Repubblica 3.7.10
Da porporato a pontefice "Così il cardinale Ratzinger prese di mira i progressisti e lasciò impuniti i pedofili"
Il "New York Times" accusa Benedetto XVI
"I vescovi locali denunciavano il problema, ma il Vaticano restò inattivo"
di Federico Rampini
New York - Joseph Ratzinger, quando da cardinale dirigeva la Congregazione per la dottrina della fede, fu «parte di una cultura di non-responsabilità, negazionismo, e ostruzionismo della giustizia» di fronte agli abusi sessuali commessi da sacerdoti. Lo afferma il New York Times sulla base di documenti interni alla Chiesa, interviste a vescovi ed esperti di diritto canonico. Dal reportage emerge una versione molto diversa, sul ruolo di papa Benedetto XVI, rispetto alla descrizione ufficiale fornita dalla Chiesa. Tra le rivelazioni spunta un vertice segreto avvenuto in Vaticano nel 2000 tra Ratzinger e i vescovi delle nazioni anglofone più colpite dagli scandali di pedofilia: Stati Uniti, Irlanda, Australia. Secondo il vescovo Geoffrey Robinson di Sidney, che partecipò all´incontro segreto, Ratzinger «impiegò molto più tempo a riconoscere il problema degli abusi sessuali, rispetto a quel che fecero alcuni vescovi locali». Nell´intervista al New York Times il prelato australiano si chiede: «Perché il Vaticano era così tanti anni indietro?».
Il New York Times smonta la linea di difesa che la Santa Sede ha tenuto sull´attuale pontefice. Il Vaticano ha descritto come una svolta la decisione del 2001 di dare alla Congregazione diretta da Ratzinger l´autorità di semplificare le procedure e affrontare direttamente i casi di pedofilia. Dopo quella decisione, annunciata con una lettera apostolica di Giovanni Paolo II, il cardinal Ratzinger sarebbe emerso come uno dei più coraggiosi nel riconoscere la minaccia degli abusi sessuali per la reputazione della Chiesa. Tutto questo viene confutato nella ricostruzione del giornale americano. In realtà la Congregazione aveva già gli stessi poteri dal 1922, secondo diversi esperti di diritto canonico interpellati. La lettera del 2001 non segnò affatto una svolta. Al contrario, la Chiesa si decise ad agire solo in grande ritardo, sotto la pressione di alcuni vescovi anglofoni in prima linea negli scandali. «Per i due decenni in cui ebbe la guida della Congregazione», scrive il New York Times, «il futuro Papa non esercitò mai quell´autorità. Evitò di intervenire anche quando le accuse e i processi stavano minando la credibilità della Chiesa in America, Australia, Irlanda, e altri Paesi». Ancora oggi, prosegue l´articolo, «molti decenni dopo che gli abusi sessuali da parte dei sacerdoti sono diventati un problema, Benedetto XVI non ha istituito un sistema di regole universali» per affrontarlo. Al contrario permane tuttora «una confusione dilagante tra i vescovi, sul modo di affrontare le accuse».
Eppure i segnali d´allarme per il Vaticano vengono da lontano. Nel 1984 il reverendo Gilbert Gauthé di Lafayette, Louisiana, ammise di avere molestato 37 minorenni. Nel 1989 uno scandalo enorme scoppiò in un orfanatrofio cattolico del Canada. Nella prima metà degli anni Novanta 40 fra preti e monaci australiani erano sotto processo per abusi sessuali. Nel 1994 cadde un governo in Irlanda per avere negato l´estradizione di un prete pedofilo. A quel tempo il cardinal Ratzinger aveva consolidato la sua autorità al vertice della Congregazione, dove era stato nominato nel 1981. «È lui», sottolinea il New York Times, «che avrebbe potuto avviare azioni decisive negli anni Novanta, per impedire che gli scandali diventassero una metastasi, diffondendosi da un Paese all´altro». Ma le sue priorità erano altre. Fin dal 1981 Ratzinger aveva identificato «la minaccia fondamentale per la fede della Chiesa»: la teologia della liberazione, il movimento dei preti progressisti che si stava affermando in America latina. «Mentre padre Gauthé (il pedofilo, ndr) veniva processato in Louisiana, il cardinal Ratzinger stava sanzionando pubblicamente i preti del Brasile e del Perù per aver sostenuto che la Chiesa doveva impegnarsi a favore dei poveri e degli oppressi. I suoi strali colpirono poi un teologo olandese favorevole a dare funzioni ecclesiali ai laici, e un americano che sosteneva il diritto al dissenso sull´aborto, il controllo delle nascite, il divorzio e l´omosessualità». Per reprimere ogni velleità di autonomia delle Chiese nazionali, Ratzinger usò la sua autorità per affermare che le Conferenze episcopali «non hanno un fondamento teologico, non appartengono alla struttura della Chiesa». Un´offensiva fatale, scatenata proprio nella fase in cui alcune »onferenze episcopali nei Paesi anglofoni avevano cominciato ad affrontare gli scandali in modo aperto, e chiedevano di poter sanzionare i preti pedofili senza aspettare le lungaggini dei processi canonici.
il Fatto 3.7.10
Il feeling tra Chiesa e premier
Adesso si capisce perché Vaticano e B&C vanno così d’accordo. In effetti un cattolico praticante e, per la verità, anche un laico raziocinante, avevano qualche difficoltà a capire la solidarietà per B. da parte del Vaticano.
di Bruno Tinti
Adesso si capisce un po’ meglio perché Vaticano e B&C vanno così d’accordo. In effetti un cattolico praticante e, per la verità, anche un laico raziocinante, avevano qualche difficoltà a capire come le più alte gerarchie della chiesa cattolica continuassero a gratificare B. della loro affettuosa solidarietà nonostante la figura morale dell’uomo fosse certamente abbietta. Probabilmente nei cattolici destava minor stupore il fatto che B, colpevole di gravi reati e assolto per prescrizione a seguito di una legge costruita da lui e nel suo personale interesse, venisse ciò non di meno ricevuto in Vaticano; in fondo di reati fiscali, socie-tari, contro la pubblica amministrazione si trattava, il loro tasso d’immoralità poteva essere giudicato modesto da chi si occupa di anime e non di soldi (?). Meno comprensibile poteva sembrare che le gerarchie ecclesiastiche continuassero ad avere rapporti cordiali con persona amica di imputati e condannati per mafia, chi in primo grado, chi in secondo, chi in via definitiva, e che aveva addirittura ospitato in casa sua un riconosciuto mafioso: ma insomma, che mafia e religione costituiscano un binomio pressoché inscindibile (basta osservare l’esibita ma sincera devozione dei mafiosi frequentatori abituali delle messe) è noto a tutti. Certamente incomprensibile e incoerente era però il permanere di ottimi rapporti con persona che si scopava puttane previamente convocate in allegri festini presso la residenza di governo, che frequentava senza apparenti ragioni istituzionali o semplicemente amicali una minorenne, che era, ohibò, divorziato e risposato civilmente, ragione per la quale a milioni di fedeli è rifiutato il sacramento della comunione. Questo proprio non si riusciva a capire.
Fino ad oggi, veramente, quando abbiamo scoperto che anche le alte gerarchie ecclesiastiche sono convinte che gli unti dal signore meritino l’impunità giudiziaria. Magistratura e polizia belghe indagano su atti di pedofilia commessi da ecclesiastici? Cercano le prove di questi disgustosi delitti? Eseguono perquisizioni e, chissà, intercettazioni telefoniche (lì si può, pare che sia considerata una cosa intelligente da fare se si vogliono scoprire reati e colpevoli)? Addirittura trovano documentazione comprovante le violenze sessuali commesse da ecclesiastici in danno di bambini? Perfino sequestrano questa documentazione? E come reagisce la chiesa belga? La commissione nominata dalla conferenza episcopale si dimette per protesta: perché le indagini le dovevano fare loro per primi; poi, in piena trasparenza, ne avrebbero comunicato i risultati a polizia e magistratura. Da morir dal ridere, se non fosse drammatico.
Ma questa è la chiesa belga, si dirà, intemperanze alla periferia dell’Impero; che c’entra il Vaticano? Eh, non è stato il Vaticano a esprimere stupore e sdegno per le indagini della polizia belga? E non è stato tale padre Federico Lombardi, portavoce del Vaticano, a sostenere che le condotte tenute dalla Chiesa “non hanno inteso e non hanno favorito alcuna copertura di tali delitti, ma anzi hanno messo in atto un'intensa attività per affrontare, giudicare e punire adeguatamente tali delitti nel quadro dell'ordinamento ecclesiastico”? E alla fine non è stato il Vaticano che ha presentato un ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti sostenendo la sua immunità a fronte delle denunce delle vittime di tale Andrew Ronan, un prete pedofilo, come tale noto alla sua gerarchia, che però si era limitata a trasferirlo di sede in sede ogni volta che veniva denunciato? E, alla fine, non sono stati lo stesso Papa e il cardinale Bertone ad incazzarsi con la polizia e la magistratura belghe? Così adesso si capisce perché c’è tanto feeling tra B. e il Vaticano. Sono tutti e due convinti di essere al di sopra della legge. Il Vaticano perché è unto dal Signore; e B. perché è unto dal popolo. È quest’originale battesimo che rende inapplicabile ai preti pedofili la giustizia secolare: i loro delitti saranno puniti “adeguatamente nel quadro dell'ordinamento ecclesiastico”. Il che comunque sarebbe sempre meglio (se davvero avvenisse, ma la storia di padre Ronan non autorizza molta fiducia) di quanto avviene nell’entourage di B&C, dove non solo non si “punisce” nessuno ma chi commette delitti fa carriera politica. Sarà perché in Italia manca una figura (per dire, vista l’impresentabilità di B&C, magari il presidente della Repubblica) che possa convincentemente affermare, come ha fatto il premier belga Yves Leterme: “Ciò che mi interessa, come primo ministro di questo paese, è che il potere giudiziario possa esprimersi in modo autonomo ed è proprio questo che sta succedendo. Le perquisizioni sono la prova che in questo paese c'è una separazione di poteri tra Stato e Chiesa e che il potere giudiziario può agire in modo autonomo”?
il Fatto 3.7.10
Una croce fondata sulla P2
Nasce un movimento per la difesa del crocifisso: ispirato dal Venerabile
di Carlo Tecce e Giampiero Calapà
Il crocifisso di legno cade tre volte dal trespolo di una lavagna. Le braccia dell’emozionato Roberto Mezzaroma che l’agitava, in quel momento mistico e (un po’) pacchiano, erano le protesi di Licio Gelli, il gran maestro della P2.
Il cosiddetto Venerabile ha ispirato il Movimento etico per la difesa internazionale del crocifisso (Medic), presentato nella sala congressi del Michelangelo di Roma, un albergo a pochi passi dal Vaticano. La politica è corsa a sostenere l’iniziativa: c’era Olimpia Tarzia, consigliere regionale Pdl, l’ex direttore del Tg1 Nuccio Fava, atteso invano l’ex mezzobusto del Tg1 Francesco Pionati (Adc) e sono stati annunciati telegrammi ricevuti (ma non letti) dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, dal presidente emerito Francesco Cossiga e dal “divo” Giulio Andreotti.
Il disegno dell’uomo P2
Per la Chiesa è un appuntamento imperdibile: don Walter Trovato, cappellano della polizia di Stato, è il primo a sedersi al tavolo degli oratori; l’anziano monsignore Antonio Silvestrelli è l’ultimo. Non èfacilecontareicollarinibianchi dei preti. Gelli ha scritto il codice etico e addirittura disegnato il simbolo dell’associazione: una sfera tagliata da cerchi concentrici su sfondo azzurro, una croce nera avvolta in una stretta di mano, quattro frecce ai bordi. Il Venerabile è nella sua Villa Wanda sulle colline di Arezzo: “Questa è la mia nuova battaglia - spiega al Fatto Quotidiano - e il colore scelto per il simbolo rimanda al mare, al cielo e al grembiule della Madonna, il resto a San Francesco e le frecce rappresentano i punti cardinali”. L’età avanzata ha impedito a Gelli di officiare la cerimonia in una sala moderna, affollata di uomini e donne vestiti con abiti scuri da sera nel caldo di mezzogiorno. Un amico di Gelli ha rimpianto l’assenza del Venerabile, criticando “la gestione troppo rude della cerimonia del costruttore Mezzaroma”. Accenti che si mescolano, spillette che si confondono. Segni, simboli, messaggi più o meno occulti, più o meno massonici. Il secondo capitolo di uno Statuto suggellato da Gelli, più che a un piano di rinascita nazionale, somiglia a una crociata pop: difendere, coinvolgere, riconoscere. “Medic vuole far emergere - declama Mezzaroma - le radici giudaico-cristiane del mondo occidentale e promuovere il significato autentico del crocifisso quale simbolo condiviso di amore assoluto; nasce con l’ambizione di essere un movimento trasversale, che raccoglie non solo cattolici ma anche ebrei, musulmani, atei, convinti che la croce abbraccia l’umanità intera”. Quasi un comizio, senza leggere, e un po’ fuori dal protocollo per un evento mondano in pieno giorno. L’imprenditore Mezzaroma, ex europarlamentare di Forza Italia, è stato nominato segretario generale del Medic in una riunione a Villa Wanda che, diretta come è logico da Gelli, ha indicato presidente onoraria la duchessa d’Aosta, Silvia Paternò, dei marchesi di Regiovanni , dei conti di Prades, dei baroni di Spedalotto, appartenente al Sovrano MilitareOrdinediMalta . Una roba da far impallidire la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare di fantozziana memoria. Araldica pesante, insomma, tanto che “siamo già in 500: faccio politica per passione, sono iscritto al Pdl; stimo tantissimo Gel-li, ma non mi confido al telefono con nessuno” e attacca la cornetta Mezzaroma, contattato all’ultima forchettata di un banchetto fastoso. Il costruttore romano è un fan della prim’ora dei Circoli del buon governo di quel Marcello dell’Utri appena condannato a 7 anni in appello per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ex romanista parente di Lotito
Ex europarlamentare, responsabile del dipartimento “lotta alla povertà” del partito ai tempi di Forza Italia, Mezzaroma è lo zio della moglie di Claudio Lotito. Nel 2005 diventò il secondo azionista della Lazio vantandosi di “aver già salvato la Roma nel 1992 assieme ai miei fratelli, perché bisogna costruire non demolire”. E detto da lui vale un capitale, perché di cemento se ne intende. L’avventura con la Lazio è costata una condanna a un anno e 8 mesi, per un accordo definito “interpositorio” che permise a Mezzaroma di acquistare il 14,61% delle azioni biancocelesti di fatto per conto di Lotito, in modo da nascondere la titolarità del pacchetto completo con cui lo stesso Lotito avrebbe poi lanciato l’Opa. Aggiotaggio e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza, per Lotito la condanna è di due anni.
Tra i padrini chiamati a battezzare il Medic, c’era anche monsignor Alberto Silvestrelli: un alto prelato che risponde all’invito di Licio Gelli. Esponente del governo Vaticano con l’incarico di sottosegretario alla Congregazione per il clero, oltre ad essere giudice di appello del Vicariato di Roma (il tribunale dei preti) e commissario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, si occupa di sociale: alcolismo e disabili. Ai tempi della gestione Ratzinger, monsignor Silvestrelli ha ricoperto incarichi anche nella Congregazione per la dottrina della fede, la moderna Inquisizione.
Il consigliere regionale (Lazio) Olimpia Tarzia, altra commensale, vanta un ampio curriculum tra fede e politica: fondatore (e segretario generale dal ‘97 al 2006) del Movimento per la vita, il cui successo più importante è stato il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita nel 2005. “Il crocifisso - ha affermato Tarzia - è simbolo di vita: si invoca lo Stato laico, ma lo Stato laico come democratico difende i diritti umani e il primodiquestidirittièquelloalla vita”.IlMedicèprontoadifendere il crocifisso “anche con azioni forti, a promuovere un referendum che rimetta al popolo italiano la decisione di continuare a riconoscersi in quei valori che hanno delineato i confini culturali e spirituali dell’Italia e dell’Europa”. A quei valori che affascinano Licio Gelli.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 2 luglio 2010
Agi 2.7.10
Pd: Donaggio, Lombardi riferimento Libertà e dignità lavoro
Riscoprire la lezione umana e politica di Riccardo Lombardi e' fondamentale specie in una situazione a alto rischio per la tenuta democratica del Paese: Riccardo e' stato ed e' il punto di riferimento insostituibile per difesa della democrazia e la dignita' del lavoro, cui spese un'intera vita. Lo dice la senatrice del Pd, Franca Donaggio che plaude alla riscoperta dell'Ingegnere 'acomunista' da parte del Pd. "Sono stata per trent'anni nella Cgil, il mio ultimo incarico e' stato quello di responsabile delle politiche delle donne, e - precisa orgogliosa - nella componente lombardiana. Fu Bruno Trentin, molto legato a Lombardi, a volermi a Roma: con Fausto Vigevani, un lombardiano doc, sono stati i miei maestri, di cui sento ancora forte la mancanza". Ora il Pd mostra interessa per Lombardi e la Donaggio plaude. "Riscoprire Riccardo vuol dire reimettere nella politica l'etica e la responsabilita' e certi valori come l'onesta', il rigore e la coerenza - aggiunge - che sono qualita' fondamentali per far vivere la democrazia: e in questo Riccardo e' stato un esempio di pulizia per tutti. Oltre che ovviamente portatore di un 'pensiero forte' rivolto sempre a sinistra e al mondo del lavoro". E su questa direttrice il feeling con due dei maggiori sindacalisti della Cgil, Vigevani e Trentin. "E' la storia a dirci - conclude la Donaggio - che le piu' grandi conquiste (le liberta' sindacali, la formazione continua, la dignita' del lavoro, la riduzione dell'orario di lavoro, la partecipazione) per il mondo del lavoro hanno avuto come protagonista Lombardi: fu lui a porre nel 1962 l'esigenza dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori attuato poi da Giacomo Brodolini e oggi messo in seria discussione". (AGI) Pat
l’Unità 2.7.10
Desaparecidos. 250 eritrei arrestati sulla rotta di Lampedusa e finiti nel lager libico
La protesta. Gli immigrati rifiutano le generalità, scontri con la polizia: i feriti deportati a Brak
Il pugno duro di Gheddafi sulla rivolta dei senza diritti
di Umberto De Giovannangeli
I «desaparecidos» di Maroni. Centinaia di eritrei respinti a Lampedusa, picchiati in Libia, di cui da giorni non si hanno notizie. La denuncia della comunità eritrea in Italia. I silenzi delle autorità italiane.
La rivolta dei senza diritti si consuma nel silenzio. Il silenzio complice della Comunità internazionale. Il silenzio di un Governo, quello italiano, che ha aperto un credito illimitato al Colonnello di Tripoli.Il silenzio che copre la vergogna dei « desaparecidos» voluti dall’Italia. Un silenzio rotto dalla coraggiosa e documentata denuncia di Fortress Europe e del suo giovane e instancabile animatore, Gabriele Del Grande.
NESSUNA NOTIZIA
Ciò che aspetta i respinti è cosa nota (tranne ai governanti italiani...): rinchiusi in carcere in Libia. Ma adesso rimarca Del Grande il problema è capire che fine faranno. All'alba del 30 giugno Fortress Europe ha perso le loro tracce. Due container sono partiti carichi di 300 persone uomini, donne, bambini lasciandosi alle spalle i cancelli del campo di detenzione di Misratah. Un reparto dell' esercito ha fatto irruzione nelle celle in piena notte. Le ultime telefonate d'allarme sono giunte alle cinque del mattino. Poi il silenzio: tutti i telefonini sono stati sequestrati. I detenuti portati via sono tutti eritrei, uomini e donne, compresi una cinquantina di minorenni e diversi bambini.
Tutti arrestati sulla rotta per Lampedusa, chi respinto in mare nell'ultimo anno e chi fermato nelle retate della polizia libica a Tripoli. «La diaspora eritrea, da Roma e da Tripoli, ci ha chiesto afferma Del Grande di dare la massima diffusione alla notizia, perché il rischio di un'espulsione di massa a questo punto è molto alto». Che a Misratah tirasse una brutta aria lo si era capito da un pezzo. Da quando, tre settimane fa, il governo libico aveva espulso l'Alto Commissariato dei Rifugiati delle Nazioni Unite, che proprio a Misratah aveva regolare accesso da ormai tre anni. Ma i guai sono arrivati nella giornata dell’altro ieri.
I militari libici è sempre Del Grande a denunciarlo hanno consegnato ai detenuti i moduli dell'ambasciata eritrea per l'identificazione. Tutti si sono rifiutati categoricamente di fornire la propria identità all'ambasciata, temendo che fosse il primo passo per un'espulsione collettiva. Al loro rifiuto la tensione è salita, fino a sfociare in una rivolta, con un durissimo scontro con le forze di sicurezza. Qualcuno ha tentato di scavalcare il muro di cinta e fuggire, ma l'evasione è stata presto sventata e la protesta duramente repressa a colpi di manganellate.
APPELLO ACCORATO
Secondo Mussie Zerai, responsabile dell’agenzia Habesha(Ong che si occupa dell’accoglienza dei migranti africani) che da Roma ha potuto raggiungere telefonicamente alcuni detenuti di Misratah, ci sarebbero una trentina di feriti gravi, che sarebbero stati portati via nei container insieme a tutti gli altri. Habesha riferisce anche di tentati suicidi per evitare la compilazione dei moduli di identificazione: «La situazione è drammatica», conferma a l’Unità Zerai. La comunità degli eritrei di Tripoli ha lanciato ieri pomeriggio un allarme per lo stato in cui versano i loro connazionali trasferiti ieri dal Centro di Detenzione di Misurata al carcere di Brak, nella valle dello Shaty, nel Sud della Libia, a circa 75 chilometri da Seba. Dopo una intera di giornata di viaggio all'interno di tre camion-container,gli eritrei sono arrivati al centro di Brak nella serata di ieri. «Li stanno picchiando riferisce un eritreo in contatto con alcuni di loro temono di non sopravvivere». Secondo alcune testimonianze sempre di fonte eritrea, fra loro ci sarebbero anche diversi feriti, che però non avrebbero ancora ricevuto alcuna cura. Intanto le Ong di Tripoli che si occupano di rifugiati, Cir e Iopcr, riferisce una fonte vicina alle associazioni, riceveranno nella giornata di domenica una visita da parte del direttore del Centro di Brak e nei prossimi giorni hanno programmato una visita a Misurata, dove sono rimaste 80 donne eritree e alcuni bambini e poi, almeno questo è nelle loro speranze, una visita a Brak per constatare le condizioni degli eritrei. La diaspora eritrea da anni passa attraverso Lampedusa per chiedere asilo politico in Europa. La situazione ad Asmara si fa di giorno in giorno sempre più grave.
