sabato 16 luglio 2011

il Fatto 16.7.11
Come salvare l’Italia e l’Europa
di Antonio Padoa-Schioppa

E così ci siamo arrivati. Dopo tante avvisaglie remote, ora l’Italia è davvero sull’orlo di un precipizio che potrebbe segnare la fine del benessereconquistatomezzosecolofa.E segnare la fine dell’euro e addirittura l’arresto se non la fine del processo di integrazione europea. Allarmismo eccessivo? Non credo. Sulla fine dell’euro scommettono ormai in tanti, e per tante ragioni diverse e concorrenti. Interessi potenti sono all’opera. L’obiettivo non sembra più irraggiungibile. Che fare? In questi giorni le proposte non sono certo mancate. Il punto di partenza degli osservatori è uno solo: le misure della manovra, per quanto corpose se viste nella cornice di quattro anni, sono inadeguate a scongiurare i rischi di attacco ai nostri conti. I 300 punti di spread raggiunti in pochi giorni dai nostri titoli pubblici decennali rispetto a quelli tedeschi comportano, da soli, un aggravio annuale di alcuni miliardi di euro sugli interessi del debito pubblico. Facile calcolare cosa costerebbe   un raddoppio o una triplicazione o una quadruplicazione di queste cifre, che potrebbe arrivare in tempi brevi.
LA GRECIA insegna. E i mercati non si acquietano, se sentono vicino l’odore della preda. La ricetta non è difficile. Varie componenti sono state espresse da economisti indipendenti: Perotti, Zingales, Monti, Scalfari, Tabellini, Boeri, Ferrera, De Bortoli e altri osservatori. Occorre anticipare la scadenza del pareggio di bilancio almeno al 2013 se non addirittura al 2012. L’essenziale sta nell’adottare misure strutturali, attingendo ai due principali serbatoi: la spesa previdenziale e l’evasione fiscale. Si dovrebbero accompagnare questi interventi con segnali inequivoci sulla limitazione delle spese della politica: abolizione delle rappresentanze elettive per le province, diminuzione del numero e delle remunerazioni dei parlamentari e dei consiglieri regionali, cancellazione dei privilegi dei rispettivi vitalizi, diminuzione dei rimborsi elettorali. In una fase critica chi guadagna   molto deve pagare di più: un innalzamentodellealiquoteperstipendi e rendite elevate va attuato, magari ridistribuendo il ricavato verso il basso.
E ancora: semplificazione drastica delle procedure amministrative, che inceppano troppe iniziative di crescita: anche qui la Germania insegna. Una quota delle risorse drenate deve essere rivolta a investimenti in infrastrutture di qualità, essenziali per la crescita e per il nostro domani: giustizia, ricerca, cultura, trasporti, ambiente. Occorre riavviare finalmente la procedura di spending review, per un dimagrimento ragionato e selettivo della spesapubblica.Rammentiamoche il programma del governo Prodi prevedeva il pareggio nel bilancio per il 2011. E aveva ragionevoli prospettive di arrivarci con misure   ben meno drastiche, o di arrivarci al più nel 2012.
La messa in opera simultanea di tutte queste misure – che includono, sia ben chiaro, l’accelerazione rapida dell’innalzamento dell’età pensionistica maschile e femminile e l’abolizione delle pensioni di anzianità – accompagnata da un alleviamento del costo del lavoro, a sua volta compensato da un aumento di almeno uno o due punti di Iva (la Germania seguì con coraggio questa via, innalzandola di tre punti; i risultati si sono visti), dalla reintroduzione dell’Ici sulla prima casa (imposta coerente col federalismo) quantomeno per la abitazioni di valore, nonché da una stretta feroce sui bulloni della lotta all’evasione (che invece si tendono ad allentare): tutto questo porterebbe l’Italia in zona di sicurezza in tempi brevi. A condizione di non lasciarsi intimorire da proteste, lamentazioni, distinguo, petizioni di principio fuori luogo: esercizi nei quali siamo certamente maestri.   Libro dei sogni? Sì, a meno che non si attui una svolta essenziale: una politica di questa natura – necessaria per evitare il rischio reale di default del Paese – può venire proposta e attuata solo con una politica di temporanea unità nazionale. Tutto il resto – ed è, purtroppo, davvero tanto… – deve venire dopo, a cominciare dal salutare contrasto tra maggioranza e opposizione. Solo un approccio bipartisan può superare i corporativismi che già si sono puntualmente manifestati per annacquare, svilire, depotenziare la messa in opera delle cose da fare. Servono misure strutturali, operanti con certezza immediata e dotate di effetti permanenti sul bilancio nazionale: non provvedimenti una tantum. Occorre operare per decreto legge, con voto di entrambi gli schieramenti, tale da non far   ricadere l’impopolarità della stretta su una sola parte. Occorre spiegare chiaramente in ogni sede che le misure da adottare ora, per impopolari che siano (ma gli italiani sono assai meno egoisti e ottusi di quanto pensino tanti politici), sono comunque ben meno aspre di quelle che, volenti o nolenti, dentro o addirittura ormai fuori dall’Europa, saremo costretti ad assumere se non ci dimostreremo capaci di mettere ordine nei nostri conti, abbattendo il debito, ricostituendo l’avanzo primario e pareggiando il bilancio in tempi brevi. I giovani, i veri sacrificati di questo   decennio,capiranno.Enonsololoro. L’opposizione avrebbe dovuto e dovrebbe avere molto più coraggio, mostrando i caratteri propri di una vera statura di governo: prendere essa l’iniziativa, sfidare la maggioranza, esigere una manovra più incisiva: risanamento e crescita nell’equità.
I PICCOLI aggiustamenti non servono più. Tra l’altro (last not least) un’azione nostra di riforma severa e responsabile rafforzerebbe di molto in Europa, presso i governi riluttanti – a cominciare da quello tedesco – la via maestra per la sicurezza dell’euro e per la ripresa della crescita in Europa: spingerebbe alla realizzazione in tempi brevi dell’Agenzia europea del debito, alla creazione ormai indifferibile di una fiscalità europea, all’incremento degli investimenti strategici tramite eurobond, insomma a quel governo europeo dell’economia che è indisgiungibile (lo sappiamo da sempre) da quello della moneta.   Tutti gli esperti, per una volta, concordano: o si realizza senza indugi più Europa – quanto meno entro l’Eurozona – oppure si fa incombentelaprospettivadiunacrisiche potràinfirmare,conl’euro,l’intero processo di integrazione, cioè il futuro. Non solo il nostro, ma anche quello dei Paesi più di noi ricchi e virtuosi.La partita che si è aperta in Italia, essenziale per il nostro Paese, lo è altrettanto per l’Ue. La politica italiana su questo ha le idee chiare. Ma solo un comportamento interno ineccepibile può renderle credibili ed efficaci. 

Corriere della Sera 16.7.11
Citrullaggini elettorali
di Giovanni Sartori

T ra le tante ragioni che impediscono al nostro Paese di rimettersi in piedi c’è anche la citrullaggine elettorale e cioè l’incapacità di adottare un sistema di voto che funzioni e che, di conseguenza, consenta alla politica di funzionare. La nostra prima Repubblica esordì con un sistema proporzionale puro (senza sbarramenti) che consentiva all’elettore di indicare tre preferenze tra i candidati in lizza (in lista). Queste preferenze furono eliminate da un referendum a furor di popolo. Dal che risulta che agli elettori di allora le preferenze non sembravano importanti come agli elettori di oggi. Il Sud segnava sulla scheda molti più nomi del Centro-Nord. Ma non era senso civico; era che al Sud il voto clientelare era già vivo e vegeto. E il punto resta che allora nessuno difese le preferenze proclamandole l’essenza stessa della democrazia. Lo potrebbero essere solo se e quando gli elettori si interessano di politica e si informano sui candidati. Ma finché se ne impipano, le preferenze possono fare più male che bene. Il passo seguente fu la richiesta ossessiva di Pannella, con Mariotto Segni sempre di sostegno, di sostituire il sistema proporzionale con il sistema maggioritario secco, all’inglese. Pannella prometteva e giurava che quel sistema avrebbe prodotto il bipartitismo, e cioè solo due partiti. Mai promessa fu più sciocca e infondata. Ma in gran parte venne accolta nella legge che battezzai il Mattarellum: un sistema elettorale per tre quarti uninominale e per un quarto proporzionale. Sin dal primo giorno protestai, prevedendo che il Mattarellum non avrebbe ridotto ma anzi moltiplicato i partiti (i miei editoriali sono tutti raccolti in volumi, chi non mi crede può controllare). Così fu: quando il Mattarellum venne abolito, i partiti, partitelli e partitini erano diventati tanti che era difficile contarli. Ma al male è seguito l’ancor peggio. Dopo la caduta del secondo governo Prodi il governo Berlusconi Bossi impose un sistema elettorale che dissi il Porcellum, visto che il suo stesso estensore, Calderoli, lo aveva dichiarato una «porcata» . Lo sfaldamento del centrodestra offre l’opportunità e segnala l’urgenza di una riforma elettorale che almeno elimini la maggiore orrendezza del Porcellum: premio di maggioranza assegnato alla maggiore minoranza. Un 35%dei voti che può ottenere il 55%dei seggi in Parlamento, è una intollerabile e vergognosa distorsione del processo democratico, senza precedenti in nessuna democrazia. E se in queste condizioni una opposizione chiede nuove elezioni senza almeno tentare di eliminare questa distorsione, allora è una opposizione che vuole il proprio male. Ed è proprio così. Il professor Passigli, già senatore del Pd, si è mosso proponendo un referendum abrogativo del Porcellum. E si è trovato mezzo partito contro. Il professor Ceccanti, il costituzionalista prediletto da Veltroni, lo attacca asserendo che «il ritorno alla proporzionale segnerebbe la fine del bipolarismo» . Ma quando mai, ma perché? Quasi tutta l’Europa occidentale usa la proporzionale ed esibisce al tempo stesso una struttura bipolare.
Inoltre non sarebbe il ritorno alla stessa proporzionale di prima, visto che ora avremmo una proporzionale con sbarramento del 4 per cento. Il professor Ceccanti ricorda anche che il partito è sempre stato per il sistema maggioritario a doppio turno di tipo francese. Ma non ricorda bene. Proprio Veltroni, quando era segretario del partito, lo cancellò dall’agenda. L’altra idea è di tornare al Mattarellum. Come se avesse funzionato bene, come se fosse degno di riesumazione. E in ogni caso mi sfugge come un sistema maggioritario possa essere ricavato da un referendum abrogativo che può soltanto cancellare ma non sostituire. A prescindere dalla proposta Passigli, che mi sembra già silurata dal suo stesso partito, mi ha colpito che anche Bersani, tra le tante stramberie, ne abbia detta una anche lui: che la proporzionale è da respingere «perché non dice come sarà composto il governo» . Ma, di grazia, come potrebbe? Le elezioni (mi si perdoni l’ovvietà) eleggono, punto e basta. I governi, quali saranno e da chi composti, li stabilisce il Parlamento. Nei sistemi parlamentari è così. E il nostro è pur sempre un sistema parlamentare, per quanto malconcio e tartassato.


l'Unità 16.7.11
NOALCARCERE
Una battaglia comune
per chiudere i Cie,
lager per i migranti
di Filippo Miraglia
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l'Unità 16.7.11
Nazionalismo suprema imbecillità
di Moni Ovadia
qui
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il Fatto 16.7.11
Medici e pazienti nella trappola del biotestamento
Nessun dottore potrà decidere senza rischi penali
di Chiara Paolin

