, epoca rivoluzionaria, si diffuse nel mondo occidentale l’intolleranza verso tutto ciò che aveva il sapore dell’Antico Regime. «Il mondo appartiene ai viventi » fu il motto di quegli anni: dunque tacciano le generazioni precedenti. Perfino le leggi e le costituzioni dovevano automaticamente cadere al volgere delle generazioni (più o meno ogni trentacinque anni, si sosteneva), per liberare le nuove dal giogo delle antiche e permettere loro di ricominciare ogni volta da capo. A questa visione a singhiozzo se ne oppose un’altra. Il mondo non appartiene solo ai viventi. È un lascito testamentario che ogni generazione riceve dalla precedente per consegnarlo a quella successiva. La tradizione unifica le generazioni, ognuna delle quali è chiamata a portare il suo contributo a un’opera di umanizzazione che le trascende. «I viventi appartengono al mondo», si potrebbe dire, rovesciando la citata formula di Thomas Jefferson.
In realtà, il mondo appartiene ai viventi e al tempo breve della loro generazione, ma è vero anche il contrario: i viventi appartengono al mondo, il cui tempo lungo scavalca le generazioni. Tra innovazione e tradizione c’è e deve esserci tensione, nella quale alla prima spetta tagliare i rami secchi e alla seconda conservare quelli vitali. Ma, oggi s’è diffuso un sentimento d’impazienza e d’insofferenza generale. Il lascito dei padri appare fallimentare ed è rifiutato dai figli. Si voleva una società dove regnasse pace, giustizia e solidarietà e abbiamo violenze, ingiustizie ed egoismi. Tabula rasa allora, per poter ricominciare senza vincoli e pregiudizi.
Per quanto sia dettata dai migliori sentimenti, questa è un’illusione infantile, perché nessuno ricomincia mai davvero da capo. Ogni svolta storica non velleitaria e non catastrofica si radica in energie morali e materiali che sono venute accumulandosi nel tempo e chiedono di farsi spazio: chiedono cioè di diventare anch’esse tradizione a partire da un’altra tradizione che s’è andata formando. Non basta l’energia, la voglia di fare e cambiare, la velocità. Non basta far leva solo sul malessere. Su questo soltanto non si costruisce, ma si distrugge. Al più, sotto le apparenze del cambiamento, si apre la corsa dei nuovi per prendere il posto dei vecchi: semplice lotta per il potere, tra chi se lo vuol tenere e chi glielo vuol togliere.
È giusta la critica nei confronti di chi ha concepito la politica al di fuori o contro le aspettative e le speranze dei molti e giusta sarebbe anche l’autocritica. Ma la validità delle aspettative e delle speranze non è affatto travolta perché qualcuno tra la generazione dei padri le ha tradite. Anzi, il tradimento le rafforza. Valori e fatti sono cose diverse. Il giovanilismo è espressione del dominio dei fatti, dell’effettività. Ma i fatti non hanno alcun valore. Quando si dice che si deve “cambiare l’Italia”, che occorrono “riforme”, che bisogna “cambiare verso”, o si usano altre simili espressioni di per sé prive di contenuto, si indulge per l’appunto all’attivismo, alla cultura del fare per il fare. A questo fine, il giovanilismo è sufficiente. Se, invece, il fare si vuol inserire in un disegno che valga per l’oggi, apra una strada per il futuro e trovi le sue basi in ciò che di valido viene dal passato, il giovanilismo non basta più. Non è più questione di vecchi e giovani.

l’Unità 24.5.14
Premier e Pd si giocano tutto


In questa campagna elettorale Renzi ci sta mettendo la faccia, tutta l’energia di cui è capace, la credibilità stessa di capo del governo. Forse, qualche mese fa, non pensava di giocarsi alle europee una posta così alta. Ma Grillo ha cambiato il registro politico, esasperando la strategia della delegittimazione e della rabbia. Il «vaffa» di Grillo è sempre meno legato a promesse di cambiamenti concreti: è l’invocazione delle macerie, è l’idea reazionaria di una rendita generata dalla disperazione.
Ma drammaticamente il messaggio fa presa, tanto profonde sono le fratture sociali e tanto diffuso è il disprezzo verso la politica e le istituzioni. Renzi non poteva starci a metà in questa competizione europea. Anche se la sua presenza nell’arena elettorale sposta ancor più il dibattito verso il cortile interno. In pochi altri Paesi europei, le politiche dell’Unione sono così lontane dal voto come da noi. Ma il segretario del Pd doveva fare ciò che ha fatto. Anzi, viene da pensare cosa sarebbe accaduto se non ci fossero state la forza di Renzi e le sue tonalità «antipolitiche» a contrastare la violenza verbale di Grillo e quella simbologia che continuamente sfregia i valori comuni. La posta è alta, oltre i risultati numerici di domenica. L’immagine del derby tra la speranza e la rabbia è più di una trovata propagandistica. Anche per questo Renzi si trova in questa battaglia, per la prima volta, a rappresentare gli umori e i sentimenti di tutto il Pd, di chi lo ha votato alle primarie con entusiasmo, di chi lo ha sostenuto dopo pur mantenendo qualche riserva, di chi vuole conservare uno spazio critico in un «partito plurale». In gioco stavolta c’è la tenuta dell’impalcatura democratica del Paese e la possibilità di utilizzare le istituzioni europee per ottenere quei cambiamenti indispensabili ai governi nazionali. C’è insomma il destino della sinistra riformatrice, che da noi è legato anzitutto al risultato del Pd e all’apporto che questo darà alla candidatura di Martin Schulz, e poi alla composizione della nuova Commissione di Bruxelles.
Non è vero che le sorti della legislatura dipendono meccanicamente dalle percentuali di Pd e M5S. Certo, un vantaggio significativo del Pd aiuterebbe l’impresa di Renzi. Ma il paradosso italiano è che, probabilmente, sulla stabilità del quadro politico inciderà di più la distribuzione dei voti nella destra in crisi. La maggioranza di governo, come è noto, poggia sul sostegno determinante del Ncd di Alfano. Un naufragio del Nuovo centrodestra potrebbe avere effetti destabilizzanti: tutto infatti può permettersi Renzi tranne che tornare indietro sui passi di Enrico Letta, recuperando Berlusconi al governo. Anzi, per il successo delle riforme istituzionali ed elettorali, è necessario che dopo le europee Renzi abbandoni anche l’asse privilegiato con Forza Italia. C’è spazio per un dialogo positivo con gli alleati di governo e, a sinistra, con Sel e i parlamentari espulsi da Grillo: anche perché le proposte (soprattutto sull’Italicum) che vengono da queste aree sono migliori delle intese finora raggiunte.
In ogni caso per Renzi comincerà, dopo le europee, una fase nuova del governo. Non solo per l’avvio della presidenza italiana dell’Ue. Grillo vuole destabilizzare le istituzioni per tornare al voto politico e, con il proporzionale puro, rendere nulla e inconcludente anche la prossima legislatura. Lo sfascio dopo lo sfascio. Bisogna fare di tutto perché Renzi, il Pd e il governo escano dalle elezioni più legittimati e più forti. Non certo per chiudersi in improbabili fortezze. Ma per fare un salto: da una comunicazione che punta suscitare aspettative positive e fiducia nel breve periodo, a una politica duratura capace di darsi un orizzonte di qualche anno.
Renzi ieri è tornato a sventolare la bandiera degli 80 euro mensili per i lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi. Si poteva criticare questo provvedimento per la scelta opinabile di una platea, per quanto sia, delimitata. Ma le volgarità convergenti di Berlusconi e Grillo - «un’elemosina» hanno detto, svelando il loro cinismo da milionari - hanno consentito a Renzi di stravincere la partita. E nella conferenza stampa di ieri il premier ha avuto modo di dire che le politiche di sgravio fiscale presto saranno replicate a favore delle famiglie, dei pensionati, delle partite Iva. Gli 80 euro, insomma, non costituiscono in sé una misura di equità, ma lo saranno quando analoghi provvedimenti riguarderanno le altre fasce sociali deboli. È la metafora del cambio di passo che servirà al governo: da misure contingenti a programmi di medio periodo.
L’Europa è tanto, tantissimo per le speranze italiane. Votare Forza Italia vuol dire votare per il partito di Angela Merkel. Un voto per Grillo equivale al nullismo assoluto a Strasburgo, visto che i grillini non faranno parte neppure del gruppo euroscettico. Ma, senza una Commissione che aiuti l’intera Europa a cambiare rotta, anche il governo Renzi avrà poco ossigeno. Un motivo in più per non buttare il voto di domenica. Siamo a una svolta. Che il capo del governo italiano parli in campagna elettorale da capo del Pd, nonostante sia alla guida di una coalizione complicata, dimostra che la partita si può giocare senza paura. E tanto meglio si giocherà se non si consentirà a Grillo né a Berlusconi di porre ipoteche sulla legislatura.

il Fatto 24.5.14
Renzi: se perdo resto
Il premier: “Che il Pd prenda un punto in più o in meno dei 5 Stelle, non cambia nulla”
di Wanda Marra


Da Firenze. Siamo qui perché vogliamo bene a questo Paese”. Matteo Renzi sale sul palco di piazza della Signoria, tra l’entusiasmo della gente che ritma il suo nome. Guarda la piazza, che è molto calda, ma non è piena: 15mila persone, dicono gli organizzatori. Non i 20mila che si aspettavano. A San Giovanni, a Roma, la piazza di Grillo è affollatissima. E Renzi allora gioca sulle differenze.
FIDUCIA, SPERANZA, futuro, bellezza, entusiasmo, passione, sono le parole che ricorrono nel suo comizio finale. Contro i vaffa e gli scandali. Sotto al palco, montato alla maniera di Berlinguer, c’è molto Pd. C’è pure Gianni Cuperlo. E c’è il Pd renziano, fiorentino. Ad aprire è Dario Nardella, nelle vesti di aspirante successore. Renzi tira fuori i due filoni guida di questa chiusura di campagna elettorale: oltre a “fiducia nel futuro”, c’è il tema della legalità, dell’onestà, che non vuole lasciare a Beppe Grillo. E non a caso per tutta la giornata ricorda che ieri era l’anniversario della strage di via dei Georgofili.
Nel pomeriggio, a Prato, il candidato sindaco Matteo Biffoni, ha una giacca viola sgargiante. Accanto a lui, Renzi, è in maniche di camicia. Rigorosamente bianca. I due Mattei mettono in scena un comizio che ogni tanto assomiglia a una gag, che entusiasma la piazza affollata e festosa. Parlano in toscano, si scambiano battute, si fanno promesse. Lo snodo dell’ultima giornata di campagna elettorale è qui, in una ex roccaforte rossa, una città simbolo, un luogo chiave per la produttività italiana. Renzi torna a casa e tira fuori tutta l’energia, la convinzione, la vis polemica di cui è capace. Qui il partito è con lui: sul palco ci sono il segretario della Toscana, Dario Parrini, il presidente della Regione, Enrico Rossi. I candidati, Simona Bonafè, Roberto Gualtieri, Nicola Danti. Renzi parla il linguaggio della verità: “Non posso fare tutto da solo”. E allora non a caso va a prendere linfa nella “sua” Toscana per chiudere una sfida che si è fatta via via più difficile. “Se perdo o vinco di un punto, non cambia niente”, va a dire al Tg5. Il fiato sul collo di Beppe Grillo Renzi lo sente. Sa che è la sfida su cui si misura anche la possibilità per lui di andare avanti con forza.
Dopo giorni e giorni di piazze, interviste, apparizioni televisive, ieri mattina Renzi sceglie di giocarsi anche la carta del governo. E lo fa, mettendo in evidenza luci e ombre, cose fatte e cose rimaste al verbo futuro. “Giro d’Italia in 80 giorni”. Matteo Renzi arriva nella sala stampa di Palazzo Chigi con un’aria stropicciata, quasi dimessa. Abito blu, camicia bianca, niente cravatta. Si porta dietro dieci slide. “Vorrei presentarvi quello che abbiamo fatto e quello che faremo”. Ci sono gli slogan, e ci sono le foto simbolo. Il tono non è esattamente trionfale. Anzi, per una volta il premier sembra meno arrogante, meno sicuro del solito, ma più sincero. “Non è tutto quello che avremmo voluto fare, ma è un risultato straordinario per un governo in 80 giorni”, ammette. E allora, chiede fiducia. “Continuo a dare le date”, dice. Per giovedì, la “rivoluzione del fisco”, “il 13 la riforma della Pa”. Annuncia i futuri viaggi internazionali, in Asia e in Africa, e l’intenzione di andare a Taranto e nel Sulcis. Le slide questa volta sono semplici, quasi sobrie. Tra le foto non manca quella con la Merkel, dove, “ovviamente”, la Cancelliera lo guarda con ammirato stupore. E poi, c’è il capitolo legge elettorale e riforme costituzionali. Che sono ferme perché “Berlusconi e Cinque Stelle ci hanno chiesto di rimandarle, per non inquinare le elezioni”. E allora, “ho detto va bene. Ma penso che sia stato un errore”.
Per andare avanti, per avere – dalle urne – la forza di fare meglio, Renzi torna in piazza. E ci torna in Toscana. È ancora un tam tam di sondaggi. Gli umori dei renziani sono altalenanti, le previsioni difficili. “Va bene, va bene – scommette Parrini – a me risultano ancora 6 punti avanti. Grillo ha abbassato i toni, perché ha capito che stava esagerando con la violenza. Ha accusato il colpo. E poi questa idea di paragonarsi a Berlinguer fa muovere tanti di sinistra che Matteo non l’avrebbero mai votato”. In un angolo, sotto al palco, c’è anche la moglie di Renzi, Agnese. Sguardo intento, attento, espressione enigmatica. Evidentemente anche lei si chiede come andrà a finire. E poi, in nottata, a Firenze, mentre tutti gli altri salgono sul palco per la foto finale, Renzi scende tra la folla. Ci prova ancora una volta.