VIOLENZE QUOTIDIANE
Non è da oggi che Fortress Europe documento le violenze che segnano la quotidianità di migliaia di disperati nei «campi di accoglienza» libici. Grazie a Fortress Europe sappiamo, ad esempio, del massacro di Benghazi. Attraverso foto scattate con un cellulare, e sfuggite alla censura, Del Grande ha svelato come la polizia libica ha ucciso sei rifugiati somali a Ganfuda. E sempre grazie a Fortress Europe si è saputo che erano eritrei i passeggeri dell’imbarcazione respinta al largo di Lampedusa il primo luglio di un anno fa. Rifugiati eritrei. Respinti nell’inferno libico dall’Italia di Berlusconi e Maroni.
l’Unità 2.7.10
Silenzio di morte
di Giovanni Maria Bellu
Fino a due anni fa all’inizio dell’estate i titoli sulla «emergenza Lampedusa» riempivano le prime pagine. Quest’anno l’«emergenza» è finita. E il ministro Maroni se ne gloria. Ma tace, come quasi tutti i media, sul costo di questo meschino trionfo in termini di vite umane.
Il costo è la condanna a morte di centinaia di uomini e di donne. I conti sono semplici: dal 2008 al 2009 le domande d’asilo che per la metà venivano accolte si sono dimezzate (da 15.000 a 8000). E il calo continua nel 2010. C’è la sicurezza statistica che alcune migliaia di perseguitati non hanno potuto raggiungere le coste italiane e salvarsi. Alcune migliaia di persone. Una briciola rispetto agli ingressi illegali che infatti, via terra, continuano massicci. I respingimenti hanno bloccato solo i disperati che fuggivano da dittature feroci e dalle guerre.
Per assecondare la propaganda della Lega Nord il governo si è fatto complice di un crimine contro l’umanità. E i media che in passato avevano dato un contributo determinante nella creazione della falsa “emergenza Lampedusa” ora quasi coralmente tacciono.
Ci sono dei bavagli che il sistema dell’informazione si è messa da tempo, senza bisogno di alcuna legge.
l’Unità 2.7.10
«Lo scempio delle regole comincia dalla scuola
Peggio delle leggi vergogna»
L’avvocato e la politologa discutono della «riforma» Gelmini dopo la bocciatura del Tar del Lazio: «Capovolti i principi costituzionali»
di Chiara Affronte
Il 24 giugno il Tar del Lazio accoglie il ricorso di 755 persone tra insegnanti e genitori contro la riforma Gelmini alle scuole superiori: i ricorrenti si appellano al tribunale amminsitrativo considerando illegittimi i tagli e le iscrizioni perché la riforma non ha ancora valore di legge. Il Tar sospende ogni provvedimento fino al 19 luglio, data dell’udienza in cui verrà confermata o meno l’ordinanza. «Un segnale importante», il commento a caldo di Milli Virgilio, legale insieme a Corrado Mauceri dei ricorrenti.
Virgilio, ex assessore alla Scuola della giunta Cofferati, incontra Nadia Urbinati, docente di Scienze Politiche alla Columbia University di New York. E insieme ragionano sulle motivazioni del ricorso e, ancor prima, sullo scenario politico che lo ha determinato. Entrambe partono da un assunto: «Non ci sono solo la legge-bavaglio e le leggi ad personam: con questo governo assistiamo ad una sistematica violazione delle regole democratiche di cui, ciò che si sta facendo nella scuola, è un esempio eclatante».
La riforma Gelmini insomma è «un caso emblematico», per Urbinati: «Dimostra un modo di governo arbitrario», i cui «obiettivi aggiunge Virgilio sono esclusivamente finanziari e di bilancio». Vengono scardinati e capovolti i principi fondamentali: «La scuola viene vista come un servizio, come fosse la sanità, scavalcando completamente la sua finzione istituzionale che assicura il principio di uguaglianza tra le persone», spiega l’avvocato. Si capovolgono le regole della democrazia, e si procede per decreti, «per emergenze». Il caso Bertolaso insegna: «Ma la scuola non è un fatto straordinario», chiarisce la politologa.
Cosa è successo, dal 2008, quando è stata fatta la Finanziaria d’estate? Ricorda Virgilio: «Di quella legge di agosto, l’articolo 64 è un piccolo tassello dedicato alla scuola. Si annuncia: “Entro un anno (il 25 giugno 2009, ndr) faremo i piani dell’offerta formativa e i regolamenti”, di fatto delegando se stessi, autorizzandosi a modificare le leggi». Della serie: il Governo fa e disfa: del Parlamento chissenefrega. In questo caso, però, la cosiddetta emergenza che permette al governo di fare il decreto legge è «il risparmio», Virgilio lo ribadisce e ironizza: «Emergenza tale, che dal 2008 ancora l’operazione non è finita....».
Insomma, «le circolari e i regolamenti assumono forza di legge e un sito internet dove vengono date di volta in volta le informazioni parificato al livello della Gazzetta ufficiale», sbotta l’ex assessore. Immediato il commento della politologa: «Una evidente violazione della divisione dei poteri: il governo diventa autonomo nel legiferare».
I motivi del ricorso al Tar, inattaccabili per l'avvocato, sono sintetizzabili in 5 punti: 1)Il governo dichiara di voler eliminare gli “sprechi” della scuola tagliando 8 miliardi di euro in 3 anni, senza preoccuparsi delle conseguenze che questo taglio ha su un’istituzione che la Costituzione individua (articolo 3-33-34) come lo strumento attraverso cui garantire il principio di uguaglianza; 2) L’uso del decreto legge è previsto dalla Costituzione solo nei casi di urgenza, ma questa operazione non è ancora conclusa, in ben due anni; 3) Il governo delega se stesso a emanare regolamenti che modificano le leggi; 4) Inoltre ha legiferato in materia di competenza regionale; 5) È stato superato il limite di scadenza del 25 giugno 2009: lo schema di decreto interministeriale firmato solo dalla Gelmini non è pubblicato in Gazzetta; 6) si sono violati i principi dell’autonomia scolastica (le iscrizioni sono state fatte su piani formativi irreali, che non si sa quali siano concretamente, non condivisi dai soggetti democraticamente previsti, ndr).
In sostanza, l'obiettivo è chiaro e deve mettere tutti in guardia: «È quello dello smantellamento della scuola pubblica», concordano l’avvocato e la politologa. Un fatto che deve far tremare l'opposizione tanto quanto la legge-bavaglio, parere delle due donne: «Qui emergono tutti gli ingredienti dello stato arbitrario: colpire la scuola pubblica è colpire il diritto di cittadinanza», riflette Urbinati. Che lancia un appello all'opposizione: «Il Pd dovrebbe indire una conferenza stampa e fare di questo tema una questione nazionale. La scuola non può continuare ad essere considerata un fatto secondario nel nostro Paese dove peraltro si riscontrano nuove forme di analfabetismo. L'opposizione lanci una campagna». perché, prosegue Virgilio, «quello che il governo fa nella scuola colpisca l'opinione pubblica tanto quanto la legge-bavaglio».
Questo governo, per la politologa, «non è schizofrenico, ma ha un’idea e la persegue». Il «nemico» numero uno, osserva Urbinati, «è il sociale perché loro sono figli dell’individualismo puro: i poveri fanno gli schiavi a zero diritti e vanno aPomigliano».L’«animaliberistaè una delle due anime del governo Berlusconi: la prima è quella patrimonialista che si occupa degli interessi del premier, l'altra, perseguita da Brunetta, Sacconi e Tremonti, è quella di attacco al sociale», in tutte le sue declinazioni.
Repubblica 2.7.10
Più 1,5% rispetto al 2009 unico dato in controtendenza
Nella scuola dei tagli aumentano i prof di religione
di Salvo Intravaia
È l´unico dato in controtendenza. Per il resto meno cattedre e classi, e precari espulsi
In 12 mesi gli insegnanti di ruolo sono diminuiti del 4%, i bidelli e i tecnici del 6%
ROMA - Per la scuola italiana travolta dai tagli, l´unico segno più è per gli insegnanti di Religione. Il ministero dell´Istruzione ha appena pubblicato l´annuale dossier dal titolo "La scuola statale – sintesi dei dati, anno scolastico 2009/2010": il corposo volume di 342 pagine che contiene tutti i numeri dell´anno appena trascorso. Una pubblicazione di routine, che quest´anno però riserva una sorpresa: in mezzo a tanti segni meno, rispetto al 2008/2009 una delle poche voci che cresce è quella dei docenti di Religione. È lo stesso ministero a certificarlo. Il confronto con un anno fa consegna un quadro della scuola italiana con sacrifici per tutti, dagli alunni disabili ai precari, tranne che per gli insegnanti di Religione. Un dato che appare in netta controtendenza col taglio delle classi e con il lento ma graduale spopolamento delle aule quando sale in cattedra il docente individuato dal vescovo. Quella dei docenti che impartiscono l´unica ora di lezione facoltativa prevista dall´ordinamento scolastico italiano è questione che ha destato sempre polemiche.
Quando nel 2004 l´allora ministro dell´Istruzione, Letizia Moratti, pensò di stabilizzarli attraverso due distinti concorsi il mondo politico-sindacale si spaccò in due. Anche perché tra i titoli necessari per accedere al concorso, riservato a coloro che avevano prestato servizio per almeno 4 anni negli ultimi dieci (dal 1993/1994 al 2002/2003), occorreva essere in possesso dell´idoneità rilasciata dall´ordinario diocesano. Ma il secondo governo Berlusconi non si curò troppo delle polemiche e bandì ugualmente il concorso, che nel settembre 2005 consentì per la prima volta nella storia dello Stato italiano l´immissione in ruolo dei primi 9167 docenti di Religione. Da allora il loro numero è sempre cresciuto, fino alla cifra record (26.326 unità) dell´anno scolastico appena archiviato. I quasi 14 mila prof di ruolo, in leggera flessione rispetto a 12 mesi fa, sono stati abbondantemente compensati dai colleghi precari: 12.446 in tutto. Nel frattempo, la scuola italiana è stata oggetto di tagli senza precedenti. Nel triennio 2009/2012 spariranno 133 mila cattedre per un totale di 8 miliardi di euro. Ma non solo: l´incremento degli alunni disabili (da 175.778 a 181.177 unità) è stato fronteggiato con un taglio netto di oltre 300 cattedre di sostegno. Quasi 37 mila alunni in più sono stati stipati in 4 mila classi in meno. E sono diminuiti persino i plessi scolastici: 92 in meno. È toccato al personale della scuola pagare il prezzo più alto al risanamento dei conti pubblici. In un solo anno gli insegnanti di ruolo sono calati del 4%, senza nessun recupero da parte dei precari che hanno dovuto salutare quasi 14 mila incarichi con relativo stipendio. Per non parlare del personale di segreteria, dei bidelli e dei tecnici di laboratorio: meno 6% in 12 mesi. L´anno appena trascorso ha visto anche il varo della riforma Gelmini per il primo ciclo (scuola elementare e media), col calo delle ore di lezione e del tempo prolungato alla scuola media. Ma è stato anche l´anno delle proteste dei dirigenti scolastici per il taglio ai fondi d´istituto e del congelamento per un triennio (dal 2011 al 2013) degli stipendi degli insegnanti.
l’Unità 2.7.10
La distruzoine della cultura
Decreto Bondi: un nuovo «Fahrenheit 451»?
di Vincenzo Vita
Tra i temi della manifestazione di ieri a piazza Navona e in tante altre piazze d’Italia, vi era anche quello serio e drammatico della crisi della lirica e dei teatri d’opera. Il decreto Bondi convertito la settimana scosa in legge col voto definitivo di Palazzo Madama ha inferto un grave colpo alla cultura italiana. Il testo, ancorché sia stato arato da qualche emendamento nel corso del viaggio tra Senato e Camera, rimane inaccettabile e viziato da evidenti profili di illegittimità costituzionale.
Innanzitutto, la “forma decreto”, che poteva essere evitata presentando un disegno di legge, secondo i termini discussi un anno fa in Commissione cultura del Senato: non c’era infatti alcuna urgenza.
Punto cruciale, è quello relativo al ruolo delle Regioni. L’articolo 117 della Costituzione assegna loro un ruolo molto specifico e la riforma del Titolo V della Costituzione aveva dato proprio alle Regioni specificamente una fisionomia del tutto diversa da quella che si evince dall’articolato del decreto, ormai diventato legge. Vi è una evidente sottrazione di potestà e di ruolo. Inoltre, si fa rinvio a un regolamento, che si tende a definire “rafforzato”, che confligge proprio con la natura dei rapporti tra Stato e Regioni. Si può supporre che qualche Regione farà ricorso e il fragile testo molto difficilmente resisterà alle obiezioni della Corte costituzionale.
È bene ricordare che questo Governo è al suo cinquantasettesimo decreto-legge e che sono state richieste ben trentaquattro fiducie. La decretazione d’urgenza non è più un’eccezione, come dovrebbe essere secondo la Costituzione quanto una sorta di commissariamento dell’attività del Parlamento, ridotto a spettatore, a semplice audience, come di moda nell’ambito di un governo televisivo.
Questa legge anticostituzionale fa il paio con tanti tagli in corso d’opera alle attività culturali, alle attività dei saperi, alle attività dell’informazione: una sorta di novello «Fahrenheit 451». Il settore lirico-sinfonico merita una riforma, una legislazione moderna, evoluta e adatta al secolo della conoscenza e della multimedialità. Così non è. La legge Bondi ci riporta indietro, toglie anche quel poco di buono che era nella normativa pregressa, la rende forse inapplicabile e, anche per questo, a poco valgono alcuni ritocchi se il contesto rimane quello.
«Tagli e bavagli» era il tema della mobilitazione di Roma di ieri, promossa dalla Fnsi e da Articolo21. Tagli ai saperi (l’Eti è sciolto, gli Enti culturali dimezzati nel finanziamento), alla scuola (mannaia Gelmini-Tremonti) e all’informazione (le proposte liberticide sulle intercettazioni). Non si parlerà, non si studierà: non si canterà nemmeno?
Vincenzo Vita è vicepresidente della Commissione Cultura del Senato
Repubblica 2.7.10
Firenze, l'allarme della direttrice: "Mancano i fondi, a novembre scelgo la pensione"
"La biblioteca nazionale in rovina, Io me ne vado"
di Laura Montanari
Non si possono più catalogare i volumi. Non c´è il personale per i turni: verrà ridotto l´accesso al pubblico. E sono stati cancellati molti abbonamenti alle riviste
FIRENZE. I libri non li spolverano più da quattro anni perché mancano i soldi per farlo. Per la stessa ragione hanno cancellato decine di abbonamenti a riviste e tagliato gli acquisti di volumi stranieri. Da tempo è anche sospesa la conversione del catalogo da cartaceo ad elettronico col risultato che, di sei milioni di libri, soltanto due e mezzo sono i titoli online. Gli altri si ricercano come nel secolo scorso, scorrendo a mano gli schedari. Il declino della Biblioteca Nazionale di Firenze è scritto sui muri di certi corridoi, dove l´intonaco porta ancora l´ombra delle luci al neon levate dieci anni fa. Nei magazzini di questa che è la più grande biblioteca italiana, giacciono parcheggiati 200mila volumi che aspettano di essere catalogati dal personale che non c´è perché, dei 500 dipendenti che lavoravano qui negli anni ‘90, di economia in economia, oggi ne sono rimasti 195 con un´età media che vira ai sessanta. Il 10 per cento di quella montagna di arretrato sarà smaltito grazie al finanziamento di una fondazione bancaria, il resto giacerà negli scatoloni, in attesa di nuovi benefattori. Così l´accumulo cresce: «Ci arrivano 70mila volumi l´anno e riusciamo a catalogarne 40mila» spiega la direttrice Antonia Ida Fontana. Ha appena annunciato che a fine novembre lascia, andrà in pensione: «E´ un addio amaro. Siamo così in pochi che da metà luglio saremo costretti a chiudere l´accesso al pubblico per tre pomeriggi la settimana. Non era mai successo».
La crisi di questo monumento del sapere e della nostra memoria scritta, si legge a tante voci: una, è quella degli appelli che intellettuali e visitatori ogni tanto mandano ai giornali denunciando l´emergenza. «E´ come se il ministero dei Beni culturali non si rendesse conto del valore che ha la Biblioteca Nazionale di Firenze» spiega Franco Contorbia, docente di letteratura e frequentatore dell´emeroteca. La più ricca collezione di giornali d´Europa si trova in parte in una sede decentrata, in un magazzino al Forte Belvedere dove non c´è nemmeno una sala di lettura aperta al pubblico e dove due volte la settimana un pulmino sale lassù con la lista delle richieste per prestiti o consultazioni da esaudire. «Il confronto con le analoghe biblioteche di Londra o di Parigi è mortificante - dice Paul Ginsborg, docente di Storia contemporanea, altro assiduo frequentatore della Nazionale - A Firenze appena entri nell´edificio avverti una sensazione di degrado che poi ritrovi, per esempio, nelle sedie rotte, nella stoffa che si lascia andare sulle sedute della sala consultazione». Oppure nelle infiltrazioni d´acqua della rotonda Magliabechiana, o nei pavimenti pieni di toppe dell´area della distribuzione, quattro piani di balconi circolari che il pubblico non vede e dove lo scorrimano in legno che, lungo le scale è incerottato con il nastro isolante, sembra una metafora della provvisorietà. I numeri raccontano il resto: «Dal ministero ci arrivano due milioni e mezzo di euro, erano il doppio soltanto cinque anni fa» spiega la direttrice. La Nazionale raccoglie per missione, tutto quello che viene pubblicato nel Paese: conserva quello che stampiamo, è la testimonianza del nostro passaggio, un villaggio di 6 milioni di libri sistemato su 120 chilometri di scaffali per capire le cose che abbiamo attraversato, la storia, la letteratura, le scienze, i pensieri, le mode, i linguaggi e la complessità del mondo. Eppure negli ultimi anni non riesce più a tenere il passo e catalogare tutti i libri che riceve. «E´ una cosa gravissima - aggiunge Ginsborg, - Il personale fa il possibile, ma sono sempre di meno e non c´è un passaggio generazionale: quelli che vanno in pensione hanno un patrimonio di 40 anni di conoscenza dei fondi librari, che sanno dove mettere le mani e come esaudire le richieste dei ricercatori, non lasciano eredi per via dei tagli. Hanno grosse responsabilità i governi che hanno abbandonato la biblioteca in questo modo». Qui dove sono conservati gli autografi di Galileo, lo Zibaldone di Boccaccio, i tarocchi del Mantegna, il manoscritto di Pinocchio, 600 libri d´artista (Klee, Matisse, Picasso, Chagall…) e migliaia di pezzi unici.
Altro problema, gli spazi: la biblioteca cresce di due chilometri di scaffali l´anno. L´ala nuova sarà pronta dopo l´estate e basterà per soli quattro anni, poi bisognerà avviare i cantieri in una delle vicine caserme in disuso. Intanto si tira avanti come si può, con le macchinette del caffè al posto del bar (chiuso da vent´anni) e col loggiato che dà su Santa Croce affittato, per rastrellare soldi, agli sponsor di turno, in genere per le cene del Rotary. A quelli della moda invece no: «Ci hanno detto: o rimbiancate, o per le sfilate e le feste, non ci interessa».
Repubblica 2.7.10
La Fracci polemica: "Io all´Opera? Dipende da Muti e lorsignori"
Contro la riforma Bondi niente tournée alla Scala e a Roma saltano le ‘prime´
di Laura Serloni e Mariella Tanzarella
ROMA - Sale la tensione alla Scala, dove i lavoratori hanno messo in cantiere ben undici giorni di sciopero. Nel teatro milanese non solo si combatte il decreto di riforma appena approvato in Parlamento, ma si profila anche un braccio di ferro con il sovrintendente Lissner. Salta la prima del Barbiere di Siviglia di venerdì 9 e nuovi scioperi minacciano le tournée estive. Ieri i lavoratori del teatro hanno decretato un altro sciopero per venerdì prossimo, l´ottavo dall´inizio delle proteste. E saranno discusse nei prossimi giorni nuove modalità di lotta, che potrebbero far saltare le trasferte previste per il 21, 22 e 23 luglio a Pompei con i Carmina Burana e quella a Buenos Aires dal 25 agosto al primo settembre con l´Aida in forma di concerto diretta da Barenboim, con un pacchetto complessivo di undici giorni di sciopero. Particolarmente accesi i toni dell´assemblea e «forti malumori» nei confronti di Stéphane Lissner, che mercoledì sera, dopo che il Faust era andato in scena di nuovo con orchestrali e coro in jeans e maglietta per protesta, aveva annunciato a sorpresa di considerarla «una giornata di sciopero», e dunque di non voler pagare i lavoratori.
Stesso clima all´Opera di Roma. «Un atto irresponsabile e autolesionista» ha definito il ministro Bondi lo sciopero dei lavoratori che in segno di protesta hanno fatto saltare il balletto Romeo e Giulietta e l´apertura della stagione estiva. «Mi sarei aspettato un atteggiamento più responsabile -ha aggiunto il ministro - ora che si deve riscrivere il regolamento per le fondazioni liriche». Ma la protesta continua. Alle Terme di Caracalla salteranno tutte le "prime": dall´Aida al Rigoletto.
Tutto questo mentre all´Opera si continua a trattare per portare il maestro Riccardo Muti alla direzione artistica. «Stiamo ragionando sul contratto: i termini sono condivisi ma, certo, la conferma si avrà solo con la firma», conferma il sovrintendente Catello De Martino. Al di là di un saluto di cortesia, durante la presentazione del cartellone estivo delle Terme di Caracalla, è stata gelida l´atmosfera tra il sindaco Gianni Alemanno e la direttrice in uscita del corpo di ballo dell´Opera, Carla Fracci. E se il primo cittadino definisce «determinante» la collaborazione della Fracci, la ballerina ha dubbi sul futuro. «Finisce qui il lavoro che ho svolto in questi dieci anni. Ora c´è una compagnia conosciuta a livello mondiale, un patrimonio. Ma bisogna vedere se se ne rendono conto "lorsignori", visto che a teatro non ci vengono». E quanto alla sua collaborazione con tono risentito aggiunge: «Io ho chiesto di poter lavorare alla creazione di una compagnia internazionale ma dipende tutto anche dall´arrivo di Muti, uomo con i suoi pregi ma con un modo d´essere che vuole stare sempre al centro».
l’Unità 2.7.10
L’uccisione di Maria e Livia spinge di nuovo a riflettere sul tema della violenza maschile Si parla di stalking, si denunciano veline e velinismo ma intanto nulla sembra cambiare
Uomini che odiano le donne
di Silvia Ballestra
Due elementi colpiscono nell’ennesima giornata di follia omicida contro le donne. Il fatto che Gaetano De Carlo, a poche ore l’una dall’altra, abbia ucciso ben due ex fidanzate, e che l’assassino fosse uno “stalker” conclamato. Non un raptus, non qualcosa di inatteso. Con Maria Montanaro la relazione era finita da poco, Livia Balcone, invece, sua compagna in un passato non vicinissimo, era già da un po’ vittima delle sue persecuzioni. Minacce, molestie e anche un’aggressione, che l’avevano spinta a depositare ben sette denunce contro quest’uomo pericoloso, fargli togliere il porto d’armi. C’era in corso un processo che però non è bastato a fermarlo, così al dolore di amici e parenti delle vittime si aggiunge la frustrazione. Un’impotenza che coglie anche chi si occupa di queste questioni da tempo poiché si ha la sensazione che, nonostante la presa di coscienza del problema “femminicidio” di questi ultimi anni, le cifre della cronaca sembrano inarrestabili. La legge sullo stalking, da noi, è recente ed è presto per fare bilanci ma è certamente un passo avanti, il riconoscimento di un problema, l’ultimo campanello d’allarme. Ora, è vero che, sebbene sembrino rispondere a un copione, a un preciso profilo criminale, questi delitti hanno a che fare con specifiche patologie, dinamiche, rapporti. Solitudini, ossessioni, desideri insoddisfatti. Ma non dipendono solo dalle singole storie personali e familiari: chiamano in causa anche la condizione socio-culturale, e dunque politica, di un Paese intero.