Roma, caldo torrido anche se il sole è tramontato. La gente esce dal grande ospedale: fine turno per il personale, scaduto l'orario di visita per i parenti. Ma c'è un reparto dove i familiari stanno ancora dentro. Al secondo piano il cartello dice: “13.30-18.30 un familiare, 18.30-22.00 turnazione tra familiari”. Poi verrà la notte, i visitatori usciranno, nelle stanze solo i malati e quelle mogli, quei figli, che dormiranno ancora una volta rannicchiati su una poltrona o una sdraio da spiaggia.
UN SONNO nero, interrotto da passi in corridoio e porte che cigolano, odore di detergente e profumo di caffè. Anche una sigaretta fumata alla finestra, di nascosto, ragionando su quello che si può e non si può più fare quando una persona cara sta male e non ha speranza di guarire. “Aspettiamo. Cerchiamo di capire. Più che altro ci fidiamo dei dottori   : se non sanno loro cosa fare, figurati noi”. Lorenza ha un marito malato di cancro, in coma da un mese. “Dicono che può durare giorni, ma anche mesi – dice lei guardando il pavimento -. Dormo qui perché voglio esserci quando muore. Forse è già morto, ma non lo   lascio solo finché se ne andrà fuori da questa stanza”.
Se il disegno Calabrò sul biotestamento diventerà legge, Lorenza e suo marito dovranno aspettare a lungo. Perché anche nel caso in cui un malato terminale rifiuti il prolungamento delle cure parlandone direttamente coi medici o depositando una Dichiarazione anticipata di trattamento (Dat), la nuova norma prevede che sia sempre e comunque il medico a prendere la decisione finale, con l'obbligo di somministrare al paziente “idratazione e alimentazione” fino a quando il cuore batte, magari aiutato dalle macchine. Il che vuol dire mesi, anni, distesi in un letto attaccati a fili e flebo.   Spiega Davide Mazzon, direttore dell'Unità di rianimazione dell'Ospedale di Belluno: “Finora avevamo come guida i principi della Costituzione e i doveri della professione medica. Non leggi dettagliate, ma validi binari su cui incanalare scelte responsabili e condivise. Adesso invece dobbiamo confrontarci con l'ipotesi peggiore: politici che si mettono a fare gli scienziati, norme che già a una prima lettura sono prive di ogni applicabilità causa totale ignoranza delle questioni tecniche. Per non parlare dell'articolo 32 della Costituzione che garantisce a tutti la libera scelta e il rifiuto delle   cure: il Calabrò è un imbroglio per i cittadini e un oltraggio per i medici. Non è possibile fare una legge su un tema tanto importante solo per dire ai cattolici: ecco, abbiamo vietato l'eutanasia. Qui c'è gente che soffre e ha problemi serissimi, giocare sulla pelle delle persone solo per compiacere il Vaticano è inaccettabile”.
In concreto, cosa dovrebbe cambiare? Ancora non è chiaro, le modifiche al testo si sono affastellate fino all'ultimo creando ampie contraddizioni   e vuoti incomprensibili. Per ora, solo ipotesi pensando a quello che è già successo. Per esempio, se un medico decidesse di togliere il sondino di alimentazione a una persona nello stato di Eluana Englaro, in base al ddl commetterebbe un reato: l'omicidio colposo, o forse addirittura volontario. Anche se tutto si smonterebbe in fase giudiziaria: il termine   alimentazione fa riferimento a sostanze ingerite per bocca, mentre il sondino è in genere applicato all'addome. Oppure: se anziché interrompere idratazione e alimentazione si fermasse la ventilazione meccanica, sarebbe reato o no?
GIUSEPPE Gristina, coordinatore gruppo di studio Bioetica della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva, spera che intelligenza e sensibilità possano sopravvivere al decreto: “Diciamo innanzitutto che la legge verrebbe applicata solo agli stati vegetativi permanenti. Si tratta di circa tremila casi in Italia. Per il resto avremo solo problemi in più: vincoli assurdi da rispettare, reparti dove si opera secondo una certa logica e altri dove invece si va all’opposto, un pasticcio   dannoso e inutile”. Col rischio che anche le cure d’urgenza e fine vita diventino ostaggio della medicina difensiva, quella fatta col timore di incorrere in guai e sanzioni. “Di fatto questa legge non cambierà molto le cose” prevede   Rita Formisano, responsabile della Sezione post-coma della Fondazione Santa Lucia, struttura romana a rischio chiusura per i tagli alla sanità. “Si parla tanto di etica e filosofia mentre centri come i nostri devono lottare per esistere. E' giusto pensare al fine vita, ma occupiamoci anche di chi vuol essere assistito in maniera dignitosa nella fase acuta e soprattutto in quella cronica della malattia, quando malati e famiglie sono abbandonate a se stessi. Ecco un tema serio: dove troviamo le risorse per sostenere questi pazienti, che sono sempre di più?''.
Al reparto oncologia dell'ospedale immerso nell'afa dopo la notte umida i letti sono tutti occupati. Una ragazza giovane, bionda, scheletrica, sta distesa sopra le lenzuola. Accanto un uomo le parla piano. Ci vorrà tempo. 

il Riformista 16.7.11
Il biotestamento alla tedesca
di Gustavo Ghidini
qui
http://www.scribd.com/doc/60133933

il Fatto 16.7.11
Niente sconti ai nazisti
di Loris Mazzetti

Ho incontrato Ines Rossi poco prima della sua morte. Era una delle vedove di Cervarolo (frazione di Villa Minozzo sull’Appennino reggiano), i nazisti della Divisione Hermann Goering, assieme alla GNR (Guardia Nazionale Repubblicana), il 20 marzo ’44, le trucidarono il marito Pio e il suocero Gaetano Paini, con altri 22 compaesani. All’alba del 20 marzo i tedeschi avevano già piazzato mitragliatrici nei punti strategici, mentre le camicie nere si erano disposte intorno al villaggio bloccando i principali punti di passaggio. I primi a morire furono Ennio e Lino Costi, padre e figlio, uccisi nella loro abitazione, poi iniziò il rastrellamento casa per casa. Tutti gli uomini   furono condotti al centro del borgo. Alle 18 i militari diedero fuoco alle case, contemporaneamente le mitragliatrici spararono sui prigionieri, mentre donne e bambini vennero spinti verso valle. Il comandante tedesco nel suo rapporto scrive di un “combattimento contro le bande partigiane della zona, di aver trovato, in tutte le abitazioni tracce di componenti delle bande, nel 50% delle case anche armi e munizioni”.
IL COLONNELLO Onorato, capo delle truppe fasciste, in un fonogramma scrive: “Rappresaglia nei confronti di abitanti e popolazioni delle frazioni Cervarolo-Civago, responsabili di favoreggiamento e omertà riguardo banda partigiana”. Nei 695 fascicoli “archiviati provvisoriamente” nel famoso “armadio   della vergogna”, scoperto solo nel 94, c’è scritto tutto sulle stragi compreso i nomi degli assassini. L’intento dei governi, dal dopo guerra ad oggi, è stato quello di occultare. L’Italia ha privilegiato gli interessi economici con la Germania, a scapito della verità. A proposito della sentenza di Verona, Massimo Fini, sul Fatto Quotidiano, ha affermato che “non si erano mai visti nella Storia processi celebrati a settant’anni di distanza dai fatti,   tanto meno per i crimini di guerra”, concludendo così l’articolo: “Il fatto è che il processo di Verona contro dei fantasmi più che il sapore della giustizia ha quello amaro della rappresaglia. Proprio quella rappresaglia in nome della quale, tante volte,   abbiamo condannato i nazisti”. Leggendo queste parole ho provato la stessa indignazione quando alcuni esponenti del Pdl presentarono al Senato un disegno di legge per abolire la norma che vieta l’apologia di fascismo. Se nelle città vediamo, appesi ai muri, i manifesti squadristi di Forza Nuova, se picchiatori fascisti siedono sui banchi del Parlamento, se il generale dei Carabinieri D’Elia, che ha svolto le indagini sulle stragi, è costretto   a vivere sotto scorta perché minacciato di morte: “Balleremo sul tuo corpo e su quello dei tuoi collaboratori”, è colpa della morale (falsa), che si sta diffondendo sempre più, che invita, in nome “di chi uccise e chi no”, a dimenticare i fatti, permettendo l’alterazione della Storia. Fini tenta di dare una giustificazione alle stragi affermando che i tedeschi erano “incarogniti per i tradimento dell’alleato italiano... mentre si lottava per la vita o la morte, li aveva pugnalati alle spalle passando dalla parte dei probabili vincitori...”. E le camicie nere presenti? Nessuno chiede per i 7 tedeschi (che in questi 67 anni hanno vissuto come se nulla fosse accaduto, rimanendo sempre in contatto tra loro, ci sono le intercettazioni telefoniche che lo provano), la galera, lo vieta la legge, ma il marchio di   assassini sì.
LA SENTENZA del 6 luglio è importante anche perché condanna la Germania al risarcimento (22 milioni di euro) dei familiari delle vittime in qualità di “responsabile civile dei fatti”, affermando un principio che   potrebbe essere fondamentale per la via alla pace: i diritti umani sono più importanti dell’immunità di uno Stato. La sentenza però non può essere esecutiva, grazie al governo Berlusconi che, prima si costituisce parte civile, poi crea un decreto legge che consente di bloccare il risarcimento quando uno Stato, in questo caso la Germania, si rivolge alla Corte di Giustizia dell’Aja a nome dell’immunità. Fini confonde giustizia con giustizialismo. Il dispositivo di sentenza condanna in primo grado i nazisti all’ergastolo per “concorso in violenza con omicidio contro privati nemici aggravata continuata... per aver commesso il fatto per motivi abietti, adoperando sevizie e crudeltà verso le vittime”. Il giudice applicando l’articolo 61 del Codice Penale ha reso il reato non prescrivibile   . Alla domanda di Enzo Biagi sul perché di quelle stragi, il feldmaresciallo Kesselring, che comandò la Campagna d’Italia, rispose: “I reparti di assalto possono compiere degli eccessi, essi hanno il dovere di vincere”. La guerra non giustifica mai una strage.

il Fatto 16.7.11
Media resistenti
Viva la vecchia radio ai tempi nuovi del web
Secondo il Censis, internet e radio sono mezzi d’informazione più   affidabili di stampa e tv. Il direttore di Radio3 Sinibaldi spiega perché
di Silvia Truzzi

Il punto dolente (e assai imbarazzante) è che la categoria è completamente sputtanata. Secondo l’ultimo rapporto Censis su informazione e comunicazione, il 67,2% degli italiani giudica i giornalisti poco indipendenti, troppo legati al potere politico ed economico. La percentuale è mostruosa, roba da convocare gli Stati generali della stampa per prendere contromisure. Invece tutto passa pressoché inosservato. Come altri dati che rendono la carta (stampata) - come titolava ieri il Manifesto - quasi straccia. In edicola i quotidiani perdono il 7 per cento dei lettori. Come ci s’informa? Con Internet, naturalmente. Vero: ma accanto al nuovo che avanza, il vecchio resiste alla grande: 8 italiani su dieci ascoltano la radio. Marino Sinibaldi, direttore di Radio3, tra le onde medie ci naviga da vent’anni. E guarda oltre il naufragio di un modo di informare ormai ammuffito. 
Sinibaldi, siamo un popolo multifunzione?
Ogni volta che andiamo a vedere da vicino comportamenti concreti, ci troviamo davanti a un grande mutamento in corso. La gente è diventata politeista.
Cioè?
Le opinioni si creano facendo convivere strumenti diversi. Si sta ancora davanti alla tv a vedere il telegiornale, ma accanto ci sono imprevedibili mix e incroci di informazioni. Lo dimostrano gli ultimi referendum: certo non è stata la tv a fare informazione sui quesiti. Eppure il quorum è stato raggiunto.
La tv è ancora al centro, ma non del mondo.
Sì e non è un caso che aumentino i canali digitali. E poi le tv sono anche schermi, cui collegare il pc, con cui vedere film o giocare.
Previsione: dove porta questo mutamento? 
Verso una progressiva frammentazione. La cosa impressionante è che i grandi media – tv e carta – sono distantissimi da questa trasformazione.
I giornali titolano ancora con l’apertura dei tg della sera prima. Ma del “monito del Colle”, per fare un esempio di titolo frequente, i cittadini sanno già tutto...
Sono ancora legati all’idea dell’ultimo trentennio: sappiamo quanto è esaurita culturalmente e avvelenata politicamente.
Perché allora la radio, ormai vecchia di secoli e Internet riescono a convivere?
È un cortocircuito che dimostra la teoria del politeismo dell’informazione, dei consumi e dei comportamenti. 
I giornalisti, dal rapporto Censis, escono bastonatissimi: la mancanza di autonomia è la peggiore delle critiche.
I giornali sono subalterni ai tempi dell’informazione televisiva, l’abbiamo detto. Ma soprattutto sono troppo poco distanti dalla politica. In parte è pregiudizio, in parte è vero.
Ma i clienti dei quotidiani dovrebbero essere i lettori, non i segretari di partito. Forse il guaio è questo.
Infatti quello che danneggia i quotidiani è l’essere, in parte, un canale di comunicazione interno alla politica. Mentre la rete è percepita come libera. Ma Internet è soggetto a falsificazioni e mistificazioni molto più   degli altri media.
I giornali italiani sono poco credibili?
No, c’è offerta e varietà: il mercato, nel suo complesso, è credibile.
L’informazione generalista è al capolinea?
Probabilmente si va in questa direzione. Ma è un peccato, perché il giornale generalista, anche se lo si compra per leggere la pagina culturale o sportiva, garantisce un’informazione completa. È l’opposto quello che succede in Internet.
On line c’è troppo specialismo?
Sul web c’è di tutto. Anche un sacco di sciocchezze e falsità. Però diciamo che il web può saziare ogni gusto particolare. Ma   la pluralità favorisce l’apertura mentale, i collegamenti. Insomma tiene in esercizio l’intelligenza.
Tra la stampa generalista e il web specialista, la radio dove sta?
In mezzo, ed è la sua fortuna. Di radio ce ne sono tante, molto diverse tra loro. E’ un mezzo, anche da un punto di vista percettivo, che stimola la fantasia perché non occupa tutti i sensi. 
A proposito di cambiamenti: alla sfida di Santoro, andare in onda su un network di tv locali e in streaming su internet, ci crede?
Non so se è la sfida giusta, ma va nella direzione giusta. Bisogna favorire l’uscita dalla schiavitù del monoteismo televisivo. E il processo è già in atto: l’informazione è un bene pubblico e i cittadini se ne vogliono riappropriare. 

Corriere della Sera 16.7.11
Condannato il vescovo negazionista
Ora è un problema per il Vaticano
di Marco Ventura

Mentre si trovava in Germania, Richard Williamson ha negato in pubblico i milioni di morti dell’Olocausto e l’esistenza delle camere a gas nei campi nazisti. Come bisogna comportarsi con lui? Per lo Stato tedesco ha risposto il tribunale di Ratisbona. Il negazionista è stato condannato in appello a 6500 euro di ammenda. Ma Williamson non è un privato qualsiasi. È un vescovo della Fraternità San Pio X, la comunità cattolica tradizionalista fondata da Marcel Lefebvre. La domanda «come bisogna comportarsi con lui?» si pone anche per la Chiesa di Roma. Il settantunenne inglese ha una storia turbolenta. Nel 1988 fu consacrato vescovo da monsignor Lefebvre. Fu un atto scismatico; e Giovanni Paolo II lo scomunicò immediatamente. Venti anni dopo, nel 2009, Benedetto XVI levò la scomunica. In diritto canonico Williamson rimaneva ancora escluso dalla piena comunione con la Chiesa. Ma le proteste contro la clemenza verso un negazionista si levarono alte. Il Pontefice si disse all’oscuro dell’antiebraismo di Williamson. Alle richieste di ritrattazione vaticane seguirono le furbe repliche dell’interessato. Invano il pontefice ha alzato la voce, fino all’autocritica sulla revoca della scomunica. Da monsignor Williamson, nessuna chiarezza. Ora, la condanna penale di Williamson in Germania fa contrasto con il negoziato romano. Solo un mese fa, il Superiore della Fraternità San Pio X monsignor Fellay ha accusato di contraddittorietà la Curia romana: «Certuni, a Roma, sono pronti a considerarci come fuori dalla Chiesa, scomunicati. E poi ve ne sono altri che ci riconoscono veramente come cattolici» . Inquieta l’opinione pubblica lo scarto tra la condanna subita da Williamson a Ratisbona e l’alternanza romana di censura e clemenza, tra la nettezza del diritto tedesco e i chiaroscuri del diritto canonico. Ma la giustizia penale canonica non può inseguire quella degli Stati. Ha un’altra logica, un altro spirito. Per la Chiesa romana non vi è separazione tra governo e giustizia. Dal chiaroscuro, essa ritiene, derivano più frutti che dal bagliore dei 6500 euro di ammenda di Ratisbona.

Corriere della Sera 16.7.11
Ai Weiwei: la verità non è anticinese
Nel blog dell’artista, chiuso dal regime, le sofferenze e le speranze di un popolo
di Ai Weiwei

28 maggio 2009 Sono pronto. O meglio, non c’è nulla per cui esser pronti. Una persona. È tutto quel che ho, è tutto quello che chiunque ha ed è tutto quello che posso dare. Al momento del bisogno non esiterò e non sarò indeciso. Se c’era qualcosa di cui avere nostalgia, erano le meraviglie che offre la vita. Queste meraviglie sono le stesse per ciascuno di noi, un gioco in cui tutti sono uguali, con la libertà e le illusioni che lo accompagnano. Considero tutte le minacce ai diritti umani minacce alla dignità e alla razionalità, alle potenzialità della vita. Voglio imparare ad affrontarle. State tranquilli, imparo in fretta e non vi deluderò. Non molto tempo fa, la morte collettiva di quei bambini sacrificati mi ha aiutato a capire il significato della vita di ogni individuo e della società. Rifiutare il cinismo, la cooperazione, la paura, rifiutare di bere il tè, non c’è niente da discutere. L’ho già detto: non tornate a cercarmi. Non collaborerò. Se dovete venire, portate gli strumenti di tortura. Dimentichiamo. 3 giugno 2009 La vita ci ha insegnato che tutti i giorni sotto il totalitarismo sono uguali, tutti i giorni totalitari sono un unico giorno, non c’è il giorno dopo, non c’è uno ieri o un domani. Allo stesso modo non abbiamo più bisogno di segmenti di realtà e non abbiamo più bisogno di una giustizia o un’uguaglianza frammentata. Chi non ha libertà di parola, libertà di stampa e diritto di voto non è umano e non ha bisogno di memoria. Senza il diritto alla memoria, scegliamo di dimenticare. Dimentichiamo tutte le persecuzioni, le umiliazioni, i massacri, gli occultamenti, le menzogne, i crolli e le morti. Dimentichiamo tutto ciò che potrebbe essere un ricordo doloroso e dimentichiamo le volte in cui dimentichiamo. Tutto solo perché ridano di noi, come signori giusti e onesti. Dimentichiamo quei soldati che sparano sui civili, le ruote dei carri armati che schiacciano i corpi degli studenti, i proiettili che fischiano per le strade e gli spargimenti di sangue, la città e la piazza che non hanno versato lacrime. Dimentichiamo le infinite menzogne, i leader al potere che insistono che tutti devono dimenticare, dimentichiamo la loro debolezza, malvagità e inettitudine. Dimenticherete di sicuro, devono essere dimenticati, possono esistere solo quando sono dimenticati. Per la nostra sopravvivenza, dimentichiamo. Se non siete anticinesi, siete ancora uomini? 3 giugno 2009 Il partito sta mettendo alla prova la gente in mille modi: Internet è censurata, l’istruzione programmata, i giornali sono pieni di falsità, il latte è avvelenato, e se siamo disoccupati siamo condannati. Sui mezzi pubblici scoppiano bombe, la terra ci viene derubata, la casa demolita, i bambini venduti, i minatori schiacciati, le giovani donne violentate e tutto il resto appartiene alle guardie, agli amministratori delle città, alla polizia militare, agli addetti alla sicurezza dello Stato; o è normalizzato o impazzisce. Chiedete che i violentatori siano arrestati, e diranno che siete anticinesi; i bambini sono schiacciati da edifici che crollano, ma indagare sulla qualità delle costruzioni è anticinese; parlare di cibi contaminati è anticinese; presentare una petizione allo Stato quando i civili vengono picchiati e violentati è anticinese; fare traffici di bambini, vendere sangue infettato dall’Hiv, far lavorare come schiavi in miniere di carbone, falsificare le notizie, infrangere la legge nei tribunali, la corruzione e l’avidità, violare i diritti costituzionali, bloccare Internet… tutto quel che fa emergere dei problemi è anticinese. Se non siamo anticinesi, siamo ancora uomini? Un caso sollevato in pubblico è considerato un attacco imprevisto e una congiura collettiva; se ha risvolti politici, si tratta di una sollevazione; se è un banale errore, hanno motivi ulteriori; se a essere in collera sono in molti, non conoscono la verità e sono stati provocati; se la condanna è internazionale, allora si tratta di forze straniere anticinesi. Sono passati sessant’anni e non abbiamo ancora visto una votazione, non c’è istruzione di massa, assicurazione medica, libertà di stampa, di parola o di informazione. Non c’è libertà di trasferirsi in un altro luogo, non ci sono tribunali imparziali, sorveglianti pubblici, sindacati indipendenti, un esercito nazionale, una tutela costituzionale, rimane solo il Cavallo dell’erba e del fango (un simbolo della resistenza alla censura su Internet, ndr). La caratteristica di Twitter è la velocità e la mobilità istantanea; è l’opposto della puntigliosità e della profonda concentrazione richiesta dalla letteratura. Penso spesso a una cosa che mi disse Allen Ginsberg: più o meno «il primo pensiero è il migliore» . Penso al fatto che lui non abbia mai avuto l’opportunità di usare Twitter. Credo che Twitter cambierà il modo in cui comunichiamo e trasmettiamo testi e informazioni. Twitter mi si addice particolarmente. Nella lingua cinese 140 caratteri sono un breve romanzo, è uno spazio sufficiente. Twitter dà alle persone la possibilità di interagire in modo più diretto. Ci troviamo in un’era completamente nuova, le cui caratteristiche distintive si manifestano nei cambiamenti delle forme di espressione individuali e nella spinta a modificare il modo in cui riceviamo le informazioni. Quando le caratteristiche degli individui cambiano, cambia anche il concetto di genere umano. Il significato degli effetti che l’era di Internet avrà sugli uomini non è ancora chiaro, ma Internet sarà lo strumento che porterà il genere umano a svilupparsi al massimo grado. È difficile immaginare gli effetti che Internet ha avuto sulla società cinese; questo perché la Cina è fondata sull’isolamento, il controllo e la limitazione della libertà di espressione. Il controllo e le limitazioni continuano ad aumentare, ma allo stesso tempo crescono l’abilità tecnica dei cittadini della rete e il bisogno di libertà di espressione, contro ogni isolamento. Questa censura di Internet ha favorito in Cina nuove forze, interessate ai mezzi di espressione e alle possibilità offerte dalla tecnologia. L’esito più auspicabile di una Internet society sarebbe quello di offrire alla gente la possibilità di fare la scelta migliore, cosa che di solito non avviene per mancanza di conoscenza, opportunità o per un’informazione parziale. Ne potrebbe potenzialmente emergere una vera società di cittadini. I cambiamenti sociali creati da Internet spingono la Cina ancor più velocemente verso una condizione di libertà generalizzata. Internet ha dato alla libertà di parola un nuovo significato. Tutti possono trarre vantaggio da queste nuove tecnologie; il sostegno a questi valori metterà in una posizione molto difficile i politici autoritari. Continuerò a usare Internet, e da artista penso che questo mezzo abbia un potenziale e delle caratteristiche espressive incredibili: è stato anche una fonte di ricordi inimmaginabili. (traduzione di Maria Sepa) © Mit Press /Johan &Levi

La Stampa TuttoLibri 16.7.11
Gioconda Belli La scrittrice nicara poco più che ventenne, si schierò con il fronte sandinista
Fiumi di latte nel paese delle donne
di Glauco Felici

Faguas è un piccolo Stato del Centroamerica, con tanto di vulcano, il temibile Mitre. Faguas non esiste, è invenzione di Gioconda Belli. Serve da scenario per ambientare la storia di questo suo nuovo romanzo (dopo La donna abitata , 1988; Sofia dei presagi , 1990; La pergamena della seduzione , 2005; L’infinito nel palmo della mano , 2008), e forse è anche occasione per un bilancio più o meno autobiografico di una vita «militante», estrema, ribelle, romanzesca.
Nicaraguense, di famiglia altoborghese con origini italiane, Belli scelse la sua parte politica già nel 1970, poco più che ventenne: si schierò con il Fronte Sandinista, che combatteva, anche con la guerriglia, la dittatura di Somoza. La scoperta del femminismo, la passione di scrivere poesia, la clandestinità, l’esilio, amori travolgenti e infelici: poi, il ritorno a Managua dopo la vittoria dei sandinisti, e incarichi ufficiali, fino alle dimissioni per divergenze incomponibili. (Per una buona sintesi biografica di Gioconda Belli si visiti il sito enciclopediadelledonne.it ).
Nel paese delle donne è un racconto utopistico, la rappresentazione di un mondo ideale, quasi perfetto perché sono le donne a governare tutto dopo che il vulcano, con le sue esalazioni, ha messo fuori gioco la componente maschile della popolazione provocando danni sostanziali al testosterone dei cittadini. Viviana Sansón, avvenente ex giornalista, è da due anni a capo del governo di Faguas, e sta tenendo un comizio, uno dei tanti bagni di folla cui ormai si è abituata: «A quarant’anni ha un fisico invidiabile: corpo tonico da nuotatrice, pelle ambrata, una massa di ricci africani che ricade sulle spalle […]il nuoto riuscì a malapena a frenare la crescita spropositata delle sue tette ormai famose. Alla fine dovette rassegnarsi a convivere con le loro generose misure e a riconoscere che tanto valeva metterle in mostra. Fu così che divennero il simbolo dell’impegno che avrebbe dato al popolo fiumi di latte e miele che la cattiva gestione maschile aveva sempre lesinato». Insomma, un escándalo de mie l, come s’intitola una recente «antologia poetica personale» della Belli.
Un attentatore spara a Viviana, lei rimane ferita gravemente, entra in coma. Tocca alle compagne che la sostengono, una fantastica squadra di cinque amiche, gestire l’emergenza. Provengono tutte dal partito che appunto ha vinto le elezioni, il Partito della Sinistra Erotica (sembra inventato come Faguas, ma negli Anni Ottanta la Belli aderì in Nicaragua a un’organizzazione femminista che aveva appunto questo nome). «Sarebbe un sogno poter ridisegnare questo mondo», aveva detto una volta Viviana: e la narrazione accompagna il lettore a scoprire come - nell’utopia di Faguas - questo sogno possa essersi realizzato.
Belli lo narra con la sufficiente ironia di chi non si fa illusioni: all'apparenza si è di fronte a una divertente fantasticheria, la lettura convince che bisogna sì ridere e sorridere, ma per cambiare le cose bisogna praticare l’impegno. Il «cantante rock più bello dell’America Latina» (si chiama Perrozompopo, che nome: ma nel libro incontriamo anche Juana de Arco, José de la Aritmética, cioè un Giuseppe d’Arimatea «ricreato» a Faguas, ecc.) dedica a Viviana una canzone in cui si dice: «Se vuoi cambiare | Inizia a camminare | Passo dopo passo, un piede davanti all’altro | Andiamo | Non starci a pensare». Il messaggio è trasparente, Gioconda Belli ci ricorda - con grazia irruente, con intuito - che la letteratura latinoamericana è spesso fatta di fantastico e di impegno.
"Nell’ utopica Faguas governano le donne dopo che le esalazioni di un vulcano hanno messo ko gli uomini La seducente leader della Sinistra Erotica e le sue 5 amiche, un divertente mix di fantasia e impegno"


