sabato 21 dicembre 2013

Corriere 21.12.13
Quindici anni fa la Camera stipulò senza gara una serie di contratti con la società Milano 90, che metteva a disposizione di Montecitorio quattro immobili
Soppresso in soli sei giorni l’emendamento del deputato del M5S Fraccaro
Gli affitti intoccabili dei palazzi del potere
Il Senato cancella il recesso a tempo di record
di Sergio Rizzo

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Repubblica 21.10.13
L’inganno mediatico sui soldi ai partiti
di Giovanni Valentini


IN UNA società invasa dalla menzogna (…), giornali, tv, internet, dovrebbero sempre essere filtrati dal dubbio, e a questo dovrebbe far seguito se non una verifica personale, almeno la domanda: è vero ciò che si afferma?
(da “Il potere della menzogna” di Mario Guarino – Dedalo, 2013 – pag. 47)
Ha annunciato il 13 dicembre in un tweet il presidente del Consiglio, Enrico Letta: “Avevo promesso ad aprile l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti entro l’anno. L’ho confermato mercoledì. Ora in Cdm abbiamo mantenuto la promessa”. E poi, l’ha ribadito lui stesso alle agenzie di stampa e ai giornali.
Non è vero. L’affermazione di Letta è falsa. Introdotto quarant’anni fa dopo lo scandalo dei petroli, bocciato vent’anni fa a stragrande maggioranza da un referendum popolare e poi riesumato dalla partitocrazia sotto forma di rimborsi elettorali, il finanziamento pubblico non è stato ancora abolito con questo decreto legge. Al più, si potrebbe dire semmai che sarà abolito fra tre anni, nel 2017.
Ma, purtroppo, non è soltanto una questione di tempi verbali. L’inganno mediatico sui soldi ai partiti è un’operazione più sofisticata di disinformazione governativa. Nella sostanza, rischia di diventare una nuova beffa ai danni dei cittadini, elettori e contribuenti.Un caso di scuola, per chi si occupa di comunicazione politica; una “truffa”, per il sito economico lavoce.info.
In realtà, sarebbe più corretto dire che cambia il sistema, ma il finanziamento resta e costerà dai 30 ai 60 milioni di euro. Un meccanismo in base a cui i contribuenti possono alimentare fondi da destinare ai partiti attraverso il 2 per mille dell’imposta sul reddito, non può che essere considerato “pubblico” a tutti gli effetti. Tant’è che si prevede anche la possibilità di finanziamenti privati, con una detrazione che sale dal 26 al 37%, scaricando così ulteriori oneri sullo Stato.
Nel concreto, il contribuente avrà tre alternative: destinare il 2 per mille a un partito politico; affidarlo allo Stato o non assegnarlo. Nel caso in cui la scelta non sia stata espressa, il 2 per mille confluirà appunto in un fondo che verrà suddiviso fra i partiti in base ai voti rispettivamente ottenuti. Ma, com’è noto, in questi casi la maggior parte dei contribuenti non indica una destinazione e così “i pochi che scelgono, di fatto scelgono anche per tutti gli altri”.
È falsa pure l’affermazione secondo la quale l’attuale sistema di finanziamento pubblico scomparirà gradualmente nei prossimi tre anni, per cessare nel 2017. In effetti, mentre partirà dal 2014 una riduzione progressiva dei contributi ai partiti (-25% il primo anno, -50% il secondo e -70% il terzo), verrà istituito parallelamente il fondo previsto dal decreto legge a copertura del 2 per mille: la spesa autorizzata è di 7,75 milioni di euro per il 2014, di 9,6 per il 2015 e di 27,7 per il 2016. Poi, dal 2017, si arriverà a un massimo di 45,1 milioni all’anno.
Può anche darsi che alla fine i finanziamenti si riducano rispetto a quelli attuali. Ma, alla luce degli abusi e degli scandali avvenuti in passato, già questo sarà eventualmente un buon risultato.
Quando Renzi sfida Grillo a votare le riforme, in cambio della rinuncia immediata del Pd ai contributi pubblici, commette perciò un doppio errore. Da una parte, propone una sorta di “voto di scambio” inaccettabile. Dall’altra, ammette implicitamente che il finanziamento può essere abolito anche subito, senza attendere il 2017. Ma è dal referendum del ’93 che gli italiani stanno aspettando.

Corriere 21.12.13
Renzi e le alleanze variabili
Doppio gioco del leader di Fi sui tempi per andare al voto
di Francesco Verderami

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Repubblica 21.12.13
Riforma elettorale. Offerta di Renzi alla destra
Pronto un Mattarellum corretto per convincere Forza Italia e Ncd trattativa sull’offerta di Renzi
Premio a chi vince 200 collegi, resta la proporzionale
di Francesco Bei


L’IRCOCERVO non ha ancora un nome. E tuttavia inizia a prendere forma nelle conversazioni riservate tra esponenti del Partito democratico e di Forza Italia sulla legge elettorale. È un modellodel tutto nuovo.
È UN ibrido che prende la struttura del vecchio Mattarellum e ci innesta sopra un doppio turno (eventuale) di coalizione. Il composto alchemico è l’ultimo prodotto della fucina renziana e, secondo chi lo ha potuto leggere, sarebbe «l’uovo di Colombo». Berlusconi vuole il Mattarellum? Il Pd vuole il doppio turno? Che problema c’è, basta mischiarli insieme ed ecco il risultato. Anche i partiti minori, come Ncd, non verrebbe soffocati in culla grazie al fatto che la quota proporzionale rimarrebbe intatta.
La proposta parte infatti dal mantenimento delle vecchie quote del Mattarellum: 75% di maggioritario e 25% di proporzionale. Alla Camera significa 475 seggi maggioritari e 155 seggi proporzionali. Dalla quota maggioritaria sarebbe ritagliato un tesoretto di 75 seggi, un «premio di governabilità» da assegnare a quel partito che abbia superato una certa soglia. L’idea è fissare l’asticella a un’altezza congrua, non semplice da raggiungere: 200 seggi. Chi li dovesse conquistare con i propri voti, collegio per collegio, vincerebbe anche il premio di governabilità di ulteriori 75 seggi (pari a quasi il 12 per cento dell’assemblea). A questi 275 andrebbero poi aggiunti i seggi ottenuti dal partito nella quota proporzionale perarrivare — auspicabilmente — alla maggioranza assoluta di 315 deputati. E se nessuno dovesse superare l’asticella dei 200 collegi vinti? Allora e solo allora scatterebbe un ballottaggio tra le prime due coalizioni per aggiudicarsi il premietto di 75 seggi. Questo è lo schema su cui si sta ragionando. Un cocktail di elementi diversi messo a punto, pare, dal renziano Matteo Richetti. «È fattibile», sentenzia Lorenzo Cesa, il segretario dell’Udc che nella scorsa legislatura trattò con Verdini e Migliavacca una nuova legge elettorale. Per Paolo Gentiloni, renziano doc, il doppio turno sarebbe quasi inevitabile «visto che la presenza di Grillo come terzo incomodo nei collegi renderà difficile che qualcuno arrivi alla soglia dei 200 seggi». E così sarebbe accontentata anche l’ala sinistra del Pd, che continua a reclamare il doppio turno. Come ha ricordato ieri l’ex segretario Pierluigi Bersani: «In questa situazione solo il doppio turno ti può garantire la governabilità. Le altre soluzioni, compreso il Mattarellum, non lo garantiscono». Peraltro, ha aggiunto, «Berlusconi vuole il turno unico perché è il modo per tenere ancora tutti sotto di lui, per riuscire a fare ancora un’ammucchiata di cui lui è il capo. Con il doppio turno si dà un po’ più di spazio di manovra anche ad Alfano. E non mi pare il caso di fare regali a Berlusconi».
Il caso Alfano, al di là dei toni ruvidi con cui Renzi ha strapazzato in pubblico il leader Ncd, è stato a lungo discusso nella segreteria Pd. Maria Elena Boschi, addetta alle riforme, ha già incontrato informalmente diversi esponenti del nuovo centrodestra. Del resto Napolitano, nell’incontro di due giorni fa al Colle, avrebbe chiesto alla Boschi proprio questo, di partire da una prima consultazione interna alla maggioranza. «Ci sono alcuni gruppi che sostengono il governo — ha insistito ieri il ministro dell’Interno — quindi la nostra ipotesi è: intendiamoci su unabase comune nelle maggioranza e poi parliamo con gli altri, anche con Forza Italia».
Il ministro Graziano Del Rio e lo stesso Richetti tengono aperto il dialogo con gli alfaniani. Da queste conversazioni è emerso un paletto insormontabile: «Alfano — spiega uno dei renziani — ci ha chiesto di non arrivare all’approvazione definitiva della riforma fino ad aprile, in modo da avere la garanzia che non si voti a maggio ma si arrivi al 2015. Su tutto il resto, persino sul Mattarellum, è disposto a discutere». Per venire incontro al Ncd, l’approvazione della riforma al-la Camera avverrà nei tempi stabiliti — la prima settimana di febbraio — come annunciato da Renzi. Mentre il passaggio del Senato sarà più al rallentatore, proprio per evitare fughe verso le elezioni anticipate.
L’idea di arrivare a un Mattarellum-bis, che prevede un eventuale doppio turno ma lascia inalterate le quote del 75-25 per cento, è dovuta anche a un’altra preoccupazione circolata nell’inner circle renziano. L’incubo di dover ridisegnare tutti i collegi d’Italia. «Se si tocca il 75% bisogna aggiornare la mappa — osserva il renziano Ernesto Carbone — e allora campa cavallo, ci potrebbe volere anche un anno di tempo!». Senza contare che sarebbe il Viminale a dover ridisegnare i collegi. Proprio il ministero in mano all’uomo che ha meno fretta di andare a votare. A questo punto l’unico ostacolo al Mattarellum-bis potrebbe essere Denis Verdini — a cui il Cavaliere ha delegato la trattativa — che è da sempre favorevole al sistema spagnolo (proporzionale con collegi piccoli e liste bloccate). «Ma Verdini — riflette Paolo Gentiloni — dice spagnolo per trattare meglio sul Mattarellum».

Corriere 21.12.13
Le «larghe intese» ora sembrano due e assediano il governo
di Massimo Franco


L a fretta con la quale Forza Italia chiede a Matteo Renzi di chiudere la trattativa sulla riforma elettorale fa sorgere qualche sospetto. Non si capisce se il maggior partito d’opposizione voglia un’intesa per riempire il vuoto legislativo creato dalla sentenza della Corte costituzionale; o perché punta a elezioni anticipate a maggio del prossimo anno. In modo un po’ provocatorio, il capogruppo berlusconiano alla Camera, Renato Brunetta, accredita una consuetudine quotidiana con l’emissario renziano, Dario Nardella. E assicura che il leader del Pd sarebbe d’accordo con Berlusconi per andare alle urne per la data del 25 maggio, abbinando politiche ed europee. È una strategia tesa a far saltare i nervi al centrosinistra, mettendo in tensione sia il premier Enrico Letta, sia il suo principale alleato, Angelino Alfano: sebbene non si capisca quanto davvero Berlusconi punti davvero sulle urne.
La pressione viene esercitata raffigurando il Pd di Renzi e FI come i partiti che hanno dietro di sé «il popolo», e dunque il diritto di chiedere lo scioglimento di Camere ormai delegittimate dalla Consulta; mentre davanti ci sarebbero solo istituzioni chiuse nei loro giochi parlamentari. Insomma, si stanno delineando non una maggioranza e un’opposizione, ma due coalizioni parallele di «larghe intese». C’è quella governativa, formata dal presidente del Consiglio, da Alfano e il Nuovo centrodestra e da Scelta civica e Udc. E c’è quella fredda o ostile nei confronti dell’esecutivo, che ha nel nuovo vertice del Pd e in Fi i due interlocutori principali. Tanto che tra i Democratici c’è chi comincia a chiedere a Renzi perché abbia cominciato a trattare sul sistema di voto con i berlusconiani e non con gli alleati di Letta.
«Il problema è dove si finisce», avverte Alfano. «Il nostro obiettivo è stabilizzare il governo, non destabilizzare. Prima dobbiamo intenderci all’interno della maggioranza, poi si parla con tutti». L’asse fiorentino tra Renzi e Denis Verdini, plenipotenziario di Berlusconi su questo tema, getta invece un’ombra sul «patto per il 2014» che il leader della sinistra vuole formalizzare con Palazzo Chigi. Il tentativo di Fi è di convincere il neosegretario del Pd che, se non rompe in fretta, rischia di perdere la spinta propulsiva iniziale e l’occasione di diventare premier. La condizione per il «placet» berlusconiano alla riforma elettorale sarebbe, dunque, la crisi del governo. Una fine della legislatura di qui a pochi mesi schiaccerebbe infatti il Nuovo centrodestra sul Cavaliere, azzerando i margini di crescita del gruppo di Alfano. La scelta finale toccherebbe al vertice del Pd, però, costretto ad abbattere un governo guidato da un suo uomo.
Per questo, l’atteggiamento di Berlusconi appare tattico: quello che gli interessa è logorare il fronte avversario. Per il resto, ritiene di poter reggere all’opposizione per un altro anno: quello che gli serve per tentare di ridisegnare l’intero centrodestra e soprattutto per rifare il proprio partito. L’insistenza degli uomini del Cavaliere su un asse con Renzi promette dunque di alimentare i sospetti e i malumori nel Pd; e di danneggiare politicamente il segretario, oltre che Enrico Letta. Evoca infatti un’alleanza extraparlamentare proprio con quell’avversario storico della sinistra che il partito non ha mai digerito come parte dello stesso governo: neppure in nome dell’emergenza economica e istituzionale. Il paradosso sarebbe che, proprio nel momento in cui il Pdl si è spaccato e Berlusconi è passato all’opposizione, la sponda del Pd per la riforma elettorale torna a essere lui.
Renzi, tuttavia, ha buon gioco quando chiede più dinamismo al governo e critica la politica di solo rigore dell’Ue. Letta ieri da Bruxelles ha spiegato che se facesse «il Babbo Natale che cede a ogni richiesta», manderebbe «l’Italia in bancarotta. Tutti chiedono, ma la somma del tutti chiedono» sarebbe il disastro dei conti pubblici. Eppure, più l’Europa si mostra in affanno, più diventa difficile fare accettare all’opinione pubblica alcuni provvedimenti solo perché altrimenti Bruxelles bacchetta l’Italia e i mercati la puniscono. Per quanto possa essere vero, non basta più. Di qui a fine gennaio, dunque, bisognerà capire se e quanto il dinamismo aggressivo di Renzi si amalgamerà con la prudenza «da buon padre di famiglia» rivendicata da Letta. Il premier è convinto che lavoreranno bene insieme. Per farlo, però, sicuramente dovranno sacrificarsi molto entrambi.

Corriere 21.12.13
L’economista del Pd «bocciato» in Ateneo: «Sì, è imbarazzante»
Niente abilitazione a docente per Taddei
intervista di Fabrizio Roncone

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l'imprenditore renziano: «Io non sono l’eminenza grigia di Matteo»
«Ci vuole un organo di partito. L’Unità ormai vende meno della Gazzetta di Alba. La puoi trasformare in settimanale o mensile e inviarla agli abbonati, che poi sono gli iscritti»
«Il sindacato Cgil e l’articolo 18 sono un ostacolo, hanno protetto i loro interessi e basta»
il Fatto 21.12.13
Oscar Farinetti Il “ministro” di Eataly
“L’art. 18? Basta garanzie a chi non vuole lavorare”
di Carlo Tecce


Eataly e Italia, secondo Natale detto Oscar Farinetti: “Io guardo il bello, voi il brutto. Io fatico e costruisco, voi denunciate e distruggete. Questa è la differenza”.
Otto euro lordi per un’ora di lavoro, ci colpiva.
Se mi vuole giudicare, la finiamo qua. Se mi vuole far passare per un idiota, la querelo. Mi lasci parlare. Ci ha dipinto come banditi e sfruttatori.
Otto euro sono giusti o no?
Giusti! Non mi sembrano pochi, il costo aziendale è pazzesco! Quanto vi pagano per un articolo? Ma sono infuriato perché a Eataly non si guadagna meno di 1.000 euro per 40 ore settimanali e le domeniche.
I ragazzi dicevano: “I festivi non ti fanno svoltare il mese”.
Noi non chiudiamo mai, siamo accoglienti per la clientela e i dipendenti. I nostri ragazzi possono mangiare gratis. Ci costa un milione di euro e diamo pure la quindicesima. Siamo rivoluzionari: esportiamo il marchio italiano nel mondo, dove ci rispettano e dove non ci trattano così.
La stampa italiana vi è ostile?
Ci hanno celebrato, correttamente. Ma voi sbagliate i calcoli. Qualcuno può avere uno stipendio di 800 euro o 500 se fa poche ore, tre o quattro al giorno, però a pieno regime nessuno va sotto i mille netti, circa.
E i contratti mensili?
Entro due anni assumiamo tutti. Abbiamo dato un’occupazione a 3000 persone. Io non voglio creare un’azienda, fallire e mettere la gente in cassa integrazione. Non ci prendiamo dividendi, investiamo i nostri soldi e lo Stato non ci dà nulla. E voi, che buttate fango, ci fate passare per banditi.
Un giorno, disse: “Grazie a Eataly, i ragazzi possono mettere su famiglia”. Possono, con mille euro?
No, certo che no. Devono fare dei sacrifici. Se una coppia incassa duemila, però, ce la può fare. Se lo Stato ci toglie un po’ di tasse e rende sexy assumere, allora possiamo anche aumentare gli stipendi.
Quando staccano l’ultimo turno di mezzanotte, le commesse vengono perquisite. Perché?
Ha centrato un punto, devo ammettere.
Cioè?
Mi ha fatto riflettere per un’intera giornata. Lo facciamo a Roma perché gli spogliatoi sono vicini ai magazzini.
Anche a Bari accade.
Sì. Il problema è il senso civico: manca. E pure l’esempio, la politica che esempio mostra? Controllare le borsette è da barbari, ma rubare non è più barbaro? Non mi dica il contrario.
Perché lo fate?
Non possiamo correre questi rischi, sappiamo che sono concreti. Li abbiamo beccati, ma non voglio rendere pubbliche queste cose.
Perché succede?
Hanno un reddito basso. E chi ha un reddito basso e non ha coscienza civica è spinto a rubare. I giapponesi e gli americani non rubano. Ma io ci rifletto, davvero.
Vuole rimediare?
Sì, potremmo fare dei controlli a campione e poi arrivare a zero. Non siamo criminali, non siamo come dite voi. La carne, conosce il settore?
No. Mi spieghi.
La carne la prendiamo direttamente dal contadino, e lo paghiamo bene, tanto. Le mozzarelle, come si chiama?
Cosa?
Un produttore di Caserta fa ottime mozzarelle. Ha pure fatto i nomi dei camorristi che lo minacciavano. La sua mozzarella è più buona, due volte. Facciamo i corsi per i ragazzi e gli anziani: gratis! Questo è servizio pubblico. Le sapete queste cose? Gli imprenditori italiani scappano, noi il denaro lo facciamo girare. E lo Stato non fa nulla.
Matteo Renzi vuole rivedere l’articolo 18, d’accordo?
Certo, ci mancherebbe. Ma toccare un argomento così delicato, per come funziona l’Italia, ti costringe a parlare e parlare per sei mesi. Una roba che stanca: inutile. La questione è il lavoro garantito.
Si chiamano tutele.
Non mi comprende. Voglio dire che il lavoro garantito per chi non ha voglia di lavorare è un delitto perché i ragazzi che vogliono, e non possono, restano a casa.
Il sindacato Cgil e l’articolo 18 sono un ostacolo?
Sono un impedimento, di sicuro. E non voglio criticare la Cgil, o la Cisl o la Uil. Ma voglio dire chiaro, e mi ascolti, che le corporazioni hanno protetto i loro interessi e basta. Compresi Confindustria, artigiani, commercianti, associazioni varie. Gli italiani non si fidano più. Io non ci andrei in piazza, non mi faccia questa domanda cretina. Però li capisco. La gente si organizza da sola. Ha notato che non ci sono più bandiere di partito o di sindacati?
Farinetti è di sinistra?
Un compagno, da sempre. Figlio di un partigiano.
Renzi vuole rinunciare al finanziamento pubblico ai partiti, Eataly è pronta a sostenere il Pd?
Sì, per quel che possiamo perché noi dobbiamo investire. Ma il vecchio modello va rivisto. Il Pd deve essere un club.
Sarebbe?
Non servono i militanti che danno 10 o 20 euro ogni anno. Ci vogliono poche centinaia di migliaia di iscritti che pagano 100 o 200 o anche 300 euro e in cambio ricevono dei servizi.
Tipo?
Ci vuole un organo di partito. L’Unità ormai vende meno della Gazzetta di Alba. La puoi trasformare in settimanale o mensile e inviarla agli abbonati, che poi sono gli iscritti.
Come valuta Enrico Letta?
Bene, fa quel che può. Letta, Renzi, l’intellettuale Cuperlo e lo smart Civati possono guidare il paese.
Renzi a Palazzo Chigi?
Accadrà. Ha le qualità e l’onestà. Ma deve agire con questo gruppo. Una precisazione: io non sono l’eminenza grigia di Matteo. A volte non ci sentiamo per un mese.
La prima riforma di Farinetti?
L’Italia non ha tempo. Deve ridurre la spesa, eliminare studi e ricerche inutili, anche l’esercito, e incentivare il lavoro. Io dico che lo Stato, l’informazione, la magistratura, la tassazione e pure Equitalia non agevolano gli imprenditori.
Grazie, arrivederci.
Aspetti. Lo scriva, mi raccomando.
Cosa?
Non fate un titolo del cazzo a questa intervista.

L’INCHIESTA Sul Fatto di giovedì l’inchiesta sulle condizioni di lavoro dei precari di Eataly

La Stampa 21.12.13
Renzi, le due anime del Pd e il mistero dell’articolo 18
Cofferati: «Quella norma ormai non esiste più, sarebbe surreale volerla togliere»
di Federico Geremicca


Marianna Madia, che pure è la responsabile Pd per il lavoro, allarga le braccia sconsolata.
«Guardi, abbiamo fatto una riunione di segreteria ancora giovedì, l’altro ieri, proprio su questo: il piano-lavoro, che Renzi vorrebbe pronto entro un mese. E naturalmente di tutto abbiamo discusso meno che dell’abolizione dell’articolo 18. Ancora mi chiedo, anzi, chi ha messo in giro la notizia che noi si starebbe ragionando su questo: probabilmente, qualcuno che vuol mandare tutto a gambe all’aria». Ora, dunque, la questione sarebbe addirittura il chi: cioè, chi è che nel Pd ha parlato dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? «Non Renzi spiega Marianna Madia che probabilmente non sarebbe contrario, ma ha chiaro che non è questo il tempo per una simile discussione, e infatti l’ha ripetuto anche alla presentazione del libro di Vespa». E se non Renzi, chi allora? Gutgeld, forse, solitamente definito consigliere economico del neosegretario Pd? «Magari ne ha scritto dice la Madia -. Ma naturalmente una cosa è quello che scrive Gutgeld e altra quello che decidiamo noi».
Ma tant’è: è bastato perché Stefano Fassina viceministro all’Economia prendesse il bastone e randellasse: il piano lavoro di Renzi «è inutile, se non dannoso», ed è «deprimente il ritorno dell’ossessione sull’articolo 18 e sulle regole, dopo i conclamati fallimenti della ricetta neoliberista». Che Matteo Renzi lo abbia detto oppure lo abbia soltanto pensato, non è
granché importante in questo caso: perché - al di là della polemica a “uso interno” quel che riemerge in queste ore con disarmante nettezza è uno dei tabù (forse il più solido e attuale) che da anni divide la sinistra italiana.
Non l’unico, naturalmente. Qualcuno, per esempio, ricorda le spaccature orizzontali all’interno del centrosinistra ad ogni voto parlamentare per il rifinanziamento delle missioni militari all’estero? E le polemiche durissime in materia di bioetica o fine vita? Per non dire anche questa questione ancora parzialmente irrisolta dei duelli rusticani in materia di unioni civili, adozioni e matrimoni gay. Ogni volta che la cronaca rende necessario affrontare queste e alcune altre questioni, il solo parlarne spacca il centrosinistra e il Pd quasi precisamente a metà. Come sta puntualmente accadendo in questi giorni di fine anno in materia di abolizione dell’articolo 18: faccenda che, come detto, nessuno né Renzi né membri della sua segretaria ha per ora più o meno ufficialmente posto.
«E sarebbe anche singolare che qualcuno la ponesse annota da Strasburgo Sergio Cofferati, che della difesa dei diritti in senso lato ha fatto per anni una bandiera -. Parlare di come licenziare mentre le aziende non assumono a causa della crisi, è un esercizio di ottimismo o di cinismo, non saprei dire. Senza contare che, in larga misura, l’articolo 18 già non esiste più: visto che la riforma Fornero in matelare che qualcuno la ponesse annota da Strasburgo Sergio Cofferati, che della difesa dei diritti in senso lato ha fatto per anni una bandiera -. Parlare di come licenziare mentre le aziende non assumono a causa della crisi, è un esercizio di ottimismo o di cinismo, non saprei dire. Senza contare che, in larga misura, l’articolo 18 già non esiste più: visto che la riforma Fornero in materia di mercato del lavorolo ha di fatto surrogato, lasciando alle aziende grandi e piccole la possibilità di licenziare per ragioni economiche. E infatti reintegri per giusta causa non se ne vedono più...».
Questo naturalmente non vuol dire che la questione non sia più sul tavolo e che di articolo 18 non si tornerà a parlare (e probabilmente anche non troppo in là nel tempo) Ma il problema, per il Pd, è appunto riuscire almeno a parlarne, evitando che attorno a questo totem (è Matteo Renzi ad averlo definito così) si ricreino schieramenti automatici che piuttosto che guardare alla sostanza del problema guardino ad altro: all’utilità elettorale, alla convenienza di parte, al “ricavo politico” che se ne potrebbe avere alla luce degli equilibri interni.
«Noi non partiremo certo da lì ripete Marianna Madia perché partire da lì vuol dire fermarsi subito». Partire no, va bene. Ma c’è chi spera e il numero di chi lo spera cresce che almeno ci si arrivi. A crisi superata, naturalmente. Perché discutere di come licenziare oggi, a molti appare vagamente surreale...