Da tempo, ormai, da più parti, si sottolinea come il corpo delle donne sia oggetto delle più diverse forme di violenza e sopruso. Ciò che solo qualche anno fa sembrava indicibile, liquidato come argomento polveroso e “vetero”, ci è stato ora raccontato e mostrato, analizzato e denunciato anche nella sua versione più attuale: la mercificazione continua del corpo della donna – buono per vendere di tutto – è talmente martellante e presente da non poter più essere negata o liquidata con argomentazioni leggere da commedia all’italiana. Da anni si parla di veline e velinismo, si parla di monnezza sottoculturale, di modelli deleteri, di certe trasmissioni orrende che sviliscono le donne, ma da quel versante nulla cambia. Pupe, veline e bonazze in costume continuano a occupare l’etere e lo spazio con ammiccamenti e promesse irraggiungibili.
Ci siamo indignate, indignati, abbiamo scritto che tutto si tiene, che considerare le donne come merci da possedere e esibire non è dignitoso per nessuno e non può restare senza conseguenze. Nel frattempo abbiamo scoperto che da noi le donne sono usate anche come benefit nella corruzione dei potenti. Chissà allora se una legge sulle persecuzioni può bastare o non servirebbe, pure, un cambiamento più generale, uno scatto d’orgoglio.
Una recente classifica della qualità della vita nelle città, accanto a qualità, quantità e efficienza dei servizi, livello dell’offerta culturale, ha posto come parametro anche il numero di omicidi e violenze domestiche: non sarà un caso che fra le prime venticinque non c'è nessuna città italiana.
Repubblica 2.7.10
Le ossessioni
Molestie, pedinamenti, aggressioni. Che talvolta, come è accaduto a Torino, finiscono in tragedia. Ecco cosa trasforma la passione in un incubo
di Maria Novella De Luca
È come se dal silenzio fosse affiorato un mondo di dolore fino ad ora nascosto e taciuto. Due milioni e settecentomila donne hanno subito in Italia molestie e persecuzioni da ex mariti, ex amanti, ex fidanzati. E da quando nel febbraio del 2009 è entrata in vigore la legge che istituisce e dunque punisce il resto di stalking, in pochi mesi ci sono state 7000 denunce e 1200 arresti. Testimonianza di quanto il fenomeno, ancora sommerso, sia esteso, trasversale ai ceti, annidato negli ambienti più diversi. Le vittime di questo "amore molesto", che da persecuzione si può trasformare in omicidio, sono nel 78,94% dei casi donne, e nel 21,06% uomini, e ogni giorno 17 persone vengono denunciate per molestie reiterate, reato punito oggi con la reclusione da 6 mesi a 4 anni. Persecutori, cacciatori: raccontare l´universo (e l´Italia) dello stalking, vuol dire entrare in buio di ossessioni e di paure, di vittime aggredite e violate, che vivono con il terrore di uscire di casa, di alzare il telefono, di portare al parco i propri bambini, di ogni angolo dove potrebbe nascondersi l´aggressore.
Come accadeva a Maria Montanaro, che aveva 36 anni, e a Sonia Balcone, che di anni ne aveva 43 e una figlia di 5, prima che il loro ex, Gaetano De Carlo, si trasformasse da stalker implacabile in serial killer, ammazzandole una dopo l´altra in un´unica sola giornata, e avrebbe continuato ad uccidere se non fosse stato fermato. Poi De Carlo, ex carrozziere che viveva a Cremona, braccato e inseguito si è sparato un proiettile alla tempia con la sua 7,65. Un lucido piano omicida perché quelle due donne "non fossero più di nessuno". È questa la spinta, spiegano gli psicologi, che può trasformare un ex in un persecutore e poi in un killer. «Un desiderio di possesso così estremo da portare all´assassinio e poi alla morte di sé - dice Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia alla seconda università di Napoli - perché tanto l´oggetto amato non c´è più, e allora a che vale vivere?».
Da poco più di un anno in Italia è in vigore la legge anti-stalking, tenacemente voluta dal ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna. E qualcosa sta lentamente cambiando, anche se complessivamente i numeri degli omicidi (tutti di donne) avvenuti per mano di ex mariti o ex compagni, in Italia continuano ad aumentare, passando dai 100 del 2006 ai 119 del 2009, e soltanto nei casi registrati dalla cronaca. «Rattrista vedere che questa volta la giustizia non sia arrivata in tempo, prima che accadesse l´irreparabile, perché il senso della legge sullo stalking è innanzitutto quello di prevenire gesti più gravi - commenta infatti con amarezza il ministro Carfagna -. Mi rincuora però sapere che oggi, finalmente, le vittime di stalking hanno gli strumenti per liberarsi dall´incubo. Ci sono riusciti in tanti: in poco più di dodici mesi, infatti, vi sono stati 1.216 arresti a fronte di oltre 7mila denunce». E forse, chissà, le cose sarebbero potute andare diversamente se davvero De Carlo, denunciato ben 7 volte per molestie, di fronte ai giudici ci fosse arrivato davvero, ma la sua decisione omicida ha preceduto l´udienza davanti al Gup di Cremona, che si sarebbe dovuta tenere nel novembre prossimo. Eppure, ragiona il ministro Carfagna, «che la legge funzioni lo dimostra paradossalmente questa assurda storia, perché oggi, a poco più di 12 mesi dall´introduzione nel Codice del reato di stalking, ci trovavamo alla vigilia di un processo».
«Eravamo una famiglia splendida», dice sconvolto e tra le lacrime Guido Olivari, marito di Sonia Balcone, che adesso dovrà crescere da solo la sua bimba di 5 anni. «De Carlo non si faceva sentire da un anno, dopo l´ultima denuncia speravamo che ci avrebbe lasciati tranquilli». E invece è in questi mesi antecedenti al processo che forse è maturato il suo piano. Perché, come dicono giudici, esperti, psicologi, in questo "tempo scoperto" può accadere di tutto. Giovanna Fava è una delle avvocate del Forum delle donne giuriste ed è tra le autrici di un saggio edito da FrancoAngeli "Stalking e violenza alle donne". «Il tempo che intercorre tra le indagini preliminari e il processo è davvero pericoloso per le vittime. Perché i loro persecutori sono a piede libero, possono trovarle, aggredirle, e non sempre le forze dell´ordine riescono a proteggerle. Come in questo caso: se il processo si fosse celebrato per direttissima forse le due donne sarebbero ancora vive. La verità è che la legge sullo stalking oggi ci dà uno strumento in più per contrastare un fenomeno drammatico, dove le vittime sono in piccola parte anche uomini, ma poi ciò che manca è la tutela di chi è perseguitato». «Troppo spesso ancora - aggiunge Giovanna Fava - le denunce di molestie vengono sottovalutate, spesso gli aggressori non vengono arrestati in tempo. So che il ministero per le Pari opportunità sta facendo dei corsi di formazione per le forze di polizia. È giusto, perché in Italia noi non abbiamo ancora le lenti giuste per vedere e prevenire questo tipo di reati».
Reati gravi. Tanto che per lo stalking sono previste, ancora, le intercettazioni telefoniche. Fondamentali. Basta leggere una delle tante denunce per capire quanto spesso le vittime vengano perseguitate, ad ogni ora del giorno e della notte, su telefoni cellulari e fissi, costrette a cambiare schede, numeri e a sobbalzare a ogni squillo. «Che il governo faccia sul serio lo dimostra il fatto - aggiunge Mara Carfagna - che ho chiesto e ottenuto che, emendando il disegno di legge attualmente in discussione, questo reato fosse inserito nell´elenco di quelli per i quali saranno sempre consentite le intercettazioni telefoniche».
Ma che cosa trasforma un uomo (e raramente una donna) con cui si è avuta una relazione in un persecutore? Anna Costanza Baldry, oltre ad essere docente di psicologia, è responsabile da oltre due anni dello sportello anti-stalking Astra della Provincia di Roma. «La nuova legge è perfettibile, però il dato di fatto è che oggi in Italia è possibile difendersi. Da un punto di vista psicologico, lo stalking, anche nei casi più estremi, deriva raramente da una patologia mentale. I persecutori sono lucidi, sanno cosa fanno. È che non riescono ad accettare di aver perso il dominio sulla persona che una volta gli era accanto». «E spesso - racconta Baldry, autrice del libro "Dai maltrattamenti all´omicidio" - già in coppia questi uomini si dimostravano gelosi, possessivi, incapaci di accettare che la donna avesse una vita autonoma... Quando poi la storia finisce, le tentano tutte. Fanno capire alla vittima di non poter vivere senza di lei, alternano minacce a dichiarazioni d´amore, regali ad aggressioni. E spesso le vittime sono confuse, arrivano addirittura a ritirare la querela. Questo a mio parere è un punto debole della legge». Visto che è ormai evidente quanto una persona perseguitata possa essere manipolata. «Infatti - conclude Anna Costanza Baldry - ogni volta che una donna vittima di stalking viene da noi, allo sportello Astra, quello che consigliamo è di non cedere mai alle richieste di colloquio, non accettare l´ultimo incontro, ma di cercare una casa protetta».
In realtà difendersi dallo stalking è un´operazione complessa. Come dimostrano le esperienze e le leggi di Paesi che prima del nostro, dall´Austria alla Germania, hanno istituto il reato di persecuzione e molestia reiterata. Non è sempre facile dimostrare in tribunale di essere vittime di stalking. «Per questo come legali - conclude Giovanna Fava - ciò che noi consigliamo alle donne è di tenere un diario di tutto ciò che accade, per documentare ogni tentativo di contatto da parte dello stalker. E poi, ed è la cosa più difficile, bisogna interrompere ogni contatto, non accettare ma nemmeno rispedire lettere o regali, gesti che potrebbero essere interpretati come apertura di comunicazione. Quindi coinvolgere nella propria battaglia la famiglia, gli amici, e soprattutto le forze dell´ordine. Perché uno stalker rifiutato può uccidere». È la cronaca di questi giorni.
Repubblica 2.7.10
Siena, polemiche per l´opera dell´artista libanese Alì Hassoun
Simboli islamici sulla Madonna il drappo del Palio irrita la Curia
SIENA - È polemica a Siena sul drappellone dipinto dall´artista libanese Alì Hassoun, che stasera andrà in premio alla contrada vincitrice del Palio di luglio intitolato alla Madonna di Provenzano. L´Arcidiocesi promuove San Giorgio con la kefiah, ma non la mezzaluna dell´Islam sulla corona della Vergine Maria. E l´autorità religiosa locale chiede, per il futuro, di essere «resa partecipe» nella commissione e nella realizzazione dell´opera perché sia «rispettata l´iconografia tradizionale del Palio, che è oggetto di devozione, benedetto e esposto in chiesa».
«L´opera di Hassoun - secondo l´Arcidiocesi - richiama con immediatezza l´effigie della Madonna di Provenzano e il guerriero sottostante può essere identificato con San Giorgio che uccide il drago-Satana. Più problematico è l´inserimento sulla corona della Vergine della Mezzaluna, simbolo dell´Islam, e della stella di Davide, effigie dell´Ebraismo. Anche l´inserimento di una citazione del Corano si presta a discussione, in quanto per i musulmani Maria è semplicemente madre di un profeta, e non madre di Dio». Ieri Hassoun è tornato a difendere la sua opera: «È a favore del dialogo tra culture. Il demone sotto San Giorgio rappresenta il terrorismo e l´ignoranza».
(ma.bo.)
Repubblica 2.7.10
Il viagra rosa? Roba da maschi
di Natalia Aspesi
Il Viagra per signore, per ora non ancora in commercio, certo sarebbe una manna: per gli uomini, ovviamente, che potrebbero illudersi di essere loro, con il loro fascino, ad assatanare una partner altrimenti sfuggente e sbuffante. La sociologa-antropologa americana Camille Paglia ha dato su "Repubblica" una spiegazione storica-economica-politica del perché la farmacologia non troverà mai un Viagra femminile. Ma ci sono anche ragioni meno colte, da posta del cuore, a rendere antipatico un simile farmaco: si avrà pure il diritto di non averne voglia e quindi di lasciar perdere, oppure si dovrà pensarlo come a un lavoro, a un dovere, a una necessità, cui adattarsi appunto con una pillola? Certo ci sono signorine in varie carriere scalate mediante anziani per niente appetitosi ma potenti, che giusto per una promozione più veloce potrebbero lusingarli con scintille da Viagra rosa. Ma si sa che in questi casi da secoli le donne hanno la grande arma della finzione che oltretutto, a differenza della pillola arrappante, non fa venire la nausea, neppure se il potente è nauseabondo.
l’Unità 2.7.10
Domani il Pride a Roma Un bacio collettivo apre il corteo
Conto alla rovescia per il pride di Roma, dopo una stagione di aggressioni come non si era vista prima. Ad aprire il corteo che partirà domani alle 16.30 dalla Piramide per arrivare in piazza Venezia passando per la gay street, un bacio collettivo, segno che ogni bacio è una rivoluzione. Nell’attesa non mancano le polemiche. «Roma è gay»: la frase provocatoria comparsa ieri in alcune strade della capitale farà discutere. Mentre è emblematico l’invito rivolto dalle colonne del Secolo a Berlusconi: apra le porte di palazzo Chigi ai gay, sull'esempio del premier Tory, David Cameron, che ha ospitato la festa di apertura del Pride londinese a Downing Street. Ci sono anche a destra lesbiche, gay e trans e sfileranno a Roma (www.Romapride2010.it). La prideweek è iniziata lunedì con incontri culturali e feste. Intanto per la prima volta le divisioni dentro il movimento gay hanno superato la cortina dei contatti interni per approdare ai media. A mancare sarà il circolo Mario Mieli, in prima fila nelle edizioni passate, in seguito a tensioni esplose nella fase organizzativa. Il rischio è di esporre la parata ad una sorta di prova del fuoco: il popolo dei manifestanti riuscirà ad andare oltre e a ribadire che il pride è di tutti? Ce la farà a manifestare per la conquista dei diritti lasciando a casa le tensioni delle associazioni? Tra i tanti inviti a non dividersi citiamo “Nuova Proposta” gruppo di gay credenti: c’è chi aspetta un segno di speranza, saremo al pride come “obbligo di servizio”. Il grande tema sono le discriminazioni delle quali portano i segni sulla pelle i tre portavoce: Mattia Cinquegrani, il ragazzo di 23 anni insultato e aggredito sull’autobus N8 la notte tra il 24 e il 25 aprile, Luana Ricci, musicista licenziata dopo 18 anni di servizio nella diocesi di Lecce perché trans e Esther Ascione, 21 anni di Anguillara Sabazia vittima di episodi di omofobia. Mentre la Polverini non ha detto un “no” deciso a chi le ha chiesto lumi su una sua eventuale partecipazione, finora hanno aderito al Pride il governatore della Puglia Nichi Vendola, Vladimir Luxuria, Paola Concia, Sabrina Impacciatore, Elio Germano e Marisa Laurito.
l’Unità 2.7.10
«Non dimentichiamo che siamo un Paese di immigrati, dobbiamo avere coraggio»
Usa, 11 milioni di clandestini Obama: non possiamo cacciarli
di Virginia Lori
Undici milioni di clandestini in terra americana. Barack Obama non vuole girare la testa dall’altra parte. «Non possiamo mandarli a casa», dice al Paese lanciando la nuova sfida sul tema rovente dell’immigrazione.
È la nuova sfida di un presidente che sa cosa significhi «immigrato». Quello dell'immigrazione è uno «dei temi fondamentali» di questa generazione, e l'America «non deve dimenticare di essere un Paese di emigranti»: ad affermarlo è il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ieri alla Ameri-
can University di Washington è intervenuto per presentare le nuove linee politiche per una «riforma complessiva» delle leggi che in Usa regolano l'immigrazione.
SFIDA EPOCALE
Questa amministrazione «si rifiuta di ignorare le sfide fondamentali del nostro tempo» dice Obama, sottolineando che dopo la riforma sanitaria, la riforma finanziaria, la nuova politica energetica, la sua amministrazione intende affrontare una riforma complessiva dell'immigrazione. Una battaglia di civiltà. Un sistema di regole sull'immigrazione che funzioni «non è solo un tema di carattere politico o economico, è anche un tema di carattere morale», af-
ferma Obama. Per una riforma dell' immigrazione «all'altezza del nostro tempo», «l'America deve ricordarsi di essere una terra di immigrati», e rifarsi alla storia di milioni di americani giunti «in questa terra di opportunità dall'Olanda, dall'Italia, dalla Polonia, da altri Paesi europei»: in questi termini Obama ha invitato il Congresso ad affrontare la questione immigrazione. «È tempo di avere coraggio ha detto -, di porre in secondo piano gli interessi politici di parte» e cercare, insieme, di mettere a punto «un sistema funzionale e giusto» ispirato a quegli stessi valori da cui l'America deriva. Nel suo discorso Obama è stato comunque molto attento a non usare la parola sanatoria, vista come il fumo negli occhi dai repubblicani, anzi affermando che l'idea di dare automaticamente a tutti i clandestini lo «lo status legale» è «ingiusta e poco saggia». Ma, ha poi sottolineato, come possa essere ingiusto dal punto di vista morale «punire persone che stanno cercando solo di guardagnarsi da vivere». «È impossibile pensare di mandare a casa 11 milioni di persone, che sono strettamente integrate nel tessuto economico dell'America», sottolinea Obama. Nello stesso tempo «ogni Paese ha il diritto e il dovere di avere il pieno controllo dei suoi confini»; e gli immigrati illegali «non devono pensare che se varcano i confini illegalmente non subiranno per questo alcuna conseguenza».
VALORI E PRAGMATISMO
Per quanto riguarda i confini, Obama ricorda come ora siano più controllati di 20 anni fa e che intende continuare ad impegnarsi in questa direzione. Ma anche aggiunto che il problema non si può risolvere solo costruendo barriere sempre più alte e aumentato il numero di pattuglie: «I nostri confini sono troppo vasti per risolvere il problema solo con barriere e pattuglie, non funzionerà». «Per fermare l'immigrazione illegale dobbiamo riformare il nostro sistema che non funziona dell'immigrazione legale ha detto il presidente la domanda è se abbiamo il coraggio e la volontà politica di far passare la legge al Congresso e avere finalmente la riforma». Obama ha ricordato come la controversa legge approvata dall'Arizona abbia drammaticamente portato alla ribalta la questione: il Paese si è diviso, «alcuni hanno sostenuto la legge, altri l'hanno criticata lanciando boicottaggi, ma tutti condividono la frustrazione per un sistema che non funziona». «La magggioranza democratica è pronta ad andare avanti» afferma Obama, che è forte anche del sostegno, secondo i sondaggi, della maggioranza degli americani e di molte associazioni civili Usa, quelle religiose in testa. Ora la palla passa ai repubblicani, senza il cui sostegno la legge non potrà passare al Senato. È tempo di scelte coraggiose e di un Paese che non alzi Muri divisori: è la nuova sfida di Obama.
l’Unità 2.7.10
Bimbi in Cisgiordania
L’inferno dimenticato dell’infanzia murata
44%. Sono i bambini in Cisgiordania che patiscono la diarrea causa mortalità infantile
60.000. Sono i bambini impediti a raggiungere le loro scuole a causa del Muro nei Territori
220. Sono i bambini morti per restrizioni imposte da Israele nella seconda intifada
322. Sono i bambini palestinesi uccisi a Gaza durante l’operazione «Piombo Fuso»
Non solo Gaza. Il rapporto di Save the Children alza il velo sulle condizioni di vita nella West Bank: mancano cibo e medicine, le scuole sono fatiscenti Le voci dal campo profughi: «Sono palestinese. È questa la mia colpa?»
di Umberto De Giovannangeli
Una infanzia «murata». Quella dei bambini palestinesi di Cisgiordania. Una condizione meno conosciuta ma non per questo meno grave di quella dei bambini di Gaza. Anzi, per certi aspetti, l’infanzia «murata» dei bambini palestinesi di Cisgiordania è ancora più disperata di quella dei bambini condannati a crescere in quella prigione a cielo aperto di nome Gaza. Ad accendere i riflettori sui bambini di Cisgiordania è Save the Children nel suo rapporto aggiornato sulla povertà infantile nei Territori.
Gli autori del documento evidenziano il deteriorarsi della situazione nella cosiddetta zona C della Cisgiordania, quella rimasta sotto il controllo diretto di Israele anche dopo la nascita dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). E puntano il dito contro le restrizioni imposte alla gente che ci vive e la carenza d'infrastrutture di base: la cui manutenzione affermano è ostacolata dalle autorità israeliane. Nel rapporto si fa riferimento al pessimo stato di case, scuole, sistemi fognari e strade in gran parte della zona C, nonché al persistente disagio di migliaia di persone che continuano a vivere in tende e senza accesso ad acque pulite. L'uso dei terreni agricoli risulta inoltre negato, a causa di confische o di ragioni di sicurezza invocate dai militari, a numerose famiglie. In tale contesto, stima Save the Children, il 79% delle comunità residenti nella zona C della Cisgiordania vive oggi in una situazione di «nutrimento carente». Una percentuale, particolarmente alta fra i beduini, che si rivela addirittura superiore al 61% registrato nella Striscia di Gaza, da oltre tre sottoposta da Israele a uno stringente blocco dei confini. Parallelamente si segnala un «picco di crisi» nella diffusione delle malattie infantili. La diarrea principale causa di morte fra i piccoli sotto i 5 anni nel mondo colpisce oggi il 44% dei bambini della zona C, sottolinea il rapporto. Mentre i ritardi nella crescita sono due volte più frequenti che a Gaza e i casi di malnutrizione patologica riguardano ormai un bambino su 10.
Il rapporto denuncia poi le limitazioni d'accesso imposte a varie organizzazioni umanitarie in parte della zona C e chiede a Israele d'allargare le maglie, oltre che di mettere fine a demolizioni di case palestinesi e confische di terre. Quanto all'Anp, sollecita maggiori sforzi per convogliare investimenti e aiuti in quest'area. «La comunità internazionale ha giustamente focalizzato di recente la sua attenzione sulle sofferenze delle famiglie di Gaza, ma la triste condizione dei bambini della zona C non può essere ignorata», rimarca Salam Kanaan, responsabile di Save the Children nei Territori palestinesi. Osservando che «il miglioramento della situazione» economica complessiva nel resto della Cisgiordania non può cancellare «le sofferenze e l'incremento di povertà e malnutrizione» fra le comunità più esposte.
