La Stampa 13.7.13
Il cappio espiatorio
di Massimo Gramellini
Riunito in seduta permanente dai tempi del tiramolla indiano sui marò, l’Ufficio Figuracce Internazionali (UFI) sta affrontando in queste ore il delicato caso del ratto delle kazake. Il problema, naturalmente, non è riportare indietro la moglie del dissidente che l’Italia ha consegnato, insieme con la figlia, al dittatore dello Stato poco libero del Kazakistan, trattandole come clandestine. Il problema è decidere a chi darne la colpa. Dai primi accertamenti dell’UFI - citiamo il comunicato ufficiale - «è emerso che l’esistenza e l’andamento delle procedure di espulsione non erano state comunicate né al presidente del consiglio, né al ministro dell’interno e neanche al ministro degli esteri o della giustizia». Il comunicato non accenna al ministro dei trasporti (le due espulse hanno viaggiato in aereo) né a quello dell’agricoltura (il Kazakistan ha un’importante tradizione di pastorizia), ma anche da una lista così scarna si deduce che non un solo fondoschiena governativo è rimasto allo scoperto.
Escludendo l’ex ministro all’edilizia inconsapevole Scajola e il comandante scogliocentrico Schettino, e considerando momentaneamente esaurite le parentele egizie, l’elenco dei capri espiatori di routine comincia a scarseggiare. Restano i giudici che hanno esaminato la pratica e il funzionario dell’ufficio immigrazione che ha visionato i passaporti. Ma non sottovaluterei l’addetto ai bagagli («non poteva non sapere») e la hostess addetta alle salviette. L’importante è che il capro salti fuori al più presto, affinché intorno al suo collo si possa stringere il cappio mediatico che metterà in salvo tutti gli altri. Lunga vita al Kazakitalistan.
il Fatto 13.7.13
Espulsioni
Burrascoso vertice a Palazzo Chigi con Letta, Alfano, Bonino e Cancellieri
Le hanno consegnate al tiranno
Governo ridicolo: possono tornare
Alma Shalabayeva è agli arresti domiciliari in Kazakistan con la sua bambina
Premier e ministri costretti a riconoscere il grave errore sulla vicenda della moglie e della figlia del dissidente kazako
Scaricano le responsabilità sulla Polizia
Mozioni di M5S e Sel: “Il ministro dell’Interno si dimetta”
Il governo fa retromarcia su Ablyazov. Salva Alfano e scarica sulla polizia
Palazzo Chigi: “Espulsione revocata, la signora può tornare”
Ma è agli arresti in Kazakhistan
di Fabrizio d’Esposito
Il governo Letta si accorge con quaranta giorni di ritardo dello scandalo di Alma Shalabayeva e della figlioletta di 6 anni, consegnate con un blitz al Kazakhstan, e revoca il provvedimento di espulsione scaricando però tutto sulla polizia. La svolta per salvare il ministro dell’Interno Angelino Alfano dopo un vertice a quattro a Palazzo Chigi. Presenti, oltre Alfano, il premier Letta, la titolare della Farnesina Emma Bonino e la guardasigilli Anna Maria Cancellieri. La versione ufficiale del-l’esecutivo smentisce tensioni e polemiche tra i ministri e mette sotto accusa la Polizia: “Resta grave la mancata informativa al governo sull’intera vicenda, che comunque presentava sin dall’inizio elementi e caratteri non ordinari. Tale aspetto sarà oggetto di apposita indagine affidata dal ministro dell’Interno al capo della Polizia, la fine di accertare responsabilità connesse alla mancata informativa”.
IN PRATICA, il vertice massimo della catena di comando della rendition a Casal Palocco, alla fine di maggio, deve essere individuato tra Questura di Roma e Dipartimento di Pubblica Sicurezza. Ma non per l’iter seguito. Solo per la mancata informazione. Eppure, nonostante l’iter “corretto”, alla moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov è stata revocata l’espulsione per “circostanze e documentazione sopravvenute”. Troppo debole come spiegazione. La figuraccia del governo, con tanto di retromarcia, si spiega solo con la volontà di salvare Alfano da uno scandalo che giorno dopo giorno sta assumendo proporzioni gigantesche. Ieri il Movimento 5 Stelle e Sel hanno annunciato due mozioni di sfiducia al ministro dell’Interno. Quel blitz talmente anomalo e frettoloso, su pressione dello Stato del dittatore Nazarbayev, caro amico di Silvio Berlusconi, può essere solo colpa della Polizia? Secondo il comunicato del governo, Alfano passa dal ruolo di inquisito politico a quello di inquisitore nei confronti della Polizia. Chi pagherà adesso? Eppure, al vertice di ieri, i vari ministri sono arrivati sull’onda di feroci divisioni interne. Quando dalla stampa internazionale, lo scandalo Shalabayeva approdò sui nostri quotidiani (non tutti, a dire il vero), il ministro Bonino emise un
giudizio netto sulla vicenda, definita “miserabile”. Lei, a quanto si apprese da fonti diplomatiche, venne informata solo tre giorni dopo. E tutte le responsabilità furono imputate ad Alfano. Anche la Cancellieri sarebbe stata furiosa per alcune forzature di Alfano sul ruolo della magistratura, procura di Roma e procura minorile. Quando poi, mercoledì scorso, molti si aspettavano in aula a Montecitorio lo stesso Alfano per rispondere a un’interrogazione leghista, alla fine è apparso il premier Letta. Una mossa interpretata come un modo per “nascondere” Alfano e salvarlo dallo scandalo. I risultati dell’indagine interna avviata dal premier hanno portato a scaricare tutto sulla Polizia.
LA COLPA: non vennero informati i ministri, in particolare quello dell’Interno. In vari ambienti parlamentari, compreso il Pd, è invece opinione convinta che il principale responsabile di questa vicenda sarebbe Alfano. Nichi Vendola, leader di Sel, ha chiesto le dimissioni del ministro dell’Interno: “La nota di Palazzo Chigi, che riconosce gravi e colpevoli mancanze da parte di apparati dello Stato, in qualsiasi altro Paese civile si sarebbe conclusa in ben altro modo: con le dimissioni del ministro dell’Interno. Non ci si può ipocritamente lavare la coscienza con due parolette. Aspettiamo ora dal titolare del Viminale il passo conseguente”. Aggiunge Claudio Fava, sempre di Sel: “La responsabilità politica di questa operazione di polizia, che ha assunto nelle modalità, nei tempi e nella spregiudicatezza tutte le caratteristiche di una extraordinary rendition, ricade adesso sul ministro dell’Interno. Se Alfano sapeva dovrà spiegare in nome e per conto di chi sono stati disposti l’arresto e la consegna della signora Shalabayeva alle autorità kazake, contravvenendo precise norme di legge e di diritto internazionale.
ANCOR PEGGIO se nulla il ministro ha saputo: sarebbe la prova di una sua inaudita inadeguatezza politica”. Ecco invece la mozione di sfiducia del Movimento 5 Stelle, che ha come primo firmatario il senatore Giarrusso: “Le violazioni di norme ordinarie e costituzionali che, peraltro, rischiano di compromettere fatalmente la vita di un essere umano, non consentono la permanenza del Ministro del-l’Interno in seno alla compagine governativa”.
il Fatto 13.7.13
La cronaca del “rapimento” in 72 ore
Chi è Ablyazov
SETTEMBRE 2012 Alma Shalabayeva e sua figlia Alua di 6 anni dopo esser passate dalla Lettonia si stabiliscono in Italia.
26 MAGGIO 2013 Mukhtar Ablyazov, marito della donna, dissidente kazako, viene fotografato in un’abitazione di Casal Palocco, a Roma, da agenti privati ingaggiati dalle autorità kazake.
29 MAGGIO 2013 La Digos di Roma durante la notte irrompe, con una cinquantina di uomini, nella villetta di Casal Palocco: non trovando Mukhtar Ablyazov portano via la bambina, la moglie e il cognato che era in visita presso di loro.
30 MAGGIO 2013 Il cognato e la bambina vengono rilasciati. La signora Alma viene trattenuta e portata al centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria.
31 MAGGIO 2013 I poliziotti italiani tornano nella villetta per prendere la bambina. La prelevano e la portano direttamente all’aeroporto, dove con un jet privato affittato a Vienna dalle autorità kazake vengono rimpatriate forzatamente le due donne.
IL DISSIDENTE ANTI-NAZARBAEV Cinquant’anni, insieme ad altri ex protetti del presidente kazako Nazarbaev, Ablyazov nel 2001 fonda il principale partito di opposizione al regime. Nel luglio 2002 Ablyazov viene dichiarato colpevole di “abuso di potere compiuto in qualità di ministro” e condannato a sei anni di prigione. Rimane in carcere 10 mesi e liberato soltanto dopo molte pressioni internazionali. Lascia il Kazakhistan nel 2009, accusato di aver trafugato illegalmente 6 miliardi di dollari (altri rapporti farebbero ammontare la cifra a 10 miliardi) come direttore della BTA Bank. Dopo essersi stabilito in Inghilterra ottiene qui, nel 2011, asilo politico. Dall’estero si pronuncia criticamente sul governo kazako e in particolare contro Nazarbaev, di cui diventa uno dei principali oppositori. Ma l’Alta Corte del Regno Unito lo mette sotto processo con l’accusa di appropriazione indebita dei miliardi della BTA Bank tra il 2005 e il 2009. Viene condannato a 22 mesi per oltraggio alla corte in quanto ha dissimulato alle autorità inglesi la sua reale consistenza patrimoniale. Da allora si è reso indisponibile e non si hanno notizie sui suoi movimenti.
il Fatto 13.7.13
Il Viminale, le telefonate e i fax: tutte le ombre del sequestro
di Davide Vecchi
Dopo un mese di silenzio l’esecutivo è stato costretto a intervenire. E nel giorno in cui la politica decide che il responsabile è Angelino Alfano, emergono nuovi particolari dagli atti sulla scrivania del magistrato titolare dell’indagine, Giuseppe Albamonte. E inizia il balletto della responsabilità fra gli attori di questa ancora intricata vicenda. A cominciare dal governo, che demanda tutte le responsabilità alla polizia.
L’AMBASCIATORE
Ma il primo ad aver omesso di informare il governo è stato il ministro dell’Interno che riceve numerose telefonate dall’ambasciata del Kazakistan nei giorni tra il 20 e il 26 maggio: il dissidente Mukhtar Ablyazov era a Roma e il regime di Astana pretendeva fosse fermato in forza di un mandato di cattura internazionale emesso proprio dal Kazakistan. Il vicepremier si attiva spontaneamente per fare una cortesia a Nazarbayev, caro e vecchio amico di Silvio Berlusconi? O esegue indicazioni che riceve a sua volta da altri? L’indagine interna avviata da Enrico Letta ha appena preso avvio. Il Copasir è stato coinvolto solamente due giorni fa. Ma c’è già la certezza che Alfano preferisce agire senza coordinarsi con il ministro degli Esteri né con quello della Giustizia, come invece avrebbe dovuto. E non fornisce alcuna comunicazione a Palazzo Chigi.
LA DIGOS E IL PM
Una cosa è certa: la Questura riceve l’incarico di catturare Ablyazov, del resto anche l’Interpol conferma la sua presenza in Italia. Gli uomini della Digos, guidati da Lamberto Giannini, lo individuano all'Eur. Lo filmano, fotografano, seguono e arrivano così fino alla villa di Casal Palocco dove vive la moglie, la figlia e la famiglia della cognata in visita. Sei persone in tutto. La notte tra il 28 e il 29 maggio scatta il blitz. Un’operazione degna di un latitante alla Matteo Messina Denaro. Ma Ablyazov non c’è. Prendono il cognato del dissidente e lo conducono al Cie di Ponte Galeria, insieme alla moglie di Ablyavoz. La figlia Alua, di 6 anni, viene temporaneamente affidata alla zia che rimane nella villa di Casal Palocco. La partita a questo punto passa in mano all’ufficio immigrazione della Questura, guidato da Maurizio Improta, che si fa carico in particolare della donna: i primi accertamenti dimostrato che il passaporto centraficano mostrato da Alma è falso, ha anche vistosi errori e manca il visto. Inoltre risulta sia entrata illegalmente in Italia. Viene schedata come clandestina ed è avviata la procedura per il rimpatrio. Il prefetto firma il decreto di espulsione e la procura, guidata da Giuseppe Pignatone, dispone il nulla osta. Eppure il 30 maggio, giorno prima del rimpatrio di Alma Shalabayeva in Kazakistan, all’ufficio del Procuratore Capo vengono inviati via fax dalle ambasciate di Bruxelles e Ginevra i documenti che attestano la vera identità di Alma come consorte del rifugiato politico in Gran Bretagna Ablyazov. Eppure il nulla osta viene dato. E quando i legali della donna il giorno successivo tentano di farla interrogare, alla richiesta del pm titolare del fascicolo, Eugenio Albamonte, l’ufficio immigrazione risponde che sarebbe inutile: “Ormai è accertato che il documento è contraffatto”. Così la donna viene consegnata nelle mani dell’ambasciatore del Kazakistan Yerzhan Yessirkepov e spedita, con la figlia, ad Astana, a bordo di un jet privato noleggiato dal regime kazako in Austria al mattino. È il 31 maggio. Alma atterra nell’unico luogo che ha tentato sin da subito di evitare. Ha mostrato i documenti del Centrafrica. Ha tentato di accreditarsi come console onorario del Burundi mostrando un passaporto diplomatico. Si è affidata agli avvocati del Cir, nel tentativo di dimostrare che lei non era una clandestina qualsiasi ma la moglie dell’oppositore al regime di Nursultan Nazarbayev. Ed è su questo punto che si gioca l’inchiesta interna per comprendere a pieno le singole responsabilità.
L’UFFICIO IMMIGRAZIONE
Gli uomini dell’ufficio immigrazione, infatti, a quanto si apprende, sostengono di non aver mai saputo che si trattava della moglie di un dissidente e soprattutto ignoravano che mettendola su quell’aereo l’avrebbero consegnata al nemico. Più semplicemente l’hanno trattata come una clandestina qualunque che doveva essere rimpatriata. Per quanto rimanga ancora un mistero come possa sembrare normale il rimpatrio di un clandestino in appena 48 ore e a bordo di un aereo privato. Gli interrogativi sono ancora molti. E il premier Letta ha garantito, rispondendo al question time a Montecitorio, che non saranno ammesse ombre. Quindi l’inchiesta interna mira a individuare i veri responsabili di questo rapimento di Stato. E già il Copasir sta verificando se c’è stato un qualche coinvolgimento da parte dei servizi segreti, quell’Aisi guidata dal generale Arturo Esposito.
il Fatto 13.7.13
“Alma finirà in carcere e Alua all’orfanotrofio”
Il messaggio via Facebook del marito e le rassicurazioni dell’ambasciatore a Roma:
“Stanno bene, a casa dei nonni”
di Chiara Paolin
Il caso Ablyazov è diventato ormai lo scandalo Shalabayeva. Perché la pericolosa vita di Mukthar Ablyazov, già industriale e ministro dal miliardo facile che è fuggito dal Kazakistan ma anche dall’Urss e vive oggi a Londra - o forse in Svizzera - con l’incubo di essere rispedito a casa (dove ha già saggiato le patrie galere), si è trasformata nella certezza di una violenza cui sono state sottoposte Alma Shalabayeva e la figlia Alua, di sei anni.
IL COMUNICATO di Palazzo Chigi non ammette il rapimento di fatto, ma l’errore nell’espulsione sì. E precisa: “Il governo, colti i profili di protezione internazionale che il caso ha sollevato, si è immediatamente attivato per verificare le condizioni di soggiorno in Kazakistan della signora e della figlia”. Inoltre, “la signora Alma Shalabayeva potrà rientrare in Italia, dove potrà chiarire la propria posizione”.
Notizie che non avranno tranquillizzato più di tanto Ablyazov. Ieri, prima di conoscere la decisione di Letta, il dissidente aveva scritto un messaggio sulla sua pagina facebook spiegando che moglie e figlia erano in pericolo: “Le autorità kazake hanno promosso un procedimento penale contro Alma il 30 maggio, il giorno prima che le donna e la figlia venissero imbarcate a Ciampino sull'aereo privato messo a disposizione dall’ambasciata kazaka - scrive il sito di Ablyazov -. Ora si attende che venga fissata l’udienza per reati relativi ad un passaporto che Alma Shalabayeva non ha mai visto nè usato. La donna rischia una condanna a due anni e, a quel punto, la bambina verrebbe messa in orfanotrofio”.
Quando l’ambasciatore kazako a Roma Andrian Yelemessov viene informato sulla revoca dell’espulsione, alza le spalle: “Le procedure sono state corrette, ogni giorno ci sono sciocchezze sui giornali su questo caso. L’espulsione è stata corretta. La signora Alma e la figlia sono ad Astana dai genitori della donna e stanno benissimo. Si può verificare”. Di certo la Farnesina ha già preso contatto con l’ambasciatore Yelemessov: adesso che l’Italia riconosce le sue colpe e invita la signora espulsa ingiustamente a tornare qui, bisogna anche dare un’occhio a mamma e figlia, cercare di capire se davvero si stiano godendo in pace la compagnia dei familiari o se invece la legge farà in fretta il suo mestiere anche laggù spedendo in galera la Shalabayeva.
NEGLI AMBIENTI internazionali i commenti sono scarsi, le facce stranite. Dopo la storia dei marò, un altro pateracchio diplomatico che lascia senza parole. “É una notizia fantastica, ritengo che sia l'inizio di un doveroso ripristino dei diritti violati della signora Alma Shalabayeva e della figlia, che a questo punto dovremmo tutti sforzarci di far rientrare nel nostro paese” ha detto invece Riccardo Olivo, uno dei legali della signora Shalabayeva. Un drappello di onorevoli M5S ha annunciato l’intenzione di recarsi ad Astana per verificare che “siano rispettati di diritti civili” di mamma e bimba. Chissà se il presidente Nazarbayev sarà felice di accoglierli. Per ora ha fatto pubblicare sul sito del governo il video che riprende l’arrivo del jet affittato per riportare in Kazakistan Alma e Alua. Le migliori armi a sua disposizione per trattare con Ablyazov.
La Stampa 13.7.13
Vertice di Letta coi ministri: non eravamo stati informati, è grave. Ma la donna ora è agli arresti ad Astana
Caso Kazakhstan per il governo
Revocata l’espulsione della moglie dell’esule Ablyazov. Sel e M5S: Alfano lasci
Sel e M5S chiedono la testa di Alfano “Non è in grado di gestire l’Interno”
E dal Copasir arriva l’interpellanza di Fava «Spieghi la dinamica dell’operazione»
di Antonio Pittoni
Una toppa, alla fine, il governo doveva comunque provare a mettercela. Ma di certo la revoca dell’espulsione di Alma Shalabayeva non è bastata a chiudere la falla. Perché se Palazzo Chigi definisce «grave» la mancata informativa all’esecutivo sulla vicenda, scaricando di fatto tutta la responsabilità sulla polizia, c’è almeno un altro colpevole secondo le opposizioni che continuavano ancora ieri a puntare il dito contro il ministro dell’Interno Alfano.
Lui, rimasto in silenzio fin dall’esplosione del caso, ha di fatto affidato la sua voce alla nota congiunta con la quale, dopo un lungo summit con il premier Letta, lo stesso Alfano e i ministri Bonino e Cancellieri, il governo ha chiarito la sua posizione. Ribadita da fonti del Viminale: «Non si è difeso semplicemente perché non aveva bisogno di farlo. La prova sta nel fatto che la nota porta la firma anche degli altri membri del governo». Le avvisaglie di un’altra giornata di passione per l’esecutivo, sospeso tra l’imbarazzo per l’eco internazionale della vicenda e le nuove tensioni parlamentari, erano chiare sin dal mattino. Quando Claudio Fava, componente del Copasir in quota Sel, ha annunciato un’interpellanza proprio ad Alfano per chiarire «la catena di comando di un’operazione opaca nelle forme e grave nel contenuto». Prima di lanciare in serata un vero e proprio atto d’accusa per una «extraordinary rendition» in piena regola: «Se Alfano sapeva, dovrà spiegare in nome e per conto di chi sono stati disposti l’arresto e la consegna della signora Shalabayeva alle autorità kazake - ha spiegato Fava -. Ancor peggio se nulla il ministro ha saputo: sarebbe la prova di una sua inaudita inadeguatezza politica». Per questo, ha annunciato Nichi Vendola, «Sel presenterà mozione di sfiducia nei confronti di Alfano a Montecitorio». Iniziativa analoga a quella del Movimento 5 Stelle, che pure ha accolto con favore la revoca dell’espulsione. «Non è possibile che vi sia un ministro non in grado di capire cosa succede nel suo dicastero», ha accusato Mario Giarrusso. Anche per il Pd la revoca dell’espulsione è positiva, ma adesso - sottolinea Emanuele Fiano, capogruppo in commissione Affari costituzionali - occorre «chiarire completamente ogni responsabilità».
Il Pdl invece fa quadrato intorno ad Alfano. «Non prendiamo lezioni di comportamento da Sel, M5S e una parte del Pd - ha messo in guardia Daniela Santanché - Avviso ai naviganti: non tirate troppo la corda perché su questa vicenda si spezza». Mentre arriva l’annuncio a quattro mani firmato dai presidenti delle commissioni Esteri e Affari costituzionali, Casini-Finocchiaro: «Il Senato ha deciso di approfondire, non appena sarà conclusa l’indagine preannunciata dal presidente del Consiglio Letta, le modalità e la dinamica complessiva di un episodio che ha contorni inquietanti».
Corriere 13.7.13
Tutti i segreti del giallo kazako
Quel fax della Farnesina che le negò l'immunità
«Shalabayeva può rientrare in Italia»
L'irruzione nella villa di Casal Palocco chiesta dall'Interpol. Il capo della polizia non avvisato
qui
Corriere 13.7.13
«Pasticcio kazako»: troppi errori e omissioni senza colpevoli a livello politico
Sarà difficile spiegare ai nostri partner europei e internazionali cosa sia realmente accaduto
di Giuseppe Sarcina
qui
Corriere 13.7.13
Quel fax della Farnesina che le negò l’immunità
L’irruzione nella villa di Casal Palocco chiesta dall’Interpol. Il capo della polizia non avvisato
di Fiorenza Sarzanini
ROMA — Il ministero degli Esteri fu informato che la signora Alma Shalabayeva stava per essere espulsa dall’Italia. La prova è in un fax inviato il pomeriggio del 29 maggio scorso dal Cerimoniale della Farnesina all’ufficio Immigrazione della questura di Roma che chiedeva conferma del fatto che la donna godesse dell’immunità diplomatica. Quanto basta per rendere ancora più fitto il mistero su che cosa sia davvero accaduto in quei giorni e fino al 31 maggio, quando lei e la figlia Alua di 6 anni furono rimpatriate con un aereo privato della compagnia austriaca Avcon Jet messo a disposizione dalle autorità diplomatiche a Roma e non, come generalmente avviene, con un velivolo di linea. E su quali pressioni siano state esercitate dalle autorità kazake su quelle italiane affinché tutto si svolgesse con la massima urgenza. Del resto Alma Shalabayeva è la moglie di Mukhtar Ablyazov, il dissidente che il 7 luglio 2011 ha ottenuto lo status di «rifugiato» dalle autorità della Gran Bretagna. Come è possibile che questo non risulti negli archivi della Farnesina? E perché, come emerge dai primi accertamenti svolti in questi giorni, la Direzione centrale della polizia Criminale non avrebbe informato il capo della polizia del blitz compiuto nella notte tra il 28 e il 29 maggio? Ruota fondamentalmente intorno a questi due interrogativi l’indagine affidata dal governo al prefetto Alessandro Pansa che al vertice della polizia è arrivato quando la signora era stata ormai rispedita in patria. Un accertamento rapido che dovrà verificare proprio quanto accaduto.