Corriere 21.12.13
Renzi e la lezione sul lavoro
di Maurizio Ferrera


Il cosiddetto Job Act sarà un importante banco di prova per Matteo Renzi. Si tratterà del primo esercizio programmatico concreto, dal quale potremo farci un’idea più precisa del «riformismo» renziano sia nei metodi sia nei contenuti. Data la drammatica situazione economica, il tema dell’occupazione era quasi obbligato. Ma fare proposte ambiziose, originali e insieme dotate di un certo grado di praticabilità politica non sarà certo facile. Avendo scelto di usare un’espressione inglese, Renzi farebbe bene a tener ben presente proprio l’esperienza anglosassone. Gli Stati Uniti di Obama e il governo Cameron offrono infatti due modelli quasi speculari di come affrontare la sfida dell’occupazione dal punto di vista politico-strategico.
Nel settembre 2011, Obama annunciò con la grancassa un piano molto ambizioso (chiamato, appunto, American Jobs Act : attenzione al plurale) per creare milioni di nuovi posti di lavoro. I piatti forti del pacchetto erano la riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione, crediti d’imposta per le nuove assunzioni, riduzione dei contributi sociali, un programma di investimenti straordinari in infrastrutture, incentivi per le piccole imprese. Il provvedimento sarebbe costato circa 450 miliardi di dollari: una cifra molto elevata, ma grazie alla quale, secondo il presidente, «milioni di americani sarebbero tornati al lavoro e sarebbero arrivati più soldi nelle tasche di tutti i lavoratori». Proprio per i suoi costi e per le sue eccessive ambizioni il progetto si impantanò immediatamente all’interno del Congresso e alla fine Obama si è dovuto accontentare di poco: qualche incentivo fiscale per i nuovi assunti e un nuovo schema per finanziare le piccole imprese. Il Regno Unito ha seguito un metodo diverso per affrontare il tema lavoro: non un «Masterplan» onnicomprensivo e radicale, ma una serie di Employment Reviews (revisioni delle politiche per l’impiego), volte a realizzare concretamente tre obiettivi strategici fissati da un conciso documento ad inizio legislatura: flessibilità, efficienza, equità. In questo modo sono state però introdotte varie misure innovative. Muovendosi in largo anticipo rispetto alle raccomandazioni Ue, lo Youth Contract («contratto giovani») ha ad esempio offerto in due anni 500 mila opportunità di lavoro o formazione a giovani fra i 18 e i 24 anni, mentre il Workprogramme («Programma lavoro»), introdotto nel 2011, ha aiutato oltre 200 mila disoccupati di lungo corso a ritrovare lavoro. Sul piano della strategia politica, la differenza fra il modello americano e quello inglese è chiarissima. Obama voleva far colpo con un progetto «di rottura», in vista della campagna per la rielezione che avrebbe preso avvio all’inizio del 2012. Il Congresso ha bocciato gran parte del Jobs Act , ma Obama ha vinto le elezioni, anche grazie ai suoi annunci sul fronte del lavoro. Forte del successo elettorale e del patto di coalizione, il governo Cameron-Clegg ha scelto un approccio meno roboante, ma più efficace in termini di risultati, ponendosi in un orizzonte di legislatura. Le revisioni annuali sono un importante momento di confronto politico sulle riforme fatte e su quelle annunciate, ma nessun leader si presenta come taumaturgo. Che formula adotterà Renzi per sottoporsi al giudizio degli elettori? La tentazione di far colpo con proposte di rottura e provocazione sarà forte: il neosegretario è in cerca di visibilità e popolarità, nel prossimo anno ci sarà almeno una conta elettorale (rinnovo del Parlamento europeo) e la disoccupazione è una delle prime preoccupazioni delle famiglie italiane. In questo momento al nostro Paese sarebbe tuttavia più utile una strategia all’inglese. Facciamo bene il punto sulla riforma Fornero, realizziamo al meglio la garanzia-giovani, attuiamo pienamente l’Aspi, interroghiamoci su come promuovere nuove attività economiche ad alta intensità di lavoro. E definiamo su questa base un’agenda di cambiamenti pragmatici e realistici. Invece di un «Act» alla Obama, Renzi elabori insieme alla sua squadra un più modesto, ma molto concreto policy paper in stile inglese. Con un orizzonte temporale disteso e credibile, confermando così il suo impegno non solo per le riforme, ma anche per la governabilità.

La Stampa 21.12.13
“L’articolo 18? Dibattito inutile. L’abbiamo modificato noi”
di Elsa Fornero


Caro Direttore,
la discussione di questi giorni intorno all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha qualcosa di surreale, in quanto condotta in termini totalmente scollegati dalla realtà e, come troppo spesso capita nel nostro Paese, intrisi di contenuto ideologico.
Vorrei ricordare che il vecchio articolo 18, piaccia o no, è stato profondamente modificato con la legge di riforma del mercato del lavoro 92/2012. Si vuole sostenere che i cambiamenti sono stati irrilevanti, inefficaci o, peggio, sbagliati? Lo si dica, ma non si faccia finta di parlare dell’articolo 18 prescindendo dalle modifiche introdotte, che qualche parte politica definì addirittura un «massacro», al punto da proporre un referendum per abolirle. Né si deve dimenticare quanto «sofferte» siano state quelle modifiche, quale linciaggio esse comportarono per il ministro allora in carica. Al di là degli aspetti personali, comunque non rilevanti nel dibattito, trascurare ciò che è stato in ogni caso acquisito avalla l’idea che in Italia si preferisca discutere dei problemi per dividersi, piuttosto che per cercare di risolverli.
Forse è il caso di ricordare succintamente come l’articolo 18 è stato modificato. Anzitutto, la reintegrazione del lavoratore – il nucleo centrale dell’articolo – è stata modificata, non eliminata, perché ciò avrebbe di fatto aperto la strada a licenziamenti discriminatori, inaccettabili in un Paese civile. E’ stata però aperta un’altra strada, quella del risarcimento economico in caso di licenziamento ingiustificato. La scelta – che rappresentò un difficile equilibrio tra posizioni e interessi fortemente contrapposti – dello «spacchettamento» delle tutele e del regime sanzionatorio del licenziamento ingiustificato non soltanto era l’unica soluzione possibile in quel contesto politico, ma rappresenta un equilibrio basato sul buon senso e sul corretto comportamento delle parti.
Se un’impresa ha un fondato motivo economico o disciplinare per licenziare un lavoratore, non deve essere costretta da un giudice a riassumerlo, ma il lavoratore deve essere congruamente indennizzato. E’ invece corretto che il lavoratore sia reintegrato e non soltanto indennizzato se il motivo economico o quello disciplinare sono manifestamente infondati. Molti hanno criticato la norma perché lascerebbe ancora eccessiva discrezionalità al giudice, quasi che questi non sia, per definizione, imparziale. La presunta parzialità dei giudici non può, ovviamente, rappresentare il presupposto per scrivere una legge. Senza contare che la legge prevede una procedura di conciliazione obbligatoria che dovrebbe sanare, senza ricorso al giudice, almeno tutti i casi in cui le parti agiscono in buona fede.
Funziona questa nuova regolazione? La risposta non può venire da giudizi aprioristici, come sembrano essere quelli di coloro i quali, pur avendola approvata un anno fa, la criticano oggi senza adeguata conoscenza dei dati di fatto. E’ invece necessario ricorrere a un’analisi spassionata e obiettiva di questi dati. Da ministro avevo istituito una commissione per il monitoraggio e la valutazione dei vari aspetti della riforma, incluso, appunto, il nuovo articolo 18. Non mi risulta che siano stati ancora resi noti i risultati di questa analisi empirica. Quante procedure di conciliazione ci sono state? Quante cause sono arrivate ai tribunali? Come si sono pronunciati e si stanno pronunciano i tribunali stessi? Le risposte a questi e ad altri interrogativi non sono ancora note. Eppure è proprio da qui che, in un approccio costruttivo, occorre partire per decidere eventuali modifiche alla legge.

il Fatto 21.12.13
Pd, ad Asti sezioni “congelate”
Dopo le accuse di truppe cammellate di albanesi e islamici, il voto è rimandato
di Andrea Giambartolomei


Boom di iscrizioni, tessere sottratte da un onorevole e “truppe cammellate” con masse di cittadini stranieri iscritti all’ultimo momento. Ad Asti dopo i veleni il Partito democratico ha raggiunto un accordo per eleggere il segretario provinciale, mentre è stato rinviato di nuovo il voto di quattro sezioni, “congelate” dopo gli scandali del 6 novembre. Giovedì sera i due candidati, il renziano Giorgio Ferrero e la cuperliana Francesca Ferraris, hanno siglato un accordo: “Alla luce dei risultati dell’8 dicembre”, quelli delle primarie che hanno incoronato Matteo Renzi segretario del Pd, il nuovo segretario provinciale sarà Ferrero, mentre la sfidante sarà la presidente dell’assemblea provinciale. I dissidi restano e lo dimostrano i rinvii del voto nelle sezioni contestate: la commissione regionale ha deciso che si sarebbe dovuto votare giovedì, poi è stato stabilito di votare oggi, ma alla fine ha rinviato alla prossima settimana. Perché tante ‘cautele’? Perché i cuperliani, guidati dal deputato Massimo Fiorio, hanno accusato i concorrenti (capeggiati dal sindaco di Asti Fabrizio Brignolo e dalla consigliera regionale Angela Motta) di aver sfruttato i voti di centinaia di cittadini albanesi, diventati la maggior parte dei nuovi iscritti.
I RENZIANI però hanno presentato alla direzione nazionale e regionale un dossier con prove e testimonianze per “liberare il Partito dalla cappa di malcostume che ha ridotto il dibattito politico a violenza e minaccia verbale”. Partono dalle primarie e dalle parlamentarie del 2012 al seggio di Asti est dove “il risultato venne falsato dall’accesso ai seggi di due gruppi organizzati”. Uno guidato dal capo di un’associazione islamica “che ha personalmente accompagnato al seggio circacento persone”, l’altro coordinato da tre capibastone, attivi pure nel 2013: Vincenzo Sangiovanni, ex consigliere comunale di Forza Italia, pregiudicato per rapina e porto d’armi; Antonio Casaburi, un ex rappresentante sindacale di una fabbrica del quartiere; e Antonietta Scazzeri, imputata al Tribunale di Asti per aver truffato quattro marocchini irregolari con la promessa di un impiego. Secondo i denuncianti sarebbe stato Fiorio a reclutare i due gruppi. Nel documento ci sono pure le testimonianze di persone che hanno ricevuto promesse di lavoro o aiuti, ma anche quella di un’impiegata del Pd che ha raccontato come il deputato Fiorio si sarebbe appropriato di 200 moduli delle tessere, riconsegnandone alcune solo dopo le proteste di Brignolo, che voleva denunciare il fatto alla Digos e alla procura, ma è stato fermato dal segretario regionale Gianfranco Morgando, che ha spinto verso l’accordo di giovedì sera.

La Stampa 21.12.13
Metodo Stamina. “Vi spiego il grande inganno”
La genetista (e senatrice a vita) Elena Cattaneo dialoga con l’astrofisico Giovanni Bignami
E gli confessa la sua preoccupazione: “Gesti estremi, quasi eversivi, dietro il grande inganno”
di Giovanni Bignami

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La Stampa 21.12.13
Associazione Coscioni: «Ora intervenga il Parlamento»

«Bandire le infusioni» con il metodo Stamina ideato dal presidente di Stamina Foundation, Davide Vannoni, «da tutto il territorio nazionale». Lo chiede Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni per la liberta di ricerca scientifica. «La storia Stamina afferma Gallo in una nota sta acquisendo sempre più contorni preoccupanti». Ciò che «conta è che a breve il Parlamento blocchi le infusioni di Stamina sul nostro territorio e chiuda le porta a qualsiasi forma di dialogo per una eventuale sperimentazione con la Stamina Foundation».

Arrestato il killer uscito in permesso per buona condotta
Corriere 21.12.13
L’accusa di Vittorino Andreoli
“Questi permessi servono solo a svuotare le prigioni strapiene”
Lo psichiatra: “Le perizie oggi sono superficiali”
La critica a Basaglia: La legge Basaglia dimentica che in alcune patologiepsichiatriche uno dei sintomi principali è proprio la pericolosità
Gli istituti psichiatrici giudiziari:  Oggi i sei che esistono in Italia sono vecchi e inadeguati. Ma se devono chiuderli per non sostituirli con niente, è meglio che non li chiudano
di Michele Brambilla

qui

Corriere 21.12.13
Le alternative al carcere sono giuste non per buonismo ma per i risultati
di Luigi Ferrarella


Nel 1999 a Milano ci furono 9 omicidi nei primi 9 giorni di gennaio: ma gli incendiari aedi del presunto Far West sotto il Duomo dovettero andare a nascondersi a fine dicembre quando l’annata statistica mostrò una diminuzione del numero di delitti. Ora siccome in due giorni si sono concentrate due evasioni da permessi premio, ecco i lucratori di disgrazie speculare di nuovo sull’amnesia della realtà. La quale da un lato vede la sicurezza dei cittadini incontestabilmente incrementata dal fatto che la recidiva di chi è progressivamente ammesso a misure alternative al carcere sia tre volte più bassa di chi torna in libertà dopo aver scontato l’intera pena in carcere; e dall’altro ricorda anche ai finti sordi che negli ultimi 3 anni le evasioni da permessi premio sono state 133 su 66.859. Una percentuale da prefisso telefonico.
Di questo «zero virgola» mantengono il diritto di dolersi le vittime dei reati vecchi o nuovi, non certo gli avvoltoi politici che oggi irridono gli esiti delle valutazioni psicologiche e comportamentali dei detenuti evasi dal permesso, ma che mai risultano aver presentato in Parlamento un qualche emendamento volto a destinare maggiore spesa pubblica (bestemmia!) ad esempio agli organici spaventosamente vuoti di psicologi, educatori, assistenti sociali e agenti penitenziari.
Vale però anche per l’ultimo decreto legge del governo. Alzare a 75 giorni la liberazione anticipata per ogni 6 mesi di pena ha ad esempio senso solo se il beneficio è dato a chi in cella davvero partecipa a un percorso di rieducazione, ma per capirlo occorre appunto una adeguata (per numeri e per qualità) struttura di valutazione nel carcere. Se invece la liberazione anticipata continuerà a essere concessa come oggi in maniera sostanzialmente automatica per il solo fatto che un detenuto non abbia creato problemi, al punto che le informative ai magistrati si limitano ad attestare l’assenza di contestazioni disciplinari al detenuto, allora lo sconto di 75 giorni ogni semestre produrrà solo l’assurda trasformazione di 1 anno teorico di pena in 7 mesi reali. E anche le norme sul maggiore accesso per i tossicodipendenti-piccoli spacciatori alle comunità di recupero, quale pena alternativa, restano carta straccia se, come accade oggi in molte sedi, il budget disponibile per le comunità terapeutiche accreditate lascia scoperti fino al 60% dei posti letto.

il Fatto 21.12.13
Attenti all’icona
Benvenuti al circo dell’antimafia
di Nando dalla Chiesa


E allora facciamolo scoppiare, il bubbone. E parliamo del variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia. La Calabria ci ha offerto di recente due casi inquietanti. Quello del sindaco antimafia di Isola di Capo Rizzuto Carolina Girasole, accusata dai magistrati di rapporti (da definire) con il potente clan degli Arena. E quello di Rosy Canale, scrittrice e attrice teatrale, rappresentante delle “donne di San Luca”, che avrebbe intascato per privatissime finalità fondi pubblici ottenuti per contrastare la cultura mafiosa a San Luca. Ed è appunto da questo secondo caso che vorrei partire.
Rosy Canale è stata infatti di recente ospite del teatro Franco Parenti di Milano, storicamente impegnato contro la mafia, sin da quando (allora si chiamava Pier Lombardo) lo dirigeva Franco Parenti. Vi ha portato uno spettacolo autobiografico musicato da Battiato, che apriva un ciclo di tre serate – ‘ndrangheta, camorra, mafia ma ciascuna delle quali mi era stato richiesto di intervenire. Non la conoscevo. Mi bastavano la serietà del teatro e quel che di lei si diceva. Poiché il movimento antimafia ha ancora una sua serietà, amici calabresi mi avevano tuttavia avvisato all’ultimo momento dei dubbi che avevano sulla persona.
Per questo ho evitato di spendere anche una sola parola su di lei, riservandomi di giudicare sul campo. Non c’è voluto molto. Al dibattito che precedeva lo spettacolo Malaluna ci siamo trovati la sociologa Ombretta Ingrascì, Gianni Barbacetto e io. Sono bastati pochi minuti per guardarci negli occhi con imbarazzo e poi per replicare: i bersagli di Rosy Canale erano solo lo Stato (tutto) e il movimento antimafia (tutto). Quanto allo spettacolo, aveva una sua forza suggestiva (Battiato…) ; ma anche una grande carica equivoca, per chi masticasse qualcosa della materia. Per chi ne masticasse, appunto.
COSÌ IL PUBBLICO milanese (benché non novizio) quella sera si è convinto di trovarsi davanti a un’eroina dell’antimafia. Perché se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa. Pochi giorni dopo la stessa Rosy Canale avrebbe ricevuto il premio Borsellino (non promosso dalla famiglia o da un’istituzione) alla presenza di alte autorità dell’antimafia.
E arrivo al salto di qualità. Che è avvenuto sulla rete. Dove qualche giorno dopo è stato segnalato che l’indagata si era esibita al Parenti con il sottoscritto (solo io…), omettendo il contesto. E siccome qualcuno ha precisato, qualcun altro è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore? È un killer pluriomicida, ex boss di ‘ndrangheta, diventato sette anni fa collaboratore di giustizia, di nome Luigi Bonaventura. Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa, basta rileggersi il Falcone di Cose di Cosa nostra. Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno…). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli.
Una rivelazione decisamente anomala, se solo si riflette sulle date. Il primo spettacolo antimafia di Cavalli è infatti dell’autunno 2008, mentre Bonaventura si pente nel 2007. Ora, fra tante centinaia di “pentiti”, non se ne è mai visto uno, uno solo, che invece di fuggire rigorosamente dai clan che ha tradito, ne riceva poi informazioni confidenziali sui delitti in cantiere. Informazioni anomale su progetti omicidi rocamboleschi (camion che investono, overdose di droga) acquisite in modo altrettanto rocambolesco (vennero in cinque nel 2011 offrendomi denaro per raccontare...) che dovrebbero fare rizzare le antenne proprio come quando si sente parlare Rosy Canale. Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali.
CHE COSA sta succedendo? Qualcosa di ampio e di inquietante. Il movimento antimafia si è infatti per fortuna molto allargato. Vi sono entrate persone generose ma sprovviste di un’accettabile metro di misura, di un alfabeto culturale. Laddove negli anni più duri la formazione antimafia ce la si faceva sul campo (e costava), ora ce la si fa molto spesso nel mondo virtuale e la propria battaglia diventa un “mi piace”. Il successo di Saviano, mentre dava un forte impulso al contrasto della camorra, ha purtroppo incoraggiato anche una mitologia/martirologia della lotta alla mafia che è l’esatto contrario di ciò per cui si sono battuti gli eroi (veri) dell’antimafia, sempre attenti a tenere un bassissimo profilo sui rischi che correvano, a rassicurare i cittadini, a marcare una distanza tra il proprio mondo e quello mafioso, anche quando raccoglievano le confessioni dei pentiti più affidabili. I riflettori che essi invocavano avevano – come oggi per Di Matteo – la funzione di “difendere”, non di “promuovere”. Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta.

il Fatto 21.12.13
Lettera al Presidente
Di Matteo, nemico della mafia e inviso allo Stato
di Angelo Cannattà


Ci sono cose che si sanno ma delle quali non si ha piena consapevolezza. Un esempio: a) Sappiamo che Totò Riina “vuole la morte” di Nino Di Matteo; b) Sappiamo che lo stesso magistrato è sotto procedimento disciplinare al Csm; c) Abbiamo capito (anche) l’indecenza della coesistenza di questi fatti? L’intervista di Travaglio a Di Matteo evidenzia la dimensione umana del magistrato: “Se mi guardo intorno e rifletto, mi dico che non vale la pena sacrificare tanti momenti di libertà miei e delle persone che mi stanno accanto. Poi però prevale la passione per la bellezza del lavoro di magistrato”. La bellezza. È la parola che mi ha colpito di più. Siamo di fronte a un uomo minacciato di morte. Eppure parla della bellezza del suo lavoro. Si può sorvolare su una frase così? Soprattutto: si può non capire (ancora) che un uomo così è sotto procedimento disciplinare al Csm? Il Presidente della Repubblica è contestato da tempo – anche da chi scrive – per molte prese di posizione. Improvvisamente mi è apparso chiaro, tuttavia, che la sua colpa maggiore è diametralmente opposta: il silenzio. Non mi riferisco alla Trattativa Stato-mafia. Penso al silenzio, assordante, sulla tragica situazione vissuta da Di Matteo.
Insomma, non c’è dubbio che Di Matteo debba sottostare alla legge scritta (e al procedimento disciplinare del Csm) ; è altrettanto vero, però, che questo procedimento è vissuto come ingiusto dall’affetto e dal cuore (dal diritto naturale) di milioni di italiani.
Che cosa ha fatto di così grave Di Matteo? Nulla. Mi si “accusa di aver leso le prerogative del capo dello Stato con un’intervista in cui spiegavo le procedure per la distruzione delle telefonate… fra lui e Mancino. È la prima volta che si esercita l’azione disciplinare contro un magistrato per un’intervista”. La prima volta. E la si esercita, pensate un po’, contro chi da vent’anni lotta la mafia, rischia la vita, è al primo posto nelle premurose attenzioni di Toto Riina. Situazione tragica e assurda. Perché il magistrato espone se stesso al pericolo per difendere la legge; e la legge – un certo modo da azzeccagarbugli – lo persegue, delegittimandolo.
Presidente Napolitano – lo dico col massimo rispetto – è sicuro che non possa far nulla per sanare una situazione così anomala? Pensa davvero che tenere “sotto procedimento disciplinare” (per un’intervista), un magistrato che Riina vuole uccidere, dia lustro allo Stato? Ritiene che i fatti qui evidenziati aumentino la fiducia nelle Istituzioni? E sicuro, Signor Presidente, che Lei non debba adesso, subito, senza indugio, far ritirare quell’“atto di incolpazione”? Si può servire lo Stato in mille modi, anche favorendo le non condivisibili larghe intese. Ciò che non è possibile è chiudere gli occhi di fronte all’evidenza: e l’evidenza qui è la “non colpevolezza” di Di Matteo. Quale “colpe” si vogliono trovare, da parte di quali giudici, di quale corte, se – in realtà – l’imputato è innamorato della “bellezza del suo lavoro” nonostante la condanna a morte decretata da Riina. Ci pensi, Presidente. Eviti che il magistrato Di Matteo venga percepito da tutti – con plastica evidenza – come perseguito, contemporaneamente, dalla mafia e dallo Stato.

Repubblica 21.12.13
Il Csm a Palermo snobba Di Matteo, l’ira del pm
Niente incontro col magistrato sotto scorta. “Ma il sostegno della gente conta più di certi silenzi”
di Salvo Palazzolo


PALERMO — Doveva essere il giorno della solidarietà per i magistrati del processo sulla trattativa Stato-mafia minacciati di morte dal boss Totò Riina, per questa ragione una delegazione del Consiglio superiore della magistratura era arrivata al palazzo di giustizia di Palermo. Ma non c’è stata alcuna convocazione per i pubblici ministeri citati a gran voce dal capo di Cosa nostra: i sostituti procuratori Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e il procuratore aggiunto Vittorio Teresi. La delegazione del Csm presieduta dal vice presidente Michele Vietti ha scelto di ascoltare solo i vertici degli uffici giudiziari e poi anche il presidente dell’Ordine degli avvocati. Ma non i pm del processo “trattativa”, che sono rimasti in ufficio tutta la mattina, in attesa di una convocazione che non è mai arrivata. Eppure, quella missione del Csm era proprio per «manifestare la presenza solidale nei confronti dei magistrati oggetto delle gravi intimidazioni», era stato scritto in una delibera dell’organo di autogoverno deigiudici.
«Io e i miei colleghi siamo molto amareggiati — dice Nino Di Matteo — ma non mi sorprendo. Un nostro incontrocon la delegazione non era neppure previsto nella delibera con cui èstata decisa la visita a Palermo».
Vietti cerca di gettare acqua sul fuoco. «Siamo venuti per esprimere solidarietàa tutti i magistrati vittime di intimidazione, noti e meno noti — dice il vicepresidente del Csm — Se Nino Di Matteo fosse stato qui, sarei stato pronto a testimoniargli con un abbraccio la mia vicinanza, ma non lo vedo». Vietti rilancia, con un tono di polemica: «Noi non dobbiamo fare chiacchiere, ma fatti. E cercare di capire se possiamo fare qualcosa per migliorare l’organizzazione del lavoro». Però, poi, alla fine, allarga le braccia: «La cosa non è stata organizzata dal Csm». E si sfiora un’altra polemica. Ma il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato precisa in modo netto: «La lista delle audizioni la decide il Consiglio superiore».
Intanto, l’allarme per le dichiarazioni di Totò Riina in carcere non è ancora cessato. Mercoledì, i pm di Palermo hanno inviato ai colleghi di Caltanissetta un’altra preoccupante esternazione del padrino di Corleone rinchiuso al 41 bis. «Sti giudici sono vigliacchi e vili — ha detto il boss — ecco perché in questi giorni incominciamo da Di Matteo. Perché Di Matteo tutte le cose leimpupalui».
Ieri, in varie parti d’Italia, si sono tenute manifestazioni di solidarietà per i magistrati minacciati da Riina. AdAgrigento, l’arcivescovo Francesco Montenegro si è fatto fotografare con il manifesto “Noi stiamo con Di Matteo”. A Palermo, il sit-in delle Agende Rosse è arrivato davanti al palazzo di giustizia. E Di Matteo è sceso in piazza per ringraziare i 500 palermitani che manifestavano. «Noi cercheremo di continuare a fare il nostro dovere consapevoli che il nostro è un ruolo di servizio — dice il magistrato — Queste manifestazioni spontanee sono importanti anche più di certi silenzi». Silenzi che Salvatore Borsellino, il fratello del giudice Paolo, definisce «agghiaccianti».
Prosegue Di Matteo: «È importante il sostegno che in questi mesi abbiamo ricevuto da gente comune che evidentemente ha solo sete di verità». Prima di ritornare nel suo ufficio bunker, scortato dai carabinieri del Gis, il pm tiene a precisare: «Qualcuno non ha capito proprio niente. Il magistrato politicizzato è un altro tipo di magistrato, non quello che sente il bisogno di venire tra la folla per ringraziare di fronte a queste manifestazioni».