Corriere 24.5.14
Il premier alla partita decisiva: io legittimato dalla Costituzione
L’insistenza sul fatto che non c’è nesso tra governo e voto
di Maria Teresa Meli


ROMA — Arrivano decine di sondaggi sulla scrivania del premier. Alcuni affidabili. Altri assai meno. Ce ne sono di rassicuranti: danno cinque, sei punti di distacco rispetto al Movimento 5 Stelle. Ce ne sono di sconfortanti che dipingono un testa a testa, in cui il vincitore verrà deciso nelle ultime ventiquattro ore.
Il premier ha deciso di non impazzire appresso a quelle percentuali e a quelle previsioni, tanto più che il numero degli indecisi è ancora alto e quindi le rilevazioni non hanno una grande affidabilità. Meglio seguire l’istinto, che gli dice di andare avanti. Nemmeno la piazza di Roma, che pure non era stracolma, lo ha colpito, benché non gli abbia certamente fatto piacere. Ma a dire il vero se lo aspettava. E un po’ lo temeva: «Però le piazze sono sempre difficili, anche quella di Napoli, che pure era piena, non è stata una piazza facile». Non è quello che lo preoccupa: «Non è così che si misurano i voti», continua a ripetere ai suoi, convinto, com’è convinto, che l’Italia «non premierà i pagliacci e i buffoni», ma chi «cerca di governare e cambiare».
Però un filo d’ansia c’è. È inutile negarlo. Quante volte i sondaggi hanno sbagliato? Se fosse per i dati a sua disposizione Matteo Renzi dovrebbe stare tranquillo, ma siccome, per quanto sia giovane, fa politica da tempo, sa che non si può mai stare sicuri, perciò preferisce mettere le mani avanti: «In Francia Hollande arriverà terzo e nessuno si sognerà di dirgli di andarsene a casa. Perciò, come ho già detto, queste Europee non sono un referendum sul governo. Io me ne andrò a casa solo se me lo dirà il Parlamento».
Certo, ora che Renzi è sceso in campo in maniera così palese, ora che ha preso sulle sue spalle la campagna elettorale di un Pd che altrimenti faticava ad andare avanti, sarà più difficile per lui distinguere le sue sorti da quelle del Partito democratico. Ma il premier su questo punto non ha dubbi: non ci sarà nessun contraccolpo. Ne è sicuro. «Non credo di arrivare alla cifra di Veltroni», ammette. Ma questo non significa che non sia sicuro di battere il suo avversario: «E comunque la legittimazione non mi arriva dalle elezioni europee, ma dalla Costituzione». Il che non vuol dire che non avrebbe preferito di gran lunga approdare a Palazzo Chigi con un passaggio elettorale. Ma non è stato possibile.
Questo, però, a suo avviso non gli dà minore legittimazione. Anche se alcuni suoi alleati di governo lo pensano e lo temono. Il senatore Roberto Formigoni del Nuovo centrodestra, per esempio, è preoccupato: «Se Grillo arrivasse veramente primo sarebbe un problema, perché se insistesse con la sua richiesta di elezioni anticipate sarebbe complicato per Giorgio Napolitano dirgli di no, dopo tre governi nati non dalla volontà popolare. E allora si andrebbe alle elezioni con il Consultellum e in questo modo l’esito finale sarebbe quello di dare vita a un governo delle larghe intese con Berlusconi dentro». Curioso risultato per Grillo: quando si dice l’eterogenesi dei fini della politica.
Ma in questo momento Renzi non pensa assolutamente a uno scenario simile. Anzi, parla con i compagni di partito di tutt’altro: «Bisogna far partire un meccanismo che attivi la fiducia del Paese nei confronti dell’azione di questo governo. Nonostante le incertezze di questa campagna elettorale, siamo alla fine del nostro periodo buio, e se lo spread sta salendo non è per colpa di chissà quali complotti ma per colpa dei toni di Grillo che spaventano i mercati. Per questa ragione noi dobbiamo cercare di rassicurare gli investitori e di dimostrarci responsabili. Per la prima volta da tempo, infatti, mezzo mondo ha deciso di investire nuovamente in Italia e questa occasione non può essere sprecata: non possiamo allontanare i fondi esteri perché in Italia si aggira lo spauracchio di Grillo».
Dunque, il premier, nonostante le ansie e le preoccupazioni, si prepara già al 26 maggio e affida agli amici questo messaggio: «C’è un’unica condizione per cui io non posso continuare la legislatura: se vengo ricattato da Berlusconi, dai mandarini della burocrazia e dai conservatori della sinistra, allora sarò io ad andarmene, qualsiasi sia il risultato elettorale».

Repubblica 24.5.14
Per Renzi scatta il “soccorso rosso”
Da Bersani a D’Alema la “ditta” degli ex diessini corre in aiuto del premier: “Non è in discussione il governo”
Anche Enrico Letta mette da parte i dissapori con Matteo: “Lo ritengo giusto perché Attila è alle porte”
di Giovanna Casadio



ROMA . I rancori torneranno, ma dopo. I malumori, le contestazioni, le divisioni, i dissensi sono rinviati. Enrico Letta ad esempio - brutalmente defenestrato a febbraio da Palazzo Chigi proprio da Matteo Renzi - ha detto ai compagni dem che il momento è così grave, lo spettro del populismo di Grillo pericoloso al punto che in campagna elettorale ci sarebbe stato: «È giusto mobilitarsi perché Attila è alle porte». E ieri l’ex presidente del Consiglio traccia un bilancio delle tappe: «Brescia, Genova, San Miniato, Padova... sempre con i segretari regionali e i capilista». Il Pd alla fine è tornato. La “ditta”, al netto delle rottamazioni, si ritrova nel momento del pericolo. Scatta il “soccorso rosso”. E i conti, sempre aperti, slittano al post elezioni. Anche con la Cgil, che in passato si sarebbe mobilitata per riempire le piazze del centrosinistra e ora - è l’accusa che veniva mormorata venerdì durante il comizio di Renzi in una piazza del Popolo che si è riempita a fatica e svuotata in fretta se ne frega.
Ma non sono ore di recriminazioni. Massimo D’Alema è tra i primi a buttare il cuore oltre i risentimenti per dare la zampata contro Grillo. Il leader della realpolitik denuncia la manovra speculativa che accompagna il tam tam sulla marcia trionfale dei 5Stelle. «Credo che le voci sull’avanzata di Grillo a ridosso del Pd, che non hanno riscontro, siano anche il frutto di una manovra di speculazione finanziaria». Quale è stato infatti l’effetto? «Che lo spread è balzato verso l’alto e quindi poi chi le ha diffuse ha comprato titoli a maggior rendimento, bisogna stare molto attenti alle voci che vengono messe in giro». I Dem sono certi di essere un passo avanti, ma sanno bene che la misura del distacco farà la differenza. Pierluigi Bersani, l’antagonista di Renzi, ex segretario, reduce da un’operazione, non si risparmia. La chiusura della campagna elettorale a Bologna se l’accolla lui con la capolista Alessandra Moretti. Dimostrazione d’affetto per l’ex leader da parte di tutto il Pd, renziani e non, nella roccaforte rossa dove la lista Tsipras pensa di sfondare. E Bersani batte sul tasto: «Il Pd è il partito riformista del secolo e va oltre Bersani e Renzi; la sinistra è inestirpabile ma dà frutti nel Pd». L’appello è a non restare a casa, ad andare a votare per cambiare in Europa. «Se ci fosse un boom dei 5Stelle sarebbe un guaio per l’Italia più che per il governo». La piazza bolognese s’infiamma quando Bersani dà l’alt ai grillini su Ber- linguer: «Il Pd non permette che si giochi a palla col nome e cognome di Enrico Berlinguer». Il M5Stelle e Casaleggio in piazza San Giovanni a Roma inneggiano e si appropriano del leader simbolo della sinistra, dell’uomo del rigore morale, della tradizione operaia. «Ho fatto più iniziative in questa campagna elettorale che in tutte le primarie», sottolinea Gianni Cuperlo, che è stato avversario di Renzi alle primarie del dicembre scorso. «È un voto politico fondamentale per il futuro dell’Italia e dell’Europa. Sono stupito se qualcuno si stupisce dell’impegno di tutti noi, senza appartenenza di correnti ». Cuperlo con Roberto Gualtieri, candidato all’europarlamento nella circoscrizione Centro, è al comizio di chiusura di Renzi a Firenze. «La campagna elettorale è stata corale, il partito ha reagito», commenta Gualtieri. Per la bolognese vice presidente del Pd, Sandra Zampa è l’unità dem l’unica salvezza. Guglielmo Epifani, ex segretario, ha chiuso in Campania. Ammette di temere le emozioni profonde che si agitano in questa tornata elettorale, però «il Pd dà il meglio di sé nei momenti difficili, anche la minoranza del partito si è impegnata».
Il fondatore del partito, Walter Veltroni non solo si è speso soprattutto nel Nord, Nord-est ma avverte: «Sono l’unico recordman che spera di essere battuto ». Il “suo” Pd, nel 2008 prese quasi il 34 per cento, il record per la sinistra italiana nella Seconda Repubblica. Spera in un risultato ancora migliore. La speranza deve però fare i conti con alcuni rischi, come quello che al Sud e nelle Isole il Pd sia in ritirata. Pippo Civati, altro sfidante di Renzi alle primarie, ricorda di non avere mai sottovalutato Grillo: «Ma la sfida è apertissima, per questo dobbiamo esserci tutti, con la massima concentrazione. Io nelle ultime settimane ho fatto 50 iniziative. Mi auguro Renzi comprenda che se siamo coinvolti tutti, le cose nel Pd vanno meglio».

Repubblica 24.5.14
Daniela Santachè
“Il governissimo? Ne parliamo dopo”
Alfano perderà e se si ravvederà il centrodestra tornerà maggioranza I voti M5S sono inutilizzabili Renzi dovrà capire che il suo interlocutore siamo noi
di C. L.


ROMA. «Domenica sera ne vedrete delle belle. Alfano dovrà prendere atto della sua sconfitta. E se non porrà condizioni, potrà ravvedersi, tornare sui suoi passi e il centrodestra tornerà a essere ancora maggioranza».
È così convinta che ci saranno sorprese positive per voi, Daniela Santanché?
«Ci davano per spacciati, finiti, il centrodestra morto. Silvio Berlusconi ha dimostrato anche a chiusura della campagna che lui c’è, è presente e soprattutto che ci sarà in futuro. Siamo ottimisti».
Fa ancora propaganda? La campagna è finita.
«Prenderanno tutti un abbaglio. Quasi tutti gli osservatori lì a dire che in Italia esiste ormai un bipolarismo Grillo-Renzi».
E invece?
«Invece è un grande errore, c’è solo una novità che nessuno ha rilevato: rispetto al passato il terzo polo, quello della protesta, che prima era frantumato tra Di Pietro, comunisti e quant’altro, adesso si è compattato. Ma resta un blocco inutilizzabile per governare».
Non vorrei deluderla, onorevole, ma il terzo polo sembra che siate voi, adesso.
«Questo è tutto da dimostrare. La gara è a tre. E gli elettori dimostreranno che il centrodestra, nelle sue varie articolazioni, è vivo e vegeto, nonostante le spaccature».
Per il momento l’Ncd è da una parte, voi dall’altra, Fratelli d’Italia da un’altra ancora.
«Certo, ma domani saranno sanciti i rapporti di forza. Noi viaggiamo attorno al 20».
Sicura?
«Due più o due meno non farà differenza. L’Ncd sarà attorno alla soglia di sbarramento. Allora ci auguriamo che Alfano e i suoi tornino a più miti consigli. Ha fatto credere che lui era il centrodestra, che la maggioranza dei moderati stava con lui, che la scelta giusta erano i governi Letta e Renzi. Sarà sonoramente sconfitto».
Se dovesse accadere? Gli proporrete di tornare?
«Se non impone condizioni, se capisce che il centrodestra è Forza Italia, è Silvio Berlusconi, allora si potrebbe discutere».
Se il governo dovesse avere difficoltà, siete davvero disponibili a dare una mano?
«Non parliamo adesso di governissimo. Quel che è certo è che i voti di Grillo sono inutilizzabili. O qualcuno immagina il governo del Paese con no tav e no global?» E le riforme che fine faranno dopo il voto?
«Salve, se saranno buone riforme. Renzi dovrà capire che il suo interlocutore è Forza Italia, siamo noi, non potrà cambiare le regole a piacimento solo per tenere insieme il suo Pd».