La catena di comando
È l’Interpol, il 28 maggio, a segnalare la presenza di Ablyazov in Italia e sollecitarne l’arresto per una serie di truffe. Il mandato di cattura internazionale firmato dalle autorità kazake e moscovite viene trasmesso alla squadra mobile di Roma con le indicazioni sulla villetta di Casal Palocco dove l’uomo si sarebbe nascosto. Il capo della mobile Renato Cortese concorda con il questore Fulvio Della Rocca di eseguire l’irruzione appena farà buio. Nella nota viene sottolineato che Ablyazov è «armato e pericoloso», dunque si decide di chiedere rinforzi alla Digos.
Il blitz si conclude con un nulla di fatto, visto che l’uomo non viene trovato. Sull’esito il questore Fulvio Della Rocca informa l’Interpol, che dipende direttamente dalla Dac guidata dal prefetto Matteo Chiusolo. Ma secondo la versione accreditata in queste ore, nessuno si preoccupa di avvisare il vertice della polizia e dunque il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ed ecco l’altro punto oscuro che l’indagine di Pansa dovrà chiarire: come è possibile che l’Interpol abbia sollecitato la cattura dell’uomo senza verificare che si trattava di un rifugiato politico?
I due fax
Gli agenti della Mobile che fanno irruzione nella villetta non trovano Ablyazov, ma sua moglie Alma. E per la donna è l’inizio dell’incubo, come ha più volte sottolineato il suo avvocato Riccardo Olivo che da settimane si batte per farla tornare in Italia e così sottrarla alla possibile vendetta del regime kazako. La signora esibisce un passaporto rilasciato dalla Repubblica del Centroafricana con il suo nome da nubile Alma Ayan. Gli agenti ritengono che il documento possa essere contraffatto e la trasferiscono nel centro di accoglienza di Ponte Galeria. È lì che la signora spiega di godere dell’immunità diplomatica. La mattina del 29 maggio il dirigente dell’ufficio Immigrazione Maurizio Improta chiede conferma al Cerimoniale della Farnesina, come prevede la prassi. La risposta arriva poche ore dopo. Il fax è firmato dall’addetto Daniele Sfregola. Attesta che la signora non gode di alcuna immunità. Precisa che era stata candidata dall’ambasciata del Burundi a diventare console onorario per le regioni del sud Italia, ma che quella candidatura era stata successivamente ritirata. Il ministero degli Esteri ha dunque svolto ricerche sul nominativo. Possibile non abbiano scoperto la circostanza più importante, cioè che si trattava della moglie di un rifugiato politico?
L’iscrizione a scuola
Eppure la presenza della donna in Italia ha certamente lasciato tracce, come risulta dal ricorso presentato dall’avvocato Olivo contro il decreto di espulsione. Ed è proprio questo ad alimentare i dubbi sull’operato delle autorità, soprattutto se si tiene conto che l’ambasciatore del Kazakistan in Italia, Andrian Yelemessov, avrebbe più volte sollecitato il blitz per catturare Ablyazov. E lo avrebbe fatto proprio con alcuni alti funzionari del Viminale che adesso dovranno chiarire la natura di questi contatti.
Scrive il legale: «Alla signora Shalabayeva e a sua figlia Alua sono stati rilasciati dalle competenti Autorità britanniche, in data 1 agosto 2011, regolari permessi di soggiorno, con validità sino al 7 luglio 2016. A seguito di segnalazioni della Polizia Metropolitana di Londra, circa la sussistenza di un concreto ed imminente pericolo per l’incolumità sua e della famiglia e dell’impossibilità per la stessa Polizia di garantire loro un’effettiva e continua protezione onde evitare che Ablyazov venisse assassinato sul territorio Britannico, la signora Shalabayeva, pur in possesso dei permessi di soggiorno britannici, ha deciso di allontanarsi dal Regno Unito. Dopo un periodo in Lettonia, si è trasferita in Italia, facendo ingresso dalla frontiera con la Svizzera, nell’estate del 2012. A partire da tale momento dunque viveva sul territorio italiano, e più̀ precisamente in una villa in affitto a Casal Palocco, con la figlia Alua, unitamente ad alcuni collaboratori domestici. La signora Shalabayeva ha condotto nel territorio italiano una vita assolutamente normale, non ha mai avuto alcun problema con le Autorità italiane, ed ha iscritto la propria figlia Alua ad una scuola di Roma, che ha frequentato regolarmente». Sarebbe bastato questo dettaglio per scoprire chi fosse realmente.
Corriere 13.7.13
«Temevo che fossero una gang di assassini»
«Pensavo volessero uccidermi. E quando ho chiesto chi fossero mi hanno risposto: “Io sono la mafia”». Il Financial Times ha pubblicato il memoriale di 18 pagine di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Ablyazov. Un racconto dei tre giorni (dalla notte del 28 al 31 maggio) passati nelle mani delle forze dell’ordine italiane e destinato a sollevare polemiche. Controverso soprattutto il resoconto sul blitz notturno con cui venne prelevata insieme alla figlia dalla villa di Casal Palocco. «C’erano circa 50 uomini, tutti armati. Sembrava che ci fosse un terremoto. Ero terrorizzata e non riuscivo a capire cosa o chi cercassero». Tipi muscolosi vestiti di nero, con la barba, gli orecchini e le catene al collo. «A un certo punto ho pensato che non fossero poliziotti ma un gruppo di malviventi», scrive Shalabayeva. Tutti gridano in italiano, non viene mostrato nessun mandato di perquisizione e nessun distintivo, mentre la casa è rivoltata con furia inaudita e la donna si sente chiamare «Puttana russa». Quando Shalabayeva finalmente riconosce il nome del marito tra le urla degli agenti in borghese, è presa dal panico: «In quel momento avevo un unico pensiero: sono venuti a ucciderci, senza alcun processo e senza indagini e nessuno lo saprà mai».
Corriere 13.7.13
Un satrapo visionario che piace alle Cancellerie e tormenta i dissidenti
di Fabrizio Dragosei
MOSCA — Riserva mondiale di petrolio e gas alla quale tutti i Paesi del mondo guardano con attenzione. Ma anche bastione di stabilità in una regione estremamente volatile e sicuro alleato nella lotta contro l’estremismo islamico e il terrorismo. Il paese più grande del mondo senza alcuno sbocco al mare (escluso il Caspio) è sotto il mirino delle organizzazioni umanitarie internazionali per il trattamento dei dissidenti, ma è anche nel cuore di tutte le cancellerie, da Washington a Mosca passando per Pechino e, naturalmente, per Roma.
L’uomo che assicura questi ottimi rapporti e al quale tutti i governi guardano con grande simpatia è proprio quel Nursultan Nazarbaev che viene accusato dagli oppositori di essere un despota e un tiranno, al potere da sempre in un paese più grande dell’intera Europa ma che ha soltanto 17 milioni di abitanti.
Nazarbaev viene da lontano, visto che nei suoi 73 anni di vita ha visto passare parecchia acqua sotto i ponti kazaki.
Era già nel partito comunista dell’Unione Sovietica quando Krusciov avviava il suo disgelo. Fece grandi passi avanti all’epoca di Gorbaciov, fino a diventare primo segretario del partito in Kazakistan e membro del Politburo dell’Urss. Nel 1991, all’epoca del golpe organizzato dai conservatori, si schierò con Boris Eltsin e i riformisti.
Inevitabile che la transizione lo vedesse protagonista. Da segretario, venne eletto presidente del Kazakistan indipendente. E da allora (1° dicembre 1991) nessuno l’ha spostato. La crescita del paese porta la sua firma e naturalmente è dovuta in massima parte alle ricchezze del sottosuolo. Petrolio e gas di cui il Kazakistan è uno dei maggiori esportatori mondiali.
Coi soldi, Nazarbaev ha deciso un’opera titanica, simile a quella intrapresa dal Brasile nel 1960 quando spostò la capitale da Rio de Janeiro alla neonata Brasilia. Il signore del Kazakistan decise negli anni Novanta di togliere ad Almaty (ex Alma Ata) il rango di capitale. Al centro del paese venne sviluppata una vecchia città fondata dai cosacchi e trasformata, nel 1997, nella capitale Astana (che vuol dire proprio capitale). Volenti o nolenti tutti furono costretti a spostarsi, compresi i diplomatici e i dirigenti delle grandi compagnie petrolifere mondiali che facevano affari in Kazakistan.
Si, perché gli interessi in ballo sono molti, come è facile capire. A parte i giacimenti esistenti, ci sono due enormi iniziative in sviluppo, il campo gigante di Karachaganak, dove sono custoditi cinque miliardi di barili di greggio e quello in perforazione di Kashagan che arriva addirittura a 13 miliardi di barili.
A Kashagan l’Eni ha una quota del 16,81 per cento, come ExxonMobil, Shell e Total.
I rapporti con l’Italia sono ottimi, quale che sia il governo al potere da noi. Ma anche gli altri paesi fanno a gara per non perdere colpi. Il primo ministro britannico Cameron, che pure ha concesso asilo politico al dissidente Ablyazov, il primo luglio era ad Astana.
Nella conferenza stampa seguita all’incontro con Nazarbaev, Cameron ha timidamente riferito di aver «discusso durante i colloqui la lettera di Human Rights Watch» sul trattamento dei dissidenti (torture, incarcerazioni, limiti alla libertà dei media). Ma il presidente kazako, «leader della nazione», lo ha subito bacchettato: «Grazie molte per le raccomandazioni e i consigli, ma nessuno ha il diritto di insegnarci come vivere». Cameron non ha replicato.
Il Kazakistan non è certo un campione di democrazia, ma c’è di peggio, specie in Asia Centrale. In fin dei conti Papa (come lo chiamano affettuosamente i kazaki) ha respinto una specie di plebiscito che gli voleva assicurare il potere fino al 2020. Si è limitato a far svolgere le elezioni per il parlamento (nel quale non siede nemmeno un oppositore) e a farsi nuovamente votare come presidente per cinque anni col 95,54 per cento dei voti.
Corriere 13.7.13
«C’è il rischio che sua figlia possa finire in orfanotrofio»
di R. Fr.
ROMA — «Un risultato straordinario. Una notizia fantastica». Esulta l’avvocato Riccardo Olivo, uno dei legali di Alma Shalabayeva all’annuncio della revoca dell’espulsione della moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov.
Avvocato, è un provvedimento tardivo?
«Il problema non è tanto questo, piuttosto non dipende da noi, nè dall’Italia il destino di Alma e della sua bambina. Sono sottoposte alla giurisdizione di uno stato sovrano. È un inizio, una notizia positiva per poter cominciare a pensare a come far uscire lei e la figlia dal Paese e consentirle di decidere liberamente dove andare».
La Shalabayeva potrebbe tornare in Italia...
«L’indicazione data dal nostro governo di consentirle di tornare qui anche per fornire spiegazioni sulla vicenda mi sembra opportuna, anche se al momento non conosco quali siano le intenzioni della signora. Certo, non bisogna dimenticare però che ogni passo è comunque rimesso alla buona volontà del governo kazako. Ma vorrei essere ottimista perché proprio da quel Paese è stato dichiarato che non era mai stato richiesto in alcun modo il rimpatrio delle due cittadine. ».
Altrimenti, secondo lei, quale dovrebbe essere il compito dell’Italia?
«Se non dovessero essere liberate, allora il nostro Paese, che ha creato questa situazione, si dovrebbe impegnare per fare pressione sui kazaki, congiuntamente con organismi internazionali, con le istituzioni, il Parlamento europeo. Anche con l’Ocse».
Cosa resta di questa vicenda?
«Una lesione molto forte del diritto. Una violazione dei diritti umani che è sotto gli occhi di tutti. Sia sotto l’aspetto sostanziale sia - ne sono convinto - sotto quello formale».
Qual è la condizione attuale di Alma Shalabayeva?
«Si trova a casa del padre, con la figlia. Non è ai domiciliari, ma ha il divieto di allontanarsi dalla capitale. Rischia una condanna a due anni perché familiare di un dissidente e la bambina potrebbe finire in un orfanotrofio. L’importante è che la situazione si risolva prima che venga processata. Ecco perché serve ancora l’aiuto dei media e dell’opinione pubblica che hanno consentito di raggiungere questo risultato straordinario. È merito loro. Chi prima, chi dopo, ha preso posizione. E la pressione sul governo è cresciuta fino a questo punto».
Repubblica 13.7.13
E il Viminale disse sì al blitz
I misteri dell’operazione Ablyazov Quelle strane visite dei kazaki nelle stanze di Viminale e Questura
Cinque giorni di pressioni e omissioni che imbarazzano l’Italia
di Carlo Bonini
ROMA COME è stato possibile? Chi lo ha reso possibile? E perché? Repubblica ha avuto accesso ai documenti amministrativi e giudiziari del caso Ablyazov. Ha raccolto le testimonianze di chi ha avuto partediretta in questa vicenda.
SONO dodici diverse fonti — inquirenti, legali, ministeriali e di polizia — che consentono una prima ricostruzione di dettaglio di quanto accaduto tra la mattina del 27 maggio e la sera del 31, quando, all’aeroporto di Ciampino, Alma Shalabayeva, moglie del dissidente, sale insieme alla figlia Alua sulla scaletta dell’aereo che l’indomani mattina la riporterà ad Astana.
28 Maggio. Kazaki in Questura
Il 28 maggio, dunque. La storia comincia da qui. Quel martedì mattina, i due kazaki che si presentano in Questura nell’ufficio del capo della Squadra Mobile Renato Cortese, non stanno nella pelle. Sono Andrian Yelemessov, l’ambasciatore in Italia, e il suo primo consigliere Nurlan Zhalgasbayev. L’agenzia privata di investigazioni Syra, che ha i suoi uffici a Roma, per un compenso di cinquemila euro, ha individuato per conto del Regime di Astana la casa in via di Casal Palocco 3 dove si rifugerebbe il dissidente Mukhtar Ablyazov. I kazaki prospettano a Cortese “un colpaccio”. L’arresto di un uomo che dipingono come un pezzo da 90. «Tra i più pericolosi ricercati dall’Interpol». I due, per suonare ancora più convincenti, agitano pezzi di carta chevendono come proprie informazioni di intelligence e polizia e che dipingono l’uomo come «pericolosissimo ». Abituato «a girare armato ». «Fiancheggiatore e finanziatore del terrorismo».
Cortese non sa chi diavolo sia Ablyazov. Spiega ai kazaki che nel nostro Paese si può arrestare qualcuno in forza di un provvedimento legittimo. Non di una soffiata. Consulta la banca dati della Polizia in cui quel nome non compare. Una ricerca internet potrebbe dire qualcosa di più su colui che, dal 2001, ha assunto il ruolo di oppositore del presidente Nazarbaev. Ma il Capo della Mobile, su insistenza dei kazaki, chiama la nostra divisione Interpol al Viminale. Il funzionario dall’altro capo del telefono lo conforta. Nella loro banca dati, quel Mukhtar «ha il bollino rosso». Sulla sua testa, pende un mandato di cattura internazionale kazako per appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. E la telefonata deve confortare Cortese se è vero che, nel pomeriggio, proprio dall’ufficio Interpol arriva un fax che certifica e sollecita alla Mobile l’ordine di cattura internazionale. Del suo status di rifugiato politico ottenuto a Londra non una sola menzione. La circostanza non è burocraticamente presente nella banca dati dell’Interpol, dunque «non esiste».
Kazaki al Viminale
La solerzia dell’Interpol e il rementepentino via libera dato a Cortese hanno una ragione. Il pomeriggio del 28, l’ambasciatore kazako e il suo primo consigliere salgono anche i gradini del Viminale e vengono ricevuti da un alto dirigente del Dipartimento di Pubblica sicurezza, di fronte al quale ripetono il siparietto della Questura. E devono suonare convincenti, perché vengono rassicurati sul fatto che il blitz ci sarà.Ad horas.Chi è il dirigente? Informa il ministro Angelino Alfano? Fonti qualificate del Viminale, proteggendone l’identità, spiegano che «il nome del dirigente è oggetto dell’inchiesta interna disposta dal ministro». «Anche perché — aggiungono le stesse fonti — quel dirigente non ritiene di dover informare il ministro, né prima, né dopo, della visita e della richiesta deidiplomatici kazaki».
28-29 maggio. In 30 per il Blitz
E’ un fatto che la richiesta kazaka viene cotta e mangiata. Nella notte tra il 28 e il 29, dopo un rapido sopralluogo in via di Casalpalocco 3, una grande villa con giardino protetta da un muro di recinzione alto 2 metri, una trentina di poliziotti della squadra mobile, cui vengono aggregati anche agenti della Digos, fa irruzione. La visita non è di quelle in guanti bianchi. Mukhtar Ablyazov non c’è. Perché in casa, insieme alla moglie Alma e alla piccola figlia Alua, c’è un solo uomo, Bolat Seraliyev, il cognato del “Grande Ricercato”. Viene malmenato fino a fargli sanguinare il naso (o almeno così certificherà il prontosoccorso) e insieme alla sorella Alma finisce in una cella dell’Ufficio Immigrazione. Mentre nei borsoni della mobile finisce quanto sequestrato nella villa: 50 mila euro, dei gioielli, una scheda di memoria su cui è una foto digitale di Mukhtar che porta la data del 25 maggio.
Il passaporto diplomatico. La Farnesina
Alle 7.30 del mattino del 30 maggio, Alma Ablyazov è «una pratica ordinaria» sul tavolo del direttore dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta. E come tale viene trattata. Burocratica- macinata come le altre 7 mila espulsioni che ogni anno questo ufficio “evade”. La donna racconta di essere rimasta 15 ore senza bere o mangiare. Di non aver avuto accesso a interpreti in grado di spiegare la sua condizione. Va meglio al fratello Bolat che, accompagnato dai poliziotti nella villa di Casalpalocco, ne torna con un permesso di soggiorno rilasciato in Lettonia che lo rende legale nell’area Schengen. Anche Alma ne avrebbe uno identico. Ma non lo mostra, né dice di averlo. Consegna piuttosto alla polizia un passaporto diplomatico della Repubblica Centroafricana. Il documento viene spedito per accertamenti al “Centro falsi documentali” della Polizia di Fiumicino e, il pomeriggio del 30, l’esito è che si tratta di un «falso».
L’Ufficio Immigrazione contatta la Farnesina. E anche qui, la burocrazia cade dal pero. Nemmeno al nostro ministero degli Esteri sanno che quella donna è la moglie di un dissidente kazako. Sanno solo che, qualche anno prima, è stata proposta console onorario del Burundi in Italia. Nomina che non ha avuto corso. Ma dello status diplomatico della donna non c’è traccia. Insomma, per quanto li riguarda e dunque per la polizia ce ne è abbastanzaper espellerla.
Errori materiali. Un solo dubbio
Il 30 pomeriggio, mentre Alma riesce a incontrare per la primavolta gli avvocati dello studio Vassalli- Olivo, incaricati della sua difesa da uno studio di corrispondenza di Ginevra, il suo destino è già segnato. Il prefetto di Roma Pecoraro vista il decreto di espulsione predisposto dall’Ufficio immigrazione. E poco importa che contenga un paio di significativi errori materiali. Che, nel prestampato, sia rimasta barrata la casella dei precedenti penali (che Alma non ha). E che la donna risulti “già entrata clandestinamente in Italia” nel 2004 dal Brennero (in realtà la segnalazione di polizia riguarda un suo arrivo ad Olbia insieme al marito per una vacanza). Alla vigilia dell’udienza del giudice di Pace che deve decidere dell’espulsione, il pm Eugenio Abbamonte e il Procuratore Giuseppe Pignatone, sollecitati dagli avvocati dello studio Vassalli che prefigurano le ricadute “umanitarie” di quell’espulsione, chiedono all’Ufficio Immigrazione un supplemento di documenti. Che arriva ed è sufficiente al loro nulla-osta.
La sera del 31, «tutte le carte sono a posto», secondo la regola aurea che muove la burocrazia italiana e la libera da ogni responsabilità. Alma Shalabayeva viene consegnata insieme a sua figlia alle autorità kazake all’aeroporto di Ciampino. Il Paese è precipitato in un affaire internazionale di evidente gravità. Ma nessuno sembra saperlo.
Repubblica 13.7.13
Il personaggio
Alma Shalabayeva conobbe il marito durante una sfida a scacchi. Dal 2009 una fuga continua tra Londra e Roma
“Per noi non c’è più un posto sicuro”
Parla Madina, la figlia in Svizzera: mio padre è stato torturato
di Cinzia Sasso
MILANO — Il telefono squilla nella casa di Ginevra, dove vive Madina, la figlia più grande, che ha 25 anni e già dei bambini. Dove vivano gli altri due figli, i due maschi, resta un segreto. «Noi — dice — non siamo al sicuro da nessuna parte. In Kazakhstan non c’è posto per un oppositore politico come mio padre. E nemmeno per la sua famiglia c’è posto. Da nessuna altra parte». Vivono come fuggiaschi, nascosti da tutti, terrorizzati da ogni rumore, da ogni incontro, da ogni parola. Alma Shalabayeva, che adesso hanno riportato ad Almaty, nella casa dei genitori, insieme alla figlia che ha solo sei anni, forse aveva abbassato la guardia perchè a Roma, nella villa di Casal Palocco, circondata da una famiglia di domestici ucraini, si sentiva sicura. Fino a quella notte, quando una cinquantina di poliziotti italiani l’hanno stanata e trattata come una straniera non in regola con i documenti. I documenti invece erano in regola. Ma si è saputo dopo, quando Alma era giàstata riportata a casa. Adesso è un ostaggio. E Madina, e i ragazzi, vivono ancora di più nel terrore.
Alma Shalabayeva compirà 47 anni a ferragosto. La sua è la storia di una donna cresciuta sotto il regime sovietico, perché nel 1966 il Kazakhstan era ancora una provincia dell’impero. Fino a 18 anni è rimasta a Zhezdi, figlia di un’infermiera e del direttore di una copisteria naturalmente di proprietà dello Stato. L’hanno fatta studiare — matematica, all’università statale kazaka — le hannofare molta ginnastica, l’hanno fatta giocare a scacchi. Ed è stato per un torneo di scacchi che ha conosciuto Mukhtar Ablyazov. Giocavano l’uno contro l’altra, lui era fortissimo. Alma non ha digerito la sconfitta ed è scoppiata a piangere. Era il 1987, lui era uno studente di fisica, si è innamorato, un anno dopo si sono sposati. Da 26 anni dividono tutto. Vivevano del lavoro di lui, che era rimasto al dipartimento di fisica. La madre Russia metteva a disposizione una piccola stanza,all’interno di una Comune. Poi è cambiato il mondo. Quando Madina si ammala di polmonite vivono ancora tutti e tre in una stanza: l’Urss si è già dissolta, ma non ci sono soldi per le cure e allora l’accademico Mukhtar si mette in proprio e diventa un imprenditore. Poi il salto in politica, fino a diventare ministro. Ma non basta: quando la parola «privato» non è più impronunciabile, fonda una banca. E’ potente e diventa anche ricchissimo.
La prima fuga è del 2003. Racquillamenteconta Madina: «Mio padre criticava il regime intimidatorio, criminale e repressivo costruito da Nazarbayev. Poco dopo aver fondato il Partito Scelta Democratica è stato imprigionato e torturato ». Dopo che Amnesty lo aiuta ad uscire dal carcere vanno a vivere a Mosca. Due anni dopo provano a tornare in Kazakhstan, ma nel 2009 devono fuggire di nuovo. Stavolta nella Londra degli oligarchi e di Litvinienko. Ma gli 007 britannici buttano la spugna: alla famiglia cui hanno dato asilo politico comunicano che non possono più proteggerli, dicono che sono in pericolo. Ecco allora la diaspora e, per Alma e la piccola Adua, la scelta di Roma. Fino a quella notte del 28 di maggio. Un lussuosissimo Challanger l’ha deportata in Kazakhstan. Al suo arrivo le hanno notificato un atto di accusa. Viene filmata, ha l’obbligo di dimora ad Almaty, in casa dei genitori. Ablyazov lanci pure i suoi appelli dai luoghi segreti dove si trova. Ci sono sua moglie e la sua figlia più piccola in ostaggio.
l’Unità, Letta, Bonino, Alfano, Cancellieri (e tanti altri amici del governo) senza alcun pudore!