il Fatto 16.7.11
Gli amici fraterni di Vendola sono pochi

Nessuno stupore di fronte alla boutade vendoliana di voler abolire la parola “compagni” in favore di un più... narrativo   “amici”. Intanto perché questa scelta conferma la devota vicinanza e assonanza del governatore della Puglia con gli ambienti democristiani, ma anche perché è comprensibile che, nell'era di Facebook, sia più facile per Vendola avere amici che compagni! Lo sa furbescamente bene e, anzi, se su Facebook ci fosse l'opzione "fratelli", gli andrebbe ancora meglio. Ma la cosa riguarda solo lui e altri affabulatori: basterà un clic per essergli amici in un istante e forse anche per votarlo! Invece per essere compagni ci vuole una vita intera di ideali comuni, di battaglie al fianco gli uni degli altri, di accese discussioni nel cuore della notte, di condivisione continua di realizzazioni e frustrazioni, personali e collettive, che sono il “pane” dei rapporti reali (e non virtuali). Se per Vendola questo non è importante, per noi altri sì: infatti continueremo a chiamare “compagni” i nostri veri amici. 
Paolo Izzo

Terra 16.7.11
Una lunga estate a dieta tra sondini e iniezioni
di Federico Tulli
qui
http://www.scribd.com/doc/60133970/Terra-16-7-11-p11

venerdì 15 luglio 2011

Repubblica 15.7.11
Intervista
Bersani: "Ora la svolta cambieremo un decreto che colpisce i deboli"
 "Via i ticket, i soldi si trovano altrove"
Il leader spiega che cosa farà il Pd dopo che sarà stata approvata la manovra
"Il premier non è più in grado di dare un messaggio all´Italia, di parlare di onestà, regole"
di Alessandra Longo

ROMA - Un minuto dopo l´approvazione della manovra i protagonisti politici ed economici di «questa vergogna» se ne devono andare. Via Berlusconi e via anche Tremonti. Pierluigi Bersani, reduce da un viaggio in Medio Oriente, riprende fisicamente posto sulla poltrona di segretario e chiarisce che il Pd si è impegnato ad accelerare i tempi di approvazione della manovra «solo per evitare minacce dall´esterno»: «Non lo stiamo facendo per Berlusconi ma per il Paese». Il senso di responsabilità non va confuso con qualsivoglia complicità. «Adesso ci vuole una svolta politica», dice il segretario del Pd. E annuncia: «Se tocca a noi, pur salvando i saldi, cambieremo l´asse di questa manovra classista. Se tocca a noi, toglieremo il ticket. I soldi si possono trovare altrove».
Onorevole Bersani, il governo Berlusconi sta per incassare il via libera alla manovra con una tempistica senza precedenti. Il giorno dopo che cosa succede?
«Il giorno dopo Berlusconi deve andare a casa. Ha preso una strada sbagliata e siamo all´ultimo tornante. Se il guidatore insiste nel tenere il volante, andiamo a sbattere».
E allora?
«E allora si deve andare ad elezioni, con nuovi protagonisti, nuovi programmi, nuove ricette nel rispetto del saldo di bilancio. Solo questo può ridare fiducia, credibilità e un senso di riscossa al Paese».
La seconda opzione?
«Non mi sottraggo all´ipotesi subordinata di un passaggio di transizione che renda possibile allestire una nuova legge elettorale e imbastire le riforme».
Berlusconi non vuole lasciare.
«Il peggio del peggio. Andare avanti così per altri due anni, con un ministro accusato di mafia, con un Consiglio dei ministri che non riesce a riunirsi, ci espone a tutte le intemperie».
Non pensa che la maggioranza sfrutti il vostro atteggiamento responsabile per blindarsi?
«Se lo scordino. Sia chiaro che noi siamo radicalmente alternativi, siamo un partito di governo con un´altra idea. Sono loro che ci hanno portato sin qui. Non c´è nessun tipo di collaborazione da parte nostra con un governo del quale non condividiamo la politica economica, le condizioni della trattativa, così come sono state poste a livello europeo, e i contenuti di questa manovra. Si tutelano gli evasori delle quote latte, ci si spaventa a morte per una lettera dell´Ordine dei notai e si fa pagare il ticket alla gente normale. Una vergogna».
Berlusconi non parla.
«Il suo silenzio è impressionante, il punto più basso di questa legislatura già bassa».
La scelta del rigore ricadrà così sul solo Tremonti e persino su voi dell´opposizione...
«Noi non condividiamo questa manovra. Colpisce i ceti medi e bassi, sega le autonomie locali, non mette niente sul tema della crescita, non disturba in modo significativo chi ha di più. I tagli lineari sulle detrazioni fiscali si rivolgono a chi paga le tasse. E quelli che non le pagano? Ne stanno fuori? E´ ingiusto. Ricordo che abbiamo proposto emendamenti per l´accorpamento dei piccoli Comuni, per il superamento dei vitalizi, per affrontare in modo credibile il problema delle Province... Nemmeno una di queste proposte è stata presa in considerazione».
Se toccasse a voi, cosa fareste?
«L´Europa ci conosce, sa che siamo persone di governo, che abbiamo affrontato momenti difficili, che non verremo mai meno agli impegni, pur discutibili, assunti da questo esecutivo. Se tocca a noi, garantiremo i saldi ma cambieremo l´asse di questa manovra».
Nessuno potrà dire che il Pd è complice del ritorno del ticket.
«L´hanno messo loro. Il Pd lo toglierà».
Tutto interessante ma se Berlusconi non se ne va?
«Sarebbe un irresponsabile. Deve prendere atto che la sua raccattata e ribaltonesca maggioranza parlamentare non rappresenta la maggioranza reale del Paese, l´abbiamo visto di recente alle amministrative e con i referendum».
In questo caso cosa farete?
«In democrazia si combatte. La gente comincia a capire e molti della maggioranza sono imbarazzati. Berlusconi non è più in grado di dare un messaggio all´Italia, di parlare di onestà, civismo, regole. Per 15 anni ha espresso l´esatto contrario di questi valori. Chiedo un moto dei "responsabili" di questo Paese, e non parlo di Scilipoti, ma dell´opinione pubblica, intellettuali, imprenditori, forze ragionevoli della maggioranza... E´ il momento di dire basta. Nei miei incontri in Medio Oriente, da Netanyahu ad Abu Mazen, ho registrato l´appello per un rinnovato protagonismo dell´Italia ma anche la sensazione che ormai tutti pensino che la stagione del berlusconismo sia finita».
Il discredito del governo conta sui mercati?
« Credo che il dato politico sia rilevantissimo. Non è stata tenuta una linea europeista che contribuisse a far parlare l´Europa con una voce sola in tema di investimenti sul lavoro e di tassazioni sulle transazioni finanziarie, la nostra politica economica si è rivelata sbagliata e non credibile. Se arrivasse nei prossimi mesi una svolta politica, questo non porterebbe instabilità ma, al contrario, fiducia».
Ne ha parlato durante l´incontro che ha avuto con il governatore Draghi?
«Ovviamente non riferisco i contenuti di una conversazione. Posso dire qual è il mio interesse: trovare la risposta per far vedere al mondo che in Italia si può invertire la rotta e dare nuovo impulso alla crescita».

il Fatto 15.7.11
Il partito vaticano dei cattolici
Berlusconi e Casini non bastano più
di Marco Politi

Rifare un partito cattolico in Italia. L’obiettivo del Vaticano è senza infingimenti e sempre più insistente. Alle ore 16 del 14 luglio 2011, nella sede della Confcooperative di Roma, l’esponente di Curia monsignor Toso demolisce un caposaldo della dottrina conciliare: il pluralismo dei cattolici. Bisogna ?superare, afferma il segretario del consiglio pontificio Giustizia e Pace davanti a rappresentanti dell’associazionismo bianco e un nucleo di politici cattolici multipartisan (Pisanu, Gasbarra, Fioroni, Binetti, Pezzotta, Buttiglione, Cesa), l’ideologia della diaspora. Niente impedisce, spiega il responsabile vaticano, che i cattolici italiani, valutate le condizioni storiche e le poste in gioco, possano decidere di creare un partito di ispirazione cristiana. 
POTREBBE ESSERE un qualsiasi seminario teorico, infatti è organizzato dalla rivista La Società che si occupa di dottrina sociale della Chiesa, ma non lo è. A dieci giorni di distanza dalla riunione a porte chiuse con le stesse rappresentanze, dove si discusse del dopo-Berlusconi e della sorte del Pdl con la segreteria Alfa-no, il segretario del consiglio Giustizia e Pace torna sul tema in un convegno pubblico. Per chi conosce i riti vaticani e la prudenza del personale di Curia nel prendere la parola in pubblico, una simile insistita esposizione è un segnale plateale. Il Vaticano vuole occuparsi direttamente dell’organizzazione politica del cattolicesimo italiano in vista della Terza Repubblica. Patrono dell’operazione è il cardinale Bertone.
Ascoltando Toso nell’imbarazzante (e forse voluta) assenza della conferenza episcopale   italiana, sembra di tornare indietro di sessant’anni. C’è una gerarchia vaticana che intende prendere per mano i fedeli e inquadrarli politicamente. Colpisce il tono assertivo. Siamo qui per parlare di una nuova generazione di politici cattolici, spiega Toso. Serve, aggiunge, una maternità ecclesiale per questo progetto. Una nuova generazione di presbiteri e guide spirituali che sappiano accompagnare e dialogare con gli amministratori e i rappresentanti presso i parlamenti nazionali e sovranazionali?.
E? l’evocazione di un tutoraggio ecclesiastico ai cattolici in politica, di cui dopo il Concilio   non si era più sentito parlare. Toso auspica che ?in un prossimo futuro vescovi, politici, economisti, giuristi assieme a rappresentanti di movimenti e associazioni della società civile diano vita ad un ?movimento di riflessione e di azione. Si accenna anche al livello europeo, ma è solo una spruzzatina di lime nel cocktail: l’obiettivo è l’Italia.
Il richiamo alle associazioni è brusco. Stop a meschini contrasti   . D’altronde, e qui si rivela la fretta dell’operazione politica vaticana, non occorre mobilitare tutto il mondo cattolico. Basta una minoranza salda?.
L’attacco ai principi e alla prassi del pluralismo cattolico è senza veli. L’uomo della Curia chiede il superamento sia dell’ideologia della diaspora sia del convincimento velleitario che in campo sociale sia sufficiente l’unione morale degli intenti senza una qualche unione morale esterna, concretizzantesi in alleanze trasversali o in partiti di ispirazione cristiana. Ogni termine è centellinato.
Decretare che dopo il Concilio   sia improponibile la nascita di partiti di ispirazione cristiana scandisce Toso, sarebbe condannare il laicato cattolico ad una minorità politica, a partecipare soltanto ai partiti che fondano gli altri, come se fossero cittadini di serie B incapaci di fondarne uno loro.
Tutto scritto nero su bianco, relazione distribuita ai giornalisti. Un rovesciamento totale della prospettiva conciliare per cui non è la Chiesa a spiegare come devono agire i cattolici in politica, ma sono i fedeli ad assumersi la responsabilità delle loro scelte. Toso, peraltro, cita anche lui l’autonomia dei politici cattolici, ma   dopo avere indicato ex cathedra già la prospettiva.
Aleggia per la sala un effetto di straniamento. Riportare nell’Italia della seconda decade   del terzo millennio la prospettiva di liderismo politico ecclesiastico alla Pio XII, di una neo-Dc comunque travestita, di un collateralismo dell’associazionismo cattolico da anni Cinquanta, ha il sapore di un film irreale.
MA NON C’È dubbio che questo è ciò che hanno in testa in Vaticano e che ad una specie di sezione italiana del Partito popolare europeo in qualche modo si arriverà. Invano il secondo relatore, lo storico Ernesto Preziosi, ricorda che i deputati cattolici non sono eletti dalla Chiesa e i fedeli ?oggi votano da italiani e non da cattolici. Toso, lasciando la riunione, ribadisce ai giornalisti: “La nascita di un partito cattolico o di un partito di ispirazione cristiana, non è una ipotesi da escludere, analizzando l’attuale situazione politica”. 

il Fatto 15.7.11
La lotta oltre il girotondo
di Paolo Flores d’Arcais

Tra i movimenti di impegno civile degli ultimi dieci anni, “Se non ora quando” (ormai familiarmente Snoq) è l’unico ad aver imboccato la strada dell’organizzazione. Lo ha fatto con il mega-incontro di Siena, alcune migliaia di donne e 120 club locali (in rapida moltiplicazione). Una novità e una lezione. Tutte le altre esperienze di lotta della società civile, dai girotondi ai popoli viola alle varie “onde” studentesche, non ci sono riusciti o non ci hanno neppure provato. Colpevolmente. La forza di ogni protesta di massa rischia infatti di passare dall’andamento “carsico” alla dissipazione e infine all’esaurimento, se non riesce a sperimentare una struttura minima, a “geometria variabile”, capace di garantire continuità (e accumulazione delle energie) tra una “esplosione” di piazza e l’altra. 
I GIROTONDI conobbero un intero anno (il 2002) di iniziative di massa, e l’onda lunga della “festa di protesta” si prolungò fino al 2004, quando in gennaio tutti i leader dei partiti del centro-sinistra si sentirono obbligati a un confronto al Teatro Vittoria con Nanni Moretti e gli altri leader (e Romano Prodi inviò un messaggio che era un “endorsement”). Ma da quella straordinaria e prolungata mobilitazione non venne nulla, nessun rinnovamento dei partiti e nessun indebolimento di Berlusconi, proprio perché non si volle tentare la strada dell’auto-organizzazione (di questo errore resto uno dei principali corresponsabili). Eppure, quel movimento sapeva che “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Abbiamo perso dieci anni. 
Ora le donne di Snoq affrontano il problema, e indicano con ciò la strada a tutto il magma di mobilitazioni e lotte latenti nella società civile. Anche loro, però, rimuovono la vera pietra d’inciampo, l’ineludibile “hic Rhodus, hic salta”: la scelta di fronte alle scadenze istituzionali e in particolare alle prossime elezioni politiche. Che saranno cruciali: se Berlusconi vince realizza il suo progetto di fascismo postmoderno.
Non basta perciò affermare che ogni movimento elaborerà le sue proposte programmatiche ma eviterà di impegnarsi ulteriormente nella vicenda elettorale (indicando partiti e candidati, impegnandosi direttamente, scegliendo una formula mista) proprio per mantenere la sua autonomia. Così non si garantisce l’autonomia ma la consunzione fino all’estinzione   . Che senso ha contestare Rosy Bindi e Flavia Perina e poi rifiutarsi di affrontare la responsabilità che più che mai incombe su ogni movimento, quello di prendere posizione senza infingimenti, diplomazie curiali e altre perifrasi, rispetto al momento decisivo di una democrazia rappresentativa, le elezioni per il Parlamento?
Più che mai, lo ripeto. Se vivessimo in una liberaldemocrazia mediamente funzionante, avrebbe senso considerare sufficiente per un movimento elaborare rivendicazioni e influire con le proprie lotte sui partiti politici. Ma in Italia è ormai almeno da una generazione, e in modo crescente (e con l’ultimo governo Berlusconi, crescente in maniera esponenziale) che il problema strutturale è costituito dall’incapacità dei partiti di rappresentare gli elettori. I partiti sono ormai macchine per espropriare la sovranità popolare anziché rappresentarla. Berlinguer lo aveva capito nell’intervista a Scalfari sulla questione morale, che è di trent’anni fa, e contava sulla “diversità” del Pci come alternativa. I piccoli dissipatori dell’eredità berlingueriana hanno invece omologato il post-Pci agli altri, ma nel frattempo il centro-destra   è passato dalle sconcezze del Caf (per i più giovani: Craxi-Andreotti-Forlani) alla dismisura fognaria del regime cleptocratico delle cricche e della onnipervasiva caimanocrazia. 
CHE SENSO ha, in questa tragedia di macerie morali, istituzionali, culturali, economiche, e infine sociali (dove ogni giorno si toglie qualche euro a chi non arriva a fine mese, per coprire d’oro diadochi e lacchè del narcisocrate di Arcore), fingere che il disimpegno dal momento elettorale ci renda vestali dell’autonomia dei movimenti? È vero esattamente il contrario.
La società civile (Snoq ci è servito come positivo punto di partenza, il discorso riguarda tutti i movimenti, in atto e potenziali) non può più influire sulla politica se non partecipando direttamente. Senza di che, la propria rivendicata autonomia sarebbe solo vestibolo d’impotenza.
Il variegato mondo della cittadinanza attiva (bollata come “antipolitica” benché in realtà voglia più politica, ma radicalmente   diversa da quella degli attuali partiti, anche di opposizione) deve perciò decidere COME partecipare, non SE. Ma con l’attuale legge elettorale, partecipare significa essere componente di una delle due coalizioni principali.
ECCO perché considero necessario che alle prossime elezioni vi siano una o più liste di società civile accanto ai partiti del centro-sinistra e con pari dignità. Più d’una, probabilmente, perché diverse sono le sensibilità (e radicalità) circolate nelle lotte, e tutte devono avere rappresentanza. La “porcata” (solo) da questo punto di vista è un vantaggio: dentro una coalizione, anche un risultato con percentuale minima non risulta sprecato.
Liste di cittadini senza partito, che giurino di fare i parlamentari per una sola legislatura. Liste che in più punti saranno in dissonanza tra loro e soprattutto con il Pd e gli altri partiti, di modo che il programma di governo nascerà dai risultati concorrenziali che usciranno dalle urne (ma anche a destra è così).
Non cominciare a discuterne TUTTI INSIEME e SUBITO sarebbe, mi sembra, irresponsabile e suicida.

Repubblica 15.7.11
Modesta proposta per la riforma elettorale
di Gustavo Zagrebelsky

1."Mai più alle urne con questa legge elettorale!". Questo è ciò che da molti s´è detto in scritti, convegni, conferenze, conversazioni che non si contano più, e che abbiamo tante volte ripetuto a noi stessi guardando allo spettacolo politico che abbiamo davanti agli occhi. Si farebbe un errore madornale se si considerasse come un semplice, normale e in fondo fisiologico stato d´animo insoddisfatto quello che è un dato obiettivo, cioè una pubblica, diffusa opinione, giunta ormai sull´orlo di un ripudio, dalle conseguenze imprevedibili, nei confronti d´una "classe politica" che su questa legge elettorale s´è modellata e si prepara a riprodursi.
Non è nemmeno il caso di ritornare, se non per accenni, sulle ragioni di quel "mai più": un assurdo premio elettorale che trasforma una piccola minoranza (sia pure la più grande delle piccole) in una larghissima maggioranza parlamentare; il "blocco" delle candidature scelte dai vertici di partito per ragioni spesso opache, sempre meno politiche e sempre più di clan e di clientela; un Parlamento che ha drammaticamente smarrito il suo senso politico, il cui pregio sembra esser l´obbedienza; deputati e senatori di cui non si conosce il pensiero, posto che un pensiero ci sia, per i quali la coerenza non è una virtù, ma lo sono la fedeltà e l´obbedienza o, al contrario, il tradimento, il trasformismo, la corruzione. Una generalizzazione ingenerosa? Può essere.
Ma la generalizzazione è divenuta un dato, che deve essere preso come tale, realisticamente; un dato che va molto al di là dell´antiparlamentarismo endemico. L´indegnità di pochi ridonda inevitabilmente in discredito di tutti, soprattutto se latitano gli anticorpi, onde si ha un bel condannare i giudizi sommari. Quel "mai più!" dice in breve il non essere disposti di tanti cittadini a portar ancora acqua all´interesse di chi appartiene a giri d´interesse e di potere, invisibili e talora occulti; giri che operano spesso fuori, o contro la legge comune e che, all´occorrenza, la legge se la fanno a piacere. Voi che sedete in Parlamento e, soprattutto, voi che, per quel che vi riguarda, vi ribellate all´idea d´essere considerati così, siete consapevoli che questo è il ritratto che, fuori dagli ambienti dove siete di casa, viene fatto di voi? Non vi dice nulla il fatto che non c´è quasi più manifestazione pubblica non promossa da partiti in cui non si chieda loro di non farsi vedere o di non farsi riconoscere? Non è questo, un campanello di massimo allarme?
2. L´appello a liberarci da una legge elettorale perfettamente coerente con questo degrado delle istituzioni parlamentari deve essere ribadito, quando il tempo di nuove elezioni s´avvicina. Non bisogna guardare alle convenienze di parte. Anche se la legge attuale, quella che porta il nome Calderoli, secondo gli orientamenti elettorali attuali potrebbe servire a sconfiggere il centro-destra, a mettere in difficoltà qualche partito di quella coalizione e a far vincere il centro-sinistra: anche se così fosse, non ci si deve far prendere da questo genere di argomenti. Non solo le previsioni, in questo campo, sono sempre infingarde; soprattutto, in materia di democrazia e costituzione, si deve ragionare indipendentemente dalle (presunte) convenienze particolari e contingenti. Altrimenti, finiremmo per adeguarci proprio a coloro che in tutto questo tempo di degrado della vita pubblica abbiamo criticato per la loro concezione strumentale delle istituzioni, a coloro che le hanno umiliate ponendole al servizio degli interessi di alcuni contro quelli di tutti. Quando – a iniziare dalla manifestazione del 5 febbraio al PalaSharp di Milano – un´associazione come Libertà e Giustizia ha chiesto le dimissioni del Presidente del Consiglio e del suo governo, l´ha fatto non come atto di opposizione meramente politica o, tantomeno, d´intolleranza personale, ma come difesa di istituzioni mai come ora dileggiate, privatizzate, violentate. Il problema non è sconfiggere un avversario con i suoi stessi mezzi, ma incominciare a ragionare e operare per ricostruire la vita pubblica su altre basi.
3. Quel "mai più!" mira all´abrogazione della legge Calderoli, non a introdurne specificamente un´altra, come risultato di scelte preferenziali tra diverse opzioni: innanzitutto, tra la prospettiva maggioritaria e quella proporzionale e poi, all´interno di queste opzioni, tra le numerose possibilità di articolazione che la fantasia elettoralistica e gli esempi di diritto elettorale comparato offrono con dovizia ai nostri volenterosi riformatori: premi di maggioranza e clausole di sbarramento, dimensioni dei collegi, recupero dei voti, turno singolo e doppio, apparentamenti, desistenze, ecc., tutte cose che fanno le gioie e le paure dei diretti interessati. Se ci s´incammina nella selva delle tante possibilità, il risultato è e sarà la somma d´ipotesi contraddittorie che non si sommano nel risultato ma si elidono, con l´effetto di paralizzare la riforma e confermare la legge elettorale che c´è: a onta di tutte le dichiarazioni d´intenzione di quanti sinceramente dicono di volerla cambiare e a beneficio di coloro che, e destra e soprattutto a manca, parlano solo pro forma, mentre si augurano che nulla cambi, per non rinunciar a godere delle delizie elettorali presenti.
4. Poiché, peraltro, un sistema elettorale deve pur esserci, non bastando dire di no a quello che c´è, il ripristino di quello anteriore, che prende il nome dal suo inventore, Mattarella, potrebbe essere la soluzione per colmare decorosamente il vuoto determinato dall´abrogazione della Calderoli. Ciò in attesa che, nei tempi necessari e certamente non brevi, venga a formarsi in Parlamento un consenso sufficientemente vasto su una riforma elettorale semplice, facilmente comprensibile per i cittadini, dettata nell´interesse della democrazia e destinata a valere stabilmente per il futuro. A questo fine, la strada più semplice passa per una piccola legge fatta di due proposizioni: è abrogata la legge attuale ed è riportata in vita la legge precedente. La strada più semplice, ma anche la più sicura. La via alternativa – il referendum abrogativo – era ed è d´incerta percorribilità: non è certo che dall´abrogazione derivi di per sé il ripristino della legge precedente. Potrebbe semplicemente determinarsi il vuoto, ma il vuoto, in materia elettorale, è inconcepibile perché renderebbe impossibile il rinnovo degli organi elettivi e bloccherebbe la democrazia in uno dei suoi aspetti maggiori. Per questo, un simile referendum potrebbe non superare il vaglio di ammissibilità presso la Corte costituzionale.
5. In Parlamento, in questi mesi, nulla di significativo è accaduto e ora, nel tempo stretto che precede le prossime elezioni politiche, siamo in presenza di diverse proposte referendarie, per le quali è iniziata o sta per iniziare la raccolta delle firme necessarie. Ancora una volta, siamo nel pieno della confusione. Tutte mirano al superamento della legge vigente e, in questo, sono meritorie. Tuttavia, una (Passigli) comporta il ripristino della proporzionale (con uno sbarramento contro la frammentazione al 4%, ma – a quel che si può capire - col mantenimento delle liste bloccate, in mano ai partiti); un´altra (settori del Pd) riproporrebbe la Mattarella (una combinazione di logica proporzionale e logica uninominale maggioritaria); un´altra ancora, spuntata nell´ultima ora (costituzionalisti vari), preluderebbe a un sistema esclusivamente maggioritario-uninominale. Nessuna di queste iniziative si presenta accompagnata da una ragionevole probabilità d´essere ammessa dalla Corte costituzionale, o per il carattere accentuatamente manipolativo dell´operazione di taglia-cuci sul testo della legge in vigore, o per l´incerta speranza che all´abrogazione pura e semplice della legge che c´è segua l´automatica rinascita della legge che c´era. In più – aspetto non considerato finora – le tre iniziative sono così diverse l´una dall´altra da impedire che possano raggrupparsi per somiglianza, finendo così per elidersi l´una con l´altra: supponiamo che, nel referendum, due o tutte e tre ottengano la maggioranza. Sarebbe il caos. Quale sarebbe la legge sulla quale si potrebbe contare? Presumibilmente, questo scenario da incubo costituzionale spingerebbe la Corte costituzionale sulla via dell´inammissibilità e tutto resterebbe fermo, come prima, come adesso. Con la massima soddisfazione di coloro – temiamo siano tanti - che dicono che tutto deve cambiare perché nulla cambi.
6. L´unica strada percorribile – sempre che si voglia – è ancora quella suggerita a suo tempo, che chiama alla loro responsabilità coloro che in Parlamento dicono di volere cambiare. Basterebbe una piccola legge composta di due frasi: la legge Calderoli è abrogata; la legge Mattarella è riportata in vigore. Nessuna prospettiva sarebbe pregiudicata e i proporzionalisti come i "maggioritaristi" potrebbero lavorare con calma per costruire in futuro, attorno alle proprie posizioni, il consenso necessario. A prima vista, in questa congiuntura politica, se esiste una "classe dirigente" - come ama autodefinirsi - non dovrebbe essere del tutto fuori del campo delle sue possibilità costruire le alleanze parlamentari in vista di questa temporanea soluzione, soprattutto ora, quando la maggioranza mostra di vedere, nel confronto con l´opposizione, una necessità vitale. Bisognerebbe avere il coraggio di fare una mossa, porre questioni, non solo aspettare inerti e subire. Il rischio d´insabbiamento, a discutere ancora al proprio interno di nuove e creative soluzioni legislative, farraginose e del tutto prive di possibilità di successo (in sede Pd, si è da ultimo ripresa l´idea d´un maggioritario a doppio turno con recupero proporzionale e "diritto di tribuna" - cosa allettante! -; come se non bastassero le soluzioni à la spagnola, francese, tedesca, inglese, israeliana, ecc., è comparsa quella "all´ungherese"), è molto elevato. Così elevato che il continuare su questa strada giustifica il sospetto che, sotto sotto, la Calderoli vada a genio a molti che pur dicono d´avversarla. Continuare a dividersi sulle soluzioni e contemporaneamente appoggiare (vero o finto) i referendum significa che alla prossima tornata andremo di sicuro a votare ancora con la legge attuale: le elezioni sono vicine e, se del caso, basta che i sostenitori dello status quo le anticipino un poco, perché i referendum, ammesso che si raccolgano le firme necessarie, slittino d´un anno, cioè a cose fatte.
7. Che cosa resta, allora, dei referendum? Molta incertezza e confusione e limitato entusiasmo; qualche speranza tuttavia nella sollecitazione di chi, in Parlamento, sente la responsabilità di raccogliere il malessere e la domanda di cambiamento che salgono da una parte crescente del nostro Paese.

Corriere della Sera 15.7.11
Bersani chiama in causa l'Europa
Così la sinistra rivede il Medioriente
di Tobia Zevi

Il recente viaggio di Pierluigi Bersani mostra un’evoluzione profonda della sinistra italiana nei riguardi della questione mediorientale. Si tratta di un tema assai evocativo per la base, storicamente più sensibile alle ragioni dei palestinesi, sebbene nel corso degli anni leader come Piero Fassino, Walter Veltroni e Nicola Zingaretti abbiano espresso posizioni equilibrate. Il primo elemento di novità è che il conflitto israelo palestinese, drammatico e urgente, non è più sufficiente a spiegare le tensioni mediorientali e mediterranee; le «primavere» degli ultimi mesi descrivono scenari diversi, problematici e al tempo stesso positivi, in cui le giovani generazioni mirano a ottenere diritti e libertà. I regimi provano a resistere al cambiamento in maniera brutale, primi fra tutti Iran e Siria, e tutto ciò non riguarda né gli israeliani né i palestinesi. Bersani ha ribadito la necessità di ritornare ai negoziati. Nel riconoscere legittima l’aspirazione palestinese a uno Stato indipendente, il segretario Pd ha sottolineato la necessità che Israele possa vivere in pace e sicurezza (ricevendo rassicurazioni sulla composizione del governo da parte di Abu Mazen). Senza affrontare i termini di un possibile accordo, occorre chiarire che anche gli israeliani hanno fretta: sanno bene che nel giro di pochi anni gli ebrei rischiano di non essere più la maggioranza della popolazione, negando in questo modo l’essenza stessa del sionismo. Come afferma Sergio Della Pergola, stimatissimo demografo, in futuro Israele non potrà essere contemporaneamente ebraico, grande e democratico. Dovrà rinunciare a uno tra questi aggettivi, auspicabilmente il secondo. Infine, in un’epoca di egoismi, divisioni e scarsa propensione alla visione futura, Bersani ha rimesso al centro l’Europa, che spesso in questi anni si è più volentieri schierata tout court con i palestinesi, rinunciando a esercitare una funzione di supporto e mediazione tra le parti. Non è certo un lavoro semplice, ma chi se non l’Europa ha da guadagnare da un Mediterraneo pacificato?

Repubblica 15.7.11
Dalla liturgia all´archeologia la parola "compagni" va in soffitta
E anche Vendola ammette: meglio dire "amici"
È in tv che muore l´espressione "cum panis", lì non si spezza più il pane con nessuno
Una parola vintage, che rimanda a stagioni di lotte ma anche di ambiguità e scomuniche
di Filippo Ceccarelli

Su fratelli e su comp... alt, fermi, crrr, zzz, bip-bip-bip, il disco si è rotto, il meccanismo s´inceppa e così anche l´infallibile macchina narrativa, il prodigioso dispenser emozionale di Nichi Vendola non vuole più saperne di pronunciare quella parola lì: compagni.
E´ vecchia. E´ pesante. E´ ingombrante. Suona un po´ forzata e quindi fasulla. Compagni, dai campi e dalle officine: ma quali campi e che diavolo di officine? In vena di ispirato autobiografismo, il presidente della regione Puglia (pescato da Repubblica.it, che ha portato alla luce la notizia) ha pure detto che sin da giovane gli sarebbe piaciuto di più «amici». Ma nel Pci di trent´anni orsono non si poteva. «Amici» oltretutto si chiamavano tra loro i democristiani, con effetti per lo più stranianti dato che amici non erano affatto, e notoriamente. Quando negli anni 60 le Acli fecero «la scelta di classe» - si diceva proprio così e allora quasi tutti capivano - nei loro raduni si inaugurò una formula rituale di saluto che doveva accontentare anche i dc: «Amici e compagni».
Ma anche senza l´appellativo raddoppio «compagni» resta archeologico, vetero-linguistico. E sarà certamente anche glorioso, tale da evocare in milioni di persone ricordi commoventi, soffioni di nostalgia e tanta letteratura, poesia, cinema, musica, ma oggi «compagni» pare abbastanza superato, prova ne sia un certo fascino vintage o suggestioni tipo bianco e nero. Senza offesa.
Le liturgie sono cose serie, come senz´altro lo furono nel secolo scorso le identità e le culture politiche, le appartenenze e le grandi narrazioni collettive, ma anche loro perdono energia e poi irrimediabilmente si consumano; fino a rendere plausibile il dubbio che discussioni del genere, ancorché cicliche (l´attore Fabrizio Gifuni a un meeting del Pd un anno fa), siano anche una perdita di tempo.
In realtà la parola, anzi l´invocazione «compagni» è rimasta vittima della tecnologia, in particolare delle visioni a distanza, insomma della tv. E´ negli studi televisivi che si spegne il calore dell´espressione «cum panis», dal latino delle corporazioni medioevali, dinanzi alle telecamere non si spezza più il pane con nessuno, è lì che viene meno quella vicinanza, quel guardarsi in faccia, quella reciprocità di rapporti umani. Impossibile dimenticare il sopracciglio inarcato di D´Alema, allora presidente del Consiglio, quando un incauto segretario di sezione ds gli si rivolse con il tu a qualche Ballarò. Non c´erano già più compagni in questa Italia fatta di divi, pubblico e figuranti.
Eppure si può dire che al termine di una stagione che fu anche di scomuniche («Non è più un compagno») e di ambiguità («Un compagno non può averlo fatto») l´espressione continuò a vivacchiare nelle pieghe del discorso della sinistra, sempre più flebile in mezzo all´erosione ideologica e allo scombussolamento delle forme.
Con il dovuto arbitrio si può addirittura valutare che un colpo decisivo nel senso della dismissione lo diede una formidabile definizione che nel 1996 il ministro Filippo Mancuso riciclò dall´orrenda cronaca del mostro di Firenze per scagliarla addosso all´allora premier Dini e al Capo dello Stato Scalfaro: «Compagni di merende». Anche se poi le vie della dissacrazione beffarda, seppur lastricate di innocenti parodie, condussero addirittura al «compagno Fini». A quel punto, con buona pace di Vendola e dei suoi ripensamenti, una storia si era chiusa - e per il pensiero, forse, si aprono insperabili orizzonti.

il Fatto 15.7.11
Protagoniste
Quando la scienza è femmina
“Scienziate d’Italia” racconta diciannove storie esemplari di donne nella ricerca: Levi Montalcini, Hack e non solo
di Elisabetta Strickland

I TEMI DELL’EGUAGLIANZA di genere hanno assunto un ruolo centrale nel dibattito tra istituzioni, parti sociali e mondo produttivo, in tutti gli ambiti della vita sociale e professionale. Non fa eccezione la ricerca scientifica, le cui problematiche sono simili a quelle rilevate in altri settori professionali. L’esigenza di valorizzare la presenza femminile in questo ambito è giustificata da diverse considerazioni. Intanto si tratta di una questione di diritti umani e giustizia sociale, poiché tutti gli individui devono avere le stesse opportunità di accesso all’educazione scientifica e devono poter ugualmente beneficiare dei progressi della scienza e della tecnologia. Inoltre, uno scarso coinvolgimento delle donne nella ricerca scientifica comporta gravi perdite in tema di competenze e talenti, con pesanti conseguenze per l’intero settore scientifico-tecnologico in termini di produttività e competitività. Valorizzare i talenti femminili, infine, significa mettere in risalto le diversità e il contributo scientifico che le donne possono apportare alla ricerca in virtù delle loro caratteristiche peculiari di sensibilità, intuito, motivazioni e approccio al lavoro. Se le donne rappresentano in Europa la metà del totale dei laureati in discipline scientifiche, le ricercatrici costituiscono solo un terzo del totale dei ricercatori europei e la percentuale decresce man mano che si sale nella gerarchia professionale, tanto che solo un quinto dei professori ordinari nelle università è di sesso femminile: questo è un ulteriore   fenomeno detto pipeline shrinkage, un gergale inglese che rimanda a una perdita di materia prima durante il percorso. (…) La storia delle donne nella cultura e nella vita civile dei paesi industrializzati è stata spesso una storia di emarginazione sino alla fine dell’Ottocento e in gran parte sino alla fine del Novecento. Nei paesi in via di sviluppo la situazione è persino più grave, perché le donne sono ancora ben lontane dal veder riconosciuti i più elementari diritti umani. Per secoli le donne non hanno avuto accesso all’istruzione e ancora all'inizio del secolo scorso, in molti paesi europei, alle donne era precluso l’accesso alle università. Non meraviglia quindi che il numero delle donne scienziate presenti nei diversi periodi storici risulti insignificante, se confrontato con quello degli uomini. Nell’antichità sono state individuate circa venti donne scienziate, una decina nel medioevo, nessuna dal 1400 al 1500, una ventina nel 1600 e nel 1700, poco più di un centinaio nel 1800. È da poco che ci si è chiesto come mai alle donne sia stato precluso l’ingresso nel mondo della scienza per così tanto tempo. Hanno cominciato gli americani a produrre pubblicazioni per un’opportuna sensibilizzazione, e successivamente anche in Europa sono sorte associazioni finalizzate a promuovere il lavoro delle donne in campo scientifico. Certamente, in una cultura profondamente patriarcale come quella occidentale, è logico che si sia teso a tenere lontane le donne da un centro di potere così importante come il territorio della scienza. Questa   storia di emarginazione ha avuto tratti eclatanti sino alla fine dell’Ottocento. L’inferiorità intellettuale della donna era letteralmente postulata, senza bisogno di ulteriori indagini. Tale presunta inferiorità intellettuale ha comportato necessariamente conseguenze sociali che sono ancora in opera in tutte le società umane. Sulla base di tali convinzioni, anche le modalità   con le quali in passato venivano istruite le nuove generazioni si sono rivelate penalizzanti per le donne e per il loro ingresso nella scienza. Infatti, prima del sorgere dell’istituzione scolastica, l’istruzione veniva impartita all'interno della famiglia da maestri pagati privatamente, dando sempre la precedenza o ancor peggio l’esclusiva ai maschi. Anche le donne che venivano istruite nei conventi tendevano a occuparsi di teologia, più che di materie scientifiche. A emergere sono state solo poche, favorite dall’avere un padre, un fratello o un marito scienziato disposto a condividere le proprie conoscenze. (…) Sono i fattori culturali a far sì che le donne si muovano con maggiori   difficoltà nel mondo della scienza. Come sostenne a suo tempo la scrittrice Charlotte Brontë, «i pregiudizi, è risaputo, sono molto più difficili da sradicare dal cuore di coloro il cui suolo non è mai stato dissodato o fertilizzato dall’istruzione; essi crescono forti come l’erbaccia fra le rocce». Quando un contesto professionale è illuminato dalla cultura, dall’apertura mentale e dal senso di giustizia, le questioni di genere si identificano con la valorizzazione delle differenze e delle peculiarità e con la ricerca della complementarietà. Quando prevalgono l’ignoranza, il pregiudizio e l’ipocrisia del gioco fine a se stesso del potere, la questione di genere diventa la battaglia per riconoscere il merito della persona indipendentemente dall’essere una donna o un uomo e, clamorosamente, bisogna occuparsi di promuovere il ruolo della donna come di una minoranza da difendere, senza mai avere di fronte un nemico aperto, ma sempre e soltanto preconcetti, spesso inconsapevoli.
Elisabetta Strickland, Scienziate d’Italia. Diciannove vite per la ricerca, Donzelli, pagg. 110, • 16,00, in libreria dal 20 luglio

Corriere della Sera 15.7.11
Rousseau padre ambiguo di illuministi e romantici
Teorico dell’uguaglianza e della volontà generale litigò con altri filosofi e scrisse anche di botanica
di Armando Torno

J ean-Jacques Rousseau (Ginevra 1712 -Ermenonville 1778) fa parte di quei filosofi che, per un motivo o per l’altro, sono sempre attuali. Dalla rivoluzione francese è lettura d’obbligo, entra continuamente nei dibattiti sull’educazione per l’Emilio o in quelli politici per Il contratto sociale; le sue Confessioni restano un modello e, nonostante fosse un compositore mediocre con una venerazione per l’opera buffa napoletana, persino i musicologi non lo hanno dimenticato. Eppure Rousseau, campione della democrazia e dell’uguaglianza, esaltatore dello «stato di natura» , aveva un carattere pessimo: litigò con Diderot e con d’Alembert dopo un’intensa amicizia e progetti comuni, con Voltaire arrivò all’odio, e pur essendo stato ospite di Hume in Inghilterra lo ripagò malamente. Ma senza Rousseau molta filosofia moderna sarebbe orfana, la sinistra scarseggerebbe di argomenti e Marx dovremmo immaginarlo senza quegli artigli che incutono ancora timore. E questo anche se nel 1945 Bertrand Russell lo definì «antenato dei nazisti e dei fascisti» e Charles Maurras nel 1933 aveva scritto solennemente che «la filiazione Lutero, Rousseau, Kant, Fichte, Bismarck, Hitler è evidente» . Ignorandone l’opera, però, non si riuscirebbe a parlare a fondo di illuminismo e persino di romanticismo. Insomma, questo ginevrino è come un’ipoteca sul mondo contemporaneo. Il 28 giugno 2012 cadrà il terzo centenario della sua nascita e le edizioni Slatkine di Ginevra, in collaborazione con le edizioni Honoré Champion di Parigi, pubblicheranno tutte le opere e le lettere, in 24 volumi. Usciranno insieme quel giorno, come un ideale regalo di compleanno. Sono previste una tiratura rilegata, una in brossura e una elettronica. Dirigono tale impresa Raymond Trousson e Frédéric S. Eigeldinger (per le epistole sono affiancati anche da Jean-Daniel Candaux). Il cantiere editoriale è iniziato nel 2008 e con questa pubblicazione saranno presentati per la prima volta numerosi inediti (l’edizione classica, in 5 volumi, di Bernard Gagnebin e Marcel Raymond, disponibile ancora nella Pléiade, sarà integrata e superata). Abbiamo chiesto a Raymond Trousson quali sono le ragioni di questa iniziativa ed egli, con voce piena ed elegante, risponde: «Il progetto di una edizione mise à jour delle opere complete di Rousseau non è nuovo. Numerosi specialisti hanno sentito da tempo la necessità di un aggiornamento, reso indispensabile dalle continue ricerche. Ogni anno in tutto il mondo appaiono almeno una ventina di libri e centinaia di articoli e saggi che rinnovano le prospettive di lettura e di interpretazione di questo filosofo, rivelandone aspetti sconosciuti» . E dopo una pausa: «La magistrale edizione della Pléiade, il cui primo volume apparve nel 1959, fu realizzata dai migliori specialisti dell’epoca. Quella che apparirà nel 2012 adotterà una ortografia modernizzata, garanzia di una migliore leggibilità, ed è destinata al pubblico vasto dei lettori oltre che a quello degli specialisti» . Di più: «Ha inoltre il vantaggio di essere divisa tematicamente: per esempio i primi tre volumi autobiografici, i successivi tre conterranno opere politiche ed economiche, eccetera. Tale disposizione consente una lettura coerente, senza perdere di vista la prospettiva, giacché ogni tomo conterrà la cronologia dettagliata delle opere» . C’è stato poi un ritorno alla consultazione dei manoscritti («indispensabile» , nota Trousson) e un apparato critico terrà conto «degli apporti più recenti della critica, anche per le opere minori, per la prima volta messe in luce da analisi approfondite» . In questa edizione trovano spazio tutte le pagine di Rousseau, quindi anche i lavori sulla botanica, le «importanti» Institutions chimiques (che mancavano nell’edizione della Pléiade e in quelle precedenti); inoltre — sottolinea Trousson — «si scopriranno un buon numero di frammenti inediti provenienti dalle collezioni della biblioteca di Neuchâtel, o si vedrà l’utilizzazione di manoscritti di recente scoperti per La Nuovelle Héloïse, né mancheranno le traduzioni inedite di Orazio, Seneca o Strabone o delle note che lasciò per le Opere morali di Plutarco» . Ma si è fatto qualcosa di più, rendendo meglio comprensibili non pochi testi, che finalmente raggiungono una sorta di completezza: «Si è avuto anche cura di unire al Discours sur les sciences et les arts l’insieme delle confutazioni degli avversari di Rousseau» . E poi le lettere. Non vennero inserite nella Pléiade, ma sono circa 2.400 e restano indispensabili per conoscere l’uomo e il filosofo. Anche in tal caso il lavoro è notevole, come evidenzia Trousson: «Il testo di molte di esse è stato rivisto non sulle copie ma sugli originali, e anche le annotazioni sono state controllate e aggiornate. Si possono trovare in questa edizione nuove epistole, si è chiarito qualche enigma che era in sospeso e si sono identificati con più precisione alcuni corrispondenti» . — che aggiungere? Il Rousseau mis à jour di questa edizione diventerà il nuovo riferimento. E sentendo Trousson il filosofo ha ancora qualcosa da dire: «Nel Discours sur les sciences et les arts aveva denunciato questo paradosso: se le scienze hanno fatto progressi, questi non sono accompagnati da un identico progresso morale. Non è una questione del nostro tempo?» . Ancora: «Nel Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité egli ha mostrato come, a partire da una socializzazione sbagliata, l’ineguaglianza non potrà che alimentare un nuovo schiavismo — economico in tal caso — che succede all’antico» . Già, «schiavismo economico» . Quella volta Jean-Jacques Rousseau ebbe la vista lunga.

Corriere della Sera 15.7.11
«Maman, mia felicità perduta»
di Jean-Jacques Rousseau

In questa lettera del 13 gennaio 1763 Rousseau risponde all’amico di gioventù François-Joseph de Conzié, che il 4 ottobre 1762 aveva informato il filosofo, all’epoca esule in Svizzera a Môtiers, della morte di Madame de Warens, che si era spenta in miseria a Chambéry il 29 luglio 1762. La donna, che Rousseau non aveva più rivisto dal 1754, era stata per molto tempo la protettrice e poi l’amante del giovane Jean-Jacques (lui la chiamava «Maman» , mamma), di cui era più anziana di 13 anni. La lettera, inedita in Italia, è stata scoperta di recente e acquisita nel 1999 dal museo Jean-Jacques Rousseau di Montmorency, in Francia. Q uanto mi rincresce, carissimo conte, non poter seguire il mio desiderio e venire ad abbracciarvi mille volte, per soddisfare accanto a voi il tenero affetto che da tanti anni mi avete ispirato, e alimentare intrattenendomi con voi i miei inesauribili rimpianti per la perdita della nostra comune amica, di questa donna una volta così affascinante e sempre così rispettabile, che si occupò della mia giovinezza e mi diede gli unici giorni belli che la durezza della mia sorte m’abbia mai permesso di assaporare! Ahimé, quanto il mio cuore è stato sensibile al bene che mi ha fatto! Quanto ho desiderato, sentendo tutta la mia felicità, non separarmi mai da lei! Quel che non ho tentato per la sua felicità e la mia! Quante lacrime ho versato sulle sue mani! Cosa non le dissi pur di evitare la dura necessità di andare alla ricerca di celebrità! Ah, se mi avesse ascoltato, come sarebbe stata più felice la sua vita! E io non avrei provato quella successione di sofferenze che mi hanno straziato senza posa da quando ho vissuto lontano da lei: avrei trascorso giorni sereni nell’oscurità del suo ritiro, glielo avrei reso piacevole, le avrei forse risparmiato di fare qualche imprudenza, l’avrei curata nelle sue infermità, avrei chiuso i suoi occhi, e l’avrei accompagnata; ma adesso vivo per piangerla e per piangere me stesso! Quanto mi resta ancora da soffrire prima d’essere felice come lei? (traduzione di Daniela Maggioni)

Repubblica 15.7.11
Guarigioni false e malattie vere
Diavoli, Vudù e annunci truffa un milione e mezzo di italiani nella trappola dei nuovi santoni
I gruppi più numerosi sono spinti dal business: investono i soldi degli affiliati nelle imprese
di Paolo Berizzi

Inchiesta italiana. Così le sette reclutano con finte offerte di lavoro
La storia di Fabio, un giovane malato di diabete, convinto a curarsi con le preghiere e poi morto
Molto pericolosi sono i movimenti che si camuffano: chiedono contributi e promettono l'assunzione
Chi dà la caccia ai "nuovi guru"? E quali sono gli allarmi più recenti che provengono da questa realtà?
Come funzionano queste organizzazioni "di seconda generazione"? Come fanno proseliti?
I controlli. Come trovano seguaci. Affari e riciclaggio. Il trucco dei corsi di formazione

MILANO - Per togliere il demone dai bambini, la "Santona della porta accanto" (si chiama proprio così) li costringeva alla terapia degli "spilli": doccia fredda con gli occhi sbarrati rivolti verso il getto d´acqua. Poi si passava al pranzo: vomito e escrementi. I loro o quelli dei maiali. Che nella provincia di Brescia - dove la setta della "madre" Tersilia Tanghetti aveva ben cinque succursali - abbondano. A Roma, alle mamme e alle bambine della setta Re Maya non andava meglio: il guru Omar Danilo Speranza, ora in carcere Roma (ma da qualche giorno ricoverato in ospedale dove lotta tra la vita e la morte, con un quadro clinico di diabete e ipertensione aggravato da un lungo sciopero della fame), le violentava. «Lo facevo per modificare il karma negativo delle bimbe» ha spiegato «dovevo trasmettere loro il mio Dna sano e curativo». Terapia religiosa con stupro. Come quella praticata da Antonio Morello, il capo di The sacred path (Il sacro sentiero), 10mila adepti da Bolzano a Catania. Condannato a sei anni di carcere, Morello faceva credere alle seguaci di essere state stuprate da piccole, e per liberarsi da questo trauma le convinceva a fare sesso con lui. Decine e decine di casi. Tra proselitismo subdolo, rituali mistici, circonvenzioni e soprusi sessuali. E droghe. Mischiate a suggestioni religiose per lo più orientaleggianti. Storie di adepti e di "maestri", di seguaci ridotti in schiavitù e di santoni e ciarlatani dal conto a sei zeri.
Sono le sette di seconda generazione. Oltre mille gruppi in tutta Italia (il Centro studi nuove religioni ne censisce 620, ma secondo altri esperti le cifre raddoppiano se si tiene conto dell´enorme sommerso). Molte sette sono innocue, molte no. Più di un milione e mezzo di italiani (circa il 3 per cento della popolazione) le frequentano. Gli adepti salgono a 3,5 milioni con gli immigrati non ancora cittadini. Più della metà (64 per cento) sono donne e adulti. Il 15 per cento adolescenti e bambini. Si va da sparuti gruppi da poche decine di affiliati - che si muovono nell´ombra - e si arriva a movimenti che abbracciano decine di migliaia di seguaci. E generano un volume d´affari di milioni di euro. Ma come funzionano queste sette di "seconda generazione"? Come fanno proselitismo? Quali sono i casi in cui la credenza confina con il codice penale?
LE NUOVE PRATICHE
«Le sette tradizionali avevano struttura e dottrine precise e conservavano riferimenti a universi simbolici e religiosi tratti dal cristianesimo o dalle religioni orientali» spiegano Massimo Introvigne e Pierluigi Zoccatelli del Cesnur. «Nella seconda generazione di sette, di cui Re Maya è un esempio, tutto questo è sparito, sostituito dai soli rapporti personali con il capo e da vaghi sincretismi dove l´emozione sostituisce la dottrina. E così i rischi aumentano». Dimenticate le candele sugli altari, le tuniche, gli incensi. Abili nel marketing, oggi i nuovi santoni agganciano i fedeli parlando di «lavaggi energetici emozionali», di «benessere spirituale low cost», di «purificazione alla portata di tutti». I gruppi religiosi che vanno per la maggiore sono quelli del cosiddetto "potenziale umano". «Ti fanno credere che puoi sviluppare le tue capacità fino a diventare una persona straordinaria che vive nel benessere psicofisico» aggiunge Introvigne: «Un benessere da bere tutto d´un fiato. Come una bevanda energetica».
Ci sono credenze che giungono in Italia coi flussi migratori. Alimentate dai loro adepti, a volte si incardinano su pratiche occulte locali. La Santeria cubana, la Candomblé e la Macumba brasiliane, il Vudù africano, la Santa Muerte (o Bambina Bianca). Un florilegio di culti alternativi. Che proliferano attirando curiosità e devozione. Il confine con l´illecito? A volte è sottilissimo. Associazione a delinquere, circonvenzione di incapace, violenza, minacce, truffa, raggiro, evasione fiscale i reati più comuni. È il lato B della medaglia. Patrizia Santovecchi, presidente dell´Osservatorio nazionale abusi psicologici, lo descrive così. «Ci sono diversi gradi di pericolosità. I piccoli gruppi sono caratterizzati da una pericolosità più "personale", che grava più sull´individuo. Le formazioni più grosse, da 300-350 mila seguaci, magari esercitano una pressione sociale e anche economica notevole, ma dall´altra - dovendo mantenere una facciata rispettabile - garantiscono di più il singolo soggetto e la sua incolumità».
LE vittime nella rete
Chi sono le vittime? Come finiscono nella rete? Fabio è un ragazzo diabetico. Abita in una città del centro Italia. Si avvicina a un gruppo di guarigione. Il "maestro" gli mette in testa che non si guarisce coi farmaci ma solo con le preghiere a Dio che elimina la malattia coi miracoli. Poche settimane dopo, Fabio smette di prendere l´insulina e muore. Ci sono sette che marchiano a vita, che annientano. Gruppi "curativi" che diventano distruttivi. Il guru di Re Maya, Speranza, dai suoi era considerato un semi-Dio. Secondo il procuratore capo di Tivoli Luigi De Ficchy e il pm Maria Teresa Pena è un criminale dedito a rapporti «molto violenti» con bambini tra i 10 e i 12 anni e alcune madri alle quali estorceva denaro. Lo stesso avveniva tra gli affiliati di Arkeon, una sette che per dieci anni ha controllato quasi 15 mila invasati. I capi spirituali sono finiti a processo a Bari: tra le accuse - per la prima volta è stata contestata l´associazione a delinquere, in Italia non esiste il reato di plagio - c´è anche il maltrattamento sui minori. Due i casi di suicidi accertati attribuiti alla setta (tornano in mente le famigerate Bestie di Satana). Il copione? Prima le sirene dell´accoglienza, dell´esaltazione. Poi la manipolazione psicologica e le violenze. Dice ancora Patrizia Santovecchi: «I grandi gruppi hanno come motore il business economico. Reinvestono in svariati settori. Un fine economico è presente anche nei guru dei gruppi più piccoli. Ma in questo caso subentrano anche altri interessi: per esempio lo sfruttamento sessuale». Guarire o migliorare se stessi offrendosi sessualmente al maestro. Che cosa si scatena nella mente del seguace quando scatta la trappola? «Questi gruppi diventano l´anticamera di psicosi e paranoie» spiega la psicologa della religione Raffaella Di Marzio, autrice del libro Nuove religioni e sette (edizioni Magi). Se a capo della setta c´è un leader con una personalità deviata e squilibrata, è fatta: le persone che entrano a farvi parte diventano condizionabili negli affetti, nel denaro, nell´intimità».
UN POPOLO TRASVERSALE
Il popolo delle nuove religioni è trasversale per estrazione sociale, livello di istruzione e di reddito. Straordinariamente varia è l´offerta. Si va dalle frange scissioniste delle grandi religioni monoteiste ai colossi multinazionali dell´«energia dentro di te». Dallo spiritismo autarchico allo spontaneismo selvaggio delle sette sataniche. E ancora culti orientali e orientaleggianti. Ovviamente la grande maggioranza di questi gruppi non svolge nessuna attività illecita. Ma che cosa propongono le «nuove religioni» attive in Italia? Si possono distinguere diverse forme di gruppi settari. Quelli di matrice cristiana (40 per cento), quelli esoterici e occultisti (30 per cento), e un restante 30 per cento nel quale troviamo i gruppi del potenziale umano, quelli spiritisti, gli ufologici e le vere e proprie sette sataniche. Secondo il Cesnur, tra le principali minoranze religiose alternative ci sono: i cattolici "di frangia" e dissidenti; i neo induisti; i gruppi di Osho e derivati, Sikh, radhasoami e derivazioni; nuove religioni giapponesi; l´area esoterica e della antica sapienza; i movimenti del potenziale umano; i movimenti New Age e Next Age; la Soka Gakkai (movimento giapponese di matrice buddhista, in forte espansione). E poi tutta l´area esoterica. Da qui in poi ci sono i gruppi più oscuri, fino al satanismo organizzato che ufficialmente conta poche migliaia di seguaci. Ma le stime tengono conto solo di associazioni o realtà formalmente costituite, ed è dunque sotto dimensionata rispetto ai seguaci del diavolo «fai da te».
MISSIONE PROSPERITà
Maurizio Alesandrini è il presidente del Favis, associazione familiari vittime delle sette. «Io per setta intendo una organizzazione, può anche non essere religiosa, che separa l´individuo dal resto del mondo. Ce ne sono di insospettabili nascoste dietro il paravento di gruppi commerciali. I capi ti convincono che vendendo un prodotto (una crema, un aspirapolvere...) stai facendo una missione per migliorare o addirittura salvare il mondo». Si chiamano "culti di prosperità": inseguono il lucro ma lo vestono con la missione salvifica-purificatrice. «Con un soggetto vulnerabile il capo setta fa ciò che vuole: lo manipola, lo svuota, lo ristruttura». Le sette più pericolose sono quelle che si mimetizzano. Offrono corsi di inglese gratuiti con insegnanti madrelingua, test della personalità. Poi subentrano i corsi (non più gratuiti), i seminari, gli stage. Si mette in moto la macchina del proselitismo. E uno ci casca. Le ultime novità sono le finte offerte di formazione lavoro: gruppi religiosi sotto copertura promettono di farti diventare un professionista. Ti "formano". Ma il lavoro non c´è: ci sono solo gli insegnamenti del "maestro". «Sono le tecniche più subdole» afferma Raffaella Di Marzio «perché fanno leva anche sull´inganno di offrirti una posizione sociale». Nel volume Occulto Italia (Bur Rizzoli) Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli tracciano una mappa dei culti che, mediante massicce opere di indottrinamento, stanno aumentando la loro capacità di penetrazione in Italia. Scientology, Damanhur, Ontopsicologia, Soka Gakkai, Umanisti. Alcuni di questi sono giudicati pericolosi.
MACUMBA E SANTA MUERTE
Chi sono i "cacciatori" di sette? Il fenomeno è in crescita. All´azione di magistratura e forze dell´ordine si sono aggiunti reparti specializzati e osservatori. Cinque anni fa è nata una squadra anti-sette della polizia di Stato. Esiste poi un Osservatorio antiplagio con un telefono per le segnalazioni. Fondato nel 1994 era stato chiuso nel 2008 per le molte denunce ricevute da parte di operatori dell´occulto. Gli ultimi allarmi? Arrivano dai cosiddetti "innesti": incroci tra credenze che vengono da lontano e gruppi occultisti e spiritisti italiani. La santeria cubana, il vudù (diffuso tra gli sfruttatori delle prostitute africane) e la Macumba brasiliana sono tra i "culti" più tracciati oggi dal Viminale. Gli esperti spiegano che in cima alla classifica delle credenze più "estreme" si piazza la Santa Muerte (o Nina Bianca). È la religione dei narcos messicani. Una faccia scheletrica avvolta in un mantello, con la falce in pugno e, a volte, una bilancia o un globo terrestre nell´altra mano. Niente a che vedere con il satanismo. Sarebbe, al contrario, una presenza spirituale benevola. I criminali le si affidano e in suo nome ficcano proiettili in testa ai rivali. Ufficialmente in Italia la Santa Muerte non c´è. Ma raccontano che sotto traccia stia conquistando i giovani delle gang latino americane attive soprattutto a Milano e Genova.

Repubblica 15.7.11
Il racconto di Carla, per vent´anni vittima del "Re Maya"
"Prima ti riempiono d´affetto poi diventi il loro pupazzo"

A suo modo era "posseduta". Lo è stata per vent´anni. Da quando è entrata nella setta Re Maya fino a tre anni fa, quando è riuscita a venirne fuori. Ha 50 anni, vive a Roma e oggi dice: «Sono entrata che non avevo un lavoro e sono uscita come, anzi peggio, di prima. Distrutta nella mente, allontanata da tutto».
La chiameremo Chiara. La sua storia inizia nei primi anni 80. «Il mio insegnante di yoga un giorno mi dice: "Ti faccio conoscere il mio ‘maestro´». Il "maestro" era Danilo Speranza, il guru a capo della setta Re Maya oggi in carcere con l´accusa di violenza sessuale (anche ai danni di minorenni). «Un genio del male, una mente pazzesca ma che alla fine ti prosciuga, ti annienta». Chiara ricorda l´ingresso nella setta che nella sola Roma - dice - poteva contare su uno zoccolo duro di almeno 500 persone. «Mi hanno riempito di affetto. Ti costruiscono intorno una finta famiglia: decine di persone che si vogliono bene, che escono sempre insieme. Poi è iniziato il peggio».
Speranza convince Chiara a girare le spalle a familiari e amici. «Dicevano che era gente poco spirituale». Il capo la riempie di attenzioni. «Mi chiese di raccontarmi la mia storia, la mia infanzia, i miei problemi. Faceva così con tutti. A quel punto è come se tu gli consegnassi la chiave della tua vita... Mi spiegò i testi di buddismo e induismo. All´inizio sembrava anche una cosa seria, interessante. Lui non appariva come un cialtrone o un cretino. Ma col tempo iniziò a gestire la mia vita, a sfruttare me e tutti gli altri, a farci lavorare per lui. Ero diventata come un pupazzo».
Scoppia il caso delle violenze sessuali. Chiara - dice - non ha mai subito abusi. «Ma tra di noi le voci giravano. Eppure eravamo tutti talmente succubi che nessuno voleva credere a quelle accuse. Io oggi ho capito che avevo aderito a un progetto malato. Che di quel progetto malato sono stata vittima. Ma sono sicura anche che ancora oggi in molti sono pronti a difendere Speranza a spada tratta. Solo perché ne temono i poteri o lo vedono ancora come un dio». (p.b.)

Repubblica 15.7.11
A Pontedera film su Saramago
PONTEDERA – Si inaugura domani con un omaggio a José Saramago Seite Sois Seite Luas, il festival italiano dedicato alla cultura portoghese, del quale lo scrittore è stato a lungo Presidente Onorario. A un anno dalla scomparsa sarà proiettato in prima nazionale José e Pilar, il documentario che il regista portoghese Miguel Gonçalves Mendes ha girato durante gli ultimi anni di vita del Nobel. L´opera è coprodotta da "El deseo", la società di Almodóvar.