La Stampa 24.5.14
La metamorfosi da rottamatore a premier moderato
La campagna elettorale di Matteo Renzi
di Federico Geremicca


Dire che quella che si è chiusa ieri è stata - per Matteo Renzi - la campagna elettorale più difficile della sua pur movimentata avventura politica, è decisamente un’ovvietà. Ma aggiungere che sia stata assai più complicata di quanto lo stesso segretario-presidente si aspettasse, forse rende meglio l’idea delle inattese difficoltà incontrate. È anche per questo, probabilmente - per la necessità di calibrare toni e bersagli in corso d’opera - che Matteo Renzi l’ha cominciata in un modo e finita in un altro: da premier guascone e dalle uscite spesso provocatorie al più responsabile (e moderato) tra i competitor in campo. 
La metamorfosi ha riguardato entrambi i fronti lungo i quali si è combattuta la più arroventata campagna elettorale degli ultimi anni: quello europeo, intendiamo, e quello interno. I toni verso Angela Merkel e la locomotiva-Germania, per esempio, sono passati da un minaccioso «sbatteremo i pugni sul tavolo» ad un più ragionevole «ci vuole più Europa, non meno Europa». E per quanto riguarda il fronte interno, lo slittamento è stato forse ancor più vistoso, considerato che l’ottimistico slogan d’avvio - «stiamo cambiando verso all’Italia» - è stato sostituito da un più prudente «loro sono la paura, noi siamo la speranza»...
E la chiave di lettura per cogliere le ragioni della metamorfosi, è tutta in quel «loro». Che potremmo tranquillamente cambiare in un «lui»: cioè, Beppe Grillo. Infatti, è stato l’impetuosissimo irrompere in campo del comico genovese - con una violenza ed un appeal che non erano scontati - a spiazzare nettamente Renzi. Di fronte all’evocazione di Hitler e della «lupara bianca» - punte dell’iceberg di una campagna già prima violentissima - l’idea di potersela cavare con gli 80 euro, la vendita delle auto blu e l’avvio del processo di riforme (tutte cose assolutamente lodevoli, intendiamoci) è rapidamente finita in archivio.
Con i più accessi antieuropeisti da un lato (dalla Lega a Fratelli d’Italia) e dall’altro il «tutti a casa» o l’ultimativo «o noi o loro» del M5S, strategia e linea della campagna elettorale di Renzi e del Pd - ma soprattutto di Renzi, in verità - non potevano, dunque, che cambiare. Cambiare, già, ma come? Nell’unica direzione possibile, considerato che - da premier in carica - sarebbe stato incomprensibile, impraticabile e probabilmente suicida provare a scavalcare Grillo nella gara a chi la spara più grossa e più dura.
Ed è così che il «rottamatore», il panzer capace di espugnare in pochi mesi il Pd prima e il governo poi, si è trasformato - a costo di qualche sacrificio, certo - nel più moderato e responsabile del terzetto in campo. Ne è venuta fuori - se si intende il paragone - una campagna elettorale alla maniera del primo (ed efficace) Berlusconi: futuro, speranza e ottimismo sono così diventate le parole chiave di una battaglia che Renzi non immaginava - come detto - certo così aspra e dura. Ora qui ora lì, sono state snocciolate le cose fatte dal governo: ma come un inizio da non interrompere, appunto, e non come tasselli di un Paese che ha già «cambiato verso».
Un inizio da non interrompere. E con una inversione di 180 gradi, Renzi in chiusura di campagna è appunto tornato all’inizio: una lunga conferenza stampa per illustrare e ricapitolare a poche ore dal voto le cose già realizzate dall’esecutivo e per confermare di nuovo che i risultati di queste elezioni non avranno alcun effetto sulla sorte del governo e che sulle riforme non si indietreggerà di un centimetro. Annunci, tanto il primo quanto il secondo, che indicano una intenzione: ma la certezza che le cose poi andranno davvero così, dipenderà davvero dal tipo di risultati elettorali e dal loro impatto.
Comunque vada, le elezioni anticipate sembrano una ipotesi non sul tavolo: con il semestre europeo di presidenza italiana alle porte, la crisi che non si affievolisce e la presenza di un uomo come Napolitano al Quirinale, è inutile ipotizzarle. Ipotizzarle per questa primavera, certo. Ma a fine semestre ed all’inizio del 2015, le cose potrebbero cambiare radicalmente... 

La Stampa 24.5.14
Novemila in piazza della Signoria. Piazza piena ma non stracolma
Chiusura generazionale con un appello ai nonni
di Fabio Martini


I novemila di piazza della Signoria stanno aspettando da un’ora, con pazienza ascoltano gli slogan e persino una barzelletta del candidato sindaco Dario Nardella e finalmente, quando si materializza Matteo Renzi - l’enfant du pays, l’ex ragazzo di casa che ha fatto strada - gli riservano l’ovazione più calda e più lunga di tutta la campagna elettorale, persino l’inizio di un coretto da stadio «Mat-teo, Mat-teo». Piazza piena ma non stracolma. A Firenze per la verità non c’è clima da evento nazionale, ma Matteo Renzi è in gran forma, cita Michelangelo e Brunelleschi e fa capire una volta ancora che il nemico non è soltanto Grillo ma anche Berlusconi: «Tra quelli che sono lì da 20 anni e che, per dirlo alla fiorentina, “c’hanno belle divertito” e chi sa dire solo vaffa, ci siamo soltanto noi, io dico loro: il futuro è cosa nostra».
Ma le battute più interessanti del suo comizio di chiusura sono quelle minimaliste, apparentemente meno politiche. Psicologicamente efficace la battuta che punta dritto al dilemma che agita molti elettori in queste ore: «Spero che gli italiani facciano come i fiorentini, che hanno sempre da brontolare e facciano come Gino Bartali che diceva “è tutto sbagliato, è tutto da rifare”, ma poi prendeva la bicicletta e andava a salvare gli ebrei». Una battuta, quella su Bartali, apparentemente minimalista. Così come può apparire secondario un altro passaggio di Renzi, quando ai fiorentini dice: «C’è da chiedere al Pd di non avere paura, c’è da chiedere ai nonni e ai genitori di non avere paura se c’è una generazione più giovane a guidare l’Italia». Renzi sa che per vincere le elezioni deve, anzitutto, fare il pieno dei «suoi» voti, dei voti che andarono al Pd di Bersani e che invece in minima parte sente in forse: di qui la battuta sui nonni e sui genitori che devono aver fiducia in lui. Ovviamente la piazza applaude.
Sulle elezioni i passaggi più ottimistici Renzi li aveva fatto nelle ultime interviste televisive, in particolare quella al Tg5: «In tutti i Paesi Ue il partito di governo non è il primo partito, ma in Italia non sarà così!». Anche se poi aveva accompagnata questa sparata con espressioni decisamente più prudenti: «Se vinco di un punto o perdo di un punto cambia poco per il governo». Altrettanto prudente era stato alla domanda se si sentirebbe soddisfatto con un Pd al 26%: «Sarebbe più dell’altra volta, ma vorrei fare un po’ di più». In cuor suo, la soglia psicologica della vittoria è una percentuale con il 3 davanti, anche se la speranza inesprimibile è avvicinarsi a quota 35 e tenere Grillo a distanza di sicurezza, tra i 3 e i 5 punti, sotto naturalmente.
La chiusura in piazza della Signoria è stato il momento conclusivo di una campagna che ha assunto caratteristiche molto particolari. Una campagna solitaria: sui palchi e nei mass media c’è stato soltanto Renzi. Una campagna compulsiva: il premier ha coperto ogni spazio informativo, anche quelli minimalisti. E al tempo stesso una campagna elettorale giocata tutta su un messaggio razionale - speranza e concretezza contro rabbia - e dunque rinunciando a fare leva su uno degli ingredienti essenziali in queste circostanze: la paura creata artificialmente per il nemico di turno. Anziché creare folate di panico, attribuendo i segnali di forte nervosismo delle Borse al timore di una vittoria di Grillo, il premier ha detto: «Non credo alla cultura dell’alibi. Io non cerco alibi: se falliamo la colpa è solo mia, se vinciamo il merito è degli italiani». Prima di lasciare piazza della Signoria un segnale al Capo dello Stato, attaccato dai grillini. «Giorgio Napolitano non merita di essere oggetto di una campagna di odio», «da qui parte un pensiero di affetto al presidente, all’uomo, al politico Napolitano».

La Stampa 24.5.14
In busta paga “bonus Renzi”
Bufera sul Comune di Prato

qui

La Stampa 24.5.14
La busta griffata
di Massimo Gramellini


Nella busta paga di maggio dei dipendenti comunali di Prato accanto ai fatidici 80 euro è comparsa come d’incanto la dicitura «Bonus (Renzi)», sorta di animale mitologico a forma di bancomat. Viene da pensare a una busta taroccata (Prato è il paradiso dei replicanti cinesi). Sentirei invece di escludere che l’errore tecnico – perché di questo chiaramente si tratta – sia da attribuire a un funzionario servile o smanioso di acquisire benemerenze: in Italia la separazione tra politica e burocrazia è un fatto acclarato e non si ha memoria di dipendenti pubblici che abbiano fatto carriera grazie alle raccomandazioni dei partiti. Suscita semmai qualche curiosità che il sindaco pagatore delle buste-paga griffate, Roberto Cenni, appartenga al centrodestra. Non sarà che qualcuno abbia voluto fargli uno scherzo e, giocando sul suo cognome, preludere a un’alleanza futura, a un Cenni d’intesa?
Di una cosa sono sicuro, conoscendolo. Il presidente del Consiglio sarà furibondo e chiederà conto di questo colpo basso: perché sulla busta paga il suo cognome è tra parentesi?

il Fatto 24.5.14
Come svendere l’aeroporto di Pisa agli amici degli amici di Renzi
di Giorgio Meletti


Il frastuono elettorale sta coprendo l'assurda vicenda della privatizzazione semi-clandestina dell'aeroporto di Pisa. Il magnate argentino Eduardo Eurnekian, forte di ottime relazioni con il network del potere renziano e con il presidente dell'Enac (l'ente vigilante sul settore) Vito Riggio, ha lanciato un'offerta pubblica di acquisto sulla Sat, la società quotata in Borsa che gestisce lo scalo ai piedi della Torre pendente, uno dei primi dieci italiani. La Sat è controllata al 57 per cento da un patto di sindacato tra enti pubblici e, siccome ha i bilanci in attivo ed è considerata ben gestita, nessuno aveva mai finora sollevato il tema della privatizzazione.
EURNEKIAN avanza la sua offerta, a un prezzo che secondo gli analisti finanziari è la metà di quello offerto in parallelo per l'aeroporto di Firenze, già privato. Reagisce alle polemiche con un piccolo rilancio che non cambia la sostanza. Il patto di sindacato che controlla Sat, presieduto dal sindaco di Pisa Marco Filippeschi, all’unanimità decide di respingere l'offerta al mittente. Ma il governatore della Toscana, Enrico Rossi, si sfila e decide per conto suo che la Regione consegnerà le sue azioni a Eurnekian. Nonostante il rischio di dover pagare agli altri enti – per la rottura del patto – una penale nettamente superiore all'incasso atteso, Rossi è determinatissimo a vendere il suo 17 per cento, che, aggiunto al 27 che già Eurnekian ha rastrellato tra i privati, lo porterebbe al 44 per cento garantendogli di fatto il successo. Nel frattempo lo stesso Rossi annuncia che, al contrario, nell'offerta parallela sullo scalo di Peretola si terrà stretto il suo inutile 5 per cento dell’Adf (Aeroporto di Firenze), evitando a Eurnekian una spesa inutile, visto che a Firenze il controllo lo ha già preso. Vendere un pacchetto di controllo e tenersi un pacchettino di minoranza è uno strabismo sospetto. Ma Renzi, intervistato da Rtv38, tv leader in Toscana, ha subito dato il suo entusiastico endorsement a Rossi.
PER CAPIRE l'importanza della posta in gioco bisogna prima diradare la nebbia prodotta da tre argomenti coloriti.
1) Il primo è il timore dei politici pisani che dietro l’operazione si celi la volontà di Matteo Renzi, del suo luogotenente Dario Nardella e della variegata lobby cittadina che li attornia di sviluppare lo scalo di Peretola, presieduto dall’amico del cuore del premier Marco Carrai, a danno di quello di Pisa. L’aeroporto vicino al mare ha un traffico più che doppio, e due piste lunghe anziché una sola corta, anche se per Eurnekian (e per Rossi) le due società hanno lo stesso valore. Ma i timori dei pisani li espongono alle facili accuse di campanilismo degli amici dello scalatore.
2) Il secondo è il curriculum di Eurnekian, già protagonista quindici anni fa di un’operazione disastrosa per gli aeroporti milanesi di Sea, sedotti e abbandonati per assicurarsi il controllo di 14 scali argentini in via di privatizzazione. Oggi è a processo al tribunale di Busto Arsizio, insieme al suo luogotenente fiorentino Roberto Naldi, per la bancarotta della compagnia aerea Volare.
3) Il terzo è il sospetto che il pisano Rossi, avendo combattuto frontalmente, da vecchio dalemiano quale era, l'ascesa dell'ex sindaco di Firenze, voglia conquistare benemerenze renziane e scongiurare il rischio, effettivamente alto, di essere rapidamente asfaltato per dare il suo posto a un governatore più affidabile per il premier e i suoi amici, tra i quali il fiorentino Denis Verdini.
LA VERA RAGIONE per cui toccherebbe proprio a Renzi, incline com'è a invadere competenze altrui quando animato da idee forti, fermare la svendita dell'aeroporto di Pisa è che la vicenda denuncia il vuoto di regole in cui galleggia il vasto sistema delle aziende municipali e regionali. Da una parte si invocano le salvifiche privatizzazioni , e certe volte a sproposito, dall'altra c'è la più ampia libertà per gli enti territoriali di vendere o svendere beni pubblici senza spiegare ai cittadini perché, senza indire una gara, senza porre condizioni all'acquirente.
Soprattutto può capitare che, con la proprietà frazionata tra più enti, come fossero boutique finanziarie e non custodi della proprietà pubblica, uno da solo possa decidere per tutti. La cosa è tanto più grave in casi come l'aeroporto di Pisa: un monopolio naturale, moderatamente esposto alla concorrenza, nel quale (come nel caso delle Poste o delle Ferrovie) la ricerca del profitto dovrebbe essere temperata dalle esigenze di un servizio essenziale al pubblico, e l'esperienza insegna che l'azionista privato fatica a garantire un giusto equilibrio.
NELVUOTO di regole attuale può dunque accadere che arrivi un signore, offra una cifra vile per un'azienda pubblica e un ente territoriale decida di vendere all'impronta, senza istruttoria e senza discussione pubblica . Magari perché, come nel caso di Pisa, una classe politica più attenta agli affari propri che all'interesse generale può decidere di inchinarsi al potente o prepotente di turno per non turbare i sacri equilibri politici. O le campagne elettorali.