Dicono che non sapevano, ma non chiedono l’arresto di nessuno e tanto meno li sfiora l’idea che se fosse vero quello che adesso dicono dovrebbero dimettersi subito per conclamata e grave incapacità.
Il giornale di Claudio Sardo, dopo e giorni giorni di vergognoso - e complice - silenzio, finalmente obbligato dal clamore crescente sulla questione non può più evitare d’occuparsi della deportazione della donna e della bambina kazaka consegnate nelle mani del loro persecutore
E lo fa arrampicandosi sugli specchi, senza alcun timore del ridicolo e continuando così a scavare un solco sempre più profondo fra sé e i propri lettori. Come anche le sue vendite tristemente documentano.
l’Unità 13.7.13
Il governo revoca l’espulsione di Alma
di Claudia Fusani
L’indagine voluta da Letta ha chiarito che l’espulsione è stata illegittima
Ieri vertice con Alfano, Bonino, Cancellieri. Ma il ministro dell’Interno dovrà chiarire
Il premier Letta è stato di parola. «Ci sono passaggi poco chiari, saranno accertati» aveva promesso mercoledì al question time. Così «poco chiari» che sono bastate 48 ore per chiarire che l’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Alua è stato un clamoroso errore. Il comunicato di Palazzo Chigi arriva ieri poco dopo le sei del pomeriggio. L’espulsione è stata «revocata», a conferma che era illegittima, come dicono da un mese gli avvocati. «Risulta inequivocabilmente si legge nella nota che l’esistenza e l’andamento delle procedure di espulsione non erano state comunicate ai vertici del governo: né al presidente del Consiglio, né al ministro dell’Interno e neanche al ministro degli Affari esteri o al ministro della Giustizia».
Dunque il governo non sapeva, sostiene Letta, che prima della decisione è stato oltre un’ora a confronto con i ministri Alfano, Cancellieri e Bonino. E chi ha eseguito l’espulsione, si legge ancora nel comunicato di Palazzo Chigi, «lo ha fatto sulla base di quattro distinti provvedimenti di autorità giudiziarie di Roma (Procura della Repubblica del Tribunale dei minorenni il 30 maggio, Giudice di Pace il 31 maggio, Procura della Repubblica presso il Tribunale e Procura della Repubblica per i minorenni il 31 maggio)».
Se non ci fosse di mezzo una bambina di sei anni, sarebbe una farsa. Così invece è un dramma umano che evolverà presto in una disputa diplomatica con le autorità del Kazakistan che hanno preteso il rimpatrio delle due persone.
«Saranno subito attivati i canali diplomatici per far rientrare in Italia Alma e la figlia» prometta Letta. Ma sarà molto difficile rivederle a Roma nella villa di Casal Palocco dove sono state «sequestrate» il 29 maggio scorso. Perché Alma Shalabayeva e la figlia Alua sono moglie e figlia di Muktar Ablyazov, magari non uno stinco di santo, ma certo è il principale oppositore politico del presidente kazako Nursultan Nazarbayev, potentissimo oligarca a capo di un Paese che detiene da solo il 60 per cento delle risorse minerarie dell’ex Urss. E la cui potenza energetica tiene in ostaggio, è il caso di dire, mezza Europa e anche un pezzo di Stati Uniti. Piccoli dettagli non trascurabili e che vanno subito chiariti prima di inoltrarsi in questa storia dove c'è dentro un po’ di tutto, spie, molti Paesi, giacimenti di gas e petrolio Nazarbayev è amico di Silvio Berlusconi e l’Eni è in gara per ottenere importanti concessioni energetiche.
La giornata era cominciata con l’annuncio dei Cinque stelle, i primi a denunciare il giallo kazako il 5 giugno scorso in aula al Senato, che avrebbero «presentato una mozione di sfiducia nei confronti del ministro dell’Interno Angelino Alfano» che, in quanto numero uno del Viminale, «dopo un mese non ha ancora saputo rendere le necessarie spiegazioni sui fatti accaduti a Roma tra il 29 e il 31 maggio».
A fare irruzione nella villa di Casalpalocco la notte tra il 28 e il 29 maggio scorso sono stati infatti uomini della Digos e della squadra mobile di Roma. Era informato il prefetto Giuseppe Pecoraro. Ieri di buon mattino senatori 5 stelle insieme con i rappresentanti della ong Open Dialog, a lungo unica fonte di notizie di questa storia, hanno annunciato anche di voler andare in delegazione nella città di Almaty, dove Alma e Alua sono agli arresti domiciliari dal 1 giugno. «Mia figlia rischia di andare in orfanotrofio» ha scritto in un post da una località sconosciuta Muktar Ablyazov. Sempre ieri mattina anche Sel ha presentato un’interpellanza chiedendo al ministro Alfano perché due dei principali protagonisti di questa faccenda, il dirigente della Digos Lamberto Giannini e il numero uno dell’immigrazione Maurizio Improta, «stanno entrambi per essere promossi». L’interpellanza di Sel è chiaramente provocatoria. Sia Giannini che Improta sono infatti tra i migliori dirigenti della polizia di Stato. E non c’è dubbio che se c’è qualcosa di errato nelle procedure da loro seguite, queste procedure sono state «comandate dall’alto e non sono state iniziative spontanee».
In queste settimane molti partiti, compresi Pd e Lega, hanno presentato interrogazioni parlamentari. Tutte rimaste però senza risposta da parte del responsabile politico dell’espulsione, ormai chiaramente illegittima, della donna e della bambina, «nel giro di tre giorni denunciano gli avvocati Gregorio Valenti e Riccardo Olivo prese, trascinate via da casa, sbattute tra questura, ufficio immigrazione e Centro di espulsione e imbarcate su un volo privato». Espulse in quanto clandestine, ma clandestine non erano, e rimpatriate in un paese, il Kazakistan, sotto osservazione per violazione dei diritti umani e da dove erano fuggite perché moglie e figlia del principale oppositore dell’assai discusso Nazarbayev. La famiglia di Ablyazov è dal 2004 in fuga dal Kazakhstan per motivi politici. Muktar Ablyazov è nella lista dei ricercati dell' Interpol per una lunga sequenza di reati finanziari ma la sua colpa principale è quella di essere un «nemico» di Nazarbaiev. Fino al 2011 si è rifugiato a Londra con la famiglia. Alla fine di quell’anno la polizia gli ha comunicato che il livello della minaccia per la sua famiglia era troppo alto. Da allora è cominciata una fuga attraverso l'Europa (Lettonia, Francia, Svizzera) che si è conclusa a Roma il 31 maggio scorso. Solo che Ablyazov è ancora libero e ricercato. E il governo italiano ha invece consegnato al governo di Almati una donna e una bambina che adesso sono agli arresti domiciliari e sono chiaramente «ostaggi» di un'operazione che deve concludersi con la consegna di Ablyazov.La storia somiglia troppo a una replica del caso Abu Omar. Una rendition travestita da espulsione. Quelli che seguono sono solo alcuni dei punti oscuri, «falsi» li definiscono gli avvocati Gregorio Valenti e Riccardo Olivo, di cui il ministro dell’Interno Alfano deve rendere conto il prima possibile.
1) La notte tra il 28 e il 29 maggio una cinquantina di uomini della Digos e della Mobile fa irruzione nella villa di Casalpalocco «senza un mandato e senza dichiarare la propria identità». Cercano Ablyazov. Uomini di intelligence anche straniere, israeliani, lo hanno fotografato in quella casa. Ma l’uomo non c'è. L’ordine di irruzione non arriva dalla magistratura ma, denunciano gli avvocati, «con un fax dell’ambasciata kazaka di Roma inviato direttamente in questura». Non è possibile che un'ambasciata straniera ordini di fare irruzione alla polizia italiana. Chi è intervenuto, allora?
2) In assenza del ricercato principale, la polizia porta via Alma con l'accusa di avere «un passaporto falso». In realtà la donna ha due passaporti kazaki e uno della Repubblica Centroafricana. Non sono falsi. E anche se su quello africano è scritto un altro nome Alma Ayan e non Salabayeva la polizia sa, sulla base della documentazione arrivata dall'ambasciata, che la donna è la moglie del noto dissidente ed oppositore kazako. Perché, allora, la porta via avviando la procedura d'espulsione amministrativa eseguita in tempi rapidissimi e sempre in assenza degli avvocati?
3) Alma ha richiesto in ogni momento di quei tre lunghi giorni di avere asilo politico. Perché nessuno ha mai avviato la pratica?
Palazzo Chigi dice che sarà il capo della polizia a fare luce sul mistero. Ma Alessandro Pansa si è insediato al Viminale il 31 maggio, nel pomeriggio. Quando Alma e Alua erano già su un jet privato che le portava da Ciampino ad Almaty. Da dove ora difficilmente potranno tornare indietro. Anche se lo pretende il premier italiano.
l’Unità 13.7.13
Letta tiene l’esecutivo «al riparo»
di Ninni Andrioli
Il caso della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov che ha determinato il forte risentimento della Farnesina, ha messo in evidenza le oggettive responsabilità del ministro dell’Interno e ha dato origine al vertice tra Letta, Alfano, Bonino e Cancellieri organizzato per circoscrivere le tensioni e non farle esplodere durante la seduta del Consiglio dei ministri. A Palazzo Chigi si corre ai ripari decidendo la revoca delle espulsioni, ma l’imbarazzo anche per il delicato ruolo che svolge il vice presidente del Consiglio come segretario del Pdl è palese. Letta fa di tutto per mantenere il governo al riparo dalle fibrillazioni, ma non a costo di chiudere gli «occhi». Così anche per le tensioni che scuotono i partiti. Il premier tende a salvaguardare l’immagine della squadra che lavora senza farsi condizionare più di tanto dalla tempesta che spesso le si scatena attorno. Ma la dura presa di posizione dei ministri Pdl, dopo le decisioni della Cassazione sul processo Mediaset, dimostra che le scosse berlusconiane non possono non far tremare Palazzo Chigi. Anche se è vero come ricordano ambienti di governo che Maurizio Lupi è stato tra i primi a prendere le distanze dalla pretese di Brunetta di bloccare il Parlamento e che ministri come Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin hanno avvertito che «la linea» Santanché «oggi come ieri è sempre stata minoritaria», che «i toni esagitati non sono mai appartenuti a Forza Italia» e che «Lei non rappresenta la maggioranza del partito».
La titolare del dicastero della Salute, ieri, ha utilizzato espressioni che traducono il credo di Letta e che devono aver fatto piacere al presidente del Consiglio. «Non abbiamo parlato di questioni politiche che riguardano partiti e Parlamento ha spiegato il ministro a Sky Tg24 È stato un Consiglio molto sereno. Questo è un governo che sta cercando di lavorare guardando avanti e in alto, non indietro e in basso. Siamo impegnati per adempiere al mandato che ci ha dato il Parlamento e siamo fiduciosi nel sostegno della maggioranza». Bisognerà capire se un’eventuale conferma in Cassazione della condanna di secondo grado comminata al Cavaliere farà cambiare segno ad affermazioni come queste riportando il calendario all’incendio di mercoledì scorso. Letta si è mostrato, in ogni caso, «molto soddisfatto» dalla riunione di governo. Per il «clima fattivo» che l’ha contrassegnata e per i provvedimenti che sono stati varati, quello sull’equiparazione tra figli naturali e legittimi, innanzitutto. «Non è una novità di ieri il fatto che le fibrillazioni della politica rimangano lontane dal Consiglio dei ministri», spiegano da Palazzo Chigi. Ma i nodi sono sul tappeto e la cabina di regia governo-maggioranza del 18 giungo rappresenterà una cartina di tornasole per misurare le reali intenzioni di Berlusconi. Il Cavaliere ha dato ai suoi l’indicazione di abbassare la tensione e l’attenzione sulle sue vicende giudiziarie, ma li ha spronati anche a tenere alta la guardia su Imu e Iva. Battere sulle tasse per distogliere dal problema vero: quello della giustizia. «Per noi resta cruciale l'obiettivo di un alleggerimento fiscale, i cui primi passaggi essenziali sono l'abolizione secca dell'Imu su prima casa e agricoltura, e il blocco di qualunque aumento Iva», avverte Daniele Capezzone. «Da Letta ci aspettiamo che mantenga gli impegni», fa eco Renata Polverini.
Questo mentre dalle parti del governo si ricordano «i paletti fissati con l’Europa»; le «coperture» da ricercare; «i limiti del bilancio 2013»; «le condizioni che incidono sulla politica economica dell’esecutivo». Sono queste, assieme alle fibrillazioni della maggioranza, «le due criticità» con le quali deve fare i conti un’esecutivo che tra l’altro non intende seguire «la logica dei tagli lineari» e punta a «scelte selettive». L’incognita Berlusconi continua a pesare, quindi. Anche se il premier cerca di separare le vicende del governo da quelle che riguardano i rapporti politica-giustizia. La proposta Pd di cambiare la legge sulla ineleggibilità prevedendo che il conflitto d'interessi degli eletti determini una situazione di incompatibilità? Il presidente del Consiglio «si rimette» anche in questo caso «al Parlamento», intento com’è a mandare avanti la nave del governo «sia con il mare forza tre che con le onde forza nove». Attento, tra l’altro, alle ricadute che le pretese Pdl possono determinare dentro il Partito democratico. «Stop agli strappi o è meglio lasciare» avverte Epifani, perché Berlusconi intenda.
l’Unità 13.7.13
Nessuna ombra sul caso Shalabayeva
di Umberto De Giovannangeli
IL MENO CHE SI POSSA DIRE È CHE SI TRATTA DI UN BRUTTO PASTICCIO. ANCOR PIÙ BRUTTO PERCHÉ IN GIOCO È LA VITA DI UNA DONNA CONSEGNATA NELLE MANI DI UNO DEI SATRAPI PEGGIORI DELL’EX UNIONE SOVIETICA. Il meno che si deve esigere è che su questa vicenda sia fatta, e al più presto, la massima chiarezza, evitando improvvidi scaricabarile o inaccettabili rimpalli di responsabilità. Il fatto positivo è che il presidente del Consiglio, Enrico Letta, abbia deciso di affrontare tempestivamente il caso dell’espulsione di Shalabayeva revocando quella decisione. Ora si tratta innanzitutto di esigere dal liberticida regime kazako la restituzione della signora Shalabayeva, «colpevole» di essere la moglie di Mukhtar Ablyzov, tra le figure più rappresentative del dissenso in Kazakhistan.
Non sarà facile riaverla indietro. Tutt’altro. Ma tutte le strade vanno tentate, e ogni canale attivato, perché ritornino in libertà e sicurezza la moglie del dissidente kazako e la sua bambina, Alua, di 6 anni. Perché non si trasforminino in ostaggi incolpevoli di un regime che verso i dissidenti conosce solo una pratica: quella della tortura. Sulla caratura «democratica» (nulla) del padre-padrone del Kazakhistan, Nursultan Äbisuli Nazarbaev, molto hanno scritto, e denunciato, le più importanti organizzazioni internazionale umanitarie, da Amnesty International a Human Rights Watch.
Alla Farnesina c’è una ministra che ha fatto della difesa dei diritti umani un tratto costitutivo della sua biografia politica. Emma Bonino non è stata informata della prova di forza attuata ai danni di una donna e di un minore. E già questo è un fatto grave. Lo stesso è avvenuto per la titolare della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. E questo aggiunge gravità a gravità. Ma, per molti versi, è ancor più grave che a non esserne a conoscenza sia stato colui da cui dipendono le forze di polizia che hanno portato a termine l’operazione: il ministro dell’Interno, e vice premier, Angelino Alfano. Il diritto-dovere alla trasparenza non può, non deve essere sacrificato sull’altare della real politik.
«Il governo, colti i profili di protezione internazionale» che il caso ha sollevato, si è immediatamente attivato «per verificare le condizioni di soggiorno in Kazakistan della signora e della figlia», sottolinea una nota di Palazzo Chigi. Ma quei «profili» dovevano essere chiariti prima che scattasse l’operazione di polizia. «Dall’indagine svolta sull’espulsione della moglie e della figlia minore» del dissidente «risulta inequivocabilmente che l’esistenza e l’andamento delle procedure di espulsione non erano state comunicate ai vertici del governo: né al Presidente del Consiglio, né al ministro dell’Interno e neanche al ministro degli Affari esteri o al ministro della Giustizia», si afferma ancora nella nota che giudica «grave la mancata informativa al governo sull’intera vicenda, che comunque presentava sin dall’inizio elementi e caratteri non ordinari». Tale aspetto «sarà oggetto di apposita indagine affidata dal ministro dell’Interno al Capo della polizia, al fine di accertare responsabilità connesse alla mancata informativa».
Questa indagine deve essere rapida, esaustiva, senza sconti. Le responsabilità vanno accertate, ad ogni livello. Ne va della credibilità del nostro Paese a livello internazionale. E, soprattutto, ne va dell’esistenza di due ostaggi. Occorre sottolinearlo con forza: ciò che più conta, in questo momento, è la tutela e il rispetto delle vite della signora Shalabayeva e della piccola Alua. Dobbiamo essere consapevoli che l’improvvida operazione ne ha messo a rischio l’incolumità e la sicurezza. Ma una volta riportate indietro, occorrerà affrontare di petto gli altri, gravissimi aspetti legati a questo «brutto pasticcio». Cosa ha motivato questa operazione-lampo? Come è possibile che per un fatto di tale delicatezza il governo, a cominciare dal ministro dell’Interno, non ne sia stato minimamente informato? Vi sono state sollecitazioni di altri servizi di intelligence perché l’Italia agisse contro la moglie e la figlia più piccola di Ablyzov? E ancora: quali sono gli interessi che legano così strettamente l’Italia e il Kazakhistan da addivenire con una così eccezionale tempistica e determinazione alla «neutralizzazione» di una donna e di una bambina di 6 anni che di certo non rappresentavano una minaccia per il nostro Paese né per la sicurezza internazionale? Queste domande, tutte, attendono risposte esaustive. La revoca dell’espulsione per Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, è un atto dovuto, anche se tardivo. Ma altri, di atti dovuti, dovranno aggiungersi per considerare chiusa questa grave vicenda.
il Fatto 13.7.13
Una legge salva-Berlusconi
Il Pd cambia l’ineleggibilità e così salva B. in Senato
Presentato un (buon) testo sul conflitto d’interessi che non sarà mai approvato dal Pdl, che dice: “Esproprio proletario”. I Cinquestelle: “Solo un favore al Cavaliere”
di Marco Palombi
Dopo aver ceduto al diktat del Pdl sul blocco delle Camere contro la Cassazion e, i Democratici ne combinano un’altra: a firma Mucchetti e Zanda un marchingegno sul conflitto d’interessi che di fatto accantona l’i ncandidabilità del Caimano. Che intanto vola da Putin. Il Colle contro “Libero” sulla grazia al Cavaliere
Una cosa va detta subito: il ddl Mucchetti sull’ineleggibilità in Parlamento è un buon testo. Il problema è, tanto per i politici quanto per i comici, che azzeccare i tempi è quell’abilità impalpabile che distingue i professionisti dai dilettanti. La legge dell’ex vicedirettore del Corriere della Sera, oggi senatore Pd, in questo momento serve solo a depotenziare il dibattito appena avviato in giunta per le elezioni sull’ineleggibilità di Silvio Berlusconi. Questo ddl, infatti, codifica la posizione di esponenti democratici come Finocchiaro e Speranza: la legge del 1957 è vaga, ne serve una nuova. Insomma, per ora Berlusconi è eleggibile, intanto noi facciamo la riforma. Curioso che la seconda firma di questo disegno di legge sia quella di Luigi Zanda, capogruppo Pd in Senato che sembrava pronto a cacciare il Cavaliere da Palazzo Madama a mani nude.
COME CHE SIA, questo ddl non ha una speranza di venire approvato visto che è riuscito a far uscire dai gangheri tanto il Pdl quanto il Movimento 5 Stelle. Perché? Per i secondi vale quanto detto sopra, per i primi invece i contenuti: un concessionario pubblico – anche “mero proprietario” come Berlusconi – deve scegliere, entro 30 giorni dall’elezione, tra la vendita della sua azienda e la poltrona politica: per perfezionare la transazione ha in tutto un anno, pena la decadenza da parlamentare. Vietato, ovviamente, vendere a parenti e affini. Niente, insomma, che il Pdl possa votare: “È un esproprio proletario”, sostiene infatti Malan; “è solo un altro modo per eliminare Berlusconi”, dice Prestigiacomo. L’irrilevanza sostanziale di questo ddl non ha comunque evitato che la questione aprisse l’ennesima linea di faglia dentro il Pd. Laura Puppato, per dire, non ha gradito: “Se l’intenzione è quella di tentare un compromesso per mantenere gli equilibri politici, allora avverto: i nostri elettori non capirebbero”. Vannino Chiti, tra i firmatari, non l’ha presa bene: “È incredibile ma succede ogni volta: se si presenta un ddl serio immancabilmente qualcuno del Pd sente il bisogno di polemizzare”.
LO STESSO MUCCHETTI è rimasto basito dal livello di attenzione raggiunto dal suo ddl. È quella faccenda del tempismo: “Il ddl che ho presentato al Senato non c’entra nulla con Berlusconi. Non capisco perché si faccia ora tanto clamore su un testo che non sarà mai approvato in tempo per il suo caso”. Peccato che il “caso Berlusconi” sia citato persino nella relazione al ddl e che lui l’abbia già risolto: “Io – ha spiegato – non voterei a favore dell’ineleggibilità basandomi sulla legge del ’57”. Gianni Cuperlo non vuole preoccupazioni e chiede che a decidere sia la Consulta: “Come in Francia”. Nel M5S, invece, sono sostanzialisti e non hanno le preoccupazioni dottrinarie del Pd: “È un salvagente per il Cavaliere”, taglia corto il deputato Fraccaro; “I fedeli alleati del pdmenoelle, più fedeli del cane più affezionato”, twitta Beppe Grillo. Non si capacità il bersaniano Davide Zoggia: “Pdl e M5S ci attaccano per motivi opposti”. Anche lui, come Mucchetti, non ha capito quella faccenda del tempismo.
il Fatto 13.7.13
Da Veltroni a Epifani
L’inciucio va, mentre le tessere vanno a picco
di Mariagrazia Gerina
Ai nostalgici magari non dispiacerà il ricordo del caro segretario (politicamente) estinto. E però davvero deve fare uno strano effetto andare a iscriversi in queste ore al Partito democratico e ritrovarsi in mano la tessera di un partito che non c’è più. La firma che campeggia in alto a destra è quella dell’ex segretario Pier Luigi Bersani.
LO SLOGAN pure è fermo al-l’ultima campagna elettorale, finita come è noto con una sonora “non vittoria”. “L’Italia giusta”, ricordate? Stampata su quella tesserina nuova di zecca, firmata dal fu segretario, diventa l’immagine plastica di un partito bloccato. Fermo, come per un maleficio, a quel 25 febbraio immaginato come il giorno della vittoria e diventato l’inizio della fine. Si capisce che, nonostante il congresso in vista, il tesseramento non stia scaldando i cuori dei Democratici sparsi lungo la penisola. Al Nazareno preferiscono non dare numeri. “Tra le primarie, le parlamentarie e le elezioni a febbraio quest’anno il tesseramento non è cominciato prima di aprile”, spiega Tore Corona, il braccio destro di Davide Zoggia, che è il responsabile organizzazione del partito. Quindi bisognerà aspettare ancora un po’ per capire a che quota si fermerà quest’anno il Partito democratico. I numeri dei tesseramenti passati disegnano una specie di valanga. Si parte da quota 820.607 del 2009, l’anno del congresso che elesse Bersani. Si precipita a quota 617.24 nel 2010. E la discesa prosegue, 602.488 tessere nel 2011, 500.163 nel 2012. Ultimo dato disponibile. Confrontarlo con i voti dell’ultimo tesseramento prima della fondazione del Pd, quando Ds e Margherita raccolsero rispettivamente 590 mila e 400 mila tessere, fa impressione: in pochi anni i tesserati sono praticamente dimezzati. “Ma io sono ottimista”, si schermisce Corona: “Il 2013 sarà l’anno del congresso e saranno in tanti a volersi iscrivere”. Davvero? “Da 24 ore abbiamo anche lanciato il tesseramento online”. Al momento le cronache dai territori raccontano tutt’altro. Il tesseramento è indietro ovunque. Anche più di quanto non raccontino al Nazareno. Al Nord, dove a metà anno il tesseramento è già quasi concluso. Come al Sud. Nessuno vuole fornire dati. “È un momento difficile, la gente fatica ad arrivare a fine mese”, abbandona l’ottimismo da “regione rossa” persino Palmiro Ucchielli, segretario Pd della Marche. Nemmeno l’icona vivente del vecchio Pci, un bersaniano della prima ora con il nome di Togliatti e la faccia uguale a quella di Lenin, ce la fa in un momento così a mettersi lì a fare tessere come se niente fosse.
IN QUESTO non c’è differenza tra lui e il suo antagonista locale, Matteo Ricci, giovane presidente della Provincia di Pesaro, appena passato con le schiere renziane. “Vorrei capire chi dovrebbe iscriversi a un partito che continua a traccheggiare, in balia degli umori e dei processi di Berlusconi?”, sbotta, invocando “la data del congresso”, convinto che fissarla potrebbe aiutare a rompere l’incantesimo.
il Fatto 13.7.13
L’Unità: Abbonamento a chi s’iscrive al partito
Ieri, l’Unità, ha ufficializzato una cosa nota che si poteva ben rintracciare in gerenza, dove risulta come organo d’informazione dei defunti Ds, e cioè che il quotidiano è un giornale del Partito democratico. I nuovi tesserati democratici, se si iscrivono online attraverso la piattaforma Pdlive , potranno leggersi anche il quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Il pacchetto costerà 50 euro, sconto del 50% per gli under 30. Il direttore Claudio Sardo festeggia: “Per noi un’opportunità e una sfida”.
La Stampa 13.7.13
Pd paralizzato sulla sorte giudiziaria del Caimano
di Marcello Sorgi
«Analfabetismo e sguaiatezza istituzionale»: Napolitano boccia con queste parole durissime l’ipotesi di una grazia a Berlusconi, avanzata da «Libero» in caso di condanna definitiva del Cavaliere da parte della Cassazione. Il solo parlarne, a giudizio del Presidente della Repubblica, dà prova «di un’assoluta irresponsabilità politica che può avvelenare il clima della vita pubblica». La nota del Quirinale è giunta a conclusione di una giornata in cui il destino di Berlusconi aveva ancora tenuto banco, provocando una coda di polemiche all’interno del Pd.
La presentazione, al Senato, di un disegno di legge Mucchetti-Zanda, firmato cioè dal presidente della commissione Industria e dal capogruppo dei senatori del Pd, favorevole a una modifica della legge del ’57 in base alla quale, secondo Sel e Movimento 5 Stelle, dovrebbe essere proclamata l’ineleggibilità di Berlusconi -, per sostituire appunto l’ineleggibilità con l’incompatibilità tra il ruolo politico del Cavaliere e la guida delle sue aziende, ha riaperto le divisioni maturate nei giorni precedenti, dopo il compromesso per la sospensione dei lavori parlamentari di martedì.
Grillo in persona ha accusato il Pd di voler cambiare la legge per aiutare Berlusconi e salvare così la maggioranza delle larghe intese che sorregge il governo. Ed anche se dal giorno prima autorevoli esponenti Democrat come la Finocchiaro si adoperavano per spiegare come la legge del ’57 sia ormai inapplicabile, visto che il regime di concessioni pubbliche in base alla quale doveva essere sancita l’ineleggibilità è completamente cambiato, anche all’interno del partito s’è fatto strada il dubbio che la riforma proposta serva in realtà a rinviare il voto previsto nella giunta per il regolamento, e a tentare di riannodare un filo tra Sel e Pd, in evidente imbarazzo, quest’ultimo, di fronte all’eventualità di dover scegliere tra votare con Grillo e Vendola per sancire l’ineleggibilità, o con i berlusconiani per salvare il Cavaliere, o peggio ancora astenersi, regalando ulteriore materiale di propaganda a M5S.
Seppure da un paio di giorni i grillini lancino segnali di apertura sull’ipotetica maggioranza con il centrosinistra che avevano rifiutato all’inizio della legislatura, quando Bersani aveva provato a mettere su un «governo di cambiamento», i vertici del Pd sanno bene che votare per l’ineleggibilità di Berlusconi, cosa che non hanno mai fatto, dal ’94 a oggi, quando la questione s’è posta in passato, equivarrebbe a far cadere il governo. Ma allo stesso tempo non riescono a uscire dall’empasse.
La Stampa 13.7.13
Speranza: “Un governo con il M5S? No, mesi fa abbiamo fatto una scelta”
di Francesco Grignetti
Capogruppo Il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza
Un’altra giornata di ordinario caos politico. Roberto Speranza, capogruppo Pd alla Camera, prova a raffreddare il clima. Resta però l’interrogativo: Speranza, fin quanto potete reggere?
«Anziché entrare in questo o quell’episodio, invito a distinguere i piani da quello contingente a quello di fondo. Noi abbiamo fatto una scelta alcuni mesi fa. Con grande senso di responsabilità abbiamo deciso di costituire questo governo, guidato autorevolmente da Enrico Letta, a cui certo non pensavamo prima. Così abbiamo risposto al discorso d’insediamento del Capo dello Stato e soprattutto alla domanda degli italiani: avere un governo. Il senso di quella scelta è che prima viene l’interesse dell’Italia, poi tutto il resto. Anche l’interesse del partito. Quindi, per restare al fondo delle cose: ci si dica se quella scelta non vale più».
Scusi, chi deve rispondere ?
«Innanzitutto il Pdl. Devono sciogliere il nodo: vale ancora, per loro, la scelta di privilegiare l’Italia rispetto agli interessi di partito? La richiesta scomposta dell’altro giorno di tre giorni di sospensione dei lavori parlamentari, a cui, è bene sottolinearlo, noi del Pd abbiamo detto di no, ci fa temere che non siano in grado di scindere i due piani, l’interesse del Paese dalle questioni giudiziarie di Silvio Berlusconi».
Ma il Pd non deve rispondere a questa stessa sua domanda?
«Non mi tiro indietro. Sì, vale anche per la discussione tra noi: se c’è qualcuno che ora ha maturato dei dubbi su quella nostra scelta, sarebbe bene che lo dica esplicitamente, motivandolo politicamente».
E lei, Speranza, non nutre dubbi?
«Io penso che il governo è partito con un’azione positiva nella grande vera battaglia che conta, e cioè quella europea. È solo lì che si può invertire il ciclo perverso dell’austerità. Per questo ribadisco la mia domanda di fondo: il Pdl, che ha la responsabilità primaria di aver creato una gran confusione in questi giorni, è in grado di dirci con chiarezza se viene prima l’Italia o viene prima la questione giudiziaria di Berlusconi? Perché, guardi, io non ho paura di dire che con il Pdl abbiamo dimostrato di condividere una linea. Perché, però, ora si tralasciano le questioni di merito e si aggiunge il carico di questioni individuali che non c’entrano niente? ».
Guardi che il Pdl è Berlusconi e viceversa.
«Anche tra noi, come è fin troppo evidente, ci sono sensibilità in sofferenza. Legittimo. Tra l’altro, ricordo a chi se ne sia dimenticato che questo governo nasce anche per rispondere al voto di febbraio con la sua dirompente carica di antipolitica a cui ha dato corpo il M5S. Questo governo, nel fare cose concrete, deve rispondere anche a quel disagio».
A proposito di grillini, ieri mattina sembrava che ci fossero aperture poi se le sono rimangiate.
«Boh, mi pare chiaro che l’inaffidabilità sia la loro cifra. Lo dimostrano infiniti episodi. Sono stati degli irresponsabili che hanno temuto di cimentarsi con la sfida del cambiamento e perciò hanno anche deluso la domanda di cambiamento che gli era stata affidata».
E invece voi siete campioni di responsabilità. Ma sull’altare della governabilità fin dove siete disposti a spingervi?
«Non ci siamo assunti a cuor leggero questo carico enorme di responsabilità. E la nostra base, che è composta di militanti che conoscono la politica, non è inconsapevole di ciò. È chiaro che c’è un limite a tutto, come dice Epifani. Ma è vero, l’atteggiamento irresponsabile del Pdl negli ultimi giorni ci ha portati molto vicini al punto di non ritorno».
Repubblica 13.7.13
“Sulla sospensione siamo stati polli non tiriamo Silvio fuori dai guai”
Tra il popolo democratico di Imola: applausi a Bersani
di Marco Marozzi
IMOLA — «Ok, ci ha fatto una flebo. Adesso andam a magnèr». Il commmento più sintetico lo lancia Claudio Casini, giovanile presidente in pensione della Cefla, colosso coop. Attorno i militanti applaudono, sospirano, smoccolano. E sperano in un futuro più sostanzioso. Pier Luigi Bersani ha riscosso un successo tutto particolare: il popolo del Pd rosso ama lui, nonostante tutto, molto molto meno il Pd. «Eh, è un cruccio» sospira l’ex segretario. «Al Pd ci vuole un aggiustamento e io cerco di mettercelo».
Festa del Pd di Imola la rossa, 44% dei voti, città di Andrea Costa e della “Cina è vicina” di Bellocchio. Il popolo di sinistra mugugna, stringe i denti, non perdona e non dimentica. «Sopportiamo». «Finalmente una persona onesta» saluta Bersani un militante con moglie. «La verità è che lo volevano impallinare. In questo partito tutti vogliono fare i capetti, pensano a correntine tutte loro e lui dava fastidio» s’infuria Adriano del ristorante “La Chiocciola”, tessera Pci nel 1958 a 18 anni, grembiulone, baffi e fazzoletto rosso da pirata. «Quanto è meglio lui di D’Alema e di tutti gli altri» rafforza Luciano Carletti che confessa: «Sto diventando per Renzi. Almeno lui ha le idee chiare, Zanda, la Finocchiaro dicono una cosa e ne fanno un’altra». Casini contesta: «Io sto con la sinistra contro il bischero di Firenze, mica con D’Alema. Bersani ha portato il partito a risultati mai raggiunti. Il primo. Poi quegli altri hanno buttato via tutto». Ivan Pizzirani, che fu assessore a Bologna e tesoriere del Pci: «Se fanno scegliere il segretario del Pd non dagli iscritti ma dagli elettori per favorire Renzi io mi faccio elettore, fondo un club e poi sono libero di far quel che mi pare. Ma che idea di partito può essere mai questa? ». Adriano Paganotto, che fu segretario di sezione Pci: «Renzi parlò di governo subito. Si mised’accordo con Monti e adesso…». I ragazzi sono d’accordo: «Fra i nomi per il segretario preferiamo Cuperlo. Renzi può correre da premier, come Letta».
Anime diverse, gente che non ne può più e insieme non molla. Bersani lo hanno invitato i giovani del Pd, lui parla al Bar You Future, da un tavolino, davanti a un viale di platani e una platea che man mano si gonfia. Si servono bruschette Gaber, Guccini, De Andrè, De Gregori, Dalla, Jovanotti, Battiato. Qualche centinaio di persone, tutti i tavoli pieni. Tutte le età, pure Gianmarco, venti giorni. «Qualcuno lo porta ad altre benedizioni. Noi a questa». Più gente qui che l’anno scorso quanto aprì la festa nazionale a Reggio Emilia? «Ohi, strano segnale, fa pensare».
«Napolitano non gli ha dato nemmeno il mandato per il governo » si rattrista il pirata Adriano. Meglio andare alle elezioni allora? «Sì, sì, si» rispondono tutti, di qualsiasi idea. E allora per quanto tempo con Berlusconi? «Un governo di questo tipo è strutturalmente precario. — risponde Bersani — Si tratta di chiedere alla destra di separare le vicende di Berlusconi da un governo che deve assolutamente realizzare le riforme costituzionali ed elettorali. Poi...».
«Ci buttano lì la miccia e c’è sempre qualcuno che becca» dice alla platea. L’oste rosso Adriano semplifica: «Siamo dei polli. Come sulla giornata di sospensione dei lavori parlamentari chiesta dal Pdl: magari corretta, politicamente un errore immenso». Si apre il dibattito fra i militanti. «Volevano tre giorni, gli abbiamo dato tre ore». «Lo abbiamo chiesto anche noi». «E pure quelli di Grillo». La conclusione è comune: «Polli lo siamo per come ne siamo usciti». E un rimpianto: «Avessimo elettoProdi al Qurinale... Si sarebbe rotto con Berlusconi, costretto Grillo a finirla con le buffonate, di scegliere, magari si rivotava ma poi vincevamo noi, e si faceva un governo di sinistra». «Lo sappiamonoi chi sono quelli che hanno tradito » urla il pubblico a Bersani. Il cooperatore Casini è pragmatico: «Adesso dobbiamo fare con quello che abbiamo».
Bersani si gode l’affetto e la leadership degli scontenti con giudizio. «Attenzione a non togliere noi le castagne dal fuoco a Berlusconi ». Dice: «L’esperienza del governo Monti andava bene per la prima parte. Quando Berlusconi ha staccato la spina siamo rimasti lì con il cerino. Dovevamo riflettere prima». «Dobbiamo tenere le distinzioni; se no qualcosa del berlusconismo ci va in circolo anche a noi» dice. Applausi e mugugni. «Dobbiamo essere capaci di andare controcorrente come i salmoni. E ci vuole il fisico». Si concede pure una Crozza-battuta: «Le elezioni amministrative dicono che non siamo stati a pettinare le bambole».
il Fatto 13.7.13
Di Pietro a Grillo: “Non firmare i tre referendum radicali”
CARO GRILLO, lascia stare il referendum radicale, la cosa più sbagliata che tu possa fare è firmare i 3 referendum sulla giustizia. Firmato: Antonio Di Pietro. L’ex leader dell’I d v, ieri, dal suo sito web, s’è rivolto direttamente al fondatore del Movimento 5 stelle. Tono amichevole ma duro nei contenuti: “Spero sia stato un abbaglio e che tu possa togliere al più presto l’appoggio a questi referendum dei radicali, che sono una manna dal cielo per il pregiudicato Berlusconi”. “Il Paese non si merita anche quest’ennesima umiliazione, questa ferita della Carta costituzionale e questo sfregio alla giustizia”. E poi Di Pietro ricorda a Grillo le tante battaglie comuni in difesa della Costituzione, dello Stato di diritto e dei diritti dei più deboli: “Proprio per queste ragioni sono rimasto stupito e amareggiato quando ho letto le tue dichiarazioni d’appoggio ai referendum sulla giustizia dei radicali” che puntano “a punire quei magistrati che fanno fino in fondo il loro dovere”. “Non a caso - sottolinea ancora Di Pietro - Berlusconi ha già manifestato la volontà di appoggiare i referendum e ha messo a disposizione dei radicali le sue strutture di partito”.
La Costituzione sotto attacco
il Fatto 13.7.13
Il giurista Alessandro Pace
“Riforma senza senso: la Carta non è merce di scambio”
di Silvia Truzzi
Agli occhi di un cittadino, quel che accade alle Camere può sembrare un ozioso rompicapo da giuristi. Invece quella che sembra una sciarada lontana dai problemi delle persone, potrebbe avere effetti dirompenti sulla vita democratica del Paese. Lo spiega bene Alessandro Pace, professore emerito di Diritto costituzionale alla Sapienza, commentando il disegno di legge 813: “È la sola Costituzione – ovvero la legge fondamentale della Repubblica che è posta al vertice dell’ordinamento – che ha il potere di indicare le vie per la propria modifica. Ne segue che il procedimento di revisione costituzionale, per essere legittimo, deve essere quello prescritto dalla Carta. Se questo potere lo avessero invece le norme di revisione, al vertice dell’ordinamento non ci sarebbe più la Costituzione, ma le norme sulla revisione, il che significa che il Parlamento, come sta accadendo, si porrebbe al di sopra della Costituzione”.
Dicono che è solo una deroga all’articolo 138.
Ma quale deroga! Si ha una deroga solo quando una norma speciale si sostituisce a una norma generale. Ma qual è nella specie la norma speciale e qual è la norma generale? La norma speciale, e cioè il disegno di legge 813, se divenisse legge, modificherebbe il nostro ordinamento. Per contro la norma generale, e cioè l’art. 138, si rivolge solo al Parlamento in ipotesi tutt’altro che frequenti.
Gli emendamenti approvati dal Senato sono peggiorativi o migliorativi?
Assolutamente peggiorativi, sotto tre punti di vista. Il primo è l’articolo 2, comma 1, in cui è sparita l’espressione “modifiche afferenti alla forma di governo e del bicameralismo”. È bensì vero che almeno i primi due sono concetti vastissimi e forse anche un po’ scivolosi. Tuttavia, bene o male, ci facevano intuire in quale direzione si sarebbero dovute muovere le Camere nel rivedere la Costituzione. Lasciando la sola indicazione dei titoli I, II, III e V il perimetro delle possibili revisioni costituzionali si allarga invece notevolmente: si estende infatti a ben 69 articoli! In secondo luogo, al successivo comma 2, la possibilità di revisione viene addirittura estesa a tutte le disposizioni della Costituzione o di leggi costituzionali strettamente connesse alla revisione dei quattro titoli sopra indicati, il che vuol dire che potrebbe essere coinvolto anche il titolo IV, e cioè la magistratura, per non parlare della Parte prima. Ad esempio mi è giunta voce che tra i cosiddetti saggi gira la voce di riformare anche la disciplina del referendum abrogativo.
Qual è la terza cosa?
L’articolo 2 comma 3 dice che i Presidenti del Senato e della Camera assegnano o riassegnano al Comitato i progetti di legge costituzionale relativi alle materie di cui ai quattro titoli che siano stati “presentati alle Camere a decorrere dall’inizio della XVII legislatura e fino alla data di conclusione dei suoi lavori”. Il che implica un possibile ulteriore allargamento qualora questi progetti di legge – che forse qualcuno dei parlamentari che ha proposto questo emendamento conosce assai bene – coinvolgano la Parte prima e, perché no?, il titolo IV della Parte seconda. Spero che almeno resti fuori il titolo VI, relativo alle Garanzie costituzionali.
E così salterebbero le garanzie.
Appunto. I costituenti misero nel titolo VI della Parte seconda, insieme alla Corte costituzionale, il procedimento di revisione costituzionale proprio perché essa costituisce una garanzia per la Costituzione in quanto dovrebbe adeguarla alle mutate domande provenienti dalla società o dalla politica, mentre così la revisione si risolve in un rischio per la Costituzione.
Vogliono accorciare i tempi del procedimento di revisione, temendo che la legislatura non duri abbastanza.
Sbagliatissimo. Per definizione, i tempi della revisione non possono essere gli stessi del procedimento ordinario. In Assemblea costituente si sottolineò, ad esempio, l’importanza dell’intervallo di tre mesi tra la prima e la seconda deliberazione che ora viene dimezzato a 45 giorni.
La scusa è che la materia è complessa, forse la verità è che non si vuole dar fastidio alle larghe intese.
Se davvero si volesse modificare la Costituzione come questa consente, e cioè con singole leggi costituzionali dal contenuto omogeneo e specifico, non ci vorrebbe molto tempo ad approvarle, sempre che vi fosse la volontà politica. Ma se si prevede un procedimento speciale, come questo, con una legge costituzionale madre e quattro leggi costituzionali figlie quanti sono i titoli oggetto di revisione, il tempo si fa ovviamente lungo e quindi il procedimento viene, come dice la relazione, “crono-programmato”, il che contraddice alla natura delle leggi di revisione. Ma c’è un altro inconveniente. L’articolo 4 comma 2 del ddl dispone, giustamente, che “Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico”. Una volta però che siano state tolte le indicazioni di massima “forma di Stato”, “forma di governo” e “bicameralismo” dove va a finire l’omogeneità delle quattro leggi costituzionali figlie, potendo queste potenzialmente modificare 69 articoli?
E le larghe intese?
Ma le larghe intese sono materie di indirizzo politico, non di revisione costituzionale. Non a caso il proponente del ddl è il governo, il cui intervento ha senso per le larghe intese, ma nessun senso per la riforma della Costituzione. Mettere sullo stesso piano revisione della Costituzione e legge elettorale andrà pure nel senso della pacificazione e delle larghe intese, ma è distorsivo sotto il profilo della revisione costituzionale: la sua importanza politica diviene infatti merce di scambio a detrimento della Costituzione.
Il quotidiano dà la notizia con due giorni di ritardo, la nasconde in un corsivo quasi invisibile, e replica alla protesta della giurista con le parole dell’onesto Gaetano Quagliariello (sic!)
l’Unità 13.7.13
Carlassarre lascia il comitato dei saggi per protesta
La professoressa di diritto costituzionale Lorenza Carlassarre si è dimessa dal comitato per le riforme costituzionali istituito dal Governo a seguito della vicenda di Berlusconi e della Cassazione. La giurista ha voluto così protestare per lo stop di mercoledì sera ai lavori parlamentari deciso dalla maggioranza per consentire la riunione dei gruppi Pdl. Il ministro per per le Riforme Gaetano Quagliariello ha espresso «rammarico» in una la lettera di risposta alla giurista. «Rispetto la tua decisione ma, relativamente alle specifiche ragioni che adduci a motivazione della stessa, non posso fare a meno di notare che la determinazione delle Conferenze dei Presidenti di gruppo, oltre ad essere stata assunta in piena autonomia senza che sulla stessa il Governo abbia esercitato alcun ruolo, rientra nella fisiologia dell`organizzazione dei lavori parlamentari» .
Repubblica 13.7.13
L’intervista
La politologa fa parte del Comitato per le riforme: non sono intransigente, ma non potrei tollerare una sfida alla Cassazione
La Urbinati pensa di lasciare i “saggi” “Se il Pd salva Silvio io mollo tutto”
di Matteo Pucciarelli
MILANO — «Per ora continuo a combattere, ma se il Pd dovesse salvare Berlusconi allora mollo tutto», spiega la politologa Nadia Urbinati, anche lei nel gruppo dei 35 saggi per le riforme. Che si sono ridotti a 34 con l’abbandono della costituzionalista Lorenza Carlassare, in segno di protesta contro il blocco dei lavori parlamentari di mercoledì scorso voluto dal Pdl e avallato dai democratici.
Si è trovata d’accordo con la decisione della sua collega?
«Ci siamo parlate e scambiate delle mail. Sin dall’inizio la Carlassare aveva mostrato delle insicurezze e delle tensioni circa il nostro lavoro. Che in parte vivo anche io. Però penso che andarsene adesso significhi lasciare maggiori spazi e margini di manovra a chi nel comitato ha delle visioni diverse dalla nostra».
Quindi lei per ora resiste...
«Mi faccio questa domanda: lasciare il campo oppure presidiarlo? Non è il momento dell’intransigenza, almeno per me. Nonostante viva un tumulto interiore, in mezzo a due fuochi: i miei principi da una parte, il dovere di difenderlidall’altro».
Il gesto della Carlassare ha più che altro un valore simbolico. Lei dice: “I saggi sono frutto di questa maggioranza. E io in questa maggioranza non voglio piùstarci”. Cosa ne pensa?
«Vivo la stessa sofferenza. Mi sento un’anima in pena. C’è un Pd che non ci aiuta nell’essere coerenti con le nostre idee. Ci rende lavita difficile, non ci dà alcun supporto. È un partito diviso in bande armate, con milizie contrapposte in lotta. Si comporta nel peggior modo possibile. Proprio per questo non dobbiamo lasciare il campo a chi vorrebbe una riforma presidenziale».
Nel vostro gruppo in quanti pensano più o meno le sue, le vostre, stesse cose?