Repubblica 21.12.13
La crisi e la disuguaglianza
di Paul Krugman


Il film di Oliver StoneWall Street, ritratto di plutocrati in ascesa secondo i quali l’avidità è un bene, è uscito nelle sale nel 1987. I politici, però, intimoriti da chi grida alla “lotta di classe”, hanno fatto il possibile per evitare di fare del sempre crescente divario tra i benestanti e il resto della popolazione una questione di primaria importanza.
Le cose, tuttavia, potrebbero cambiare. Possiamo anche parlare del significato della vittoria di Bill de Blasio nella corsa a sindaco di New York o della convalida da parte di Elizabeth Warren dell’espansione di Social Security. E resta ancora da vedere se la dichiarazione del presidente Barack Obama secondo cui la disuguaglianza è «la sfida che definisce la nostra epoca» si tradurrà in qualche cambiamento politico. In ogni caso, la discussione si è già spostata al punto da suscitare una reazione eccessiva da parte degli esperti che sostengono che la disuguaglianza non è poi chissà che grande problema.
Hanno torto.
L’argomentazione migliore per dare alla disuguaglianza una bassa priorità è lo stato depresso dell’economia. Non è forse più importante ripristinare la crescita economica invece di preoccuparsi di come sono distribuiti gli utili della crescita?
Beh, no. Prima di tutto, anche solo guardando all’impatto diretto che ha l’aumento delle disuguaglianze sulla classe media americana ci si accorge che di fatto esso crea davvero un grosso problema. Oltre a ciò, molto probabilmente la disuguaglianza ha rivestito un ruolo fondamentale nel provocare il caos economico nel quale ci ritroviamo, e ne ha rivestito uno cruciale nel nostro dimostrarci incapaci di mettere a posto le cose.
Ma partiamo dalle cifre. In media, gli americani oggi continuano a essere molto più poveri di quanto fossero prima della crisi economica. Per il 90 per cento delle famiglie che guadagnano meno, questo impoverimento riflette sia un restringimento della torta economica, sia una percentuale in calo di quella torta. Che cosa ha avuto maggiore importanza? La risposta, sbalorditiva, è che le due sono più o meno equivalenti. In altri termini, la disuguaglianza è aumentata così rapidamente negli ultimi sei anni da fungere da enorme peso morto per i redditi dei normali americani, tanto quanto una mediocre performance economica, anche se questi anni comprendono quelli della peggiore recessione economica che ci sia stata dagli anni Trenta.
Se poi si assume una prospettiva sul più lungo periodo, l’aumento della disuguaglianza sta diventando di gran lunga il singolo fattore più importante dietro alla stagnazione dei redditi della classe media.
Oltre a ciò, se si cerca di comprendere sia la Grande Recessione sia la non così grande ripresa che le ha fatto seguito, gli impatti economici e soprattutto politici della disuguaglianza incombono minacciosi all’orizzonte.
È ormai comunemente riconosciuto che l’indebitamento in forte aumento dei nuclei famigliari ha contribuito a spianare la strada alla nostra crisi economica. Questa impennata del debito è coincisa con l’aumento della disuguaglianza, e i due fenomeni probabilmente sono correlati (sebbene ciò non sia inoppugnabile). Dopo che la crisi ha colpito, il continuo spostamento dei redditi dalla classe media verso una piccola élite è stato di ostacolo per la domanda dei consumatori, e di conseguenza la disuguaglianza è collegata sia alla crisi economica sia alla debolezza della ripresa che le ha fatto seguito.
Dal mio punto di vista, tuttavia, il ruolo veramente cruciale rivestito dalla disuguaglianza nella catastrofe economica è stato di natura politica.
Negli anni prima della crisi, a Washington prevaleva un notevole consenso bipartisan a favore della deregulation finanziaria, consenso non giustificato dalla teoria né dalla storia. Quando è subentrata la crisi, c’èstata una corsa a salvare le banche. Ma, non appena si è conclusa questa fase, si è affermato un nuovo consenso, che ha comportato di lasciar perdere la creazione di nuovi posti di lavoro e di concentrarsi sulla presunta minaccia derivante dai deficit di bilancio.
Che cosa hanno in comune i consensi pre-crisi e quelli post-crisi? Entrambi sono stati devastanti dal punto di vista economico: la deregulation ha contribuito a rendere possibile la crisi, e la precipitosa svolta verso l’austerità fiscale ha fatto più di qualsiasi altra cosa per intralciare la ripresa. Entrambi i consensi, tuttavia, corrispondevano agli interessi e ai pregiudizi di una élite economica la cui influenza politica è balzata alle stelle in parallelo con la sua ricchezza.
Ciò diventa quanto mai chiaro se cerchiamo di capire perché Washington, nel bel mezzo di una crisi dell’occupazione che si protrae, per taluni aspetti è ormai ossessionata dalla presunta necessità di tagliare Social Security e Medicare. Questa ossessione non ha mai avuto senso, dal punto di vista economico: in un’economia depressa con tassi di interesse bassi quasi da record, il governo dovrebbe spendere di più e non di meno. Oltre a ciò un’epoca di disoccupazione di massa non è certo il momento più opportuno per concentrarsi sugli eventuali problemi fiscali nei quali ci imbatteremo a qualche decennio di distanza. L’attacco a questi programmi, per altro, non è avvenuto su richiesta dell’opinione pubblica.
I sondaggi condotti presso i soggetti molto facoltosi, tuttavia, hanno messo in evidenza che — a differenza dell’opinione pubblica in generale — essi considerano i deficit di bilancio una questione cruciale e sono favorevoli quindi a ingenti tagli nei programmi assistenziali e alle reti di sicurezza. Indubbiamente, le prioritàdi quelle élite hanno il sopravvento sul nostro discorso politico.
Ciò mi porta al mio punto finale. Dietro a una parte delle reazioni eccessive contro il dibattito sulla disuguaglianza credo che c’è il desiderio di alcuni grossi esperti di depoliticizzare il nostro discorso economico, di renderlo tecnocratico, non di parte. Ma questo è un sogno impossibile. La classe sociale e l’ineguaglianza finiranno sempre coll’influenzare — e distorcere — il dibattito perfino in relazione a quelle che possono apparire questioni puramente tecnocratiche. Il presidente, dunque, aveva ragione. La disuguaglianza è davvero la sfida che definisce la nostra epoca. Faremo qualcosa per raccogliere tale sfida e reagire adeguatamente?

Repubblica 21.12.13
La destra anti-europea
di Nadia Urbinati


L’Europa ha una relazione difficile con i diritti di libertà: solida nelle stagioni di crescita economica, incerta nelle fasi critiche. Un andamento ciclico legato a doppio filo con il benessere diffuso, che è il vero pilastro della democrazia europea. Questo rende il vecchio continente a permanente rischio autoritario e illiberale. I recentissimi dati sul gradimento dei movimenti di destra dal Nord scandinavo al Sud mediterraneo confermano questa lettura. Due argomenti unificano i vari movimenti, più o meno settari e a vocazione nazional-protezionista: la disoccupazione e l’immigrazione. La responsabilità dei quali è imputata alla tolleranza nei confronti delle minoranze, ovvero all’Europa della carta dei diritti. La rinascita della destra marcia quindi insieme all’accusa populista rivolta alla dirigenza europea di chiedere sacrifici agli stati membri senza un piano preciso oltre alla salvaguardia dell’Euro, un obiettivo che non solo non è avvertito dall’opinione pubblica come giustificabile ma è inoltre associato agli interessi dell’élite economica e finanziaria.
Si tratta di ingredienti esplosivi che hanno mostrato i loro effetti devastanti altre volte in passato. Tra i temi che uniscono i vari movimenti di destra insieme a quello anti-immigranti e anti-Euro vi è quello antisemita, celato dietro l’identificazione non nuova tra l’alta finanza globale e la lobby ebraica. In un volume uscito pochi anni fa per Bollati Boringhieri e che prendeva il titolo da un’espressione di August Bebel,Il Socialismo degli imbecilli,Michele Battini spiegava l’uso antisemita dell’argomento anticapitalista, forte soprattutto nei periodi di crisi economica. Del resto, in Europa il regime dei diritti è sorto sul tronco della nazione; ciò ha fatto della cittadinanza una condizione associabile da un lato all’identità etnica e dall’altro al benessere economico. La democrazia che è nata dopo la Seconda Guerra ha conquistato credibilità sancendo un compromesso di ferro tra la libertà e il lavoro con l’esito che i molti sono diventati per la prima volta i rappresentanti dell’interesse generale della società.
Sconfiggere la povertà eliminando la disoccupazione: questo fu il presupposto sociale della democrazia europea. Il cambiamento fu epocale e coinvolse anche la scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche programmatiche dei governi centrali. Il keynesianesimo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo cambiamento vincendo la guerra contro il liberismo sulle barricate della crisi del 1929, che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda, un nazionalismo rampante e regimi totalitari. Disoccupazione/ reazione autoritaria, occupazione/ democrazia: per quanto semplicistiche, queste due coppie hanno segnato il ritmo della storia politica europea del ventesimo e, a quanto pare, del ventunesimo secolo.
L’Europa che si prepara alle elezioni per il rinnovo del suo Parlamento rischia di diventare il capro espiatorio delle sofferenze sociali ed economiche causate da questa lunga crisi recessiva e non lenite dal patto di stabilità che sembra parlare una sola lingua: quella dei sacrifici, della riduzione delle politiche sociali, dell’aumento delle tasse, del contenimento dell’occupazione. Un ciclo perverso di costi senza benefici palpabili che ha minato il nobile compromesso di lavoro e democrazia. La nuova destra che cresce nei consensi in tutti gli stati membri dell’Unione, da Nord a Sud, va letta come l’esito della conversione al liberismo dell’Unione europea, nonostante la retorica dell’Europa sociale che appartiene a tutti gli effetti a un progetto defunto, abbandonato insieme alla volontà di unificazione politica dell’Unione. La diseguaglianza sociale ha seguito questo percorso, aumentando insieme alla conversione neo-liberista. Abbiamo assistito in questi anni ad una redistribuzione delle risorse e delle opportunità a favore dei percettori dei profitti e delle rendite senza che a ciò seguisse uno stimolo degli investimenti. Il costo per la democrazia è sempre più alto anche perché la crescita della diseguaglianza materiale rende i più abbienti insofferenti verso i bisogni di chi ha sempre meno e i meno abbienti insofferenti verso i nuovi poveri e gli immigrati. Inimicizie di classe a scalare: segno della paura generale di impoverimento e di sfiducia nelle capacità della democrazia di mantenere la sua promessa. Da qui occorre partire per comprendere le ragioni e i programmi della nuova destra europea.
Nel programma del Freedom Party olandese che ha siglato poche settimane fa l’alleanza elettorale con il Fronte Nazionale di Marine Le Pen la retorica protezionistica e anti-universalista (i diritti ai “nostri” contro gli “altri”) ha trovato largo spazio. L’attacco alle lobby ebraiche e della finanza si è combinato a quello contro la dirigenza burocratica europea e soprattutto la tolleranza verso gli immigrati. La retorica autoritaria si è tinta anche di un linguaggio cristiano nel nome del quale la lotta contro l’immigrazione diventa lotta contro la cultura islamica, scontro di civiltà e valori dai toni cupi e, purtroppo, facili. Se la sinistra non ha più un’ideologia, la destra ne ha una potente. L’alleanza tra destra olandese e francese, salutata dai rispettivi leader come “storica”, si è data l’obiettivo di «liberare l’Europa dal mostro di Bruxelles» e ha incassato in pochi giorni l’adesione di altri partiti xenofobi: il Freedom Party austriaco, la Lega Nord, il People’s Party danese e il movimento svedese di destra. Così la leader Le Pen nella conferenza dell’Aia che ha siglato il patto tra il suo partito e quello olandese: «Il tempo in cui i movimenti patriottici erano divisi, oggetto di paura e demonizzati, è finito». La destra europea è organizzata e unita e si appresta a conquistare l’Europa, detronizzando i mistici dell’Euro e, insieme a loro, la cultura e la pratica dei diritti per cui l’Europa è andata fiera nel mondo.
Un’Unione europea fortemente sbilanciata a destra è un obiettivo purtroppo non irrealistico in questa età di impoverimento e di malcontento. Anche perché le forze socialiste e democratiche non sanno opporre con la necessaria determinazione proposte capaci di rilanciare il connubio lavoro-diritti. E così si ipotizza che il 30% dei seggi parlamentari verrà occupato dai partiti anti-europei. Il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha messo in guardia nei confronti di questa retorica populista e xenofoba. Ma il lamento non sortisce effetto se l’Europa non sa mantenere la promessa di costruire e difendere una cittadinanza democratica sociale.

il Fatto 21.12.13
“Aborto criminale” Rajoy cancella Zapatero
A Madrid prova di forza del Parito Popolare: voterà da solo la riforma in Parlamento
I socialisti alle deputate PP: Pensate alle donne
di Alessandro Oppes


Madrid Con la destra al governo, la Spagna torna a criminalizzare l’aborto. Come trent’anni fa, ma anche peggio. Perché almeno, nella prima legge del post-franchismo che regolava l’interruzione della gravidanza – quella varata da Felipe González nel 1985 – si ammettevano tre eccezioni al divieto: nei casi di violenza sessuale, di grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, o quando fosse accertata una malformazione del feto. Ora cade quest’ultimo presupposto, che può essere tenuto in considerazione solo se i medici valutano che, una volta diagnosticata una malattia invalidante del nascituro, anche la madre può subire nefaste conseguenze dal punto di vista psicologico.
Dopo tante promesse non mantenute – soprattutto nel campo della politica economica – Mariano Rajoy rispetta così uno dei suoi impegni elettorali. E si tratta probabilmente di quello che aveva assunto con maggiore solennità. Cede alle pressioni dell’ultradestra e spazza via la riforma voluta appena tre anni fa da José Luis Rodríguez Zapatero, con la quale la Spagna si allineava alla maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, riconoscendo alle donne il diritto di abortire senza limitazioni nelle prime 14 settimane di gestazione. Una libertà di scelta che veniva estesa anche alle minorenni, a partire dai 16 anni, senza l'obbligo di richiedere l’autorizzazione dei genitori. Quella legge provocò una levata di scudi dei settori più conservatori del mondo cattolico, in testa i vertici della Conferenza episcopale guidata dall’arcivescovo di Madrid, Antonio Maria Rouco Varela (oggi probabile pensionando, all'età di 77 anni, dopo aver goduto della grande amicizia di Joseph Ratzinger, che non sembra essergli stata rinnovata da Papa Bergoglio).
I movimenti “pro life” scendevano in piazza contro Zapatero, animati proprio dalla Curia. Ora si rovesciano i ruoli. E sono i socialisti e le associazioni femministe a scendere sul piede di guerra. Pronti a protestare con grande intensità dal momento in cui il disegno di legge, annunciato ieri dal ministro della Giustizia Alberto Ruiz Gallardón, arriverà all’esame del Parlamento, dove il Partito Popolare, forte della maggioranza assoluta, ha i numeri per approvarlo anche in perfetta solitudine. E' per questo che il Psoe ha già fatto sapere che chiederà il voto segreto su una normativa che ritiene “non necessaria, cinica e ingiusta”. E la vice-segretaria generale socialista, Elena Valenciano, lancia un appello alle dirigenti e alle deputate popolari perché “pensino come donne” al momento di decidere. Le norme restrittive, fa notare la sinistra, non portano a una riduzione del numero di aborti. Al contrario, favoriscono la clandestinità e creano condizioni sanitarie di rischio estremo.

Corriere 21.12.13
La crudeltà dimenticata
di Sergio Romano


Accade agli Stati ciò che accade a una personalità politica quando è colpita da un ictus o da un infarto. Finché vi è speranza di salvarlo, i dottori descrivono in un bollettino medico le sue condizioni di salute. Quando si accorgono che le cure non hanno effetto e che il malato è incurabile, i bollettini diventano sempre più rari. La stampa internazionale avrebbe materia per dedicare ogni giorno una buona parte della prima pagina alla guerra civile siriana.
Due rapporti recenti — uno di agenti delle Nazioni Unite, l’altro di Amnesty International — dimostrano che ciascuna delle due parti, per fare il vuoto intorno al nemico, colpisce sempre più crudelmente la popolazione civile. Gli uomini, le donne, i bambini, vengono arrestati, imprigionati, torturati. Molti, soprattutto nelle zone controllate dal governo, scompaiono. Ciascuna delle due parti si accanisce soprattutto su coloro che possono, sia pure indirettamente, servire all’altra. Tutti obbediscono alla regola secondo cui «è mio nemico anche il medico che cura le ferite dei miei nemici».
Le responsabilità maggiori, dal punto di vista del diritto internazionale, sono del governo di Bashar Al Assad, colpevole di quella che appare sempre di più una guerra a oltranza dello Stato siriano contro i propri cittadini; ma quelle morali sono equamente distribuite. Abbiamo denunciato l’uso delle armi chimiche perché erano state lungamente sul banco degli accusati e avevano provocato interminabili dibattiti internazionali. Ma questo stillicidio di violenze quotidiane persino peggio. Perché i bollettini medici sono diventati sempre più rari? Conviene ricordare che non tutti i medici erano d’accordo sulla diagnosi e sulle cure. I principali dottori accorsi al capezzale del malato — Arabia Saudita, Iran, Qatar, Russia, Stati Uniti, Francia, Turchia, per non parlare della Cina e di altre potenze europee — volevano la guarigione del proprio paziente e la morte dell’altro. Non somministravano medicine, ma armi, intelligence, sostegno logistico. Non lavoravano per la pace, ma per la vittoria del loro rispettivo pupillo. Poi, gradualmente, ogni dottore ha capito che il suo paziente gli stava scappando di mano, non accettava consigli e si rimetteva alla strategia della sua fazione più radicale. È accaduto nel campo del regime, ma anche in quello della resistenza, sempre più soggetta alle infiltrazioni di Al Qaeda.
Nessuno lo ammette esplicitamente e qualcuno, come un principe saudita, ventiduesimo figlio del fondatore del Regno, ha scritto recentemente su un giornale americano, che il suo Paese, se necessario, farà da sé, anche se la sua politica sarà radicalmente diversa da quella degli Stati Uniti.
Ma tutti sanno che da una guerra come questa uscirà vincitore soltanto quello che sarà riuscito ad annientare spietatamente tutti i suoi nemici.
La conferenza di Ginevra sulla Siria, se verrà convocata, avrà un senso soltanto quando i Paesi coinvolti nella crisi (fra cui finalmente anche l’Italia) si saranno accordati su due misure: la sospensione di qualsiasi assistenza che non sia strettamente umanitaria e la creazione di un cordone sanitario intorno al territorio siriano per impedire il passaggio di qualsiasi fornitura militare.
Non sarebbe la fine della guerra, ma potrebbe essere l’inizio di una fase nuova, il primo passo verso un reale negoziato.

Corriere 21.12.13
Rivalità e vendette tra due Islam dietro la tangentopoli della Turchia
di Antonio Ferrari

Nessuno sa prevedere come finirà, perché tutto è vischioso e complesso nella guerra strisciante che sta avvelenando la Turchia. L’arrogante ma vincente premier islamico moderato Recep Tayyip Erdogan ha trovato infatti l’avversario politico che può impensierirlo. Non un laico, espressione del vecchio establishment secolare, fedele alle idee di Ataturk. Quel che preoccupa Erdogan è un altro leader islamico-moderato, Fetullah Gulen, che partì per gli Usa nel 1999 perché inviso ai governi laici di allora.
Il predicatore Gulen sperava che con l’irresistibile ascesa di Erdogan, il suo movimento politico-religioso avrebbe avuto potere crescente. È stato così all’inizio. Ora tra Gulen e Erdogan è guerra. Da due anni, rapporti tesi. Poi, schermaglie sempre più velenose. Adesso il conflitto è aperto. Gulen non ha tollerato la decisione del governo di ridurre le scuole private, che sono le fondamenta sociali del predicatore.
La reazione allo sgarro (così viene ritenuto) è stata quindi durissima. In due giorni sono state arrestate — con pesanti accuse di corruzione — oltre 50 persone: tre figli di ministri in carica, cinque capi della polizia, alcuni uomini d’affari legati al partito di governo Akp. Un chiaro segnale di guerra aperta nel mondo islamico turco, diviso persino sull’aggettivo «moderato»: in quanto il movimento di Gulen si ritiene assai più tollerante e conciliante dell’intransigente Erdogan. Considerazioni e valutazioni discutibili, perché la rete del predicatore è una vera piovra: possiede e controlla scuole e università non solo in Turchia ma in tutti i Paesi turcofoni, nel Medio Oriente, in Asia e in Africa. Ha iniziato da anni una vincente operazione, conquistando seguaci in tutte le istituzioni della Repubblica, a cominciare dalla magistratura.
Erdogan, che all’inizio riteneva di aver trovato nel predicatore esiliato negli Usa un sostenitore, ora deve fare i conti con un avversario «interno» che, se potesse presentarsi come candidato alle elezioni, toglierebbe al premier una fetta dei suoi consensi. Il primo ministro, che già ha commesso gravi errori con la repressione avviata per il parco di Gazi e con il sostegno ai Fratelli musulmani egiziani, corre adesso il rischio più grave: ritrovarsi, nell’anno delle elezioni amministrative, ad affrontare l’incognita più insidiosa: una crisi tutta interna al suo stesso campo islamico-moderato.

Repubblica 21.12.13
L’edificio di Piacentini a Reggio Calabria è stato ampliato e rinnovato Il museo archeologico ospiterà le statue degli eroi e materiale mai visto prima
Lc casa dei Bronzi
Finalmente si rimettono in piedi i due guerrieri di Riace
di Francesco Erbani


È la casa dei Bronzi di Riace, ma non solo. Quello che si apre oggi a Reggio Calabria è un Museo archeologico restaurato e in gran parte nuovo. Il suo allestimento è ancora provvisorio: adesso si limita ad alloggiare i due guerrieri, forse eroi mitologici, di cui poco si sa, salvo che sono capolavoro di autori diversi e che risalgono al V secolo avanti Cristo. Ma quando fra sei mesi verrà completata, la sistemazione del Museo documenterà con tanti materiali inediti sia la stagione della Magna Grecia sia altre vicende della storia antica di quella regione. E diventerà un prezioso polo d’attrazione culturale, provando a rovesciare una storia spesso portata ad esempio di trascuratezza verso i beni culturali.
Giunge così a conclusione, conuna forte accelerazione finale, e dopo ripetuti stop and go,uno dei cantieri più impegnativi che investono tutela e valorizzazione del patrimonio artistico italiano. Il vecchio museo di Marcello Piacentini è stato integralmente e filologicamente restaurato dallo studio romano Abdr (Paolo Desideri e i suoi collaboratori), dotato di norme antisismiche e di moderni impianti di aerazione. Inoltre l’edificio, risalente al 1937, prima opera pubblica in cemento armato, è stato ampliato e potrà così ospitare reperti finora custoditi nei depositi.
Spiega Simonetta Bonomi, soprintendente archeologica della Calabria: «Con l’allestimento definitivo, mostreremo oggetti mai visti e anche oggetti già visibili, ma in maniera del tutto nuova, privilegiando il loro contesto storico e culturale. Inoltre daremo spazio ai fenomeni precedenti la colonizzazione greca, con materiali provenienti da Sibari e da Caulonia. E metteremo l’accento su fasi ancora in via di approfondimento, come l’età del bronzo e l’età del ferro, o quella dei contatti con i Micenei. Una sezione documenterà la presenza degli Enotri, l’antica popolazione presente in Calabria e in altre regioni meridionali nell’XI secolo avanti Cristo. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’ingrandimento degli spazi espositivi».
Intanto da oggi, con l’inaugurazione cui parteciperà anche il ministro Massimo Bray, il Museo esibisce i suoi pezzi più celebrati. I due Bronzi vennero recuperati nel tratto di Ionio davanti alla spiaggia di Riace nel 1972. Furono esposti alQuirinale nel 1981, suscitando una memorabile ondata di entusiasmo, con file chilometriche che si ripeterono per giorni e giorni. Da allora sono diventati un simbolo, ma la loro immagine è stata anchesvilita e deformata ad uso di spot pubblicitari. E tuttora si immagina di trasferirli un po’ dovunque, messaggeri di una malintesa eccellenza italiana. Ora le due statue, restaurate dall’Iscr (Istituto superiore di conservazione e restauro), sono tornate dov’erano, nel museo reggino, ma in sale integralmente nuove. I due guerrieri sono sistemati su piedistalli di marmo separati da un’intercapedine e da quattro sfere, sempre di marmo, che hanno il compito di assorbire le scosse sismiche (l’intervento è stato curato dall’Enea).
Ai due Bronzi fanno da cornice una serie di capolavori forse menonoti, ma di pregio indiscusso e già ospitati nel vecchio museo piacentiniano: le teste di uomini barbuti provenienti dal relitto di una nave affondata al largo di Porticello, a Villa San Giovanni, oppure la testa di Basilea e la testa del Filosofo (entrambe del V secolo a.C.), o, ancora, la testa in marmo di Apollo, il kouros (giovane) di Reggio Calabria. A contrasto con l’antico, nel grande cortile ora coperto da un’avveniristica copertura intensegrety («un insieme continuo di cavi e puntoni mai realizzato in queste dimensioni in Italia», sottolinea Desideri), le pareti sono impreziosite da un intervento dell’artista calabrese Alfredo Pirri che, sfruttando la luce proveniente dal soffitto, crea una serie di giochi d’ombra.
Il Museo ora avrà un proprio laboratorio di restauro, una biblioteca e, sul tetto, una caffetteria dalla quale l’occhio spazierà interamente sullo Stretto di Messina. Di un nuovo Museo archeologico a Reggio, che fosse all’altezza del grande patrimonio custodito, si parla dal 2006. Originariamente l’allora direttore regionale dei Beni culturali, Francesco Prosperetti, pensò che si potesse costruire un edificio sul lungomare. Ma l’idea venne accantonata e si optò per il restauro del palazzo piacentiniano. Fu sempre Prosperetti ad avviare lo studio preliminare, che venne poi ereditato da Desideri. Il progetto fu approvato da una commissione presieduta da Salvatore Settis e il cantiere venne avviato nel 2010 ad opera di un’impresa di Altamura, la Cobar. Nel giro di un anno e mezzo i lavori erano praticamente conclusi (nel frattempo Prosperetti era tornato a dirigere i Beni culturali in Calabria). Ma mancavano i finanziamenti per l’allestimento interno, sempre curato dallo studio Abdr. Sono stati prima Fabrizio Barca, ministro della Coesione territoriale nel governo Monti, e poi Massimo Bray, a imprimere una svolta. Che ora giunge al suo approdo.
Racconta Desideri: «Abbiamo curato con attenzione la pulizia dell’aria: di fatto i pochi visitatori che a turno entreranno nella sala dei Bronzi saranno puliti da tutte le contaminazioni chimiche e batteriche. Una specie di lavaggio. La parte impiantistica è stata realizzata rispettando la struttura di Piacentini. Abbiamo studiato a fondo i suoi disegni e abbiamo trovato anche le sue lettere a Mussolini nelle quali si lamentava che il ferro previsto per le finestre era stato dirottato per farne cannoni».