Storie di sofferenza. La sofferenza al di là del Muro. Quando dobbiamo trasferire d'urgenza un bambino da Betlemme a Gerusalemme racconta suor Erika, impegnata nel Baby Hospital di Betlemme bisogna chiedere una montagna di permessi. Basta un dubbio e l'ambulanza viene rimandata indietro ». E quando tutto è in ordine? «Il check point non può essere attraversato da un’ambulanza palestinese: il bambino deve essere trasportato a piedi, magari col respiratore, fino all'autolettiga israeliana incaricata di portarlo fino all'ospedale».
Stefano Apuzzo, Serena Baldini e Barbara Archetti hanno realizzato un libro bellissimo, toccante: Lettere al di là del Muro. Dai bambini dei campi profughi palestinesi (I libri di Gaia). Il libro contiene le lettere piu belle e toccanti dei bambini che vivono nei campi profughi palestinesi alle porte di Gerusalemme. Le loro famiglie furono espulse dai villaggi natii alla nascita dello Stato di Israele nel 1948 e dopo l’occupazione illegale dei Territori Palestinesi nel 1967.
Cosa significa per dei bambini crescere ingabbiati da un muro di cemento altro 9 metri, senza la possibilità di non uscire mai dai campi in assenza della “carta blu”? Lettere al di là del muro è un testo di bambini palestinesi che si raccontano senza remore e paure, una testimonianza unica e preziosa. Marah ha 14 anni, questa è la sua lettera: «Sono una ragazza di 14 anni del campo di Qalandja. Chiedo al mondo arabo, al mondo occidentale e a tutti gli esseri umani sulla terra: che colpa ha l’infanzia per essere uccisa così in Palestina? Io sono nata in Palestina, è questa la mia colpa? E ancora, sono nata in una zona ancora più piccola della Palestina, un campo profughi. Che colpa ne ho io se gioco con una pietra o un fucile, al posto di giocare con una bambola o una macchinina? Che colpa ne ho io se mangio una volta sola al posto che tre? Che colpa ne ho io se abito con tutta la mia famiglia in una sola stanza con un bagno ed una cucina? Dove sono la mia stanza, la mia bambola, la mia vita? Perché devo giocare per la strada, ma non in un campo giochi? La mia colpa è essere palestinese? Essere bambina costretta a vivere in questo posto occupato? O forse la mia colpa è non riuscire a togliermi di dosso questa occupazione? Io non riesco a trovare qualcuno che risponda alle mie domande, ma io continuo a vivere la mia vita in questo piccolo posto nonostante tutto, perché io appartengo a questo campo e sono orgogliosa di questo campo, perché è il mio Paese, è la mia patria ed è il posto dove morirò...».
Iman Juhaleen ha 12 anni. Ma una maturità da adulta: La mia vita nel campo è molto normale perché mi ci sono abituata. Ci sono persone buone e persone cattive perché le dita di una mano non sono tutte uguali, sono diverse. Ci sono i buoni e quelli che non lo sono, la gente che vive in questo campo è così. Nel campo vive tantissima gente e ci sono tanti centri e scuole, medici, negozi e la clinica dell’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ndr) , che da quando è stato costruito il campo ha la direzione dei servizi, ed i negozi di arredamento e di elettrodomestici e le farmacie e i venditori di vestiti e i fornai, tutto quello che serve. Grazie a Dio ci mancano solo alcune cose che considero poco importanti, come la pulizia delle strade. Se la gente si aiutasse e si impegnasse di più il campo sarebbe più pulito, per noi e i nostri figli e per tutta la società, io e le mie amiche discutiamo di questo argomento. Visto che siamo un popolo istruito e colto dobbiamo risolvere i nostri problemi e non aspettare che vengano risolti da altri. La nostra situazione è più difficile che nel passato per la presenza del Muro di separazione razziale che ci circonda da tutti i lati, siamo diventati come un uccello in gabbia. È questo il grosso problema che affrontiamo. Quando ci sono delle difficoltà prego tutti gli abitanti del campo di affrontarle insieme, mano per mano. Purtroppo, quando vado fuori dal campo, nelle città vicine, vedo che non ci sono gli stessi problemi, mi auguro con tutto il cuore di diventare come loro. Perché siamo capaci di migliorare la nostra situazione, continueremo e riusciremo a fare molto con la volontà. Nel futuro vorrei essere una giornalista e vorrei diventare importante. ..». Per decine e decine di chilometri il Muro in Cisgiordania supera gli otto metri di altezza (il doppio del Muro di Berlino). Quel Muro divide migliaia di bambini palestinesi dalle loro scuole. Distrugge il loro presente. Cancella la speranza nel loro futuro.
Pd: Donaggio, Lombardi riferimento Libertà e dignità lavoro
Riscoprire la lezione umana e politica di Riccardo Lombardi e' fondamentale specie in una situazione a alto rischio per la tenuta democratica del Paese: Riccardo e' stato ed e' il punto di riferimento insostituibile per difesa della democrazia e la dignita' del lavoro, cui spese un'intera vita. Lo dice la senatrice del Pd, Franca Donaggio che plaude alla riscoperta dell'Ingegnere 'acomunista' da parte del Pd. "Sono stata per trent'anni nella Cgil, il mio ultimo incarico e' stato quello di responsabile delle politiche delle donne, e - precisa orgogliosa - nella componente lombardiana. Fu Bruno Trentin, molto legato a Lombardi, a volermi a Roma: con Fausto Vigevani, un lombardiano doc, sono stati i miei maestri, di cui sento ancora forte la mancanza". Ora il Pd mostra interessa per Lombardi e la Donaggio plaude. "Riscoprire Riccardo vuol dire reimettere nella politica l'etica e la responsabilita' e certi valori come l'onesta', il rigore e la coerenza - aggiunge - che sono qualita' fondamentali per far vivere la democrazia: e in questo Riccardo e' stato un esempio di pulizia per tutti. Oltre che ovviamente portatore di un 'pensiero forte' rivolto sempre a sinistra e al mondo del lavoro". E su questa direttrice il feeling con due dei maggiori sindacalisti della Cgil, Vigevani e Trentin. "E' la storia a dirci - conclude la Donaggio - che le piu' grandi conquiste (le liberta' sindacali, la formazione continua, la dignita' del lavoro, la riduzione dell'orario di lavoro, la partecipazione) per il mondo del lavoro hanno avuto come protagonista Lombardi: fu lui a porre nel 1962 l'esigenza dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori attuato poi da Giacomo Brodolini e oggi messo in seria discussione". (AGI) Pat
l’Unità 2.7.10
Desaparecidos. 250 eritrei arrestati sulla rotta di Lampedusa e finiti nel lager libico
La protesta. Gli immigrati rifiutano le generalità, scontri con la polizia: i feriti deportati a Brak
Il pugno duro di Gheddafi sulla rivolta dei senza diritti
di Umberto De Giovannangeli
I «desaparecidos» di Maroni. Centinaia di eritrei respinti a Lampedusa, picchiati in Libia, di cui da giorni non si hanno notizie. La denuncia della comunità eritrea in Italia. I silenzi delle autorità italiane.
La rivolta dei senza diritti si consuma nel silenzio. Il silenzio complice della Comunità internazionale. Il silenzio di un Governo, quello italiano, che ha aperto un credito illimitato al Colonnello di Tripoli.Il silenzio che copre la vergogna dei « desaparecidos» voluti dall’Italia. Un silenzio rotto dalla coraggiosa e documentata denuncia di Fortress Europe e del suo giovane e instancabile animatore, Gabriele Del Grande.
NESSUNA NOTIZIA
Ciò che aspetta i respinti è cosa nota (tranne ai governanti italiani...): rinchiusi in carcere in Libia. Ma adesso rimarca Del Grande il problema è capire che fine faranno. All'alba del 30 giugno Fortress Europe ha perso le loro tracce. Due container sono partiti carichi di 300 persone uomini, donne, bambini lasciandosi alle spalle i cancelli del campo di detenzione di Misratah. Un reparto dell' esercito ha fatto irruzione nelle celle in piena notte. Le ultime telefonate d'allarme sono giunte alle cinque del mattino. Poi il silenzio: tutti i telefonini sono stati sequestrati. I detenuti portati via sono tutti eritrei, uomini e donne, compresi una cinquantina di minorenni e diversi bambini.
Tutti arrestati sulla rotta per Lampedusa, chi respinto in mare nell'ultimo anno e chi fermato nelle retate della polizia libica a Tripoli. «La diaspora eritrea, da Roma e da Tripoli, ci ha chiesto afferma Del Grande di dare la massima diffusione alla notizia, perché il rischio di un'espulsione di massa a questo punto è molto alto». Che a Misratah tirasse una brutta aria lo si era capito da un pezzo. Da quando, tre settimane fa, il governo libico aveva espulso l'Alto Commissariato dei Rifugiati delle Nazioni Unite, che proprio a Misratah aveva regolare accesso da ormai tre anni. Ma i guai sono arrivati nella giornata dell’altro ieri.
I militari libici è sempre Del Grande a denunciarlo hanno consegnato ai detenuti i moduli dell'ambasciata eritrea per l'identificazione. Tutti si sono rifiutati categoricamente di fornire la propria identità all'ambasciata, temendo che fosse il primo passo per un'espulsione collettiva. Al loro rifiuto la tensione è salita, fino a sfociare in una rivolta, con un durissimo scontro con le forze di sicurezza. Qualcuno ha tentato di scavalcare il muro di cinta e fuggire, ma l'evasione è stata presto sventata e la protesta duramente repressa a colpi di manganellate.
APPELLO ACCORATO
Secondo Mussie Zerai, responsabile dell’agenzia Habesha(Ong che si occupa dell’accoglienza dei migranti africani) che da Roma ha potuto raggiungere telefonicamente alcuni detenuti di Misratah, ci sarebbero una trentina di feriti gravi, che sarebbero stati portati via nei container insieme a tutti gli altri. Habesha riferisce anche di tentati suicidi per evitare la compilazione dei moduli di identificazione: «La situazione è drammatica», conferma a l’Unità Zerai. La comunità degli eritrei di Tripoli ha lanciato ieri pomeriggio un allarme per lo stato in cui versano i loro connazionali trasferiti ieri dal Centro di Detenzione di Misurata al carcere di Brak, nella valle dello Shaty, nel Sud della Libia, a circa 75 chilometri da Seba. Dopo una intera di giornata di viaggio all'interno di tre camion-container,gli eritrei sono arrivati al centro di Brak nella serata di ieri. «Li stanno picchiando riferisce un eritreo in contatto con alcuni di loro temono di non sopravvivere». Secondo alcune testimonianze sempre di fonte eritrea, fra loro ci sarebbero anche diversi feriti, che però non avrebbero ancora ricevuto alcuna cura. Intanto le Ong di Tripoli che si occupano di rifugiati, Cir e Iopcr, riferisce una fonte vicina alle associazioni, riceveranno nella giornata di domenica una visita da parte del direttore del Centro di Brak e nei prossimi giorni hanno programmato una visita a Misurata, dove sono rimaste 80 donne eritree e alcuni bambini e poi, almeno questo è nelle loro speranze, una visita a Brak per constatare le condizioni degli eritrei. La diaspora eritrea da anni passa attraverso Lampedusa per chiedere asilo politico in Europa. La situazione ad Asmara si fa di giorno in giorno sempre più grave.
VIOLENZE QUOTIDIANE
Non è da oggi che Fortress Europe documento le violenze che segnano la quotidianità di migliaia di disperati nei «campi di accoglienza» libici. Grazie a Fortress Europe sappiamo, ad esempio, del massacro di Benghazi. Attraverso foto scattate con un cellulare, e sfuggite alla censura, Del Grande ha svelato come la polizia libica ha ucciso sei rifugiati somali a Ganfuda. E sempre grazie a Fortress Europe si è saputo che erano eritrei i passeggeri dell’imbarcazione respinta al largo di Lampedusa il primo luglio di un anno fa. Rifugiati eritrei. Respinti nell’inferno libico dall’Italia di Berlusconi e Maroni.
l’Unità 2.7.10
Silenzio di morte
di Giovanni Maria Bellu
Fino a due anni fa all’inizio dell’estate i titoli sulla «emergenza Lampedusa» riempivano le prime pagine. Quest’anno l’«emergenza» è finita. E il ministro Maroni se ne gloria. Ma tace, come quasi tutti i media, sul costo di questo meschino trionfo in termini di vite umane.
Il costo è la condanna a morte di centinaia di uomini e di donne. I conti sono semplici: dal 2008 al 2009 le domande d’asilo che per la metà venivano accolte si sono dimezzate (da 15.000 a 8000). E il calo continua nel 2010. C’è la sicurezza statistica che alcune migliaia di perseguitati non hanno potuto raggiungere le coste italiane e salvarsi. Alcune migliaia di persone. Una briciola rispetto agli ingressi illegali che infatti, via terra, continuano massicci. I respingimenti hanno bloccato solo i disperati che fuggivano da dittature feroci e dalle guerre.
Per assecondare la propaganda della Lega Nord il governo si è fatto complice di un crimine contro l’umanità. E i media che in passato avevano dato un contributo determinante nella creazione della falsa “emergenza Lampedusa” ora quasi coralmente tacciono.
Ci sono dei bavagli che il sistema dell’informazione si è messa da tempo, senza bisogno di alcuna legge.
l’Unità 2.7.10
«Lo scempio delle regole comincia dalla scuola
Peggio delle leggi vergogna»
L’avvocato e la politologa discutono della «riforma» Gelmini dopo la bocciatura del Tar del Lazio: «Capovolti i principi costituzionali»
di Chiara Affronte
Il 24 giugno il Tar del Lazio accoglie il ricorso di 755 persone tra insegnanti e genitori contro la riforma Gelmini alle scuole superiori: i ricorrenti si appellano al tribunale amminsitrativo considerando illegittimi i tagli e le iscrizioni perché la riforma non ha ancora valore di legge. Il Tar sospende ogni provvedimento fino al 19 luglio, data dell’udienza in cui verrà confermata o meno l’ordinanza. «Un segnale importante», il commento a caldo di Milli Virgilio, legale insieme a Corrado Mauceri dei ricorrenti.
Virgilio, ex assessore alla Scuola della giunta Cofferati, incontra Nadia Urbinati, docente di Scienze Politiche alla Columbia University di New York. E insieme ragionano sulle motivazioni del ricorso e, ancor prima, sullo scenario politico che lo ha determinato. Entrambe partono da un assunto: «Non ci sono solo la legge-bavaglio e le leggi ad personam: con questo governo assistiamo ad una sistematica violazione delle regole democratiche di cui, ciò che si sta facendo nella scuola, è un esempio eclatante».
La riforma Gelmini insomma è «un caso emblematico», per Urbinati: «Dimostra un modo di governo arbitrario», i cui «obiettivi aggiunge Virgilio sono esclusivamente finanziari e di bilancio». Vengono scardinati e capovolti i principi fondamentali: «La scuola viene vista come un servizio, come fosse la sanità, scavalcando completamente la sua finzione istituzionale che assicura il principio di uguaglianza tra le persone», spiega l’avvocato. Si capovolgono le regole della democrazia, e si procede per decreti, «per emergenze». Il caso Bertolaso insegna: «Ma la scuola non è un fatto straordinario», chiarisce la politologa.
Cosa è successo, dal 2008, quando è stata fatta la Finanziaria d’estate? Ricorda Virgilio: «Di quella legge di agosto, l’articolo 64 è un piccolo tassello dedicato alla scuola. Si annuncia: “Entro un anno (il 25 giugno 2009, ndr) faremo i piani dell’offerta formativa e i regolamenti”, di fatto delegando se stessi, autorizzandosi a modificare le leggi». Della serie: il Governo fa e disfa: del Parlamento chissenefrega. In questo caso, però, la cosiddetta emergenza che permette al governo di fare il decreto legge è «il risparmio», Virgilio lo ribadisce e ironizza: «Emergenza tale, che dal 2008 ancora l’operazione non è finita....».
Insomma, «le circolari e i regolamenti assumono forza di legge e un sito internet dove vengono date di volta in volta le informazioni parificato al livello della Gazzetta ufficiale», sbotta l’ex assessore. Immediato il commento della politologa: «Una evidente violazione della divisione dei poteri: il governo diventa autonomo nel legiferare».
I motivi del ricorso al Tar, inattaccabili per l'avvocato, sono sintetizzabili in 5 punti: 1)Il governo dichiara di voler eliminare gli “sprechi” della scuola tagliando 8 miliardi di euro in 3 anni, senza preoccuparsi delle conseguenze che questo taglio ha su un’istituzione che la Costituzione individua (articolo 3-33-34) come lo strumento attraverso cui garantire il principio di uguaglianza; 2) L’uso del decreto legge è previsto dalla Costituzione solo nei casi di urgenza, ma questa operazione non è ancora conclusa, in ben due anni; 3) Il governo delega se stesso a emanare regolamenti che modificano le leggi; 4) Inoltre ha legiferato in materia di competenza regionale; 5) È stato superato il limite di scadenza del 25 giugno 2009: lo schema di decreto interministeriale firmato solo dalla Gelmini non è pubblicato in Gazzetta; 6) si sono violati i principi dell’autonomia scolastica (le iscrizioni sono state fatte su piani formativi irreali, che non si sa quali siano concretamente, non condivisi dai soggetti democraticamente previsti, ndr).
In sostanza, l'obiettivo è chiaro e deve mettere tutti in guardia: «È quello dello smantellamento della scuola pubblica», concordano l’avvocato e la politologa. Un fatto che deve far tremare l'opposizione tanto quanto la legge-bavaglio, parere delle due donne: «Qui emergono tutti gli ingredienti dello stato arbitrario: colpire la scuola pubblica è colpire il diritto di cittadinanza», riflette Urbinati. Che lancia un appello all'opposizione: «Il Pd dovrebbe indire una conferenza stampa e fare di questo tema una questione nazionale. La scuola non può continuare ad essere considerata un fatto secondario nel nostro Paese dove peraltro si riscontrano nuove forme di analfabetismo. L'opposizione lanci una campagna». perché, prosegue Virgilio, «quello che il governo fa nella scuola colpisca l'opinione pubblica tanto quanto la legge-bavaglio».
Questo governo, per la politologa, «non è schizofrenico, ma ha un’idea e la persegue». Il «nemico» numero uno, osserva Urbinati, «è il sociale perché loro sono figli dell’individualismo puro: i poveri fanno gli schiavi a zero diritti e vanno aPomigliano».L’«animaliberistaè una delle due anime del governo Berlusconi: la prima è quella patrimonialista che si occupa degli interessi del premier, l'altra, perseguita da Brunetta, Sacconi e Tremonti, è quella di attacco al sociale», in tutte le sue declinazioni.
Repubblica 2.7.10
Più 1,5% rispetto al 2009 unico dato in controtendenza
Nella scuola dei tagli aumentano i prof di religione
di Salvo Intravaia
È l´unico dato in controtendenza. Per il resto meno cattedre e classi, e precari espulsi
In 12 mesi gli insegnanti di ruolo sono diminuiti del 4%, i bidelli e i tecnici del 6%
ROMA - Per la scuola italiana travolta dai tagli, l´unico segno più è per gli insegnanti di Religione. Il ministero dell´Istruzione ha appena pubblicato l´annuale dossier dal titolo "La scuola statale – sintesi dei dati, anno scolastico 2009/2010": il corposo volume di 342 pagine che contiene tutti i numeri dell´anno appena trascorso. Una pubblicazione di routine, che quest´anno però riserva una sorpresa: in mezzo a tanti segni meno, rispetto al 2008/2009 una delle poche voci che cresce è quella dei docenti di Religione. È lo stesso ministero a certificarlo. Il confronto con un anno fa consegna un quadro della scuola italiana con sacrifici per tutti, dagli alunni disabili ai precari, tranne che per gli insegnanti di Religione. Un dato che appare in netta controtendenza col taglio delle classi e con il lento ma graduale spopolamento delle aule quando sale in cattedra il docente individuato dal vescovo. Quella dei docenti che impartiscono l´unica ora di lezione facoltativa prevista dall´ordinamento scolastico italiano è questione che ha destato sempre polemiche.
Quando nel 2004 l´allora ministro dell´Istruzione, Letizia Moratti, pensò di stabilizzarli attraverso due distinti concorsi il mondo politico-sindacale si spaccò in due. Anche perché tra i titoli necessari per accedere al concorso, riservato a coloro che avevano prestato servizio per almeno 4 anni negli ultimi dieci (dal 1993/1994 al 2002/2003), occorreva essere in possesso dell´idoneità rilasciata dall´ordinario diocesano. Ma il secondo governo Berlusconi non si curò troppo delle polemiche e bandì ugualmente il concorso, che nel settembre 2005 consentì per la prima volta nella storia dello Stato italiano l´immissione in ruolo dei primi 9167 docenti di Religione. Da allora il loro numero è sempre cresciuto, fino alla cifra record (26.326 unità) dell´anno scolastico appena archiviato. I quasi 14 mila prof di ruolo, in leggera flessione rispetto a 12 mesi fa, sono stati abbondantemente compensati dai colleghi precari: 12.446 in tutto. Nel frattempo, la scuola italiana è stata oggetto di tagli senza precedenti. Nel triennio 2009/2012 spariranno 133 mila cattedre per un totale di 8 miliardi di euro. Ma non solo: l´incremento degli alunni disabili (da 175.778 a 181.177 unità) è stato fronteggiato con un taglio netto di oltre 300 cattedre di sostegno. Quasi 37 mila alunni in più sono stati stipati in 4 mila classi in meno. E sono diminuiti persino i plessi scolastici: 92 in meno. È toccato al personale della scuola pagare il prezzo più alto al risanamento dei conti pubblici. In un solo anno gli insegnanti di ruolo sono calati del 4%, senza nessun recupero da parte dei precari che hanno dovuto salutare quasi 14 mila incarichi con relativo stipendio. Per non parlare del personale di segreteria, dei bidelli e dei tecnici di laboratorio: meno 6% in 12 mesi. L´anno appena trascorso ha visto anche il varo della riforma Gelmini per il primo ciclo (scuola elementare e media), col calo delle ore di lezione e del tempo prolungato alla scuola media. Ma è stato anche l´anno delle proteste dei dirigenti scolastici per il taglio ai fondi d´istituto e del congelamento per un triennio (dal 2011 al 2013) degli stipendi degli insegnanti.
l’Unità 2.7.10
La distruzoine della cultura
Decreto Bondi: un nuovo «Fahrenheit 451»?
di Vincenzo Vita
Tra i temi della manifestazione di ieri a piazza Navona e in tante altre piazze d’Italia, vi era anche quello serio e drammatico della crisi della lirica e dei teatri d’opera. Il decreto Bondi convertito la settimana scosa in legge col voto definitivo di Palazzo Madama ha inferto un grave colpo alla cultura italiana. Il testo, ancorché sia stato arato da qualche emendamento nel corso del viaggio tra Senato e Camera, rimane inaccettabile e viziato da evidenti profili di illegittimità costituzionale.