il Fatto 24.5.14
La bussola per i renziologi
The Boy
di Carlo Tecce


CI SONO COSE che non vanno fatte, oggi, il rischio è troppo grosso: scrivere o leggere un libro su Matteo Renzi, un fenomeno che ha smesso di essere fenomeno appena ha provato la messa in strada nei circuiti romani. L’interpretazione di un potere che va di moda sfianca l’editoria libraria se non viene inteso e, peggio, capita che sia frainteso. Queste due cose, oggi, non vanno fatte perché ci ha pensato già David Allegranti, che ha scritto un libro su Renzi (il secondo), un volume non lungo e mai noioso che va suggerito come lettura essenziale per comprendere l’evoluzione anche antropologica di un democristiano sfuggito sempre all’inesorabile posarsi della polvere su chi occupa la mediana come strategia politica. Allegranti ricostruisce l’apoteosi di Renzi senza sottovalutare il renzismo e i riflessi blairiani (intervista a Mandelson). Con un linguaggio moderno e accurato, il libro è un resoconto di cronaca, una disamina politica, una condanna per i retroscena perché l’autore possiede la scena. Ha pestato assieme a Renzi, ancora presidente di provincia, quei luoghi marginali eppure determinanti per la consacrazione di un ambizioso politico. Quando Allegranti, che è giovane, ha cominciato a seguire Matteo di Rignano, ancora non s’era formato il gruppo di cantori del renzismo. E Allegranti propone al lettore un prodotto sano. Se volete leggervi un libro su Renzi, ed è cosa buona e giusta di questi tempi, oggi non avete scelte: o The Boy o niente.
(The Boy, David Allegranti, Marsilio, pagg. 128, 14 euro)

il Fatto 24.5.14
Tsipras, dalle cene ai viaggi tutto low cost
di Silvia Truzzi


Se domandi a Curzio Maltese, che la politica l'ha sempre guardata da fuori, com’è stato vederla da dentro (è capolista al Nord Ovest per la lista l’Altra Europa con Tsipras), ti dice: “È tutta malvivenza”. Ha ragione Crozza, perché “in politica ci sono delle regole, ma sono quelle della malavita”. Cioè? “Basta farsi due calcoli: io so cosa ho speso di tasca mia, in una lista che non ti rimborsa nulla, per fare una campagna elettorale senza santini, manifesti, spot. Ma vedo gli altri che spendono 500-600 mila euro e mi dico che c’è qualcosa che non torna. È evidente che la selezione si fa, da un punto di vista economico, sulla base di certe disponibilità e puntando sulla corruzione dopo essere stati eletti: il Parlamento europeo ha sette lobbisti internazionali per ogni parlamentare, lì è evidente girano molti soldi. C’è tanta gente che si fa eleggere contando sui sette lobbisti che incontrerà dopo. Dicono che il Parlamento europeo non conta nulla, ma chissà perché le grandi multinazionali, i produttori di armi hanno uffici a Bruxelles”. Al di là delle battute sulla malvivenza (ma poi: battute fino a un certo punto) l’Altra Europa ha fatto una campagna elettorale completamente autofinanziata e autorganizzata, con i candidati che arrivano ai dibattiti in metropolitana, le collette per pagare i biglietti del treno da un posto all’altro e le cene di finanziamento low cost: 20 euro a testa. “Al Nord ci hanno aiutato molto i delegati Fiom, come privati cittadini”, dice ancora l’editorialista di Repubblica. “Io ne ho incontrati moltissimi”.
COME FUNZIONAVA lo racconta bene Argyrios Panagopouls, giornalista, corrispondente del manifesto da Atene, candidato nella circoscrizione Italia Nord-Ovest: “Io ho fatto trentamila chilometri in queste settimane, sono stato in 80 città, in alcune più volte. Quando i compagni non potevano ospitarmi, sono andato a dormire negli alberghi più economici. Gli spostamenti sono stati pagati con le collette: gli attivisti del luogo dove bisognava arrivare raccoglievano i soldi per pagare il biglietto del treno. Però è stato entusiasmante. In tutti posti dove sono andato, mi dicevano ‘Saremo in venti’, poi eravamo sempre di più. A Brindisi, per esempio, gli organizzatori dell’incontro erano molto scettici, poi c’erano più di cento persone. A Tarcento, un paesino in provincia di Udine, siamo rimasti a parlare fino alle quattro del mattino: c’è molta voglia di partecipare e di fare cose concrete per aiutare le persone”. Come è accaduto in Grecia, dove moltissimi militanti di Syriza si sono impegnati – non come partito ma insieme ad altri cittadini – nei mercati senza intermediari, nell’organizzazione di ambulatori che tamponassero le carenze di un servizio sanitario nazionale quasi completamente senza risorse e nella distribuzione di pasti gratuiti ai poveri. “Nel mio quartiere ad Atene”, spiega Panagopoulos, “se c’è bel tempo, al mercato di generi alimentari primari, vendiamo 100 tonnellate di cibo. Se piove, 25. E il mio quartiere non è certo povero, anzi”.
Tornando in Italia, Moni Ovadia risponde al telefono da una stazione: “Non mi fermo da settimane. Sono stato ovunque la lista mi ha chiesto di andare: Cagliari, Catania, Aosta, Varese, Lecco. Ma che bel giro d’Italia! A Firenze è venuto un ragazzo a stringermi la mano. Mi ha detto: ‘Grazie per quello fate’. Allora io gli ho chiesto cosa facesse lui. E mi ha risposto: ‘Tutto quello che posso, tranne votarvi perché ho 15 anni e mezzo’. Ho incontrato tanti ragazzi, giovani e giovanissimi”.
ANCHE PER L’ATTORE è la prima esperienza. “Mi ero candidato a Milano, anni fa, con l’Ulivo. Ma allora non avevo fatto campagna elettorale. È stata un’esperienza fantastica, con qualche inconveniente: mi hanno tagliato tre spettacoli per via della par condicio... Però sono andato in tv: i talk show non mi avevano mai invitato, c’è una specie di messa al bando nei miei confronti. Una cosa successa anche alla lista: nelle prime settimane siamo stati completamente silenziati. Solo nelle ultime battute della campagna elettorale abbiamo avuto un po’ di visibilità: sono stato invitato da Mentana, a Mattino 5, a una tribuna elettorale della Rai e a Rainews24, all’inizio erano andato dalla Gruber. Mi hanno fatto, lo voglio dire, immensamente piacere gli endorsement di Carlin Petrini, Nicola Piovani, Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà. Ho avuto l’impressione di aver a che fare, oltre che con persone perbene, anche con cervelli funzionanti e pensanti. L’ultima cosa che voglio dire? Lo slogan di Ivano Marescotti, attore e candidato della lista: ‘Elettore, attento: nel segreto dell’urna Renzi non ti vede, Berlinguer sì”.

Repubblica 24.5.14
Quanto conta il voto last minute
di Ilvo Diamanti



PER chi e per che si vota domani? Non è una domanda retorica. Certo, si vota per eleggere il nuovo Parlamento europeo, ma è chiaro che la campagna elettorale è concentrata su un’arena politica diversa. Racchiusa dentro il perimetro nazionale. Eppure, va detto e ribadito, senza equivoci, che si tratta di elezioni europee. Percepite come tali da un’ampia parte degli elettori. Che, per questo motivo, da sempre le affrontano con minore attenzione rispetto alle altre consultazioni. Gli studiosi le considerano, non a caso, elezioni di “second’ordine” (definizione formulata da
Reif e Schmitt, 1980).
NELLE quali la mobilitazione degli elettori è più limitata e il voto viene, spesso, utilizzato come sanzione oppure ammonimento, più che come una scelta che li riguarda direttamente. Di conseguenza, l’astensione, normalmente, risulta più elevata. In Italia, è sempre avvenuto così. Per limitarci al periodo più recente: alle elezioni europee del 2004 votò il 73% degli aventi diritto. Due anni dopo, alle elezioni politiche del 2006, la partecipazione elettorale salì all’84%. Lo stesso è avvenuto negli anni seguenti. Alle elezioni politiche anticipate del 2008, infatti, votò l’81% degli aventi diritto. Ma l’anno successivo l’affluenza scese al 66%. È così dovunque, in Europa. Anzi, in Italia la partecipazione elettorale è significativamente più elevata. Nell’insieme dei 27 Paesi della Ue, infatti, nel 2009 l’affluenza si fermò al 43%. Il fatto è che i cittadini hanno, nei confronti delle istituzioni europee, un atteggiamento distaccato. Le percepiscono lontane dalla loro condizione e dalla loro vita. Il che non significa che il voto di domenica non conti. Al contrario. Perché le ricadute delle politiche della Ue sulla condizione sociale ed economica dei Paesi, ma anche delle persone, sono sempre più evidenti. E ciò ha reso la campagna elettorale particolarmente accesa. In senso anti-europeo e anti-euro. Il che sottolinea come e quanto l’Europa abbia assunto rilevanza politica. Tuttavia, il voto di domenica non
riguarda solo l’Europa. Visto che la campagna elettorale si è tradotta, sempre più, in una resa dei conti politica. Nazionale. In Italia molto più che altrove. È, infatti, possibile che il FN guidato da Marine Le Pen, in Francia, e l’Ukip, guidato da Nigel Farage, in Gran Bretagna, risultino i partiti più votati, alle Europee. Ma a nessuno - per primi, ai due leader - verrebbe in mente di immaginare e chiedere le dimissioni di Hollande e Cameron. In Italia, però, è diverso. Perché la politica in Italia è diversa. E, per i partiti e la classe politica, contano soprattutto le faccende interne. Tanto più in questa occasione. Per questo conviene fare i conti con le ricadute del voto europeo sul piano politico nazionale. E, al tempo stesso, sul “non voto”. Sull’astensione. E sul voto last minute . Maturato negli ultimi giorni. Alle elezioni politiche del febbraio 2013, oltre il 13% dei votanti affermò di aver scelto solo nei giorni in cui si votava. Più o meno: nel tratto di strada fra casa e seggio. Un altro 10% sosteneva di aver deciso nella settimana precedente. Nel complesso, quasi un elettore su quattro ha risolto i propri dubbi negli ultimi 7 giorni. E si trattava, si badi bene, di elezioni (veramente) politiche. Non di elezioni europee tradotte in senso politico nazionale. È, dunque, molto probabile che la quota sia destinata ad aumentare, in questa occasione. Che, dunque, a un giorno dal voto circa due elettori su dieci siano ancora incerti se e per chi votare. Un anno fa, d’altronde, il 41% degli elettori last-minute pensava di astenersi. Ha deciso, appunto, all’ultimo minuto. Il maggiore beneficiario di quel voto, allora, fu il M5S. Che “strappò” una quota consistente di elettori alla tentazione del non-voto.
La composizione degli astensionisti, d’altronde, è mutata, negli ultimi anni. Fino a dieci anni fa coincideva largamente con l’area del disinteresse, dell’indifferenza, della perifericità sociale ed economica. Coinvolgeva, soprattutto, i più anziani, i ceti medio-bassi, il Mezzogiorno. Poi il quadro è cambiato. Per la crescente insofferenza verso la politica e le istituzioni, che ha investito settori sociali dell’impiego privato e pubblico, del Centro e del Nord. L’astensione è divenuta, cioè, una conseguenza della delusione. Un voto. Il voto-dichi- non-vota (come recita il titolo di uno studio curato da Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino, Ed. Comunità, 1983). E ha colpito anche e soprattutto i partiti di Centrosinistra e di Sinistra. L’anno scorso, ad esempio, il Pd pagò un prezzo elevato alle divisioni interne, acuite dalle Primarie (un effetto non previsto di questa pratica di partecipazione). Ma anche a una campagna elettorale timida e defilata. Come se tutto fosse già risolto. E le elezioni fossero già state vinte. Ne beneficiò Grillo. Che alimentò e inseguì la rabbia degli elettori fino all’ultimo minuto. Fino all’ultimo voto. Come quest’anno. Non a caso ha girato dovunque, fino in fondo. Fino a ieri sera, a Piazza San Giovanni. E non a caso è andato in TV. Di persona, stavolta. Da Bruno Vespa. Per intercettare il “pubblico” anziano e moderato, tradizionalmente più distaccato dalla politica. Quindi, «astensionista potenziale». Ma anche per rassicurare. Per «normalizzare» la propria immagine. Per contrastare l’idea di rappresentare un voto in-utile. Solo di protesta. Con il rischio, però, di neutralizzare il proprio appeal presso gli insoddisfatti. Di contraddire il proprio ruolo, di pifferaio di Hamelin, alla testa degli elettori più «incazzati».
L’altro possibile beneficiario del voto “last minute” è il suo principale nemico. Pardon: avversario. Matteo Renzi. Che ha “personalizzato” la campagna elettorale, il Pd e il governo. E il bacino dell’astensione - soprattutto quello moderato - è, infatti, attratto dalla figura del Capo. Soprattutto oggi che l’archetipo, Silvio Berlusconi, appare stanco e invecchiato. Non a caso il voto di molti elettori di Centro e di Centrodestra sembra orientarsi verso il Pd. O meglio: verso Renzi.
La misura dell’astensione, dunque, dipende molto, dall’orientamento di questa campagna elettorale. Che, in una certa misura, si è tradotta in una sfida “personale”: fra Renzi e Grillo. Tra un voto di fiducia (personale) e di sfiducia (nel sistema). Anche il risultato finale, per questo, appare ancora aperto.
Quanto all’Europa: può attendere. Almeno, per gli italiani.