Repubblica 21.12.13
A Natale e Capodanno oltre 250 siti d’arte aperti


ROMA — Il ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo ha fatto sapere che il 25 dicembre e il 1° gennaio oltre 250 tra musei, aree e parchi archeologici statali osserveranno l’apertura straordinaria. In molti dei musei sarà possibile partecipare a eventi e iniziative come visite guidate, esposizioni speciali, concerti e accessi a luoghi solitamente chiusi al pubblico. Sabato 28 dicembre tutti i musei statali saranno aperti gratuitamente per l’intera giornata. Inoltre, in occasione della VI edizione di “Una notte al museo”, la gratuità sarà estesa anche alle aperture straordinarie serali dei luoghi d’eccellenza del patrimonio dalle 20 alle 24. «Insieme all’ingresso gratuito del 28 – ha dichiarato il ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Massimo Bray, in una nota – l’apertura straordinaria a Natale e Capodanno di molti musei e siti archeologici permetterà a cittadini e turisti di godere pienamente nel corso delle festività del nostro straordinario patrimonio culturale».
Per l’elenco completo dei siti aperti, orari e costo del biglietto si può consultare il sitowww.beniculturali.it o chiamare il numero verde gratuito 800991199.

Repubblica 21.12.13
Il ministero taglia gli Istituti di cultura
Prevista una riduzione del dieci per cento tra le prime proteste
di Raffaella De Sanctis


La spending review non risparmia neanche gli Istituti culturali italiani nel mondo. In tempi di tagli il ministero degli Affari Esteri ha annunciato la chiusura di una serie di Istituti (prima si era detto undici, poi sono diventati dieci, ora – notizia di ieri – pare siano scesi a otto), motivando il provvedimento, che comprende anche quattordici sedi fra consolati e ambasciate, con il bisogno di “riorganizzare la rete diplomatica-consolare”. Di certo nella lista degli Istituti compaiono soprattutto paesi europei: Lione, Lussemburgo, Stoccarda, Wolfsburg, Francoforte, Salonicco. A cui si aggiungono Ankara e Vancouver, mentre le basi di Grenoble e Innsbruck di fatto già non sono più operative. E Strasburgo, snodo essenziale in Europa, che fino a qualche giorno fa era tra i sommersi, oggi invece passa tra i salvati, insieme a Washington e Copenhagen. Ma l’elenco non è ancora ufficiale e chissà non ci siano altri ripensamenti.
Colpisce il fatto che il provvedimento arrivi proprio alla vigilia della presidenza del Consigliodell’Unione europea, prevista nel secondo semestre del 2014. Eppure il ministero sembra proprio in questa fase orientarsi verso est e, interpellato da Repubblica, fa sapere di voler aprire un’ambasciata d’Italia in Turkmenistan e consolati generali in Cina e Vietnam e di puntare sui paesi del Golfo e in generale sull’Asia centrale. Mercati considerati evidentemente più interessanti di quello europeo. Il vice ministro per gli Affari Esteri Marta Dassù ci anticipa quanto troveremo scritto per esteso nel documento “Farnesina 2015” di prossima pubblicazione: «Premetto che la diplomazia culturale è decisiva, come strumento di politica estera. Una serie di leggi ci impongono di razionalizzare la rete delle ambasciate, dei consolati e degli istituti di cultura, riducendo il numero degli uffici esteri. Il risparmio esiste, naturalmente. Ma non è l'unica motivazione. Questa razionalizzazione permette di concentrare le risorse degli Esteri, in assoluto ormai molto scarse, su un numero di sedi strategiche». Ma cosa accadrà nel nostro continente? La prima funzione di un istituto culturale è diffondere la cultura italiana all’estero, aiutare a farla conoscere. Il vice ministro Dassù difende la razionalità economica e politica del provvedimento: «Il principio è quello delle economie di scala. In prospettiva, meglio avere un solo, grande istituto di cultura per paese che una miriade di piccoli centri senza mezzi».
Ai direttori degli Istituti in via di sparizione, la questione risulta però meno chiara. I costi innanzitutto: i tagli degli Istituti assicurerebbero un risparmio totale di meno di un milione di euro l’anno, costando ognuno una media di 100 mila (Lussemburgo ne costa 80 ma riesce a guadagnare tra corsi sponsor e concerti 25 mila euro, Copenhagen riceve 132 mila euro di contributi statali, Salonicco 18, Stoccarda circa 100, Francoforte 110, Wolfsburg 100, Vancouver 142, Strasburgo sui 100, Ankara 192, Lione 122, dati del 2012). Certo, forse è vero che non tutti gli Istituti riescono a impiegare al meglio le loro risorse. Alcuni non hanno un edificio proprio e, dovendo pagare l’af-fitto, hanno un budget minore da investire, come Wolfsburg (70 mila euro annui di pigione e 30 mila per le spese di gestione nel 2012), Ankara (che però dichiara un tasso di autofinanziamento del 34% nel 2012) o Lione (nel 2013 un guadagno, nonostante le spese, intorno ai 25 mila euro e 90 eventi organizzati). Tanti Istituti hanno prodotto eventi interessanti, ospitando mostre d’arte e rassegne culturali di libri, cinema, teatro e organizzando corsi di lingua italiana, fonti effettive di guadagno. Stefano Benni, che è stato spesso invitato da molti Istituti di cultura italiana, li difende: «Posso ricordarne alcuni mal diretti, con direttori scelti per motivi politici e non per competenza. Altri gestiti in modo mondano e clientelare per pubblicizzare e far lavorare mogli e mariti e parenti. Ma nella maggior parte dei casi ho incontrato persone appassionate, che con pochi soldi cercano di raccontare la cultura italiana al mondo, combattendo i luoghi comuni che solo in parte meritiamo».
Nel mondo ci sono in tutto novanta Istituti Italiani di Cultura (IIC), che costano allo Stato intorno ai 10 milioni di euro annui (a cui vanno aggiunti i costi del personale, circa 200 mila euro a Istituto). Fra un po’ di giorni saranno ottantadue. Fino a ieri pareva dovesse finire al macero perfino Bruxelles, sede delle più importanti istituzioni dell’Unione Europea. Poi il pericolo è rientrato, anche se pare che ci sia in ballo il progetto di vendere l’edificio in cui l’Istituto ha sede e nelle cui aule si tengono circa 106 corsi l’anno per un totale di 3 mila ore di lezione e più di 1.100 studenti. Corsi che rendono 180 mila euro annui, a cui ne vanno aggiunti 20 mila guadagnati con gli eventi (179 nel 2013) e 100 mila ottenuti dagli sponsor. Bruxelles riceve dallo Stato poco più di 200 mila euro l’anno.
Nel frattempo iniziano a reagire scrittori e intellettuali. In difesa dell’Istituto di Lussemburgo è stata scritta una lettera al presidente del Consiglio Enrico Letta da parte dello scrittore Jean Portante, insieme a Claude Frisoni ed Enrico Lunghi, direttore del Museo d’Arte Moderna. E in soccorso di Copenhagen hanno scritto una lettera a Napolitano i docenti di Italianistica dell’università cittadina. Forse, cifre alla mano, bisognerebbe valutare bene il rapporto costi benefici di ogni Istituto e salvare quelli che rendono, con in mente tre parametri chiari: eventi organizzati, iscritti ai corsi e profitti.

il Fatto  21.12.13
Il saggio
Schnitzler. L’indagatore dei sogni
di Caterina Bonvicini


SOGNI Arthur Schnitzler Il Saggiatore pagg. 437 © € 35

SE PER NATALE volete stupire un lettore raffinato, che ama frugare nella vita privata degli scrittori, regalategli “Sogni” di Arthur Schnitzler (Il Saggiatore): è il diario più curioso che si possa trovare. Perché è un’autobiografia dell’inconscio. Per 56 anni, dal 1875 al 1931, cioè dal ginnasio fino alla morte, Schnitzler ha annotato metodicamente i suoi sogni (e a volte anche quelli degli altri). Possono assomigliare agli incubi di Kokoschka provocati da Alma Mahler, quindi ai suoi quadri, come essere inquietanti prefigurazioni del nazismo. La Vienna di quel periodo compare tutta, al risveglio. Il bellissimo saggio di Vittorio Lingiardi e Agnese Grieco spiega bene questa ossessione dell’autore di “Doppio sogno”: Freud, che naturalmente conosce, c’entra e non c’e n t ra . Il vero doppio è lui. Negli stessi anni, Schnitzler arriva a uguali conclusioni, ma per vie intuitive e letterarie, e riesce addirittura a percepire, con lungimirante chiarezza, i limiti della psicoanalisi appena nata.

l’Unità 21.12.13
I consigli di Fresu
A Natale Bach e Coltrane
«Goldberg Variations» e le «Ballads» ma anche De Moraes cantato da Bethânia
di Paolo Odello


UNA TROMBA CHE NON HA BISOGNO DI PRESENTAZIONI. COMPOSITORE E MUSICISTA JAZZ, docente, direttore artistico di osannati festival, appassionato e instancabile animatore culturale, costringere tutta la storia di Paolo Fresu dentro una sola definizione è impossibile. La sua Tuk Music, l’etichetta fondata nel 2010, si è imposta di diritto sulla scena italiana come garanzia di una qualità costruita con passione e curiosità verso altre esperienze. La stessa con cui guarda al mondo.
Una colonna sonora per le festività, quale musica regalare, o regalarsi, a Natale? «Non andrei a cercare chissà quale ultima novità. A costo di apparire noioso consiglierei di tornare a frequentare il già conosciuto, quel patrimonio inossidabile di musica senza tempo. Il Bach delle Variazioni Goldberg per esempio, nella versione di Glenn Gould oppure nella trascrizione per archi di Dimitry Sitkovestky, Goldberg Variations Nonesuch records. Natale, le sue feste, sono sinonimo di ritorno a casa, di voglia di ritrovare la sicurezza avvolgente dell’intimità familiare e allora cosa c’è di meglio di riscoprire colori e sapori già frequentati? Consiglierei anche qualcosa di autenticamente brasiliano come Que falta você me faz, un omaggio al poeta Vinicius de Moraes cantato da Maria Bethânia, lo acquistai anni fa a Bahia, lo ascolto spesso e non delude mai. E non mi farei mancare un buon Coltrane d’annata, Ballads, avvolgente e caldo come una serata fra amici».
E il jazz italiano, qual è il suo stato salute?
«Verrebbe da dire ottimo se a fare da contrappeso a una qualità ormai riconosciuta a livello mondiale non ci fosse il disinteresse di una classe dirigente che da troppi anni guarda alla cultura tutta come a un qualcosa di superfluo. L’Italia è un Paese che ha nelle sue diversità la sua più grande ricchezza. Una ricchezza che nella musica, nella creatività tutta, è un valore aggiunto che non tutti possono vantare. Ci permette di essere ricettivi, di guardare a ogni esperienza, dall’Opera al jazz americano degli anni ’50, dalla musica popolare a quella colta, il jazz poi, musica spugnosa per sua natura, si nutre e vive di contaminazioni. Così ci ritroviamo ad avere un gran numero di giovani musicisti di grande talento, artisti di spessore che però sono abbandonati a loro stessi, costretti a fare i conti con un mercato asfittico e con spazi live ridotti all’osso dai continui tagli. Però qualcosa si sta muovendo e, nonostante la crisi continui a mordere, oggi le istituzioni sembrano essere decisamente meno sorde di ieri».
Continuare a fare musica in tempo di crisi, perché?
«Perché per capire le cose, la realtà che viviamo, è fondamentale imparare a guardarle da più punti di vista, e la musica questo insegna e aiuta a fare. È la forma di arte che forse più di ogni altra invita all’incontro con l’altro inteso come persona e non più come straniero o peggio che mai nemico. Nei momenti di crisi il rischio che corre una comunità è quello di implodere dentro migliaia di solitudini individuali, un concerto è un buon lasciapassare verso la riscoperta di una necessaria socialità».

 

venerdì 20 dicembre 2013

l’Unità 20.12.13
Il Pd avvia i contatti per l’ingresso nel Pse
di Marco Mongiello

BRUXELLES Dopo anni di ipotesi e polemiche il Partito Democratico è oramai pronto ad entrare nel Partito del Socialismo Europeo (Pse). Le trattative, che probabilmente porteranno ad un cambio di nome e in parte anche di politiche del partito europeo, sono iniziate ieri a Bruxelles, in occasione del tradizionale vertice del Pse che precede il summit Ue. All’incontro ha partecipato, per la terza volta quest'anno, il Presidente del Consiglio Enrico Letta, dal momento che il Pd è invitato a tutte le attività del Pse anche se non ne fa parte. Nel suo intervento Letta si è limitato a ricordare il congresso del Pse del prossimo primo marzo a Roma, in cui sarà ufficializzata la candidatura dell’attuale presidente del Parlamento europeo Martin Schulz alla guida della Commissione. Ma per il resto le discussioni dei leader dei partiti socialisti e riformisti d’Europa si sono concentrate sui temi del vertice europeo e in particolare nella proposta tedesca sui cosiddetti «accordi contrattuali», ora ribattezzati «partenariati».
L’idea, che di fatto è calibrata su misura per l’Italia, è quella di offrire agli Stati membri degli incentivi economici in cambio di impegni vincolanti sulle riforme strutturali. I leader del Pse hanno però messo in guardia «dall’introduzione di un approccio bilaterale tra Commissione e singoli Stati membri» che fino ad ora «ha bloccato la ripresa economica dell’Ue». Il successo di qualsiasi politica «sarà misurato innanzitutto sull’aumento dell’occupazione», si legge nel comunicato finale. In ogni caso il leader del Pse, il bulgaro Sergei Stanishev, ha promesso che il partito europeo «lotterà duramente per assicurare che ci sia un forte meccanismo di solidarietà per bilanciare qualsiasi obbligo economico» perché «quando i Paesi sono isolati e costretti a rispettare condizioni che sono più dure rispetto a quelle dei vicini è la gente che deve fare fronte alle conseguenze economiche. Un simile approccio aumenterà soltanto la frustrazione».
La questione dell'ingresso del Pd, che verrà affrontata da Matteo Renzi con i vertici del Pse in un incontro a Bruxelles previsto per gennaio, è stata invece discussa ieri in un colloquio tra Federica Mongherini, la nuova responsabile per l’Europa della giovane segreteria renziana, e il segretario generale del Pse, il tedesco Achim Post. «Abbiamo discusso soprattutto del messaggio e della proposta politica del Pse», ha spiegato Mongherini all’Unità, «per noi l’ingresso del Pd nel Pse è funzionale ad avere una famiglia socialista e democratica allargata, come nel gruppo al Parlamento europeo».
Dopo le elezioni europee del 2009 infatti fu proprio il Pd a chiedere che il gruppo parlamentare che riunisce le delegazioni nazionali degli eurodeputati a Strasburgo cambiasse nome da «socialisti» a «socialisti e democratici». Il partito europeo invece, distinto dal gruppo parlamentare, è fino ad oggi rimasto Pse. Ora però, ha spiegato la dirigente del Pd, «abbiamo iniziato a discutere sul messaggio politico in vista delle prossime elezioni europee, sul manifesto elettorale e sulle proposte del Parlamento per la prossima Commissione, e abbiamo anche iniziato a ragionare su come riflettere questo cambiamento e questo allargamento del Pse anche nel nome».
Del resto già oggi i partiti nazionali che si definiscono «socialisti» sono una minoranza in Europa, ha argomentato Mongherini. Nel Pse ci sono i partiti laburisti della Gran Bretagna, dell’Irlanda e dei Paesi scandinavi, ci sono i socialdemocratici tedeschi e di alcuni Paesi dell’Est e ci sono i democratici italiani. Inoltre la stessa sigla Pse viene tradotta in modo diverso nelle differenti capitali e a Berlino, ad esempio, la «s» sta per socialdemocratici.
Insomma gli argomenti per chiedere un cambio del nome dei partiti riformisti europei ci sono tutti, ma la questione «è simbolica», ha precisato la responsabile democratica per l'Europa, «per noi la cosa principale è lavorare sul messaggio politico».
L’incontro tra la dirigente Pd e il segretario generale del Pse è solo la prima tappa che dovrebbe culminare nella convention di Roma del primo mar-
zo e nell'ingresso del Pd nella famiglia europea. Al momento comunque le divergenze politiche tra socialisti europei e democratici italiani non sono molte, ha assicurato Mongherini: «C’è la consapevolezza di dover rispondere ad un sentimento profondamente anti-europeo che attraversa la nostra società e di doverlo fare non con una vaga retorica europeista ma con delle proposte che vadano ad incidere soprattutto sulle politiche per la crescita e per l'occupazione». Sul piano italiano poi, dove negli anni passati il timore di «morire socialisti» aveva causato tanti mal di pancia nel Pd, la questione sembra oramai superata. L'ingresso nel Pse, ha ricordato Mongherini, forse comporterà un passaggio in Direzione ma «è una proposta fatta da Renzi in campagna elettorale e ha già la legittimità del voto delle primarie, e del resto anche gli altri due candidati avevano proposto la stessa cosa».

il Fatto 20.12.13
Presidente commissione Industria Massimo Mucchetti, Pd
“Il governo sta consegnando Telecom agli spagnoli”
di Stefano Feltri


Il senatore del Pd Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria, è preoccupato per il destino di Telecom e soprattutto è molto perplesso per come si è comportato il governo. A parole Enrico Letta approvava il progetto bipartisan di modifica della legge sull’Offerta pubblica di acquisto, per costringere Telefónica a spendere qualche miliardo, se proprio vuole il controllo dell’azienda italiana, remunerando i piccoli azionisti e non solo il salotto buono. Ma Palazzo Chigi ha boicottato la modifica promossa da Mucchetti, affondata due giorni fa in Senato: “La riforma dell’Opa viene per l’ennesima volta sospesa, ma non cancellata: la non ammissibilità riguarda il provvedimento sugli Enti locali cui era agganciata”. Forse prima o poi si farà, ma è troppo tardi per evitare che Telecom vada agli spagnoli per pochi spiccioli.
Senatore Mucchetti, partiamo dall'inizio.
Dopo l’annuncio dell'accordo Telco, il 24 settembre, il Senato fa le audizioni del caso e il 17 ottobre approva una mozione per la riforma dell'Opa obbligatoria. Il governo è un po’ perplesso, ma non rischia il confronto. Si rimette all'aula, che dà un consenso plebiscitario alla mozione. Pochi giorni dopo, ecco un emendamento al decreto Imu che dà corpo alla mozione. Il governo, prima in commissione, poi in aula, chiede il ritiro dell'emendamento per evitare una terza lettura del decreto alla Camera. Si accetta solo perché il governo afferma di condividere gli argomenti del Senato e a provvedere “in tempi brevissimi”, testuale.
Invece niente, nessun decreto sull'Opa.
Passano le settimane, noi ripresentiamo, migliorato, l'emendamento. Questa volta alla legge di Stabilità, ma la commissione Bilancio del Senato non riesce a completare l’esame del disegno di legge. La proposta viene riagganciata al decreto per gli Enti locali. Nel frattempo, Marco Causi, deputato del Pd, la propone alla Camera, ma è dichiarata non ammissibile dalla commissione Bilancio (presieduta dal lettiano Francesco Boccia, ndr). E ora di nuovo inammissibile al Senato. Sono passati quasi tre mesi e la riforma resta al palo senza che il governo accetti un confronto pubblico. Non demorderemo, ma temo ormai che arriveremo tardi.
Perché Letta è contrario a una riforma della legge sull’Opa che ostacolerebbe l'operazione di Telefónica?
Il governo avrebbe preferito che, alla soglia fissa del 30 per cento oltre la quale scatta l'obbligo dell'Opa e che si è dimostrata inefficace, si aggiungesse una seconda soglia anch’essa fissa e non una legata al controllo di fatto, quando questo derivi da una partecipazione inferiore al 30 per cento ma superiore al 15. Sul piano politico, il governo avrebbe voluto un provvedimento che entrasse in vigore non prima del maggio 2014 così da non avere influenza sull'affare Telecom. In ogni caso, la convinzione del governo è così blanda che non è mai stata oggetto di una sua iniziativa.
Un compromesso era possibile?
Era già pronto un testo B con la seconda soglia fissa al 15 per cento. Ma Letta non vuole un provvedimento immediatamente esecutivo. Sarebbe, a suo avviso, un intervento su una partita in corso che scoraggerebbe gli investimenti esteri.
Questa obiezione di Letta è fondata?
È una preoccupazione che avevamo anche noi. Ma non è fondata. Il contratto Telco non prevede una data per il closing. Non si danno partite senza che si sappia quando l'arbitro fischia la fine. E non c’è passaggio del controllo fino a quando Telefónica non si attribuirà i diritti di voto sulle nuove azioni Telco acquisite il 24 settembre. Investimenti esteri: Telefónica, in Telecom dal 2007, si è sempre opposta a un aumento di capitale che abbattesse il debito, frutto delle speculazioni degli azionisti maggiori. Senza risorse, di quali investimenti parliamo? La Commissione Caio scoprirà che la rete fa acqua. Sarà una conferma autorevole. E poi? Telefónica non mette un euro in Telecom ma dà una mancia a Intesa, Mediobanca e Generali. Starei attento a non fare regali, quando si trovasse il modo di estrarre la rete da Telecom per farvi investire lo Stato.
Letta sta lasciando andare Telecom per mantenere buone relazioni con Generali, Mediobanca, Intesa e con gli spagnoli, visto che è animatore del forum Italia-Spagna?
Questo lo dice lei. Io credo alle motivazioni che Letta ha dato, ancorché non le condivida.
Anche Mediaset vuole mantenere buoni rapporti con Telefónica, viste le operazioni sulla pay tv che hanno in discussione in Spagna...
Non vedo come Mediaset possa condizionare Letta, essendo Forza Italia all'opposizione.
L’assemblea dei soci di oggi potrebbe ribaltare la situazione?
Molto dipenderà dalle scelte di BlackRock. Tutto lascia credere che il fondo Usa giochi con Telefónica, di cui è il primo socio non bancario. Come potrebbe sfiduciare il consiglio di Telecom che l'ha appena beneficato con il prestito convertendo? Un fondo autonomo avrebbe interesse a un ribaltone che renda contendibile Telecom.
Che conseguenze avrebbe un eventuale concerto con gli spagnoli, alle spalle del mercato?
Un accordo sottobanco tra Telefónica e BlackRock andrebbe provato dalla magistratura cui Consob ha passato le carte. Comunque, con Telefónica, BlackRock potrebbe ricavare benefici se appoggerà l’uscita di Telecom dal Brasile.
Che cosa sta succedendo in Brasile?
La banca d'affari brasiliana Pactual sta preparando un’offerta su Tim Brasil per ripartirla tra Telefónica, America Movil e Oi-Portugal Telecom. Quando arriverà l'offerta, Telecom l'accetterà riducendo Tim Brasil a un mero fatto finanziario o la lascerà cadere perché intende restare multinazionale? Se Telecom venderà, BlackRock potrà cedere bene la sua quota agli spagnoli restando sotto il 30 per cento. A quel punto si arriverà alla fusione per incorporazione di Telecom Italia in Telefónica, controllante de facto, a concambi azionari che lascio immaginare. Nessuno me l’ha detto, ma è lo scenario che temo.
Esistono alternative a Telefónica?
Certo. Telecom può anche andare avanti da sola con un vero aumento di capitale. In seguito, potrà partecipare ai processi di concentrazione delle telecomunicazioni lungo l'asse renano. Sommare i debiti di Telecom Italia a quelli di Telefónica, invece, non creerebbe ricchezza ma un debito più grande. Anche Orange e Deutsche Telecom hanno forti esposizioni debitorie, ma il rischio Germania e il rischio Francia sono inferiori al rischio Italia e al rischio Spagna. Dobbiamo decidere se stare nel Mediterraneo o giocare in Serie A.