Innanzitutto, la “forma decreto”, che poteva essere evitata presentando un disegno di legge, secondo i termini discussi un anno fa in Commissione cultura del Senato: non c’era infatti alcuna urgenza.
Punto cruciale, è quello relativo al ruolo delle Regioni. L’articolo 117 della Costituzione assegna loro un ruolo molto specifico e la riforma del Titolo V della Costituzione aveva dato proprio alle Regioni specificamente una fisionomia del tutto diversa da quella che si evince dall’articolato del decreto, ormai diventato legge. Vi è una evidente sottrazione di potestà e di ruolo. Inoltre, si fa rinvio a un regolamento, che si tende a definire “rafforzato”, che confligge proprio con la natura dei rapporti tra Stato e Regioni. Si può supporre che qualche Regione farà ricorso e il fragile testo molto difficilmente resisterà alle obiezioni della Corte costituzionale.
È bene ricordare che questo Governo è al suo cinquantasettesimo decreto-legge e che sono state richieste ben trentaquattro fiducie. La decretazione d’urgenza non è più un’eccezione, come dovrebbe essere secondo la Costituzione quanto una sorta di commissariamento dell’attività del Parlamento, ridotto a spettatore, a semplice audience, come di moda nell’ambito di un governo televisivo.
Questa legge anticostituzionale fa il paio con tanti tagli in corso d’opera alle attività culturali, alle attività dei saperi, alle attività dell’informazione: una sorta di novello «Fahrenheit 451». Il settore lirico-sinfonico merita una riforma, una legislazione moderna, evoluta e adatta al secolo della conoscenza e della multimedialità. Così non è. La legge Bondi ci riporta indietro, toglie anche quel poco di buono che era nella normativa pregressa, la rende forse inapplicabile e, anche per questo, a poco valgono alcuni ritocchi se il contesto rimane quello.
«Tagli e bavagli» era il tema della mobilitazione di Roma di ieri, promossa dalla Fnsi e da Articolo21. Tagli ai saperi (l’Eti è sciolto, gli Enti culturali dimezzati nel finanziamento), alla scuola (mannaia Gelmini-Tremonti) e all’informazione (le proposte liberticide sulle intercettazioni). Non si parlerà, non si studierà: non si canterà nemmeno?
Vincenzo Vita è vicepresidente della Commissione Cultura del Senato
Repubblica 2.7.10
Firenze, l'allarme della direttrice: "Mancano i fondi, a novembre scelgo la pensione"
"La biblioteca nazionale in rovina, Io me ne vado"
di Laura Montanari
Non si possono più catalogare i volumi. Non c´è il personale per i turni: verrà ridotto l´accesso al pubblico. E sono stati cancellati molti abbonamenti alle riviste
FIRENZE. I libri non li spolverano più da quattro anni perché mancano i soldi per farlo. Per la stessa ragione hanno cancellato decine di abbonamenti a riviste e tagliato gli acquisti di volumi stranieri. Da tempo è anche sospesa la conversione del catalogo da cartaceo ad elettronico col risultato che, di sei milioni di libri, soltanto due e mezzo sono i titoli online. Gli altri si ricercano come nel secolo scorso, scorrendo a mano gli schedari. Il declino della Biblioteca Nazionale di Firenze è scritto sui muri di certi corridoi, dove l´intonaco porta ancora l´ombra delle luci al neon levate dieci anni fa. Nei magazzini di questa che è la più grande biblioteca italiana, giacciono parcheggiati 200mila volumi che aspettano di essere catalogati dal personale che non c´è perché, dei 500 dipendenti che lavoravano qui negli anni ‘90, di economia in economia, oggi ne sono rimasti 195 con un´età media che vira ai sessanta. Il 10 per cento di quella montagna di arretrato sarà smaltito grazie al finanziamento di una fondazione bancaria, il resto giacerà negli scatoloni, in attesa di nuovi benefattori. Così l´accumulo cresce: «Ci arrivano 70mila volumi l´anno e riusciamo a catalogarne 40mila» spiega la direttrice Antonia Ida Fontana. Ha appena annunciato che a fine novembre lascia, andrà in pensione: «E´ un addio amaro. Siamo così in pochi che da metà luglio saremo costretti a chiudere l´accesso al pubblico per tre pomeriggi la settimana. Non era mai successo».
La crisi di questo monumento del sapere e della nostra memoria scritta, si legge a tante voci: una, è quella degli appelli che intellettuali e visitatori ogni tanto mandano ai giornali denunciando l´emergenza. «E´ come se il ministero dei Beni culturali non si rendesse conto del valore che ha la Biblioteca Nazionale di Firenze» spiega Franco Contorbia, docente di letteratura e frequentatore dell´emeroteca. La più ricca collezione di giornali d´Europa si trova in parte in una sede decentrata, in un magazzino al Forte Belvedere dove non c´è nemmeno una sala di lettura aperta al pubblico e dove due volte la settimana un pulmino sale lassù con la lista delle richieste per prestiti o consultazioni da esaudire. «Il confronto con le analoghe biblioteche di Londra o di Parigi è mortificante - dice Paul Ginsborg, docente di Storia contemporanea, altro assiduo frequentatore della Nazionale - A Firenze appena entri nell´edificio avverti una sensazione di degrado che poi ritrovi, per esempio, nelle sedie rotte, nella stoffa che si lascia andare sulle sedute della sala consultazione». Oppure nelle infiltrazioni d´acqua della rotonda Magliabechiana, o nei pavimenti pieni di toppe dell´area della distribuzione, quattro piani di balconi circolari che il pubblico non vede e dove lo scorrimano in legno che, lungo le scale è incerottato con il nastro isolante, sembra una metafora della provvisorietà. I numeri raccontano il resto: «Dal ministero ci arrivano due milioni e mezzo di euro, erano il doppio soltanto cinque anni fa» spiega la direttrice. La Nazionale raccoglie per missione, tutto quello che viene pubblicato nel Paese: conserva quello che stampiamo, è la testimonianza del nostro passaggio, un villaggio di 6 milioni di libri sistemato su 120 chilometri di scaffali per capire le cose che abbiamo attraversato, la storia, la letteratura, le scienze, i pensieri, le mode, i linguaggi e la complessità del mondo. Eppure negli ultimi anni non riesce più a tenere il passo e catalogare tutti i libri che riceve. «E´ una cosa gravissima - aggiunge Ginsborg, - Il personale fa il possibile, ma sono sempre di meno e non c´è un passaggio generazionale: quelli che vanno in pensione hanno un patrimonio di 40 anni di conoscenza dei fondi librari, che sanno dove mettere le mani e come esaudire le richieste dei ricercatori, non lasciano eredi per via dei tagli. Hanno grosse responsabilità i governi che hanno abbandonato la biblioteca in questo modo». Qui dove sono conservati gli autografi di Galileo, lo Zibaldone di Boccaccio, i tarocchi del Mantegna, il manoscritto di Pinocchio, 600 libri d´artista (Klee, Matisse, Picasso, Chagall…) e migliaia di pezzi unici.
Altro problema, gli spazi: la biblioteca cresce di due chilometri di scaffali l´anno. L´ala nuova sarà pronta dopo l´estate e basterà per soli quattro anni, poi bisognerà avviare i cantieri in una delle vicine caserme in disuso. Intanto si tira avanti come si può, con le macchinette del caffè al posto del bar (chiuso da vent´anni) e col loggiato che dà su Santa Croce affittato, per rastrellare soldi, agli sponsor di turno, in genere per le cene del Rotary. A quelli della moda invece no: «Ci hanno detto: o rimbiancate, o per le sfilate e le feste, non ci interessa».
Repubblica 2.7.10
La Fracci polemica: "Io all´Opera? Dipende da Muti e lorsignori"
Contro la riforma Bondi niente tournée alla Scala e a Roma saltano le ‘prime´
di Laura Serloni e Mariella Tanzarella
ROMA - Sale la tensione alla Scala, dove i lavoratori hanno messo in cantiere ben undici giorni di sciopero. Nel teatro milanese non solo si combatte il decreto di riforma appena approvato in Parlamento, ma si profila anche un braccio di ferro con il sovrintendente Lissner. Salta la prima del Barbiere di Siviglia di venerdì 9 e nuovi scioperi minacciano le tournée estive. Ieri i lavoratori del teatro hanno decretato un altro sciopero per venerdì prossimo, l´ottavo dall´inizio delle proteste. E saranno discusse nei prossimi giorni nuove modalità di lotta, che potrebbero far saltare le trasferte previste per il 21, 22 e 23 luglio a Pompei con i Carmina Burana e quella a Buenos Aires dal 25 agosto al primo settembre con l´Aida in forma di concerto diretta da Barenboim, con un pacchetto complessivo di undici giorni di sciopero. Particolarmente accesi i toni dell´assemblea e «forti malumori» nei confronti di Stéphane Lissner, che mercoledì sera, dopo che il Faust era andato in scena di nuovo con orchestrali e coro in jeans e maglietta per protesta, aveva annunciato a sorpresa di considerarla «una giornata di sciopero», e dunque di non voler pagare i lavoratori.
Stesso clima all´Opera di Roma. «Un atto irresponsabile e autolesionista» ha definito il ministro Bondi lo sciopero dei lavoratori che in segno di protesta hanno fatto saltare il balletto Romeo e Giulietta e l´apertura della stagione estiva. «Mi sarei aspettato un atteggiamento più responsabile -ha aggiunto il ministro - ora che si deve riscrivere il regolamento per le fondazioni liriche». Ma la protesta continua. Alle Terme di Caracalla salteranno tutte le "prime": dall´Aida al Rigoletto.
Tutto questo mentre all´Opera si continua a trattare per portare il maestro Riccardo Muti alla direzione artistica. «Stiamo ragionando sul contratto: i termini sono condivisi ma, certo, la conferma si avrà solo con la firma», conferma il sovrintendente Catello De Martino. Al di là di un saluto di cortesia, durante la presentazione del cartellone estivo delle Terme di Caracalla, è stata gelida l´atmosfera tra il sindaco Gianni Alemanno e la direttrice in uscita del corpo di ballo dell´Opera, Carla Fracci. E se il primo cittadino definisce «determinante» la collaborazione della Fracci, la ballerina ha dubbi sul futuro. «Finisce qui il lavoro che ho svolto in questi dieci anni. Ora c´è una compagnia conosciuta a livello mondiale, un patrimonio. Ma bisogna vedere se se ne rendono conto "lorsignori", visto che a teatro non ci vengono». E quanto alla sua collaborazione con tono risentito aggiunge: «Io ho chiesto di poter lavorare alla creazione di una compagnia internazionale ma dipende tutto anche dall´arrivo di Muti, uomo con i suoi pregi ma con un modo d´essere che vuole stare sempre al centro».
l’Unità 2.7.10
L’uccisione di Maria e Livia spinge di nuovo a riflettere sul tema della violenza maschile Si parla di stalking, si denunciano veline e velinismo ma intanto nulla sembra cambiare
Uomini che odiano le donne
di Silvia Ballestra
Due elementi colpiscono nell’ennesima giornata di follia omicida contro le donne. Il fatto che Gaetano De Carlo, a poche ore l’una dall’altra, abbia ucciso ben due ex fidanzate, e che l’assassino fosse uno “stalker” conclamato. Non un raptus, non qualcosa di inatteso. Con Maria Montanaro la relazione era finita da poco, Livia Balcone, invece, sua compagna in un passato non vicinissimo, era già da un po’ vittima delle sue persecuzioni. Minacce, molestie e anche un’aggressione, che l’avevano spinta a depositare ben sette denunce contro quest’uomo pericoloso, fargli togliere il porto d’armi. C’era in corso un processo che però non è bastato a fermarlo, così al dolore di amici e parenti delle vittime si aggiunge la frustrazione. Un’impotenza che coglie anche chi si occupa di queste questioni da tempo poiché si ha la sensazione che, nonostante la presa di coscienza del problema “femminicidio” di questi ultimi anni, le cifre della cronaca sembrano inarrestabili. La legge sullo stalking, da noi, è recente ed è presto per fare bilanci ma è certamente un passo avanti, il riconoscimento di un problema, l’ultimo campanello d’allarme. Ora, è vero che, sebbene sembrino rispondere a un copione, a un preciso profilo criminale, questi delitti hanno a che fare con specifiche patologie, dinamiche, rapporti. Solitudini, ossessioni, desideri insoddisfatti. Ma non dipendono solo dalle singole storie personali e familiari: chiamano in causa anche la condizione socio-culturale, e dunque politica, di un Paese intero.
Da tempo, ormai, da più parti, si sottolinea come il corpo delle donne sia oggetto delle più diverse forme di violenza e sopruso. Ciò che solo qualche anno fa sembrava indicibile, liquidato come argomento polveroso e “vetero”, ci è stato ora raccontato e mostrato, analizzato e denunciato anche nella sua versione più attuale: la mercificazione continua del corpo della donna – buono per vendere di tutto – è talmente martellante e presente da non poter più essere negata o liquidata con argomentazioni leggere da commedia all’italiana. Da anni si parla di veline e velinismo, si parla di monnezza sottoculturale, di modelli deleteri, di certe trasmissioni orrende che sviliscono le donne, ma da quel versante nulla cambia. Pupe, veline e bonazze in costume continuano a occupare l’etere e lo spazio con ammiccamenti e promesse irraggiungibili.
Ci siamo indignate, indignati, abbiamo scritto che tutto si tiene, che considerare le donne come merci da possedere e esibire non è dignitoso per nessuno e non può restare senza conseguenze. Nel frattempo abbiamo scoperto che da noi le donne sono usate anche come benefit nella corruzione dei potenti. Chissà allora se una legge sulle persecuzioni può bastare o non servirebbe, pure, un cambiamento più generale, uno scatto d’orgoglio.
Una recente classifica della qualità della vita nelle città, accanto a qualità, quantità e efficienza dei servizi, livello dell’offerta culturale, ha posto come parametro anche il numero di omicidi e violenze domestiche: non sarà un caso che fra le prime venticinque non c'è nessuna città italiana.
Repubblica 2.7.10
Le ossessioni
Molestie, pedinamenti, aggressioni. Che talvolta, come è accaduto a Torino, finiscono in tragedia. Ecco cosa trasforma la passione in un incubo
di Maria Novella De Luca
È come se dal silenzio fosse affiorato un mondo di dolore fino ad ora nascosto e taciuto. Due milioni e settecentomila donne hanno subito in Italia molestie e persecuzioni da ex mariti, ex amanti, ex fidanzati. E da quando nel febbraio del 2009 è entrata in vigore la legge che istituisce e dunque punisce il resto di stalking, in pochi mesi ci sono state 7000 denunce e 1200 arresti. Testimonianza di quanto il fenomeno, ancora sommerso, sia esteso, trasversale ai ceti, annidato negli ambienti più diversi. Le vittime di questo "amore molesto", che da persecuzione si può trasformare in omicidio, sono nel 78,94% dei casi donne, e nel 21,06% uomini, e ogni giorno 17 persone vengono denunciate per molestie reiterate, reato punito oggi con la reclusione da 6 mesi a 4 anni. Persecutori, cacciatori: raccontare l´universo (e l´Italia) dello stalking, vuol dire entrare in buio di ossessioni e di paure, di vittime aggredite e violate, che vivono con il terrore di uscire di casa, di alzare il telefono, di portare al parco i propri bambini, di ogni angolo dove potrebbe nascondersi l´aggressore.
Come accadeva a Maria Montanaro, che aveva 36 anni, e a Sonia Balcone, che di anni ne aveva 43 e una figlia di 5, prima che il loro ex, Gaetano De Carlo, si trasformasse da stalker implacabile in serial killer, ammazzandole una dopo l´altra in un´unica sola giornata, e avrebbe continuato ad uccidere se non fosse stato fermato. Poi De Carlo, ex carrozziere che viveva a Cremona, braccato e inseguito si è sparato un proiettile alla tempia con la sua 7,65. Un lucido piano omicida perché quelle due donne "non fossero più di nessuno". È questa la spinta, spiegano gli psicologi, che può trasformare un ex in un persecutore e poi in un killer. «Un desiderio di possesso così estremo da portare all´assassinio e poi alla morte di sé - dice Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia alla seconda università di Napoli - perché tanto l´oggetto amato non c´è più, e allora a che vale vivere?».
Da poco più di un anno in Italia è in vigore la legge anti-stalking, tenacemente voluta dal ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna. E qualcosa sta lentamente cambiando, anche se complessivamente i numeri degli omicidi (tutti di donne) avvenuti per mano di ex mariti o ex compagni, in Italia continuano ad aumentare, passando dai 100 del 2006 ai 119 del 2009, e soltanto nei casi registrati dalla cronaca. «Rattrista vedere che questa volta la giustizia non sia arrivata in tempo, prima che accadesse l´irreparabile, perché il senso della legge sullo stalking è innanzitutto quello di prevenire gesti più gravi - commenta infatti con amarezza il ministro Carfagna -. Mi rincuora però sapere che oggi, finalmente, le vittime di stalking hanno gli strumenti per liberarsi dall´incubo. Ci sono riusciti in tanti: in poco più di dodici mesi, infatti, vi sono stati 1.216 arresti a fronte di oltre 7mila denunce». E forse, chissà, le cose sarebbero potute andare diversamente se davvero De Carlo, denunciato ben 7 volte per molestie, di fronte ai giudici ci fosse arrivato davvero, ma la sua decisione omicida ha preceduto l´udienza davanti al Gup di Cremona, che si sarebbe dovuta tenere nel novembre prossimo. Eppure, ragiona il ministro Carfagna, «che la legge funzioni lo dimostra paradossalmente questa assurda storia, perché oggi, a poco più di 12 mesi dall´introduzione nel Codice del reato di stalking, ci trovavamo alla vigilia di un processo».
«Eravamo una famiglia splendida», dice sconvolto e tra le lacrime Guido Olivari, marito di Sonia Balcone, che adesso dovrà crescere da solo la sua bimba di 5 anni. «De Carlo non si faceva sentire da un anno, dopo l´ultima denuncia speravamo che ci avrebbe lasciati tranquilli». E invece è in questi mesi antecedenti al processo che forse è maturato il suo piano. Perché, come dicono giudici, esperti, psicologi, in questo "tempo scoperto" può accadere di tutto. Giovanna Fava è una delle avvocate del Forum delle donne giuriste ed è tra le autrici di un saggio edito da FrancoAngeli "Stalking e violenza alle donne". «Il tempo che intercorre tra le indagini preliminari e il processo è davvero pericoloso per le vittime. Perché i loro persecutori sono a piede libero, possono trovarle, aggredirle, e non sempre le forze dell´ordine riescono a proteggerle. Come in questo caso: se il processo si fosse celebrato per direttissima forse le due donne sarebbero ancora vive. La verità è che la legge sullo stalking oggi ci dà uno strumento in più per contrastare un fenomeno drammatico, dove le vittime sono in piccola parte anche uomini, ma poi ciò che manca è la tutela di chi è perseguitato». «Troppo spesso ancora - aggiunge Giovanna Fava - le denunce di molestie vengono sottovalutate, spesso gli aggressori non vengono arrestati in tempo. So che il ministero per le Pari opportunità sta facendo dei corsi di formazione per le forze di polizia. È giusto, perché in Italia noi non abbiamo ancora le lenti giuste per vedere e prevenire questo tipo di reati».
Reati gravi. Tanto che per lo stalking sono previste, ancora, le intercettazioni telefoniche. Fondamentali. Basta leggere una delle tante denunce per capire quanto spesso le vittime vengano perseguitate, ad ogni ora del giorno e della notte, su telefoni cellulari e fissi, costrette a cambiare schede, numeri e a sobbalzare a ogni squillo. «Che il governo faccia sul serio lo dimostra il fatto - aggiunge Mara Carfagna - che ho chiesto e ottenuto che, emendando il disegno di legge attualmente in discussione, questo reato fosse inserito nell´elenco di quelli per i quali saranno sempre consentite le intercettazioni telefoniche».
Ma che cosa trasforma un uomo (e raramente una donna) con cui si è avuta una relazione in un persecutore? Anna Costanza Baldry, oltre ad essere docente di psicologia, è responsabile da oltre due anni dello sportello anti-stalking Astra della Provincia di Roma. «La nuova legge è perfettibile, però il dato di fatto è che oggi in Italia è possibile difendersi. Da un punto di vista psicologico, lo stalking, anche nei casi più estremi, deriva raramente da una patologia mentale. I persecutori sono lucidi, sanno cosa fanno. È che non riescono ad accettare di aver perso il dominio sulla persona che una volta gli era accanto». «E spesso - racconta Baldry, autrice del libro "Dai maltrattamenti all´omicidio" - già in coppia questi uomini si dimostravano gelosi, possessivi, incapaci di accettare che la donna avesse una vita autonoma... Quando poi la storia finisce, le tentano tutte. Fanno capire alla vittima di non poter vivere senza di lei, alternano minacce a dichiarazioni d´amore, regali ad aggressioni. E spesso le vittime sono confuse, arrivano addirittura a ritirare la querela. Questo a mio parere è un punto debole della legge». Visto che è ormai evidente quanto una persona perseguitata possa essere manipolata. «Infatti - conclude Anna Costanza Baldry - ogni volta che una donna vittima di stalking viene da noi, allo sportello Astra, quello che consigliamo è di non cedere mai alle richieste di colloquio, non accettare l´ultimo incontro, ma di cercare una casa protetta».
In realtà difendersi dallo stalking è un´operazione complessa. Come dimostrano le esperienze e le leggi di Paesi che prima del nostro, dall´Austria alla Germania, hanno istituto il reato di persecuzione e molestia reiterata. Non è sempre facile dimostrare in tribunale di essere vittime di stalking. «Per questo come legali - conclude Giovanna Fava - ciò che noi consigliamo alle donne è di tenere un diario di tutto ciò che accade, per documentare ogni tentativo di contatto da parte dello stalker. E poi, ed è la cosa più difficile, bisogna interrompere ogni contatto, non accettare ma nemmeno rispedire lettere o regali, gesti che potrebbero essere interpretati come apertura di comunicazione. Quindi coinvolgere nella propria battaglia la famiglia, gli amici, e soprattutto le forze dell´ordine. Perché uno stalker rifiutato può uccidere». È la cronaca di questi giorni.
Repubblica 2.7.10
Siena, polemiche per l´opera dell´artista libanese Alì Hassoun
Simboli islamici sulla Madonna il drappo del Palio irrita la Curia
SIENA - È polemica a Siena sul drappellone dipinto dall´artista libanese Alì Hassoun, che stasera andrà in premio alla contrada vincitrice del Palio di luglio intitolato alla Madonna di Provenzano. L´Arcidiocesi promuove San Giorgio con la kefiah, ma non la mezzaluna dell´Islam sulla corona della Vergine Maria. E l´autorità religiosa locale chiede, per il futuro, di essere «resa partecipe» nella commissione e nella realizzazione dell´opera perché sia «rispettata l´iconografia tradizionale del Palio, che è oggetto di devozione, benedetto e esposto in chiesa».