«Sa, non mi metto a contare... L’impressione comunque è che ci siano due dialettiche ben definite. Due schieramenti. Uno in difesa del parlamentarismo, che pure può essere migliorato e siamo lì apposta. Un altro, invece, per il semipresidenzialismo. I primi faticano molto, in questo contesto».
Qual è il limite che lei si pone, una linea oltre la quale non si va?
«Aspetto di vedere cosa succede con il pronunciamento della Cassazione. Se Berlusconi venisse condannato e se il Pd finisse per salvarlo, allora davvero basta. Sarebbe un atto di sfida ad un altro organo costituzionale senza precedenti».
Intanto il Pd ha presentato un disegno di legge per superare la legge 361 del 1957: sostituendo il principio di ineleggibilità con quello di incompatibilità. Così Berlusconi avrebbe un anno di tempo per decidere cosa fare, se restare senatore o se tenersi le aziende. Come giudica questa iniziativa?
«È una forma pilatesca che cerca di mettere insieme tutto e il suo contrario. Che sia il Pd a proporre scappatoie a misura per il potente di turno è assurdo».
Repubblica 13.7.13
La democrazia sotto ricatto
di Franco Cordero
Da vent’anni siamo preda d’una compagnia mercenaria. Se l’è assoldata Berlusco Magnus, monarca assoluto. «Nomina sunt omina» ossia indicano gesta passate e future: nel catalogo medievale nomi malfamati erano indizio ad inquirendum, come la «mala physiognomia»; e la radice «lusco» descrive modi obliqui. Costui divorava mezzo mondo mescendo volgarità garrula, piagnistei, colpi a sorpresa. Sono tanti i trasgressori abituali. Lui configura una specie rara, anzi rarissima, essendosi ingigantito al punto da sfidare autorità e poteri, quasi invulnerabile: falsifica, corrompe, froda, plagia; inter alia, compra giudici; schiva le condanne perdendo tempo finché i delitti s’estinguano, essendosi tagliati i termini; già presidente del consiglio, costituisce fondi neri in paradisi fiscali, simulando passività. Tale l’oggetto del processo dove ha subito due condanne milanesi (tribunale e corte d’appello), passando in giudicato le quali, sarebbe interdetto dai pubblici uffici: la causa pende davanti alla Cassazione; sarà discussa martedì 30 luglio. Alla difesa fanno comodo tempi lunghi, perché parte del reato s’estinguerebbe, ma la Corte era obbligata a prevenire tale evento. Il caso, dunque, sarà deciso sulla base degli atti, come avviene sempre. Qui sta il punto: Sua Maestà rivendica privilegi d’excepta persona; rispetto a lui, non esistono norme; già l’accusa offende un tre volte benedetto dal voto popolare. Non valgono logiche giudiziarie: se i tali fatti siano avvenuti, corrispondano a modelli legali e l’autore debba essere punito; ragionando così i sacrileghi sminuiscono l’Unto. Provocatio ad populum. Ha dello sbalorditivo che in pieno ventunesimo secolo favole simili corrano nell’Europa evoluta. Ottantanove anni fa dei sicari uccidono l’oppositore Giacomo Matteotti: il regime fascista rischia il collasso, sebbene comandi ogni leva; lo sporco affare finisce in un giudizio truccato, chiuso da condannemiti. Mussolini fingeva ossequio alla legge. L’Olonese se la mette sotto i piedi.
A che punto siamo regrediti, lo dicono gli schermi. Uomini del re parlano e gesticolano a gara. Pigliamone uno dal rango ministeriale (e portafoglio, infrastrutture): milita in Comunione e Liberazione, visita la Terrasanta; venera divum Berlusconem. Mercoledì 10 luglio commenta l’accaduto: qualcosa d’orribile, «attentato alla democrazia»; tale essendo l’atto col quale «una parte della magistratura » tenta d’espellere l’uomo più votato dagl’italiani (che io sappia, non esistono decisioni deliberate dall’intero corpo), e via seguitando, più mimica stralunata. E nel merito della causa? Che domanda: è innocente, non potendo non esserlo; verità ontologica, direbbe sant’Anselmo. Nel dialogo evade dai punti pericolosi eruttando suoni vaghi. E fosse respinto il ricorso? Impossibile, ipotesi aberrante, fuori del mondo, intollerabile. In molti casi, però, s’era salvato per il rotto della cuffia, risultando estinti i reati. Colpa dei giudici, imparino il mestiere, poi nega che la voliera d’Arcore contenga colombe e falchi: credono tutti nel Silvius Magnus; o meglio, salmodiano in posa da credenti (sarebbe interessante qualche scorcio dei dialoghi tra collocutori sans gêne). Non era un capolavoro d’arte dialettica. Vi ricorreva la parola «storia», comune ad altre ugole: i Pdl hanno laringi collegate a un cervello collettivo; anche nel drammatico bisbiglio della Pasionaria risuonava lo stesso bisillabo. Qualcuno vuole dal premier una condanna dell’atto eversivo compiuto dalla Corte e lui resiste, gentiluomo equidistante: i Pd ortodossi «rispettano» le scelte giudiziarie, auspicandole tali da non turbare lo sterile idillio governativo; quando poi i partner chiedono tre giorni d’astensione dai lavori parlamentari, segnale polemico alla Cassazione, non è atto onorevole accordarne uno. Nessuno se ne stupisce. L’alambicco genetico fa degli scherzi. Palmiro Togliatti, temprato nel pragmatismo staliniano, aveva idee chiare; e forbito umanista (disputava con Vittorio Gorresio sul gerundio nello Stilnovo), non avrebbe degnato Re Lanterna, al quale i discendenti parlano rispettosi, cappello in mano, ormai cugini d’Arcore. Vedine due. Massimo D’Alema, sibilante uomo d’apparato, implacabile contro i concorrenti; e Luciano Violante, alias Vysinskij, feroce pubblico ministero nei dibattimenti moscoviti 1936-38. Non trascuriamo una componente craxiana: postcomunisti governativi distano poco da Fabrizio Cicchitto; in Sandro Bondi, venuto dal partito-chiesa, persistono invece cromosomi frateschi.
Conteremo i trasmutati dal voto sulla questione se B. fosse eleggibile. No, dicono norme più chiare del sole, ma esistendo accordi sotto banco, i partiti erano concordi nello svuotarle con una lettura da ubriachi, nel senso che l’incapacità colpisca solo i titolari della concessione, ossia Fedele Confalonieri, e l’effettivo padrone resti fuori causa, quando anche s’interessi alla gestione, come esemplarmente avveniva nel caso deciso dalla sentenza Mediaset. Il voto pro B. (in perfetta mala fede) significherebbe: qui comanda lui; non importa che due elettori su tre lo rifiutino; gli oligarchi hanno deciso cospirando nella notte 19-20 aprile perché restasse al Quirinale l’assertore delle «larghe intese», utili solo al pirata. Voto sicuro, secondo gl’informati. Toglieva ogni dubbio un’intervista 20 giugno, dove lo junior neocapogruppo Pd alla Camera afferma che tale sia la norma (rectius, lettura asininofraudolenta d’un testo), e molto applaudito ex adverso, sabato 13 luglio recita un autodafè: il Pd era «giustizialista», «sfrenatamente antiberlusconiano», non lo sarà più; inalbera l’insegna «garantismo » (in semiotica berlusconiana, impunità); annuncia anche una riforma in materia d’intercettazioni. Ha viso ed eloquio imperiosi questo giovane castigamatti del gruppo Pd, paternamente accudito da Pierluigi Bersani (icona e notizie in Wanda Marra, nel «Fatto Quotidiano, 9 luglio). Se i voti gli pesano e vuol perderne, l’infelice partito se lo tenga caro.
il Fatto 13.7.13
Siena. I Democratici non vogliono mollare Mps
La politica resiste all’apertura ai soci privati
di Marco Franchi
Fuori la politica dal Monte dei Paschi”, aveva promesso Bruno Valentini in campagna elettorale prima di diventare sindaco. Eppure il consiglio comunale di ieri è stato quasi interamente dedicato alla discussione della proposta di abolire il tetto di voto del 4% per i soci privati di Mps, chiesta dal presidente dell’istituto Alessandro Profumo, con l’appoggio del Tesoro e di Bankitalia, ma soprattutto dalla Commissione europea. Senza quel vincolo i vertici di Rocca Salimbeni potranno aprire la porta a nuovi azionisti che potranno sottoscrivere l’aumento di capitale necessario per il rilancio del gruppo e anche ridimensionare il ruolo della Fondazione più volte in passato strumento di pressione da parte della politica e degli interessi locali che contribuiscono a nominarne i vertici. Ma la politica, appunto, non ci sta. Il sindaco Valentini chiede a Bruxelles di concedere a Mps una proroga di sei mesi, “in modo che i nuovi vertici della Fondazione abbiano il tempo di esprimersi sul tetto al 4%”. E chiede anche che la Fondazione possa “tracciare le nuove strategie , compresa l'individuazione dei nuovi soci di concerto con la banca”. Bocciati gli ex vertici della banca definiti senza mezzi termini “una banda di delinquenti'' ma anche quelli nuovi, ovvero Profumo e l’ad Fabrizio Viola: “Non so se meritino la sufficienza visto che il titolo non si risolleva, la banca non riparte", ha detto Valentini. Nel frattempo alla voce della politica si aggiunge quella del sindacato. La leader della Cgil, Susanna Camusso, ha lasciato intendere di essere favorevole all’abolizione del tetto, confermando la frattura con i bancari della Cgil senese: la segreteria provinciale della Fisac ha chiesto al sindaco di attivarsi con la Fondazione affinchè in assemblea voti contro l’abolizione del 4 per cento. Non solo. Hanno anche attaccato Profumo (per il suo “continuo forzare la mano per recidere il legame tra banca e città”) e anche il presidente della Fondazione, Gabriello Mancini che ha “abdicato al proprio ruolo statutario di tutelare gli interessi del territorio”. La palla passa ora all’ente di Palazzo Sansedoni che lunedì dovrà decidere quale orientamento prendere. Di certo, mentre politica e sindacato discutono, il titolo Mps ieri ha perso un altro 2 per cento. E c’è chi dice che se l’abolizione del tetto di voto per i soci privati non verrà approvata dall’assemblea del 18 luglio, Profumo potrebbe anche lasciare.
il Fatto 13.7.13
D’Alema, Fini e B.: l’esercito dei Cavalieri
Tra spade e mantelle, ecco i politici, banchieri, militari, boss e boiardi di Stato nei 7 misteriosi ordini religiosi che il Vaticano e lo Stato italiano riconoscono
Palazzi, gioielli, biblioteche: chi si nasconde dietro i militari della fede e quante sono le organizzazioni che generano potere e relazioni
di Carlo Tecce
DA ORTOLANI A LA MOTTA GENTILUOMINI COL CONTO SANTO
Essere membro della famiglia pontificia, indossare il frac e il collare d’oro con le croci di San Pietro, ma soprattutto, avere un conto diretto allo Ior, è ciò che rende più ambita l’onorificenza di Gentiluomo di Sua Santità. Istituita nel 1968 da Paolo VI, la nomina è a discrezione della Santa Sede. Tra i Gentiluomini (si fa per dire) più noti compariva Angelo Balducci – ex provveditore alle Opere Pubbliche, arrestato in passato perché coinvolto nell'inchiesta sugli appalti del G8. Francesco La Motta – prefetto arrestato nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione dei fondi del Viminale. C’è anche Gianni Letta. In passato spiccava un altro massone, Umberto Ortolani, iscritto alla P2 di Gelli. Un'onorificenza tanto cara a Benedetto XVI, quanto inutile per Papa Francesco che preferirebbe abolirla.
IL POTERE PUÒ AVERE il difetto, per chi non apprezza il meticoloso schermo usato per copertura e blasone, e sembrare pittoresco, persino scherzoso.
Un Cavaliere di un ordine religioso, armato di spadaccino e non obbligato a combattere, può evocare simpatia per l’ancestrale tradizione di appendere catene e croci d’oro al petto, di formulare motti, di indossare mantelle. Il passato ha deviato, dentro, accanto a fratelli e sorelle, sono capitati (?) malavitosi e delinquenti.
I politici non hanno mai disdegnato l’onorificenza e pare assurdo pensare che sia per megalomania e vanità. Non ci sono questioni di destra e sinistra.
I Cavalieri si ritrovano, possono vantare relazioni, così un boss diceva in un'intercettazione telefonica; possono organizzare un affare sensazionale, così monsignor Scarano, arrestato, preparava il ritorno in Italia di 20 milioni di euro assieme a un mediatore anch’egli devoto a San Giorgio, a Napoli ricco di adepti.
Il Vaticano ne riconosce quattro: il pontefice ne conferisce tre, Piano di Pio IX, San Gregorio Magno e San Silvestro Papa. Il Supremo Cristo e lo Speron d'Oro sono caduti in disuso, come vorrebbe Francesco per il rango di gentiluomo di sua santità che ha arruolato numerosi cattolici imbarazzanti e sotto inchiesta, dal boiardo Balducci al prefetto La Motta. La Santa Sede concede la protezione per l’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che aveva il piduista Licio Gelli fra i grandi ufficiali. Gelli e non solo, militari e diplomatici, il riflesso massonico è quasi naturale, se non congenito. E tante abitudini ne danno testimonianza e forse prova. Lo Stato italiano legittima l’Ordine di Malta, di San Giorgio e Santo Stefano. Perché al Cavaliere piace sembrare senza macchia e senza peccato.
Non sappiamo quanti sono, i Cavalieri, religiosi, militari o laici. Sappiamo che gli ordini, riconosciuti, sono sette. Il Vaticano ne custodisce quattro, tre fanno riferimento al Sommo pontefice. Per lo Stato italiano ne esistono tre e quelli esterni al colonnato di San Pietro, forse, sono i più agguerriti. Hanno mitologie, tradizioni, simbolismi e rituali che se non fanno pensare ai tempi massonici vuole dire che siete di fronte a un plagio d’autore.
San Gregorio Magno Masi, Sarmi e Di Paola
Il collo va osservato. Nudo vuol dire povero. Il ricamo deve brillare, argento vivo. E il collo, pavoneggiante, deve sovrastare l'uniforme di panno verde, distesa sui pantaloni sempre di panno verde e velata di un fascione ancora d'argento. E lo spadino deve luccicare d'acciaio e i paramani devono incrociare simboli mistici, religiosi, esoterici. Così puoi riconoscere il Cavaliere di Gran Croce o il semplice Commendatore detto Commenda, eredi di quel gruppo di “personalità eminenti” che papa Gregorio XVI volle riunire dal 1 settembre 1831 per plasmare l'Ordine di San Gregorio Magno, il secondo per blasone in Vaticano, l'unico che rievochi la Legion d'Onore di Napoleone. Così, soltanto così, fra medaglioni rossi con santini e decorazioni militari d'impatto emotivo, puoi capire perché, in un salone rinascimentale e non certo in caverna, l'ex direttore generale Rai, Mauro Masi, potrebbe brindare con l'ex sottosegretario Paolo Peluffo. E l'amministratore delegato di Poste Italiane, Massimo Sarmi, potrebbe chiacchierare con il collega-fratello Arturo De Felice, il poliziotto a capo dell'Antimafia e l'ex ministro e ammiraglio, Paolo Di Paola. Benedetto XVI ha ringraziato e reclutato anche Gabriello Mancini, presidente della fondazione Monte dei Paschi di Siena. Mancini era stato generoso, la Fondazione aveva donato denaro utile e i giochetti contabili erano sacri, poteva e doveva entrare.
Capita, al nunzio apostolico e persino al pontefice di sbagliare o di confondere i buoni e i cattivi. Un'inchiesta di qualche anno fa, a Napoli, mise insieme, vicini nei rapporti pubblici e privati, camorristi, poliziotti e imprenditori e una corrente di informazioni riservate perché c'era un Commendatore, che poteva sapere, chiedere e ottenere. In nome di San Gregorio Magno. Perché la gloria, che si manifesta con placche d'oro massiccio appese al petto, non passa soltanto per i posteri. Un alfiere di papa Gregorio XVI può domare piazza San Pietro a cavallo e può dormire il sonno eterno in una chiesa. Ma l'estremo privilegio fu concesso anche al boss Renatino De Pedis.
Costantiniano di San Giorgio ”Mons. 500 euro” e Berlusconi
Il labaro di Costantino, l'imperatore. La spada a forma di croce, vita o morte. La missione, proteggere la Chiesa. La beneficenza, poveri e malati. Un patrimonio di 600 milioni di euro, case e terre. E il sovrano, il Principe Carlo di Borbone e Due Sicilie, Duca di Castro. Militari religiosi, monsignori e politici, giuristi e burocrati: l'Ordine costantiniano di San Giorgio ha il piacere di includere per il vizio di escludere. Il circolo unisce don Nunzio Scarano, arrestato, che voleva importare 20 milioni di euro con un elicottero privato e l'intermediario Giovanni Caranzio. Non poteva mancare Silvio Berlusconi, e chissà se rispettò l'investitura e reclinò il capo per accogliere il mantello di velluto che si stringe con un collare d'oro. L'ex ministro Franco Frattini ha penato anni prima di poter ricevere, e poi sfoggiare, la feluca di feltro nera che si rivolge al Signore con un tripudio di piumette di struzzo color petrolio. La croce deve battere in petto, sempre, per avere addosso il peso di un compito storico, rivoluzionario e mitologico, un miscuglio di tradizione, rituali e deviazioni elitarie. A Napoli quel tipo di cintura e quel tipo di guanti fanno alzare la livella che rende uguali. Il cardinale Crescenzio Sepe, che gestiva bene il patrimonio immobiliare di Propaganda Fide e male le inchieste che l'hanno reso inquieto, detiene un posto, ma per un diritto più partenopeo che ecclesiale, più borbonico che vaticano. E di riflesso, per ragioni istituzionali, il governatore Stefano Caldoro. E per origini napoletane, l’ex prefetto Francesco La Motta, arrestato per i fondi al Viminale. Ma la Sicilia, la gamba mediterranea, non va mai trascurata. Anche Totò Cuffaro, ora in galera per mafia, ebbe l'onore di poter indossare i pantaloni di un blu fra la prugna e il curacao farciti di galloni in filo d'oro di 38 millimetri. I Cavalieri di Grazia o di Gran Croce hanno accolto il mite Corrado Calabrò (ex garante Agcom) che scrive poesie e l'inossidabile Pasquale De Lise, che non scrive poesie, ma ha occupato tante poltrone. Il presidente emerito Francesco Cossiga, appassionato di soldati e crociati, aeroplani (miniatura) e servizi (segreti), ne era affascinato.
Piano di Pio IX Guardie svizzere per Bobo
Umberto Bossi non si piegherà, non si potrà mai genuflettere dinanzi al delfino ingrato che, per supremo desiderio di Benedetto XVI, fu nominato Cavaliere del Sacro Ordine Piano, il più antico, il più ambito e il più esclusivo. Roberto Maroni va chiamato eccellenza e merita il saluto d'onore di guardie svizzere e gendarmi impettiti. Quando attraversa il colonnato di San Pietro, discendente di quella corte laica e non armata che volle Pio IX il 17 giugno 1847, Bobo deve indossare lo stellone a otto punte che sostituisce la croce, una fascia rossa e azzurra, rigida perché sottoposta al blasone di una placca che segnala il grado: oltre l'oro non c'è nulla. I Cavalieri portano al petto uno scudetto che racchiude il motto ottocentesco: virtus et merito e la sigla Pius IX. Il prestigio non ha eguali, superiore per tradizione e benefici, Maroni potrebbe passeggiare per il Vaticano e ricevere l'attenzione e il riguardo che spetta ai vescovi o ai cardinali. Il fascismo aveva ottenuto il riconoscimento pontificio – fra i primi ci furono Benito Mussolini e Galeazzo Ciano – ma Pio XII soppresse la dote nobiliare che poteva far elevare per sempre le squadracce nere perché si poteva tramandare per generazioni.
Il Sacro Ordine Piano ospita il presidente della Repubblica italiana, Francesco Cossiga, che ne fu molto lusingato, seguirono Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Le istituzioni di più stretta osservanza politica non venivano ammesse, però il governo di Silvio Berlusconi ha conquistato tante stelle e tante medaglie: il Cavaliere per antonomasia, ovvio, poi Gianni Letta, Franco Frattini e Gianfranco Fini. Ma fu Massimo D'Alema a rompere l'embargo per i politici.
San Silvestro Papa Boss e imbarazzi
Quando fu arrestato per associazione mafiosa, 'ndrangheta esportata in Lombardia, il presunto boss Giulio Lampada chiamò a testimoniare il primo ministro vaticano, il segretario di Stato, il riflesso politico di Benedetto XVI, il cardinale Tarcisio Bertone. Il salesiano, qualche anno prima (2009), aveva firmato la nomina di Lampada a Cavaliere per l'Ordine di San Silvestro Papa, la categoria che premia i cattolici che eccellono con l'arte musicale, pittorica, scultoria e che, condizione irrinunciabile, servono con benevolenza la Chiesa cattolica. L'imprenditore Lampada gestiva una sala giochi. L'onorificenza vaticana non viene conferita senza un'istruttoria interna che verifichi meriti e qualità morali. L'Ordine di San Silvestro Papa, istituito nel 1841 da Gregorio XVI, rivisitò la Milizia Aurata, subì riforme e correzioni finché Giovanni Paolo II introdusse il rango di dame e legittimò la presenza femminile. Il pontefice arruola i Cavalieri e li governa, soltanto l'erede di San Pietro può essere il Gran maestro. L'uniforme è abbastanza spoglia, seppur la decorazione sia vistosa e preziosa. La croce di Malta contiene una raggiera d'oro e un medaglione con l'effigie di San Silvestro, il protettore. I colori ricorrenti sono il rosso e il nero. Furono ammessi i luogotenenti dei Carabinieri, Roberto Lai e Fiorenzo Leandri; l'ex ministro Sergio Berlinguer, cugino di Enrico; Roberto Paolo Ciardi, storico.
Santo Sepolcro La mafia e Contrada
Il conte Goffredo di Buglione liberò Gerusalemme, ma la crociata non è mai finita. L'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, fra leggende e furori, deve proteggere la città santa e onorare Cristo. Un compito che spettò persino a Licio Gelli, la mente P2, che poteva offrire un elaborato apprendistato massonico.
Sono militari e testimoni: “Il 17 giugno del 1099 l'esercito dei crociati – si legge sul sito ufficiale – dopo aver conquistato le città di Nicea e Antiochia, giunse a Gerusalemme, governata a quel tempo da Iftiker ad Daula, a capo di una guarnigione di arabi e sudanesi. Gerusalemme era ben fortificata, i crociati avevano scarse riserve d'acqua e non erano abituati al caldo della Palestina, che peraltro affrontavano vestiti di pesanti armature. Per poter espugnare la città, i crociati dovettero costruire delle enormi macchine da guerra in legno che consentirono loro di penetrare in Gerusalemme tra il 14 e il 16 luglio”. Il Vaticano e l'Italia riconoscono l'ordine laico nazionale che gestisce 60 parrocchie, 45 scuole, alleva 18.000 studenti e coccola 900 insegnanti, fa opera di carità e, in passato, faceva tanti errori. Vent'anni fa, il collaboratore di giustizia Vincenzo Calacaro dichiarò: “'Mi fu detto che si erano riuniti elementi della Cupola palermitana, tra cui Mariano Agate e zu Totò (Riina, ndr) ed elementi dell'ordine di Santo Sepolcro (a cui sono iscritti uomini d'onore di spicco). Anche monsignor Marcinkus faceva parte di quest'ordine. Mi fu spiegato che il Papa voleva fare dei cambiamenti che avrebbero danneggiato non solo ambienti del Vaticano, ma anche interessi di Cosa Nostra. Ambienti del Vaticano ovviamente corrotti e collusi con Cosa Nostra”. Negli anni Novanta, a Palermo, si chiacchiera tanto dei custodi del Santo Sepolcro. C’erano avvocati, magistrati e malavitosi. Anche Bruno Contrada, numero 2 del Sisde, ne faceva parte. L'anno scorso, poco prima di lasciare l'incarico e divenire emerito, papa Benedetto XVI nominò Gran maestro il cardinale americano O’Brien. I Cavalieri del Santo Sepolcro, alfieri che possono e devono proteggere la Terra Santa, si distinguono per un collare e la tipica mantella bianca con la croce rossa.
Cavalieri di Malta Le poltrone in Vaticano
Il Sovrano militare ordine ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta ha la fortuna di non essere una propaggine vaticana. E fa nulla che Ernst von Freyberg, costruttore di fregate militari, sia il presidente dell'Istituto per le Opere religiose e un gran dignitario di un ordine internazionale che celebra la carità. L'inglese Mattew Festing, ex maresciallo in campo al servizio di sua maestà, fu ricevuto con gli onori istituzionali da Renato Schifani, allora presidente del Senato. E non c'è mai una convenzione sanitaria fra gli italiani e i maltesi che non abbia un brindisi di buon augurio. Così pare normale che la Guardia Costiera doni all'ordine una motovedetta in disuso, può sempre tornare utile. E ancora non sorprende che Silvio Berlusconi, grazie a sapienti suggerimenti di Gianni Letta, non mancasse mai a un pranzo dei Cavalieri. Fra i quasi 12 mila affiliati che per il mondo offrono assistenza sanitaria, senza praticare troppo la teoria di volontariato, c'è anche Roberto Formigoni che ottenne l'agognata fascia per “l'instancabile attività, soprattutto in politica estera, di interventi umanitari”. L'ex governatore lombardo si commosse: “Voglio esprimere la mia gratitudine, so bene il significato di questa investitura”. E chissà se Formigoni sia un Cavaliere di giustizia, di onore e devozione, di grazia magistrale o un semplice donato di classe. Il mantello nero fa la differenza, i politici e i burocrati sgomitano per averlo. Ogni tanto, a ritmo regolare, c'è un’inchiesta che manda in galera furbacchioni che mettono in scena la cerimonia solenne. Anche la ballerina romena RamonaBadescu fu raggirata. Qualche anno fa, Bobo Craxi rivelò che i maltesi potevano aiutare suo padre Bettino, prima di morire in latitanza: “Ringrazio Andreotti perché si prodigò per far rientrare in patria mio padre: tentò di fargli avere un passaporto dell'Ordine dei Cavalieri di Malta e ne parlò con Ciampi”. Il patrono è il cardinale Paolo Sardi, un porporato di primissimo livello. I Cavalieri, che “difendono la fede”, sono invincibili perché a volte sono religiosi, a volte sono laici, a volte sono entrambe le cose.
l’Unità 13.7.13
«Noi in prima linea diciamo: al Pd serve una scossa»
Roberto Cornelli segertario Pd di Milano: «Il pericolo è che questo grande senso
di responsabilità si traduca in disaffezione»
La grande paura della base
La fatica e le difficoltà del «territorio» davanti alle vicende parlamentari
E da Siena parte una lettera ai vertici nazionali democratici
di Vladimiro Frulletti
Difficoltà, imbarazzo, fatica e anche incazzatura. A sentire i segretari di federazione del Pd, dal Nord al Sud Italia, il momento che vive il popolo dei democratici non è (per usare un eufemismo) dei più semplici.
E se la sospensione dei lavori Parlamentari non è (forse) la goccia che ha fatto traboccare il vaso (anche perché il vaso, assicurano, regge, almeno per ora) certamente è un tassello in più in un mosaico la cui tinta dominante è la frustrazione. «Sta aumentando il rischio dell’allontanamento, del disimpegno. Mi dicono “ma come farò alle prossime elezioni a fare i banchini per chiedere alla gente di rivotarci”» spiega Roberto Cornelli segretario della federazione del Pd di Milano circa 11mila iscritti. Che stare con Berlusconi, soprattutto da quelle parti, sia sentita come una «gabbia soffocante» è anche scontato. «Qui abbiamo fatto manifestazioni su manifestazioni» ricorda Cornelli che però sottolinea come sia diffusa anche la «consapevolezza» che dopo il disastro delle elezioni politiche altre strade non c’erano per dare un governo al Paese. «Ma il pericolo ora dice è che questo grande senso di responsabilità si traduca in disaffezione più che in rabbia». Ecco perché il segretario milanese s’attende una «risposta forte e data in fretta». Un segnale che lui vorrebbe veder uscire dal congresso. «Per questo va fatto il prima possibile, per indicare ai nostri iscritti e ai nostri elettori che c’è una strada nuova da percorrere assieme».
Un messaggio per Roma. Che a Siena, il giovanissimo segretario di federazione (quasi 10mila iscritti e la conferma del Pd alla guida della città, nonostante tutto quello che è successo lì), Niccolò Guicciardini ha inviato ai vertici democratici proprio sotto forma di lettera. Una specie di risposta alla email che i capigruppo di Senato (Zanda) e Camera (Speranza) hanno mandato a tutti gli iscritti. «Berlusconi dovrà difendersi nelle sedi opportune, ma non può usare la politica o il suo consenso a fini personali. Sospendere i lavori parlamentari con quelle motivazioni è inaccettabile e sbagliato. Fosse anche per un minuto, è una questione di principi. La dirigenza del Pd ha sbagliato, non c’è dubbio» scrive non usando perifrasi Guicciardini. E anche lui chiede il congresso per ridare slancio a «un partito scrive che a livello nazionale ha già commesso una buona dose di errori, ma che a livello locale sono convinto abbia le energie e le capacità per ripartire».
Già perché la speranza è che proprio nei territori, negli amministratori locali ci sia la chiave di svolta. «I successi alle amministrative, dalla Serracchiani a Marino, per fortuna ci hanno dato un po’ d’ossigeno. Adesso però è auspicabile che anche a Roma si rendano conto che sul territorio c’è veramente un Pd capace di ripartire. Che ci sono tanti amministratori, consiglieri comunali, sindaci che “ruscano” tutto il giorno e che sono un vero patrimonio» sintetizza Alessandro Altamura da poco più di un mese (eletto all’unanimità) nuovo segretario della federazione democratica di Torino che conta 12mila iscritti e oltre cento circoli. «Che il problema a governare col Pdl c’era lo sapevamo fin dal primo giorno spiega -. Certo ricevo lettere di chi mi dice che non è più disposto a sopportare, ma c’è anche chi chiede al Pd di uscire dall’apnea e di essere più incisivo nel governo. I sondaggi dicono che stiamo recuperando». E forse il malessere è più forte proprio fra i militanti, fra chi si occupa quasi quotidianamente del Pd (dalle assemblee, al tesseramento alle feste) che non fra gli elettori. «Che il clima non sia dei migliori è evidente. Quello che è successo due giorni fa però non ne è stata la causa scatenante. Il lutto per il disastro alle elezioni e i franchi tiratori contro Prodi non è stato ancora elaborato. È come quando sei debilitato, anche un raffreddore ti manda in crisi» dice Federico Ossari segretario della federazione di Padova, 4mila iscritti («ne abbiamo persi almeno 500») e 111 circoli. «Io ho segretari di circolo che mi dicono che non si sento-
no più in grado di fare le tessere. “Perché continuiamo a farci del male “ mi dicono. E io faccio fatica a tenerli. Letta per me sta facendo un lavoro importante, ma se un problema del Pdl diventa mio non va bene. Ecco perché serve il congresso. Dobbiamo iniziare a guardare avanti».
Lo schiaffo a Prodi continua a far male ovviamente soprattutto a Reggio Emilia. «La sofferenza è grande e diffusa» dice Roberto Ferrari segretario della federazione che conta oltre 11mila iscritti. Per Ferrari il governo Letta può essere un’occasione, ma avverte anche il rischio che il Pd precipiti nell’inutilità «come negli ultimi 6 mesi del governo Monti». «Mi dicono: “ok al governo di servizio, ma siamo lì per servire il Paese non per essere complici dei ricatti del Pdl». Guardare avanti è l’indicazione. «In tanti mi chiedono che prospettive ha il Pdspiega Ferrari . Cioè sono disposti a spendersi per ricostruire, sanno che è il Pd l’unica risposta vincente in Italia, però sono come smarriti nel vedere con quanta enorme fatica il gruppo dirigente nazionale si mette in discussione». Ecco di nuovo il congresso come possibile via d’uscita. Di svolta. Magari senza ripetere, come avverte Vincenzo Di Girolamo, segretario della federazione di Palermo quasi 6mila iscritti, «l’antico vizietto degli accordi fra i capicorrente poi trasferiti sul territorio». Di Girolamo dice che l’alleanza col Pdl è stata «una pillola amara che in tanti non hanno ancora digerito» e quindi si augura che «questa scelta di necessità sia la più breve possibile». Però chiede che nel frattempo il Pd faccia «un congresso vero per costruire finalmente un partito vero, utile alla società e non alle carriere di alcuni». Un’occasione «finalmente per chiarirci le idee» per Giuseppe Lorenzoni, segretario della federazione di Sassari (4mila tesserati) che però vede agitarsi anche pericolosi «venti di scissione». Almeno di quelle silenziose di chi decide di restarsene a casa «se il conflitto fra le varie componenti continuerò come oggi». Per Lorenzoni è indubbio che «le puttanate» siano state fatte, che oggi il Pd paga gli errori commessi dal voto di febbraio in poi, però «fare un congresso sul passato non ci servirebbe a molto. Quello di cui il Pd ha bisogno è un dibattito vero sul domani proprio e dell’Italia».
l’Unità 13.7.13
Indesit, Fabriano unita contro il piano esuberi
Gli operai con le famiglie e colleghi di altre fabbriche in corteo per difendere l’occupazione
di Giuseppe Vespo
Sembra una festa ma non lo è. A guardare i volti, slogan e fumogeni nascondono la mestizia di chi teme per sé, la propria storia e il proprio futuro. I figli.
Fabriano ieri si è fermata. Cinquemila persone si sono messe in fila e in corteo per ricordare, soprattutto a chi non vive lì, che la città sta perdendo l’elemento che l’ha caratterizzata negli ultimi cento anni: il primato dell’industria elettrodomestica, che si chiama Indesit. In cinquemila hanno preso parte alla manifestazione organizzata dai sindacati, che hanno fermato per un giorno i lavoratori del gruppo di tutta Italia. Con loro hanno sfilato nella cittadina marchigiana i colleghi delle altre fabbriche dell’indotto e della zona.
Tutti insieme per dire che non bastano le recenti rassicurazioni della proprietà Merloni, che ha promesso di non abbandonare l’Italia, per placare la gli animi dei dipendenti Indesit. Restano in ballo quei 1.425 esuberi individuati su circa quattro mila lavoratori, trecento dei quali sono un’eredità di vecchi accordi, mentre almeno 1.250 sono tagli che interessano le linee di produzione e 150 tra il personale impiegato. È per questo che i sindacati metalmeccanici non credono al piano presentato dall’azienda. «È retorico», lo definisce Gianluca Ficco, che segue il comparto per la Uilm-Uil.
PIANO RETORICO
Per le organizzazioni dei lavoratori un piano industriale non può dirsi tale se prevede uno svuotamento delle linee produttive. Del resto, è anche vero che negli ultimi anni l’industria dell’elettrodomestico, e del bianco nello specifico, ha visto chiudere parecchie fabbriche in Italia in favore di Paesi dove è molto più conveniente produrre: dalla Polonia fino alla Russia. «Per noi, così com’è riprende Ficco il piano Indesit è il penultimo passo prima della chiusura, perché prevede e conduce alla dismissione, e allora sarà impossibile non licenziare».
All’azienda, Fiom, Fim e Uilm, e ovviamente i lavoratori, chiedono invece investimenti per migliorare l’efficienza e la produttività degli stabilimenti, e sono pronti a fare la loro parte. Al governo invece si rivolgono per rendere più competitive le produzioni di casa. Da tempo le organizzazioni chiedono un tavolo di settore, che però non riesce a decollare. A questo proposito una settimana fa hanno presentato allo Sviluppo Economico un documento in quattro punti, con quelle che per loro sono le priorità per rilanciare il comparto. Al primo posto c’è la defiscalizzazione degli investimenti su produttività e ricerca e sviluppo. Segue la riforma di alcune misure già esistenti, come gli sgravi contributivi per le aziende che applicano contratti di solidarietà per evitare di licenziare. E ancora, incentivi all’acquisto di macchinari prodotti da aziende responsabili, secondo criteri europei, e magari che evitino di fare concorrenza sleale, cioè di produrre in Paesi dove il costo del lavoro è basso per vendere in Italia e tagliare fuori le aziende di casa.
Per ora non è arrivata alcuna risposta, mentre sul fronte Indesit il tavolo ministeriale si riaggiornerà martedì. «È un buon auspicio commenta Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro alla Camera Non possiamo permettere che la crisi ridimensioni o faccia scomparire aziende o settori di lavoro importanti per il nostro Paese, come quello degli elettrodomestici».
Per ora è poco, ma a Fabriano resta la soddisfazione per l’alta partecipazione alla mobilitazione, alla quale hanno preso parte anche le istituzioni locali, con il presidente delle Marche Gian Mario Spacca, il sindaco Giancarlo Sagramola e il vescovo monsignor Vecerrica. Il corteo è partito dal centro per arrivare fino allo stabilimento Indesit, dove padri e figli che sfilavano insieme hanno trovato il presidio degli agenti di polizia. Pochi attimi di tensione ma è lo stesso corteo ad allontanare i più nervosi. Poi solo «Lavoro, lavoro, lavoro». È la richiesta unanime. In molti vestono le magliette con la scritta «1.425 volte no. La storia siamo noi» e altrettanti pensano a quello che speriamo di no appare come l’epilogo di una storia cominciata nel 1930 con la fabbrica di bilance fondata da Aristide Merloni, che ha fatto di Fabriano quella che gli esperti chiamano una «company town», cioè una città che si è sviluppata insieme alla sua azienda principale. In fondo da queste parti ma non solo qui chiedono di mantenere una tradizione. Quella del lavoro.
Repubblica 13.7.13
Indesit, 5mila in piazza: “Per il futuro dei nostri figli”
Fabriano invasa dal corteo. Bloccati i centri sociali che provano a irrompere nell’azienda
di Filippo Santelli
ROMA — I lavoratori e i loro familiari. La musica e le lacrime. La solidarietà dei commercianti, per quattro ore a saracinesche abbassate. E soprattutto quel coro: «Lavoro, lavoro». Ieri a Fabriano lo ha gridato un’intera città, sindaco e vescovo in testa: 5mila persone, molte più delle 3mila previste, scese in strada per chiedere all’Indesit, cuore industriale della località marchigiana, di ritirare il piano di ristrutturazione presentato ai sindacati un mese fa. Che prevede 1425 esuberi, la gran parte operai, sui 4300 dipendenti italiani. «Siamo in piazza per il futuro dei nostri figli».
Dopo una settimana di scioperi a singhiozzo nelle fabbriche del gruppo, ieri era in programma un’astensione generale di 8 ore. A Fabriano sono arrivate le delegazioni dell’impianto campano di Teverola- Carinaro (Caserta) e di quello di Comunanza (Ascoli Piceno). C’erano anche alcuni esponenti dei centri sociali, una ventina di persone che a metà giornata, quando il corteo ha raggiunto il quartier generale della società, hanno tentatodi fare irruzione all’interno. Sono stati respinti dalla polizia tra i fischi dagli altri manifestanti: brevi momenti di tensione e nessun ferito in una giornata pacifica. Ma che non ha risparmiato dure critiche alla famiglia Merloni, la cui storia imprenditoriale da tre generazioni è legata a quella della città. «1425 volte no: vergogna!», ha urlato più volte il corteo all’indirizzo della dirigenza, che ha annunciato di voler spostare l’assemblaggio degli elettrodomestici tra Polonia e Turchia, dove il lavoro è più economico.
Da una parte il crollo del mercatodel “bianco”, dall’altra costi di produzione «non più sostenibili»: queste le considerazioni alla base del piano. Che dovrebbe lasciare in Italia solo le linee degli elettrodomestici a incasso e l’alto di gamma. «Le aziende prendono i soldi e scappano - ha commentato il segretario generale della Cgil Susanna Camusso - invece di essere i soggetti che contribuiscono a vedere come il Paese possa uscirne». Nel programma di Indesit si parla di esuberi, non di licenziamenti, e nei giorni scorsi Alessandra Merloni, presidente della holding di famiglia epronipote del fondatore Aristide, ha rassicurato che la società «non lascerà l’Italia». Ma per l’economia del Casertano e per quella di Fabriano il ridimensionamento rappresenta un colpo durissimo, «con effetti a cascata per il tessuto economico e sociale della città», ha detto il sindaco Giancarlo Sagramola. Le organizzazioni sindacali, Fiom, Fim e Uilm, chiedono all’azienda di fare marcia indietro e al governo di intervenire. Il prossimo 16 luglio è in programma un incontro al ministero dello Sviluppo economico.
Poche righe e in ritardo su una polemica che in tutti gli altri giornali ha occupato nei giorni scorsi molto più spazio.
Persino l’Associazione Partigiani per il direttore Sardo è diventata scomoda!
l’Unità 13.7.13
L’Anpi contro Baudo «La ricostruzione su via Rasella è falsa»
L’Associazione nazionale dei partigiani contro la trasmissione “Il viaggio”, condotta da Pippo Baudo, andata in onda lunedì 8 luglio con al centro la ricostruzione sull’attentato di via Rasella e la reazione tedesca culminata con la rappresaglia delle Fosse Ardeatine . Secondo l’Anpi, che chiede una precisazione formale alla Rai, la trasmissione ha deformato i fatti, formulando giudizi oltraggiosi e sommari. In particolare, scrive l’associazione, «l’azione condotta dai partigiani (fra cui Bentivegna e Capponi) è stata riconosciuta come “legittima azione di guerra” da due sentenze della Cassazione»; che da tutti gli atti dei processi risulta con chiarezza che non ci fu nessun avvertimento preventivo, né fu offerta possibilità per i partigiani di assumersi la responsabilità di salvare vite umane, perché i tedeschi decisero di comunicare la notizia dell’eccidio solo dopo l’esecuzione; che i Gap che operarono dopo l’8 settembre, erano «gruppi d’azione patriottica» e non possono essere confusi con i «gruppi armati proletari», costituiti dai terroristi molti anni dopo.
il Fatto 13.7.13
Il fascicolo ritrovato: “Borsellino indagava sulla Trattativa”
Nel luglio 1992, il Pm investigava sul “Corvo 22 che scrisse di un incontro tra Mannino e Riina
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
In piena stagione stragista, a metà giugno del ‘92, un anonimo di otto pagine scatenò fibrillazione e panico nei palazzi del potere politico-giudiziario: sosteneva che l’ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). Una sorta di prologo della trattativa. Su quel-l’anonimo, si scopre oggi dai documenti prodotti dal pm Nino Di Matteo nell’aula del processo Mori, stava indagando formalmente Paolo Borsellino. Con un’indagine che il generale del Ros Antonio Subranni chiese ufficialmente di archiviare perché non meritava “l’attivazione della giustizia”.
IL DOCUMENTO dell’assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, insieme alle altre note inviate tra luglio e ottobre di quell’anno, non è stato acquisito al fascicolo processuale perché il presidente del Tribunale Mario Fontana non vi ha riconosciuto una “valenza decisiva” ai fini della sentenza sulla mancata cattura di Provenzano nel ‘95, che sarà pronunciata mercoledì prossimo. Ma le note sono state trasmesse alla Procura nissena impegnata nella ricostruzione dello scenario che fa da sfondo al movente della strage di via D’Amelio. In aula a Caltanissetta, infatti, nei giorni scorsi, Carmelo Canale ha raccontato che il 25 giugno 1992, Borsellino, “incuriosito dall’anonimo” volle incontrare il capitano del Ros Beppe De Donno, in un colloquio riservato alla caserma Carini, proprio per conoscere quel carabiniere che voci ricorrenti tra i suoi colleghi indicavano come il “Corvo due”, ovvero l’autore della missiva di otto pagine.
Quale fu il reale contenuto di quell’incontro? Per il pm, gli ufficiali del Ros, raccontando che con Borsellino quel giorno discussero solo della pista mafia-appalti, hanno sempre mentito: una bugia per negare l’esistenza della trattativa, come ha ribadito Di Matteo ieri in aula, nell’ultima replica. Tre giorni dopo, il 28 giugno, a Liliana Ferraro che gli parla del-l’iniziativa avviata dal Ros con don Vito, Borsellino fa capire di sapere già tutto e dice: “Ci penso io”. Il primo luglio ‘92, a Palermo il procuratore Pietro Giammanco firma una delega al dirigente dello Sco di Roma e al comandante del Ros dei Carabinieri per l’individuazione dell’anonimo. Il 2 luglio, Subranni gli risponde con un biglietto informale: “Caro Piero, ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull’anonimo. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti”.
NEL LANCIO Ansa, le “soffiate” del Corvo sono definite dai vertici investigativi “illazioni ed insinuazioni che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti”. Come ha spiegato in aula Di Matteo, “il comandante del Ros, il giorno stesso in cui avrebbe dovuto cominciare ad indagare, dice al procuratore della Repubblica: guardate che stanno infangando Mannino”. Perché Subranni tiene a far sapere subito a Giammanco che l’indagine sul Corvo 2 va stoppata? Venerdì 10 luglio ‘92 Borsellino è a Roma e incontra proprio Subranni, che il giorno dopo lo accompagna in elicottero a Salerno. Borsellino (lo riferisce il collega Diego Cavaliero) quel giorno ha l’aria “assente”. Decisivo, per i pm, è proprio quell’incontro con Subranni, indicato come l’interlocutore diretto di Mannino. È a Subranni che, dopo l’uccisione di Salvo Lima, l’ex ministro Dc terrorizzato chiede aiuto per aprire un “contatto” con i boss. È allo stesso Subranni che Borsellino chiede conto e ragione di quella trattativa avviata con i capi mafiosi? No, secondo Basilio Milio, il difensore di Mori, che ieri in aula ha rilanciato: “Quell’incontro romano con Subranni e’ la prova che Borsellino certamente non aveva alcun sospetto sul Ros”. Il 17 luglio, però, Borsellino dice alla moglie Agnese che “Subranni è punciuto”. Poche ore dopo, in via D’Amelio, viene messo a tacere per sempre. Nell’autunno successivo, il 3 ottobre, il comandante del Ros torna a scrivere all’aggiunto Aliquò, rimasto solo ad indagare sull’anonimo: “Mi permetto di proporre - lo dico responsabilmente - che la signoria vostra archivi immediatamente il tutto ai sensi della normativa vigente”.
l’Unità 13.7.13
Malala conquista l’Onu «Talebani, non taceremo»
La sedicenne pachistana vittima degli integralisti: «Parlo a nome di chi non ha voce»
«Non mi ridurranno mai al silenzio e non uccideranno i miei sogni»
«La penna è più forte della spada. Gli estremisti hanno paura di libri, penne e donne»
Appello per assicurare «istruzione per i bambini nel mondo»
di Umberto De Giovannangeli
Una sedicenne conquista l’Onu. Con la sua grazia, con la sua determinazione, l’indomito coraggio. «Oggi non è il mio giorno, è il giorno di tutti coloro che combattono per i propri diritti. I talebani non mi ridurranno mai al silenzio e non uccideranno i miei sogni». A testa alta, coperta da uno scialle di Benazir Bhutto e con la voce ferma di chi, ad appena 16 anni, ha già la consapevolezza di essere il simbolo di chi vuole difendere i propri diritti, Malala Yousafzai, la giovane attivista pakistana ferita lo scorso anno alla testa dai talebani, ha parlato al Palazzo di Vetro. «Sono qui e oggi parlo per tutti coloro che non possono far sentire la propria voce ha proseguito -. Pensavano che quel proiettile ci avrebbe fatto tacere per sempre, ma hanno fallito», scandisce Malala, lanciando un vibrante appello «all’istruzione per tutti i bambini». Le sue parole sono state accompagnate dall’ovazione dell’assemblea. «Ecco la frase che i talebani non avrebbero mai voluto sentire: buon 16esimo compleanno Malala» le ha detto l’ex premier britannico Gordon Brown, oggi inviato delle Nazioni Unite per l’educazione.
LO SCIALLE DI BENAZIR
Ogni parola di Malala viene dal profondo di un vissuto di dolore e di dignità. «È un onore per me parlare di nuovo dopo tanto tempo, essere qui con tanta gente onorevole e indossare questo scialle di Benazir Bhutto. Non so da dove cominciare ha esordito la ragazza -. Non so cosa le persone si aspettino che io dica. Prima di tutto grazie a Dio, per cui noi siamo tutti uguali, grazie a tutti quelli che hanno pregato per me, all’amore che la gente che ha dimostrato. Ho ricevuto cartoline e regali da tutto il mondo.
Grazie ai bambini i cui mondi innocenti mi hanno incoraggiata. Vorrei ringraziare le infermiere, i medici del Pakistan e del Regno Unito, il governo che mi ha aiutato». Poi un messaggio all’Onu: «Sostengo pienamente Ban Ki-moon nella sua azione per l’istruzione» e «ringrazio tutti per la leadership che offrono e l’ispirazione che ci danno».
Colpita perché ha difeso il diritto allo studio delle donne del suo Paese, Malala ha accusato i talebani di temere la forza dell’istruzione, ma soprattutto quella delle donne: «Capiamo l’importanza della luce quando vediamo l’oscurità, della voce quando veniamo messi a tacere. Allo stesso modo nel Pakistan abbiamo capito l’importanza di penne e libri quando abbiamo visto le pistole» ha scandito la giovane. «La penna ha proseguito è più forte della spada. È vero che gli estremisti hanno e avevano paura di libri e penne. Il potere dell’istruzione fa loro paura. E hanno paura delle donne: il potere della voce delle donne li spaventa. Per questo hanno ucciso 14 studenti innocenti. Per questo hanno ucciso le insegnanti, per questo attaccano le scuole tutti i giorni. Gli estremisti hanno paura del cambiamento, dell’uguaglianza all’interno della nostra società». Poi ha aggiunto: «Oggi siamo noi donne ad agire da sole, non chiediamo agli uomini di agire per noi come è accaduto in passato. Non sto dicendo agli uomini di non parlare a favore dei nostri diritti, ma mi concentro perché la donna sia autonoma e lotti per se stessa».
APPELLO AI GRANDI
Un discorso appassionato quello di Malala, tra i più alti che il Palazzo di Vetro abbia registrato nella sua storia. «La pace è necessaria a fini dell’istruzione, il terrorismo e i conflitti impediscono di andare a scuola. Noi siamo stanchi di queste guerre», scandisce.
Parla ai cuori e alle menti, Malala. E ha cosa da chiedere ai Grandi della terra. Cosa concrete, impegni verificabili. «Chiediamo ai leader di tutto il mondo di cambiare le politiche strategiche a favore di pace e prosperità, che tutti gli accordi tutelino i diritti delle donne e dei bambini. Chiediamo a tutti i governi di assicurare l’istruzione obbligatoria e gratuita in tutto il mondo a ogni bambino, di lottare contro il terrorismo e la violenza. Chiediamo ai Paesi sviluppati di sostenere i diritti all’istruzione per le bambine nei Paesi in via sviluppo. Chiediamo a tutte le comunità di respingere i pregiudizi basati su caste, sette, religione, colore, genere...Chiediamo ai leader di tutto il mondo di assicurare la sicurezza di donne, perché non possiamo avere successo se metà di noi subisce torti. E chiediamo a tutte le sorelle di essere coraggiose, comprendendo il loro pieno potenziale e agendo». Nella mani di Malala una petizione, firmata da quasi 4 milioni di persone, a sostegno di 57 milioni di bambini che non vanno a scuola e che chiedono ai leader del mondo «fondi per nuovi insegnati, aule e libri». La petizione chiede anche l’immediato stop allo sfruttamento di bambini nei luoghi di lavoro e al traffico di minori.
La grande sala del Trusteeship Council le ha riservato una standing ovation lunga e profonda. I rappresentanti delle istituzioni sono tutte in piedi. «Malala tu sei la nostra eroina, sei la nostra grande campionessa, noi siamo con te, tu non sarai mai sola», le assicura commosso il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Le sue parole sono coperte dagli applausi che avvolgono la sedicenne. Se la comunità internazionale avesse un alto senso di sé, il prossimo Nobel per la pace avrebbe già un nome, un volto, una storia: quelli di Malala Yousafzai.
Repubblica 13.7.13
Malala
Quella verità rivoluzionaria nell’aula delle ipocrisie
di Vittorio Zucconi
NELL’AULA solenne che dal 1952 ascolta tutte le menzogne del mondo, è una ragazza pakistana di 16 anni, Malala, a dire davanti alle Nazioni Unite una semplice verità più rivoluzionaria delle baionette.
«UN BAMBINO, un maestro, un libro, una matita per volta possono cambiare il mondo. L’istruzione è l’unica soluzione». Dall’alto dei suoi 145 centimetri di statura, avvolta nel velo che appartenne a Benazir Ali Bhutto assassinata durante un comizio elettorale nel 2007, Malala — che significa “Colei che conosce il dolore” — è un piccolo miracolo del destino. O se si preferisce, la protetta da un Dio sicuramente più misericordioso e giusto di quello venerato dall’assassino Taliban che le sparò alla testa, da pochi centimetri. Il proiettile le trapassò il cranio e il collo per fermarsi nella spalla, senza ucciderla. E ieri, 12 luglio 2013, era il suo sedicesimo compleanno.
I segni di quell’attentato, che i Taliban della valle dello Swat (lastessa dove Osama Bin Laden si rifugiò dopo la fuga dall’Afghanistan prima di nascondersi nel fortino di Abbottabad) sono ancora riconoscibili sul suo viso, negli occhi, nonostante il successo della chirurgia d’emergenza e poi i mesi di riabilitazione e rieducazione a Birmingham, in Inghilterra, dove ora vive con il padre, l’insegnante e poeta che la spinse a studiare, e la madre, chela incoraggiò.
Ma ancora più vistosi sono i segni della fermezza tranquilla, della risolutezza implacabile di una ragazza che non alza mai la voce, che non grida, che si limita a fissare i magnifici ipocriti che l’ascoltano con aria compunta nell’anfiteatro del Palazzo di Vetro, con occhi scuri e profondissimi. È lo sguardo di chi ha visto la morte a 14 anni, su uno scuolabus, fra altre bambine terrorizzate, per la colpa di andare a scuola, essendo una femmina, e di raccontare su un blog ospitato dalla
Bbc,l’eroismo richiesto a una famiglia pakistana, a una bambina, semplicemente per imparare a leggere e scrivere.
L’aula magna dell’Onu dal 1952 ha visto consumarsi i più terribili drammi e le più ignobili sceneggiate politiche della storiacontemporanea, sempre a pochi minuti dall’olocausto termonucleare. Ha guardato Kruscev picchiare la scarpa sul tavolo; ha ascoltato l’ambasciatore Zorin negare l’esistenza di missili a Cuba; ha sbadigliato sentendo capi di stato promettere solennemente terre ai senza terra palestinesi che ancora aspettano; ha sogghignato seguendo Colin Powell contorcersi nella fiction degli arsenali di Saddam. Ma nessuno di quei gesti e di quelle recitazioni ha avuto la forza del dito alzato da “Colei che conosce il dolore” mentre diceva: «I libri e le matite sono la nostra arma più formidabile, quella che potrà farci vincere la pace e conquistare la miseria».
La sola «Guerra al Terrorismo» che può sconfiggere il terrorismo è questa, osa dire dall’alto dei suoi 145 centimetri, e la reazione dei Taleban alla sfida di Malala e delle compagna ne fu la prova. Gli irriducibili guerrieri delle valli afgane e pachistane, gli uomini coraggiosissimi che seppero sconfiggere l’Armata Rossa e stanno tenendo in scacco e umiliando la Nato, i droni, i satelliti, vivono, loro, nel terrore delle scolarette e della maestrina con il gesso e la lavagna. Non perché siano dementi, ma perché sono lucidi, e sanno che da quelle bambine, e poi donne, verrà la fine della teologia del maschilismo. I Taliban dello Swat, quando rivendicarono l’attentato alla vita di Malala, la accusarono di essere «un’apostata, un’infedele, una femmina (sic) oscena».
Il breve intervento di Malala è stato seguito da un’ovazione in piedi più lunga e sincera di quelle d’ordinanza che accolgono i discorsi dei leader politici alle assemblee e nessuno, neppure i rappresentanti di nazioni dove l’istruzione dei bambini, e soprattutto delle femmine, è deplorevole o progressivamente sotto finanziata, se non aborrita osava dissentire o prendere a scarpate i tavoli.
«Chiedo alle Nazioni Unite di lavorare per rendere obbligatoria e universale l’istruzione di bambini e bambine» diceva, con la sua vocina quieta e potente la piccola pakistana, mentre tutti annuivano e ascoltavano poi altri ragazzi e ragazze recitare il proprio fervorino in favore delle iniziative per le scuole nelle nazioni più povere. Come se quelle più ricche oggi potessero vantarsi, in materia di istruzione pubblica.
Ma lo scetticismo, che sempre deve temperare la retorica e gli entusiasmi del momento all’Onu, non può offuscare l’eroismo autentico di quella donnina infinitamente più temeraria e determinata di troppi falsi eroi celebrati dai media. Lei stessa, ricevendo il coro degli “Happy Birthday” intonato dalle delegazioni e dai giovani invitati nell’aula, ascoltato l’ex premier inglese Gordon Brown aggiungere una porzione di retorica politicante classica al discorso, ha mantenuto sempre un contegno distaccato, compostissimo, quasi ironico nella sua serena timidezza. Ha visto troppo, “Colei che conosce il dolore” e troppo presto nella sua vita. Ma è stato bello vedere che per un giorno almeno, è stata una ragazzina disarmata a terrorizzare i terroristi.
l’Unità 13.7.13
Bimbi palestinesi, Israele sott’accusa per le violenze
Un rapporto del giugno 2013 delle Nazioni Unite accusa i militari e la polizia israeliani di soprusi contro settemila minori
di U. D. G.
Waadi Mawada non è solo. Non è il solo bambino palestinese «arrestato» per un sasso. La sua storia ha colpito l’opinione pubblica internazionale per il video shock mandato in rete l’altro ieri, in cui si vide Waadi, cinque anni e nove mesi, fermato a Hebron dai soldati israeliani perché aveva lanciato un sasso contro un auto di coloni israeliani. Quel pianto disperato del piccolo Waadi riporta alla luce uno dei capitoli più drammatici, inquietanti, dell’eterno conflitto israelo-palestinese.
I CASI SONO TANTI
Ventuno pagine. Un j’accuse documentato che riguarda il trattamento riservato dalle forze militari israeliane ai bambini palestinesi. È il Rapporto shock del Comitato dell’Onu per la difesa dei diritti dei bambini, pubblicato lo scorso 14 giugno, che accusa la polizia e l’esercito di Israele di violenze sistematiche contro i bambini palestinesi, in taluni casi «torturati e usati come scudi umani».
Lo Stato ebraico ha reagito con durezza, definendo il rapporto «non serio»: «Ci sono fonti secondarie, non verificate, né richieste a Israele di informazioni e di cooperazione» rimarca il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Ygal Palmor. «In altri casi, come ad esempio quello del rapporto dell’Unicef, Israele ha proseguito ha collaborato con delle informazioni. E ha messo in campo tutte le misure per migliorare. In questo caso è l’opposto».
Eppure, il dossier Unicef del marzo scorso parlava di «maltrattamenti, diffusi, sistematici e istituzionalizzati» ai danni dei minori palestinesi (tra i 12 e i 17 anni) detenuti nel sistema militare israeliano. In dieci anni, aveva denunciato l’Unicef, sono stati arrestati circa 7.000 minori, una «media di due ogni giorno».
Il rapporto del Comitato Onu, che dettaglia gli stessi numeri, torna a denunciare «arresti nel corso della notte, detenzioni in isolamento che durano mesi». Ai minori, fermati con l’accusa di aver lanciato pietre contro i soldati «vengono legate le mani, bendati gli occhi e vengono trasferiti in luoghi sconosciuti a genitori e parenti». Le accuse «vengono lette in ebraico, una lingua che evidentemente non conoscono, e vengono loro fatte firmare confessioni scritte anch’esse in ebraico» rileva il rapporto degli esperti del Comitato Onu. In generale, i minori che vivono «nei territori occupati da Israele subiscono sistematiche violenze fisiche, verbali e anche sessuali. Sono sottoposti a umiliazioni, minacce. Una volta arrestati si nega loro l’acqua, il cibo, l’igiene». Crimini «che vengono commessi al momento dell’arresto, del trasferimento, dell’interrogatorio, e anche nel corso dei processi a loro carico», stima ancora il rapporto citando «le testimonianze dei soldati israeliani». I militari «usano i ragazzini come scudi per entrare in edifici potenzialmente pericolosi» e la «quasi totalità dei casi in cui i bambini sono stati utilizzati come scudi umani e informatori sono rimasti impuniti. E i soldati accusati di aver fatto aprire a un bimbo di nove anni una valigia che sospettavano contenesse esplosivo hanno solo ricevuto una sospensione di tre mesi e il degrado», denuncia ancora il rapporto.
Il dossier spiega come i bambini palestinesi siano stati sottoposti sistematicamente ad abusi fisici e verbali. Si è ricorso anche alla violenza sessuale, per non parlare delle pressioni psicologiche subite dai minori: minacce di morte a se stessi e ai membri della famiglia. Ma sono stati utilizzati anche metodi assai più subdoli, come la mancanza di cibo e acqua e la limitazione dell’utilizzo dei servizi igienici. «Metodi – spiega l’Onu – perpetrati dal momento stesso dell’arresto e nelle fase successive il cui scopo è quello di ottenere una confessione, anche in maniera del tutto arbitraria. Ad ammetterlo sono stati diversi soldati israeliani». Esaminando i casi degli ultimi dieci anni, il rapporto ha aggiunto che la maggior parte dei bambini palestinesi arrestati sono accusati di aver lanciato pietre, un reato che può comportare una pena fino a 20 anni di carcere. Molti sono portati davanti a tribunali militari, con le gambe e la mani incatenate, e sono tenuti in isolamento, a volte per mesi, sottolinea il rapporto. «Centinaia di bambini palestinesi sono stati uccisi e migliaia feriti nel periodo delle operazioni militari di Stato, in particolare a Gaza, in zone densamente popolate, e con una significativa presenza di bambini, trascurando in tal modo i principi di proporzionalità e di distinzione», rileva ancora il rapporto Onu. Secondo la stima Unicef, fino all’aprile scorso, 236 minori palestinesi, 44 dei quali con meno di 16 anni, si trovavano nei centri di detenzione militare.
l’Unità 13.7.13
Un pericoloso terrorista di 5 anni
di Moni Ovadia
UNA TELECAMERA NELLE MANI DI UN OCCASIONALE SPETTATORE DELLA REALTÀ PUÒ RIVELARE, PER CASO, un inverosimile episodio di ottusa brutalità e simultaneamente di crudele stupidità. L’arresto, operato da una dozzina di militari armati, per il «crimine» del lancio di una pietra contro un auto, di un bimbo di cinque anni e di suo padre, sopraggiunto per proteggere il figlioletto, per il delitto di sospetta complicità con un pericolosissimo terrorista in erba. L’uomo con la telecamera, casualmente è un attivista di un’associazione per la difesa dei diritti umani, beth tselem. Le immagini arrivano sulla rete tramite l’efficientissimo Youtube e sono subito intercettate da milioni di internauti. Dov’è accaduto questo episodio di solerzia nel provvedere alla tutela della sicurezza dei cittadini che devono essere protetti dalle minacce di terroristi cinquenni e magari treenni? È accaduto nello spazio controllato dall’unica democrazia del Medioriente, uno stato modernissimo all’occidentale, il Paese che detiene il primato del massimo numero di start-up al mondo.
Un Paese molto orgoglioso in cui i cittadini, ogni cinque anni, vanno alle urne per scegliere il loro governo, che cambia, si trasforma o rimane uguale a se stesso per governare i propri cittadini. Ma in questa stessa nazione sorretta da un’architettura istituzionale «democratica», i governanti che si sono succeduti da 46 anni, occupano illegalmente territori che appartengono ad un altro popolo, lo opprimono, ne rendono la vita un inferno, lo tengono chiuso in prigione o in gabbia, lo umiliano, ne arrestano arbitrariamente i cittadini o li sottopongono a miriadi di vessazioni e abusi con atti amministrativi attuati con sadismo, li discriminano e li segregano. E non si fermano neppure davanti all’infanzia, alla vecchiaia, alle gravidanze. Quante telecamere occasionali in mano ad attivisti coraggiosi ci vorrebbero per raccontare tutti gli episodi di sopraffazione che accadono sotto l’azione diretta, sotto l’egida dell’autorità militare di quella democrazia e quante altre ne servirebbero per documentare le violenze impunite dei coloni «democratici» e quanti occhi segreti servirebbero per raccontare gli abusi commessi nei luoghi di reclusione? Se anche si trovassero tutte queste telecamere in mano a folle di attivisti dei diritti e della dignità, il governo dell’unica democrazia del Medioriente e i suoi sostenitori planetari, chiederebbe la cancellazione delle riprese con l’imputazione del crimine di antisemitismo.
La stessa cosa accadrebbe anche a viaggiatori che, per turismo o per lavoro, si recassero nelle terre illegittime della grande democrazia mediorientale e fossero testimoni oculari delle ingiustizie subite dal popolo occupato.
Qualora, per coscienza, decidessero di renderne testimonianza, verrebbero immediatamente accusati di avere uno sguardo antisionista ovvero antisemita tout court.
il Fatto 13.7.13
Israele, quando il “nemico” ha cinque anni
Wadi, palestinese, è stato trattenuto per quasi due ore dai militari per il lancio di una pietra
Il video fa il giro del web, provoca emozione e scatena la polemica. Le immagini, girate martedì scorso e diffuse giovedì da un attivista di B’Tselem, l’ong israeliana per la difesa dei diritti umani, mostrano un bambino palestinese fermato da una pattuglia militare israeliana a Hebron, in Cisgiordania, dopo aver lanciato un sasso contro un’automobile israeliana in transito. Il protagonista della vicenda, che a tratti appare circondato da otto militari armati della Brigata Ghivati, è Wadi Maswadeh. E’ nato a settembre del 2007: ha poco meno di cinque anni e dieci mesi. Secondo la denuncia di B’Tselem, il piccolo è stato fermato per un’ora e mezzo presso la Tomba dei Patriarchi di Hebron, assieme col padre Karam. L’esercito israeliano, nella sostanza, non nega l’episodio: ma accusa l’organizzazione per i diritti umani di averlo divulgato alla stampa in forma “tendenziosa” e senza averlo prima analizzato con le autorità militari. I soldati, lascia intendere, si sono comunque comportati in maniera ineccepibile.
Secondo il filmato fornito a B’Tselem dall’attivista locale Manal Jaabari, Wadi è stato bloccato dai militari, dopo il lancio della pietra, mentre era solo per strada. Nel video appare terrorizzato all’idea di dover salire su una jeep militare. Batte i piedi per terra, urla. Un giovane passante accetta di scortarlo a casa, assieme con i soldati. A malincuore, Wadi sale mugolando a bordo. Il suo brutto pomeriggio è appena iniziato.
Una volta a casa, sempre stando alla ricostruzione di B’Tselem, i militari informano la madre che dovranno portare Wadìa dalla polizia palestinese. Intanto il bambino si è nascosto dietro ad alcuni materassi, sperando che la bufera passi. Dopo mezz'ora sopraggiunge il padre, Karam. “Ma come - si meraviglia - adesso arrestate anche i bambini di cinque anni? ”. I soldati sono irremovibili: la vicenda va sottoposta all’attenzione della polizia palestinese, che presidia una parte della città. Wadi e Karam sono dunque condotti nella caserma israeliana della via Shuhada. Nelle immagini, il padre appare a tratti bendato e ammanettato. Per B’Tselem si tratta di un episodio intollerabile. L’età minima per la responsabilità penale, in Israele come nei Territori, è di 12 anni. In nessun caso - secondo la Ong - i militari potevano fermare Wadi e obbligarlo a salire sulla jeep.
«Sono partito dall’idea di erigere dei monumenti in onore di persone che amo, come Spinoza, Deleuze, Bataille e ora Gramsci»
l’Unità 13.7.13
Gramsci? Vive nel Bronx
Parla Thomas Hirschhorn, autore del monumento al fondatore de l’Unità
intervista di Nicola Angerame
L’artista: «Mi basta che la gente conosca le sue citazioni, la sua esistenza
È un buon inizio, poi vedremo La mia prima domanda è stata dove metterlo affinché le persone si confrontino con la sua presenza»
LO STILE È QUELLO DI SEMPRE: RUDE, GREZZO, MA EFFICACE. TANTO LEGNO, NASTRO ADESIVO E SCRITTE A MANO. Mancano, fortunatamente, le terribili immagini di corpi martoriati, che ne hanno fatto un paladino dell'arte di denuncia: ma l'opera dedicata ad Antonio Gramsci, dice lui, è un monumento pacifista. Nella sua lunga carriera Thomas Hirschhorn (Berna 1953, vive e lavora a Parigi) ha spesso usato i materiali poveri per catturare centinaia di immagini di guerra e di consumo in opere «site specific» di grande impatto psicologico. Nel Bronx, erige il suo «monumento» al fondatore de l’Unità: un’ampia struttura in legno, rialzata come una palafitta, che accoglie una scuola d’arte, una stazione radio, un bar, una redazione, una biblioteca, una sala computer, un sito web sempre aggiornato (www.gramsci-monument.com) e una sala conferenze in costante attività. Grazie alla collaborazione con la Fondazione Istituto Gramsci di Roma, la Casa Museo di Antonio Gramsci di Ghilarza e il John D. Calandra Italian American Institute di New York, il progetto propone anche una mostra che racconta la prigionia di Gramsci attraverso i suoi oggetti personali ed il film diretto nel 1977 da Lino Del Fra, I giorni del carcere.
Prodotto dalla Dia Art Foundation, il «monumento» durerà soltanto 77 giorni (fino al 15 settembre), ma in quel lasso di tempo tenterà di portare le idee dell’intellettuale sardo all’interno della comunità afroamericana e ispanica che vive nei 1.350 appartamenti di Forest Houses. Gramsci nel Bronx suona in un modo strano ma interessante. Come è nato il progetto?
«Sono partito dall’idea di erigere dei monumenti in onore di persone che amo, come Spinoza, Deleuze, Bataille e ora Gramsci».
Nel Bronx, 400mila persone vivono nei palazzi di edilizia pubblica, perché lei ha scelto proprio Forest Houses?
«Ho visitato 47 “Project” e parlato con moltissime persone, prima di trovare Erik Farmer, il presidente dell'associazione degli inquilini di Forest Houses, il quale mi ha dato la propria disponibilità. È molto seguito dalla gente che vive qui e ora dirige il progetto».
In un mese, lavorando con 17 residenti, ha costruito dal nulla il monumento che ora è in piena attività. Cosa si aspetta di ottenere?
«La mia missione è fare incontri, creare eventi, ripensare a Gramsci oggi e progettare un nuovo tipo di monumento. Siamo solo all’inizio». Qual è la reazione degli abitanti?
«Stanno arrivando sempre più numerosi perché si sentono coinvolti e perché questo è il loro spazio; in tanti ci lavorano. È un progetto fatto con loro e per loro, e ogni giorno cresce un po’ di più».
Lei fa un’arte impegnata e spesso scioccante. Quanto è importante la missione sociale del suo operare?
«In quanto artista sono interessato alla forma innanzi tutto. La mia prima domanda è stata: dove metto il monumento affinché la gente che vive qui si confronti con la sua presenza? Mi interessa la forma che assume l’opera quando reagisce con le persone che le vivono attorno». Cosa crede che i residenti stiano comprendendo circa una figura così lontana, per loro, come Gramsci?
«Li colpisce il fatto che sia stato in prigione per così tanto tempo e che abbia detto cose che riguardano la loro vita quotidiana. Ma non voglio parlare in nome dei residenti. Provo a dare visibilità alle citazioni di Gramsci. Mi basta che conoscano la sua esistenza, o anche soltanto il suo nome o la sua data di nascita. È un buon inizio, poi vedremo».
Nel primo numero del Gramsci Monument Magazine, che ogni giorno approntate in una delle sale del monumento, lei sostiene che 9 americani su 10 sono prevenuti contro la parola “comunismo”. Come le pare che la avvertano, qui, gli abitanti di questi case a edilizia convenzionata, che nella totalità sono afroamericani o latino americani e non di rado vivono grazie all’assistenza sociale?
«La nostra stazione Radio Gramsci sta lanciando il dibattito. La parola “comunismo” crea negli Stati Uniti sentimenti di paura, ma qui non ne ho incontrata. Voglio insistere sul concetto e promuovere una discussione su ciò».
Nella sua semplicità e socialità, il suo “monumento” possiede diversi livelli di lettura: è un’opera d’arte, una struttura ricreativa, un centro culturale e un’affermazione politica.
«Mi piace che esso apra delle possibilità, siano anche soltanto quelle di bere un caffè o parlare con gli amici al Gramsci corner. Chi vuole, può seguire la creazione del nostro quotidiano, che offre informazioni su Mandela o altri grandi statisti, poesie e pensieri dei residenti, e notizie sugli eventi che si tengono e che riguardano i temi trattati da Gramsci».
Viviamo in un mondo “liquido”, nel quale anche la funzione del monumento appare problematica. Lei sta tentando di ripensarne l’idea e la funzione. «Volevo capire la ragione per cui oggi occorra ancora dedicare un monumento a qualcuno».
Gramsci non aveva legami precedenti con il Bronx. La sua presenza qui, secondo i canoni classici del monumento, non sarebbe giustificata. «Mi interessa quel che un monumento può produrre ogni giorno e non la celebrazione passiva di una figura. Per fare ciò, uso i pensieri che la presenza di Gramsci è capace di attivare. Questo monumento è evanescente, precario, durerà un'estate. In ogni caso, nessun monumento è eterno, ad un certo momento della sua storia smette di parlarci».
Perché lei ama Gramsci?
«Per il suo lavoro, ma anche per la sua vita. Lo amo perché è stato un rivoluzionario, interessato alla politica attraverso un’ottica che non è quella del politico di professione. Era interessato all’arte e alla cultura e trovo affascinante la sua massima: “ogni essere umano è un intellettuale”. Mi ricorda la frase di Joseph Beuys: “ogni essere umano è un artista”. Ci sono molte ragioni per amare Gramsci».
Per lei quale aspetto è più importante?
«La sua visione ha qualcosa di operativo, che appare dalle note, dalle lettere o da pezzi di carta su cui appuntava i suoi pensieri. Per me essi fluttuano in uno spazio sospeso e mi permettono di pensare questo tempo così complicato e a volte ambiguo. Come artista, cerco di fissare dentro una forma concreta la dimensione poetica che la sua scrittura possiede».
Il lato poetico della politica, potremmo dire.
«Ma anche della realtà. Gramsci non cercò mai di evaderla, non escluse nulla neppure dall'analisi di se stesso come uomo. È molto lucido. Come lui, nel mio lavoro cerco di includere ogni parte della realtà, tentando di vederla nella sua forma di correlazione tra elementi complementari». Complementari come il Padiglione della Svizzera alla Biennale di Venezia, dove lei sta esponendo, e il Bronx. All'inaugurazione in tanti sono giunti da Manhattan. Lei è una specie di ponte tra mondi geograficamente vicini, ma lontanissimi.
«È facile attirare le persone interessate all’arte e sono contento di accoglierle, ma questo lavoro è per i residenti. Mi sento più a mio agio se ci sono poche persone, che arrivano dalle loro case qui intorno. Comunque i residenti sono stati contenti dell'incontro, hanno capito che quanto stiamo facendo insieme apre una dimensione nuova che va a vantaggio di Forset Houses». Lei è un artista molto richiesto, ma starà qui tutta l’estate.
«Ogni giorno, da mattina a sera. Il progetto ha un sottotitolo: “Presenza e produzione”, significa che io sto nel progetto a produrre, con gli altri, per un tempo limitato».
Il mercato dell'arte è però molto lontano dal Bronx.
«Qui non è una questione di mercato. Personalmente non sono pro o contro. Il mio problema, in quanto artista, è quello di lavorare indipendentemente dal mercato dell’arte, il quale deve supportare gli artisti procurando loro i fondi per creare ciò che davvero desiderano e che ritengono giusto. Un discorso che diventa centrale quando si lavora su progetti di arte pubblica». I suoi monumenti sono dedicati ai filosofi, lei si sente un intellettuale?
«Certo, nel nome di Gramsci. Concepisco me stesso come artista, ma il suo pensiero mi ha aiutato ad emanciparmi dalla settorialità dell’arte».
Il monumento a Gramsci vive anche attraverso un sito web.
«Ogni giorno carichiamo nuovi contenuti, immagini, dibattiti, articoli. Il sito permette di usare l'opera, ma non può sostituirsi ad essa».
La sua presenza all’interno del monumento ha il sapore di una socialità vecchio stile.
«Sono qui fisicamente per parlare con la gente e avere un rapporto reale con loro. Usano molto lo spazio pubblico e meno i social network. Conservano una presenza fisica che mi pare un atto di resistenza rispetto all’abuso di internet».
Il suo prossimo progetto?
«Non so, davvero. Ora sono qui e sono molto felice di esserci».
«la legge Basaglia legge avanzatissima»
l’Unità 13.7.13
Le «Serate illuminate» del centro Basaglia
di Marco Rovelli
SABATO SCORSO MI È CAPITATO DI SUONARE, CONDIVIDENDO IL PALCO CON CLAUDIO LOLLI, al Pac 180, nelle «Serate Illuminate» del Centro residenziale Franco Basaglia di Livorno, una struttura psichiatrica aperta, una delle poche strutture che tentano di attuare davvero la legge Basaglia legge avanzatissima, e pochissimo applicata. Il parco della struttura è pieno di opere d’arte (da cui l’acronimo Pac: Parco d’Arte contemporanea; si veda il sito pac180.blogspot.com), e ci si suona: ci passano molti musicisti legati al premio Ciampi. Al premio Ciampi è legata anche la piccola casa editrice Valigie Rosse, che ha da poco pubblicato un romanzo, Il bambino mammitico, scritto da un utente del centro Basaglia, Giacinto Conte. È un romanzo autobiografico dove Conte racconta – con una lingua semplice, ma molto vivida la sua vita di fricchettone cristiano nella Pisa degli anni Settanta, tra cortei di Lotta Continua, le comunità cristiane di base e i preti operai, peregrinazioni con i più svariati incontri (anche erotici, perché nel Vangelo fricchettone di Conte il corpo non è un peccato): un documento piccolo ma prezioso di un'intera stagione. Alla fine Conte scrive: «Penso che il centro Basaglia dove vivo sia un luogo magico, pieno di arte e alberi secolari, dove tutti gli anni si fa una festa che si chiama Serate Illuminate. Credo che molti invidino la posizione di noi basagliani, ospiti ma allo stesso tempo liberi di andare in città, al circolino, in chiesa, insomma in tutti i luoghi che vogliamo».
Nella prefazione Claudio Lolli scrive, ricordando la tensione di quegli anni sessanta/settanta, di cui anche le strutture come il centro Basaglia sono figlie, scrive: «Si correva di qua e di là, avanti e indietro, a sinistra e a sinistra, e soprattutto verso l'alto, seguendo quella visione, come nelle Cosmicomiche, che con una scala si potesse arrivare alla luna, al cielo comunque»
Corriere 13.7.13
Tolta la «razza», restano i razzisti
Parigi cancella l'«immonda parola» dalla Costituzione. Ma è un paradosso
di Gian Antonio Stella
«Dal negro puro si passa al sacatrà e dal sacatrà, a seconda della quantità di sangue bianco e nero, al griffe, dal griffe al marabou, al quarteron, al meticcio, fino al sang melé, composto da 126 parti di sangue bianco e 2 sole parti di sangue nero…». Studiando la popolazione di Santo Domingo, l'eccellentissimo Médéric Louis Élie Moreau de Saint-Méry, come racconta Massimiliano Santoro nel suo Il tempo dei padroni, era convinto di avere classificato tutte le sfumature razziali che dividono un bianco da un nero. Arrivando definire, udite udite, 64 diversi tipi di uomini di colore. E mai avrebbe immaginato, dall'alto del suo scranno di pseudo «scienziato» illuminista, che il Parlamento francese sarebbe arrivato un giorno a cancellare dalla Costituzione perfino la parola razza.
In realtà, nella Carta del 1946, era citata solo di striscio e in modo, diremmo oggi, politicamente corretto: «La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Garantisce l'eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini senza distinzione d'origine, razza o religione». Una formulazione simile al nostro articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione…».
Il solo fatto di nominare quella parola «immonda», però, secondo Jean-Luc Melenchon del Front de gauche che è riuscito a tirarsi dietro i socialisti e buona parte del Parlamento, significa riconoscerne l'esistenza. Meglio abolirla. E aggiungere nella Carta che «la Repubblica combatte il razzismo, l'antisemitismo e la xenofobia» e «non riconosce l'esistenza di alcuna presunta razza».
Evviva, hanno esultato tanti. E giù citazioni di Albert Einstein, che sul visto di ingresso in America (ma la cosa è controversa, stando ai moduli di Ellis Island del ‘21) alla voce «razza» avrebbe scritto «umana».
La questione però, come ha scritto Catherine Vincent su «Le Monde», divide i militanti antirazzisti, gli storici e i sociologi. E se l'antropologa Evelyne Heyer teorizza che la razza «è un concetto di cui non c'è alcun bisogno», lo storico (di colore) Pap Ndiaye, specialista nella storia dei neri d'America, sostiene di non vedere la ragione di questo passo perché «la soppressione della parola razza non sopprimerà affatto il razzismo». Anzi, secondo il sociologo Eric Fassin «l'eufemismo potrebbe semplicemente oscurare il problema». Rendendolo in qualche modo perfino più insidioso.
Che le differenze tra la più nera dei Dessanatech e la più bionda delle svedesi siano minime è noto da un pezzo. Al punto che già il 28 luglio 1939, ricevendo gli alunni del Pontificio collegio di Propaganda Fide, papa Pio XI spiegò in polemica col nazismo e col fascismo che «il genere umano, tutto il genere umano, è una sola, grande, universale razza umana». Una tesi dimostrata anche geneticamente. A dispetto di Moreau de Saint-Méry e dei suoi (più ignoranti) eredi di oggi, ad esempio, i geni che determinano il colore della pelle, spiegano i genetisti, sono una cinquantina su circa trentamila. Che basti eliminare una parola dal vocabolario per eliminare il problema, però, è tutto da dimostrare. Anzi, l'operazione a volte è solo un alibi delle cattive coscienze.
La legge 4/1974 dice testuale che «nelle certificazioni, comunicazioni, carteggi, relazioni ed ogni altro atto, redatti per qualsiasi uso dagli uffici dello Stato, enti ed istituti pubblici, è fatto divieto di usare il termine lebbra, lebbroso, lebbrosario e qualsiasi altro che dalla parola lebbra derivi»: va usata la parola «hanseniano». Ma la lebbra non è stata abolita e non uno di quei burocrati che fissarono quella regola avrebbe passato decenni in un lebbrosario come madre Teresa che chiamava lebbrosi i lebbrosi. C'è più pietà e rispetto nelle parabole evangeliche di Gesù che in Galilea benedice «zoppi, storpi, ciechi, sordi» o negli emendamenti che tagliano i fondi all'assistenza ma chiamano ipocritamente le vittime «diversamente abili», «non vedenti» o «audiolesi»?
Le parole, in sé, significano poco o niente. Conta come vengono usate. Cosa c'è dietro. Basti pensare alla battaglia di intellettuali rom come Santino Spinelli, due lauree, scrittore, musicista col nome d'arte di Alexian, docente universitario, che rifiutano a brutto muso il termine «zingaro» pretendendo per il loro popolo la parola «rom» o in subordine «nomade». Legittimo. Certi manifesti razzisti di Forza Nuova, però, indifferenti alle statistiche sui profili degli stupratori, sbattono in primo piano una donna violentata con lo slogan: «Se capitasse a tua madre, tua moglie o tua figlia? Chiudere i campi nomadi/Espellere i rom!». Viceversa, alcune delle cose più belle e rispettose le ha scritte ad esempio Orio Vergani («I nebbiosi inverni della Padania hanno fatto sempre amare i bruni zingari i cui visi sembrano bruciati da un sole antichissimo…») chiamandoli con quel nome rifiutato.
E se quella parola odiata è stata usata come un insulto belluino da sindaci come Giancarlo Gentilini («Ho distrutto due campi di zingari a Trevisooo! Non ci sono più zingari, a Trevisooo! Voglio eliminare i bambini dei zingari che vanno a rubare agli anzianiii!»), la stessa ha assunto tutto un altro significato, pieno di rispetto e amicizia, in bocca a Giovanni Paolo II. Il quale beatificò nel 1997 Ceferino Giménez Malla, «zingaro e cristiano eroico», fucilato nel 1936 nella guerra civile spagnola e chiese perdono per i peccati della Chiesa contro «i fratelli zingari» e avviò gli «Orientamenti per una pastorale degli zingari» che poi venne portata a compimento sotto Benedetto XVI. Dove si raccomanda ai cristiani rispetto per questa popolazione «da secoli presente in terra tradizionalmente cristiana ma spesso emarginata, segnata dalla sofferenza, dalla discriminazione e spesso anche dalla persecuzione».
E allora come la mettiamo? Ben venga, se serve a ricordare quanto sia centrale il tema, l'iniziativa francese. Ma il cammino per superare il razzismo deve andare oltre le parole. Ed è ancora lungo lungo…
Corriere 13.7.13
I (facili) pregiudizi contro la scienza
di Edoardo BoncinelliI
Cento anni fa Niels Bohr proponeva il suo modello della struttura dell'atomo. Nel numero del 6 giugno la rivista «Nature» celebra l'evento e ospita un interessantissimo articolo di Frank Wilczek, premio Nobel del 2004, sull'enigmatica natura di una delle particelle più semplici, l'elettrone. L'articolo termina così: «Quindi, che cos'è un elettrone? Un elettrone è una particella e un'onda; è eccezionalmente semplice e tremendamente complesso; è compreso in dettaglio e terribilmente misterioso; è rigido e soggetto a una disintegrazione creativa. Nessuna delle risposte rende da sola giustizia alla realtà delle cose».
Questa è scienza, la vera scienza che io ho conosciuto e praticato, una delle più esaltanti avventure dell'animo umano. Nello stesso numero della rivista c'è anche uno studio comparativo del modo con cui articolano i primi suoni due tipi diversi di fringuelli e i nostri bambini; e sempre sullo stesso numero viene riportata una ricerca sulla crescita della crosta terrestre continentale nei primi tempi della solidificazione del nostro pianeta. Tre fulgidi esempi, questi, di scienza ai massimi livelli: eppure della scienza si parla spesso male, a volte in termini decisamente offensivi, soprattutto nel nostro paese. Perché?
Come e perché ce lo spiega con grande pazienza Gilberto Corbellini in Scienza, l'ultimo uscito della fortunata serie di volumetti editi da Bollati Boringhieri e chiamati «sanpietrini». Ovviamente l'autore è tutto dalla parte della scienza e avrebbe potuto scrivere un testo che esponesse i pregi e i difetti teorici e sociali della scienza d'oggi, ma ha preferito proporre dodici obiezioni correnti al valore e all'utilità della scienza alle quali risponde punto per punto. Tale impostazione veramente innovativa permette a Corbellini di toccare praticamente tutti gli argomenti della valutazione pubblica della scienza e di sviscerarli.
Il primo argomento per esempio è: «La scienza è fallibile e gli scienziati possono sbagliare: la scienza non spiega tutto». Questa è, in fondo, la critica principale e le riassume un po' tutte. La conclusione che spesso se ne trae è: «Se la scienza non spiega tutto, perché celebrarne i trionfi e perderci tanto tempo?» Chi trae tale conclusione conosce qualche altra funzione dello spirito umano che spiega tutto? Se la conosce, si faccia avanti e potremo così chiudere istituti di ricerca e laboratori risparmiando un sacco di soldi. (Con il verbo «spiegare» intendo ovviamente «spiegare», non raccontare storie). Il punto fondamentale è che la scienza è fallibile perché ci spiega qualcosa della realtà che ci circonda. E può sbagliare, anche se non così spesso come qualcuno immagina. Se non ci spiegasse qualcosa del mondo, non potrebbe sbagliare perché non affermerebbe niente che possa essere nemmeno smentito.
Il secondo argomento: «La scienza tradizionale è riduzionista, quindi inadeguata per spiegare la complessità». Personalmente dopo tanto tempo ancora non ho capito che cosa sia effettivamente la complessità, se non la constatazione che capire il mondo e noi stessi non è così semplice. D'altra parte, se fosse semplice, che merito ci sarebbe a indagare tutto ciò? Il mondo è complesso, certo, ma fino a oggi siamo riusciti a capire tantissime cose, spesso proprio grazie al fatto che la scienza moderna è spesso riduzionista, termine che ha l'unico difetto dell'assonanza con l'aggettivo «riduttivo». Il riduzionismo non è riduttivo e quindi impoverente, ma semmai terribilmente arricchente rispetto alla realtà quotidiana, come dimostra tutta la scienza degli ultimi cento anni.
Potrei andare avanti così, ma sarebbe inopportuno oltre che noioso; voglio solo segnalare che Corbellini fa osservazioni da maestro soprattutto alla sesta e all'ottava argomentazione, cioè: «Oggi la scienza è una forma organizzata di potere ed è manipolata dal mercato» e «La scienza e gli scienziati minacciano la democrazia, la libertà e la dignità umana». Qua rifulge la sua vasta conoscenza dell'argomento e la sua ponderata considerazione delle diverse posizioni. Un libro fondamentale direi, essenziale e deciso ma non fondamentalista, risolutivo e didattico quanto basta per informare e illuminare. O almeno così dovrebbe essere: non c'è peggior sordo di chi non vuole sentire.
La Stampa TuttoLibri 13.7.13
Filosofia
Da Dio allo spread il Due è sempre tiranno
Una liberazione dalle gerarchie del capitalismo mondiale chiedendo aiuto ad Averroè, Deleuze e Heidegger
Il soggettivismo personalistico ci fa vedere tutto in termini di colpa, debito, personalismo individuale
di Gianni Vattimo
Roberto Esposito «Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi» pp. 233, € 21.
Uno dei termini chiave della filosofia recente, introdotto per la prima volta da Heidegger nel 1927 (in Essere e tempo) e poi reso popolare soprattutto da Jacques Derrida è quello di «decostruzione»; in origine, nel testo heideggeriano era semplicemente «distruzione» (della storia dell’ontologia, cioè del modo in cui la tradizione metafisica ha sempre pensato l’essere, identificandolo con ciò che è dato nella presenza). Ma già nell’ opera di Heidegger la distruzione era diventata una specie di riflessione genealogica sulla storia della metafisica occidentale, dunque più una ricostruzione del passato che una sua liquidazione. Nei filosofi – tanti - che si sono ispirati alla lezione di Heidegger e Derrida rimangono decisivi questi due aspetti del filosofare: l’idea radicale di una distruzione, che si attua, e spesso si esaurisce, in un lungo percorso rammemorativo. Nei casi migliori, come è quello dell’ultimo libro di Roberto Esposito, filosofo napoletano tra i più originali della sua generazione, il risultato è sicuramente affascinante per la quantità di informazione storica che mobilita – da Averroè a Deleuze! - anche se lascia aperte molte domande e giustifica qualche insoddisfazione. Il Due che dà il titolo al libro di Esposito allude alla struttura teologico-politica della tradizione egemone nella nostra cultura: da sempre siamo abituati a definirci persone in quanto abbiamo un corpo e un’anima, o anche ragione e istinto, spesso in lotta tra di loro, con il dovere di realizzare l’unità attraverso la sottomissione di una parte all’altra. Questo schema ripete quello del rapporto tra Dio e il mondo, che ci sembra del tutto naturale , mentre naturale non è , ed è anzi, alla lunga responsabile del disagio esistenziale in cui viviamo; soprattutto, è la struttura portante di un «dispositivo» fondamentalmente politico che Esposito, nelle pagine conclusive del libro, non esita a identificare con la macchina mondiale del capitalismo che ci impone sempre più esplicitamente una logica del debito insolvibile, anche nei termini del discorso politico quotidiano.
Anche per chi non sempre riesce a seguire il complesso discorso decostruttivo di Esposito, il libro riveste un sicuro interesse per le tante informazioni storiche che mette in campo: così anche il lettore medio leggerà con profitto le pagine sul grande commentario di Averroè (1126-98) al trattato sull’anima di Aristotele, che non è proprio un dato di cultura comune ; o quelle dedicate alle discussioni sulla Trinità tra Carl Schmitt, Erik Peterson, Jacob Taubes; e la parte del libro teoreticamente più impegnata che analizza il rapporto di Schelling (ma qui andava tenuto più presente il lavoro di Pareyson) con Spinoza. Non vogliamo spaventare il lettore con questi richiami perché per la massima parte del lavoro Esposito riesce ad essere chiaro e in genere persuasivo.
In vista di quale conclusione? Come abbiamo accennato, il libro finisce con Deleuze e la sua polemica contro le «territorializzazioni», le divisioni e le gerarchie (sempre il due che ritorna) che caratterizzano la macchina del capitalismo mondiale, e dunque anche il nostro disagio di cittadini di questo ordine-disordine. La decostruzione delle strutture binarie della teologia politica che continua a dominarci dovrebbe preparare una trasformazione radicale del nostro modo di fare esperienza del mondo. Liberandoci soprattutto dal predominio del soggettivismo personalistico, che ci fa vedere tutto in termini di debito, colpa, responsabilità individuale, alla fine anche di nevrosi. Averroè sta all’inizio di una tradizione liberante che arriva appunto, secondo l’autore, a Bergson, a Deleuze, anche a Heidegger sia pure in termini non esattamente coincidenti. Averroè aveva sostenuto la tesi della unità dell’intelletto , quello che Aristotele chiamava l’intelletto agente, universale, capace della verità, di cui le intelligenze dei singoli sono partecipi solo nella misura in cui si liberano dai limiti e dalla opacità legati alla loro costituzione finita, appunto dal loro essere «persone».. Ciò che dovrebbe liberarci dal meccanismo del dominio capitalistico, o almeno porre le premesse per questa trasformazione, è la capacità (ma con una decisione sempre ancora «personale»?) di abbandonarci, in una sorta di estasi mistica, al flusso della vita e a una conoscenza che non appartiene più al singolo ma, come la sapienza di cui parla Schelling, è una sorta di teoria-prassi condivisa. Il rischio di irrazionalismo che percepiamo a questo punto è limitato, come del resto accade in Deleuze e in certa misura, prima ancora, in Heidegger, dal realismo del richiamo alla macchina mondiale del capitalismo. Niente pura ricerca di una liberazione mistica, direbbe Esposito, ma lotta dura per uscire dal dominio del «dispositivo» teologico-politico. O, diremmo noi, semplicemente dalla logica del dominio. Certo il capitalismo non sembra avere niente da temere da questa decostruzione della teologia politica. Ma non si sa mai, anche Averroè (niente da fare con l’islamismo radicale!) potrebbe alla fine dare una mano all’impresa.