Repubblica 20.12.13
Ricchi salvi, classi medie sprofondate la recessione ha ridisegnato il Paese
In mano a solo 4 milioni di persone il 34% del reddito totale
di Maurizio Ricci


L’ITALIA non è mai stata così divisa. Agli economisti di destra piace dire che la marea alza e abbassa le barche, gli yacht come i gozzi, tutti allo stesso modo e così avviene nell’economia. Ma non è vero. Cinque anni di crisi — la crisi più lunga dal dopoguerra — hanno segnato la società italiana. Gli indici con cui le statistiche misurano le disuguaglianze sociali crescono inesorabilmente dal 2007, l’ultimo anno prima della recessione. E il modo in cui questo è avvenuto mostra che la teoria della marea non tiene.
Ricchi più ricchi
La crisi non ha reso i ricchi meno ricchi. Se la sono cavata egregiamente, con appena qualche piccolo tremolio, che non ha compromesso le quote in più di ricchezza nazionale, guadagnate negli anni e nei decenni precedenti, a scapito del resto del Paese. E’ all’altro capo della scala sociale, però, che è avvenuto lo sfondamento. Anzi, lo sprofondamento. In confronto a quei ricchi, infatti, i poveri, a cominciare dalle classi medie in declino, sono diventati più poveri. Soprattutto al Sud, dove erano già più poveri. L’allargarsi della forbice è anchepiù vistoso se non si considera solo come i 4 milioni di italiani ricchi (e, in mezzo a loro, i 40 mila straricchi) hanno cavalcato gli ultimi anni di crisi, ma se si guarda a come i più fortunati hanno saputo gestire e utilizzare il lungo ristagno che, dagli anni ‘90, imprigiona l’economia italiana.
I 40 mila dello 0,1 per cento
L’ultima Italia egualitaria è ancora quella dei primi anni ‘80. Nel 1983, calcolano Paolo Acciari e Sauro Mocetti in uno studio (“Una mappa della disuguaglianza del reddito in Italia”) pubblicato dalla Banca d’Italia, i 4 milioni di contribuenti, che costituiscono il 10 per cento più ricco degli italiani, assorbivano il 26 per cento del reddito nazionale. In realtà è di più, dato che lo studio analizza le dichiarazioni dei redditi e, dunque, non tiene conto dell’evasione e neanche dei redditi fuori Irpef, in particolare gli interessi sui depositi, le cedole dei titoli, i dividendi azionari, insomma, le rendite finanziarie in genere che, per i ricchi, pesano. Acciari e Mocetti sono, però, convinti che, anche se il livello assoluto non è affidabile, il movimento dei redditi può essere disegnato dalle dichiarazioni Irpef. Dieci anni dopo, dunque, nel 1993, il 10 per cento più ricco intasca il 30 per cento del reddito dichiarato, lasciando il 70 per cento a tutti gli altri. E’ il momento in cui l’economia italiana si ferma, smette, sostanzialmente, di crescere per non ripartire più, fino ad oggi, accontentandosi di allargarsi ad un ritmo paragonabile a quello di Haiti o dello Zimbabwe, lontano dal resto dell’occidente. Ma questo non impedisce ai 4 milioni di italiani più ricchi, quelli con un reddito sopra i 35 mila euro, di ritagliarsi una fetta di torta sempre più grande: al 2003, sono arrivati sopra il 33 per cento. Nel 2007, alla vigilia della crisi, sono saliti ancora, sopra il 34 per cento. In meno di25 anni, la fetta del 10 per cento è cresciuta di quasi un terzo.
Superstipendi e superpensioni
Ma ai 40 mila superstipendi, superpensioni, superparcelle, superrendite, che costituiscono lo 0,1 per cento dei redditi trasparenti all’Irpef e per i quali bisogna dichiarare dai 250 mila euro in su è andata anche molto meglio. Nel 1983, questa categoria di maxiredditi assorbiva meno dell’1,50 per cento del totale delle dichiarazioni. Nel 1993, già sfiorava il 2 per cento. Ma il passo lo hanno allungato dopo, a ristagno iniziato: nel 2007, la quota dei 40 mila straricchi era salita oltre il 3 per cento. In pratica, in 25 anni è raddoppiata. E la crisi? A queste altitudini è un venticello, che non compromette la presa delle classi più agiate sulla torta nazionale. Fra il 2007 e il 2009, la quota del 10 per cento più ricco scende dal 34,12 al 33,87 per cento.
Geografia dell’ineguaglianza
La capacità dei più ricchi di intercettare quote crescenti di reddito è il segnale più vistosodi una società ineguale, ma ne fornisce una immagine parziale. Il 10 per cento più ricco diventa più ricco, ma che succede nell’altro 90 per cento? Da questo punto di vista, la crisi sembra aver segnato una netta cesura. Il processo di progressiva ascesa dei ceti medi che, sgranandosi lungo la scala sociale, riduceva gli indici di disuguaglianza si è bruscamente interrotto con il 2007. L’indice nazionale, ora, è in risalita, ma la mappa che Acciari e Mocetti hanno disegnato, secondo gli indici statistici di disuguaglianza, provincia per provincia, consente di vedere che l’impatto è assai diverso nelle diverse zone del Paese, fino a suggerire una geografia anche politicoelettorale. La disuguaglianza è nettamente inferiore nel Centro-Nord. Ai minimi, anche se a livelli non propriamente scandinavi, in realtà come Lodi, Biella, Vercelli ma, in generale, in buona parte dell’Italia padana e delle regioni rosse del centro.
La linea Roma-Pescara
Una situazione che muta di colpo sulla linea Roma-Pescara, sul confine di quella che eral’area di intervento della Cassa del Mezzogiorno, soprattutto se si tiene conto anche della disoccupazione. Qui, quasi tutta la Sicilia, la Calabria e, soprattutto, Campania, Molise, il grosso della Puglia, in buona sostanza, l’Italia meridionale, con l’eccezione della Basilicata, registra tassi di ineguaglianza paragonabili a quelli della Turchia. Nel Nord, il quarto più povero della popolazione dispone del 5,7 per cento del reddito complessivo. Nel Sud, questa quota crolla al 3,7 per cento. Una frattura geografica che si affianca e si somma a quella nazionale ricchi- poveri e che rende ancora più incerto il cammino di uscita dalla crisi.

il Fatto 20.12.13
La tribù dei lobbisti: chi sono, chi li manda, cosa ottengono
Piccolo e incompleto elenco di quel che c’è e perché nella Legge di Stabilità
di Marco Palombi e Paola Zanca


Il viaggiatore che si trovasse a passare nei pressi delle commissioni Bilancio delle due Camere durante la discussione della legge di Stabilità osserverebbe una scena assai bizzarra. Dentro l’aula i parlamentari discutono e votano, entrano ed escono commessi, funzionari e gli stessi onorevoli, all’esterno - su un tavolo - un gruppo di giornalisti segue i lavori col testo della legge a sinistra e il fascicolo degli emendamenti a destra. Tutt’intorno c’è un’altra tribù dall’occupazione più sfuggente: a turno i suoi membri alternano fasi di calma ad altre di grande agitazione in cui scrivono o telefonano o passano fogli a qualcuno; amano colloquiare con gli interlocutori sempre con un’aria un po’ da congiurati; hanno una certa passionaccia per la parola all’orecchio, la passeggiata sotto braccio, l’amichevole pacca sulla spalla, il sorriso largo e rassicurante. Ecco, quella tribù sono i lobbisti.
Chi sono i lobbisti?
Intanto quelli veri e propri - cioè i dipendenti di una società di lobby ufficiale come Cattaneo Zanetto o Reti, per citare le più note - sono una minoranza e nemmeno delle più rilevanti. Alcuni lobbisti sono, più semplicemente, quelli che nelle aziende si chiamano “Responsabili delle relazioni istituzionali ” (una, Simonetta Giordani, in questo governo ha cambiato sponda e da Autostrade è passata al sottosegretariato ai Beni Culturali), altri ancora sono lobbisti informali: ex dipendenti del Parlamento, magari, come il meraviglioso esemplare registrato a Montecitorio dal Movimento 5 Stelle. Sul sito di Beppe Grillo lo si sente vantarsi al telefono di come ha bloccato un emendamento del Pd che fissava a 150 mila euro l’anno il tetto massimo di cumulo tra pensione e redditi da lavoro che tanto fastidio dava ai nostri Grand commis (in una parte non registrata ha fatto riferimento anche ai membri della Consulta): “Ho dovuto scatenare mari e monti. È stata una battaglia durissima. Io lo potrei scrivere in un manuale come caso di eccellenza di azione di lobby... Ho dovuto smuovere tutto”. Alla fine, il tetto è stato fissato a oltre 300 mila euro. Più del doppio. Qualcuno, come il deputato M5S Vincenzo Caso, s’è ritrovato il lobbista fuori dalla porta dell’aula che esultava per la bocciatura di un proprio emendamento: “Non è passatoooooo”.
Chi sono i mandanti?
Alle Camere, da ottobre a dicembre, stazionano tutti. Giganti come Eni o Enel o Poste o Ferrovie hanno ovviamente un loro uomo sul posto: la società guidata da Mario Moretti, per dire, deve essere certa che i finanziamenti da cui dipende siano effettivamente stanziati e quindi presidia il ministero delle Infrastrutture prima e il Parlamento poi (missione compiuta anche quest’anno).
Ci sono poi gli inviati dei ministeri. Quello della Difesa si occupa tanto dei militari veri e propri quanto dell’industria del settore: a questo giro, ad esempio, i primi hanno incassato 100 milioni extra per il 2014 e altri cento da dividere con le altre forze di polizia, i secondi un piano pluriennale di spesa in armamenti.
Ci sono poi i lobbisti delle tv private e dell’editoria, che si preoccupano dei rispettivi fondi statali, e c’è il mondo dell’energia che è diviso in tre: c’è sempre qualcuno del Gestore dei mercati elettrici (Gme), altri di Assoenergia e qualcuno pure di Energia Concorrente, che poi sarebbe l’associazione a cui aderisce Sorgenia di Carlo De Benedetti che ha strappato un emendamento per risolvere un contenzioso sugli oneri urbanistici con un comune del lodigiano (un risparmio potenziale di 22 milioni di euro).
Non mancano, ovviamente, gli uomini dell’Abi, l’associazione bancaria italiana, i veri trionfatori di questa sessione di bilancio tra detrazioni sulle sofferenze velocizzate (da 18 anni a cinque) e rivalutazione delle quote di Bankitalia con relativa aliquota di favore. La lobby del gioco - a partire da Sistema Gioco Italia di Confindustria - pure è sempre presente in forze in Parlamento: tra concessioni e trattamento fiscale i fronti aperti sono molti (anche se l’emendamento per spaventare regioni e comuni tentati dalla guerra alle slot, come vi raccontiamo qui accanto, probabilmente alla fine verrà cancellato).
Non manca il mondo assicurativo, anche se Ania preferisce lavorare direttamente col ministero: dopo il regalo del governo Monti che ha nei fatti reso irrisarcibili molti infortuni di piccola entità (norma anti-“colpo di frusta”), oggi l’esecutivo Letta gli regala per decreto il mercato dell’autoriparazione grazie all’obbligo di far riparare la macchina solo nelle carrozzerie convenzionate. Gli interessati, nel senso dei carrozzieri, iniziano a gennaio una mobilitazione nazionale. Si può dire che anche loro siano una lobby, però non efficace come quella della loro controparte.

Corriere 20.12.13
Governo accerchiato anche dalle tensioni che lievitano nel Pd
di Massimo Franco


Per Matteo Renzi si sta profilando una doppia sfida. La prima, tutta politica, è con il governo di Enrico Letta e con quello che resta delle «larghe intese». L’altra, per paradosso più difficile, è culturale e tenta di affrontare e cambiare una mentalità diffusa a sinistra: l’esempio più eclatante riguarda i rapporti con la Cgil, che ieri si sono misurati sul «totem ideologico», come lo chiama il segretario del Pd, dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sui licenziamenti. «È un problema intorno al quale danzano i soliti addetti ai lavori», lontani «dalle realtà concrete. Ma il Pd non è la Cgil», sostiene Renzi. Si tratta di uno dei fronti sui quali nelle prossime settimane emergerà lo spartiacque all’interno del partito; e si giocherà il futuro della legislatura, perché le divisioni del Pd si scaricano su Palazzo Chigi. A questo si sommano le tensioni tra Letta e la Confindustria di Giorgio Squinzi; e quelle sulle unioni civili, che il sindaco di Firenze ha proposto tra i malumori dei settori legati alle gerarchie cattoliche.
Le manovre e le convergenze più insidiose, tuttavia, sono sulla riforma elettorale. Lo scontro che si delinea non riguarda soltanto il tipo di sistema da scegliere ma le alleanze da trovare in Parlamento. Lo schema renziano è semplice. Si tratterebbe di abbozzare uno schema bipolare che permetta di sapere subito dopo le elezioni chi ha vinto e chi ha perso. Il problema è come riuscirci quando si hanno alle Camere tre tronconi prodotti dal voto del febbraio scorso: Pd, M5S e FI, percepiti dal governo come «tre opposizioni» da quando Renzi è segretario. Si avverte una resistenza silenziosa a semplificare gli schieramenti a favore di un maggioritario sul quale solo sulla carta esiste un accordo generale. Anche perché il tema della riforma incrocia quello del finanziamento ai partiti. E le polemiche tra il nuovo vertice del Pd e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo sui tagli ai costi della politica irrigidiscono le posizioni.
Renzi chiede «guardia alta» sul sistema elettorale. E teorizza un accordo «con chi ci sta», insistendo sulla possibilità di trattare e trovare un compromesso anche con Forza Italia e l’M5S: un’impostazione corretta perché tende a superare i confini della maggioranza. Ma irrita il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, prefigurando «larghe intese» ostili e non coerenti con la coalizione di governo; e risvegliando il sospetto che il segretario del Pd lavori alla caduta del premier Enrico Letta. Un «abbraccio Renzi-Berlusconi potrebbe essere mortale per il governo», si fa sapere. La priorità dev’essere quella di una legge concordata nella maggioranza. Non bastasse, rimane sullo sfondo la sensazione sgradevole di un attrito istituzionale col Senato, dopo il passaggio della riforma a Montecitorio.
La presidente della Camera, Laura Boldrini, ieri è tornata a negare qualunque contrasto, e ha chiesto di uscire dalla logica di scontro che finora ha impedito perfino di mettere giù un testo condiviso. Berlusconi e Grillo trattano con il Pd, ma intanto prendono tempo. E tatticamente continuano ad accreditare, se non elezioni anticipate, una crisi di governo per l’anno prossimo. È l’unico modo per tenere i parlamentari in mobilitazione permanente, e arginare spinte centrifughe. La visita a sorpresa fatta ieri a Roma da Gianroberto Casaleggio, l’«ideologo» dell’ M5S, è indicativa. Ai suoi gruppi parlamentari in Senato, dove nei mesi scorsi è emerso più volte il malumore verso Grillo e i suoi metodi autoritari, Casaleggio ha detto che sono stati commessi errori da tutti; e che il governo non sarà cambiato quest’anno ma «il prossimo».
In realtà, l’unico appuntamento elettorale certo è quello delle Europee di primavera. E il tentativo è di contrastare l’ascesa delle forze populiste ed euroscettiche. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, addita quella scadenza come uno spartiacque tra la fase in cui l’Ue ha perseguito solo una politica di rigore dei conti economici, e una nuova stagione dedicata a promuovere la ripresa economica. Filtra inoltre una notizia che, se confermata, assumerebbe anche valore simbolico: la possibilità che Mario Monti assuma un incarico in Europa. Il premier del governo dei tecnici e della linea del rigore avrebbe ricevuto la proposta di presiedere un gruppo dell’Ue chiamato a finanziare le istituzioni europee. Significherebbe che Scelta civica, in perdita di consensi, non ha più un leader.

Corriere 20.12.13
Nella proposta sulle unioni civili alla fine spunta l’adozione
Divisi gli uomini del sindaco
di Alessandro Trocino


ROMA — «Adozione». La parola più temuta alla fine è spuntata nel disegno di legge presentato dal senatore renziano Andrea Marcucci e dalla senatrice di Scelta civica Linda Lanzillotta. Nella forma più blanda, quella della cosiddetta stepchild adoption , ovvero l’adozione del bambino che vive in una coppia dello stesso sesso, ma è figlio solo di uno dei due. Ma basta questo per provocare un’ondata di gelo nel Pd.
Il quotidiano cattolico Avvenire ha dedicato una pagina all’argomento «unioni», segnalando i «mal di pancia» nel Pd e lanciando una sorta di monito. Su Europa la senatrice pd Emma Fattorini definisce «grave e incivile» che non ci sia nessun riconoscimento per le coppie gay, ma avverte dal rischio del «bipolarismo etico», con uno scontro tra la richiesta «indiscriminata» di diritti civili da parte dei laici e l’intransigenza dei cattolici, allora guidata da Camillo Ruini.
Il rischio c’è. Ma c’è anche la novità Renzi. È stato lui a lanciare il modello della civil partnership all’inglese (ieri diventato alla tedesca). E a citare la stepchild adoption . Ma non tutti i renziani sono con lui. Basta sentire Stefano Lepri, vicecapogruppo pd al Senato: «È giusto regolare le unioni gay, ma senza registri. Basta un contratto di tipo privatistico». Per il resto, invece, nulla da fare: «Sì, sono d’accordo con Alfano, anche se non si è inventato nulla, sono millenni che la società si regge su questa famiglia: un uomo e una donna e i figli». Dunque, per i gay, no al matrimonio e no all’adozione. E quella interna? «Mi pare molto discutibile, bisogna mettere al centro il bambino. Io sto al vecchio testo della Bindi». Nel testo Marcucci-Lanzillotta, che non ha l’imprimatur ufficiale di Renzi, si va oltre. E si spiega: «In caso di unione civile la parte contraente è considerata genitore del figlio dell’altra parte fin dal momento del concepimento in costanza di unione civile, anche quando il concepimento avviene mediante il ricorso a tecniche di riproduzione medicalmente assistita».
Rosy Bindi non chiude: «Sono pronta a una valutazione con mentalità aperta, del resto ho iniziato io questo processo di riconoscimento delle unioni civili. Quanto all’adozione all’interno della coppia se ne può parlare, bisogna vedere come è fatta». Ma per il resto è pessimista: «Mi sembra difficile fare accettare questo tema al Nuovo centrodestra, che mi pare più rigido di Forza Italia». Trovare una maggioranza fuori? «Beh, mi pare complicato il doppio registro. Si dichiara a gran voce che si sostiene il governo e poi si pongono questi temi divisivi, dalle unioni alla Bossi-Fini. Mi chiedo se sono le parole o i fatti che contano. A parole si sostiene il governo, con i fatti mi viene il dubbio che si voglia fare il contrario».
Insomma, il dubbio è che Renzi voglia picconare indirettamente l’esecutivo, lanciando temi sgraditi ai partner di Enrico Letta. Temi che aprono invece delle brecce in Forza Italia. Oltre al solito Giancarlo Galan, ieri si è fatto sentire Sandro Bondi: «Sono d’accordo con Renzi, l’Italia si deve liberare da un certo bigottismo e veteroclericalismo».
Prima di trovare una maggioranza fuori, Renzi deve convincere il Pd. E i suoi. Luigi Bobba, ex presidente Acli, è perplesso: «Bisogna distinguere convivenze etero e gay. E poi basta il riconoscimento privatistico dei diritti, senza troppe bandiere. Ricordiamoci dei diritti dei bambini. E della famiglia. Renzi lo ha detto: il fondo per la famiglia è di sei volte inferiore a quello dei giornalisti. Ogni anno nascono 120 mila bambini in stato di povertà assoluta. Mi concentrerei di più su questa emergenza che sulle unioni».

Repubblica 20.12.13
“I comuni sono allo stremo portiamo lo Stato in tribunale”
Marino: non posso più garantire i servizi
Negli ultimi anni alle città sono stati sottratti trasferimenti per oltre 8 miliardi, nessuno è stato trattato così
intervista di Giovanna Vitale


ROMA — «I tagli in Italia sono come le tasse, sembrano colpire sempre gli stessi soggetti. Le tasse sui i redditi fissi, i tagli ai comuni. Forse perché sono più lontani dai palazzi del potere centrale e vicini ai problemi della gente». Il sindaco di Roma Ignazio Marino è determinato: «Siamo pronti a dare battaglia. Il governo ci deve ascoltare. Negli ultimi anni alle città sono stati sottratti trasferimenti per oltre 8 miliardi, nessun altra istituzione ha subito misure tanto draconiane. È a rischio la tenuta del Paese».
Che vuol dire per voi sindaci rinunciare a 8 miliardi?
«Significa migliaia di posti in meno negli asili nido, decine di migliaia di buche non riparate nelle strade; linee di autobus cancellate; assistenza alle persone fragili azzerata. Noi quest’anno, a Roma, abbiamo fatto i salti mortali per non toccare il sociale, ma non possiamo garantire per l’anno prossimo. Si tratta di risorse che servono per pagare i servizi essenziali. Qui si sta giocando con la carne viva degli italiani. Che sono già allo stremo e non possono sopportare altri sacrifici: pena la rivolta sociale».
Qual è la vostra strategia per contenere il danno?
«Intanto speriamo nell’intervento del premier e del presidente Napolitano, ai quali ci siamo appellati perché si approvi entro fine anno una manovra correttiva. E il 29 gennaio terremo a Roma l’assemblea straordinaria dei sindaci per valutare le decisioni governo e del Parlamento e assumere le iniziative conseguenti».
Quali, se resterete inascoltati?
«Potremmo anche arrivare a una conflittualità con lo Stato, che porterà i comuni a far valere le proprie ragioni in tribunale. A partire dai crediti insoluti vantati nei confronti dell’amministrazione centrale».
Che tipo di crediti?
«Per esempio le risorse anticipate, e non rimborsate, per il funzionamento della giustizia. Lo sa che sono i comuni a sostenere le pulizie dei tribunali? Eppure quella è una funzione dello Stato».
Si rende conto però che la coperta è corta? Dove e come pensa di reperire le risorse che l’Anci chiede indietro?
«Io una mia idea ce l’ho, anche se innervosisce tanti: ci sono dei settori nel nostro paese che non si considera mai di tagliare, ad esempio i costi della difesa. Se noi chiedessimo agli italiani: riduciamo le spese per i nuovi caccia bombardieri e le navi da guerra oppure gli asili nido e l’assistenza agli anziani? Non credo ci sarebbero dubbi sulla risposta».
È una polemica antica e ancora insoluta, mentre il tempo stringe: cosa farete adesso?
«Le strade sono due: o si alzano le aliquote al 3,5 per mille sulla prima casa e all’11,6 sulle seconde, che la Legge di Stabilità ha invece fissato al 2,5 e al 10,6, oppure si trovano altre compensazioni che permettano ai comuni di recuperare almeno un miliardo e mezzo. Tertium non datur, a meno di non voler ammazzare la gente ».
Ma i comuni non possono rivalersi sfruttando la leva della “service tax”?
«Un’altra bella favoletta del governo. Si è detto: la service tax è vostra, l’imposta servirà ai comuni per fornire migliori servizi ai cittadini. Peccato che poi le aliquote vengano decise dal governo e dal parlamento. E mentre sull’Imu i comuni potevano incidere, su questa no. E così va a farsi benedire pure il principio di autonomia fiscale. Noi comuni siamo trattati come meri ufficiali pagatori: dobbiamo fornire servizi con meno soldi e non contare nulla al tavolo delle trattative. È inaccettabile».

il Fatto 20.12.13
Trattative
Art. 18 e legge elettorale guai in arrivo per Renzi
di Wanda Marra


Come si fa a fare la legge elettorale in un mese? Renzi tratta con Berlusconi, ma se la riforma la fa con lui salta il governo. E una nuova maggioranza per varare la legge con chi la fa, con Forza Italia? Significa che si va a votare col proporzionale”. Parola di un bersaniano. Dopo i primi dieci giorni di annunci scoppiettanti e bagni di folla entusiasta, per Matteo Renzi sembra arrivato il momento di toccare terra. Sulla legge elettorale, la soluzione non è facile, anche se la linea è parlare con tutti, da B. ai Cinque Stelle. I contatti con Berlusconi continuano: ieri il sindaco ha sentito Denis Verdini. Ma davvero alla fine si potrà permettere di fare una legge (in questo caso il Mattarellum corretto con premio di maggioranza) con Berlusconi? E in questo caso, “davvero Alfano farebbe cadere il governo? Mah”, per dirla con la Boschi. Difficile che possa permetterselo. Spiega Francesco Sanna, consigliere di Enrico Letta, ed entrato in direzione in quota Renzi, “è il momento in cui ognuno alza il tiro. Alfano dice che vuole la legge dei sindaci, il doppio turno di coalizione. Ma non spiega se prima vuole fare una riforma in senso presidenziale”. Insomma, le trattative continuano, la soluzione politica non s’intravede. Ieri la Boschi è salita al Colle per parlare con Napolitano. “Sono stata onorata di essere ricevuta dal Presidente. Voleva evidentemente anche conoscere uno dei volti nuovi del Pd”. L’incontro, dice, “è andato bene. Abbiamo parlato a lungo dei vari sistemi elettorali possibili e anche in generale delle riforme. No, lui non ha interferito in nessun modo, non ha espresso preferenza per l’uno o per l’altro. E no, non ha neanche spinto per fare la legge a maggioranza. È stato molto carino”. Insomma, un incontro distensivo, in cui i due evidentemente più che scontrarsi si sono in qualche modo rassicurati. Dopo Napolitano, la Boschi ha incontrato anche Doris Lo Moro, che era stata relatrice della riforma in Senato. “Le ho spiegato quali problemi ci sono lì, a partire dai numeri”, dice lei. Spiega ancora Sanna: “Prima di arrivare a una stretta finale della trattativa, bisognerà convocare gli organi direttivi del Pd, oltre la segreteria”. E poi incalza anche l’M5s: “Ma loro ci starebbero a fare una legge, o si vogliono tenere il proporzionale?”. Tra l’altro in Commissione Affari costituzionali alla Camera si deve nominare un relatore: in ballo c’è il berlusconiano Sisto, per ora il Pd non approva e non s’oppone.
LA STRADA di Matteo in questo momento sembra lastricata di ostacoli di varia natura. Anche sul lavoro, il neo segretario dice, ma non spiega. “È venuto subito fuori l'articolo 18. Ma è un totem ideologico attorno al quale danzano i soliti addetti ai lavori che non si preoccupano dei problemi ma fanno solo discussioni ideologiche" , ha detto ieri sera al Tg4. La stessa linea tenuta in segreteria. L’obiettivo non è l'articolo 18 ma "creare lavoro" in sé, con norme che semplifichino le assunzioni e i centri per l’impiego e misure come l’indennità di disoccupazione. Se Damiano plaude al mantenimento dello Statuto dei lavoratori così com’è, Squinzi la interpreta in maniera opposto. E allora Renzi per cercare di non rimanere stritolato da volontà opposte nega paternità di proposte, si tiene sul generico. Il sistema più ampio è ancora in fase di studio, ma le barricate sono garantite. Anche per i marziani la vita terrestre non è facile.