Corriere 24.5.14
Le ragioni dimenticate dell’Europa
Smemorati e distratti
di Michele Ainis

qui

Repubblica 24.5.14
Le incognite europee
di Andrea Bonanni


BRUXELLES. OGNI elezione ha le sue incognite. Quella di domani ne ha addirittura trenta: ventotto incognite nazionali, e due grandi incognite europee. In ogni Paese il responso degli elettori sarà letto alla luce degli equilibri locali. In Italia ci si chiede se Grillo diventerà il primo partito superando il Pd.
IN FRANCIA si guarda con timore all’annunciato trionfo dell’ultra destra di Marine Le Pen. In Olanda i primi exit poll sembrano smentire la vittoria annunciata del populista Geert Wilders. In Gran Bretagna si aspetta di capire se lo Ukip, il partito che vuole l’uscita dall’Ue, diventerà la seconda o la terza forza politica. In ciascuno dei ventotto Paesi dell’Unione il voto delle europee potrebbe avere serie ripercussioni di politica interna pur non esercitando effetti diretti sui parlamenti nazionali.
Alla fine però tutti questi interrogativi rischiano di mettere in secondo piano la vera posta in gioco alle elezioni di domani, che è il colore politico dell’Europa e delle sue istituzioni. E qui le incognite sono due: quanto spazio prenderanno in Parlamento i movimenti anti-europei, ma, soprattutto, chi vincerà la corsa testa a testa tra progressisti e conservatori.
Ipnotizzati dal mantra euro-scettico sull’«Europa dei burocrati», siamo spesso indotti a sottovalutare quanto in questi anni di crisi economica la natura profondamente politica dell’Europa abbia condizionato e diretto la gestione dell’emergenza. Gli Stati Uniti sono stati guidati fuori dalla crisi dall’amministrazione democratica di Barack Obama, e nessuno si sogna di ipotizzare che, se ci fosse stato ancora il repubblicano Bush alla Casa Bianca, le cose sarebbero andate allo stesso modo. La gestione della crisi europea è stata invece appannaggio quasi esclusivo dei conservatori. Ma questo dato di fatto profondamente politico viene in genere sottovalutato.
L’Europa ha tre istituzioni di carattere politico: il Consiglio, composto dai rappresentanti dei governi nazionali; la Commissione, composta da politici nominati dai governi nazionali e a cui il Parlamento vota la fiducia; il Parlamento, composto dai rappresentanti eletti dal popolo. Negli ultimi anni, tutte e tre le istituzioni sono state egemonizzate dai conservatori. Nel Parlamento uscente i democristiani del Ppe erano di gran lunga il partito di maggioranza relativa, con 274 deputati contro i 196 dei socialisti e democratici. Nella Commissione 21 commissari su 28 sono esponenti di partiti del centro-destra: popolari o liberali.
Conservatore è il presidente Barroso, come lo è il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, come lo è l’importantissimo commissario agli affari economici, Olli Rehn (liberale).
Tra i governi nazionali, fino a poco fa, i conservatori la facevano da padroni con una preponderanza simile a quella esistente tra i commissari.
Dalla Merkel a Sarkozy, da Berlusconi a Cameron al polacco Tusk, praticamente tutti i grandi tenori del Consiglio europeo (anche quelli stonati, come Berlusconi) erano espressione del Ppe. Gli unici socialisti presenti nel 2008, lo spagnolo Zapatero, il greco Papandreou e il britannico Gordon Brown sono stati subito spazzati via dalla crisi. L’egemonia che Angela Merkel ha saputo dimostrare sull’Europa in questi anni è certo dovuta al peso economico della Germania, ma non sarebbe stata così totale e incondizionata se si fosse trovata a fare i conti con una maggioranza di primi ministri socialisti, o una Commissione progressista, o un Parlamento europeo prevalentemente di sinistra.
Dopodomani questi equilibri potrebbero cambiare. Se l’annunciata onda di piena dei populisti e degli euroscettici potrà essere interessante da un punto di vista socio-politico per illustrare il malessere europeo, essa avrà comunque scarso impatto sulla governance dell’Unione perché gli anti-euro saranno comunque minoranza, e per di più una minoranza divisa in tre o quattro gruppi politici. A contare veramente sarà invece l’esito del testa a testa tra i conservatori del Ppe, guidati da Jean-Claude Juncker, e i socialisti e democratici (S&D) guidati da Martin Schulz.
Oggi i sondaggi danno un leggerissimo vantaggio al Ppe che perderebbe una sessantina di seggi arrivando a quota 217, mentre S&D dovrebbe guadagnare fino ad arrivare a 201 deputati. Ma tutti gli esperti concordano sul fatto che il testa a testa è talmente serrato da non consentire di prevedere con certezza chi sarà il vincitore. È vero che, con ogni probabilità, dopo il voto socialisti e popolari daranno vita ad una grande coalizione per formare una maggioranza che possa imporre ai governi il presidente della Commissione. Ma nelle grandi coalizioni il peso relativo dei partiti è ancora più importante.
Se i conservatori dovessero prevalere in modo netto, si può star certi che non cambierà nulla, nonostante le sparate di Grillo e Berlusconi. Una vittoria socialista riaprirebbe i giochi, a cominciare dalla nomina del presidente della Commissione. E questa è la vera posta in palio nel voto di domani.

Corriere 24.5.14
Verso un bipolarismo destinato a riproporre l’anomalia italiana
di Massimo Franco


Al di là di chi arriverà primo, l’Italia si prepara a consegnare di sé all’Europa l’ennesima immagine anomala. Il bipolarismo che si sta delineando tra Pd e Movimento 5 Stelle spiazza le divisioni tradizionali tra destra e sinistra. E offre un Paese nel quale la protesta non solo promette di assumere dimensioni di massa ma trasversali e non catalogabili in modo tradizionale. Il solo fatto che non si sappia dove gli eletti che saranno portati a Strasburgo da Beppe Grillo siederanno, certifica la diversità italiana. Le parole preoccupate di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi per l’ascesa del movimento dell’ex comico sono il segno di una sorpresa e di un affanno che aumentano di ora in ora.
Può darsi che si rivelino esagerate, e che gli elettori rispondano ai loro appelli. Ma il solo fatto che il leader di FI inviti a disertare le urne pur di non votare Grillo, tradisce un’inquietudine profonda. Segnala un atteggiamento psicologico che ha introiettato il dubbio della sconfitta: politica, se non numerica. Conferma quanto la virulenza verbale e la strategia dello sfascio del M5S siano i sintomi di una crisi profonda del sistema, terrorizzato di non avere anticorpi sufficienti per fermare questa ondata nichilista. Anticipa soprattutto il ridimensionamento del centrodestra dopo anni di predominio. E dilata il vuoto lasciato dal berlusconismo al centro del sistema politico.
Il punto interrogativo è se il governo di Renzi e il suo partito, in apparenza orfani del principale avversario e quindi potenzialmente trionfanti, saranno in grado di riempirlo almeno in parte; fino a qualche settimana fa, sembrava così. In fondo, il cambio in corsa doloroso a Palazzo Chigi con Enrico Letta ha avuto come ragione forte quella di arginare un populismo galoppante. Se questo obiettivo viene mancato, rischia di aprirsi un problema politico non da poco per l’esecutivo: sebbene si tenda ad esorcizzare questo scenario. Dipenderà dal livello di astensionismo e dalla distanza che il Pd riuscirà a mettere tra i propri consensi e quelli del M5S, se, come pare, ci riuscirà.
Renzi invita ad «andare a prendere uno a uno i voti del centrodestra». E chiede di non astenersi, convinto che percentuali di partecipazione basse favoriscano Grillo. «Noi partiamo al secondo posto» rispetto alle politiche del 2013, mette le mani avanti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. «Il Pd sarebbe felice di sorpassare Grillo. Ma effettuare il sorpasso governando è molto complicato». È una cautela in parte scaramantica, in parte dovuta all’imprevedibilità del voto europeo. Tra l’altro, non tutto l’elettorato sarebbe informato che si può andare alle urne solo domani, e non anche lunedì come succede per le Politiche. Il premier si dice sicuro che Berlusconi manterrà i patti sulle riforme istituzionali «nonostante le Europee»: dando per scontato un insuccesso che potrebbe compromettere il percorso seguito finora.
La sensazione è che ci si avvii ad una situazione postelettorale tale da aumentare le tensioni e la precarietà della legislatura. Ma proprio per questo obbligherà la maggioranza a fare le riforme promesse, per non aumentare l’ipoteca di un populismo che predica il «tutti a casa» dei partiti, avanzando proposte suicide per l’Italia; e per non alimentare la percezione negativa che l’Europa ha ricominciato a nutrire nei confronti del nostro Paese. Un governo nato per dimostrare una capacità decisionale inusuale, si ritrova di colpo sulla difensiva: costretto a rivendicare il poco o il tanto che ha fatto, e a garantire che farà di più: anche se la «leggerezza» di alcuni ministeri imporrà cambiamenti immediati.

il Fatto 24.5.14
Torino
Scontro ai Mercati generali


Circa 250 tra lavoratori e esponenti di movimenti antagonisti hanno bloccato per dodici ore, tra giovedì notte e ieri mattina, i Mercati generali di Grugliasco (Torino), per protestare contro le condizioni di lavoro e lo sfruttamento di lavoro nero. Tutto è iniziato alle 22 di giovedì sera, quando i Sì Cobas hanno annunciato lo sciopero per manifestare solidarietà a cinque lavoratori di una cooperativa operante ai Mercati generali, che erano stati licenziati. Qualche ora dopo duecento lavoratori e qualche decina di autonomi hanno cercato di bloccare il Caat. La polizia, che ha presidiato la zona tutta la notte, è intervenuta e ha risposto con lacrimogeni e cariche a lanci di sampietrini e bottiglie di vetro da parte dei manifestanti. Alla fine degli scontri sono rimasti contusi 8 agenti delle forze dell’ordine e tre manifestanti. Negativo anche il bilancio per i grossisti e le aziende operanti che, per diverse ore, non sono potuti entrare ai Mercati. “Sono soprattutto migranti, assoldati tramite cooperative con metodi da caporalato, sottopagati e sottoposti a ricatti continui, hanno perfettamente ragione a protestare contro condizioni lavorative semplicemente indecenti”, ha spiegato Ezio Locatelli di Rifondazione Comunista. Previsto per lunedì un vertice con le cooperative. Se non si raggiungerà un accordo i lavoratori proclameranno uno sciopero a oltranza.

il Fatto 24.5.14
Amianto, 27 condanne per l’acciaio dell’Ilva
Dura sentenza del tribunale di Taranto
I signori della siderurgia in soccorso dei Riva stringono d’assedio Bondi
di Salvatore Cannavò