«L´opera di Hassoun - secondo l´Arcidiocesi - richiama con immediatezza l´effigie della Madonna di Provenzano e il guerriero sottostante può essere identificato con San Giorgio che uccide il drago-Satana. Più problematico è l´inserimento sulla corona della Vergine della Mezzaluna, simbolo dell´Islam, e della stella di Davide, effigie dell´Ebraismo. Anche l´inserimento di una citazione del Corano si presta a discussione, in quanto per i musulmani Maria è semplicemente madre di un profeta, e non madre di Dio». Ieri Hassoun è tornato a difendere la sua opera: «È a favore del dialogo tra culture. Il demone sotto San Giorgio rappresenta il terrorismo e l´ignoranza».
(ma.bo.)
Repubblica 2.7.10
Il viagra rosa? Roba da maschi
di Natalia Aspesi
Il Viagra per signore, per ora non ancora in commercio, certo sarebbe una manna: per gli uomini, ovviamente, che potrebbero illudersi di essere loro, con il loro fascino, ad assatanare una partner altrimenti sfuggente e sbuffante. La sociologa-antropologa americana Camille Paglia ha dato su "Repubblica" una spiegazione storica-economica-politica del perché la farmacologia non troverà mai un Viagra femminile. Ma ci sono anche ragioni meno colte, da posta del cuore, a rendere antipatico un simile farmaco: si avrà pure il diritto di non averne voglia e quindi di lasciar perdere, oppure si dovrà pensarlo come a un lavoro, a un dovere, a una necessità, cui adattarsi appunto con una pillola? Certo ci sono signorine in varie carriere scalate mediante anziani per niente appetitosi ma potenti, che giusto per una promozione più veloce potrebbero lusingarli con scintille da Viagra rosa. Ma si sa che in questi casi da secoli le donne hanno la grande arma della finzione che oltretutto, a differenza della pillola arrappante, non fa venire la nausea, neppure se il potente è nauseabondo.
l’Unità 2.7.10
Domani il Pride a Roma Un bacio collettivo apre il corteo
Conto alla rovescia per il pride di Roma, dopo una stagione di aggressioni come non si era vista prima. Ad aprire il corteo che partirà domani alle 16.30 dalla Piramide per arrivare in piazza Venezia passando per la gay street, un bacio collettivo, segno che ogni bacio è una rivoluzione. Nell’attesa non mancano le polemiche. «Roma è gay»: la frase provocatoria comparsa ieri in alcune strade della capitale farà discutere. Mentre è emblematico l’invito rivolto dalle colonne del Secolo a Berlusconi: apra le porte di palazzo Chigi ai gay, sull'esempio del premier Tory, David Cameron, che ha ospitato la festa di apertura del Pride londinese a Downing Street. Ci sono anche a destra lesbiche, gay e trans e sfileranno a Roma (www.Romapride2010.it). La prideweek è iniziata lunedì con incontri culturali e feste. Intanto per la prima volta le divisioni dentro il movimento gay hanno superato la cortina dei contatti interni per approdare ai media. A mancare sarà il circolo Mario Mieli, in prima fila nelle edizioni passate, in seguito a tensioni esplose nella fase organizzativa. Il rischio è di esporre la parata ad una sorta di prova del fuoco: il popolo dei manifestanti riuscirà ad andare oltre e a ribadire che il pride è di tutti? Ce la farà a manifestare per la conquista dei diritti lasciando a casa le tensioni delle associazioni? Tra i tanti inviti a non dividersi citiamo “Nuova Proposta” gruppo di gay credenti: c’è chi aspetta un segno di speranza, saremo al pride come “obbligo di servizio”. Il grande tema sono le discriminazioni delle quali portano i segni sulla pelle i tre portavoce: Mattia Cinquegrani, il ragazzo di 23 anni insultato e aggredito sull’autobus N8 la notte tra il 24 e il 25 aprile, Luana Ricci, musicista licenziata dopo 18 anni di servizio nella diocesi di Lecce perché trans e Esther Ascione, 21 anni di Anguillara Sabazia vittima di episodi di omofobia. Mentre la Polverini non ha detto un “no” deciso a chi le ha chiesto lumi su una sua eventuale partecipazione, finora hanno aderito al Pride il governatore della Puglia Nichi Vendola, Vladimir Luxuria, Paola Concia, Sabrina Impacciatore, Elio Germano e Marisa Laurito.
l’Unità 2.7.10
«Non dimentichiamo che siamo un Paese di immigrati, dobbiamo avere coraggio»
Usa, 11 milioni di clandestini Obama: non possiamo cacciarli
di Virginia Lori
Undici milioni di clandestini in terra americana. Barack Obama non vuole girare la testa dall’altra parte. «Non possiamo mandarli a casa», dice al Paese lanciando la nuova sfida sul tema rovente dell’immigrazione.
È la nuova sfida di un presidente che sa cosa significhi «immigrato». Quello dell'immigrazione è uno «dei temi fondamentali» di questa generazione, e l'America «non deve dimenticare di essere un Paese di emigranti»: ad affermarlo è il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ieri alla Ameri-
can University di Washington è intervenuto per presentare le nuove linee politiche per una «riforma complessiva» delle leggi che in Usa regolano l'immigrazione.
SFIDA EPOCALE
Questa amministrazione «si rifiuta di ignorare le sfide fondamentali del nostro tempo» dice Obama, sottolineando che dopo la riforma sanitaria, la riforma finanziaria, la nuova politica energetica, la sua amministrazione intende affrontare una riforma complessiva dell'immigrazione. Una battaglia di civiltà. Un sistema di regole sull'immigrazione che funzioni «non è solo un tema di carattere politico o economico, è anche un tema di carattere morale», af-
ferma Obama. Per una riforma dell' immigrazione «all'altezza del nostro tempo», «l'America deve ricordarsi di essere una terra di immigrati», e rifarsi alla storia di milioni di americani giunti «in questa terra di opportunità dall'Olanda, dall'Italia, dalla Polonia, da altri Paesi europei»: in questi termini Obama ha invitato il Congresso ad affrontare la questione immigrazione. «È tempo di avere coraggio ha detto -, di porre in secondo piano gli interessi politici di parte» e cercare, insieme, di mettere a punto «un sistema funzionale e giusto» ispirato a quegli stessi valori da cui l'America deriva. Nel suo discorso Obama è stato comunque molto attento a non usare la parola sanatoria, vista come il fumo negli occhi dai repubblicani, anzi affermando che l'idea di dare automaticamente a tutti i clandestini lo «lo status legale» è «ingiusta e poco saggia». Ma, ha poi sottolineato, come possa essere ingiusto dal punto di vista morale «punire persone che stanno cercando solo di guardagnarsi da vivere». «È impossibile pensare di mandare a casa 11 milioni di persone, che sono strettamente integrate nel tessuto economico dell'America», sottolinea Obama. Nello stesso tempo «ogni Paese ha il diritto e il dovere di avere il pieno controllo dei suoi confini»; e gli immigrati illegali «non devono pensare che se varcano i confini illegalmente non subiranno per questo alcuna conseguenza».
VALORI E PRAGMATISMO
Per quanto riguarda i confini, Obama ricorda come ora siano più controllati di 20 anni fa e che intende continuare ad impegnarsi in questa direzione. Ma anche aggiunto che il problema non si può risolvere solo costruendo barriere sempre più alte e aumentato il numero di pattuglie: «I nostri confini sono troppo vasti per risolvere il problema solo con barriere e pattuglie, non funzionerà». «Per fermare l'immigrazione illegale dobbiamo riformare il nostro sistema che non funziona dell'immigrazione legale ha detto il presidente la domanda è se abbiamo il coraggio e la volontà politica di far passare la legge al Congresso e avere finalmente la riforma». Obama ha ricordato come la controversa legge approvata dall'Arizona abbia drammaticamente portato alla ribalta la questione: il Paese si è diviso, «alcuni hanno sostenuto la legge, altri l'hanno criticata lanciando boicottaggi, ma tutti condividono la frustrazione per un sistema che non funziona». «La magggioranza democratica è pronta ad andare avanti» afferma Obama, che è forte anche del sostegno, secondo i sondaggi, della maggioranza degli americani e di molte associazioni civili Usa, quelle religiose in testa. Ora la palla passa ai repubblicani, senza il cui sostegno la legge non potrà passare al Senato. È tempo di scelte coraggiose e di un Paese che non alzi Muri divisori: è la nuova sfida di Obama.
l’Unità 2.7.10
Bimbi in Cisgiordania
L’inferno dimenticato dell’infanzia murata
44%. Sono i bambini in Cisgiordania che patiscono la diarrea causa mortalità infantile
60.000. Sono i bambini impediti a raggiungere le loro scuole a causa del Muro nei Territori
220. Sono i bambini morti per restrizioni imposte da Israele nella seconda intifada
322. Sono i bambini palestinesi uccisi a Gaza durante l’operazione «Piombo Fuso»
Non solo Gaza. Il rapporto di Save the Children alza il velo sulle condizioni di vita nella West Bank: mancano cibo e medicine, le scuole sono fatiscenti Le voci dal campo profughi: «Sono palestinese. È questa la mia colpa?»
di Umberto De Giovannangeli
Una infanzia «murata». Quella dei bambini palestinesi di Cisgiordania. Una condizione meno conosciuta ma non per questo meno grave di quella dei bambini di Gaza. Anzi, per certi aspetti, l’infanzia «murata» dei bambini palestinesi di Cisgiordania è ancora più disperata di quella dei bambini condannati a crescere in quella prigione a cielo aperto di nome Gaza. Ad accendere i riflettori sui bambini di Cisgiordania è Save the Children nel suo rapporto aggiornato sulla povertà infantile nei Territori.
Gli autori del documento evidenziano il deteriorarsi della situazione nella cosiddetta zona C della Cisgiordania, quella rimasta sotto il controllo diretto di Israele anche dopo la nascita dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). E puntano il dito contro le restrizioni imposte alla gente che ci vive e la carenza d'infrastrutture di base: la cui manutenzione affermano è ostacolata dalle autorità israeliane. Nel rapporto si fa riferimento al pessimo stato di case, scuole, sistemi fognari e strade in gran parte della zona C, nonché al persistente disagio di migliaia di persone che continuano a vivere in tende e senza accesso ad acque pulite. L'uso dei terreni agricoli risulta inoltre negato, a causa di confische o di ragioni di sicurezza invocate dai militari, a numerose famiglie. In tale contesto, stima Save the Children, il 79% delle comunità residenti nella zona C della Cisgiordania vive oggi in una situazione di «nutrimento carente». Una percentuale, particolarmente alta fra i beduini, che si rivela addirittura superiore al 61% registrato nella Striscia di Gaza, da oltre tre sottoposta da Israele a uno stringente blocco dei confini. Parallelamente si segnala un «picco di crisi» nella diffusione delle malattie infantili. La diarrea principale causa di morte fra i piccoli sotto i 5 anni nel mondo colpisce oggi il 44% dei bambini della zona C, sottolinea il rapporto. Mentre i ritardi nella crescita sono due volte più frequenti che a Gaza e i casi di malnutrizione patologica riguardano ormai un bambino su 10.
Il rapporto denuncia poi le limitazioni d'accesso imposte a varie organizzazioni umanitarie in parte della zona C e chiede a Israele d'allargare le maglie, oltre che di mettere fine a demolizioni di case palestinesi e confische di terre. Quanto all'Anp, sollecita maggiori sforzi per convogliare investimenti e aiuti in quest'area. «La comunità internazionale ha giustamente focalizzato di recente la sua attenzione sulle sofferenze delle famiglie di Gaza, ma la triste condizione dei bambini della zona C non può essere ignorata», rimarca Salam Kanaan, responsabile di Save the Children nei Territori palestinesi. Osservando che «il miglioramento della situazione» economica complessiva nel resto della Cisgiordania non può cancellare «le sofferenze e l'incremento di povertà e malnutrizione» fra le comunità più esposte.
Storie di sofferenza. La sofferenza al di là del Muro. Quando dobbiamo trasferire d'urgenza un bambino da Betlemme a Gerusalemme racconta suor Erika, impegnata nel Baby Hospital di Betlemme bisogna chiedere una montagna di permessi. Basta un dubbio e l'ambulanza viene rimandata indietro ». E quando tutto è in ordine? «Il check point non può essere attraversato da un’ambulanza palestinese: il bambino deve essere trasportato a piedi, magari col respiratore, fino all'autolettiga israeliana incaricata di portarlo fino all'ospedale».
Stefano Apuzzo, Serena Baldini e Barbara Archetti hanno realizzato un libro bellissimo, toccante: Lettere al di là del Muro. Dai bambini dei campi profughi palestinesi (I libri di Gaia). Il libro contiene le lettere piu belle e toccanti dei bambini che vivono nei campi profughi palestinesi alle porte di Gerusalemme. Le loro famiglie furono espulse dai villaggi natii alla nascita dello Stato di Israele nel 1948 e dopo l’occupazione illegale dei Territori Palestinesi nel 1967.
Cosa significa per dei bambini crescere ingabbiati da un muro di cemento altro 9 metri, senza la possibilità di non uscire mai dai campi in assenza della “carta blu”? Lettere al di là del muro è un testo di bambini palestinesi che si raccontano senza remore e paure, una testimonianza unica e preziosa. Marah ha 14 anni, questa è la sua lettera: «Sono una ragazza di 14 anni del campo di Qalandja. Chiedo al mondo arabo, al mondo occidentale e a tutti gli esseri umani sulla terra: che colpa ha l’infanzia per essere uccisa così in Palestina? Io sono nata in Palestina, è questa la mia colpa? E ancora, sono nata in una zona ancora più piccola della Palestina, un campo profughi. Che colpa ne ho io se gioco con una pietra o un fucile, al posto di giocare con una bambola o una macchinina? Che colpa ne ho io se mangio una volta sola al posto che tre? Che colpa ne ho io se abito con tutta la mia famiglia in una sola stanza con un bagno ed una cucina? Dove sono la mia stanza, la mia bambola, la mia vita? Perché devo giocare per la strada, ma non in un campo giochi? La mia colpa è essere palestinese? Essere bambina costretta a vivere in questo posto occupato? O forse la mia colpa è non riuscire a togliermi di dosso questa occupazione? Io non riesco a trovare qualcuno che risponda alle mie domande, ma io continuo a vivere la mia vita in questo piccolo posto nonostante tutto, perché io appartengo a questo campo e sono orgogliosa di questo campo, perché è il mio Paese, è la mia patria ed è il posto dove morirò...».
Iman Juhaleen ha 12 anni. Ma una maturità da adulta: La mia vita nel campo è molto normale perché mi ci sono abituata. Ci sono persone buone e persone cattive perché le dita di una mano non sono tutte uguali, sono diverse. Ci sono i buoni e quelli che non lo sono, la gente che vive in questo campo è così. Nel campo vive tantissima gente e ci sono tanti centri e scuole, medici, negozi e la clinica dell’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ndr) , che da quando è stato costruito il campo ha la direzione dei servizi, ed i negozi di arredamento e di elettrodomestici e le farmacie e i venditori di vestiti e i fornai, tutto quello che serve. Grazie a Dio ci mancano solo alcune cose che considero poco importanti, come la pulizia delle strade. Se la gente si aiutasse e si impegnasse di più il campo sarebbe più pulito, per noi e i nostri figli e per tutta la società, io e le mie amiche discutiamo di questo argomento. Visto che siamo un popolo istruito e colto dobbiamo risolvere i nostri problemi e non aspettare che vengano risolti da altri. La nostra situazione è più difficile che nel passato per la presenza del Muro di separazione razziale che ci circonda da tutti i lati, siamo diventati come un uccello in gabbia. È questo il grosso problema che affrontiamo. Quando ci sono delle difficoltà prego tutti gli abitanti del campo di affrontarle insieme, mano per mano. Purtroppo, quando vado fuori dal campo, nelle città vicine, vedo che non ci sono gli stessi problemi, mi auguro con tutto il cuore di diventare come loro. Perché siamo capaci di migliorare la nostra situazione, continueremo e riusciremo a fare molto con la volontà. Nel futuro vorrei essere una giornalista e vorrei diventare importante. ..». Per decine e decine di chilometri il Muro in Cisgiordania supera gli otto metri di altezza (il doppio del Muro di Berlino). Quel Muro divide migliaia di bambini palestinesi dalle loro scuole. Distrugge il loro presente. Cancella la speranza nel loro futuro.
giovedì 1 luglio 2010
l’Unità 1.7.10
La Germania e le scelte di fine vita
La bioetica e il resto dell’Europa
di Maurizio Mori
Ormai l’idea che alla fine della vita gli interessati debbano scegliere sulla propria sorte è un fiume in piena che travolgerà le resistenze dei più accaniti vitalisti. A metà febbraio è stata l’Inghilterra a cambiare le regole sul morire, e lo ha fatto con un semplice atto amministrativo: il direttore generali delle indagini penali si è limitato a dire che la nuova normativa senza aprire all’eutanasia (attiva) mette al centro di eventuali indagini la motivazione della persona sospettata invece che le modalità della morte. In altre parole, si vuole evitare che la morte di chicchessia sia indotta per malvagità o per qualche motivo oscuro (“darker motive”) contro la volontà dell’interessato, più che il semplice fatto che sia “indotta” o no. Anche se da noi, in Italia, la notizia non ebbe grande rilievo, la realtà è che in Inghilterra il suicidio assistito volontario non è più reato.
Ora è la volta della Germania, visto che il 25 giugno la Corte federale di giustizia ha assolto i protagonisti della sospensione di nutrizione e idratazione artificiali di una donna che aveva espresso la volontà di non esservi sottoposta. In pratica il riconoscimento pieno del diritto di sospendere qualsiasi trattamento, nutrizione inclusa. Non si tratta affatto di eutanasia, ossia di atto teso a provocare la morte, né si è nella situazione di limbo dell’Inghilterra in cui ci si limita a controllare l’assenza di motivi oscuri. Ma se si considera che la Germania sul tema del fine vita ha un nervo scoperto, la sentenza è un importante passo in avanti che opera chiarezza. Si colloca in linea con quanto stabilito anche dalla nostra magistratura nei casi Welby ed Englaro.
In sé, quindi, nulla di straordinario. Solo un chiarimento dovuto che, come affermato dal ministro della Giustizia, «crea certezza legale», anche perché le volontà anticipate costituiscono una garanzia per pazienti e medici. Eppure, Avvenire ha presentato la notizia con sdegno: «Berlino “apre” all’eutanasia» quasi fosse una sbandata improvvisa e imprevista. Da una parte fa tenerezza l’impegno e l’insistenza posti dai cattolici nel cercare di far credere che il “male” abiti solo all’estero da cui arrivano le notizie choc. Dall’altra fa rabbia sentire il sottosegretario signora Roccella ripetere che la legge liberticida sul fine vita in discussione in Parlamento è necessaria e urgente perché la nostra magistratura non è stata prudente e perché si moltiplicano i registri comunali dei testamenti biologici. Credono davvero Roccella e i suoi amici cattolici che una legge basti a isolare il Paese dal resto dell’Europa come è stato al tempo della controriforma?
Maurizio Mori è presidente della Consulta di Bioetica onlus e docente all’Università di Torino.
l’Unità 1.7.10
Preti pedofili negli Usa Primo processo al Vaticano
I vertici vaticani possono essere processati per gli abusi sessuali commessi dai preti negli Usa. Così ha stabilito la Corte Suprema. E subito in California il difensore di una vittima dei preti pedofili denuncia la Santa Sede.
di Gabriel Bertinetto
Il Vaticano può essere processato. La Corte Suprema americana lunedì scorso ha detto sì alla richiesta di un avvocato di Minneapolis, che assiste le vittime di abusi sessuali commessi da preti pedofili. La sentenza riguarda una causa in particolare, intentata da un ex-chierichetto dell’Oregon, molestato negli anni sessanta dal sacerdote irlandese Andrew Ronan. Ma è chiaro che il precedente fissato dal massimo organo di giustizia statunitense potrebbe innescare una reazione a catena.
DURO COLPO
Per la Santa Sede il colpo è duro. I suoi legali avevano chiesto che fosse riconosciuta ai rappresentanti del Vaticano all’estero l’immunità che, secondo la legge degli Usa, sarebbe prerogativa degli Stati sovrani. La Corte Suprema si è rifiutata di applicare questa sorta di privilegio extraterritoriale e ha concesso il nullaosta a procedere. Vuol dire, afferma il presidente
del Tribunale Vaticano, Giuseppe Della Torre, che ci considerano una «corporation, una multinazionale». Ma ogni Chiesa nazionale «ha una sua propria autonomia -afferma Della Torre, secondo il quale «è contradditorio considerare da un lato la Chiesa una corporation, dall’altro intrattenere con la Santa Sede relazioni diplomatiche».
Imbarazzo oltre Tevere. Piena soddisfazione a Los Angeles, dove l’avvocato Jeff Anderson, incassato il successo nella causa dell’Oregon, passa all’attacco e denuncia il Vaticano per un’altra dolorosa storia di violenze sessuali. Protagonista padre Jim, alias Titian Miani, un salesiano di 83 anni, che nel corso della sua attività pastorale, «ha fatto almeno 13 vittime, e malgrado ciò ha continuato a svolgere il suo servizio».
ABUSI INSABBIATI
Anderson accusa i vertici della Santa Sede, i superiori dell’ordine salesiano, e i vescovi responsabili di una scuola a Bellflower, in California, di avere insabbiato il caso. Padre Jim fu arrestato nel 2003 per un caso di pedofilia poi caduto in prescrizione, ma aveva alle spalle altre tre denunce riguardanti fatti avvenuti negli anni quaranta, quando era un seminarista. Sono i ripetuti abusi subiti da un ragazzo di 13 anni, prima durante un ritiro spirituale in Italia, poi in un collegio a Edmonton in Canada, e poi nella diocesi di Stockton, in California, allora diretta dal cardinale Roger Mahoney.
L’avvocato sostiene che «il Vaticano era stato avvertito, ma il Papa e la congregazione per la dottrina della fede non rimossero» il religioso. Anzi a Bellflower fu incaricato dei rapporti con gli studenti senza che né gli allievi né le famiglie fossero avvertiti» delle sue malefatte. In quella scuola abusò di quattro minorenni fra cui un ragazzo di 15 anni e le sue due sorelline.
«Per molti anni -incalza Andersongli ordini religiosi con base a Roma hanno trasferito con impunità all’estero i sacerdoti pedofili per evitare di fare i conti con la giustizia».
La Chiesa rischia di essere condannata a pagare pesanti risarcimenti. Proprio ieri un giudice del Delaware ha aperto alle vittime di preti pedofili un fondo di investimento da 120 milioni di dollari amministrato dalla diocesi di Wilmington in bancarotta. A Boston l'arcidiocesi ha messo in vendita beni ecclesiastici tra cui il palazzo dell'Arcivescovo per pagare gli indennizzi. Nel 2008 la Società salesiana di Los Angeles accettò di pagare 19 milioni e mezzo di dollari per chiudere 17 vertenze.