Corriere 20.12.15
Lo sfogo del leader sui «professionisti dell’articolo 18»
«Non ho totem, la mia un’altra cultura»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Matteo Renzi è un tipo pragmatico. Fin troppo. Se ne sono accorti Marianna Madia e Filippo Taddei, ai quali, senza perdersi in troppe parole, il segretario ha affidato la «questione lavoro», ne ha avuto la riprova,conoscendolo da più tempo, la povera Maria Elena Boschi che ieri faceva avanti indietro per la Camera con dei faldoni, tutta intenta a studiare la pratica «riforme elettorali».
Il segretario del Partito democratico non vuole perdere tempo, ma nemmeno bruciarlo per un nonnulla. Ieri è stato chiaro. Anzi, di più: «A gennaio nessuno si può nascondere dietro alibi, scuse o presunte emergenze: ci saranno dei punti di programma con dei tempi precisi. Il patto alla tedesca funziona così, sennò è inutile farlo. Un’unica cosa è certa: noi non galleggeremo in attesa che si apra il semestre europeo». Anche perché come si apre il semestre si può chiudere la legislatura, quindi è inutile portarla troppo avanti se no non si combina niente.
Renzi ha deciso che per ora si procede. E chi se ne importa se Denis Verdini lo ha chiamato e poi ha propalato la notizia ai quattro venti. Per il leader del Partito democratico «non esistono totem». Sulla riforma del sistema elettorale come sulla legge del mercato del lavoro.
«Io — si è sfogato ieri con i suoi il segretario del Pd — non ho totem da abbattere né da erigere, appartengo a un’altra cultura». Perciò gli ha dato fastidio la levata di scudi che c’è stata sull’articolo 18. «Peraltro — ha spiegato ai compagni di partito — è una delle prime cose che ho detto, quando ho fatto il mio discorso da segretario: non voglio ricominciare una battaglia di principio, senza avere bene chiaro in testa se serva o non serva ad aumentare l’occupazione. Perché questo è il nostro vero problema. È inutile raccontarci che il Pil aumenta dello 0,00000005 per cento quando poi tutti gli indicatori ci raccontano che i giovani senza lavoro nel 2014 aumenteranno. È questo il vero segnale della mancata ripresa».
E allora? E allora il segretario del Partito democratico ha spiegato chiaro e tondo ai suoi come la pensa: «Io non ne posso più dei professionisti dell’articolo 18». Intendendo per tali coloro che lo difendono o lo attaccano a prescindere. È un altro l’approccio che vorrebbe avere Renzi. È un’altra la storia che vorrebbe «raccontare» ai «tanti giovani precari che non sanno da chi essere rappresentati».
Ma il leader del Pd si rende conto che il suo modo di fare fatica a trovare strada nella Roma dei palazzi della politica: «So che vorrebbero bloccarmi nella tela del ragno, ma io resisto. E scarto. Dobbiamo essere assolutamente noi del Pd a dettare i tempi».
Lontano da orecchie indiscrete e da curiosità non gradite il nuovo leader del Partito democratico racconta come e perché la sua partita sia diventata più difficile. Tutta colpa del fatto che lui si è intestardito a occupare degli spazi vuoti che prima erano occupati da altre istituzioni, non per volontà di espandersi, ma, semplicemente, perché c‘era il vuoto attorno.
Adesso riassestarsi è difficile per tutti. Persino per chi, come il sindaco di Firenze, non è troppo attento al galateo dei riti di prammatica.
Il partito lo segue. Fino a un certo punto. Naturalmente. Sull’approdo al Pse, ieri, non c’è stato nessuno che ha fiatato. Ma si era in segreteria. È inevitabile che, in un modo o nell’altro, quello sia il traguardo, anche grazie alla revisione della famiglia socialista, che non sarà solo tale, allargherà le sue braccia ai democratici di tutto il mondo e rifarà il tagliando.
Renzi è in attesa di vagliare le candidature. Dovrà usare la scure, l’accetta e il cesello. E forse, alle volte, gli toccherà assecondare anche gli umori e i malumori del partito. Fino a un certo punto. Perché su certi nomi Renzi non vuole sentire storie, giustificazioni o altro. È l’occasione per forgiare il Pd a sua immagine e somiglianza. Il che non sarà facile. Per niente. I nemici si vendicheranno. E infatti gira voce, con una certa insistenza, ma non si sa quale fondatezza, che o i socialisti francesi o l’Spd tedesca, potrebbero offrire un seggio a Massimo D’Alema, fatto fuori, senza troppi complimenti dal segretario nelle liste europee. Scandalo? Perché? Ugo Sposetti, di passaggio a Montecitorio, ricorda quando il politologo Maurice Duverger, nel 1989 fu candidato nelle liste del Pci di Achille Occhetto.

Corriere 20.12.13
La Cgil non si scopre per evitare «l’effetto D’Alema»
Ma c’è chi spera nel «rottamatore» per rinnovare anche il sindacato
di Antonella Baccaro


ROMA — Ieri Susanna Camusso e Matteo Renzi (forse per la prima volta) hanno detto la stessa cosa: «Togliamo l’articolo 18 dal tavolo della riforma del lavoro». Il segretario del Pd ha fiutato subito il pericolo che il suo «Job act» s’impantanasse in un dibattito ideologico ancor prima di prendere forma e non ha esitato a richiamare i suoi a non cadere nel tranello.
Per il leader della Cgil è stato facile a quel punto, dopo aver subito per giorni quasi senza reagire gli attacchi dei renziani, che una volta volevano cancellare i permessi sindacali, un’altra proponevano le primarie anche nel sindacato, è stato agevole, finalmente, trovare un modo per esprimersi senza entrare in contraddizione con Renzi. Perché una cosa è certa: Camusso non ci sta a avallare la tesi che la Cgil sia rimasto l’unico baluardo di opposizione al sindaco di Firenze. Non in questa fase almeno, in cui Renzi è sugli scudi come «rottamatore» e a vestire i panni di chi gli è contro si rischia l’effetto-D’Alema, cioè si finisce per essere additati, a torto o a ragione, come la fonte di tutti i mali, il simbolo di ciò è vecchio.
Perciò, fa capire qualcuno della segreteria della Cgil in corso d’Italia, di Renzi al momento ad alta voce non si discute: «Certo, lo abbiamo fatto il giorno dopo la sua vittoria: era inevitabile. Ma non è che ci riuniamo a parlare di lui o di quello che farà». Anche perché, è il ragionamento, nessuno sa cosa farà veramente Renzi in materia di lavoro. «Alle scorse primarie del Pd — si fa notare — il sindaco di Firenze aveva adottato Pietro Ichino e la sua riforma, e a noi non andava affatto bene. Ora però che Ichino sta in un altro partito, Renzi sta ancora scegliendo quale modello gli piace. Allora lasciamolo lavorare».
Lo schema è dunque quello del «wait and see». Anche se qualche brivido è corso nella segreteria quando prima delle primarie del Pd Carla Cantone, leader dei pensionati Cgil, ha inviato agli iscritti una lettera di sostegno alla candidatura dell’oppositore di Renzi: Gianni Cuperlo. La mossa è stata subito bollata come improvvida e non rappresentativa delle posizioni del maggior sindacato. Che al momento appare blindato: al prossimo congresso, che si svolgerà a Rimini dal 6 all’8 maggio, la rielezione di Susanna Camusso è scontata perché alla sua mozione non se ne opporrà un’altra, almeno non quella del leader della Fiom, Maurizio Landini, che ha appoggiato il documento di maggioranza e si limiterà a proporre emendamenti. L’opposizione perciò sarà rappresentata dall’area di estrema sinistra «Rete 28 aprile», guidata da Giorgio Cremaschi, ex Fiom ora tra i pensionati Spi. Insomma, non facciamoci del male.
I fedelissimi di Camusso pensano che Renzi andrà a sbattere da solo: è soltanto questione di tempo. Il segretario, dopo la consueta «luna di miele» con tutto l’establishment e con l’opinione pubblica, dovrà svelare i suoi piani scendendo nel dettaglio. E allora, dicono quelli che non lo approvano, si vedrà che è solo un «bluff», che le sue idee rivoluzionarie si trasformeranno nelle solite comode mediazioni. Allora le critiche pioveranno da tutte le parti.
Retropensieri che non traspaiono al momento, anche perché Camusso non vuole dare nessun vantaggio a Landini, che con Renzi sta già flirtando, pur sapendo di dovercisi scontrare su alcuni temi. Come quell’articolo 18 che Renzi ora toglie dal tavolo anche per poter giocare di sponda con Landini, spaccando l’apparente unità della Cgil.
Ma se il sindacato per ora sembra marciare compatto sotto la guida di Camusso, se nessun cigiellino è salito ufficialmente sul carro del vincitore delle primarie, non vuol dire che all’interno delle segrete stanze non vi sia chi speri in Renzi, o meglio in un effetto-Renzi. Spiega la fonte della segreteria: «Il sindacato così com’è, è destinato a essere marginalizzato ma invece di tentare di rinnovarsi, come ha fatto il Pd, si è arroccato e ha serrato i ranghi. L’unica possibilità che abbiamo — aggiunge — è che Renzi venga a scrollare anche il nostro albero, creando le condizioni per il nostro rinnovamento».

la candidata Pd alla presidenza della Regione è indagata per peculato
l’Unità 20.12.13
I democratici sardi si dividono su Barracciu, lunedì la direzione
di Davide Madeddu


CAGLIARI Qualcuno spera in un «passo indietro spontaneo», qualche altro ancora sta a guardare. Ma la discussione non è ancora cominciata.
Motivo del contendere che anima il popolo del Partito democratico sardo è la candidatura alla carica di presidente della Regione di Francesca Barracciu, vincitrice delle primarie del centrosinistra con oltre cinquantamila preferenze ma rimasta coinvolta nell’inchiesta sull’uso dei fondi ai gruppi portata avanti dalla Procura della Repubblica di Cagliari. Un fatto che aveva visto gli alleati, con Sel in testa, ma anche una parte della dirigenza del Pd chiedere il cosiddetto «passo indietro». Richiesta respinta al mittente dalla candidata anche nei giorni scorsi ma che ora è finita sul tavolo del nuovo segretario del Pd Matteo Renzi.
La discussione è in corso e per i prossimi giorni, qualcuno ipotizza già lunedì, potrebbe svolgersi una direzione regionale cui dovrebbe partecipare uno degli esponenti della segretaria nazionale del Partito. Una decisione presa anche alla luce dell’incontro che si è svolto nei giorni scorsi a Roma, cui hanno partecipato Stefano Bonaccini, Luca Lotti, il segretario regionale del Pd Silvio Lai e la stessa Barracciu. dì si capirà come volgerà la situazione e quale sarà lo scenario. I tempi per eventuali decisioni sono comunque brevi. Le elezioni dovrebbero essere convocate, ancora non c’è il decreto ma dovrebbe essere una questione di giorni, il prossimo 23 febbraio. Che vuol dire chiusura delle liste un mese prima, con tutto quello che comporta l’impegno per la presentazione dei candidati e avvio di una campagna elettorale.

il Fatto 20.12.13
Qui Catanzaro
Pd, pasticciaccio alla calabrese
Come in Urss Un solo nome per l’elezione
di Marcello Longo


CONGRESSI E PRIMARIE anomali in Calabria. A Catanzaro l’elezione del segretario provinciale del Pd, che si è svolta a novembre, è stata accompagnata da polemiche: in dieci circoli sulla scheda c’era il nome di un solo candidato, quello che poi ha vinto. La sua nomina è stata ufficializzata due giorni fa, dopo rinvii vari e ricorsi. A Cosenza durante le primarie si è arrivati, in un seggio, alla spartizione dei voti da distribuire a ogni candidato: 150 a Renzi, altrettanti a Cuperlo e 50 a Civati. Salvo poi diminuire le cifre, a causa dei due euro da pagare per ogni voto. I civatiani hanno fatto ricorso alla commissione regionale per invalidare il risultato.
   Tre candidati si contendono la poltrona di segretario provinciale, ma sulle schede per votarli c’è il nome di uno solo. È la più curiosa fra le anomalie del congresso del Pd di Catanzaro, cominciato a novembre e concluso solo due giorni fa, dopo una lunga guerra di polemiche, ricorsi e rinvii. Mercoledì scorso è stato proclamato il nuovo segretario: Enzo Bruno, ex capogruppo in Consiglio provinciale, sostenuto trasversalmente dall’establishment locale del partito. A benedire la sua elezione è arrivato pure Davide Faraone, il responsabile Welfare della segreteria di Matteo Renzi.
   IN REALTÀ, al congresso catanzarese i sostenitori del sindaco di Firenze si sono frammentati e schierati un po’ con tutti. Quelli della “prima ora” con Francesco Muraca, presidente del Consiglio comunale di Lamezia Terme. Altri con Domenico Giampà, 27enne segretario dei Giovani democratici. Altri ancora, assieme ai cuperliani, con il vincente Bruno eletto con il 58 per cento delle preferenze. Sul congresso molte ombre: dal tesseramento gonfiato di Pianopoli (da 130 a 249 iscritti in un anno) ai presunti infiltrati di altre forze politiche. L’anomalia più curiosa è quella del “candidato unico”. Le schede per l’elezione del nuovo segretario distribuite nei circoli avevano tre spazi da compilare con i nomi dei candidati e delle liste collegate. Su uno dei tre il militante Pd avrebbe dovuto tracciare una croce. Ma in dieci circoli, la scheda riportava solo un nome: Enzo Bruno. E in un paio di sezioni i candidati indicati erano due anziché tre. “Questo meccanismo è la rappresentazione plastica dell’arroganza dei capibastone che hanno portato la gente a votare, decidendo a priori che esisteva un solo candidato”, dice al Fatto Pasquale Squillace, segretario del circolo di Catanzaro Centro. Il caso è arrivato alla Commissione nazionale di garanzia del Pd. L’organismo presieduto da Giovanni Berlinguer ha confermato l’irregolarità delle schede e “richiamato” la commissione provinciale per il congresso che ha poi annullato il voto. Ma una terza commissione, quella regionale, ha deciso di ignorare le anomalie, convalidando l’elezione e convocando l’assemblea provinciale di due giorni fa perla proclamazione di Enzo Bruno. Ieri il Fatto ha provato più volte a contattare il nuovo segretario, senza successo. Già a ottobre, quando si ufficializzavano le candidature, il suo nome aveva suscitato malumori nel partito. Nel 2011 è stato condannato in primo grado a un anno per truffa, nell’ambito di un’inchiesta sui rimborsi per i consiglieri provinciali: una spesa illegittima di 350 euro per notti in albergo con la famiglia. Il segretario del circolo Catanzaro Lido, Tonino Tarantino, lo aveva segnalato ai vertici nazionali del Pd: “Non ha i requisiti etici per essere candidato” .

brogli alle primarie del Pd?
il Fatto 20.12.13
Qui Cosenza
“Facciamo contenti tutti: 150, 150 e 50”
di Emmanuele Lentini


In un seggio di Cosenza, durante le primarie del Pd, ha vinto la mozione “contenti tutti”: aggiungiamo 150 voti bonus a Cuperlo, 150 a Renzi e 50 a Civati. Peccato che al momento di aumentare i voti, i promotori della mozione-tarocco si siano resi conto di un particolare: “I due euro per ogni scheda, chi li mette?”. E si parla di 350 voti fantasma, mica spicci. Allora meglio ridurre. “Facciamo 70 a Cuperlo, 70 a Renzi e 30 a Civati”. Così risparmiamo tutti. Il racconto di uno basito scrutatore pro Ci-vati non è rimasto circoscritto al seggio numero 4 di via Popilia, a Cosenza. Ma è andato a finire dritto sul tavolo della commissione regionale (quella provinciale ha bocciato il ricorso), che valuterà se annullare o meno le elezioni in quel seggio. Anche perché lo scrutatore Francesco Bruno, il civatiano, ha raccontato un altro particolare: all’inizio i renziani hanno accusato i cuperliani di aver inbucato, prima dell’apertura del seggio, schede pro-Cuperlo in un doppiofondo. Il trucco, degno di David Copperfield, non è piaciuto. Ma un punto d’incontro lo si è trovato: voti bonus per tutti. Bruno chiude sconsolato la denuncia: “Gli iscritti al Pd che hanno votato vengono fatti passare da 51 a circa 230, in modo da risparmiare la quota di due euro per i voti fittizi. La restante somma per coprire i voti viene versata dai rappresentanti delle mozioni Cuperlo e Renzi”.
NON È L’UNICO CASO di presunti brogli a Cosenza: Giuseppe Caporale, garante regionale della mozione pro Civati, ha chiesto l’annullamento di un’altra votazione alla commissione provinciale del Pd. Bocciato. Caporale non ha mollato: ora toccherà alla commissione regionale valutare il caso. Anche nel seggio 5 è un civatiano, Costantino Covelli, ad aver notato qualcosa di strano il giorno dell’Immacolata. In quel seggio, allestito in un centro anziani, hanno votato in più di 900. Un po’ troppi per i registri, che non avrebbero potuto contenere tanti nominativi. Lì ha vinto Cuperlo, che in città ha incassato 1300 voti e ha battuto Renzi di circa 300 lunghezze. Civati ne ha presi poco più di 200. Covelli ha seguito le operazioni a urne aperte. Poi, in serata, dopo la chiusura, ha chiamato Caporale. Insieme sono andati alla federazione provinciale di Cosenza. Volevano controllare meglio i registri, nel frattempo portati da altri. Dovevano essere lì, ma non c’erano, spiegano ora Caporale e Covelli. Che fine hanno fatto? Si sono materializzati il giorno successivo. Dall’area Cuperlo e Renzi, a Cosenza, rispediscono le accuse al mittente, facendo notare che in via Popilia, il verbale di chiusura del seggio è stato sottoscritto anche da un civatiano. I renziani spiegano di aver mandato ai seggi “vigilantes”, perché “qui può succedere di tutto”. L’ultima parola spetta alla commissione regionale.

figuracce Pd
Repubblica 20.12.13
La dirigente Pd incontra il titolare dello Sviluppo ma cercava quello del Lavoro
Lei smentisce: “Ho solo sbagliato palazzo, non ministro”
L’ironia della rete per la gaffe della Madia “Vede Zanonato, lo scambia per Giovannini”
di Sebastiano Messina


ROMA — Può capitare a tutti di sbagliare palazzo. È uno di quegli errori che a Roma, la città dei mille palazzi, si perdonano a chiunque. A meno che tu non sia una deputata giovane e bella con una rapidissima carriera alle spalle e un posto appena conquistato nella segreteria di Matteo Renzi. Se n’è accorta Marianna Madia, trentatreenne neoresponsabile del Lavoro del Partito democratico, che da ieri mattina è per tutti la protagonista della gaffe del giorno: avrebbe scambiato il ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, per quello del Lavoro, Enrico Giovannini.
Avrebbe: perché lei nega. Eppure il racconto dell’equivoco, apparso sul Tempo di ieri, era piuttosto circostanziato. La giovane “ministra-ombra” renziana sarebbe apparsa senza appuntamento nell’anticamera di Zanonato, che l’avrebbe fatta accomodare subito nella sua stanza, restando però “tra il sorpreso e il divertito” — scrive il cronista del Tempo— quando laMadia gli ha chiesto “dettagli sulle politiche del lavoro”. “Sopresa e divertimento” da una parte, “sorpresa e imbarazzo” dall’altra, quando Zanonato avrebbe garbatamente fatto presente alla giovane deputata che lui non aveva competenza su quella materia. «Ma scusa, ministro, non sei te che ti occupi del Lavoro?» avrebbe a quel punto domandato la giovane deputata, vedendosi indicare per tutta risposta il ministero che si trova dall’altra parte di via Veneto: quello del Lavoro, appunto. E qui, conclude perfidamente il cronista delTempo, «il candido pallore della Madia si è trasformato in un rossore mortificato». L’interessata però nega. Nega risolutamente. «Ho solo sbagliato palazzo, perché sono uno di fronte all’altro, in via Veneto. Palazzo, non ministro! Sono entrata per sbaglio al ministero perlo Sviluppo, anziché al ministero del Lavoro. Ma non ho scambiato Zanonato per Giovannini, che conosco benissimo perché lo vedo spesso in commissione ». Una versione che viene confermata anche dallo staff di Zanonato. Il ministro avrebbe incontrato la Madia per strada, e vedendola imboccare l’ingresso del suo ministero le avrebbe chiesto: «Ma che ci fai da queste parti? Cercavi me?». Dopodiché, appreso che la deputata credeva di salire le scale del ministero di Giovannini, la avrebbe detto che era il palazzo sbagliato, e che doveva bussare dal-l’altra parte della strada.
E anche in questo caso bisogna dire «avrebbe», perché come siano andate effettivamente le cose in questo equivoco buffo del ministero scambiato, non è proprio chiarissimo. Da una parte il dettagliatissimo racconto del giornale, dall’altra le telegrafiche precisazioni dei protagonisti. Fatto sta che ieri contro la Madia si è scatenata tutta l’ironia del popolo di Twitter. «Gaffe terrificante». «Sbaglia ministro e ministero. Segni particolari: non è un genio». «Io non ci credo: sarà il ministero che si è spostato». «Se parli per mezz’ora con un ministro al posto di un altro, non è la geografia che ignori». «Renzi sì che sa premiare il merito e scegliere bene! ».
E già che c’è, qualcuno ricorda la penultima puntata della Madia-story, l’accusa della bersaniana direttrice di Youdem, Chiara Geloni, di aver cambiato corrente troppo disinvoltamente, e soprattutto troppo spesso. Riassume su Twitter Marco Esposito: «Prima Veltroni, poi D’Alema, poi i giovani turchi. Alle parlamentarie con Fassina, ora con Renzi». E stavolta nessuno ricorda la lettera di solidarietà a Marianna di 26 deputate, né la gelida risposta da lei data de visu all’accusatrice Geloni: «Avrei voluto chiamare mia figlia Chiara, ma ora purtroppo dovrò cambiare nome».
Troppa attenzione per un semplice equivoco? Può darsi, ma forse è il pegno che devi accettare di pagare se diventi capolista del Pd alla Camera a 25 anni — confessando candidamente nell’occasione la tua “inesperienza politica” — se hai attraversato il Pd come una meteora, e dopo aver vinto le ultime primarie hai disinvoltamente rivelato che «nel Pd ci sono vere e proprie associazioni a delinquere, sul territorio». Va a finire che poi c’è troppa gente, che aspetta di coglierti in fallo alla prima gaffe.

il Fatto 20.12.12
Dal golpe ai forconi
I camionisti cileni del ‘73 e i nipotini di Piazza del Popolo
di Maurizio Chierici


Si dice che le proteste dei Forconi ricordino la rivolta dei camionisti cileni, quel luglio 1973 paralizzato dallo sciopero apripista del colpo di Stato di Pinochet. Blocco dei trasporti per esasperare la borghesia in un paese lungo 4 mila chilometri. Negozi che si spengono; mancano pane, latte, benzina e le signore di Los Condes (eleganza di palazzi e giardini) battono pentole vuote. In un certo senso, l’esasperazione cilena preannunciava le parole d’ordine del Calvani di piazza del Popolo: cambiare e rovesciare per salvare la patria dal potere infido. Attorno le maschere di Casapound; a Santiago camionisti abbracciati ai neofascisti Patria y Libertad. Allende aveva tagliato le sovvenzioni ai Tir distribuite dai governi della destra dell’imprenditore Jorgec Alessandri e dalla Dc di Eduardo Frei. Malumore consolato dai dollari segreti che arrivano da lontano: trame Nixon-Kissinger per scongiurare il pericolo del socialismo attorno alle miniere di rame. Da noi, negli anni del Popolo della libertà 10 miliardi rallegrarono i serbatoi dei trasportatori per i buoni uffici del sottosegretario Uggé, loro segretario generale. Nessun intrigo internazionale. Benevolenze dell’autarchia corporativa.
LO STRATEGA del boicottaggio cileno si chiamava Leo Vilarin capo della confederazione che riuniva 165 sindacati, 56 mila giganti della strada. Anni dopo parliamo sulla veranda di una piccola casa nel bosco di Alexandra, Virginia, residenza degli agenti Cia.
È scappato dal Cile. Ai militari dava fastidio la presenza del sindacalista infedele. Ha l’aria di un ospite provvisorio. Racconta di essere stato avvertito del colpo di Stato. “Passo la notte ascoltando la radio. Aspetto il proclama della giunta militare. Assieme ai dirigenti della corporazione ho respinto le pressioni del governo Allende grazie ai contributi di sindacati nordamericani”. Quali? provo a chiedere. Allarga le mani: non ricorda il nome. Ma esiste un’altra versione. Orlando Sáenz, presidente della Confindustria cilena, raccontava all’ombra della dittatura come avventurosamente portava i soldi a Villarin. “Dollari che finivano in 5 conti aperti in Europa, versati dall’Itt e altre multinazionali”. Itt, telefoni e telegrafi, monopolio Usa nel Cile minacciato dalla nazionalizzazione. “Se gli imprenditori cambiano una certa quantità di moneta americana nessuno prende nota. Normale per chi compra ed esporta in paesi lontani. Vendevamo i dollari a proprietari cileni. Passaggi nelle banche d’oltremare. A Santiago ritiravo l’equivalente in pesos. Con qualche spavento. Una volta la polizia ha perquisito i passeggeri dell’aereo. Nella borsa avevo il foglietto col numero dei conti. L’ho masticato”, e ride per la ragazzata.
Villarin scuote la testa. “Mai incontrato Sáenz. Racconti da ubriaco”. Adesso come vive? “I sindacati mi danno una mano”. Non mi pare sia il bosco dei sindacati ... “Qui si mescolano realtà diverse”. Continua il ricordo: “Quella notte preparo il discorso suggerito dall’ambasciata americana. Dovevo leggerlo il giorno dopo, 12 settembre ‘73...”. Lo recita a occhi chiusi: “Sospendiamo ogni agitazione avendo piena fiducia nel governo militare. Ribadiamo la nostra soddisfazione per aver contribuito più d’ogni altro alla caduta del governo”.
Mai incontrato Allende? “Cinque volte. Proponevo un accordo. Rispondeva: troppo impegnativo. Ne parliamo fra qualche mese. Era fine agosto. Il contatto dell’ambasciata Usa: lascia perdere, è tutto deciso”. Mani straniere robuste, mani italiane (speriamo) che s’agitano solo in piazza. Il generale in pensione Pappalardo non è Pinochet.

Repubblica 20.12.13
Ecco come è nata l’anomalia italiana
di Marco Revelli


Nel pieno dell’attuale “crisi di sistema”, la riproposizione di questa “anomala” Storia d’Italia (ma forse dovremmo dire di questa “storia dell’anomalia italiana”), costituisce un’utile occasione per tentare di “fare ordine”, quantomeno nelle idee. Essa rappresenta, a tutt’oggi, il più serio tentativo – forse l’unico, nella sua ambizione paradigmatica – di leggere le convulsioni politiche del presente, definite senza mezzi termini come transizione a una “Terza repubblica” in fieri, collocandole nel quadro di una lunga durata più che secolare. I 153 anni (proprio così, perché l’analisi è aggiornata fino a oggi, all’autunno del 2013) che ci separano dall’Unità, scanditi da ben due “crisi di regime”: il passaggio dallo stato liberale al regime fascista dei primi anni Venti e quello dalla dittatura alla democrazia della metà degli anni Quaranta. E da due “crisi di sistema”: la fine della Prima Repubblica e la dissoluzione della Seconda.
La tesi centrale è forte. L’anomalia italiana consisterebbe nella natura invariabilmente “bloccata” del suo sistema politico. Nella permanente assenza di qualsiasi «possibilità di un’alternativa di governo non provocata da un crollo di regime» o comunque da una “crisi organica di sistema”, che trasformerebbe quanto altrove costituisce una fisiologica alternanza di governo in una patologica palingenesi politica e istituzionale. La quale, tuttavia,non ha mai permesso di emendarsi davvero dal vizio d’origine. Pur nella assoluta discontinuità tra i tre tipi di “regime” che si sono succeduti, infatti, un dato essenziale è rimasto costante, e cioè l’impossibilità, nell’ambito di ognuno, del “nucleo dell’opposizione” di farsi governo e del “nucleo di governo” di diventare opposizione se non attraverso una rottura istituzionale. Un “mutamento di regime”, appunto. Con la conseguenza nefasta dell’identificazione dei Governi tout court con lo Stato e la configurazione dell’opposizione in “anti-stato”. Statalizzazione delle forze politiche di governo, e conventio ad excludendum per le opposizioni… Appropriazione monopolistica delle istituzioni – col seguito di corruzione, clientelismo, arroganza in alto – , ed emarginazione, ribellismo, familismo, arte di arrangiarsi in basso… Tutto ciò era già stato espresso esattamente dieci anni or sono, nella prima edizione del volume, nel pieno di quella conclamata “crisi di sistema” che segnò la fine della Prima Repubblica. E’ interessante che venga riproposto ora nelle ampie integrazioni, proprio a seguito di un decennio che avrebbe dovuto segnare l’approdo a una compiuta “democrazia dell’alternanza” e a un bipolarismo più o meno imperfetto nel quale centro-destra e centro-sinistra si sono alternati alla guida del paese.
Evidentemente, si può osservare, quella semplificazione dall’alto, attraverso la leva delle “riforme elettorali”, doveva essere ben fragile; quella superficie polarizzata ben sottile se al di sotto le coalizioni hanno continuato a covare la frammentazione micro-partitica. E si sono mantenute, anzi moltiplicate le pratiche trasformistiche. Se le vocazioni trasversali consociative e ministeriali sono prosperate sotto la finzione linguistica dell’invettiva e della scomunica reciproca. Se le convergenze pragmatiche hanno prevalso, dando vita a politiche di governo quasi indistinguibili e rendendo invisibile ogni alternativa programmatica. Al punto che quando la crisi finanziaria quasi-terminale dell’autunno del 2011 ha affossato l’ultimo governo Berlusconi, è imploso tutto il sistema politico, esattamente come nelle altre, precedenti, “crisi di regime”. E nell’emergenza si è imposto l’intervento “irrituale” di un deus ex machina – il Capo dello Stato – e la formazione di un “governo del Presidente” come già era avvenuto, dieci anni prima, con Scalfaro e i Governi Ciampi e Dini, e prima ancora con i “governi del re” (nel 1922, quando fu chiamato per via extra-parlamentare Benito Mussolini, nel 1943, quando fu sostituito da Badoglio), su su, fino all’invocazione del “ritorno allo statuto” durante la “crisi di fine secolo”… Occorrerebbe discutere a lungo sui molti stimoli che il volume ripropone. Sulla categoria, ad esempio, della “guerra civile ideologica” a cui Salvadori attribuisce una primaria importanza nella genesi dei mali italiani, ed a cui personalmente preferisco quella, gobettiana e apparentemente opposta, della diseducazione nazionale alla pratica del conflitto sociale e delle idee (l’eterno vizio del compromesso e del familismo amorale celato sotto la radicalità verbale dell’invettiva). O sul ruolo che ebbe l’“egemonia moderata” nel Risorgimento – più che non le divisioni tra i suoi protagonisti -, come tara storica che determinò la nascita di uno “Stato senza popolo” denunciata dai democratici radicali. Ma certo la rappresentazione storica del nostro attuale presente, impietosa, realistica nella descrizione della gravità della crisi, soprattutto della tendenziale dissoluzione dei partiti (“prodotti di un amalgama spurio e contraddittorio”, impegnati in una sorta di “guerra delle zanzare”) rimane un punto irrinunciabile da cui iniziare a riflettere.

IL SAGGIO Storia d’Italia Crisi di regime e crisi di sistema, di Massimo L. Salvadori - il Mulino pagg. 240, euro 16

il Fatto 20.12.13
Attici e dimore
Bertone, Giani e la casta del superlusso in Vaticano
di Marco Lillo


Papa Francesco continua a lanciare messaggi inequivocabili sulla Chiesa che immagina intorno a sé. Il 17 dicembre, giorno del suo compleanno, ha invitato alla messa mattutina a Santa Marta e poi alla colazione che ne è seguita, tre clochard, uno dei quali accompagnato dal cane che condivide la sua esistenza randagia nel quartiere vicino a piazza San Pietro.
Alla celebrazione della messa il Papa ha voluto partecipasse anche il personale della Domus Santa Marta per ricreare un clima quanto più possibile familiare. Bergoglio continua a vivere nella Domus mentre l’enorme appartamento papale nel Palazzo Apostolico rimane vuoto, a parte i fugaci passaggi dell’Angelus domenicale . A poca distanza dalla sua dimora, dentro le Mura Leonine, alti prelati e potenti laici della gerarchia vaticana, invece di seguire il suo buon esempio continuano però a comportarsi come prima, peggio di prima.
PER MISURARE la distanza tra la predica del pastore fuori le mura e gli atti delle pecore nel recinto vaticano bisogna fare una passeggiata a Porta Sant’Anna. Gli operai del Gruppo Alfano, una società di Busto Arsizio specializzata in ristrutturazioni di chiese e oratori, stanno ultimando i lavori di ampliamento della dimora del generale Domenico Giani. Il comandante della Gendarmeria Vaticana era dato in partenza verso un alto incarico all’Onu al quale era stato proposto dallo Stato italiano. Dopo che erano uscite le carte relative ai pedinamenti fatti nel territorio italiano dalla Gendarmeria sotto il suo comando, dopo lo scandalo destato dalle conversazioni telefoniche intercettate dalla Procura di Roma nelle quali Giani scriveva su carta intestata agli organi italiani di Polizia per aiutare Monsignor Nunzio Scarano a recuperare 400 mila euro date all’agente dei servizi segreti Giovanni Zito, le sue quotazioni sembravano in ribasso. Era quindi difficile che rimanesse al suo posto di responsabile della sicurezza del papa dopo che si era mostrato così incauto da mettersi a disposizione di un soggetto che, secondo i pm, aveva dato 400 mila euro a un agente dei servizi segreti italiani non per fare opere di bene ma per corromperlo al fine di far rientrare 20 milioni di euro dalla Svizzera. Persino il Papa aveva scaricato il contabile salernitano con una frase mai pronunciata da un pontefice: “Se un monsignore è finito in carcere non è certo perché assomigliava alla Beata Imelda”, come forse pensava Giani quando beveva le sue frottole.
IN VATICANO chi non vuol bene al generale dice che l’unica cosa che hanno in comune Giani e Bergoglio è l’appartenenza onoraria al Rotary. Eppure, invece di levare le tende, Giani ha raddoppiato. Quando era andato ad abitare in territorio italiano in una casetta sull’Aurelia, in molti avevano pensato a un suo progressivo allontanamento. Niente di tutto ciò. Giani ha lasciato il suo appartamento con affaccio su via di Porta Angelica perché è in corso una dispendiosa ristrutturazione.
Da poco sono state tolte le transenne e sopra il terzo piano è comparso all’improvviso un piano nuovo con tre finestre e due ampie vetrate che illuminano una sala con vista. A completare il sopralzo ci sono due bagni nuovi di zecca con una vasca idromassaggio e una terrazza mozzafiato con affaccio sull’Italia e Borgo Pio.
AI TEMPI di papa Ratzinger il generale Giani era costretto a vivere in una casa media in uno dei pochi palazzi grigi con le persiane consunte della Città del Vaticano. Nell’era francescana ha visto estendere la sua dimora e riverniciare il tutto di arancio sgargiante con grondaie in rame e verande in legno esotico. Giani è noto per le sue scorribande investigative in territorio italiano ma quando si tratta di affari personali i confini tornano sacri: se il sopralzo fosse avvenuto due metri dopo, in territorio italiano, saremmo di fronte a un colossale abuso edilizio. Nonostante le transenne (a tutela dei pellegrini che rischiavano di essere colpiti dai calcinacci) si trovino in Italia, in via di Porta Angelica, però, per pochi metri, la casa del gendarme numero uno, (soprannominato Kappa Zero in Vaticano) è in uno Stato estero. Così Sovrintendenza e vigili urbani devono stare a guardare. Come direbbe in dialetto salernitano monsignor Scarano, ’o pesce puzza dalla capa. Uno dei maggiori sponsor di Giani, l’ex Segretario di Stato Tarcisio Bertone, non è stato da meno del suo protetto.
GLI UOMINI di papa Francesco, pur di spedirlo lontano avevano proposto al presidente della Commissione di vigilanza sullo Ior un appartamento lussuoso a San Calisto. L’ex segretario di Stato invece ha preteso una casa nel cuore del Vaticano, nel palazzo San Carlo, di fronte alla celebre pompa di benzina con il rifornimento più economico d’Italia. Anche Bertone non si è accontentato dell’appartamento ordinario abitato in passato dal predecessore di Giani, Camillo Cibin. Da mesi sono in corso i lavori per inglobare l’appartamento vicino e trasformare la residenza in una reggia che si mormora arrivi a 400 metri quadrati.

Repubblica 20.12.13
Vaticano
Il progetto per il coordinamento di giornali e siti web affidato alla McKinsey
E per il ruolo di portavoce del Papa si fa già il nome del direttore di Civiltà cattolica Spadaro
Vaticano, svolta nella comunicazione: nasce una superagenzia
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — Una struttura nuova dedicata alla comunicazione. Un corpo unico dove giornali, siti web e agenzie agiranno in modo integrato. E, forse, un nuovo capo della Sala Stampa vaticana. Cioè, il portavoce del Papa.
Jorge Mario Bergoglio prosegue la sua opera di rinnovamento con l’impeto di uno schiacciasassi. E la sua rivoluzione passa adesso per un altro fronte, delicatissimo e vitale per la Chiesa: quello della stampa e della comunicazione. Anche qui, lo tsunami che colpisce il Vaticano è destinato ad abbattere antiche incrostazioni per proporre un sistema diverso di annunciare la parola di Dio.
Ieri la Commissione d’inchiesta sulle finanze vaticane, dopo una procedura di gara, ha affidato alla multinazionale statunitense McKinsey l’incarico di «fornire una consulenza che contribuisca allo sviluppo di un piano integrato per rendere l’organizzazione dei mezzi di comunicazione della Santa Sede maggiormente funzionale, efficace e moderna ». Nella nota ufficiale la Sala stampa parla di un progetto di consulenza che «avrà lo scopo difornire alla Commissione elementi utili per le opportune raccomandazioni in merito al Santo Padre».
Tradotto, significa che molto presto i mezzi di comunicazione del Vaticano si doteranno di unente unico al quale faranno riferimento. L’intento, rispettando la pluralità e diversità delle voci, è quello di evitare scompensi di comunicazione puntando invece a una linea editoriale chiara e univoca. Un altro obiettivo è anchequello di uniformare le questioni amministrative che riguardano in Sala stampa la concessione degli ambìti accrediti permanenti ai giornalisti che chiedono di lavorare in Vaticano, e l’accesso ai voli papali. In una riunione svoltasi ieri a porte chiuse, a cui hanno partecipato tutti i capi di dicastero interessati e rappresentanti di organi di stampa interni importanti come la direzione generale dell’Osservatore Romano, è stato ribadito che non dovranno più accadere errori di impostazione comunicativa come qualche volta avvenuto in passato.
A poter avere la responsabilità del progetto potrebbe essere Francesca Chaouqui, la giovane italiana che fa parte della Commissione referente sulle questione economiche e finanziarie della Santa Sede, ora impegnata sulla spending review vaticana. Per il nuovo capo della Sala stampa e portavoce papale si parla invece di padre Antonio Spadaro, anch’egli giovane e affermato direttore di Civiltà Cattolica, il quindicinale dei gesuiti. Spadaro, che al momento non ha ricevuto nessuna chiamata ufficiale («non ne so nulla», risponde), è però il nome in cima alla lista di Francesco. Non solo è un gesuita come Bergoglio — e come l’attuale portavoce, padre Federico Lombardi, apprezzato per la grande sensibilità, capacità e misura con cui continua a guidare il suo ufficio. Ma è anche il primo giornalista da cui il Papa ha accettato di farsi intervistare. Gode perciò di un’enorme stima da parte di Bergoglio, che ha avuto modo di pesare in lunghe ore fianco a fianco la sobrietà e la professionalità di questo sacerdote messinese esperto di giornalismo e letteratura.

La Stampa 20.12.13
Un uomo di Videla a capo dell’esercito della Kirchner
Argentina, il generale Milani è accusato di tortura
di Paolo Manzo

qui

il Fatto 20.12.13
Il Natale cancella la nascita di Mao
Ii regime impone festeggiamenti in tono minore per il 120° anniversario del “Grande Timoniere”
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino L’Oriente è rosso, il sole sorge e in Cina è nato Mao Zedong”, così per decenni hanno intonato centinaia di milioni di cinesi fedeli al fondatore della loro patria. E ancora oggi è tra i motivi che si sente di più. È finanche una suoneria del cellulare, a pagamento. Il ritratto di Mao campeggia ancora sulla porta di ingresso della città proibita e domina Tian'anmen, una delle piazze più gradi del mondo. Il cosiddetto turismo rosso trasforma le economie dei villaggi simbolo della vita del Grande Timoniere. E il prossimo 26 dicembre sarà il 120° anniversario dalla nascita.
Dovevano essere festeggiamenti indimenticabili. I maoisti più accaniti chiedevano addirittura che diventasse una festività nazionale di modo da sostituire il “ Natale fittizio” degli occidentali con il “vero natale di Mao”. Ma negli ultimi giorni il concerto dell'Esercito in suo onore ha cambiato nome da “più rosso è il sole, più caro è il presidente Mao” a un più anonimo “galà di capodanno”.
Tutti gli eventi organizzati per commemorarlo dovranno ricevere in anticipo l'approvazione degli organi competenti e la serie tv da cento episodi che doveva ripercorre le gesta del “Grande Timoniere” è stata sostituita da una fiction sui grandi generali cinesi.
LA FIGURA STORICA di Mao è controversa. Alcuni lo considerano il tiranno che ha provocato la morte di decine di milioni di persone, altri lo venerano come una divinità e lasciano addirittura offerte ai piedi delle sue statue. I riformisti vorrebbero che il Partito non facesse più riferimento al suo pensiero, mentre i conservatori – che in Cina sono a sinistra – vorrebbero che si tornasse ai suoi insegnamenti: avere meno, ma tutti. Per il presidente Xi è un rompicapo. In questo primo anno al potere ha mostrato di avere fatto sua la retorica maoista. Ha lanciato quella che lui stesso ha definito una “campagna per la rettificazione della linea di massa” ovvero la ricerca della connessione tra i vertici e la base del Partito, la lotta contro i formalismi, la burocrazia, l'edonismo e la stravaganza dei quadri.
Anche il controllo sull'informazione, che nella sua idea dovrebbe essere asservita al Partito, può essere letta in questo senso. Ma di segno opposto sono le politiche che porta avanti. Il Plenum di novembre, pietra miliare delle volontà del suo governo, ha sancito che nel “socialismo con caratteristiche cinesi” sarà il mercato a giocare “un ruolo decisivo” nell'economia.
Le statue di Mao sono emblematiche della confusione. Quelle di cemento erette come funghi durante la Rivoluzione culturale - berretto militare e braccio alzato in segno di saluto - sono quasi tutte scomparse fagocitate dalla modernità. Nel Guangdong, la regione che per prima ha sperimentato le zone economiche speciali, sono completamente sparite. Eppure due giorni fa a Shenzhen, metropoli della Cina meridionale simbolo dell'epoca di apertura e riforme, ne hanno inaugurata una nuova. È un Mao assiso, d'oro e di giada, che vale di quasi 12 milioni di euro. Mao e morto, viva Mao.

Corriere 20.12.13
Le mani della Cia su Allende
L’11 settembre versione cilena
di Marilisa Palumbo


È l’11 settembre del 1973, siamo a Barcellona, in un ristorante non lontano dalle Ramblas. Agustin Edwards, direttore finanziario della PepsiCo spagnola, riceve una telefonata. Tornato a tavola, offre champagne per tutti: il «governo comunista» cileno è caduto. Si entra così, dopo aver letto delle ultime ore di Salvador Allende, nel cuore delle vicende raccontate da Maurizio Chierici ne Il presidente deve morire (edizioni Anordest, pp 222, €12,90): le complicità di governo e poteri forti di Washington nel golpe guidato dal generale Augusto Pinochet.
Quella che per anni era stata solo una teoria, un sospetto, diventa verità storica quando, nel 1999, Bill Clinton decide di declassificare migliaia di documenti della Cia. Carte dalle quali arriva la conferma che il presidente Richard Nixon e il suo consigliere per la sicurezza nazionale e poi segretario di Stato Henry Kissinger avevano cominciato a studiare come disarcionare Allende molto prima che il governo socialista mostrasse i limiti delle sue politiche, persino prima dell’insediamento. Spinti dalla paura di un’altra Cuba nel «cortile di casa», certo, ma anche dagli interessi economici di amici il cui sostegno il presidente americano non poteva dimenticare.
Soldi ai media che dovevano avvelenare l’opinione pubblica (Edwards era proprietario del «Mercurio», quotidiano più antico del Paese, e di una rete di canali radio e tv), pressione sulle istituzioni finanziarie internazionali per limitare i finanziamenti al Cile, dieci milioni di dollari distribuiti negli anni attraverso la Cia per aiutare i militari. Chierici — per trent’anni inviato del «Corriere», oggi al «Fatto quotidiano» — ricostruisce tentativi e complotti passo dopo passo, ma il fascino del libro non sta solo in quello che scopriamo sul presidente del Watergate e sull’uomo della Realpolitik premiato col Nobel per la pace, ma nel modo in cui l’autore anima i protagonisti, ci regala dettagli delle loro vite, ci porta dentro le scene chiave (del resto, di un «romanzo nella storia» si tratta, come recita la copertina).
C’è il Pinochet che si nasconde dietro gli occhiali neri perché «se non riescono a fissarmi negli occhi non indovinano cosa sto pensando». Il Pinochet che, messo a capo dell’esercito solo un paio di settimane prima, va da Allende e gli assicura fedeltà quando mancano poche ore al colpo di Stato. Il generale non ha ancora deciso cosa fare, e neanche la Cia si fida: non sappiamo chi è, recita una nota del dipartimento di Stato (gli americani non l’avevano mai avvicinato nei giorni di preparazione al golpe). C’è la tragedia familiare degli Allende, tra fughe e suicidi; la solitudine di Pablo Neruda, che muore pochi giorni dopo il presidente; la Chiesa resistente e quella complice.
Soprattutto, c’è la memoria delle vittime, le migliaia che morirono «l’altro 11 settembre», e quelle, molte di più, che scomparvero nei lunghissimi anni della dittatura. E c’è il racconto della rimozione (i libri di testo di regime) e del risveglio (il giudice Guzmán, ma soprattutto i parenti delle vittime e dei desaparecidos a Pisagua, «un Auschwitz senza forni: solo tortura e colpo alla testa»). Il libro arriva fino alla vigilia delle presidenziali di oggi, con Michelle Bachelet che si appresta a rientrare alla Moneda dopo il ballottaggio con Evelyn Matthei. Michelle ed Evelyn, figlie di generali e cresciute come sorelle fino al golpe, quando Alberto Bachelet, schieratosi con Allende, viene arrestato, torturato e ucciso, mentre Fernando Matthei entra nella prima giunta militare di Pinochet.
Uno scontro che parla di quanto è vicino il passato, ma anche di come il Cile sta imparando a farci i conti. E tra i deputati eletti con la Bachelet, domenica scorsa, c’è Maya Fernandez Allende, nipote di Salvador.

Corriere 20.12.13
Sartre e Camus spiati dall’Fbi

A partire dalla fine del 1945, l’Fbi, per volere del suo direttore John Edgar Hoover, mise sotto sorveglianza due intellettuali francesi di fama, ritenuti in grado di influenzare l’opinione pubblica «a favore del comunismo»: il filosofo Jean-Paul Sartre e lo scrittore Albert Camus. Lo sostiene il periodico britannico «Prospect magazine», in un articolo basato sulla lettura di documenti desecretati dell’Fbi. Il direttore del servizio investigativo americano Hoover era particolarmente preoccupato dalla diffusione delle idee di Sartre e Camus, e in particolare dell’influenza esercitata dal primo, membro tra l’altro del Fair Play for Cuba Committee, un’associazione a sostegno dell’isola di Fidel Castro.

Corriere 20.12.13
Nella palude del lavoro liquido. Dal post-fordismo alla dispersione: una parabola discendente
di Giuseppe De Rita


Da antico sodale nella ricerca sulla composizione sociale del Paese, ho ritrovato nel recente volume di Aldo Bonomi su Il capitalismo infinito tanti richiami alla mia storia intellettuale e professionale, con le tante scoperte e le tante delusioni che ci ha dato la straordinaria decennale dinamica della nostra struttura sociale.
All’inizio, negli anni 60 tutto sembrava chiaro e solidamente proiettato in avanti: stava contraendosi fortemente la componente agricola, che ancora al censimento del ‘51 contava sul 54% della popolazione; aumentava e si compattava come «classe operaia» la componente «fordista» dei lavoratori dipendenti dell’industria; cresceva con passo inarrestabile la componente impiegatizia, specialmente concentrata nel lavoro pubblico e nelle attività bancarie e assicurative. Sembrava un mondo destinato a durare per decenni, anche perché esso trovava la sua corrispondenza nella articolazione delle forze politiche, attraverso il tipico fenomeno del collateralismo categoriale (del mondo agricolo, della classe operaia, del ceto medio impiegatizio).
E invece con l’inizio degli anni 70 cambia tutto, e radicalmente, pur se non tutti allora se ne accorsero, impegnati com’erano su altre impressive ma sovrastrutturali tematiche. Succede che in quegli anni esplode l’economia sommersa (3-4 milioni di «spezzoni di lavoro» non riconducibili ad alcuna rappresentazione statistica come di rappresentanza); con l’economia sommersa matura ed esplode la piccola e piccolissima impresa (solo per il settore industriale ci fu il raddoppio del numero delle imprese create nei cento anni precedenti); esplode nel settore terziario non la grande organizzazione dei servizi, ma il lavoro autonomo e individuale (per esempio nei trasporti scomparve il grande Istituto Nazionale Trasporti e dilagò il popolo dei proprietari di camioncini e di camion); il pubblico impiego si dilata in maniera importante, ma perde compattezza e identità a vantaggio della moltiplicazione di nuove figure professionali e più ancora della corrosione operata da milioni di «secondi lavoristi»; si affermava un enorme processo di cetomedizzazione segnato più da una antropologica propensione alla soggettività dell’agiatezza che da una seria potenziale maturazione di classe borghese.
Noi ricercatori ci ritrovammo a lavorare in una realtà senza più confini e schemi certi; e dovemmo prendere atto che tutto era cambiato, e che vivevamo in una realtà di «post-fordismo», coscienti da un lato che la dimensione organizzativa non funzionava più come facitrice di composizione sociale; e dall’altro che tutto il nuovo (economia sommersa, piccola impresa, lavoro autonomo, ecc.) aveva un motore immobile e profondissimo: il valore della soggettività e della libertà di essere se stessi, contro ogni vincolo sovraordinato, e non è un caso che gli anni 70 furono anche gli anni, sul piano sociale e valoriale, dell’accettazione referendaria del divorzio e dell’aborto).
Cavalcammo allora, specialmente Bonomi e io, la tematica del post-fordismo, impegnati però ad uscire dall’indistinto tipico di ogni «post». E i lettori di quegli anni ritrovarono testi, anche nostri, su definizioni meno indistinte: si parlò di capitalismo molecolare, di capitalismo personale, di «piccolo è bello», di primato del fai da te, della centralità della creatività individuale. Cercando di incardinare questo panorama di scelte in alcuni processi più solidi e concreti (del territorio, con il localismo, ai mercati internazionali con il made in Italy). È stata, parlo almeno per me, una cavalcata fenomenologica di grande interesse, e anche di soddisfazione, visto che vedevamo cose che gli altri non capivano. Ma sapevamo che non potevamo restare a goderci lo studio del post-fordismo, della molecolarizzazione, del primato della soggettività. Sapevamo, anche perché lo constatavamo ogni giorno nelle nostre ricerche, che i meccanismi della articolazione molecolare del sistema continuavano a operare, sottotraccia, ma con estrema potenza. E così oggi ci ritroviamo in un mondo di totale varietà, dove l’economia dei servizi e la società della conoscenza producono non solo piccoli imprenditori, lavoratori sommersi e lavoratori in proprio ma una miriade di altre posizioni di lavoro, come (cito Bonomi) «classe creativa, capitalisti personali, lavoratori della conoscenza, professionisti metropolitani e globalizzati, imprenditori, cognitivi, giovani e adulti esodati, precari, quarto stato» e si potrebbe continuare nell’elencazione, in una quasi orgia di identità e figure professionali «liquide».
Mi viene, rileggendo, un po’ di vertigine. E ho la sensazione che una tale frastagliata fenomenologia non permetta più di esercitare quel riconoscimento collettivo che è necessario in ogni società (in termini di ricerca, di rappresentazione mediatica, di rappresentanza sociale e politica). Gli schemi, anche i nostri, non servono più, non bastano più; la realtà e la dinamica quotidiana sono soverchiati, dovremo solo aspettare che si sedimentino. Ci resta solo la soddisfazione, sempre gratificante per chi fa fenomenologia, che la realtà è più forte di ogni sforzo di programmazione e organizzazione, anche intellettuale .

Corriere 20.12.13
Rinoceronti e ippopotami in Molise
Così mangiava l’uomo del Paleolitico. Fossili esposti al museo di Isernia, che dà lavoro a 25 giovani ricercatori
L’età dei resti degli ominidi di Isernia è di 650mila anni
di Paolo Conti


ROMA — I resti sono tanti, circa cinquemila, spettacolari e spettrali: zanne di elefante, canini di ippopotami, le corna ramificate dei megaceri e quelle dei bisonti. Ma sono stati censiti anche bisonti. Un mare bianco che ricorda «Balkan Baroque» (l’installazione-performance con cui Marina Abramovic vinse nel 1997 il Leone d’oro alla Biennale d’arte di Venezia: un mucchio di ossa che l’artista ripuliva).
E in mezzo a zanne e canini, molte pietre lavorate: punte di frecce, rasoi rudimentali. Nel cuore dell’Isernia di oggi, 650 mila anni fa i cugini molisani dell’Homo Heidelbergensis mangiavano carne cruda di enormi animali feriti o già sbranati da altre bestie. Soprattutto raggiungevano le ossa, le spezzavano e si nutrivano del midollo. Finito il pasto, gettavano i colossali resti in una parte del fiume Volturno che oggi non esiste più: in quel letto prosciugato da decine di migliaia di anni, è stato ritrovato un materiale veramente unico intorno al quale il Museo nazionale del Paleolitico di Isernia ha aperto nell’aprile 2012 un primo padiglione espositivo. E ora ha inaugurato un secondo, innovativo spazio didattico di 800 metri quadrati.
Un linguaggio semplice ma scientificamente accurato, adatto sia agli adulti che ai bambini, con indicazioni in inglese e italiano. Molte fedeli ricostruzioni della vita degli ominidi di 650 mila anni fa, a partire dalle capanne. E un percorso sospeso a pochi centimetri dalla superficie degli scavi, circa 300 metri quadrati. Altri 700 sono attualmente in corso di scavo.
Già tutto questo rappresenterebbe un bel traguardo, per Isernia e per il suo territorio. Infatti dall’aprile 2012 a oggi i visitatori sono stati 11 mila per una città che conta 22 mila abitanti. Ma c’è un altro dato di notevole importanza. Come spiega Gino Famiglietti, direttore regionale dei Beni culturali del Molise, grazie ai parenti isernini dell’Homo Heidelbergensis sono stati creati venticinque posti di lavoro: cinque giovani archeologi molisani lavorano al Museo nazionale del Paleolitico mentre altri venti universitari sono impiegati negli altri siti museali del Molise: le aree archeologiche di Pietrabbondante, Sepino e Larino, il Castello Pandone di Venafro, il Museo archeologico di Isernia.
Spiega Famiglietti: «I giovani, tutti laureati in paleontologia, sono eccellenti assistenti didattici alle visite e aiutano ad avvicinarsi a un percorso che volutamente è spettacolare. Perché la conoscenza è anche allegria, piacere intellettuale. E sempre a questi ragazzi abbiamo affidato i servizi aggiuntivi: per esempio sono loro a ideare e a realizzare gli oggetti ricordo in vendita nel negozio del museo. Ho sempre pensato che le società esterne generalmente arrivano, prendono molto alla realtà locale e danno in cambio pochissimo. Noi abbiamo il dovere di offrire un’opportunità ai giovani che si laureano, altrimenti fatalmente se ne andranno via. Qui sperimentiamo la possibilità, per i ragazzi, di far coincidere la ricerca con la nascita di una piccola impresa culturale».
Famiglietti si sofferma soprattutto sul rapporto dell’offerta didattica con i bambini: «In questo museo scoprono il valore e il piacere della manualità, che sta gradualmente scomparendo. Noi spieghiamo per esempio come quegli uomini costruivano i loro utensili». Si ricorre a metodi divulgativi ma anche capaci di attirare l’attenzione: un touchscreen riproduce la superficie e se un qualsiasi osso viene toccato, si ascolta il verso dell’animale al quale quel pezzo appartiene. Nello stesso tempo si colorano gli altri pezzi che lo componevano. Una specie di puzzle sonoro, insomma.
Ora si aspetta un aumento del flusso turistico e, magari, altre assunzioni di laureati. L’Homo Heidelbergensis nella sua versione isernina, che frena la fuga dei cervelli molisani. Chi l’avrebbe mai detto.

l’Unità 20.12.13
Gaia tra le stelle per mappare la Via Lattea
Il satellite europeo censirà 1,5 miliardi di corpi celesti. La missione costata 740 milioni di euro
di Pietro Greco


E uscì a veder le stelle. Portata in alto da un razzo Soyuz, Gaia è regolarmente partita ieri dalla base Sinnamary alle 6:12 ora della Guyana francese (9:12 per noi) e poco dopo ha lasciato l’atmosfera terrestre. Se tutto andrà bene, tra un mese sarà in un punto che gli astronomi chiamano Lagrangiano L2, a circa 1,5 milioni dalla Terra, che noi potremmo definire il punto migliore per osservare, senza il minimo disturbo, la Via Lattea. Al costo di 740 milioni di euro, la nuova missione dell’Agenzia spaziale europea (Esa) getterà il suo sguardo profondo nella nostra galassia e realizzerà, almeno così promette, la mappa stellare più completa, dettagliata e precisa che l’uomo abbia avuto. Aveva iniziato Ipparco, il grande scienziato ellenista, a mappare il cielo con straordinaria precisione. A occhio nudo aveva catalogato e collocato al loro giusto posto nel cielo oltre 1.000 stelle. Solo il danese Tycho Brahe, quasi due millenni dopo, era riuscito a fare di meglio con la sola acutezza degli occhi.
Galileo Galilei con il suo cannocchiale ha inaugurato la stagione dell’astronomia strumentale, rendendo disponibili all’osservazione decine di migliaia di stelle. Ma c’è voluto un telescopio montato su una sonda perché una missione di astronomia spaziale, non a caso dedicata a Ipparco, facesse un salto di qualità e allestisse un catalogo con 100.000 stelle. Gaia intende andare ben oltre. La sua ambizione è quella di catalogare qualcosa come un miliardo e cinquecento milioni di stelle.
VENT’ANNI DI LAVORO
Per realizzare questa impresa dovrà affinare il suo occhio, che è composto da due telescopi e uno spettrografo integrati e capaci di catturare anche la minima quantità di luce visibile, fino a un milione di volte inferiore alla quantità minima di luce visibile all’occhio di Ipparco, di Brahe e di ogni altro uomo. Per essere sicura di aver posizionato ciascuna stella nella sua posizione, nel corso di cinque anni Gaia ripeterà più e più volte le sue misure. In modo da raggiungere una capacità di discriminare i dettagli e di commettere un errore così piccolo da essere equivalente, assicurano i tecnici all’Esa, al diametro di un euro posto sulla superficie della Luna e visto dalla Terra.
Non è cosa facile raggiungere queste performance. Per realizzare Gaia, scienziati e tecnici hanno lavorato vent’anni. Le stelle che catalogherà rappresentano l’1% della popolazione stellare dell’intera galassia: non è davvero poco. Ed è sufficiente, sostengono all’Agenzia Spaziale Europea, per consentire agli astrofisici di viaggiare nello spaziotempo della nostra galassia. Capire come e quando si è formata la Via Lattea, come e quando si sono formate le sue stelle, capire persino come al gioco della gravità galattica partecipi anche la materia oscura, quella che né noi né Gaia possiamo vedere. Ma di cui possiamo avere indicazioni indirette, che Gaia saprà individuare e collocare precisamente nello spazio.
Non basta. Gaia studierà le stelle che osserverà in dettaglio, determinando ciò che Ipparco non poteva determinare a occhio nudo: ovvero la temperatura, la gravità superficiale, la metallicità. Non basta. Si calcola che Gaia individuerà e catalogherà anche 500.000 quasar, oggetti stellari di cui gli astrofici non conoscono ancora molto. E poi individuerà pianeti extrasolari. Così avremo dati più precisi per capire quali hanno un sistema planetario simile a quello del Sole e quanti orbitano intorno alla «fascia abitabile» delle stelle.
Nel corso di questo intenso lavoro, Gaia otterrà una quantità così grande di dati che il problema sarà come avere il tempo e il modo di analizzarli. Ci sarà lavoro, per gli astrofisici. Intanto si preparano gli informatici, che tra un mese dovranno iniziare a raccogliere e a processare le informazioni. Ci saranno diversi centri, uno dei quali in Italia, a Torino, deputati a questo compito. Tutto è coordinato da un consorzio, il Data Processing and Analysis Consortium (Dpac), cui già lavorano 400 scienziati da 22 paesi europei. Primi fra tutti, Francia e Italia. Il nostro paese, con l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e l’Istituto Nazionale di astrofisica (Inaf) è tra i leader della missione Gaia. Ora non resta che attendere che Gaia raggiunga la sua postazione e, Tempo un mese, potremo uscire a veder le stelle.

l’Unità 20.12.13
Renoir, i corpi sono paesaggi
Superbo ritrattista il pittore prediligeva la figura umana
di Renato Barilli


RENOIR. Dalle collezioni del Musée d’Orsay e dell’Orangerie
A cura di G. Cogeval, S. Patry, R. Passoni Torino Galleria d’Arte Moderna
Fino al 23 febbraio Catalogo Skira

TORINO IN GENERE MI SONO DATO LA REGOLA DI NON PARLARE DI MOSTRE, IN SEDI NOSTRANE, RICAVATE TRASPORTANDO DA MUSEI STRANIERI I CAPOLAVORI FIN TROPPO NOTI CHE VI RISIEDONO, magari approfittando delle loro chiusure temporanee. Faccio un’eccezione per una mostra di Pierre-Auguste Renoir (1841-1920) alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, nella speranza che la sua comparsa in forze possa contrapporsi all’eccessiva visibilità che si dà al suo pur grande collega, Claude Monet, di cui l’abile Marco Goldin si è fatto scudo per una invasione commerciale di tante piazze italiche, fino a far credere che l’Impressionismo si concentri e riassuma in una sorta di monettismo obbligatorio. Renoir gli fu fianco a fianco negli anni di nascita del movimento, fine ’60, primi ’70, con relative «scandalose» esposizioni. Ai due si può applicare addirittura una formula rovesciata: in Monet il paesaggio va espandendosi sempre più, fino a ingoiare ogni traccia di presenza umana, inducendolo soprattutto a evitare un confronto diretto con la nostra immagine quale è imposta dal ritratto, di cui quasi non ci sono tracce nella sua opera. Si ha invece un percorso inverso nel caso di Renoir, nel senso che la figura umana, soprattutto femminile, con la sua sensualità, col nero morbido e vellutato delle pupille, o magari con le trasparenze che dominavano le velette delle signore bene, va a stamparsi sul paesaggio, rendendone a loro volta sensuali e femminei i vari aspetti. Non per niente il nero, bandito dalla tavolozza monettiana, imperversa invece in quella del suo amico e rivale nello stesso tempo, basta mettere a confronto le rispettive vedute ricavate dai bordi del fiume fatale per le sorti dell’Impressionismo, la Senna, e si constaterà appunto che nelle versioni del primo il sole e l’aria bruciano, consumano, mentre in quelle dell’altro ci sono ombre morbide, suadenti, che resistono, insinuando pieghe voluttuose, recessi misteriosi. Ma soprattutto, si impone il fatto che Renoir, lungo la sua intera carriera, fu un superbo ritrattista, non si contano i capolavori che seppe ricavare lungo questa strada, dati dalle varie Madame Darras, Madame Fournaise, Madame Bernheim, quest’ultima appaiata anche al marito, in un trattamento aperto a entrambi i sessi che però manifestava un evidente favore verso quello cosiddetto «debole», di cui l’artista si faceva un’arma preziosa per andare a ottenere una immersione panica nel cosmo, pronta a ridondare in ogni altro elemento, a conseguire una congiunzione stretta di ogni aspetto. E se Monet procedé lungo tutta la sua carriera verso una dissoluzione via via più spinta dei dati, delle sensazioni, Renoir al contrario si impose un freno su questa strada, rafforzando i contorni, ancora una volta delle sue presenze muliebri, anzi, adottò, soprattutto per le teste, una specie di calotta, per racchiuderne e comprimerne i tratti fisionomici, come per raccoglierli in cuscinetti gonfi, quasi al limite, come frutti maturi vicini a squarciarsi e a mostrare allo scoperto la loro ghiotta interiorità.
Risulta pure molto interessante prendere in considerazione il «gran finale» verso cui entrambi si rivolsero, dotati come furono di una notevole longevità. Monet, lo si sa bene, ebbe il suo appuntamento estremo con le ninfee, da cui era assolutamente esclusa la presenza di qualche simulacro umano, si trattava di un puro spettacolo di acque, pronte a catturare i riflessi delle nubi in alto o le insorgenze delle ninfee dal basso, il tutto fuso in un unico impasto. Ebbene, anche Renoir ebbe una sua full immersion, ma non fu certo in una visione paesaggistica, bensì nella carne umana, con preferenza rivolta come sempre alla carne femminile. Egli andò a immergere la sua percezione nei nudi di bagnanti, caldi, procedenti anch’essi, in definitiva, a pulsazioni continue, simili a movimenti ondulatori, ma dati dalle masse morbide, infinitamente sensuali, di seni e natiche, con le sfere ben arrotondate dei volti a dare un supremo tocco finale a questa sinfonia di ritmi curvilinei. Egli fu sempre amico e sodale di Cézanne, frequentandone la compagna e il figlio dopo la sua scomparsa, eppure non si trova maggiore distanza tra i due modi di risolvere proprio questo tema delle Bagnanti. Nell’artista provenzale, sono dure esercitazioni plastiche, situate ormai a un passo dal Cubismo, nel Nostro, invece, sono abbandoni senza limiti ai piaceri di una carne abbondante, straripante.

Corriere 20.12.13
Se l’artista è tentato dall’albero della follia
La «stranezza» come fenomeno di massa della modernità. Ma l’ispirazione è un’altra cosa
di Gillo Dorfles


Il vocabolo greco skizo è certamente il più idoneo a indicare quella separazione, scissione, dissociazione della personalità che costituisce la caratteristica più tipica della schizofrenia: quella che è certamente la più grave e più complessa forma morbosa mentale. Infatti, la differenza tra tante altre alterazioni mentali e la schizofrenia è per l’appunto il fenomeno dissociativo di questa forma morbosa. E, infatti è proprio il fatto dissociativo che più di ogni altro costituisce la vera essenza della dementia praecox come fu definita ai tempi di Bleuler e Binswanger. Una forma psichiatrica che si differenzia nettamente da quelle della paranoia, della melanconia o della mania, nonché da quelle dove la coazione è dominante.
L’elemento delle molteplici patologie mentali — anche nelle forme più lievi fino a quelle addirittura demenziali — è quasi sempre presente, anche se spesso non riconosciuto come forma morbosa. La dissociazione, infatti, tra mente e sentimento, tra azione e reazione, tra istinto e ragione, è molto spesso presente in parecchi casi patologici, anche quando rimangono non identificati o considerati soltanto come «un po’ strani». E questo può spiegare come accada spesso che la dissociazione affettiva e cognitiva siano invece indice di uno stato morboso che spesso non viene identificato nelle prime fasi della malattia.
Ma, a prescindere dalla vera e propria forma morbosa e dalle diversità del suo trattamento, quello che mi sembra più interessante, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti societari è che, al di là di una vera e propria forma morbosa, è il quoziente dissociativo a presentarsi anche in molte situazioni normali della nostra società. Sicché ritengo che effettivamente uno degli aspetti più significativi della nostra epoca — anche in ambiti lontani da ogni morbosità e anomalia psicologica — possa essere considerata una parziale, se non una totale forma dissociativa; che può essere ovviamente distinta dal settore psicologico, soprattutto quando colpisce esclusivamente quello societario e politico.
La nostra, dunque, può essere considerata un’età dissociata, non soltanto nei casi patologici, ma in un certo senso come testimonianza della «psicosi» di cui spesso la nostra società è affetta. Un interessante saggio — un vero e proprio manuale scientifico — sui problemi del rapporto tra schizofrenia e modernità nelle diverse arti, è il recente trattato di Louis A. Sass, Follia e modernità (Raffaello Cortina), che costituisce una messa a punto dei rapporti effettivi o apparenti tra schizofrenia e alcune forme creative come la letteratura e la pittura quando si realizzano da parte di letterati come Musil, Sartre, Breton o di artisti come De Chirico, Modigliani, Klee, sia per la particolare personalità degli stessi che per i personaggi da loro concepiti.
Tali opere naturalmente vanno considerate con molta attenzione e cautela; l’importanza del parallelismo compiuto da Sass — pur riconoscendo il valore del noto psicologo della Rutgers University del New Jersey — è un ampio tentativo di tracciare una analogia tra la vera e propria follia e le varie forme impersonate o citate dagli artisti considerati. Sarà opportuno pertanto prendere con molta cautela l’effettivo valore di questa associazione, giacché molto spesso gli artisti citati vanno riconosciuti come perfettamente normali dal punto di vista psichico e soltanto fantasiose le opere letterarie da loro prospettate.
È fin troppo semplicistico individuare nelle diverse opere pittoriche e letterarie la presenza di una «vena di pazzia» senza che questo abbia nulla a che fare con un’autentica schizofrenia; ma è assai facile individuare in ogni creazione artistica quella anomalia dalla norma, che può essere classificata come patologica da chi non possiede le dovute conoscenze scientifiche. Per cui citare Klee o Modigliani come affetti da anomalie psichiche non è che un «vezzo», il quale non va assolutamente considerato come una diagnosi scientifica.
Lasciando da parte il tema del volume — che del resto è senz’altro un’ottima guida da parte di uno dei più acuti specialisti di psicologia patologica — è meglio non soffermarsi sulla presunta psicosi di queste personalità senza rendersi conto di come la loro mentalità non basti a giustificare quella che rimane soltanto una «stranezza» e non ha nulla o poco a che fare con una vera anomalia psichica. Già a partire da Binswanger, l’alterazione spazio temporale, la Schrumpfung (il «raggrinzimento») della componente spazio-temporale era stata esaminata in alcuni casi di schizofrenia, ma senza precisare fino a che punto tale alterazione — ideativa ma anche percettiva — si potesse mettere in rapporto con l’esistenza di una componente conoscitiva. Ossia, fino a che punto le difficoltà interpretative della vita di tutti i giorni da parte del malato mentale potessero essere ricondotte alle alterazioni della componente spaziale e temporale di cui sopra.
Questo, forse, è uno dei punti salienti che risulta anche dall’analisi compiuta dall’autore per giustificare il problema di talune esperienze psicotiche come inerenti alla condizione normale dell’uomo e per svelare alcuni rapporti tra linguaggio letterario e artistico e linguaggio schizofrenico.
Ecco perché, per vincere il «raggrinzimento» spazio temporale del pensiero che conduce alla presentificazione di ogni ideazione e a un irrigidimento spaziale, è spesso necessario da parte del paziente servirsi di un linguaggio simbolico. In questo senso, si può forse ammettere che il linguaggio schizofrenico abbia quel rapporto con i linguaggi artistici di cui parla l’autore.
Non intendo soffermarmi più a lungo nei meandri delle diverse forme schizofreniche e del loro rapporto con le forme artistiche della contemporaneità, perché purtroppo l’elemento dissociativo è presente non solo in alcuni malati mentali, ma in molta parte dell’umanità, tuttavia non considerata come affetta da disturbi del rapporto affettivo cognitivo come in molti esempi di schizofrenia. Il fatto che una fascia dell’umanità — considerata di solito normale — abbia avuto la possibilità di sviluppare degli elementi creativi di tipo nettamente dissociativo (romanzi, pitture, teatri), ma accettati come tali dalla popolazione «normale», dimostra una differenziazione notevole dalla realtà quotidiana, così da poter essere assimilata con alcuni dei deliri schizofrenici.
Quello che invece mi sembra più importante è distinguere tra il livello di anomalia psichica e la carica creativa di un artista, in maniera da non creare quegli spiacevoli compromessi che portano a dare un giudizio estetico a un’effettiva anomalia, mentre quelle che sono le sollecitazioni fantastiche di una mente creativa presentano quasi sempre un elemento simbolico e metaforico che ha la meglio sulla nuda realtà esistentiva.

Il saggio di Louis A. Sass, «Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni», editore Raffaello Cortina, pagine 516, e 32

Repubblica 20.12.13
Jacques Lacan e l’inconscio visto da vicino
di Massimo Recalcati


La parte più rilevante dell’insegnamento di Jacques Lacan è orale. Essa si condensa nei suoi famosi Seminari che a partire dai primi anni Cinquanta egli tiene continuativamente sino alla sua morte avvenuta nel settembre del 1981. E tuttavia la celebrità pubblica di Lacan coinciderà con la pubblicazione dei suoiScritti nel 1966. Questa raccolta volutamente al limite della leggibilità uscì in piena epoca strutturalista e il suo successo consacrò lo psicoanalista francese come uno dei più grandi pensatori del Novecento. Emergeva lì il senso più autentico del suo “ritorno a Freud”: l’inconscio non è il sottosuolo, l’irrazionale romantico, l’animale imbizzarrito, il selvaggio caotico, l’istintuale. Lacan ci mostra come l’inconscio di Freud sia strutturato come un linguaggio, appaia cioè come una vera e propria ragione sebbene diversa da quella che regola i nostri comportamenti diurni. Si tratta della ragione che anima la trama complessa dei nostri sogni e il tessuto scabroso dei nostri sintomi, della ragione che sostiene l’istanza del desiderio inconscio. Di qui il nuovo orientamento che egli imprime alla pratica analitica: contro le derive post-freudiane che tendevano a concepire il lavoro dell’analisi come una rieducazione emotiva e disciplinare del paziente, Lacan mostra che la “disalienazione” prodotta dall’esperienza dell’analisi non consiste nel raddrizzamento ortopedico dell’Io, ma nel fare emergere la verità del desiderio inconscio come ciò che spiazza l’Io costringendolo a ridimensionare il proprio narcisismo.
La pubblicazione per Einaudi degliAltri scritti di Lacan, apparsi originariamente in lingua francese nel 2001 a cura di Jacques-Alain Miller, è di straordinario interesse perché ci consente di dettagliare ancora meglio la visione lacaniana della psicoanalisi che senza negare il potere rivelatore della parola affronta con più decisione tutti i suoi limiti. Questa raccolta riunisce testi che vanno dalla fine degli anni Trenta sino alla fine degli anni Settanta. In cinquant’anni si srotola una vita dedicata allo studio e alla pratica clinica della psicoanalisi. Il lettore potrà così trovare testi capitali per la ricostruzione genealogica del suo pensiero — come il celebreI complessi familiari del 1938 che anticipa un grande tema della contemporaneità come quello del tramonto dell’Imago paterna — o altri che lo sintetizzano con grande energia come Televisione oRadiofonia.
Ma non manca in questa raccolta il Lacan maestro che possiamo ritrovare nei brillanti e inediti resoconti del suo insegnamento. Il clinico curioso che offre un intenso e rispettoso ritratto di Wilfred Bion e della sua esperienza pionieristica nell’applicazione della psicoanalisi ai gruppi di soldati che nel corso della Seconda guerra abbandonavano traumatizzati il fronte. L’intellettuale appassionato che omaggia Merleau-Ponty o che resta affascinato dagli ideogrammi della lingua giapponese e dalla scrittura neologistica di James Joyce. Il capo scuola impegnato nella trasmissione della psicoanalisi e nel dare vita ad una comunità di psicoanalisti capace di non tradire il sapere di cui essa si vorrebbe destinataria. Qui Lacan sbatte la testa contro il muro della contraddizione che separa la formazione dell’analista da ogni sua possibile regolamentazione. Per questo si congeda identificandosi con Tommaso D’Aquino nel momento finale della sua vita, mostrando come il destino dello psicoanalista sia quello dello scarto, null’altro che “Sicut palea”, povero letame di cui si è nutrito l’humusumano.

IL LIBRO Altri scritti di Jacques Lacan Einaudi pagg. 624, euro 34