A rischiarare i giorni bui dell’Ilva di Taranto sembrano esserci solo le sentenze. In grado di chiarire cosa è stata la fabbrica e di fare giustizia. Ieri è giunta quella, in primo grado, relativa alle morti causate dall’amianto sia durante il periodo gestito dall’Italsider che quello dell’Ilva. Il giudice monocratico ha effettuato 27 condanne comminando il massimo della pena, 9 anni e mezzo, all’ex direttore dell’Italsider Sergio Noce. Ha invece avuto 8 anni di reclusione Giorgio Zappa, ex direttore generale di Finmeccanica, mentre è stato dichiarato il non doversi procedere per l’ex patron, Emilio Riva. Suo figlio Fabio, e l’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso sono stati condannati a 6 anni. L’unico politico a salutare la sentenza positivamente è stato il portavoce dei Verdi, Angelo Bonelli, che ieri sera ha chiuso, non casualmente, la campagna elettorale al quartiere Tamburi di Taranto. Tra i condannati, a otto anni, c’è però anche Piero Nardi, all’epoca dirigente Italsider e oggi commissario straordinario della Lucchini di Piombino, dove qualche giorno fa è stato chiuso l’altoforno. Ed è Nardi che funge da trait d’union tra le sentenze e i rapporti burrascosi ormai esistenti tra la famiglia Riva e il commissario governativo Enrico Bondi. Ieri mattina, infatti, si è svolto un incontro in cui il Commissario dell’Ilva ha illustrato agli attuali proprietari il nuovo piano industriale. Incontro che sembra essere finito male: “Daremo le nostre risposte lunedì” ha detto Claudio Riva. La tensione riguarda il futuro dello stabilimento che perde circa 70 milioni al mese e in cui si va avanti con i contratti di solidarietà. Secondo fonti sindacali, sembra anche che l’azienda non sia in grado di effettuare i dovuti versamenti Inps e di pagare i fornitori.
ENRICO BONDI era stato chiamato all’Ilva per i suoi legami con il mondo bancario, ma si è via via distanziato dalla famiglia Riva fino a quando il piano di risanamento ambientale approvato dal governo lo scorso mese gli ha imposto un nuovo piano industriale nel quale è previsto un aumento di capitale di 1,8 miliardi.
La ricapitalizzazione dell’azienda significherebbe o un maggior impegno o la diluizione della proprietà dei Riva che, però, non hanno alcuna intenzione di abbandonare quella che per anni è stata una gallina dalle uova d’oro. Il problema è esploso soprattutto quando Bondi ha ipotizzato l’idea che per sostenere l’aumento di capitale si potessero utilizzare i fondi sequestrati alla famiglia dalla procura di Milano, circa 1,9 miliardi, ipotesi che è stata vista quasi come un “esproprio”.
Il vero fatto nuovo è la poderosa discesa in campo di tutta l’acciaieria italiana a difesa dei Riva contro Bondi. È avvenuto a inizio di settimana in occasione dell’assemblea annuale di Federacciai dove il presidente, Antonio Gozzi, si è scagliato duramente contro Bondi accusato di “proporre improbabili piani industriali” e di portare l’Ilva “al collasso” e chiedendo al governo di “voltare pagina”. Gli industriali dell’acciaio, quindi, hanno fatto quadrato attorno a uno di loro, difendendone i “legittimi interessi proprietari”. Si farebbe strada l’ipotesi di una cordata, comprensiva di italiani come Arvedi, Duferco e Marcegaglia ma anche degli indiani della Mittel, che affianchi i Riva. Ma la condizione posta a Renzi è che Bondi sia fatto fuori (il suo mandato scade il 4 giugno). Sembra che nei giorni scorsi ci siano state numerose pressioni sul ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, per fare spazio a un altro commissario.
E QUI ENTRA IN SCENA NARDI. Il suo curriculum nel mondo dell’acciaio è di tutto rispetto e, secondo gli ambienti sindacali, anche i suoi rapporti con i signori dell’acciaio. Piero Nardi vanta anche ottimi rapporti con gli uomini che, al ministero dello Sviluppo economico hanno finora gestito l’acciaio, come il viceministro Claudio De Vincenti. Ma la sua condanna in primo grado dovrebbe costituire un impedimento alla nomina a commissario Ilva anche se in Italia non è mai detto. A esprimere grande preoccupazione per quanto accade a Taranto, e non solo, ieri sono state Fiom, Fim e Uilm che, unitariamente, hanno tenuto un convegno nazionale e licenziato un documento comune. La richiesta a Renzi e al governo è di dotarsi di una strategia istituendo un Tavolo per la siderurgia. Maurizio Landini (Fiom) chiede un “intervento transitorio” dello Stato per sostenere, di fatto, un’Ilva senza più i Riva.

l’Unità 24.5.14
Senza legge 40, bentornata Costituzione
di Maurizio Mori


DA QUANDO LA CORTE COSTITUZIONALE HA DATO UN SECONDO COLPO MORTALE ALLA LEGGE 40 ACCERTANDO LA INCOSTITUZIONALITÀ DEL DIVIETO DELLA COSIDDETTA «FECONDAZIONE ETEROLOGA» (CHE SAREBBE MEGLIO CHIAMARE «ESOGAMICA»: AGGETTIVO PIÙ ELEGANTE E PRECISO), sembra che alcuni cattolici si sentano la terra mancare sotto i piedi e che abbiano reazioni scomposte. Dapprima hanno attaccato duramente la Suprema corte accusandola di non rispettare «i criteri etici» (D’Agostino) o di essere «l’ultima follia italiana» (Famiglia cristiana). Così hanno ripreso l’idea che i giudici si lancerebbero in sentenze «creative» che deragliano dal «vero diritto » di cui sarebbero detentori, invece di prendere atto che è stata la politica berlusconiana ispirata dal cardinal Ruini che ha deragliato.
Sin da subito, da quando la Legge 40 era in gestazione, era chiaro chiarissimo che il divieto di fecondazione esogamica era illegittimo: la Suprema corte non ha fatto altro che riportarci alle norme costituzionali, quelle di sempre. Ha solo messo a nudo i limiti di una politica che ha sviato, ponendo un divieto oppressivo per coprire quel malaffare che pian piano sta sempre più emergendo. Da questo punto di vista queste persone hanno ben poco da farsi paladini dell’etica: dovrebbero anzi fare un serio esame di coscienza per aver collaborato con un potere politico corrotto che non ha esitato a usare la pelle delle persone come merce di scambio per restare in sella! Dobbiamo essere molto grati alla Corte costituzionale per avere ristabilito quella tutela della persona e delle sue libertà fondamentali da sempre presente nella Costituzione repubblicana.
L’altra linea di attacco contro la sentenza della Corte Costituzionale sottolinea che senza il divieto della fecondazione esogamica si aprirebbe al mercato selvaggio: «Quasi quasi mi compro un figlio», dice un titolo di Avvenire (22maggio). Non si capisce se esso tenda più a suscitare terrore e panico nei lettori o a esprimere l’angoscioso vissuto dei giornalisti. Sicuramente rivela l’assenza di argomenti razionali, come dimostrano i richiami all’idea che il divieto comporti una «questione di civiltà»: come se fosse civile costringere migliaia di cittadini italiani a andare all’estero per riuscire a avere un figlio grazie alla fecondazione assistita. Come se il florido «turismo riproduttivo» non comportasse alcun «mercato».
L’operazione culturale di discredito della fecondazione assistita come pratica in mano a centri di riproduzione senza scrupoli e pronti a lucrare grazie alla protezione di fantomatiche potenti lobby, è finalizzata a far sì che la Corte costituzionale preveda l’urgenza di una nuova legge per evitare un presunto «vuoto» normativo. Senza di essa sarebbe a repentaglio la sicurezza dei cittadini. In realtà si vuol far sì che il Parlamento vari in fretta una nuova legge per ripristinare ostacoli alla fecondazione assistita così da evitare che in Italia si riprenda a pensare alla possibilità di avvalersi della tecnica per garantire il diritto alla salute riproduttiva di chi intende avere figli. Perché di questo si tratta: di consentire a persone generose di avere figli a prescindere dalle opportunità dispensate da una natura spesso matrigna. A questo ha pensato saggiamente la suprema Corte.
È sorprendente vedere l’insistenza con cui molti cattolici premono per avere subito una legge, quasi che senza di essa si aprirebbe il baratro della barbarie... Ieri, 22 maggio, Avvenire ha dedicato ben tre articoli per contrastare la tesi sostenuta da Carlo Flamigni, senza addurre un solo argomento, anzi a volte distorcendo la realtà. Non ci resta che rilevare che è la solita solfa ripetuta stancamente da chi non riesce a scrollarsi di dosso gli antichi pregiudizi che portano a vedere la riproduzione come dono divino e non come responsabilità umana. Per questo si evita di guardare alle tante difficoltà concrete della gente, la quale vuole servizi responsabili nel proprio Paese, visto che quello alla salute è un diritto costituzionalmente garantito.
Dopo aver vietato la fecondazione esogamica e aver mandato allo sbaraglio migliaia di italiane all’estero, i critici della Corte adesso vogliono erigersi a garanti della «sicurezza» dei cittadini e chiedono a gran voce una legge. Ebbene, bisogna dire forte e chiaro che non esiste alcun «vuoto» normativo e che le norme che abbiamo sono sufficienti a garantire la salute riproduttiva delle persone.
Restiamo in attesa della motivazione della sentenza, dalla quale ci attendiamo, se mai, indicazioni che possono portare a far cadere presto anche un’altra grave iniquità, ossia la clausola che riserva l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita alle sole coppie (eterosessuali) infertili, aspetto che è ancora oggi fonte di grave discriminazione.

La Stampa 24.5.14
Fecondazione e legge 40:
il rischio di nuove crociate
di Antonella Rampino

qui

l’Unità 24.5.14
Caso Alpi, il Sisde: «Dietro l’omicidio il traffico d’armi»
Nelle carte desecretate le informative dei servizi a due mesi dalla morte. «Il mandante fu Aidid»


L’ipotesi del traffico di armi quale movente dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin era emersa subito dopo l’omicidio, il20marzo1994, e veniva confermata dal lavoro dei servizi di intelligence italiani in Somalia. Il primo appunto riservato del Sisde (l’allora servizio segreto civile) risale al 7 maggio del 1994. Vi si riferisce la vox populi secondo le quali il duplice omicidio sarebbe stato «conseguenza, fra le altre ipotesi, della missione che i due italiani avrebbero effettuato qualche giorno prima della loro morte a Bosaso, città nella quale avrebbero avuto modo di visitare la motonave “21 ottobre”, sequestrata dai miliziani del Ssdf». «La giornalista - continuava la nota del Sisde - avrebbe inoltre, sul posto, raccolto informazioni riguardanti la vicenda del sequestro della nave e della cattiva gestione dei fondi investiti dal governo italiano ». Secondo il Sisde, a Bosaso, poco prima di morire, Ilaria e Mirovan avrebbero «in particolare documentato una partita d’armi marchiata Cccp». C’è un secondo appunto del Sisde (31 maggio 1994) che segue la stessa pista: «La nave della cooperativa italo-somala “Somalfish” sequestrata, a suo tempo, a Bosaso, avrebbe in precedenza trasportato armi di contrabbando per la fazione Ssdf di quella città». E c’è di nuovo il riferimento all’ultimo servizio andato in onda di Ilaria: «Quanto sopra sarebbe emerso nel corso dell’ultimo servizio effettuato dalla giornalista italiana Ilaria Alpi, in quella zona prima di venire uccisa ».
Da ieri sono consultabili, per via elettronica, i documenti della commissione d’inchiesta istituita nel 2004, a 10 anni dalla morte dei due giornalisti della Rai, per i quali la presidente della Camera Laura Boldrini ha chiesto e ottenuto la desecretazione degli atti. Quello che impressiona è la discrasia, che emerge subito, del legame fra il lavoro di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e la loro morte, rispetto all’andamento dell’inchiesta e, soprattutto, alla trascuratezza con cui furono portati avanti i primi atti d’indagine: non ci fu autopsia, la macchina dove Ilaria e Miran furono trucidati, non fu sequestrata, sparirono block notes e video registrati. In un testo datato 8 giugno 1994, il Sisde torna sulla stessa pista: «Secondo informazioni acquisite in via fiduciaria, nel corso di un servizio giornalistico svolto a Bosaso (Somalia) qualche giorno prima della morte, i due cittadini italiani in oggetto (Ilaria Alpi e Miran Hrovatin,ndr) avrebbero raccolto elementi informativi in merito ad un trasporto di armi di contrabbando effettuato dalla motonave “21 ottobre” della cooperativa italo-somala “Somalfish” per conto della fazione somala Ssdf (Somali salvation democratic front)». Segue l’ipotesi: «L’omicido potrebbe essere stato ordinato dai trafficanti d’armi somali».
Un segno diverso sembrano avere le informative di due anni dopo. In un documento del Sismi della fine del 1996 si riferisce che, secondo ambienti dell’Olp, il mandante dell’omicidio sarebbe stato il generale Aidid, signore della guerra somalo. Il nome del generale torna in un memorandum elaborato dal Sisde nel 2002 per il Copaco: le armi dovevano arrivare a lui e, in seguito, sarebbero state dirottate in Yemen per i reduci afghani. Nel memorandum si parla anche di Giancarlo Marocchino, legato per via della moglie somala al presidente Ali Mahdi. Secondo il Sismi Marocchino sarebbe stato implicato nel traffico d’armi, ma si ipotizza che la «complicità da parte del capo della sicurezza di Marocchino agli esecutori del duplice omicidio» sarebbe avvenuta «all’insaputa dello stesso Marocchino » (29 dicembre del 1994).

La Stampa 24.5.14
Marcelle Padovani
“Falcone non avrebbe mai firmato l’inchiesta sulla trattativa Stato mafia”
di Riccardo Arena


L’antipasto lo aveva servito il presidente del Senato, Piero Grasso, nell’aula bunker dell’Ucciardone: «Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono attaccati e delegittimati. Dopo la morte divennero loro fraterni amici e unici eredi anche coloro che li avevano attaccati in vita». Il piatto forte arriva nell’aula magna del palazzo di giustizia, davanti a una platea di giudici e pm, dalla giornalista francese Marcelle Padovani, autrice, col magistrato ucciso a Capaci 22 anni fa (e ricordato ieri a Palermo) del volume più famoso di Falcone «Cose di cosa nostra»: «Giovanni non avrebbe mai messo la sua firma in un’inchiesta come quella sulla trattativa».
Spiazza tutti, l’inviata del Nouvelle Observateur: dice di non credere a quelle tesi, sostenute dal pool che fu guidato da Antonio Ingroia - e che oggi è coordinato dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi - e lancia la seconda stoccata: «Falcone secondo me sarebbe stato vicino alle tesi del professore Giovanni Fiandaca». Che poi è il giurista che il Pd ha schierato contro Michela Stancheris, la candidata ufficiale di Rosario Crocetta, per dare il benservito a un presidente della Regione sempre più sgradito al partito ufficiale e non ufficiale. Fiandaca, candidato alle Europee, è «portato» dall’area Cuperlo ed è stato bollato proprio da Crocetta come «negazionista» della trattativa Stato-mafia, per via di un suo recente libro, scritto con lo storico Salvatore Lupo («La mafia non ha vinto»), che critica impietosamente l’impostazione della Procura di Palermo.
Con la trattativa che era già tema di scontro politico, in vista del voto di domani, la Padovani cala il carico: l’intesa con i poteri criminali nel periodo delle stragi del ’92-93 non c’è stata, dice la giornalista condividendo le tesi di Fiandaca, ma se c’è stata non è certo un reato. Ad ascoltarla ci sono il capo della Procura, Francesco Messineo, prossimo esodato (lascerà l’incarico fra 70 giorni), che va via di fretta. Vittorio Teresi replica invece con le parole già usate dal pool contro Fiandaca: «La Padovani non ha letto gli atti processuali, non può tranciare questi giudizi. Lei ha letto solo “La mafia ha vinto”, a sua volta basato solo sulla lettura di una memoria esplicativa, presentata dall’ufficio al Gip, lunga una trentina di pagine. È grave che esprima le sue valutazioni mentre c’è un dibattimento in corso». Parole che ribadiscono i concetti espressi dal pm Nino Di Matteo giovedì pomeriggio alla facoltà di Giurisprudenza, mentre a una manifestazione serale al teatro Biondo il magistrato minacciato da Totò Riina non è andato per motivi di sicurezza.
La Padovani ne ha per tutti: parla di «mediatizzazione eccessiva e protagonismo» di magistrati che vanno appresso a «teorie di complotti e trame che esistono solo sulla carta». Mentre sul fronte politico viene letta come significativa la partecipazione del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a una manifestazione elettorale pro-Fiandaca. E Crocetta, fischiato mentre in un altro comizio sosteneva Michela Stancheris, bergamasca, sua ex segretaria, poi trasformata in assessore regionale e candidata alle Europee, sempre nella lista Pd, è avvertito.