Ma l’avvocato Anderson sostiene che per il momento, più ancora dei soldi che può ottenere a vantaggio dei suoi assistiti, gli interessa che escano dagli archivi vaticani i nomi dei preti pedofili ancora segreti.
il Fatto 1.7.10
Le magliette a strisce salvarono la Carta
I ragazzi di Genova e il bastone di Tambroni
di Annibale Paloscia
Sono passati 50 anni da quel 30 giugno 1960 quando i “ragazzi in maglietta a strisce” insorsero a Genova salvando la Costituzione e la democrazia. Oggi il libro di Annibale Paloscia, “Al tempo di Tambroni” (Mursia editore) ripercorre una delle pagine più drammatiche del Dopoguerra. Lo stralcio che pubblichiamo è tratto dal capitolo XXV.
Quella mattina sono le donne genovesi a fare la prima mossa. Arrivano in migliaia al sacrario dei caduti della Resistenza portando mazzi di fiori. “Tonnellate di fiori” scrive con enfasi un cronista. Alle 12 comincia lo sciopero generale. Si sospende il lavoro nelle fabbriche, negli uffici, al porto. Alle 15:30 si forma il corteo in piazza della Nunziata. La folla riempie la lunga via XX Settembre. Secondo la polizia i manifestanti sono trentamila. I cronisti li valutano tra cinquantamila e centomila. La marcia si conclude in piazza della Vittoria, dove la folla ascolta in silenzio il discorso del segretario della Camera del Lavoro Bruno Pigna. Un folto gruppo di ragazzi con le magliette a strisce si ferma in piazza De Ferrari e occupa lo spazio intorno alla grande vasca di bronzo eretta nel 1934 per celebrare le guerre coloniali italiane. Vicino alla fontana era schierato da ore un reparto di polizia col compito di sorvegliare gli accessi alla zona recintata con i cavalli di Frisia. All’improvviso la mischia, gli scontri, il fuggi-fuggi, gli inseguimenti. Vengono date diverse versioni. La questura di Genova sostiene che i poliziotti hanno reagito a un’aggressione. Giordano Bruschi, partigiano e capo del sindacato dei marittimi, smentisce l’aggressione contro la polizia. “Al massimo un lancio di monetine”.
L’impiego dell’idrante sicuramente è l’errore iniziale della forza pubblica. La polizia che, per proteggere il congresso missino, aveva imprigionato il centro di Genova con reticolati e mezzi blindati, avrebbe dovuto tollerare i fischi e gli slogan di quei ragazzi stanchi di tutti i divieti. Al primo errore ne segue uno più grave: quello di lanciare i poliziotti all’inseguimento dei ragazzi per completare la punizione a colpi di manganello. [...] Lì intorno c’è il gran labirinto dei caruggi, che offre ai manifestanti il terreno adatto per respingere le cariche e fare assalti di sorpresa. Nei vicoli le magliette a strisce ricevono solidarietà e il loro numero si moltiplica. Arrivano anche rinforzi di portuali che, venendo dal luogo di lavoro, si sono portati gli uncini usati per agganciare le balle.
Le cariche alla cieca e i lanci di lacrimogeni coinvolgono migliaia di persone di ritorno dalla manifestazione, con la conseguenza che tutto il centro diventa area di scontri. I reparti che presidiavano piazza De Ferrari sono ormai frammentati, sotto una pioggia di pietre, gambe di tavolini, materiale edilizio di ogni tipo. I celerini lottano corpo a corpo, ma quando i loro avversari diventano cinquemila sono costretti a fuggire. Nei vicoli sono bombardati di oggetti lanciati dai tetti e dalle finestre. Non hanno mascherine di protezione contro i loro stessi fumogeni. Alcune jeep sono incendiate, un capitano della celere viene gettato nella vasca di piazza De Ferrari. [...] Alle 18:30 succede un episodio che fa infuriare gli ufficiali del secondo reparto Celere di Padova, temuto per la brutalità. Mentre gli uomini di questo reparto sono bombardati con sassi e tegole, un reparto dei carabinieri, che segue la situazione senza muoversi dalla sua posizione, viene applaudito dalle “magliette a strisce”. Alcuni carabinieri si lasciano prendere sottobraccio dai ragazzi usciti dai caruggi, si parla, si scherza. L’ispettore del corpo degli agenti di PS scrive al capo della polizia: “Vedemmo con sbalordimento prima e con indignazione poi, alcuni carabinieri avanzare sulla piazza, in mezzo ai dimostranti, come in una parata”. L’ufficiale denuncia “l’arcinoto atteggiamento dei carabinieri”. Avverte che se perdurasse, “le nostre valorose, pazienti ed educate guardie, nell’espletamento dei loro duri istantanei interventi, potrebbero coinvolgere, contro volontà, i carabinieri nello stesso trattamento riservato ai facinorosi”.
La maggior parte dei manifestanti scesi in piazza durante lo sciopero generale erano lavoratori e impiegati, uomini e donne, che da settimane, appena usciti dalle fabbriche e dagli uffici, andavano alle riunioni in cui si decidevano le iniziative contro il congresso missino. Per questa massa di cittadini, che non si aspettavano le violenze, né erano preparati a difendersi, fu più difficile evitare le manganellate, gli idranti e i lacrimogeni. [...] Dopo tre ore e mezzo di scontri, verso le 19:30, il presidente dell’Anpi Gimelli sale su una camionetta della polizia, gira per i quartieri, e con un megafono lancia appelli a cessare gli scontri. Poco dopo si torna a camminare nelle strade di Genova senza caroselli di jeep, senza idranti e lacrimogeni, senza ragazzi che tirano pietre. Centonove agenti ricorrono a cure in ospedale. In serata la Camera del Lavoro proclama un nuovo sciopero generale di 24 ore nella provincia per il 2 luglio, in concomitanza con l’apertura del congresso missino. Nel comunicato si dà la colpa degli incidenti alla polizia per il “brutale intervento a manifestazione sciolta”. A Roma si convoca subito il Senato. Il ministro dell’Interno Spataro rovescia sui comunisti tutta la responsabilità dei disordini di Genova. Il senatore Gaetano Barbareschi, segretario della Federazione socialista genovese, gli risponde: “Lei ci spaventa per la mancanza assoluta di conoscenza dei fatti”. Ricorda che la protesta contro il congresso missino unisce tutti i partiti antifascisti “compresa una parte notevole della Democrazia cristiana”. Denuncia la irresponsabilità del governo “perché non si convoca il congresso del Movimento sociale a dieci metri di distanza dal sacrario dei caduti partigiani”.
Repubblica 1.7.10
Compagni
Dall’utopia al tabù tutti sono diventati ex
di Nello Ajello
È stato un termine che indicava appartenenza e militanza. Adesso invece il suo utilizzo è un casus belli che provoca polemiche e imbarazzi Stare seduto lì in quell´aula con i suoi compagni, e i suoi capi, non era inutile. Anche lì serviva Era un compagno proletario, anche lui pensionato, che però non aveva né casa né famiglia Mi hanno consegnato qui un biglietto: "Compagno non commentare le tue poesie"
«Compagno». Ecco una parola che non sopporta sinonimi. Ha attraversato l´intera utopia del marxismo. È risuonata per decenni nei raduni della sinistra. È passata dalle labbra di Amadeo Bordiga e di Antonio Gramsci a quelle di Ignazio Silone. Ha animato i comizi di Nenni e di Saragat. La scandirono per una vita Togliatti, Secchia o Di Vittorio. Da quel vocabolo – «compagni» – Vittorini e Calvino soffrirono a distaccarsi, mentre Marco Pannella lo adottava in un senso tutto suo. E oggi quel termine è più che altro un pro-memoria: il solo, forse, che ci dica qualcosa su ciò che s´era convenuto di chiamare le «masse».
Fra entusiasmi, anatemi, trionfi, rovesci.
«Su fratelli, su compagni, – su, venite in fitta schiera», esortava un tempo l´Inno dei lavoratori, firmato da Filippo Turati. E oggi? Oggi la schiera non troppo fitta dei militanti della sinistra ha deciso di resuscitarla, quella parola, come stiamo per raccontare. Ma è una resurrezione necessariamente breve, su uno sfondo che non potrebbe essere più diverso da quello che aveva quando dirsi «compagno» rappresentava un segno di riconoscimento e sottolineava l´appartenenza a una genealogia di cui si onoravano senza tregua i supremi modelli. «Come ebbe ad affermare il compagno Lenin», «lo ha bene spiegato il compagno Stalin»: ecco una coppia di frasi che, nella scuola del partito comunista alle Frattocchie, era adottata per reprimere i dubbi.
Una sfida interessante potrebbe essere quella di trovare, nella pubblicistica comunista, l´espressione «ex-compagno». Deve esservi comparsa di rado. Nei partiti comunisti si entrava e basta. Le loro porte erano sorvegliate dai Capi. Su chi le varcava in uscita, gravava una patente d´indegnità: non più il «compagno» ma il «rinnegato». Quando lo scrittore Elio Vittorini, primi anni Cinquanta, manifestò il proprio disagio a condividere il «credo» comunista, Togliatti si disse stupito. «Era venuto con noi», scrisse su Rinascita «perché credeva che fossimo liberali, invece siamo comunisti. Perché non farselo spiegare prima?». Dal partito liberale (era sottinteso) ci si può allontanare con reciproci saluti. Da noi, no: o sei un compagno o non sei niente.
Dal caso Silone (1930) alla radiazione degli aderenti al Manifesto (1969), la casa dove abitano i compagni non contemplerà restauri. Solo più tardi, a quel venerando sostantivo potrà seguire qualche aggiunta: «compagni di strada» (come a dire, catecumeni a metà) o, più avanti ancora, «compagni che sbagliano». È già l´alba del terrorismo, la fine d´un sogno.
Ma passiamo all´oggi, tanto meno drammatico ma a suo modo agitato. Nel tornare in discussione due settimane fa, la parola «compagno» ha assunto qui in Italia le sembianze d´un casus belli.
A pronunziarla sabato 19 giugno, durante un raduno al Palalottomatica dell´Eur, è stato un bravo attore. Si chiama Fabrizio Gifuni. Di recente ha incarnato De Gasperi in tv. È figlio di quel mandarino della Repubblica, a nome Gaetano, che fu il gran consigliere di Scalfaro e poi di Ciampi sul Colle.
«Compagne e compagni, è tanto che volevo dirlo», ha esordito Fabrizio. Gli premeva denunziare il trattamento punitivo che il governo riserva alla cultura. E a quel suo incipit hanno fatto subito seguito i commenti, i plausi, i dinieghi. Essi non riguardano naturalmente la cultura, ma quel vocabolo risuscitato: «compagni».
Un´occasione per sfogarsi? Una scusa per abbandonarsi al prediletto masochismo? È difficile interpretare umori così istintivi. A riempire i giornali e il web di reazioni a catena è stata una fetta cospicua dei progressisti nostrani. Si va da quei cinque giovani «democratici» romani che hanno rifiutato la definizione di «compagni», scrivendo a Bersani di essere nati in contemporanea con il Pd (li hanno subito definiti i «nativi») all´opposta opinione di quella loro coetanea che, impegnata nell´attività di partito, confessa all´Unità: «Non ho il tempo di offendermi se qualcuno mi chiama compagna». E il Pd sembra dividersi intorno alla parola. Il senatore Stefano Ceccanti vorrebbe abolirla. Alludendo ai «nativi», il deputato europeo Leonardo Domenici, sbotta: «Anche i giovani possono dire delle cretinate». Debora Serracchiani propone una ricetta complicata: «Occorre trovare nuovi serbatoi simbolici». E al vertice del partito? Rosi Bindi si schiera con Gifuni.
Enrico Letta trova «stridente» quel suo appello. Beppe Fioroni incalza: «Compagni? Parola da archiviare». Degno di archiviazione, secondo Bersani, è l´intero argomento: «Basta finire sui giornali con polemiche inutili».
Un concerto di voci. Un caso assai «partecipato». In tema di partecipazione, circolava nella Parigi del ‘68 un aforisma sotto forma di coniugazione. Suonava così: «Je participe, tu participes, il participe, nous participons, vous participez, ils profitent». Trasportata la canzoncina qui e ora, è facile scoprire a chi possa alludere il verbo conclusivo. Basta registrare l´annoiata benevolenza con cui qualche giornale contrario alla sinistra ha commentato il caso del giugno 2010. «Chiamatevi compagni, vi resta solo questo», titolava Libero. Ma poi scriveva, dubbioso: «Hanno forse ragione quei ragazzini agnostici» (i «nativi», s´intuisce) a rifiutare la parola «compagno», «ultimo resto ingombrante e osceno di una chiesa che fu».
Un´altra volta, figlioli, state più attenti.
Repubblica 1.7.10
I funerali di Berlinguer
di Guido Crainz
Forse l´ultimo momento in cui ci si chiamò così furono i funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984 L´ultima occasione in cui la "gente comunista" occupò pienamente la scena, nel dolore e nell´orgoglio Alla fine degli anni ´ 70 il declino di una comunità Il popolo degli orfani
Quando iniziò ad appannarsi la «forza propulsiva» della parola? Il passaggio dall´ultima fase espansiva al declino è in realtà molto breve. Negli «anni ´68» il suo fascino dilaga ben oltre le fila tradizionali del movimento operaio ma l´inversione di tendenza non tarda molto: la crisi è evidente ben prima del 1989, e si avverte già nel declinare degli anni settanta. Nella stagione del terrorismo gli assassinii dei «compagni che sbagliano» recano il primo colpo mortale ed evocano al tempo stesso crimini del passato ancor più tragici ed enormi, compiuti in nome dell´idea. Incrinano certezze e rimozioni. «Un compagno non può averlo fatto», diceva la canzone dedicata a Pino Pinelli all´indomani della strage di Piazza Fontana: allora era profondamente vero ma pochi anni dopo i compagni lo avrebbero realmente fatto. Ancor peggio stavano facendo i compagni del Vietnam: il paese che era stato centrale per il tumultuoso volgersi a sinistra di una generazione diventava l´immagine e la rivelazione devastante di una menzogna storica. E il dissenso dell´Est iniziava, sia pur con molta fatica, a trovare interlocutori meno insensibili che in passato.
«Non abbiamo più niente, compagni, siamo orfani», scriveva Lotta continua il 31 dicembre del 1977. Di lì a poco rimarrà solo l´essere orfani, e la parola era ormai accerchiata anche su altri versanti. Lo slogan più diffuso e più limpido degli «anni ‘68» era stato «operai e studenti uniti nella lotta»: per il «movimento del 1977» gli operai sono diventati i "garantiti", quasi una comunità di privilegiati. Per la prima volta un movimento di sinistra vedeva nella classe operaia non il punto di riferimento di una vasta comunità di compagni ma un disvalore. E gli operai stessi, lo registravano allora le inchieste di Giulio Girardi, sentivano appannarsi quel senso di comunanza. Nel 1980 la «marcia dei quarantamila» della Fiat, con la sua capacità di rappresentare umori che andavano ben al di là dei "capi" e degli impiegati, verrà solo a chiudere duramente il cerchio.
In quello stesso anno dall´interno del Psi di Bettino Craxi prendevano forte impulso anche altri processi che a quella parola avrebbero irrimediabilmente attentato. Non solo e non tanto per il crescente prender le distanze dai simboli e dai riti del primo socialismo quanto per il progressivo privilegiare i ceti emergenti rispetto a quelli sofferenti e, più ancora, per quella vera e propria "mutazione genetica" del partito che verrà ampiamente alla luce molto prima di Mani pulite.
Anche altri processi travolgono però l´idea stessa di un´appartenenza collettiva. Già nel 1978, nel momento più cupo degli «anni di piombo», il trionfo de La febbre del sabato sera annuncia il "riflusso" che avrebbe caratterizzato gli anni ottanta. «Non so più a chi non credere», dice un personaggio di Altan, ed erano davvero molte le identità, le speranze e le idee che rifluivano. Forse l´ultimo grande momento in cui ci si chiamò compagni senza ombre o reticenze furono i funerali di Enrico Belinguer, nel 1984: l´ultima occasione in cui il "popolo comunista" e, più in generale, il popolo di sinistra occupò pienamente la scena, nel dolore e nell´orgoglio. Profondamente diverso, certo, da quello che aveva invaso Roma alla morte di Palmiro Togliatti, eppure ancora reale: ancora una folla di compagni. A ben vedere, le immagini e le interviste raccolte allora da una nutrita schiera di registi ci riconsegnano, ben prima del 1989, un mondo in via di scomparsa. Ci aiutano, anche, a riflettere su di esso e sulla nostra storia.
Repubblica 1.7.10
Quell´Arte di classe
di Filippo Ceccarelli
«Ogni movimento rivoluzionario è romantico per definizione» scriveva Antonio Gramsci. Ebbene, di questa rivoluzione romantica o di questo romanticismo rivoluzionario, il tributo più ardente e insistito alla parola «compagni», l´energia più estesa e vibrante si deve a Majakovskij.
È specialmente nella sua poesia che l´appellativo o l´interiezione acquista potenza letteraria e tonante: «Compagni! Sulle barricate!/ Barricate di cuori e di anime». Altro che materialismo storico: «Siamo uguali. Compagni d´una massa operaia./ Proletari di corpo e di spirito». Nella sua Lettera aperta agli operai, Majakovskij conquista l´attenzione ben al di là delle circostanze della storia: «Compagni, il duplice incendio della guerra e della rivoluzione ha devastato la nostra anima e le nostre città». Nel suo appello agli artisti e agli intellettuali l´evocazione risuona ultimativa: «Compagni, date un´arte nuova,/ tale che tragga la repubblica dal fango».
Fino all´estremo della sua vita, fino all´ultimo biglietto, scritto prima di farsi saltare le cervella: «Mamme, sorelle, compagni, perdonatemi». E ancora, come rivolgendosi a un´entità personale, tragica illusione da poeta: «Compagno governo, la mia famiglia è Lili Brik».
Ecco. A cercare «compagni» come fonte d´ispirazione artistica, si rischia oggi di rimanere con un nobile pugno di cenere tra le mani. Libri, film, quadri: così inattuali, così stranianti, così ambigui, a volte. Spunta dallo scaffale, reparto terrorismo, Compagna luna (Feltrinelli, 1998): l´ha scritto in prigione Barbara Balzerani, la più spietata brigatista. Ma è un volume lontano mille miglia, una vertigine di anni e di senso, da Il compagno di Pavese, romanzo vivo di riscatto (1947). Eppure, quando Pavese prese a interessarsi al mito, gli intellettuali comunisti la presero così male da fargli appuntare nei suoi diari: «Pavese non è un buon compagno. Discorsi d´intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che ti stanno più a cuore».
I buoni compagni. O i compagni buoni – che non era proprio la stessa cosa, ma in fondo sì. Comunque quelli che tra la nascita e la morte, solo attraverso quell´appellativo, diedero dignità alla loro condizione attraverso la lotta. Quelli, per dire, che già due secoli orsono affrontavano lo sguardo del pubblico nel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. O quelli immortalati da Monicelli nel 1963 in un film, I compagni appunto, reso ancora più epico dalla straordinaria fotografia di Peppino Rotunno. Quelle scarne figure, infine, sagome d´acrilico rosso con chiavi inglesi e cartelli, che dopo il Sessantotto Mario Schifano volle intitolare Compagni, compagni – e che una truce leggenda anti-gruppettara voleva foderassero a mo´ di boiserie le pareti della sala da pranzo della casa romana dell´Avvocato Agnelli.
Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo cantava nel frattempo Ricky Gianco. Eppure c´è una bellissima definizione che con i dovuti aggiornamenti sembra resistere all´usura del tempo. La ricordava giorni fa sul Manifesto Alessandro Portelli e forse ancora vale perché, più che da un ideologo, viene dal più grande studioso di antropologia culturale, Ernesto De Martino, che così spiegò la passione dei suoi studi: «Io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un "compagno", come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo».
La Germania e le scelte di fine vita
La bioetica e il resto dell’Europa
di Maurizio Mori
Ormai l’idea che alla fine della vita gli interessati debbano scegliere sulla propria sorte è un fiume in piena che travolgerà le resistenze dei più accaniti vitalisti. A metà febbraio è stata l’Inghilterra a cambiare le regole sul morire, e lo ha fatto con un semplice atto amministrativo: il direttore generali delle indagini penali si è limitato a dire che la nuova normativa senza aprire all’eutanasia (attiva) mette al centro di eventuali indagini la motivazione della persona sospettata invece che le modalità della morte. In altre parole, si vuole evitare che la morte di chicchessia sia indotta per malvagità o per qualche motivo oscuro (“darker motive”) contro la volontà dell’interessato, più che il semplice fatto che sia “indotta” o no. Anche se da noi, in Italia, la notizia non ebbe grande rilievo, la realtà è che in Inghilterra il suicidio assistito volontario non è più reato.
Ora è la volta della Germania, visto che il 25 giugno la Corte federale di giustizia ha assolto i protagonisti della sospensione di nutrizione e idratazione artificiali di una donna che aveva espresso la volontà di non esservi sottoposta. In pratica il riconoscimento pieno del diritto di sospendere qualsiasi trattamento, nutrizione inclusa. Non si tratta affatto di eutanasia, ossia di atto teso a provocare la morte, né si è nella situazione di limbo dell’Inghilterra in cui ci si limita a controllare l’assenza di motivi oscuri. Ma se si considera che la Germania sul tema del fine vita ha un nervo scoperto, la sentenza è un importante passo in avanti che opera chiarezza. Si colloca in linea con quanto stabilito anche dalla nostra magistratura nei casi Welby ed Englaro.
In sé, quindi, nulla di straordinario. Solo un chiarimento dovuto che, come affermato dal ministro della Giustizia, «crea certezza legale», anche perché le volontà anticipate costituiscono una garanzia per pazienti e medici. Eppure, Avvenire ha presentato la notizia con sdegno: «Berlino “apre” all’eutanasia» quasi fosse una sbandata improvvisa e imprevista. Da una parte fa tenerezza l’impegno e l’insistenza posti dai cattolici nel cercare di far credere che il “male” abiti solo all’estero da cui arrivano le notizie choc. Dall’altra fa rabbia sentire il sottosegretario signora Roccella ripetere che la legge liberticida sul fine vita in discussione in Parlamento è necessaria e urgente perché la nostra magistratura non è stata prudente e perché si moltiplicano i registri comunali dei testamenti biologici. Credono davvero Roccella e i suoi amici cattolici che una legge basti a isolare il Paese dal resto dell’Europa come è stato al tempo della controriforma?
Maurizio Mori è presidente della Consulta di Bioetica onlus e docente all’Università di Torino.
l’Unità 1.7.10
Preti pedofili negli Usa Primo processo al Vaticano
I vertici vaticani possono essere processati per gli abusi sessuali commessi dai preti negli Usa. Così ha stabilito la Corte Suprema. E subito in California il difensore di una vittima dei preti pedofili denuncia la Santa Sede.
di Gabriel Bertinetto
Il Vaticano può essere processato. La Corte Suprema americana lunedì scorso ha detto sì alla richiesta di un avvocato di Minneapolis, che assiste le vittime di abusi sessuali commessi da preti pedofili. La sentenza riguarda una causa in particolare, intentata da un ex-chierichetto dell’Oregon, molestato negli anni sessanta dal sacerdote irlandese Andrew Ronan. Ma è chiaro che il precedente fissato dal massimo organo di giustizia statunitense potrebbe innescare una reazione a catena.