Corriere 24.5.14
Falcone ricordato anche dall’Fbi: «Ci insegnò a seguire il denaro»
Il direttore dell’ufficio Fbi di New York: «il giudice siciliano e’ stato anche per noi un maestro»
di Alessandra Arachi

qui

La Stampa 24.5.14
Economia
Nel Pil anche droga e prostituzione
Spunta un tesoretto da un miliardo
Il ricalcolo dell’economia illegale migliorerà il deficit
di Marco Zatterin

qui

il Fatto 24.5.14
Fretta di governo
Cultura, decreto in chiaroscuro

di Tomaso Montanari

Luci e ombre nel decreto legge sulla cultura e il turismo approvato giovedì dal Consiglio dei ministri. Un decreto di cui siamo costretti a parlare in base a schemi e riassunti diramati dallo stesso ministero per i Beni culturali, o su vecchie versioni (come quella inviata il 14 alle Regioni). Già, perché il decreto, di fatto, non esiste: l’ufficio legislativo del ministero per i Beni culturali lo sta ancora scrivendo. E uno si chiede come funzioni la collegialità di questo governo, e come il Quirinale possa accettare una simile prassi. Il perché di questa fretta è fin troppo ovvio: le elezioni. Occorreva scrivere qualcosa sotto la voce “cultura” nel dossier che raccoglie i risultati, veri o presunti, del governo: e i soldi che (giustamente) arrivano al Maggio Musicale Fiorentino servivano a Dario Nardella prima, e non dopo, domenica. Ciò detto, il decreto dimostra la buona volontà di Dario Franceschini: e, dato il governo in cui siede, non è una notizia da poco.
IL COSIDDETTO Art Bonus
(propagandato da un pacchianissimo logo composto dalle firme di grandi artisti) è la vera novità. Esso prevede un credito d’imposta del 65% in tre anni per chi fa donazioni per “interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici, musei, siti archeologici, archivi e biblioteche pubblici, teatri pubblici e fondazioni lirico sinfoniche”. Se funzionerà, aumenteranno finalmente i fondi per la cultura.
Si può notare che alla fine ci sarà ovviamente un minor gettito per il fisco, e dunque tanto valeva stanziare direttamente i denari che servivano per la manutenzione del patrimonio, senza dover dipendere dalla generosità dei singoli: ma è importante è aver affermato il principio. I 50 milioni in più concessi al fondo per le Fondazioni liriche che risanano i loro bilanci è un’altra buona notizia. Sono spiccioli, ma sono particolarmente di sinistra i 3 milioni annui che andranno “a finanziare progetti di attività culturali, elaborati da enti locali nelle periferie urbane”. Ed era ora che si permettesse di fare nei musei tutte le foto che uno vuole, purché “con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose”.
Quelle che lasciano, invece, molto perplessi sono le misure sulla struttura del ministero. Confermando tutti coloro che avrebbe invece potuto rimuovere, Franceschini ha perso l’occasione di operare un radicale rinnovamento della struttura apicale: ma nel decreto egli imbocca l’infausta strada dei commissariamenti. E non ha senso procedere per misure eccezionali e contemporaneamente mummificare la struttura centrale: c’è bisogno che la macchina funzioni con regole ordinarie, e non violando sistematicamente queste ultime. Al Direttore generale di Pompei vengono attribuiti “poteri commissariali”, e questa è una pessima buona idea. L’ultimo commissariamento di Pompei ha prodotto una serie di disastri (tra i quali la cementificazione del Teatro Grande) e uno strascico di processi. E l’Expo insegna che i poteri eccezionali in fatto di appalto generano corruzione: ora il direttore generale di Pompei è l’integerrimo generale dei carabinieri Giovanni Nistri, nominato da Massimo Bray, ma domani? E il posto di vicedirettore è ora vacante: e a questo punto la scelta sarà pesantissima. Stesso discorso vale per la Reggia di Caserta: quello che nelle prime bozze del decreto era un segretario generale ora è diventato (salvo varianti dell'ultima ora) un commissario senza se e senza ma.
INFINE, l'inevitabile cedimento all’odio di Renzi contro le soprintendenze: il decreto impone la figura del mitico manager nei poli museali presenti e futuri. Per capire bene come funzionerà bisognerà leggere l’articolato: nello schema si dice che il manager avrà “specifiche competenze gestionali e amministrative in materia di valorizzazione del patrimonio culturale”. Il che potrebbe voler dire che deciderà quali mostre fare, con immaginabili disastri culturali. È un pessimo passo, ma non è (ancora) la strage voluta da Renzi: sarà per questo che, in un tweet, il presidente del Consiglio ha definito il decreto solo “molto interessante”, invece che usare uno dei superlativi che di solito riserva alle proprie gesta.

il Fatto 24.5.14
Questione morale
L’eredità di Berlinguer che nessuno sa raccogliere
Contro la corruzione e l'illegalità: Libertà e Giustizia ha organizzato una manifestazione, il 2 giugno in piazza XX Settembre a Modena. Sul palco Gustavo Zagrebelsky, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Marco Travaglio, Elisabetta Rubini, Carlo Smuraglia, Gian Carlo Caselli, Alberto Vannucci, Paul Ginsborg, Gaetano Azzariti e Roberta De Monticelli. Fabrizio Gifuni leggerà e reciterà pagine della storia d’Italia.
di Sandra Bonsanti


Contro la corruzione e l'illegalità: Libertà e Giustizia ha organizzato una manifestazione, il 2 giugno in piazza XX Settembre a Modena. Sul palco Gustavo Zagrebelsky, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Marco Travaglio, Elisabetta Rubini, Carlo Smuraglia, Gian Carlo Caselli, Alberto Vannucci, Paul Ginsborg, Gaetano Azzariti e Roberta De Monticelli. Fabrizio Gifuni leggerà e reciterà pagine della storia d’Italia.
Come si fa oggi a parlare di Europa e di situazione politica italiana senza restare ammutoliti, incantati dalle parole di Enrico Berlinguer, il 6 giugno 1984, ore drammatiche perché precedevano di così poco la sua morte a Padova? Parole semplici, che arrivano dal pensiero di un grande statista e segretario di partito che guardava oltre il suo partito, verso il bene dell’Italia tutta e del suo futuro. Alla domanda: “C’è un rapporto stretto fra il voto europeo e la situazione politica italiana?”, Berlinguer risponde: “Certo. Soprattutto nel senso che dobbiamo portare in Europa l’immagine e la realtà di un Paese che non sia caratterizzato dalla P2, dalle tangenti, dall’evasione fiscale e dalla iniquità sociale qual è quella che si è vista col decreto che taglia i salari, per portare invece nella Comunità europea il volto di un Paese più pulito, più democratico, più giusto”. Un bel programma elettorale, chiaro, trasparente come lo sguardo del politico che lo aveva espresso.
Peccato. Peccato che oggi nessuno lo abbia fatto totalmente suo, quel progetto che il tempo ha soltanto reso più indispensabile, più urgente. Possiamo chiederci il perché questo sia avvenuto, possiamo infierire più o meno sulla classe politica che ha tradito e si è allontanata da quelle parole. È possibile che oggi i giovani al potere rispondano: di cosa parlate? Io non ero nato... Oppure: io facevo le medie. Oppure: io allora mi occupavo d’altro.
In tanti non provano imbarazzo. Amano il potere e a esso sono devoti assai più di coloro che li hanno preceduti. Il verbo è uno soltanto: il potere non si divide con nessun altro. Più andreottiani di Giulio Andreotti, più craxiani di Bettino Craxi, più berlusconiani di Silvio Berlusconi. Dunque, che problema è avere come complice nello smantellamento di tutta la seconda parte della Costituzione e nell’aver imboccato speditamente la via che porta al presidenzialismo l’uomo di Licio Gelli? Che problema è se il governo che dovrebbe combattere la corruzione riceve quasi ogni giorno in Parlamento il soccorso dei grandi maestri in questo campo, di chi non si fermò nemmeno davanti alla tentazione di comprare sentenze della magistratura o il voto di parlamentari? Infine, che problema è se in attesa di varare a giugno una riforma della Giustizia si consentono manovre volte a delegittimare la Procura di Milano?
COSÌ NEL momento in cui oscuri poteri internazionali sollecitano davvero la fine delle costituzioni nate dopo la Liberazione, basta mettersi d’accordo con chi la Costituzione l’ha sempre combattuta e tradita e il gioco è fatto. Il gioco grande del potere che denunciava Giovanni Falcone.
Questa è la posta delle elezioni europee: la possibilità di esportare un altro volto dell’Italia, il volto a cui si riferiva il segretario del Partito comunista nel 1984.
Qualcuno è in grado oggi nel nostro Paese di dirsi erede di quel progetto, di rivendicare in assoluto quelle parole?
A questo dovremmo pensare nel momento del voto: per l’Europa e per le amministrazioni locali. Non sarà facile, non è mai stato facile.

l’Unità 24.5.14
La rivoluzione di Saverio
Quattro anni nell’isola caraibica con vista su Utopia
Un affresco del Paese che ha reso immortale il Che, ma anche delle speranze di un’epoca
di Saverio Tutino


È MORTO GUEVARA. NON C’È DUBBIO CHE È MORTO. PEPE TELEFONA: Hilda è stata avvisata stanotte da Fidel. Grigiore a L’Avana. Una città melanconica, mai vista. Hilda mi riceve come una vedova senza pianto; la casa è piena di visitatori; Hildita, grassottella, saluta senza dire niente. La fotografia mostra un Guevara che va a salutare la figlia per un compleanno. Qualche spietato dice: «È stato Debray».
15 ottobre
Due anni fa, Fidel leggeva la lettera che gli aveva lasciato il Che davanti a un Cc emozionato, ma vibrante nell’orgoglio. Stasera nello studio 18 della tv c’è un’atmosfera gonfia di contenuto dolore. L’attesa è silenziosa. Si parla a voce bassissima, si attende l’arrivo di Fidel con un raccoglimento che a poco a poco si è fatto teso. La tensione cresce mentre i minuti passa-no e diventano mezz’ora, più di mezz’ora. Fidel arriva con Raúl, Dorticós, Llanusa, Wilma, Hart: «Siamo arrivati alla conclusione che la notizia sulla morte del com. Guevara è dolorosamente vera».
Il 9 notizie vere. Il 10 cominciavano le contraddizioni: cicatrice mano sinistra che nessuno ricordava. Non si parlava invece di altri dettagli noti. Poi apparvero altri indizi. Le fotografie. La prima, non si poteva affermare in maniera categorica che non fosse lui. Poche ore dopo, altra foto che somigliava molto di più. Cominciavamo ad avere la certezza che poteva essere vera. Infine la terza foto e poi altre. Quella dove Guevara appare col capo sollevato. Nel contesto era probatoria. Bisognava riunire tutti gli elementi di giudizio, per arrivare ad un parere certo. Tutte le notizie. Non volevamo dare un’opinione senza avere riunito tutti gli elementi di giudizio. Il viaggio dei familiari. Questione delicata. I familiari tendono a credere alla falsità. Noi eravamo arrivati alla completa sicurezza. Ancora adesso il padre considera completamente falsa la notizia. Noi non insisteremmo se fosse solo un problema personale. Ma è un problema di grande importanza per il mondo intero. Se restasse un minimo dubbio lo avremmo detto. Considerando vera la notizia: (1) era doloroso avallare una notizia data da un governo dispotico, oligarchico e nemico della rivoluzione. (2) Mantenere il dubbio poteva essere forse utile. Anche se lo fosse, noi non avremmo esitato a dire la verità. Ora compiamo il nostro dovere verso il popolo. I familiari comprenderanno che non è mancanza di rispetto verso di loro. Fotografie fabbricate? No, prese da nemici, non fabbricate. Figura di cera? Nel contesto, impossibile. La calligrafia era inconfondibilmente del Che, lo stile era del Che. Sue le reazioni di fronte a ogni dettaglio. Il diario fino al 7 ottobre. La foto del Che in Bolivia, con il sacco, su una mula. C’erano tutti i precedenti per credere alla sua presenza in Bolivia, e alla presenza di unità speciali guidate da agenti dell’imperialismo. Impossibile organizzare tutto questo su una base falsa.
Nel seno del regime boliviano, tanti problemi e contraddizioni che è impossibile che si mettano d’accordo per dire una menzogna. E poi che senso avrebbe inventare una notizia che poteva essere smentita?
È indiscutibile che il movimento guerrigliero in Bolivia è in una fase in cui la sopravvivenza dipende dalle loro forze. Non si è a una crisi per cui una settimana basta a distruggerli. Non è così; se si inventa, se ne ridono. Manca il movente. La notizia è amaramente sicura. Era logico che tendessimo a respingerla, a non crederla, per affetto, per l’assenza di prestigio del governo che dava la notizia. È tale il discredito, che molti dei suoi alleati non ci credevano. Noi che conosciamo Guevara (conosciamo, mai di Guevara si può parlare al passato), sappiamo che può essere morto in quelle circostanze. Sempre si è caratterizzato per un assoluto disprezzo del pericolo, per voler fare le cose più pericolose, nella Sierra, a Las Villas. Molte volte abbiamo dovuto prendere misure per proteggerlo, quanto più apprezzavamo le sue capacità di combattente. Nessuno mai poteva star sicuro che si proteggesse da sé.Èpossibile che, cosciente del suo compito, pensasse al valore relativo degli uomini e al valore importante dell’esempio. Era votato a essere più precursore che forgiatore della vittoria dei popoli. I precursori sono forgiatori della storia. Non è possibile, oggi, fare altro che analizzare le notizie.
Da quando Fidel Castro aveva rimesso al suo posto, cioè davanti a tutto, il momento politico? Forse non aveva mai smesso di considerare che il momento politico valeva più di quello militare. E se nelle loro conversazioni di Nancahuazu, in marzo e aprile, Debray e Guevara non hanno fatto menzione di questo («Come Fidel c’è solo lui, come il Che ne esistono molti…») io mi lascio tagliare i baffi. Nella relazione al partito in luglio, non ho trascurato di notarlo. Comunque, ora che Guevara è morto, bisognerà ripercorrere tutti i mesi precedenti e ritrovare in ogni discorso e in ogni gesto di Cuba il segno di quella sorta di scommessa che insieme hanno perduto. Per affermare che c’è stato un mutamento di linea, bisogna studiare molto attentamente i documenti. Fino a marzo, nessuno avrebbe potuto trovare traccia, in Fidel, di un atteggiamento che non puntasse in maniera lineare sull’appoggio all’azione guerrigliera dell’amico. Gli articoli di Menéndez, l’intervista con Fidel sulla linea guerrigliera, il libro di Régis, il discorso del 13 marzo contro la linea di destra del partito venezuelano sono tutti documenti di questa coerenza. Ma non bisogna dimenticare che in ottobre-novembre, una proposta alla Corea e al Vietnam per costituire un fronte unito dei piccoli paesi non è stata raccolta e quindi l’iniziativa del Che rischia di restare isolata. Vi è quindi già nel discorso del 13 marzo una nota di prudenza che io rilevo nel diario e che potrebbe aver avuto appunto questo significato: salvare la ritirata, nel caso che si rendesse necessaria e urgente. Il precipitare degli avvenimenti in Bolivia induce poi Fidel a essere ancora più prudente (o imprudente?). È costretto ad anticipare l’uscita del «messaggio-articolo» di Guevara, per non sciupa-re tutto l’effetto della «sortita» in Bolivia. Ma così va all’aria il piano che consisteva nel pubblicare contemporaneamente l’intervista di Debray e la notizia delle prime azioni della guerriglia, pochi giorni prima dell’apertura della conferenza dell’Olas.

l’Unità 24.5.14
«Quel genio di Twain»
L’elogio di Lansdale al suo autore di culto
di Rock Reynolds


CHISSÀ SE QUELL’ISTRIONE DI MARK TWAIN, AL SECOLO SAMUEL LANGHORNE CLEMENS, è riuscito a gabbarci per l’ennesima volta, con la pubblicazione della sua Autobiografia (Donzelli Editore, traduzione di Salvatore Proietti, pagg 469, euro 35,00), uscita negli Usa a un secolo esatto di distanza dalla sua morte, per sua espressa volontà. È il tassello mancante della sterminata produzione di un autore sempre dimoda e lo testimoniano le 400.000 copie vendute e la scelta di varie case editrici italiane di continuare a tenerlo in catalogo (Mattioli1885, per esempio, intende pubblicarne l’opera omnia). Avrei voluto parlare personalmente di quest’opera di grande importanza storico-letteraria, ma trovandomi insieme al vecchio amico Joe R. Lansdale, un entusiasta epigono di Mark Twain, ho preferito che fosse lui a farlo.
Pensa che l’autobiografia di Mark Twain sia autentica?
«Certamente. È autentica e se ne conosce l’esistenza da molto tempo. Infatti, dalle carte originali sono state tratte almeno due biografie, credo, e pare che lui si raccontasse di fronte a una persona che metteva le sue parole sulla carta. Ogni giorno, quando gli andava di raccontare qualcosa, lo faceva. In altre parole, l’approccio non è stato lineare e lui descriveva quello che gli veniva in mente. Pertanto, ci sono parti splendide, davvero meravigliose, e poi ci sono parti noiose, però se sei un fan di Mark Twain o uno studioso di Mark Twain, oppure se hai soltanto un interesse superficiale per Mark Twain, devi leggerla. Io l’ho fatto e mi è piaciuta un sacco, anche se alcune parti sono tediose».
Lei è uno degli autori americani contemporanei che si sono maggiormente ispirati a Mark Twain, al punto che uno dei suoi romanzi più recenti, «Acqua buia», è una sorta di omaggio a Twain.
«È verissimo. Quel romanzo è una miscela di Twain e della storia di Giasone e degli Argonauti contenuta nell’Odissea. Ma lo stile e la presenza del fiume vengono certamente da Mark Twain, anche se il Sabine, il fiume che scorre accanto alla mia città del Texas, non ha certo le dimensioni del grande Mississippi ed è molto più tortuoso. Però, è impossibile scrivere di un fiume e di bambini lungo un fiume senza in qualche modo attingere al modello Twain. Mark Twain è uno scrittore talmente magico da trasmetterti un entusiasmo giovanile, anche se hai cent’anni. Ha questa capacità di toccare gli elementi della giovinezza che abbiamo dentro, perché si mantenne sempre giovane, nonostante la sua opera fosse matura. Ad alcuni questo sfugge. Alcuni pensano che Huckleberry Finn sia un libro per ragazzi. In un certo senso è così, ma c’è molto altro. Io l’ho letto da giovane e questo libro mi ha consentito di vedere il razzismo da un punto di vista completamente diverso da quello che avevo, dato che io l’avevo davanti agli occhi quotidianamente. Quel libro ha esercitato un’influenza fondamentale su di me e, insieme ad altri episodi e situazioni della mia vita mi ha fatto capire certe cose, facendomele analizzare in modo diverso rispetto a come mi venivano presentate».
A proposito di razzismo. Lei pensa che Mark Twain fosse razzista?
«Assolutamente no. Era un genio. C’è gente che, non appena vede una parola negativa applicata a una persona di colore, pensa immediatamente che chi l’ha pronunciata sia razzista. E a volte è proprio così, ma non nel caso di Twain, nel mio caso o nel caso di altri autori ancora. Lui ha insegnato a tutti noi che in qualche modo ne abbiamo seguito le orme a descrivere la realtà esattamente com’è. In quel modo, riesci a cogliere il negativo. Altrimenti, finirebbe per essere una mera predica a beneficio di chi ha già le tue stesse idee e, quando ho letto quel libro, l’impatto che ha avuto su di me è stato enorme, perché io pensavo che si trattasse semplicemente di un libro di avventura e ci ho messo un po’ a capire tutte quelle cosucce che conteneva, ma quando l’ho fatto, mi si è aperto un mondo davanti. Mi è capitato spesso di riflettere in questo modo: Twain mi sta dicendo qualcosa di diverso da ciò che penso di vedere. È il modo migliore di farlo perché altrimenti se approcci la scrittura in maniera apertamente accettabile la gente sa cosa stai facendo e chi magari non è particolarmente intrigato dai personaggi e dalla storia non la leggerebbe. Scrivere solo per chi la pensa come te non è una gran sfida».
Si ricorda il primo libro di Mark Twain che lei abbia mai letto?
«Sì, è stato Tom Sawyer. Avevo undici anni, penso. Ho iniziato dal capitolo in cui Tom Sawyer dipinge la staccionata. Davvero divertente. Mi incuriosì tanto che decisi di leggere l’intero romanzo. Tom Sawyer è un romanzo d’avventura molto più diretto di molti altri suoi libri, ma anche in quel libro ci sono altre cose. Comunque, quando poi scrisse Huckleberry Finn, era maturato come scrittore ed era decisamente più interessato a scrivere cose che avessero un impatto. Non fu un parto facile. In alcune occasioni, se ricordo bene, fu sul punto di gettarlo perché non gli sembrava che stesse riuscendo bene. Lo mise spesso da parte e ci tornò sopra. Ernest Hemingway disse che c’è un punto in quel romanzo, sostanzialmente quando appare Tom, nel finale, in cui quel libro cessa di essere il romanzo fantastico che era stato e si trasforma in un libro per ragazzi. Probabilmente, Twain si rese conto che quello non era il romanzo per ragazzi che si era accinto a scrivere e, dunque, inserì uno dei suoi personaggi più riusciti. Capisco questa riflessione, ma a me quel romanzo piace tutto. Nella mia personale classifica, è al secondo posto dei miei romanzi preferiti di tutti i tempi e più passa il tempo e più insidia il primo posto, occupato da Il buio oltre la siepe di Harper Lee».
Quant’è stato importante Mark Twain per la letteratura americana?
«Hemingway disse che la letteratura americana non esisteva neppure prima di Mark Twain e aveva ragione. C’era stato qualche autore che aveva mostrato qualcosa di diverso, per esempio James Fenimore Cooper, che peraltro secondo me era un pessimo scrittore. E pure secondo Twain, che scrisse I crimini letterari di Fenimore Cooper, un libro buffissimo. Twain detestava pure Jane Austen, che invece ame piace. Ma nessuno prima di lui aveva saputo creare quella voce che incorporava la vera esperienza americana. Il Paese esisteva da troppo poco tempo e quell’esperienza non c’era ancora. Bisognava aver il tempo di voltarsi ad analizzarla. Credo che le cose succedano così in tutti i paesi: devi avere un po’ di storia e poi si presenta un genio come Mark Twain e scrive libri come quelli.
In realtà, una specie di autobiografia di Mark Twain esisteva già ed era il meraviglioso «Vita sul Mississippi ». Che gliene pare?
«Verissimo. Ovviamente, Twain parla delle sue esperienze sul fiume e lo fa a modo suo. Come tutti i bravi scrittori, era in grado di raccontare la verità e di farla sembrare una fandonia e di raccontare una fandonia facendola sembrare la verità. È il marchio del grande scrittore: saper fare entrambe le cose. Lui raccontava certe cose in maniera tale da fartele sembrare un mito e altre volte prendeva cose non vere e te le raccontava in maniera così diretta che alla fine ci credevi. Vita sul Mississippi è uno splendido libro autobiografico.

La Stampa 24.5.14
La ricerca pubblicata su Neuron
Così si accende il piacere delle coccole
Scoperti i neuroni di massaggi e carezze
di Marco Accossato

qui

il Fatto 24.5.14
Ci sono le elezioni, meglio non parlare della crisi all’Unità
di Sa. Can.


Il segretario del partito di riferimento è a capo del governo e punta a vincere le elezioni, ma de l’Unità nel corso della campagna elettorale, ha preferito non parlare. È quanto hanno capito chiaramente i lavoratori dello storico giornale fondato da Antonio Gramsci che ieri sono stati a lungo riuniti in assemblea e che oggi terranno una conferenza stampa presso la sede del sindacato giornalisti.
LA VICENDA È GRAVE perché la crisi finanziaria del giornale, che non ha pagato gli stipendi di aprile e potrebbe non pagare quelli di maggio, vede in ballo la chiusura del quotidiano. Tanto che negli ultimi dieci giorni ci sono state già tre giornate di sciopero e prosegue a oltranza l’astensione dalle firme. “La carenza di informazioni – spiega al Fatto Umberto De Giovannangeli, del Cdr – è la cosa peggiore”. L’assemblea degli azionisti prevista lo scorso 14 maggio è stata rinviata al 5 giugno, per lo meno questo è quanto l’azienda ha spiegato ieri dopo l’incontro con i giornalisti. Ma il 5 giugno è lontano, il 31 maggio scadono i contratti di solidarietà e nel frattempo si rincorrono voci e indiscrezioni. Una delle quali indica in Renzi l’autore di un ricambio societario con la liquidazione dell’attuale struttura per far posto a una nuova struttura più leggera soprattutto in termini di organico. In ballo anche l’ipotesi di ripercorrere la strada seguita tra il 2000 e il 2001 con la chiusura e la nascita di una nuova società però con gli stessi proprietari attuali. C’è chi parla di una fusione con l’altro quotidiano di area Pd, Europa. Ieri, l’Espresso ha dato notizia di uno scambio di sms tra il disegnatore Staino e Matteo Renzi: “Caro Matteo – ha scritto l’ideatore di Bobo – mi dicono che hai trovato un nuovo azionista per l'Unità”. “Nessuno è perfetto”, è stata la risposta del premier. Rammarico per avercela fatta o ammissione di impotenza? Intanto, alla vigilia delle elezioni, il futuro del quotidiano sembra dipendere solo dai suoi giornalisti.