DURO COLPO
Per la Santa Sede il colpo è duro. I suoi legali avevano chiesto che fosse riconosciuta ai rappresentanti del Vaticano all’estero l’immunità che, secondo la legge degli Usa, sarebbe prerogativa degli Stati sovrani. La Corte Suprema si è rifiutata di applicare questa sorta di privilegio extraterritoriale e ha concesso il nullaosta a procedere. Vuol dire, afferma il presidente
del Tribunale Vaticano, Giuseppe Della Torre, che ci considerano una «corporation, una multinazionale». Ma ogni Chiesa nazionale «ha una sua propria autonomia -afferma Della Torre, secondo il quale «è contradditorio considerare da un lato la Chiesa una corporation, dall’altro intrattenere con la Santa Sede relazioni diplomatiche».
Imbarazzo oltre Tevere. Piena soddisfazione a Los Angeles, dove l’avvocato Jeff Anderson, incassato il successo nella causa dell’Oregon, passa all’attacco e denuncia il Vaticano per un’altra dolorosa storia di violenze sessuali. Protagonista padre Jim, alias Titian Miani, un salesiano di 83 anni, che nel corso della sua attività pastorale, «ha fatto almeno 13 vittime, e malgrado ciò ha continuato a svolgere il suo servizio».
ABUSI INSABBIATI
Anderson accusa i vertici della Santa Sede, i superiori dell’ordine salesiano, e i vescovi responsabili di una scuola a Bellflower, in California, di avere insabbiato il caso. Padre Jim fu arrestato nel 2003 per un caso di pedofilia poi caduto in prescrizione, ma aveva alle spalle altre tre denunce riguardanti fatti avvenuti negli anni quaranta, quando era un seminarista. Sono i ripetuti abusi subiti da un ragazzo di 13 anni, prima durante un ritiro spirituale in Italia, poi in un collegio a Edmonton in Canada, e poi nella diocesi di Stockton, in California, allora diretta dal cardinale Roger Mahoney.
L’avvocato sostiene che «il Vaticano era stato avvertito, ma il Papa e la congregazione per la dottrina della fede non rimossero» il religioso. Anzi a Bellflower fu incaricato dei rapporti con gli studenti senza che né gli allievi né le famiglie fossero avvertiti» delle sue malefatte. In quella scuola abusò di quattro minorenni fra cui un ragazzo di 15 anni e le sue due sorelline.
«Per molti anni -incalza Andersongli ordini religiosi con base a Roma hanno trasferito con impunità all’estero i sacerdoti pedofili per evitare di fare i conti con la giustizia».
La Chiesa rischia di essere condannata a pagare pesanti risarcimenti. Proprio ieri un giudice del Delaware ha aperto alle vittime di preti pedofili un fondo di investimento da 120 milioni di dollari amministrato dalla diocesi di Wilmington in bancarotta. A Boston l'arcidiocesi ha messo in vendita beni ecclesiastici tra cui il palazzo dell'Arcivescovo per pagare gli indennizzi. Nel 2008 la Società salesiana di Los Angeles accettò di pagare 19 milioni e mezzo di dollari per chiudere 17 vertenze.
Ma l’avvocato Anderson sostiene che per il momento, più ancora dei soldi che può ottenere a vantaggio dei suoi assistiti, gli interessa che escano dagli archivi vaticani i nomi dei preti pedofili ancora segreti.
il Fatto 1.7.10
Le magliette a strisce salvarono la Carta
I ragazzi di Genova e il bastone di Tambroni
di Annibale Paloscia
Sono passati 50 anni da quel 30 giugno 1960 quando i “ragazzi in maglietta a strisce” insorsero a Genova salvando la Costituzione e la democrazia. Oggi il libro di Annibale Paloscia, “Al tempo di Tambroni” (Mursia editore) ripercorre una delle pagine più drammatiche del Dopoguerra. Lo stralcio che pubblichiamo è tratto dal capitolo XXV.
Quella mattina sono le donne genovesi a fare la prima mossa. Arrivano in migliaia al sacrario dei caduti della Resistenza portando mazzi di fiori. “Tonnellate di fiori” scrive con enfasi un cronista. Alle 12 comincia lo sciopero generale. Si sospende il lavoro nelle fabbriche, negli uffici, al porto. Alle 15:30 si forma il corteo in piazza della Nunziata. La folla riempie la lunga via XX Settembre. Secondo la polizia i manifestanti sono trentamila. I cronisti li valutano tra cinquantamila e centomila. La marcia si conclude in piazza della Vittoria, dove la folla ascolta in silenzio il discorso del segretario della Camera del Lavoro Bruno Pigna. Un folto gruppo di ragazzi con le magliette a strisce si ferma in piazza De Ferrari e occupa lo spazio intorno alla grande vasca di bronzo eretta nel 1934 per celebrare le guerre coloniali italiane. Vicino alla fontana era schierato da ore un reparto di polizia col compito di sorvegliare gli accessi alla zona recintata con i cavalli di Frisia. All’improvviso la mischia, gli scontri, il fuggi-fuggi, gli inseguimenti. Vengono date diverse versioni. La questura di Genova sostiene che i poliziotti hanno reagito a un’aggressione. Giordano Bruschi, partigiano e capo del sindacato dei marittimi, smentisce l’aggressione contro la polizia. “Al massimo un lancio di monetine”.
L’impiego dell’idrante sicuramente è l’errore iniziale della forza pubblica. La polizia che, per proteggere il congresso missino, aveva imprigionato il centro di Genova con reticolati e mezzi blindati, avrebbe dovuto tollerare i fischi e gli slogan di quei ragazzi stanchi di tutti i divieti. Al primo errore ne segue uno più grave: quello di lanciare i poliziotti all’inseguimento dei ragazzi per completare la punizione a colpi di manganello. [...] Lì intorno c’è il gran labirinto dei caruggi, che offre ai manifestanti il terreno adatto per respingere le cariche e fare assalti di sorpresa. Nei vicoli le magliette a strisce ricevono solidarietà e il loro numero si moltiplica. Arrivano anche rinforzi di portuali che, venendo dal luogo di lavoro, si sono portati gli uncini usati per agganciare le balle.
Le cariche alla cieca e i lanci di lacrimogeni coinvolgono migliaia di persone di ritorno dalla manifestazione, con la conseguenza che tutto il centro diventa area di scontri. I reparti che presidiavano piazza De Ferrari sono ormai frammentati, sotto una pioggia di pietre, gambe di tavolini, materiale edilizio di ogni tipo. I celerini lottano corpo a corpo, ma quando i loro avversari diventano cinquemila sono costretti a fuggire. Nei vicoli sono bombardati di oggetti lanciati dai tetti e dalle finestre. Non hanno mascherine di protezione contro i loro stessi fumogeni. Alcune jeep sono incendiate, un capitano della celere viene gettato nella vasca di piazza De Ferrari. [...] Alle 18:30 succede un episodio che fa infuriare gli ufficiali del secondo reparto Celere di Padova, temuto per la brutalità. Mentre gli uomini di questo reparto sono bombardati con sassi e tegole, un reparto dei carabinieri, che segue la situazione senza muoversi dalla sua posizione, viene applaudito dalle “magliette a strisce”. Alcuni carabinieri si lasciano prendere sottobraccio dai ragazzi usciti dai caruggi, si parla, si scherza. L’ispettore del corpo degli agenti di PS scrive al capo della polizia: “Vedemmo con sbalordimento prima e con indignazione poi, alcuni carabinieri avanzare sulla piazza, in mezzo ai dimostranti, come in una parata”. L’ufficiale denuncia “l’arcinoto atteggiamento dei carabinieri”. Avverte che se perdurasse, “le nostre valorose, pazienti ed educate guardie, nell’espletamento dei loro duri istantanei interventi, potrebbero coinvolgere, contro volontà, i carabinieri nello stesso trattamento riservato ai facinorosi”.
La maggior parte dei manifestanti scesi in piazza durante lo sciopero generale erano lavoratori e impiegati, uomini e donne, che da settimane, appena usciti dalle fabbriche e dagli uffici, andavano alle riunioni in cui si decidevano le iniziative contro il congresso missino. Per questa massa di cittadini, che non si aspettavano le violenze, né erano preparati a difendersi, fu più difficile evitare le manganellate, gli idranti e i lacrimogeni. [...] Dopo tre ore e mezzo di scontri, verso le 19:30, il presidente dell’Anpi Gimelli sale su una camionetta della polizia, gira per i quartieri, e con un megafono lancia appelli a cessare gli scontri. Poco dopo si torna a camminare nelle strade di Genova senza caroselli di jeep, senza idranti e lacrimogeni, senza ragazzi che tirano pietre. Centonove agenti ricorrono a cure in ospedale. In serata la Camera del Lavoro proclama un nuovo sciopero generale di 24 ore nella provincia per il 2 luglio, in concomitanza con l’apertura del congresso missino. Nel comunicato si dà la colpa degli incidenti alla polizia per il “brutale intervento a manifestazione sciolta”. A Roma si convoca subito il Senato. Il ministro dell’Interno Spataro rovescia sui comunisti tutta la responsabilità dei disordini di Genova. Il senatore Gaetano Barbareschi, segretario della Federazione socialista genovese, gli risponde: “Lei ci spaventa per la mancanza assoluta di conoscenza dei fatti”. Ricorda che la protesta contro il congresso missino unisce tutti i partiti antifascisti “compresa una parte notevole della Democrazia cristiana”. Denuncia la irresponsabilità del governo “perché non si convoca il congresso del Movimento sociale a dieci metri di distanza dal sacrario dei caduti partigiani”.
Repubblica 1.7.10
Compagni
Dall’utopia al tabù tutti sono diventati ex
di Nello Ajello
È stato un termine che indicava appartenenza e militanza. Adesso invece il suo utilizzo è un casus belli che provoca polemiche e imbarazzi Stare seduto lì in quell´aula con i suoi compagni, e i suoi capi, non era inutile. Anche lì serviva Era un compagno proletario, anche lui pensionato, che però non aveva né casa né famiglia Mi hanno consegnato qui un biglietto: "Compagno non commentare le tue poesie"
«Compagno». Ecco una parola che non sopporta sinonimi. Ha attraversato l´intera utopia del marxismo. È risuonata per decenni nei raduni della sinistra. È passata dalle labbra di Amadeo Bordiga e di Antonio Gramsci a quelle di Ignazio Silone. Ha animato i comizi di Nenni e di Saragat. La scandirono per una vita Togliatti, Secchia o Di Vittorio. Da quel vocabolo – «compagni» – Vittorini e Calvino soffrirono a distaccarsi, mentre Marco Pannella lo adottava in un senso tutto suo. E oggi quel termine è più che altro un pro-memoria: il solo, forse, che ci dica qualcosa su ciò che s´era convenuto di chiamare le «masse».
Fra entusiasmi, anatemi, trionfi, rovesci.
«Su fratelli, su compagni, – su, venite in fitta schiera», esortava un tempo l´Inno dei lavoratori, firmato da Filippo Turati. E oggi? Oggi la schiera non troppo fitta dei militanti della sinistra ha deciso di resuscitarla, quella parola, come stiamo per raccontare. Ma è una resurrezione necessariamente breve, su uno sfondo che non potrebbe essere più diverso da quello che aveva quando dirsi «compagno» rappresentava un segno di riconoscimento e sottolineava l´appartenenza a una genealogia di cui si onoravano senza tregua i supremi modelli. «Come ebbe ad affermare il compagno Lenin», «lo ha bene spiegato il compagno Stalin»: ecco una coppia di frasi che, nella scuola del partito comunista alle Frattocchie, era adottata per reprimere i dubbi.
Una sfida interessante potrebbe essere quella di trovare, nella pubblicistica comunista, l´espressione «ex-compagno». Deve esservi comparsa di rado. Nei partiti comunisti si entrava e basta. Le loro porte erano sorvegliate dai Capi. Su chi le varcava in uscita, gravava una patente d´indegnità: non più il «compagno» ma il «rinnegato». Quando lo scrittore Elio Vittorini, primi anni Cinquanta, manifestò il proprio disagio a condividere il «credo» comunista, Togliatti si disse stupito. «Era venuto con noi», scrisse su Rinascita «perché credeva che fossimo liberali, invece siamo comunisti. Perché non farselo spiegare prima?». Dal partito liberale (era sottinteso) ci si può allontanare con reciproci saluti. Da noi, no: o sei un compagno o non sei niente.
Dal caso Silone (1930) alla radiazione degli aderenti al Manifesto (1969), la casa dove abitano i compagni non contemplerà restauri. Solo più tardi, a quel venerando sostantivo potrà seguire qualche aggiunta: «compagni di strada» (come a dire, catecumeni a metà) o, più avanti ancora, «compagni che sbagliano». È già l´alba del terrorismo, la fine d´un sogno.
Ma passiamo all´oggi, tanto meno drammatico ma a suo modo agitato. Nel tornare in discussione due settimane fa, la parola «compagno» ha assunto qui in Italia le sembianze d´un casus belli.
A pronunziarla sabato 19 giugno, durante un raduno al Palalottomatica dell´Eur, è stato un bravo attore. Si chiama Fabrizio Gifuni. Di recente ha incarnato De Gasperi in tv. È figlio di quel mandarino della Repubblica, a nome Gaetano, che fu il gran consigliere di Scalfaro e poi di Ciampi sul Colle.
«Compagne e compagni, è tanto che volevo dirlo», ha esordito Fabrizio. Gli premeva denunziare il trattamento punitivo che il governo riserva alla cultura. E a quel suo incipit hanno fatto subito seguito i commenti, i plausi, i dinieghi. Essi non riguardano naturalmente la cultura, ma quel vocabolo risuscitato: «compagni».
Un´occasione per sfogarsi? Una scusa per abbandonarsi al prediletto masochismo? È difficile interpretare umori così istintivi. A riempire i giornali e il web di reazioni a catena è stata una fetta cospicua dei progressisti nostrani. Si va da quei cinque giovani «democratici» romani che hanno rifiutato la definizione di «compagni», scrivendo a Bersani di essere nati in contemporanea con il Pd (li hanno subito definiti i «nativi») all´opposta opinione di quella loro coetanea che, impegnata nell´attività di partito, confessa all´Unità: «Non ho il tempo di offendermi se qualcuno mi chiama compagna». E il Pd sembra dividersi intorno alla parola. Il senatore Stefano Ceccanti vorrebbe abolirla. Alludendo ai «nativi», il deputato europeo Leonardo Domenici, sbotta: «Anche i giovani possono dire delle cretinate». Debora Serracchiani propone una ricetta complicata: «Occorre trovare nuovi serbatoi simbolici». E al vertice del partito? Rosi Bindi si schiera con Gifuni.
Enrico Letta trova «stridente» quel suo appello. Beppe Fioroni incalza: «Compagni? Parola da archiviare». Degno di archiviazione, secondo Bersani, è l´intero argomento: «Basta finire sui giornali con polemiche inutili».
Un concerto di voci. Un caso assai «partecipato». In tema di partecipazione, circolava nella Parigi del ‘68 un aforisma sotto forma di coniugazione. Suonava così: «Je participe, tu participes, il participe, nous participons, vous participez, ils profitent». Trasportata la canzoncina qui e ora, è facile scoprire a chi possa alludere il verbo conclusivo. Basta registrare l´annoiata benevolenza con cui qualche giornale contrario alla sinistra ha commentato il caso del giugno 2010. «Chiamatevi compagni, vi resta solo questo», titolava Libero. Ma poi scriveva, dubbioso: «Hanno forse ragione quei ragazzini agnostici» (i «nativi», s´intuisce) a rifiutare la parola «compagno», «ultimo resto ingombrante e osceno di una chiesa che fu».
Un´altra volta, figlioli, state più attenti.
Repubblica 1.7.10
I funerali di Berlinguer
di Guido Crainz
Forse l´ultimo momento in cui ci si chiamò così furono i funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984 L´ultima occasione in cui la "gente comunista" occupò pienamente la scena, nel dolore e nell´orgoglio Alla fine degli anni ´ 70 il declino di una comunità Il popolo degli orfani
Quando iniziò ad appannarsi la «forza propulsiva» della parola? Il passaggio dall´ultima fase espansiva al declino è in realtà molto breve. Negli «anni ´68» il suo fascino dilaga ben oltre le fila tradizionali del movimento operaio ma l´inversione di tendenza non tarda molto: la crisi è evidente ben prima del 1989, e si avverte già nel declinare degli anni settanta. Nella stagione del terrorismo gli assassinii dei «compagni che sbagliano» recano il primo colpo mortale ed evocano al tempo stesso crimini del passato ancor più tragici ed enormi, compiuti in nome dell´idea. Incrinano certezze e rimozioni. «Un compagno non può averlo fatto», diceva la canzone dedicata a Pino Pinelli all´indomani della strage di Piazza Fontana: allora era profondamente vero ma pochi anni dopo i compagni lo avrebbero realmente fatto. Ancor peggio stavano facendo i compagni del Vietnam: il paese che era stato centrale per il tumultuoso volgersi a sinistra di una generazione diventava l´immagine e la rivelazione devastante di una menzogna storica. E il dissenso dell´Est iniziava, sia pur con molta fatica, a trovare interlocutori meno insensibili che in passato.
«Non abbiamo più niente, compagni, siamo orfani», scriveva Lotta continua il 31 dicembre del 1977. Di lì a poco rimarrà solo l´essere orfani, e la parola era ormai accerchiata anche su altri versanti. Lo slogan più diffuso e più limpido degli «anni ‘68» era stato «operai e studenti uniti nella lotta»: per il «movimento del 1977» gli operai sono diventati i "garantiti", quasi una comunità di privilegiati. Per la prima volta un movimento di sinistra vedeva nella classe operaia non il punto di riferimento di una vasta comunità di compagni ma un disvalore. E gli operai stessi, lo registravano allora le inchieste di Giulio Girardi, sentivano appannarsi quel senso di comunanza. Nel 1980 la «marcia dei quarantamila» della Fiat, con la sua capacità di rappresentare umori che andavano ben al di là dei "capi" e degli impiegati, verrà solo a chiudere duramente il cerchio.
In quello stesso anno dall´interno del Psi di Bettino Craxi prendevano forte impulso anche altri processi che a quella parola avrebbero irrimediabilmente attentato. Non solo e non tanto per il crescente prender le distanze dai simboli e dai riti del primo socialismo quanto per il progressivo privilegiare i ceti emergenti rispetto a quelli sofferenti e, più ancora, per quella vera e propria "mutazione genetica" del partito che verrà ampiamente alla luce molto prima di Mani pulite.
Anche altri processi travolgono però l´idea stessa di un´appartenenza collettiva. Già nel 1978, nel momento più cupo degli «anni di piombo», il trionfo de La febbre del sabato sera annuncia il "riflusso" che avrebbe caratterizzato gli anni ottanta. «Non so più a chi non credere», dice un personaggio di Altan, ed erano davvero molte le identità, le speranze e le idee che rifluivano. Forse l´ultimo grande momento in cui ci si chiamò compagni senza ombre o reticenze furono i funerali di Enrico Belinguer, nel 1984: l´ultima occasione in cui il "popolo comunista" e, più in generale, il popolo di sinistra occupò pienamente la scena, nel dolore e nell´orgoglio. Profondamente diverso, certo, da quello che aveva invaso Roma alla morte di Palmiro Togliatti, eppure ancora reale: ancora una folla di compagni. A ben vedere, le immagini e le interviste raccolte allora da una nutrita schiera di registi ci riconsegnano, ben prima del 1989, un mondo in via di scomparsa. Ci aiutano, anche, a riflettere su di esso e sulla nostra storia.
Repubblica 1.7.10
Quell´Arte di classe
di Filippo Ceccarelli
«Ogni movimento rivoluzionario è romantico per definizione» scriveva Antonio Gramsci. Ebbene, di questa rivoluzione romantica o di questo romanticismo rivoluzionario, il tributo più ardente e insistito alla parola «compagni», l´energia più estesa e vibrante si deve a Majakovskij.
È specialmente nella sua poesia che l´appellativo o l´interiezione acquista potenza letteraria e tonante: «Compagni! Sulle barricate!/ Barricate di cuori e di anime». Altro che materialismo storico: «Siamo uguali. Compagni d´una massa operaia./ Proletari di corpo e di spirito». Nella sua Lettera aperta agli operai, Majakovskij conquista l´attenzione ben al di là delle circostanze della storia: «Compagni, il duplice incendio della guerra e della rivoluzione ha devastato la nostra anima e le nostre città». Nel suo appello agli artisti e agli intellettuali l´evocazione risuona ultimativa: «Compagni, date un´arte nuova,/ tale che tragga la repubblica dal fango».
Fino all´estremo della sua vita, fino all´ultimo biglietto, scritto prima di farsi saltare le cervella: «Mamme, sorelle, compagni, perdonatemi». E ancora, come rivolgendosi a un´entità personale, tragica illusione da poeta: «Compagno governo, la mia famiglia è Lili Brik».
Ecco. A cercare «compagni» come fonte d´ispirazione artistica, si rischia oggi di rimanere con un nobile pugno di cenere tra le mani. Libri, film, quadri: così inattuali, così stranianti, così ambigui, a volte. Spunta dallo scaffale, reparto terrorismo, Compagna luna (Feltrinelli, 1998): l´ha scritto in prigione Barbara Balzerani, la più spietata brigatista. Ma è un volume lontano mille miglia, una vertigine di anni e di senso, da Il compagno di Pavese, romanzo vivo di riscatto (1947). Eppure, quando Pavese prese a interessarsi al mito, gli intellettuali comunisti la presero così male da fargli appuntare nei suoi diari: «Pavese non è un buon compagno. Discorsi d´intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che ti stanno più a cuore».
I buoni compagni. O i compagni buoni – che non era proprio la stessa cosa, ma in fondo sì. Comunque quelli che tra la nascita e la morte, solo attraverso quell´appellativo, diedero dignità alla loro condizione attraverso la lotta. Quelli, per dire, che già due secoli orsono affrontavano lo sguardo del pubblico nel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. O quelli immortalati da Monicelli nel 1963 in un film, I compagni appunto, reso ancora più epico dalla straordinaria fotografia di Peppino Rotunno. Quelle scarne figure, infine, sagome d´acrilico rosso con chiavi inglesi e cartelli, che dopo il Sessantotto Mario Schifano volle intitolare Compagni, compagni – e che una truce leggenda anti-gruppettara voleva foderassero a mo´ di boiserie le pareti della sala da pranzo della casa romana dell´Avvocato Agnelli.
Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo cantava nel frattempo Ricky Gianco. Eppure c´è una bellissima definizione che con i dovuti aggiornamenti sembra resistere all´usura del tempo. La ricordava giorni fa sul Manifesto Alessandro Portelli e forse ancora vale perché, più che da un ideologo, viene dal più grande studioso di antropologia culturale, Ernesto De Martino, che così spiegò la passione dei suoi studi: «Io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un "compagno", come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo».