sabato 2 febbraio 2008

l’Unità 2.2.08
Una questione di Memoria
di Furio Colombo


Due lettere inviate a Sergio Romano al Corriere della Sera, e la risposta netta (contro il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah) dell’ambasciatore-scrittore ci aiutano a far luce su equivoci, errori di informazione, errori di percezione, e un fondo di malumore per tutta questa attenzione dedicata agli ebrei. Il fatto è che anche fascisti e tedeschi avevano dedicato molta attenzione a questi cittadini del nostro e di tutti gli altri paesi europei, e a molti sembra inevitabile (cerco di dire con mitezza) ritornare sull’argomento.
Ma andiamo con ordine. Le due lettere, scelte probabilmente fra le tante che saranno state scritte a Sergio Romano nell’occasione del 27 gennaio, toccano entrambe il tema sollevato alla Camera, in lunghe discussioni orientate a un perenne rinvio. Perché solo gli ebrei e le altre vittime (soldati, politici, omosessuali, zingari) dell’universo concentrazionario fascista nazista e non le altre vittime di Stalin, della Cina, dell’orrore comunista? È un argomento già molto usato in passato e ha avuto, con la pazienza e l’attenzione che merita, mille volte risposta. E non risposta di indifferenza a quei gravi delitti ma una obiezione precisa e incontrovertibile, nel paese di Nicola Pende (il manifesto degli scienziati italiani sulla razza, che dichiara estraneità, inferiorità e pericolo degli ebrei) e di Giorgio Almirante (autore ed organizzatore della rivista La difesa della razza, forse la più crudele e diffamatoria in quegli anni di dilagante antisemitismo europeo).
Le due lettere a Sergio Romano, che appaiono, con evidenza scritte da persone non giovani (dunque con più probabili ricordi personali)e dotate solo di argomenti di destra (basta con i delitti fascisti, occupiamoci una buona volta di quelli comunisti), sono travestite di finto candore. Chiedono una risposta che essi stessi offrono: ma come? Con così tanti delitti di Stalin e Tito, c’è ancora chi riempie la testa alla gente con le leggi razziali di Hitler e Mussolini? «Le leggi razziali italiane? Sono state poca cosa», aveva detto a suo tempo Vittorio Emanuele Savoia, quando si dubitava della sua conoscenza della storia e non ancora della sua tempra morale. Nel rispondere alle due lettere, Sergio Romano non sceglie l’indecoroso percorso Savoia. Offre una rapida e corretta ricostruzione di eventi (un elenco di crimini in Europa e poi fino a Mao, a Ho Chi Min, e stupisce che non abbia incluso i Khmer Rossi della Cambogia). Ma raggiunge la stessa conclusione. In tre punti.
Primo, al Parlamento italiano Sergio Romano dichiara che avrebbe votato contro la legge che istituisce il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah perché nel mondo è accaduto ben altro.
Secondo, indica come cattivi maestri, con il dovuto disprezzo, «i professionisti della memoria antifascista». Posso permettermi di credere che si riferisse a me come estensore e prima firma del testo di quella legge. E posso dire che in quel gruppetto, fra coloro che non dimenticano Via Rasella, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, la strage delle famiglie ebree di Stresa, la razzia del 16 ottobre a Roma, sotto le finestre del Vaticano, i sette Fratelli Cervi (la lista sarebbe immensa perché un professionista della memoria antifascista ricorda tutto, specialmente se in quel tempo ha vissuto), mi trovo in buona compagnia. La sola che desidero.
Terzo, Sergio Romano sceglie di ricordare che al momento del voto alla Camera «Lucio Colletti ha votato contro». Aggiunge: «Anch’io avrei votato contro», presumibilmente per non essere - Dio ci scampi - scambiato per un professionista della «memoria antifascista» che, nella sua narrazione, appare un disturbo petulante nella buona vita italiana.
L’opinione è sua. Brutta ma rispettabile. Il ricordo è sbagliato. Colletti (che voleva una mozione, non una legge) non ha votato contro. Si è astenuto. L’ astensione, secondo il regolamento della Camera, non impedisce di dichiarare la legge, come risulta dagli atti, votata all’unanimità. La legge che istituisce «Il giorno della memoria» in Italia è stata infatti votata all’unanimità perché tutti i miei colleghi di allora, da sinistra a destra hanno accolto i due argomenti che sono stati proposti nella perorazione (la ricordo come una supplica) finale. È stato detto: gli orrori del mondo sono tanti e spaventosi, ma la Shoah, oltre a essere un crimine unico, è un delitto italiano. Nulla di ciò che è accaduto poteva accadere senza le leggi razziali italiane. E infatti nella Bulgaria fascista i tedeschi, neppure nell’impeto di violenza finale del 1943-45 hanno potuto arrestare un solo cittadino ebreo di quel paese perché il leader fascista bulgaro Dimitar Peshev aveva detto «No, mai in questo paese».
Ma ho potuto ricordare un altro fatto. In quell’aula di Montecitorio, da quegli stessi posti in cui stavamo seduti noi, un altro parlamento italiano aveva votato all’unanimità le leggi di Mussolini. Ho chiesto, come un piccolo segno che non avrebbe cancellato nulla ma sarebbe stato un simbolo per i più giovani, di votare anche noi all’unanimità. Così è accaduto. Un cittadino italiano e soprattutto uno storico, dovrebbe trarre un motivo d’orgoglio da questo piccolo evento. Sergio Romano, che pure è uno storico stimato e rispettato, sceglie invece questa frase: «Abbiamo permesso che la storiografia venisse degradata a strumento di lotta politica».
Lotta politica ricordare il delitto di persecuzione dei cittadini italiani ebrei (e - con il concorso dell’Italia - di tutti i cittadini ebrei d’Europa)? Romano chiama alla lotta: «Gli storici dovrebbero essere i primi a respingere questo uso partigiano e fazioso della loro disciplina». Sono certo che gli storici risponderanno.
colombo_f@posta.senato.it

l’Unità 2.2.08
«Si faccia ora la grande coalizione»
Veltroni alla Cdl: «In caso contrario da una parte ci sarà un programma e dall’altra 18 partiti»
di Simone Collini


«CRESCITA e rimozione delle disuguaglianze sociali». È il «modello Roma», una delle principali carte che Walter Veltroni intende giocarsi in campagna elettorale. Il segretario del Partito democratico rimane in attesa di conoscere l’esito delle consultazioni che
sta portando avanti il presidente del Senato, e anzi lancia a Forza Italia e soci un’ennesima sfida: «Il centrodestra dice andiamo a votare e poi facciamo la grande coalizione. Perché, invece, non la facciamo ora con un governo presieduto da Marini che scriva le regole del gioco? Avrebbe senso fare un’intesa adesso». Ma il leader del Pd sa anche che i margini per un accordo sono esigui, che l’appello a Berlusconi, Fini, Casini, Bossi a mostrare «senso di responsabilità», a «far prevalere l’interesse del Paese su quelli di parte», appare al momento destinato a cadere nel vuoto. E allora inizia a impostare quella che si profila come una campagna elettorale in cui difficilmente, come avrebbe voluto, verrà messa da parte la «rissosità».
Veltroni andrà all’offensiva battendo sul tasto della novità e chiarezza offerte da Pd, di contro alla confusione insita nella vecchia formula della Cdl: «Il confronto sarà su un programma da una parte e, dall’altra, 18 partiti che non si sa come possano governare». Questo, a meno che Berlusconi non raccolga la sfida di far correre da sola Fi: «La politica è fatta di coraggio, e noi andremo alle elezioni come Pd. Perché non fa altrettanto? Si avrebbe così il confronto tra i due principali partiti, una consultazione su scelte chiare». Ma è una sfida che Berlusconi sembra non aver alcuna voglia di raccogliere. Pagherà un prezzo per questo, è la convinzione di Veltroni. «La parte migliore del Paese guarda con rispetto alla posizione di responsabilità che abbiamo assunto in questa crisi», dice all’assemblea del Pd di Roma e provincia, a Velletri. «I sondaggi ce lo dicono, e stia attento il centrodestra perché l’esito non è scontato. Nel ‘94 eravamo convinti di vincere noi e invece abbiamo perso, nel ‘96 è accaduto il contrario».
La partita è tutta da giocare insomma, e secondo Veltroni il modo migliore per farlo è facendo correre il Pd da solo, o in alleanza soltanto con i partiti che ne sottoscriveranno il programma. Anche perché il leader dei democratici non ha dubbi sul fatto che il governo Prodi è caduto perché nel corso di questi diciotto mesi c’era chi dall’interno ne minava stabilità e credibilità: «Ha dovuto subire manifestazioni di piazza a cui hanno partecipato suoi ministri che protestavano. E varie volte ministri hanno minacciato dimissioni. Più il governo faceva cose buone più si accresceva un clima di confusione che ha prodotto una difficile percezione dell’azione di risanamento». Inutile dire che la colpa di questa situazione è annidata prima di tutto nell’attuale sistema politico, figlio della legge elettorale con cui ora la Cdl vuole andare al voto. Forza Italia non vuol cambiare il sistema politico? «Noi lo cambieremo unilateralmente». Il resto «apparirà irrimediabilmente datato».
Ma ci sarà anche un altro tasto su cui batterà Veltroni nelle prossime settimane, se il tentativo di Marini non dovesse andare in porto. Ed è quello di cui ieri il segretario del Pd ha dato un assaggio: il successo del «modello Roma». Lo ha fatto nelle vesti di sindaco capitolino, commentando in Campidoglio i dati forniti da Unioncamere, secondo i quali Roma è al primo posto nella classifica nazionale per crescita delle imprese, con un tasso tre volte e mezzo maggiore rispetto alla media nazionale (+2,7% contro lo 0,75%): «Questi dati sono la migliore testimonianza del significato del modello Roma come modello di crescita, dello sforzo che questa città, che fino a 15 anni fa nella percezione del Paese era pigra, sonnolenta e ministeriale, ha fatto per cambiare pelle». Ma ci vuole poco per capire che il discorso non riguarda né soltanto quanto fatto in passato, né quanto ottenuto all’interno dei confini capitolini. Il «modello di concertazione, serenità, lavoro e ottimismo» che ha portato a questi risultati, dice Veltroni, costituisce «un messaggio di fiducia da Roma al Paese»: «Non è un destino ineludibile, per l’Italia, quello di essere ferma al palo. Come ce l’abbiamo fatta a Roma ce la si può fare nel resto del Paese. L’Italia ha bisogno di crescere e ha tutte le possibilità per farlo». Un tema su cui insisterà molto Veltroni in campagna elettorale, convinto com’è che un «patto tra imprese e lavoro» è anche il mezzo per raggiungere l’obiettivo di rimuovere le disuguaglianze sociali.

l’Unità 2.2.08
Simboli e leader, a sinistra c’è scontro
Bertinotti capolista? Falce e martello? Mussi furioso, vertice la prossima settimana. E c’è chi propone Vendola
di Giuseppe Vittori


Il ministro dell’Università sorpreso per le notizie sul ticket Bertinotti-Francescato. Il segretario Prc: confronto aperto, indiscrezioni infondate

Il governatore della Puglia è considerato il candidato ideale in concorrenza a Veltroni. Se si vota ad aprile, però, i tempi sono stretti

MUSSI È NERO e la Cosa rossa di certo non brilla. Il voto rischia di essere dietro l’angolo, se dalle consultazioni di Marini non verrà fuori un accordo per cambiare l’attuale legge elettorale. E ora la Sinistra arcobaleno è costretta a sciogliere in tempi rapidi tutti i nodi rimasti irrisolti nei mesi passati. Pena la sorpresa, per alcune forze che stanno dando vita all’operazione, di trovarsi di fronte a cambi di programma e fughe in avanti non concordate.
Nelle ultime ore Pdci e Verdi sono tornati alla carica sulla necessità di inserire nel simbolo con cui presentarsi agli elettori i tradizionali simboli di partito, mentre per la leadership si sta profilando il ticket rosso-verde Fausto Bertinotti-Grazia Francescato. Due ipotesi che non piacciono a Sinistra democratica. Fabio Mussi ne viene a conoscenza, dice, leggendo i giornali e si affretta a smentire: «Non c’è stata nessuna discussione collettiva e nulla è stato deciso in via definitiva». Il coordinatore di Sd chiede e ottine un incontro Franco Giordano, che subito prova a gettare acqua sul fuoco: «Il confronto è aperto, le indiscrezioni sono infondate». Ma il colloquio, a cui hanno partecipato anche i capigruppo di Sd e Prc, non basta a calmare le acque. A chiarire meglio la situazione sarà, con ogni probabilità, un vertice tra i quattro segretari (ieri con Diliberto e Pecoraro Scanio ci sono stati soltanto contatti telefonici) in programma all’inizio della prossima settimana. Una riunione in cui sarà anche più chiaro lo scenario politico con cui dovrà fare i conti la sinistra unita.
Nell’attesa, però, Sd non perde tempo e chiede spiegazioni al resto degli alleati, sia su Bertinotti candidato premier per la Cosa rossa che sui simboli di falce e martello e sole che ride che dovrebbero ricomparire. «Un processo unitario complesso comporta che i passi che si fanno, dai simboli al programma politico, siano concordati», spiega Mussi, che ribadisce l’esigenza di «un nuovo soggetto politico della sinistra e non un cartello elettorale». Mussi non tralascia l’ironia e mostrando un foglio in cui compare il simbolo scelto per a dicembre con sotto, in piccolo, i 4 simboli dei partiti, commenta: «Ecco, ci vorrebbe la cartina turistica».
Discussione collegiale sul simbolo, così come su chi dovrà guidare la sinistra, nel caso il Pd corra da solo. Se Mussi boccia senza appello la soluzione indicata, lo schema fa discutere anche dentro Rifondazione. «Il simbolo con il quale la Sinistra-l’Arcobaleno si presenterà alle elezioni è stato già deciso a dicembre, sarebbe singolare che vi fossero ripensamenti», dice Pietro Folena, per il quale «riproporre i simboletti dei quattro partiti sarebbe un passo indietro». Nel Prc c’è chi non nasconde la preoccupazione che l’idea di schierare Bertinotti comprometta l’intesa proprio con Sinistra Democratica, da sempre contraria a dare l’idea di essere annessa a Rifondazione. E di fronte al tam tam delle elezioni torna in auge il nome di Nichi Vendola. Il governatore della Puglia infatti è considerato da molti, e non solo dentro il Prc, come il nome ideale da schierare in concorrenza a Veltroni. Ma i tempi per lavorare attorno alla sua candidatura sono troppo stretti, se si voterà ad aprile.
Convinto che l’unica strada percorribile sia quella di un nuovo soggetto con un nuovo simbolo è anche Alfonso Gianni, uno degli uomini più vicini al presidente della Camera: l’ipotesi dei quattro simboli è «un passo indietro». Di opinione opposta è Claudio Grassi, leader della minoranza del Prc, che ricorda: «I simboli con la falce e martello alle ultime elezioni hanno preso l’8,1% dei voti».

Repubblica 2.2.08
Pd, niente Resistenza nel manifesto
Polemiche da sinistra. Bindi: vale la Costituzione, è il valore unificante
Polito: omissione da correggere, ma il razzismo oggi è più pericoloso del fascismo
di Alberto Custodero


ROMA - Nella magna charta del partito democratico non sono citati Resistenza e antifascismo. S´è trattato di una «grave e colpevole dimenticanza», come sostenuto dalla senatrice del Prc ed ex staffetta partigiana, Lidia Menapace? Oppure, secondo la tesi del senatore Antonio Polito, l´omissione è stata voluta perché, «se sono finite le ideologie del Novecento, sono finiti anche il fascismo e l´antifascismo, oltreché il comunismo»? La delicata diatriba di carattere storico politico, sollevata dalla Menapace alla vigilia dell´approvazione, prevista per oggi, dello Statuto, del Manifesto dei valori e del Codice etico, ha sollevato all´interno del partito democratico un acceso dibattito.
A partire all´attacco, denunciando quella «grave e colpevole dimenticanza», è stata Lidia Menapace. «In un momento in cui - ha dichiarato - si profilano all´orizzonte pericoli diffusi di involuzione verso forme di democrazia autoritaria, che si può chiamare il "fascismo del XXI secolo", è un atto imperdonabile non citare la Resistenza, fondamento storico della Costituzione, né l´antifascismo, che è la sua anima».
Ma è stato il senatore Antonio Polito ad azzardare una spiegazione a quella «svista». «Se vogliamo spiegare questa dimenticanza che onestamente andrebbe corretta - ha sottolineato - va detto che il Pd, nel suo Manifesto dei valori, dichiara di costituirsi partendo dal presupposto che la storia del 900 è finita, e con lei le sue ideologie: il fascismo oltreché il comunismo». «Se uno vuole rievocare l´antifascismo in quanto ideologia - ha aggiunto Polito - allora è anacronistica quanto il fascismo. Un partito progressista in Europa ha oggi innumerevoli pericoli più temibili del fascismo da affrontare, come razzismi, varie forme di intolleranza, l´uso distorto della scienza, la distruzione dell´ambiente, l´ignoranza, la povertà». Il fascismo è morto con il Novecento e quindi non va citato nel partito democratico del Duemila?
Per Rosy Bindi, ministro per le Politiche per la famiglia e candidata alla segreteria del Pd, «alcuni valori, come quello dell´antifascismo e della Resistenza, fanno parte della nostra politica, storia e cultura. Qualche volta, richiamarli può apparire pleonastico. Ma se qualcuno facesse una richiesta esplicita di inserire i due principi nella magna charta, non c´è dubbio che bisognerebbe accoglierla, anche se credo che il richiamo alla Costituzione valga come valore unificante». Sulla stessa linea anche il senatore Furio Colombo, anche se, ha precisato, «in un´Italia in cui si nega ogni giorno l´Antifascismo come valore e la Resistenza come fondamento della vita italiana, non è troppo, né fuori posto inserire questi due principi in modo specifico nella carta costituente del Pd. Devo dire, tuttavia, che la nostra Costituzione è nata dalla Resistenza, è la "carta" certificante dell´Italia libera, ha in sé tutti i valori dell´Antifascismo, per cui il suo richiamo mi rassicura».
Piero Terracina, della commissione manifesto dei valori, ex deportato del lager di Auschwitz - Birkenau, ha chiesto con una mozione «la condanna del fascismo e del nazismo». «Ho consegnato a Walter Veltroni - ha dichiarato - e alla commissione Statuto del Pd una mozione per impedire che, in nome della pacificazione, vittime e carnefici vengano equiparati».

Corriere della Sera 2.2.08
Il partito e la scelta discussa
Nella «magna Charta» niente Resistenza


MILANO — Manifesto dei Valori, Codice etico e Statuto del Pd non contengono alcun riferimento alla Resistenza e ai valori dell'Antifascismo. Nella Magna Charta — che dovrebbe essere approvata oggi in Commissione — si indica come punto di riferimento esplicito la Costituzione e si citano tra i valori «pluralismo, libertà, tolleranza, laicità delle istituzioni e democrazia bipolare». Nessuno spazio, invece, è riservato ai tradizionali richiami alla Resistenza. «Un errore al quale si deve rimediare — spiega Pietro Marcenaro —. Un partito, soprattutto se nuovo, non può dimenticare le sue radici. Da tempo il richiamo alla Resistenza è tutt'altro che dogmatico o retorico, perché territorio di continua ricerca e di confronto. Quindi è utile e giusto che sia presente nella Charta. Ma sono sicuro che a marzo l'Assemblea provvederà e cambierà il testo». Gianni Cuperlo, invece, non vede alcuno scandalo: «Mi pare una polemica incomprensibile.
Antifascismo e Resistenza sono già nel Dna del Pd. È un partito che nasce dalla confluenza di due tradizioni, cattolicesimo democratico e riformismo comunista e socialista che prendono l'abbrivio dalla lotta di liberazione.
Per questo è un richiamo scontato, non necessario». Fuori dal Pd, la senatrice della Sinistra-Arcobaleno Lidia Menapace considera la «dimenticanza colpevole e grave»: «Sempre, ma soprattutto in questo periodo, non citare la Resistenza, fondamento storico della costituzione, né l'anti-fascismo, che è la sua anima, è veramente un atto imperdonabile».

Repubblica 2.2.08
Charles Baudelaire. Con gli occhi colmi di immagini
di Roberto Calasso


Il grande poeta francese raccomandava la lettura dei "Salons" di Diderot a cui si era largamente ispirato

Pubblichiamo il testo letto ieri sera da alla Warburg-Haus di Amburgo, dove ha ricevuto il Premio Warburg

I Salons di Diderot sono l´inizio di ogni critica deambulante, capricciosa, insofferente, umorale, che si rivolge ai quadri come ad altrettante persone, si aggira curiosa fra paesaggi e figure, usa le immagini come trampolini e pretesti per esercizi di metamorfosi a cui si abbandona con la stessa prontezza con cui poi se ne sbarazza. Se si elimina la parola arte, sempre ingombrante e spesso improvvida, fare un Salon equivale a lasciarsi scorrere davanti agli occhi una sequenza di immagini che rappresentano, in ordinati drappelli, i momenti più disparati della vita: dalla mutezza inaccessibile della natura morta sino agli episodi solenni della Bibbia e alle cerimonie grandiloquenti della Storia. Per un uomo come Diderot, dalla mente cangiante e disponibile pressoché a tutto, il Salon diventava l´occasione più adatta per mettere in scena quell´officina turbolenta e perennemente attiva che aveva sede nella sua testa.
Diderot non aveva propriamente un pensiero, ma la capacità di far zampillare il pensiero. Bastava dargli una frase, un interrogativo. Da lì, se si abbandonava al suo febbrile automatismo, Diderot poteva arrivare ovunque. E, nel tragitto, scoprire molte cose. Ma non si fermava. Quasi non sapeva quel che scopriva. Perché era solo un passaggio, un aggancio fra tanti. Diderot era il contrario di Kant, che doveva legittimare ogni frase. Per lui, ogni frase era infondata in sé, ma accettabile se spingeva a procedere oltre. Il suo ideale era il moto perpetuo, una continua scossa nervosa che non concedeva di ricordare da dove si era partiti e lasciava decidere al caso il punto dove fermarsi. Per questo Diderot disse dei Salons: «Non c´è nessuna delle mie opere che mi somigli altrettanto».
Perché i Salons sono puro movimento: non solo si passa da un quadro all´altro incessantemente, ma si entra nei quadri, se ne esce - e talvolta ci si perde: «E un metodo piuttosto buono per descrivere i quadri, soprattutto campestri, quello di entrare nel luogo della scena da destra o da sinistra, e seguendo nell´avanzare il bordo inferiore descrivere gli oggetti via via che si presentano». (...)
Quando Baudelaire vide per la prima volta il suo nome (allora Baudelaire Dufays) sulla copertina di un esile libro - il Salon de 1845 -, la sua prima aspirazione fu che qualcuno si accorgesse dell´affinità fra quelle pagine e Diderot. A Champfleury spedì questo biglietto: «Se volete fare un articolo scherzoso, fatelo pure, purché non mi faccia troppo male. Ma, se volete farmi piacere, fate qualche riga seria, e parlate dei Salons di Diderot. E forse il meglio sarebbe di avere le DUE COSE insieme».
Champfleury rispettò il desiderio dell´amico e sul Corsaire-Satan di pochi giorni dopo si poteva leggere, in un articolo anonimo: «M. Baudelaire-Dufays è audace come Diderot, senza però il paradosso».
Ma che cosa, in Diderot, attirava Baudelaire? Non certo il «culto della Natura», quella «grande religione» che accomunava Diderot a d´Holbach ed era del tutto aliena a Baudelaire. Piuttosto, l´attrazione era dovuta a un certo passo del pensiero, a una certa capacità di oscillazione psichica, dove - come Baudelaire scrisse di un personaggio teatrale di Diderot - «la sensibilità è unita all´ironia e al cinismo più bizzarro». E poi - non si può forse ascrivere alle coincidenze fatali che proprio Diderot fosse stato uno dei primi francesi a nominare lo spleen? Così aveva scritto a Sophie Volland il 28 ottobre 1760: «Non sapete che cos´è lo spline o vapori inglesi? Non lo sapevo neppure io». Ma il suo amico scozzese Hoop gli avrebbe illustrato quel nuovo flagello.
In tutti i suoi aspetti Diderot era terreno congeniale per Baudelaire, che alla fine non riuscì a trattenersi e svelò le sue carte in un asterisco del Salon de 1846: «Raccomando a coloro che talvolta devono essere rimasti scandalizzati dalle mie pie collere la lettura dei Salons di Diderot. In mezzo ad altri esempi di carità ben intesa, vi troveranno che questo grande filosofo, a proposito di un pittore che gli era stato raccomandato, perché aveva famiglia, disse che occorreva abolire o i quadri o la famiglia». Invano è stato cercato il passo corrispondente nei Salons di Diderot. Ma certamente così Baudelaire voleva che Diderot scrivesse.
Nella catena dell´insolenza, dell´improntitudine e dell´immediatezza che collega i Salons di Diderot a quelli di Baudelaire c´è un anello intermedio: l´Histoire de la peinture en Italie di Stendhal. Pubblicato nel 1817 per un pubblico pressoché inesistente, questo libro dovette apparire al giovane Baudelaire come un viatico prezioso. Non tanto per la comprensione dei pittori, che non fu mai il forte di Stendhal, ma per la sua maniera impertinente, sbrigativa, ariosa, come di chi è pronto a tutto ma non ad annoiarsi mentre scrive. Stendhal aveva saccheggiato Lanzi per risparmiarsi certe faticose incombenze (descrizioni, date, dettagli) nella stesura del libro.
Baudelaire invece si appropriò di due passi del libro di Stendhal per devozione, secondo la regola per cui il vero scrittore non prende in prestito ma ruba. E lo fece nel punto più delicato del suo Salon del 1846, là dove parla di Ingres. Tutta la storia della letteratura - quella storia segreta che nessuno sarà mai in grado di scrivere se non parzialmente, perché gli scrittori sono troppo abili nel celarsi - può essere vista come una sinuosa ghirlanda di plagi. Intendendo non quelli funzionali, dovuti a fretta e pigrizia, come quelli operati da Stendhal su Lanzi; ma gli altri, fondati sull´ammirazione e su un processo di assimilazione fisiologica che è uno dei misteri più protetti della letteratura. I due passi che Baudelaire prese da Stendhal sono più Baudelaire di Baudelaire e intervengono in un momento cruciale della sua esposizione. Scrivere è ciò che, come l´eros, fa oscillare e rende porose le paratie dell´io. E ogni stile si forma per successive campagne - con drappelli di incursori o con armate intere - in territori altrui.
Chi volesse dare un esempio del timbro inconfondibile di Baudelaire critico potrebbe persino scegliere alcune sue righe che sono ricalcate da Stendhal: «M. Ingres disegna mirabilmente bene, e disegna con rapidità. Nei suoi abbozzi fa naturalmente l´ideale; il suo disegno, spesso poco carico, non contiene molti tratti; ma ciascuno rende un contorno importante. Avvicinateli a quelli di tutti questi operai della pittura, che spesso sono suoi allievi; - prima di tutto rendono le minuzie, e appunto per questo incantano i volgari, il cui occhio in tutti i generi si apre soltanto per ciò che è piccolo».
C´è poi un altro caso: «Il Bello non è che la promessa della felicità». Baudelaire doveva tenere molto a queste parole, che sono una variazione da Stendhal, se le ha citate tre volte nei suoi scritti. Le aveva trovate in De l´amour, libro che sino allora circolava fra molto pochi degli happy few. Stendhal non si riferiva all´arte, bensì alla bellezza femminile. Che Stendhal intendesse la sua celebre definizione del bello senza insinuarvi implicazioni metafisiche si può desumere da una sua annotazione in Rome, Naples et Florence. Sono le cinque del mattino e Stendhal esce, ancora ammaliato, da un ballo della società dei negozianti di Milano. Annota: «Non ho mai visto in vita mia una riunione di donne altrettanto belle; la loro bellezza fa abbassare gli occhi. Per un Francese, ha un carattere nobile e fosco che fa pensare alla felicità delle passioni ben più che ai piaceri passeggeri di una galanteria vivace e gaia. La bellezza non è mai, mi sembra, che una promessa di felicità». Si avverte subito il brio infantile, il presto di Stendhal.
Baudelaire, sulla base delle sue parole, batterà un´altra strada. Stendhal pensa alla vita - e se ne appaga. Baudelaire non riesce a impedirsi di innervarvi un pensiero, operando uno spostamento decisivo: dirotta le parole di Stendhal verso l´arte e, invece che di «bellezza», parla del «Bello». Ora non si tratta più dell´avvenenza femminile, ma di una categoria platonica. E qui avviene l´urto con la felicità, che la speculazione estetica - persino in Kant - non era ancora riuscita a collegare al Bello. Non solo: ma, con questa lieve e travolgente torsione del discorso, la «promessa» sviluppa un alone escatologico. Quale sarà mai la felicità che si preannuncia nel Bello? Non certo quella celebrata con petulanza nel secolo dei Lumi.
Baudelaire non si sentì mai attratto, per costituzione, a seguire quella via. Ma di quale altra felicità può trattarsi? E come se ora quella promesse du bonheur si riferisse alla vita perfetta. A qualcosa che travalica l´estetico e lo assorbe in sé. E questa - di Baudelaire ben più che di Stendhal - la luce utopica in cui la promesse du bonheur riaffiorerà quasi un secolo più tardi: nei Minima moralia di Adorno.
Nel momento in cui appare la fotografia - e il mondo si apprestava a riprodursi indefinite volte più del consueto - , già era pronta ad accoglierla una concupiscentia oculorum in cui alcuni esseri si riconoscevano con la complicità immediata dei perversi.
«Questo peccato è il nostro peccato. Mai occhio fu più avido del nostro» precisò Gautier. E la voce di Baudelaire si confondeva con la sua: «Sin da giovanissimo, i miei occhi colmi di immagini dipinte o incise non avevano mai potuto saziarsi e credo che i mondi potrebbero finire, impavidum ferient, prima che diventi iconoclasta». Invece si era formata una piccola tribù di iconolatri. Che esploravano i meandri delle grandi città, immergendosi nelle «delizie del caos e dell´immensità», traboccanti di simulacri.
L´avidità degli occhi, nutrita dagli innumerevoli oggetti d´arte setacciati e scrutati, fu uno stimolo potente per la prosa di Baudelaire. Addestrava la sua penna a «lottare contro le rappresentazioni plastiche».
Ed era una hypnerotomachia, una «lotta d´amore in sogno», più che una guerra. Baudelaire non si appassionava a inventare dal nulla. Sempre aveva bisogno di elaborare un materiale preesistente, un qualche fantasma intravisto in una galleria o in un libro o per la strada, come se la scrittura fosse innanzitutto un´opera di trasposizione da un registro all´altro delle forme. Così sono nate alcune delle sue frasi perfette, che si lasciano contemplare a lungo, dimenticando presto che potevano anche essere la descrizione di un acquarello: «La carrozza porta via al gran trotto, in un viale zebrato d´ombra e di luce, le bellezze adagiate come in una navicella, indolenti, mentre ascoltano vagamente le galanterie che cadono nel loro orecchio e si abbandonano al vento della passeggiata». Ben poco potrà cogliere di Baudelaire chi non partecipi in qualche misura alla sua unica devozione, che è rivolta alle immagini. Se una sua confessione va intesa alla lettera, e in tutte le sue conseguenze, è quella che si dichiara in una frase di Mon coeur mis à nu: «Glorificare il culto delle immagini (la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione)».
Copyright Roberto Calasso

Corriere della Sera 2.2.08
Bertone: nel '68 un mondo contro Dio
di M.Antonietta Calabrò


E' durato 25 minuti il faccia a faccia in un ufficio del Vicariato tra il presidente e il segretario di Stato vaticano
ROMA — «Dio è morto, Marx è morto... e anch'io non mi sento molto bene». Inizia così, a sorpresa, con la citazione di «questa nota battuta ironica e pessimista di Woody Allen», e genera un attimo di suspense. Visto che le parole «Dio è morto», risuonano dall'altare della Basilica di san Giovanni in Laterano, la madre di tutte le chiese del mondo. E a pronunciarle è il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone. Poi l'atmosfera si scioglie e nasce un sorriso sulle facce dei presenti. Dall'ex presidente Ciampi, a metà governo dimissionario (Prodi, Rutelli, Fioroni, Bindi), al sindaco di Roma, Veltroni e agli esponenti dell'opposizione (Gianni Letta in prima fila, e gli ex ministri Buttiglione e Marzano).
L'omelia di Bertone, durante la messa per l'anniversario della Comunità di Sant'Egidio, è tutta incentrata sulla speranza vera, evangelica, e su quella «falsa» di «un periodo storico turbinoso e complesso, segnato dall'ideologia e dal senso prometeico di un'umanità che voleva costruire se stessa e il mondo senza Dio o peggio contro di lui». Sono passati infatti quarant'anni anni da quando, nel febbraio del 1968 — sì proprio l'anno della contestazione, degli scontri di Valle Giulia a Roma, dell'occupazione della Sapienza — un ragazzo non ancora ventenne, adesso professore, Andrea Riccardi, fondò in un liceo romano la comunità cattolica che adesso è presente in 70 paesi del mondo.
Lo stato d'animo di insoddisfazione e sfiducia nel futuro sintetizzata da Woody Allen, secondo Bertone, deve lasciare però il posto al «dono» di un cambiamento generato dal piccolo granello di senape, che riesce a diventare un grande albero frondoso. Questa parabola, secondo il Cardinale, si può applicare anche a quella che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano ha definito un'«Italia agitata e confusa». Che ne pensa, cardinale, della crisi di governo? Ce la farà Marini? Ripete per due volte Bertone: «Si legga attentamente l'omelia, lì c'è tutto».
Esce in fretta il segretario di Stato, dal «baciamano» delle autorità (150 vescovi, 14 cardinali, i rappresentanti di tutte le chiese cristiane, dagli ortodossi agli anglicani). Prodi, accompagnato dalla moglie Flavia, non vuole fare dichiarazioni, ma tutti hanno notato che qualche minuto prima, rientrando in sacrestia al termine della messa, Bertone, con ancora i paramenti indosso, si è mosso per salutare con grande cordialità il presidente Ciampi e la moglie Franca, mentre al presidente del consiglio ha riservato solo una veloce stretta di mano.
Sono le otto di sera quando Bertone entra in un lungo colloquio a quattr'occhi con Napolitano, appena arrivato dal Quirinale, in una delle sale a piano terra del palazzo del Vicariato. E' evidente che non si tratta solo di cerimoniale. L'incontro, faccia a faccia, dura ben 25 minuti. Un tempo necessario per un esame approfondito della delicata situazione politica interna. E' come se, terminate a Palazzo Giustiniani le consultazioni del presidente incaricato Marini, un più alto punto- situazione, sia stato fatto ieri sera tra Vaticano e Stato italiano.
Una conferma, se si vuole, della «vocazione diplomatica » della Comunità di sant'Egidio, che in passato ha «risolto» complicate situazioni in Africa e in altre parti del mondo tanto da essere ribattezzata da Igor Man, «l'Onu di Trastevere». «Alla ispirazione, anzi, alla passione cristiana — ha affermato Napolitano in un breve discorso di saluto — si aggiunge la vostra singolare capacità diplomatica », legata sempre agli «alti ideali » e alla ricerca del «bene comune ». Per questo, ha sottolineato il Capo dello Stato, «gli italiani vi devono essere grati». In tutto, il presidente della Repubblica, accompagnato dalla signora Clio, si è trattenuto, un'ora («La voglia di venire ce l'avevo e il tempo l'ho trovato »). Un salottino particolare con Riccardi e con monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Terni, tra i fondatori di Sant'Egidio e a lungo parroco di Santa Maria in Trastevere. L'ex segretario della Quercia, Fassino, commenta soddisfatto: «Sono passati i tempi del segretario di stato Sodano. Il cardinal Bertone ha quasi fatto un'investitura pubblica di Sant'Egidio, in una celebrazione solenne. Ed è di particolare rilievo che ben due volte abbia sottolineato la particolare benedizione del Papa Benedetto».

Corriere della Sera 2.2.08
E in Gran Bretagna nuovo piano del governo: rimborsi ai cittadini sterili che utilizzano madri in affitto
I vescovi: figli concepiti senza il padre? Violate etica e ragione
di Margherita De Bac


E gli esperti si dividono.
Eleonora Porcu: questa non è scienza. Ermanno Greco: rispettata l'etica

ROMA — «Gravi riserve morali» dei vescovi sulla tecnica che permetterà di creare spermatozoi dal midollo osseo della donna, come ha riportato il New Scientist. In pratica la donna un giorno potrebbe fare da sola, non aver bisogno dell'uomo per riprodursi. Il solo pensiero solleva lo sdegno della Chiesa.
Il tentativo di generare un bambino senza bisogno del padre «è contrario all'etica e alla ragione», condanna duramente il Sir, servizio di informazione religiosa, l'agenzia di stampa dei Vescovi. Ancora: «E' una nuova forma di fecondazione artificiale tutta ancora da verificare e comunque preoccupante negli scopi che si propone. La paternità resterebbe solo un retaggio culturale d'altri tempi, non servirebbe più l'incontro tra due persone che si amano e anche due omosessuali potrebbero avere un figlio biologicamente proprio».
Non manca materia per polemiche. Solo due giorni fa il Papa ha condannato ogni forma di fecondazione artificiale extracorporea. E in Gran Bretagna vanno oltre con una proposta inedita.
Rimborsi ai cittadini sterili che utilizzano madri surrogate, cioè prese in affitto per sostenere una gravidanza. Dalle 7 alle 15 mila sterline la tariffa con cui coprire le spese delle coppie, comprese quelle gay. La notizia è stata anticipata dal quotidiano
Daily Mail. Il progetto è stato presentato e discusso dall'azienda sanitaria North Essex Primary Care. Interessati a seguire questa strada anche gli ospedali di Cambridge, Doncaster, Nottingham e Gloucestershire.
Si dicono pronti a creare spermatozoi partendo da cellule staminali del midollo osseo i ricercatori dell'Università di Newcastle Upon Tyne University. La «riconversione» avverrà in una coltura a base di vitamina A. «Convincere una cellula a trasformarsi in gamete? Obiettivo stupendo solo per restituire la fertilità a chi l'ha persa. Se invece la finalità è di vicariare lo sperma io mi tiro fuori. Non è più scienza, questa», si dissocia la ginecologa del Sant'Orsola Eleonora Porcu, nota per i suoi lavori sugli ovociti congelati.
L'andrologo Ermanno Greco accoglie invece con entusiasmo gli annunci di Karim Nayerna, il coordinatore della ricerca: «Potremo ottenere gameti artificiali in modo etico. Pensiamo alle applicazioni su uomini incapaci di produrre spermatozoi, sterili. Diventerà possibile ottenerli col loro stesso patrimonio genetico».

Corriere della Sera 2.2.08
A colloquio con il professor Khrustov: i miei studi sulla comunicazione
Anche le scimmie pensano
La capacità cognitiva? Viene prima dell'uomo
di Armando Torno


Il risultato arriva da un test effettuato sugli scimpanzé, capaci di un'operazione perché in grado di compiere un'elaborazione mentale e non solo spinti dall'istinto
L'informazione della forma è già presente nel cervello del primate, quindi è dotato di capacità connettiva: una caratteristica presente in tutti i soggetti della specie

MOSCA — All'Università delle Relazioni Internazionali, dove un tempo si formavano i diplomatici sovietici e oggi quelli russi, incontriamo il professor Ghenrikh Fiodorovich Khrustov. Biologo, antropologo, soprattutto filosofo, è autore dell'opera, da poco uscita, La teoria del fatto (Edizioni Ministero Affari Esteri). Questo accademico è noto sin dal 1964 allorché uscì una sua indagine sul costituirsi e l'evolversi delle attività nel mondo degli antropoidi basata sugli strumenti di lavoro. Il libro fece un chiasso notevole nell'ex Urss, giacché si individuò in talune analisi un'accusa al nucleo dirigente del partito che si era sclerotizzato. Ma, come si suol dire, di acqua ne è passata sotto i ponti. Comunque, il professore ha continuato i suoi esperimenti con scimmie e gorilla, tra Berlino e Mosca. E ora sta tirando le conclusioni.
Khrustov è uno dei pochissimi che in Europa abbia dedicato decenni di ricerche per comprendere come funziona la comunicazione negli antropomorfi, per poi confrontarla con quella dei bambini di due anni (ha utilizzato allo scopo il figlio di un amico). Parla del rapporto tra le sue ricerche e quelle di Jane Goodall, l'etologa e antropologa britannica che ha lavorato per un quarantennio sulla vita sociale e familiare degli scimpanzé, racconta le reciproche citazioni, gli scambi di informazioni e cose simili. Durante i suoi corsi, tra l'altro, il professore russo fa ascoltare arie di Leoncavallo e Puccini perché — sottolinea — «la loro musica aiuta e stimola le deduzioni». E quando gli chiediamo di offrirci una sintesi delle sue scoperte, Khrustov mette da parte accordi e melodie, afferra le fotografie dei suoi esperimenti con gli scimpanzé e le mostra, non prima di aver precisato: «Puccini ha a che fare indirettamente con la religiosità».
Poi, con naturalezza avvia il discorso: «Noi viviamo con le emozioni provate e attraverso di esse creiamo forti impatti su quanto consideriamo vero o falso. Ci plasmano. Contro di esse l'uomo non può vincere. Per questo motivo ho studiato il processo della nostra formazione, quel percorso che va dal primate all'homo sapiens». Entra nei particolari delle sue ricerche, e si sofferma con qualche smorfia per il costo sempre più alto che richiedono; quindi analizza i risultati delle osservazioni compiute, ricorda che «l'uomo è l'attività dell'uomo». Cita tra i moltissimi il suo maestro Jacov Roghinskij, ma i suoi paragoni chiamano in causa il filosofo greco Epicuro (parafrasandolo: «Le mie parole non valgono se non possono guarire qualche sofferenza»), Charles Darwin, soprattutto Immanuel Kant. Del sommo tedesco ricorda in particolare l'Antropologia pragmatica,
opera dove si parla delle cause dell'aumento e della diminuzione del grado delle sensazioni. Khrustov analizza i passi relativi alle catastrofi che sviluppano le capacità. Infine afferma: «Il pensiero nasce prima dell'uomo ». Per far seguire a tali parole delle argomentazioni scientifiche illustra i dati raccolti con gli scimpanzé, sintetizza quello che in base alle prove effettuate avverte la loro mente, ricorda che i gesti di queste scimmie sono spinti da qualcosa di più complesso di un certo bisogno o da un particolare impulso. Per passare all'esempio, diremo che il professore ha offerto al soggetto utilizzato un tubo al centro del quale si trovava qualcosa di ghiotto; ha poi manipolato un legno tondo, dal quale in un primo tempo era facile ricavare una piccola asta seguendo le venature e con la semplice pressione di due arti. Poi l'operazione diventava possibile soltanto attraverso una serie di accorgimenti e con un vero e proprio lavoro, per il quale non bastava l'istinto. Lo scimpanzé, organizzandosi progressivamente, è riuscito nell'impresa di staccare la sospirata asticella con i denti, non cadendo nei trabocchetti delle apparenze.
Da tutto ciò — e i passaggi scientificamente documentati si leggono nel libro ricordato sul fatto — Khrustov sostiene che l'informazione della forma è già presente nella mente dello scimpanzé, dotato di una capacità connettiva, anzi con essa riesce a realizzare e a perfezionare. Inoltre: concretizza ogni fase della connettività e tutti i soggetti della sua specie presentano tali caratteristiche. Lo scimpanzé, infine, è in grado di confrontarsi con la realtà (non la subisce ma entra in contatto con essa). Nell'evoluzione delle popolazioni umanoidi, a detta del professore, è bastato un cervello simile a questo, anche se non ha ancora un'importanza esistenziale. Il prossimo argomento: studiare l'eventuale scambio di dati che i diversi soggetti sono in grado di comunicare tra loro, dopo un'esperienza come quella ricordata.
Inevitabili a questo punto i discorsi sul progresso e sul regresso. Khrustov offre una sua opinione: se l'umanità dovesse difendersi dall'arrivo di un asteroiode (un Apofis con la traiettoria giusta, per intenderci) oggi non sarebbe in grado di farlo. Non per mancanza di tecnologia o di mezzi, ma perché ci sarebbe, anche in tal caso, disaccordo tra le varie nazioni gelose e preoccupate dei loro segreti tecnologici. Subirebbe insomma la catastrofe, non riuscendo a raggiungere quell'armonia necessaria per affrontare una simile emergenza anche in un momento cruciale.

Libri & Storie. Gli appunti di Darwin
«Io penso» c'è scritto al margine dello schizzo che rappresenta la teoria a cui Charles Darwin arriverà. È il seme di un pensiero composto da immagine e parola che a guardarlo emoziona, pensando a quello che ne è poi scaturito. A leggere i «Taccuini» di Charles Darwin (Laterza) curati da Telmo Pievani è come tuffarsi in un mondo informe ma ricco, dal quale possono nascere grandi cose. Scritti tra il 1836 e il 1844, le pagine cristallizzano gli interessi del giovanissimo scienziato impegnato a mettere ordine nei ricordi e nelle idee. Ci sono passione, scienza, tratti umani, disordine e razionalità, insomma una sorta di vaso delle meraviglie come può essere il cervello di un genio.
G.Cap.

Corriere della Sera 2.2.08
Fuksas: «Nessun eskimo, sembravamo impiegati statali»
«Ma non eravamo tutti borghesi, come pensava Pasolini»
di Andrea Garibaldi


Una volta attaccai Scalzone e lo accusai di posizioni conservatrici

C'è quella foto, siete tutti sottobraccio, Oreste Scalzone, Paolo Flores d'Arcais, Sergio Petruccioli, Franco Russo... «Sì. Ricordo tutto». Lei è il secondo da destra. Gridate... «Che data ha la foto?». È il 24 febbraio, quarant'anni fa. «Pochi giorni prima della "battaglia di Valle Giulia", che doveva "liberare" la facoltà di Architettura dalla polizia».
Massimiliano Fuksas, architetto celebre, studi a Roma, Parigi e Vienna, rammenta che la foto venne scattata in via del Corso, all'altezza di Santa Maria in via Lata. Lo scatto fu del fotografo Mordenti, barbetta e capelli ricci. «Il '68. Eravamo un piccolo gruppo, mica una massa oceanica. Due-trecento esseri umani, come una grande comitiva, percorsa da simpatia e affetto. Duemila al massimo, nelle grandi occasioni. Sembravamo impiegati dello Stato. Tutti in giacca. Altro che eskimo!». Se la foto si allargasse, nelle file dietro, dice Fuksas, si riconoscerebbero, per esempio, Duccio Trombadori e Sandro Curzi, già giornalista, e Francesca Raspini, che scriveva sull'Unità e pareva spuntata da un film inglese, per il vestito con chiusura lampo davanti. «Gridavamo cose come "Potere studentesco", slogan ridicolo a ripensarci, quelli del Pci inorridivano. Manifestavamo per uscire dall'università, per non chiuderci solo in quelle commissioni: "Commissione Cina", "Commissione Terzo Mondo". Uscivamo per cercare alleanze».
Scena principale, l'Aula 1 di Lettere. «Qui convergevano le varie anime del movimento. I gruppi si costruivano e si sfasciavano in un attimo. Io e Raul Morales una volta andammo all'attacco di Scalzone, presidente dell'assemblea. Occupammo la presidenza, lo accusammo di "posizioni conservatrici". C'erano cambiamenti di fronte quotidiani. Un giorno da Trento venne Mauro Rostagno. Invece di virgole e punteggiatura usava la parola "merda", che noi non usavamo proprio. Ci fece ridere ». Ogni facoltà, i suoi riti: «A Fisica erano molto più seri. Avevano sale riunioni, perfino i buoni pasto... C'erano Marcello Cini, che in questi giorni ha firmato la lettera sul Papa alla Sapienza. Lanfranco Pace invece stava a Ingegneria e soffriva molto di solitudine. Renato Nicolini si era fidanzato con una brutta ragazza e si faceva prestare la casa da un professore, Morabito. Al '68 non ci pensava proprio...».
La sera, spaccature. «I secchioni dell'occupazione dormivano in facoltà. La maggior parte costretti, perché erano i cosiddetti "fuori sede", come Gianloreto Carbone, che oggi fa il regista di Chi l'ha visto?
Chiedevano soldi a chiunque venisse, giornalisti, registi. Io odiavo dormire all'università, le chitarre e tutto il resto. Così andavamo a cena in pizzeria, al "Leoncino"».
Primo di marzo, Valle Giulia. Fuksas ha nella mente un album fotografico. Franco Piperno con un bastoncino in mano vicino a una scarpata, la polizia che carica. Paolo Flores teorizza che non vanno lanciate bottiglie poiché possono essere rilanciate indietro: prende una bottiglia di Coca sul mento, appunto. E il «piccolo grande Giuliano Ferrara».
A metà mese «i fascisti occuparono di notte la facoltà di Legge. Almirante, Caradonna, più alcuni delinquenti che non frequentavano l'università. Andammo all'attacco. Lanciarono un banco, Scalzone ferito. Lo portammo a viale dei Quattro venti, alla clinica di Spallone, o di Garofalo, medici comunisti. Qui incontrai una "compagna svizzera" e scappai con lei, nella casa che avevo affittato a Portico d'Ottavia». Ottomila lire al mese per un ultimo piano nella storica zona del ghetto: «Poi, in dieci, prendemmo un'altra casa, in via del Tempio, centomila al mese. Ora ci abita Mara Venier».
Dal Pci molti disapprovavano. Altri curiosavano. «Claudio Petruccioli ogni tanto veniva a raccogliere la famiglia. Il fratello Sergio, Architettura, e Sandro, Fisica. "Li faccio mangiare", diceva. E veniva Occhetto, con quella sua aria rigida, ma voleva capire. Poi perse la testa per la sorella di Marco Lippi, che stava a Matematica, e cominciò a dire che voleva sciogliere la Fgci. Si vede che era destinato sempre a sciogliere qualcosa... E Valerio Veltroni, maggiore di Walter: a un certo punto decise che era ricercato, dormiva ogni sera in un posto diverso. Con un magnifico pigiama di seta».
Tutti figli della borghesia, disse Pasolini dopo Valle Giulia. «Non capì bene. I Petruccioli erano figli di un ferroviere. Mio padre insegnava filosofia. Il padre di Piperno, mi pare, direttore didattico. Impiegati, intellettuali. C'eravamo noi di Monteverde, c'era un gruppo della Garbatella, con Victor Cavallo. A settembre, una volta, a casa di Veniero Spinelli, fratello di Altiero, comparve Valerio Morucci, ex del "Mameli", il liceo dei Parioli. Ci cercavano in tanti. Facemmo riunioni con Feltrinelli, per un giornale del movimento. E Scalfari voleva affidarci il paginone dell'Espresso».
Ha rivisto quelli del '68? «Mi fa orrore frequentare chi mi ricorda quando ero giovane. Però a casa Rutelli ho incontrato Alberto Asor Rosa, che da professore seguiva il movimento: ci siamo abbracciati per un quarto d'ora». Cos'è che univa tutti quanti? «Avevamo letto un po' più della media, sapevamo qualche lingua. Adoravamo la scuola. Tentavamo di modernizzare la società e avevamo di fronte una classe dirigente arroccata in un fortino. Vedo qualcosa così anche oggi».

Corriere della Sera 2.2.08
Tiziano. Puro colore
Cristi, dee, dogi: 28 capolavori con una sensualità «liquefatta»
di Martina Zambon


Lo stile dell'artista nel finale della sua vita è spesso accostato all'impressionismo di Claude Monet

Tiziano, che ha dato il suo nome alla sfumatura più viscerale del rosso, diventa pure test-trabocchetto per i più zelanti studenti d'arte. A Rotterdam, con una certa dose di perfidia, i docenti propongono un dettaglio del «Bambino con cani» in un paesaggio (anno domini 1580) chiedendo agli studenti a che periodo si possa attribuire. Inevitabili gli scivoloni, c'è chi lo colloca sicuro nell'800, che scopre l'impressionismo, chi azzarda un début di '900. E a lasciarsi avviluppare dai rosei cieli rotanti di Tiziano come nella «Danae», il riflesso condizionato va a tanti Monet.
Rivoluzionario, frainteso dai contemporanei, l'ultimo Tiziano esplode in un vortice dal segno liquefatto nella più sensuale delle mostre, quella allestita fino al 20 aprile all'Accademia, nella chiesa della Carità, cuore delle nascenti Grandi Gallerie di Venezia. Una mostra quasi piccina, solo 28 lavori creati fra il 1550 e il 1576, eppure immensa. Ventotto oli, ventotto capolavori, non uno di meno. Scelte coraggiose alla base di un risultato tanto stupefacente.
Mancano, in una esposizione intitolata «L'ultimo Tiziano e la Sensualità della pittura», quelle Veneri che ci si aspetterebbe. Troppo facile declinare la sensualità di una pennellata magmatica con soggetti vicini al cliché. Sensuale e dolorosa insieme, la «Crocifissione» che inquadra uno scorcio inedito, un Cristo affiancato ad un solo ladrone in una composizione concava, tondeggiante, in cui lo sfondo è una miscela sapiente di toni bruni, dall'ocra al giallo che avvolgono i corpi sofferenti. Sensuale la straziante «Pietà» che sta di casa proprio all'Accademia, dipinta con furiosa pazienza, strato dopo strato (i restauratori ne hanno contati dieci). Il corpo macerato dal supplizio di Cristo, visto da vicino, non è altro che colore puro steso sulla tela «a macchie» come lo stesso Vasari notò. Non si trattava, però, di un apprezzamento. Negli anni in cui il fulgore di Michelangelo, Leonardo e Correggio splendeva, Tiziano segue risoluto la sua via di innovatore, e la trova puntando tutto sul colore. Il segno, visibilmente più labile dipinto dopo dipinto, sparisce per lasciare spazio a una tridimensionalità pulsante. La mostra si presenta limpida in tre partizioni, la prima è una galleria di ritratti, da Papa Farnese III (conservato a Capodimonte) alla Lavinia («Ritratto di Dama in bianco») il cui sontuoso abito di taffetà pare «crocchiare». Dogi, signori della guerra, papi. Tiziano ruba l'anima a ognuno e la riversa in sguardi acuminati che trafiggono il visitatore.
L'unico ritratto che fissa pensoso un punto oltre la cornice è il suo, quello del maestro dall'espressione triste, la bocca ridotta a una piega amara. La seconda parte comprende soggetti profani, ninfe e pastori, divinità mitologiche e fanciulle virginali. E poi i temi sacri, due Maddalene appaiate, Santa Margherita che lotta contro il drago in un turbinio di colori in cui l'asse del dipinto è dato da una sola gamba ritta e nuda. La sensualità passa da un soggetto all'altro, non è legata al tema, ma a uno stile personalissimo. Come in due piccole tele: due Madonne con Bambino. E nel passaggio fra la Madonna dell'Accademia, tersa e pensosa, e quella ancora più piccola custodita alla National Gallery di Londra, c'è la misura dell'ultimo Tiziano. La composizione non basta a spiegare la malìa di uno dei soggetti che ricorrono nella storia dell'arte. Una madre che allatta suo figlio. Già vista l'impostazione, il Bambino che si aggrappa con una manina paffuta al seno della Madre, collaudato lo sguardo colmo di dolcezza di lei. No, il segreto di un quadro che incanta è tutto nel colore che si scioglie e si ricompone davanti agli occhi di chi guarda. Le sfumature tenui fanno pensare a un acquerello. Le macchie di colore, armoniosamente fuse, toccano il Mistero.

Corriere della Sera 2.2.08
Anziani d'assalto La sua prolificità viscerale è paragonabile solo a quella di Picasso
Quel ruggito del Grande Vecchio
di Philippe Daverio


A 80 anni e oltre, Tiziano risolve la sua pittura a pennellesse, a spatolate, se non addirittura a manate vere e proprie

Tiziano morì molto vecchio: secondo la famiglia e lui medesimo era pressoché centenario, secondo la storiografia moderna ultra ottuagenario, il che è comunque una bella età. Lui si tirava avanti gli anni come fanno talvolta gli uomini maturi per calcare la loro autorevolezza e lo faceva forse pure per intenerire l'animo impossibile e parsimonioso di Filippo II quando gli scriveva che non era corretto non pagare un povero vecchio in miseria.
In miseria non lo era affatto, proprietario d'una duplice fabbrica di pitture, a Venezia quella centrale, e per i clienti del Veneto quella in Cadore, dove gestiva le altre sue fabbriche, quelle di legname che era poi la materia prima per l'arsenale di Venezia e per i pali della laguna. La mostra di Venezia è un riassunto di questi ultimi anni di produzione dell'artista e un riassunto pure della medesima mostra già allestita a Vienna. Rispetto a quella originaria la presente offre un allestimento molto più adatto alla lettura delle opere, perché le illumina meglio, avvicina il visitatore e colloca le varie tele in un confronto stimolante. Il che ne fa un itinerario adatto all'indagine curiosa, che è poi quella sulla creatività d'un vecchio. Molti artisti vanno avanti negli anni con una inesorabile decadenza della mano pittorica e della grinta espressiva. Tiziano invece porta alle ultime conseguenze il suo fare, verso un parossismo che ha per similare solo quello di Pablo Picasso. Quel suo modo materico, che origina forse dalla breve stagione giovanile col Giorgione, viene portato fino al limite d'una pittura risolta spesso a pennellesse, a spatolate se non addirittura a manate vere e proprie, con tele che vengono lasciate seccare per intervenirvi successivamente. La qualità espressiva dei fondi e delle ombre viene rialzata con gesti rapidi di luce o di colore che non chiedono nulla ad un disegno preesistente perché sono le pennellate stesse a generare le forme impastando la materia. E' già inventato il trucco magico che segnerà la pittura dei secoli successivi fino a Goya, Manet e agli impressionisti. Nessun artista futuro potrà sentirsi indifferente alla vista dei suoi lavori ultimi. In quanto a lui l'energia che continua a sprigionare lo porta naturalmente a combinare i due temi fondamentali della riflessione, la morte e l'eros, la fede e la carne, la cristianità e Ovidio. Sicché le metamorfosi e i complicatissimi amori di Giove fra carni femminili che anticipano le ricchezze lipidiche di Rubens si combinano con le sofferenze di Cristo che indicano la strada al suo discepolo, Il Greco. Il Veneto di campagna, anzi di montagna, conquista la Venezia cittadina e la tradizione formidabile del disegno e della velatura è definitivamente abolita. Il segreto della pulsione vitale interrotta solo dalla peste, ma capace nei giorni della peste e della vecchiaia di compiere l'ultimo miracolo della Deposizione? Nessun intellettualismo, solo visceralità, come in Pablo Picasso appunto.

Corriere della Sera 2.2.08
Un quadro, una storia La tela commissionata da Alessandro Farnese
Danae, la modella che turbò Roma Dietro il mito, l'amante del cardinale
di Francesca Bonazzoli


Un soggetto molto richiesto, Tiziano ne fece diverse repliche

Il 20 settembre 1544 il nunzio apostolico a Venezia, nonché arcivescovo di Benevento Giovanni Della Casa, prese carta e penna e scrisse una lettera a Roma, indirizzandola ad Alessandro Farnese, cardinale nipote di Paolo III.
Autore del celebre «Galateo» e in gioventù assiduo estensore di componimenti poetici dai doppi sensi osceni, il nunzio era appena stato a visitare Tiziano nel suo studio: sapendo bene quanto il pittore fosse subissato di richieste e sempre in affanno nelle consegne, era andato a controllare come procedevano i lavori del quadro che il Farnese sollecitava. Con grande piacere lo aveva trovato a buon punto: Tiziano, scriveva Della Casa, «...lha presso che fornita, per commession di Vostra Signoria Reverendissima, una nuda che faria venir il diavolo addosso al cardinale San Sylvestro... », ovvero al domenicano Tommaso Badia, che nel 1537 aveva firmato il «Consilium de emendanda ecclesia » ed era tra i principali censori dei costumi corrotti della curia romana.
Ma non solo. Al confronto di questa «nuda», aggiungeva il nunzio, «quella che Vostra Signoria Reverendissima vide in Pesaro nelle camere de'l Signor duca d'Urbino (la cosiddetta «Venere d'Urbino» acquistata da Tiziano da Guidobaldo II della Rovere) è una teatina appresso a questa», dove con teatina si alludeva all'ordine religioso dedito alla cura dei malati.
Il primo, dunque, a rimanere colpito dalla provocante sensualità della «nuda » di Tiziano fu il colto e smaliziato Della Casa, ma appena il quadro giunse a Roma, non ci fu chi rimase insensibile: di quell'opera il pittore cadorino dovette in seguito dipingere almeno sette altre versioni e tutto questo nonostante il grande Michelangelo l'avesse criticata.
La testa della cognata
Ma torniamo nello studiolo veneziano del Della Casa il quale continua la sua lettera aggiungendo che il miniaturista Giulio Clovio aveva mandato uno schizzo della cognata della signora Camilla da cui il Farnese voleva che Tiziano traesse un ritratto, ma il pittore aveva avuto un'altra idea: appiccicare la testa della sopradetta cognata alla «nuda ».
Considerato che la signora Camilla era probabilmente la celebre cortigiana Camilla Pisana e la sua cognata una certa Angela, favorita del Farnese, la «nuda » che oggi è appesa al Museo di Capodimonte con il titolo di Danae, sarebbe allora uno spudorato ritratto nudo dell'amante del cardinale, così pornografico che ancora nel 1815, quando fu collocato nella nuova sede del Real Museo Borbonico di Napoli, Ferdinando II lo escluse dal normale percorso museale e lo relegò nel «Gabinetto de' quadri osceni ».
La visita di Michelangelo
Il quadro, dunque, era quasi finito quando Tiziano partì per Roma chiamato da Paolo III che gli mise a disposizione una bottega nel Palazzo del Belvedere, in Vaticano.
Proprio lì il pittore ricevette la visita di Michelangelo, accompagnato da Giorgio Vasari il quale scrisse che quel giorno videro «in un quadro che allora aveva condotto, una femina ignuda figurata per una Danae, che aveva in grembo Giove trasformato in pioggia d'oro e molto, come si fa in presenza, gliene lodarono ». Per poi aggiungere che, non appena si furono allontanati dalle orecchie di Tiziano, il malmostoso Michelangelo cominciò a criticarlo dicendo che era un peccato che il cadorino non sapesse disegnare.
Criticava, cioè, quel modo di dipingere libero, con le pennellate stese alla brava, che sarà proprio la caratteristica dell'ultimo Tiziano e quella che conferiva alla Danae la sua particolare sensualità, di pelle vera, palpitante.
Ma è interessante notare che mentre a Venezia quel quadro era per Della Casa una semplice «nuda», a Roma si trasformava, nelle parole del Vasari, in una «femina ignuda figurata per una Danae»: è probabile dunque che nell'ipocrisia dell'ambiente ecclesiastico si fosse ritenuto necessario coprire di dotta decenza quel nudo mascherandolo dietro la storia mitologica raccontata da Ovidio. Fatto sta che da quel momento tutti vollero la loro Danae.
Tiziano ne fece prudentemente un cartone che utilizzò ogni volta per accelerare i lavori: la donna veniva replicata con minime varianti, mentre a cambiare erano soprattutto letto, tendaggi, Giove trasformato in pioggia d'oro e la serva che raccoglie le monete.
Ogni cliente, così, riceveva una versione diversa e il primo fortunato fu Filippo II di Spagna.

Mistero viennese
Della Danae in mostra, invece, proveniente da Vienna, non si conosce il committente. Si sa solo che nel 1600 apparteneva al cardinale Montalto il quale la inviò a Praga all'imperatore Rodolfo II. E' l'unica versione che rechi la firma: Titianus. Aeques. Caes.
Chissà, forse un modo di intimidire il committente (erano sempre restii a pagare e quanto bisognava sollecitarli) affermando l'orgoglio di essere Cavaliere dell'Imperatore. Di quel Carlo V spirato contemplando un altro suo quadro, ben più santo: quello della Trinità

l’Unità Liberazione e il Riformista lettere 2.2.08
Gli orrori di chi non applica la 194

Cara Unità,
non passi inosservata l’affermazione che Emma Bonino ha reso ieri durante la trasmissione AnnoZero: in Lombardia quasi tutti i ginecologi assunti nelle Asl sono obiettori di coscienza, ovvero non applicano la legge 194. «Quasi» sono i due o tre medici che devono affrontare tutti gli aborti della regione. Mentre Formigoni li aspetta al varco per disporre il «funerale» dei feti e cerca di eliminare del tutto la 194... Questi sono orrori che superano enormemente la già terribile decisione che una donna deve prendere per rifiutare una gravidanza e dimostrano che l’esecuzione politica di dogmi religiosi è un fatto.
Paolo Izzo, Roma

l'Unità lettere 2.2.08
Noi li chiamiamo Eminenze, loro ci chiamassero Signorie
Cara Unità,
mi sono sempre chiesto perché un politico che si rivolge a un ecclesiastico lo chiama Sua Eminenza, reverendissimo o monsignore. Un amico mi ha spiegato che l’uso di tali titoli, che a me suonano tanto come nobiliari, deriva dal riconoscimento della sovranità della Santa Sede. Visto però che la Costituzione riconosce anche la sovranità dello Stato, per reciprocità chiedo che ogni qualvolta un vescovo parla agli italiani si rivolga, per favore, chiamandoci «le Signorie Loro». Casomai qualcuno si fosse dimenticato che in Italia sovrano è il popolo.
Roberto Martina

il Riformista lettere 2.2.08
La memoria del '38
Caro direttore, non sopporto le ricorrenze eppure nel 1938 le infame leggi firmate dal re divisero l'Italia mai come prima. Al di là della passione politica o personale, penso che ancora oggi quegli avvenimenti condivisi da gran parte degli Italiani siano ben lungi dall'esser stati metabolizzati. Oggi o domani ma è già accaduto anche di recente l'altro della porta accanto può sempre divenire uno straniero in patria. Con affetto
Davide Acri e-mail

il Riformista 2.2.08
Amnesie democratiche
Tra i valori del Pd non troviamo la Resistenza


Si parla di tutto un po'. Di diritti umani, di laicità e religione, di lavoro e impresa. Non si parla di Resistenza. Né di antifascismo. Da nessuna parte, o quasi. Piero Terracina, nel suo contributo per lo Statuto, ha chiesto che a ciò si faccia cenno tra i principi fondamentali del partito, chiedendo una esplicita condanna del fascismo anche per «impedire che, in nome della pacificazione, vittime e carnefici vengano equiparati». Oltre a ciò, però, nulla da segnalare. Curioso che il Partito democratico, erede dei grandi partiti popolari che contribuirono sessant'anni fa alla nascita della Costituzione repubblicana, nasca senza che, tra i valori ai quali intende ispirarsi, vi sia un accenno, seppure fugace, alla lotta che liberò il paese e lo restituì alla libertà e alla democrazia.
Si dirà che nei documenti ai quali stanno lavorando le tre commissioni (Statuto, Valori e Codice etico, come ci confermano alcuni autorevoli responsabili della stesura dei documenti) si cita più volte la Costituzione, e si sosterrà anche che la Costituzione questi richiami li contiene e che, dunque, indirettamente anche il Pd si richiama all'antifascismo e alla Resistenza. Si dirà anche che questi documenti guardano al futuro. Bene. Benissimo. Certo, però, viene da pensare ad Arrigo Boldrini, scomparso proprio pochi giorni fa. È stato uno degli uomini che hanno costruito questo paese, il partigiano Bulow; uno di quelli che hanno lottato perché questo paese potesse decidere liberamente del proprio destino. Uno che, il giorno che è morto, è stato ricordato da tutti come "un pezzo dell'Italia migliore che se ne va". Già, ma dove se ne va questa Italia migliore? Viene da chiederselo se, ormai, neppure il maggior partito del centrosinistra, quello che vorrebbe avere vocazione maggioritaria, erede, seppure alla lontana, del Partito comunista italiano, tra i valori ai quali si richiama decide di ricordare anche la Resistenza e l'antifascismo.
Oggi le commissioni Manifesto dei Valori e Statuto sono al lavoro. Il tempo per rimediare ci sarebbe.

Liberazione 2.2.08
Giordano: «Non c'è nulla di già deciso». Mussi nicchia
Cosa Rossa, si discute su simbolo e leader


Falce e martello nel simbolo e il ticket al timone Fausto Bertinotti-Grazie Francescato sembrano non piacere a tutti nella costruenda La Sinistra-L'arcobaleno. Le ipotesi, riportate dal Corriere della Sera ieri in edicola non sono piaciute a Sinistra democratica, per esempio, che per bocca del coordinatore Fabio Mussi si è affrettata a smentire: «Non c'è stata nessuna discussione collettiva e nulla è stato deciso in via definitiva». Dopo pochi lanci di agenzia, arriva anche la puntualizzazione del segretario del Prc, Franco Giordano che con Fabio Mussi ieri ha avuto un incontro: «Il confronto è aperto, le indiscrezioni sono infondate». Ad inizio settimana prossimi ci sarà un incontro fra i quattro segretari (quindi anche Pecoraro Scanio e Oliviero Diliberto) e forse i nodi verranno sciolti. Nel frattempo è tutto un gettare acqua sui fuochi in realtà appena accennati: «Un processo unitario complesso comporta che i passi che si fanno, dai simboli al programma politico, siano concordati», ha spiegato il ministro dell'Università, che ha contestualmente ribadito «l'esigenza di un nuovo soggetto politico della sinistra e non un cartello elettorale».
Anche sul disegno grafico del simbolo da presentare alle elezioni Mussi ha avuto da osservare che se rimanessero tutti e 4 i simboli degli attuali partiti «ci vorrebbe la cartina turistica». Se Mussi boccia senza appello la soluzione indicata, lo schema fa discutere anche dentro Rifondazione. Nel Prc c'è chi non nasconde la preoccupazione che l'idea di schierare Bertinotti comprometta l'intesa proprio con Sinistra Democratica, da sempre contraria a dare l'idea di essere annessa a Rifondazione. E di fronte al tam tam delle elezioni torna in auge il nome di Nichi Vendola. Il governatore della Puglia infatti è considerato da molti, e non solo dentro il Prc, come il nome ideale da schierare in concorrenza a Veltroni. Convinto che l'unica strada percorribile sia quella di un nuovo soggetto con un nuovo simbolo è anche Alfonso Gianni, uno degli uomini più vicini al presidente della Camera: «Non possiamo andare con abiti dismessi - osserva - mentre gli altri si vestono di nuovo». Per Gianni, l'ipotesi dei quattro simboli è «un passo indietro». Di opinione opposta è Claudio Grassi, leader della minoranza di Essere Comunisti, che ricorda: «I simboli con la falce e martello alle ultime elezioni hanno preso l'8,1% dei voti». Tutta la discussione nasce, a sinistra, dall'ipotesi che il Pd corra da solo: «C'è bisogno di una sinistra politica. Ma io non rinuncio a tenere aperta l'ipotesi strategica di un centrosinistra che governi l'Italia. Non è un incontro e dirsi addio. Io sono sempre stato critico con il fatto che il Pd sia partito con il dire andiamo da soli», spiega Mussi. «Se si dovesse andare al voto con questa legge elettorale, poichè ci sono sbarramenti molto alti (4% alla Camera e 8% al Senato) è giusto che la sinistra costruisca una lista unitaria. - ha detto ancora Grassi - Ed è altrettanto giusto, visto che si tratterebbe di una lista - la Sinistra, l'Arcobaleno - in cui confluiscono vari soggetti politici che non hanno alcuna intenzione di sciogliersi, che nel logo siano presenti i quattro simboli dei partiti». Andare alle elezioni mantenendo i simboli del lavoro è un'idea che non dispiace ovviamente al Pdci di Oliviero Diliberto, che la considera anzi una scelta obbligata visto che il nuovo simbolo è ancora poco conosciuto e che i tempi invece sono stretti.

Liberazione 2.2.08
Revisionismi, aggressioni e impunità. Nubi nere su Roma
di Elena Ritondale


L'estrema destra strumentalizza il mondo della scuole, le squadracce marciano
alla luce del sole e il Comune patrocina l'iniziativa della consulta studentesca


"Siamo di fronte a una trasformazione del neofascismo, i cui protagonisti sono ancora quelli delle stragi e dei golpe. Una trasformazione da gruppi "militari" in gruppi "sociali", che operano e crescono nel disagio del nostro paese. Ma il riferimento è ancora alle fonti e ai principi del primo fascismo, al suo carattere "rivoluzionario" e populista, dove la democrazia non è vista come rappresentanza ma come strumento per conquistare il potere, dove la parola "popolo" è riferita alla folla che omaggia il trionfatore, dove l'oppositore viene intimidito, dove il diverso viene deportato, dove l'uso della forza e della violenza è funzionale all'esercizio del potere". Questo passaggio del comunicato steso dalle Madri per Roma Città Aperta sintetizza efficacemente quello che sta avvenendo nella destra cittadina, ma non solo.
In poco meno di due settimane sono stati aggrediti un militante di Rifondazione comunista, un attivista di Action che si trovava sul suo posto di lavoro e diverse altre persone, in maggioranza studenti giovanissimi, sono state intimidite da azioni squadristiche portate avanti da individui che si sono persino presentati, a gruppi, sotto casa delle persone di cui conoscevano l'indirizzo.
A fare da cornice agli episodi più violenti, poi, restano iniziative come quella promossa da Fiamma tricolore che, a Ponte Milvio, ha rivendicato, molto a modo suo, il diritto alla casa contestando la "bolla" del Grande Fratello. E' evidente che questa destra stia cercando di "pescare" all'interno di contesti nei quali fino a oggi non era riuscita ad attecchire. Ne è un esempio la triste vicenda della Consulta provinciale degli studenti, in balia del Blocco studentesco dalle ultime elezioni e che ora viene strumentalizzata e coinvolta in scioperi come quello promosso dal Blocco lo scorso 31 gennaio. Tristemente, è questo stesso gruppo a promuovere, a nome della consulta, il convegno in ricordo delle Foibe previsto per il prossimo 8 febbraio, a cui parteciperanno anche esponenti della politica capitolina. Questi ultimi, forse, dovrebbero sapere che l'ideologo del Blocco, che usa strumentalmente il logo della Consulta: «pubblica un articolo in commemorazione della presa del poter da parte di Hitler, come verificabile sul sito noreporter.org», secondo quanto denunciano in un comunicato i "collettivi, comitati, associazioni studenteschi, democratici e antifascisti di Roma".
Questi stessi gruppi, che continuano ad avere il proprio bacino preferenziale all'interno dello stadio, sono riusciti a fare proseliti anche cavalcando il disagio sociale, in primis quello per la mancanza di una casa.
La risposta che hanno dato fino a ora le istituzioni non ha fatto altro che alimentare questa rinascita, dimostrando tutta la propria debolezza con l'assoluta impunità di cui fino a oggi godono gli squadristi di Villa Ada, come gli ultras fermati prima di una partita della Lazio con asce e machete.
L'aggressione ai danni di un militante di Action è l'ultimo caso ma forse il più significativo in tal senso.
«Due delle persone che sono state denunciate erano conosciute dalle forze dell'ordine per aver partecipato alle azioni di protesta contro lo sgombero del Foro 753, centro sociale di destra», spiega Paolo, preso a calci e pugni, domenica scorsa, mentre lavorava a Termini, fra decine di telecamere e guardie giurate. «Queste persone, che se ne andavano in giro per la metro sventolando il tricolore - continua - provengono proprio da quei covi della destra romana che ora chiediamo al sindaco di chiudere». L'esperienza di Paolo, poi, conferma la tendenza dei media a relegare queste vicende a banali presunti episodi di bullismo oppure a interpretarle "liberamente" piegandole a logiche da campagna elettorale. «Trovo assurdo - conclude - che il Messaggero si sia permesso di attribuirmi, con tanto di virgolettati, frasi che io non ho mai rilasciato, né a loro né ad altri». Assurdo poi che, nonostante la dinamica dei fatti - Paolo è stato prima minacciato e poi, in un secondo momento, assalito alle spalle - nessuno abbia sottolineato che si è trattato di un attacco premeditato e organizzato da chi, forse, conta proprio sull'impunità che da mesi copre chi compie questo genere di azioni.

venerdì 1 febbraio 2008

l’Unità 1.2.08
Cosa rossa, Bertinotti sarà il candidato premier
Come vice Pecoraro lancia Grazia Francescato
Sd, Verdi e Pdci volevano la coalizione con il Pd
di Simone Collini


BERTINOTTI FOR PRESIDENT L’altra volta erano soltanto primarie, e l’avversario da battere Prodi. Questa volta sarà invece una vera e propria candidatura, con tutti i crismi della formalità. Fausto Bertinotti sarà il candidato premier della Sinistra arcobaleno alle prossime elezioni. Che si voti ad aprile con questa legge elettorale o a giugno con un’altra, poco importa. Il Partito democratico andrà da solo alle elezioni, e la Cosa rossa metterà da parte tutti i nodi ancora irrisolti e farà altrettanto. Sfidando Berlusconi per il governo del Paese e Veltroni e il Pd per l’«egemonia» a sinistra. Una scelta che non convince Sinistra democratica, Verdi e Pdci, che avrebbero preferito correre in coalizione col Pd, ma che si fonda su un accordo solido, siglato dopo le consultazioni al Quirinale da Bertinotti e Veltroni.
Il presidente della Camera avrebbe preferito far correre il governatore della Puglia Nichi Vendola, per il quale si profilava un futuro di leader del nuovo soggetto non appena la fase costituente della Sinistra arcobaleno sarebbe entrata nel vivo. Ma la fine del governo Prodi, l’accelerazione verso le elezioni e la fine dell’Unione ha cancellato tutti gli schemi. A convincere Bertinotti della necessità di un impegno in prima fila sono state le pressioni provenienti da Rifondazione comunista e dagli alleati più vicini, ma anche i messaggi lanciati dal “loft”. Veltroni prefigura infatti una campagna elettorale basata su poche idee-forza che disegnino un Pd dal netto profilo riformista, e vede con favore una «competizione dialogante» con la sinistra radicale, a sua volta impegnata in una piattaforma programmatica «di alternativa».
«Una contesa tra il Pd e la sinistra ci deve essere, una sfida aperta su chi è più in grado di dare una risposta ai problemi drammatici della società contemporanea», diceva ieri Bertinotti precisando di parlare come «come viandante della politica». Ma in realtà la decisione l’ha già presa, insieme a quella di correre in ticket con una donna (per il Verde Pecoraro Scanio potrebbe essere Grazia Francescato). E già si prepara a sfidare Veltroni e Berlusconi puntando su pacifismo, ambientalismo, diritti civili e soprattutto su una «critica al capitalismo di oggi, che produce precarietà e insicurezza».
Bertinotti insomma aspetta di sapere come andranno a finire le consultazioni di Marini, ma intanto è certo che «politicamente la legislatura è finita col voto in Senato e il giudizio torna ormai agli elettori». Al massimo, a giugno. Cioè, politicamente parlando, «subito». Tra non molto avrà superato l’impedimento del ruolo istituzionale (già nei mesi scorsi gli era stato proposto di mettersi alla testa del processo unitario), ha anche messo da parte i timori sul suo essere «intriso di storia del 900» e si è convinto che non necessariamente un candidato più giovane porti più voti. Che poi è la questione fondamentale. Se alla Camera un risultato a due cifre è auspicabile, al Senato, dove lo sbarramento per le forze non coalizionate è dell’8%, è necessario.
I sondaggi che circolano in questo giorni inducono alla fiducia, dando la Cosa rossa sotto la soglia di sbarramento soltanto in Sicilia. Ma Bertinotti sa che un passo falso questa volta sarebbe fatale, per la rappresentanza della sinistra radicale in Parlamento nella prossima legislatura ma anche per il processo di più lungo periodo. «C’è un imperativo» che va rispettato, per il presidente della Camera: «Che queste sinistre si mettano insieme, che siano soggetto unitario anche se plurale, avendo meno ansia di vincere domani e più quella di rianimare una speranza per il futuro e di cambiare la società». E infine sa anche, Bertinotti, che bisogna giocarsi il tutto per tutto perché a sperare in un fallimento elettorale della Cosa rossa sono in molti: i vari fuoriusciti dal Prc Turigliatto, Cannavò (Sinistra critica), Ferrando (Partito comunista dei lavoratori), ma anche altri compagni di strada che soltanto per cause di forza maggiore stanno acconsentendo a rinunciare in questa tornata elettorale alla falce e martello.

l’Unità 1.2.08
«A sinistra», nasce una nuova associazione


Tra qualche giorno nascerà, a sinistra del Partito democratico, un’associazione che si richiama «ai valori della sinistra» con l’intenzione di lavorare «alle riforme, per uscire dagli aspetti organizzativi della nascita del Pd». Lo annuncia il consigliere comunale romano. Aldo D’Avach, che vanta alcune adesioni di peso. Dal ministro Livia Turco, all’assessore Vincenzo Vita, agli esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo come Lidia Ravera, Massimo Ghini, Ettore Scola.
La nuova associazione guarda anche fuori dai confini del Pd, con l’obiettivo di parlare «a tutti coloro che sono scontenti dei processi troppo tortuosi e frammentati di costruzione di nuovi soggetti, e vogliono concentrarsi sule risposte concrete che il paese aspetta». Tra i temi, salari e pensioni, ambiente e welfare.

l’Unità 1.2.08
La sindaco Marta Vincenzi: sarà solo un segnale per eliminare sofferenze. Il Pd Costa: è solo una sparata ideologica
Registro delle coppie di fatto, a Genova il Pd si spacca
di Eduardo Di Blasi


La possibilità che anche Genova accolga l’anagrafe delle coppie di fatto sul modello di quella nata a Padova, pur non essendo ancora all’ordine del giorno del consiglio comunale, ha provocato uno scossone tra le fila del Pd ligure. È bastata la proposta, lanciata tre giorni fa in conferenza stampa dal consigliere comunale dei Verdi Luca Dall’Orto, dalla presidente della commissione comunale Pari Opportunità Michela Tassistro (Pd) e da Alessandro Zan, consigliere comunale a Padova, e l’auspicio della sindaco Marta Vincenzi a discuterne in Consiglio, a provocare la reazione del vicepresidente della Liguria Massimiliano Costa, esponente del Pd di provenienza Dl (che la bollava come «una sparata dal sapore ideologico, senza nessun fondamento giuridico né vantaggio per i cittadini»). Fatto sta che nella giornata di oggi, in un’altra conferenza stampa, il gruppo del Pd presenterà la propria proposta e non parla dell’anagrafe sulle coppie di fatto. Simone Farello, 33 anni, capogruppo Pd a Palazzo Tursi, la chiama però «l’anagrafe dei diritti». E spiega come nell’impostazione data alla questione ci sia ben poco di ideologico e molto di realtà concreta: «Quello che il Comune deve fare è fornire servizi ai propri cittadini, secondo i servizi che questi richiedono, indipendentemente dalla forma che hanno deciso di dare alla loro affettività. Il problema è che noi non la conosciamo questa realtà. Per questo l’anagrafe va fatta in base a quello che è la realtà: le persone ci devono dire di cosa hanno bisogno. E quali ritengano siano i loro diritti. A quei diritti noi dobbiamo dare risposte. Punto». Una sorta di «mappatura della domanda», che, dal punto di vista amministrativo, supera il concetto di «stato di famiglia». Spiega Farello: «Lo stato di famiglia di uno che è separato, e Genova è la città con più divorzi in Italia, mi dice che quello è separato, ma non mi dice che magari quel genitore separato per tenere il figlio nei periodi che gli spettano, deve avere un appartamento di un certo tipo, e magari in graduatoria è trecentesimo dietro ai nuclei familiari numerosi. Il problema è che noi oggi non abbiamo strumenti per tracciare quel bisogno e quel diritto. Per noi quello è un single». La mappatura, non senza qualche ulteriore discussione, dovrebbe essere anche alle convivenze omosessuali (che richiedono diritti specifici come gli anziani soli, le coppie eterosessuali, i single...). Quello che Farello rimpiange è che all’interno del gruppo del Pd, in questo frangente «chi ha sollevato questa problematica non ha fatto nessun confronto collettivo». Afferma: «Rimpiango tanto le sezioni di partito e gli scout che ti insegnavano che le posizioni politiche devono essere condivise prima che essere affermate. Io credo, ad esempio, che noi dovremo ripartire dal punto di mediazione che il Pd aveva trovato con i Dico». Sullo stesso piano Victor Rasetto, giovane segretario provinciale del Pd, che, alle prese con un partito ancora diviso per provenienza, avvisa: «Noi non dobbiamo decidere se per noi una data legge sia giusta o ingiusta, ma se sia legittima o meno. Ed è questo, adesso, che manca».

l’Unità 1.2.08
Iraq, un milione di morti dalla caduta di Saddam


LONDRA Sono più di un milione gli iracheni morti a causa del conflitto dall’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003: sono questi i risultati di una ricerca condotta da una delle principali società di sondaggi britanniche. L’Opinion Research Business (Orb) interpellando 2.414 adulti, ha scoperto che il 20% delle persone ha avuto almeno un morto nel loro nucleo familiare a causa della guerra.
Secondo i dati dell'ultimo censimento della popolazione in Iraq, effettuato nel 1997, nel Paese ci sono 4,05 milioni di nuclei familiari, una cifra su cui Orb si è basata per calcolare che approssimativamente 1,03 milioni di persone sono morte a causa della guerra. Il margine di errore dell'indagine, condotta tra agosto e settembre 2007, è stato stimato intorno all'1,7%, quindi il numero delle vittime potrebbe oscillare fra 946.258 e 1,12 milioni.
La ricerca ha interessato 15 delle 18 province irachene. Fra quelle non incluse figurano due delle regioni più turbolente - Kerbala e Anbar - e la provincia settentrionale di Erbil, dove le autorità hanno rifiutato il permesso di effettuare l'indagine.
Il portavoce del ministero degli interni iracheno, generale Abdul Karim Khalaf, ha definito «immaginari» i risultati della ricerca. «I dati riferiti da questo centro non hanno alcun legame con la verità e con la realtà», ha detto. Dal 2005 il ministero degli interni iracheno ha iniziato a fornire mensilmente i dati delle vittime dell'ondata di violenza in Iraq. In base a questi dati, le vittime irachene - tra morti e feriti - sarebbero state 25.000 nel 2005, 30.000 nel 2006 e circa 15.000 nel 2007, per un totale di circa 70.000.

l’Unità 1.2.08
A Roma i Centoautori hanno incontrato Rutelli e Gentiloni. E sono preoccupati
Via Prodi, guai in vista per il cinema
di Lorenzo Tondo


Avremo una primavera televisiva come le cinque già ingioiate... Dio mio... La tele non basta tenerla spenta, penso ai disabili, a chi sta molto in casa». È scritto su un sms inviato da Bernardo Bertolucci al cellulare di Daniele Lucchetti, che lo ha letto ieri durante l’incontro alla libreria del cinema a Roma tra i Centoautori e gli ex ministri dei beni Culturali e delle Telecomunicazioni Francesco Rutelli e Paolo Gentiloni, il senso di preoccupazione di tanto cinema italiano dopo la caduta del governo Prodi. Caduta che pesa sul futuro della tanto agognata «legge sul cinema». Che ne sarà delle richieste e dei suggerimenti dei cineasti? Nonostante gli importanti passi avanti compiuti negli ultimi mesi, la fatidica «legge di sistema» rimane ancora un traguardo molto lontano.
È stato proprio questo il tema portante dell’appuntamento alla Libreria con una una consistente delegazione del cinema italiano: Marco Bellocchio, Paolo Virzì, Paolo Sorrentino, Linda Ferri, Cristina Comencini, Valerio Jalongo, Daniele Lucchetti - che fa da moderatore - e poi Silvio Orlando, Adriano Giannini e Riccardo Tozzi. Molti dei «Centoautori», diventati ormai più di mille, erano lì. Non sono disposti a piazzare sul bavero di un eventuale governo di centrodestra la medaglia del lavoro fin qui portato avanti.
«La nostra speranza è sopratutto quella di accompagnare un altro governo che sia sensibile ai temi della cultura, del cinema e dello spettacolo - dice il regista Jalongo - Avevamo cominciato a lavorare con questo governo, ottenendo delle cose molto importanti. Eravamo riusciti a portare a casa per la prima volta delle regole chiare per la televisione, obblighi di programmazione, obblighi di investimento». Vittorie quest'ultime ribadite da Rutelli, che parla di un «risultato storico. Abbiamo messo in campo più soldi spostando risorse su cinema e spettacolo. Abbiamo portato a casa il credito di imposta, che favorisce le produzioni indipendenti». Vittorie ottenute soprattutto grazie al movimento dei Centoautori che «ha svolto un ruolo importante per la fertilizzazione dell'azione politica». Gli artisti, pur riconoscendo la «validità» di alcuni provvedimenti assunti da governo Prodi, hanno però sollevato «le questioni insolute» sulla distribuzione delle pellicole indipendenti, sulle produzioni a basso costo e sul rapporto tra cinema e televisione. E manca soprattutto la «legge di sistema», arenata sullo scoglio parlamentare e obiettivo del lavoro fin qui svolto con il centrosinistra. Con il governo, secondo Luchetti, c’è stato «un sanissimo modo di lavorare». Il futuro non sembra però roseo, come esprime in modo emblematico Bertolucci all’inizio nel suo ironico sms: «Sono a Londra, se torno porto il mio qualificatissimo carrello (con cui il regista si aiuta per camminare n.d.r.) a piangere davanti ai resti del governo Prodi. Si chiamava Così? Rutelli è stato corretto, diglielo se io manco. Sono via da oltre un mese, che torno a fare?».

l’Unità 1.2.08
Olindo e Rosa perché ridono?
di Ferdinando Camon


Ma perché ridono? In aula si sentono fatti orribili, tra i più disumani che l’uomo abbia mai commesso, i protagonisti sono un uomo e una donna, compagni di vita, non malati di schizofrenia, ma sereni, limpidi e ridenti. Come se un’invisibile muraglia schermasse le parole, che attraversano noi e ci perforano, ma loro li lasciano intatti, non li sfiorano.
Noi siamo sgomenti, per quel che sentiamo.
Solo il sentirli ci umilia e ci prostra. Non abbiamo fatto quelle cose, ma sappiamo che le han fatte due uomini come noi, e il fatto che siano come noi ci fa vergognare, ci toglie il fiato e la parola.
Solo per averle lette e averle sentite, quelle cose, le coltellate alla gola, le mazzate sui crani, noi resteremo colpiti e depressi per tutta la nostra vita. Ci sono vecchi che dicono: «Mah, se la vita è così, tanto vale andarsene, il mondo è brutto». E loro, che quelle cose le han fatte, stando alle loro stesse confessioni, che han calato quelle bastonate e quei fendenti, parlottano tra di loro, indifferenti e imperturbati, leggeri nei pensieri e nei gesti, perfino, sto usando una parola che qui è una bestemmia, perfino delicati.
Lui abbandona la manona su un ginocchio, lei ci mette una manina sotto e una sopra, gliela chiude a sandwich. Gliela leviga. Lui ha un sorriso bloccato, nel quale, osando un po’, si può intravedere un’ombra di malinconia, che spero sia un principio di coscienza. Gli auguro che quel principio penetri in tutta la mente, la illumini e gliela devasti. Per il suo bene. Forse lei sente questo nostro pensiero, lo indovina: lui e lei formano un sistema chiuso come un blocco di granito, lei si accorge che noi abbiamo individuato una fessura, e la chiude con una risata. Il problema non è perché sorridono, ma perché ridono. Ride, lei, a bocca aperta, abbandona la testa indietro, mostra la gola pienotta, sussulta nella risata, poi gira la testa verso di noi e quindi la ritrae. Ha descritto un mezzo cerchio. Se voleva cancellare l’ombra di un cedimento, lo ha fatto a 180 gradi: sono in una gabbia, quegli sono i 180 gradi esposti a noi.
Dunque, perché ridono? Perché sono il contrario di quello che siamo noi. Noi sentiamo e vediamo nel processo, nella rievocazione dei fatti, nel racconto dei testimoni, quel che c’è: la strage, che ognuno compie a due mani, lei con una mano stende il bambino e con l’altra lo sgozza, prima una volta poi un’altra volta, lui che gira come una furia, un colpo e giù uno, altro colpo e giù un altro, come un ciclone.
Non è che noi stravediamo, semplicemente vediamo quel che c’è. Son loro che non lo vedono, non lo pensano. Sono oligofrenici. Olìgos vuol dire piccolo: possono pensare soltanto piccoli pensieri. In fondo, la strage è avvenuta soltanto un anno fa, e quell’orrore lo han confessato. Ma col piccolo pensiero che si ritrovano non arrivano indietro di un anno, e non escono oltre lo spazio della gabbia. Ridono perché si amano, e questo amore è tutto. Protestano per i flash, altro disturbo non hanno. Noi pensiamo che chi fa un grande male inglobi quel male, lo spieghi delirando, e che insomma sia un sistema col delirio incorporato. Il delirio lo pensiamo come un grumo contorto in cui i pensieri si aggrovigliano, fanno cortocircuito, e mandano il cervello in tilt. Siamo indotti, dalla nostra stupida cultura, a pensare che i cosiddetti mostri (termine per il quale Olindo e Rosa protestano, e secondo me giustamente) vadano al di là del bene e del male. Siano persone complicatissime. E invece sono vuote.
Non sono al di là, sono al di qua, il confine non sanno neanche dov’è. Maso? Un analfabeta. Erica? Una drogatina. Nadia Frigerio? Una bovarina di periferia (guardandomi disse: «Io all’ergastolo? Mai, a meno che non sia insieme con questo qui»). Serve condannarli? Come no: solo il carcere, con molta fatica, può far cadere scaglia dopo scaglia la crosta dell’indifferenza, e sotto si vedrà quel poco di umanità che deve pur esserci. Ma ci vorranno anni. Tanti anni. Forse, la vita intera.
fercamon@alice.it

Repubblica 1.2.08
La mia scelta di pace con la doppia cittadinanza
di Daniel Barenboim


Desideravano che io crescessi sentendomi parte di una maggioranza, una maggioranza ebraica. La tragedia insita in tutto ciò è che la mia generazione – quantunque sia stata educata in una società i cui aspetti positivi e i cui valori umani hanno sommamente arricchito il mio pensiero – ha ignorato l´esistenza di una minoranza dentro Israele stesso, una minoranza non-ebraica, che prima della creazione dello Stato di Israele nel 1948 aveva rappresentato la maggioranza in tutta la Palestina. Una parte della popolazione non-ebraica era rimasta in Israele; gli altri erano stati tenuti fuori per paura o trasferiti con la forza.

Nel conflitto israelo-palestinese c´era e c´è tuttora un´incapacità precisa ad ammettere l´interdipendenza delle loro diverse opinioni. La creazione dello Stato di Israele nacque da un´idea ebraico-europea, e se deve proiettare la propria idea di fondo nel futuro, deve accettare l´identità palestinese come un´idea di fondo altrettanto valida. È impossibile non tener conto dello sviluppo demografico: i palestinesi in Israele sono un minoranza, ma una minoranza in rapida espansione e la loro voce deve essere ascoltata, oggi più che mai. Attualmente i palestinesi rappresentano il 22 per cento circa della popolazione di Israele: si tratta di una percentuale che supera quella della minoranza ebraica in qualsiasi Paese e in qualsiasi periodo storico. Il numero complessivo dei palestinesi che vivono in Israele e nei Territori occupati (quella che per gli israeliani è il "Grande Israele" e per i palestinesi la "Grande Palestina") già ora è superiore alla popolazione ebraica.

In questo periodo Israele è alle prese con tre problemi a uno stesso tempo: la natura dello Stato ebraico moderno democratico, ovvero la sua stessa identità; il problema dell´identità palestinese nell´ambito di Israele; e il problema della creazione di uno Stato palestinese fuori da Israele. Con Giordania ed Egitto fu possibile raggiungere quella che al meglio è definibile una pace gelida, senza mettere in discussione l´esistenza di Israele come Stato ebraico. Il problema dei palestinesi all´interno di Israele, tuttavia, è molto più complesso da risolvere, sia sul piano teorico sia sul piano pratico. Per Israele, oltre a molte altre cose, significa venire a patti col fatto che la terra non era disabitata o vuota, non era una "terra senza popolo", un´idea divulgata all´epoca della sua creazione. Per i palestinesi, significa accettare il fatto che Israele è uno Stato ebraico ed è lì per restarci.

Gli israeliani, con tutto ciò, devono accettare l´integrazione della minoranza palestinese, anche se questo significasse dover cambiare taluni aspetti della natura di Israele; devono altresì accettare le motivazioni e la necessità di fondo della creazione di uno Stato palestinese adiacente allo Stato di Israele. Non soltanto non vi è alternativa, né vi è una bacchetta magica che possa far scomparire i palestinesi, ma oltretutto la loro integrazione è una condizione imprescindibile – su presupposti di ordine morale, sociale e politico – per la sopravvivenza stessa di Israele. Quanto più a lungo durerà l´occupazione e quanto più a lungo rimarrà irrisolta l´insoddisfazione dei palestinesi, tanto più difficile sarà trovare un terreno comune di intesa anche solo elementare. Troppo spesso abbiamo già visto nella storia moderna del Medio Oriente che le opportunità di riconciliazione mancate hanno avuto risultati estremamente sfavorevoli per entrambe le parti in causa.

Da parte mia, quando mi è stato offerto il passaporto palestinese, l´ho accettato nell´ottica di un segno di riconoscimento per il destino palestinese che io, in quanto israeliano, ho in comune con loro. Un vero cittadino di Israele deve aiutare il popolo palestinese con disponibilità, e quanto meno nel tentativo di comprendere che cosa ha rappresentato per loro la creazione dello Stato di Israele. Il 15 maggio 1948 per gli ebrei è il giorno dell´Indipendenza, ma quello stesso giorno per i palestinesi è Al Nakba, il giorno della Catastrofe. Un vero cittadino di Israele deve chiedersi che cosa hanno fatto gli ebrei – noti per essere un popolo di cultura ed erudizione – per condividere il loro patrimonio culturale con i palestinesi. Un vero cittadino di Israele deve chiedersi perché i palestinesi siano condannati a vivere in baraccopoli e ad accettare standard inferiori di educazione e di assistenza medica, invece di ricevere dalle forze occupanti condizioni di vita decorose, dignitose e vivibili, diritto comune a tutti gli esseri umani.

In qualsiasi territorio occupato, infatti, l´occupante è responsabile della qualità della vita dell´occupato, e nel caso dei palestinesi i governi israeliani che si sono avvicendati negli ultimi 40 anni hanno miseramente fallito. I palestinesi naturalmente devono continuare a opporre resistenza all´occupazione e a qualsiasi tentativo di negare loro uno Stato e che le esigenze di base dell´individuo siano soddisfatte. Tuttavia, per il loro stesso bene, questa loro resistenza non deve assolutamente esprimersi per mezzo della violenza. Valicare il confine che esiste tra una resistenza risoluta (e che si esprima anche con proteste e dimostrazioni non violente) e la violenza vera e propria significa soltanto causare un numero maggiore di vittime innocenti, senza per altro servire gli interessi a lungo termine del popolo palestinese. Al contempo, i cittadini di Israele hanno altrettanti validi motivi per essere vigili nei confronti delle esigenze e dei diritti del popolo palestinese (sia dentro sia fuori il territorio di Israele), tanto quanto lo sono nei confronti di quelli del loro stesso popolo. Tutto considerato, visto che condividiamo una stessa terra e un comune destino, dovremmo possedere tutti la doppia cittadinanza.

Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 1.2.08
Pintoricchio. Un maestro della luce e del colore


Per Vasari era un artista fortunato ma privo di talento. Berenson ne liquidò l´opera come "intingolo ricco" per provinciali. Ora un´esposizione a Perugia rivendica l´originalità della sua ricerca
In esposizione un centinaio di opere tra cui molti disegni finora attribuiti a Perugino
La particolare lucentezza della pittura è dovuta alla polvere di vetro

PERUGIA. Potenza e sopravvivenza di un nome. Anche se la mostra che apre domani tra la Galleria Nazionale dell´Umbria di Perugia e Spello vuol dimostrare la grandezza della ricerca artistica del Pintoricchio (1456-1513), i palati raffinati della sua epoca non erano proprio di questa opinione. L´umanista perugino Francesco Maturanzio scrisse che, quanto a meriti artistici, Pintoricchio, da pictoricius (piccolo pittore), era secondo solo a Pietro Vannucci, più sfortunato però del "divin pittore" e soprannominato, aggiunse con sottigliezza, il "Sordicchio". Poco udente era lo stesso Pintoricchio che Vasari riteneva un uomo assai fortunato, baciato dalla sorte e la sua vita dimostra come la fortuna può avere "per figlioli" anche coloro che sono privi di virtù. Assai più tardi Bernard Berenson vide nella sua pittura "un intingolo ricco", più adatto ai gusti dei provinciali che dei bongustai.
Eppure Pintoricchio è entrato nell´immaginario collettivo. Nel film La banda degli onesti Totò ironicamente vedeva in Giacomo Furia, pittore di insegne di negozi, «un Pintoricchio seconda maniera». E Pintoricchio divenne, per una battuta dell´avvocato Agnelli, il soprannome di Alessandro Del Piero, il calciatore dal tiro che sembrava una pennellata.
Ora il vero Pintoricchio si celebra in Umbria con un centinaio di opere, una sequenza di mostre e l´arrivo a Perugia, a Palazzo Baldeschi al Corso, di una Madonna col Bambino acquistata a Vienna dalla locale Fondazione Cassa di Rispamio per festeggiare adeguatamente il 550° anniversario della nascita dell´artista (che in realtà è caduto due anni fa, essendo nato il Pintoricchio nel 1456). Spiega Vittoria Garibaldi, curatrice della mostra: «Dopo l´esposizione dedicata al Perugino, quella di Pintoricchio era una tappa obbligata, un approfondimento necessario per gli studi sull´arte umbra».
Perugino e Pintoricchio erano complementari?
«Vivono nello stesso periodo, hanno due modi di lavorare diversi, però in qualche modo complementari. Ognuno dipinge con le proprie caratteristiche, ma nessuno è inferiore all´altro. Sono due grandi talenti, non amati dal Vasari. Questa esposizione è importante. Tra l´altro, non era mai stata dedicata una mostra a Pintoricchio. Abbiamo colto l´occasione per raccogliere molte opere su tavola ed ora è quasi una monografica».
Pintoricchio era un grande disegnatore.
«Insieme ai dipinti, c´è una sezione della mostra dedicata ai disegni, una sezione importante perché ci fa capire cosa fosse la grafica per pittori come Pintoricchio e Perugino, e anche il rapporto con Raffaello. Molti disegni che un tempo passavano dall´uno all´altro vengono ora attribuiti al solo Pintoricchio. E´ un dato significativo, che internazionalizza l´artista. I disegni circolavano, erano un modo per trasmettere idee, modelli. Erano i nostri "sms", anzi funzionavano meglio. La mostra ovviamente è sviluppata cronologicamente, ma non ci sono cicli pittori o gli affreschi. I dipinti su tavola invece sono ben presenti. Presentiamo anche il frammento di Brescia di Raffaello, Perugino, gli artisti perugini di quell´epoca come Benedetto Bonfigli o il Caporale che crearono una stagione di grande vivacità. Forse è il momento più alto di Perugia, di grande esplosione artistiche».
Gli studi hanno portato a nuove scoperte?
«La Pala di Santa Maria dei Fossi del Pintoricchio, l´opera più importante della Galleria nazionale, è stata restaurata una decina di anni fa, ma rileggendo oggi documenti e opere abbiamo scoperto che la predella non è autografa. Secondo il contratto di allogazione doveva rappresentare Papa Alessandro Borgia, cardinali, vescovi. Ma non c´è questa raffigurazione. Francesco Mancini ha collegato la morte del Papa nel 1503 con una damnatio memoriae che probabilmente portò all´eliminazione della predella di Pintoricchio. Era cambiato il contesto, gli agostiniani scelsero un´iconografia a loro legata. Ma una grande importanza ha la carpenteria e il carpentiere».
Il maestro d´ascia?
«Sì, la Pala è una delle pochissime conservate con la carpenteria originale. Il carpentiere si chiamava Mattia di Tommaso da Reggio e poco dopo realizzò il Polittico di Sant´Agostino per il Perugino. Non era un semplice legnaiuolo, ma un architetto del legno in grado di realizzare strutture stabili».
Un´altra caratteristica del Pintoricchio sono i colori: i gialli, i rossi, gli azzurri accesi.
«Dalle ricerche abbiamo avuto la conferma della diffusione, a partire dal Perugino, della polvere di vetro. Anche Pintoricchio per dare particolare brillantezza ai pigmenti o alle lacche univa la polvere di vetro. La pittura diventava lucente, brillante. Pintoricchio fu ad ogni modo un vero ricercatore della luce e del colore. Purtroppo le lacche, l´oro, i lapislazzuli, sono in parte caduti e molti dipinti su tavola si leggono poco».
L´effetto era abbagliante.
«L´effetto era abbagliante, bastava lo scintillio di una candela per creare effetti straordinari, per dare un senso di meraviglia. Le opere di Pintoricchio, come sostenne Brandi, vanno viste in più momenti e con una visione a cannocchiale, ossia di approfondimento. Il nostro tentativo è quello di valorizzare i dettagli sia della Pala sia della Cappella Bella, dettagli come la locanda di Campo dei Fiori, dietro il trono della Vergine, che ricorda molto quelle odierne, con la sua tettoia, la tovaglia imbandita, i piatti, la gente che va a mangiare».

Repubblica 1.2.08
Fu un pioniere della maniera moderna Quel dettaglio capriccioso copiato dalla reggia di Nerone
di Antonio Pinelli


Mentre Perugino curava la geometria prospettica, Bernardino privilegiava l´effusione narrativa e la ricchezza dell´ornato
Alla rassegna allestitaa Palazzo dei Priori s´affiancano altri eventi lungo un itinerarioche tocca vari centrida Città di Castello a Spoleto, da Orvietoa Spello, dove si può ammirare la "Cappella Bella"
Fu il capofila della schiera degli "antiquari sfegatati" che sul Colle Oppio avevano l´abitudine di calarsi con le corde fino alla Domus Aurea

Replicando la fortunata formula policentrica sperimentata quattro anni fa con il kolossal espositivo dedicato al Perugino, l´Umbria celebra l´altro suo insigne maestro rinascimentale, Bernardino di Betto detto il Pintoricchio, con una grande mostra in Palazzo dei Priori, cui si affiancano un ghiotto "pacchetto" di eventi collaterali, lungo un itinerario che tocca vari centri della regione, dalla stessa Perugia a Città di Castello, da Trevi a Spoleto, da Orvieto a Spello, cittadina quest´ultima in cui si può ammirare il più genuino capolavoro del pittore in affresco: la Cappella Baglioni, altrimenti detta la "Cappella Bella".
Se Vasari non fu tenero con il Perugino, sottolineandone impietosamente il malinconico declino negli ultimi decenni di carriera, con Pintoricchio fu addirittura sprezzante, dichiarando che l´indubbio successo di cui godette in vita fu dovuto più alla "fortuna" che al "talento", e additandolo, in buona sostanza, come l´emblematico esponente di una cultura figurativa attardata, che si opponeva goffamente alle magnifiche e progressive sorti della "maniera moderna". Il più vistoso segnale di questo conservatorismo era, secondo Vasari, la gran quantità di ornati a rilievo in stucco dorato, disseminata da Pintoricchio nei suoi dipinti: «Usò molto di fare alle sue pitture ornamenti di rilievo messi d´oro, per sodisfare alle persone che poco di quell´arte intendevano, acciò avessono maggior lustro e veduta; il che è cosa goffissima nella pittura».
La condanna vasariana ha marchiato a fuoco la fortuna postuma del maestro umbro, condizionandone negativamente l´interpretazione e provocando un sostanziale misconoscimento del suo peculiare ruolo storico, che l´odierna mostra si propone giustamente di correggere. Ma in cosa aveva ragione Vasari, e in cosa aveva torto? Il suo punto di vista è quello di un artista che ha ormai alle spalle le formidabili conquiste espressive messe a segno da Bramante, Leonardo, Raffaello e Michelangelo, i quattro pilastri su cui si basa il grandioso edificio della "maniera moderna". Da questa angolazione, è naturale che Vasari considerasse gli ornati pintoricchieschi come una concessione al gusto di committenti ancora attratti dal fulgore degli ori e dalla tridimensionalità dello stucco: un pittore "moderno" non punta sull´intrinseco pregio né sul connaturato rilievo dei materiali che usa, ma sulla capacità di simulare l´uno e l´altro con la sua sapiente tavolozza, ricca solo di "poveri" colori.
Ha dunque ragione Vasari nel bollare Pintoricchio come un artista al tempo stesso attardato e compiacente, che lusinga il suo pubblico con un repertorio ornamentale nostalgico delle lussuose pastiglie e dei fondi oro cari al Gotico cortese? Sì e no, perché se è vero che nell´abbondante vena aneddotica del maestro umbro e nel suo gusto per le acconciature azzimate e gli ornati lucenti sembra rivivere lo spirito sontuosamente profano del Gotico Internazionale, è altrettanto vero che quelle stesse caratteristiche e soprattutto la profusione dell´oro e il ricorso allo stucco sono la spia di una "novità", che qualifica Pintoricchio come un artista all´avanguardia per la sua epoca. Quegli stucchi e quegli ori, infatti, egli li aveva potuti ammirare calandosi perigliosamente con le corde dai pertugi che, sul Colle Oppio, traforavano le volte delle sale, ancora interamente sepolte, della Domus Aurea. Egli infatti fu il capofila di quegli "antiquari sfegatati", per usare una colorita espressione coniata da Longhi, che lasciarono le loro firme graffite sugli umidi muri della reggia di Nerone, copiando al lume delle torce quegli esili ornati architettonici, brulicanti di lievi e fantasiose creature dipinte in punta di pennello, per poi rievocarle nelle loro tavole e nei loro affreschi "anticamente moderni".
In altri termini, Pintoricchio fu il primo e tra i più prolifici creatori della civiltà figurativa della «grottesca» (da «grotte», perché così erano denominate le sale interrate della Domus Aurea), e come tale può essere anch´egli a giusto titolo considerato un pioniere della "maniera moderna". Proprio come il Perugino, anche se su versanti diversi se non addirittura opposti. Mentre quest´ultimo si applicava infatti a questioni di carattere più strutturale, quali la saldezza plastica delle forme, la geometria prospettica e la sobria euritmia compositiva, Pintoricchio privilegiava l´effusione narrativa, la ricchezza e varietà dell´ornato, il gusto del dettaglio capriccioso, in linea con quella formazione in una bottega da miniatore che sembra davvero averlo marchiato in profondità, determinandone, oltre alla pennellata, fitta e minuta, la vivida nitidezza ottica e la straripante vena ornamentale della sua pittura.
Nato a Perugia intorno al 1455, Bernardino entrò nell´orbita di Bartolomeo Caporali e del suo fratello miniatore, Giapeco. Allora Perugia non era la Firenze di Verrocchio e Pollaiolo, dove si formò Perugino, ma la presenza di artisti del calibro di Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Giovanni Boccati e Domenico Veneziano ne faceva un crocevia tutt´altro che tagliato fuori dalle correnti più aggiornate.
Gli esordi del Pintoricchio, come del resto quelli del Perugino, sono tuttora alquanto oscuri e discussi.
All´inizio degli anni Ottanta, tuttavia, sia Perugino che Pintoricchio sono pittori affermati, tanto che il primo ha un ruolo di capofila e il secondo collabora con lui, ma in modo sostanzialmente autonomo, nella straordinaria decorazione che si dispiega sulle pareti della Cappella Sistina in Vaticano. Pintoricchio ha assimilato la lezione formale del Perugino, ma la declina a modo suo, popolando le composizioni di spiranti ritratti di contemporanei che esibiscono in pose compiaciute abiti sontuosi di impeccabile eleganza sartoriale, e rappresentando paesaggi brulicanti di dirupi muschiosi, rami spezzati, fogliami stormenti e picchiettati dai raggi di luce. È la cifra stilistica, che addizionata dall´esuberante germinazione di grottesche ornamentali esemplate sull´antico, assicurerà per due decenni la supremazia romana del Pintoricchio, capofila capace di amalgamare sotto la sua regìa un variegato e folto drappello di pittori convenuti da ogni dove, per allietare con cicli decorativi le pareti della Villa del Belvedere e degli Appartamenti Borgia in Vaticano, per non dire delle cappelle e dei palazzi di Roma e dintorni.
Nel frattempo Perugino domina la scena a Firenze e a Perugia, dove Pintoricchio tenta di giocare le sue carte ma con scarsa fortuna, a dispetto di capolavori come la spettacolosa macchina decorativa della pala di Santa Maria dei Fossi e l´acuto della "Cappella Bella" a Spello. Ma l´appoggio dei Borgia non basta: Perugino, che in questi anni a cavallo del secolo è legittimamente riconosciuto come il più alto esponente della "maniera moderna", gli fa terra bruciata intorno. Pintoricchio, però, ha ancora delle carte da giocare e troverà a Siena, città incline da sempre alle forbite e cesellate eleganze, il terreno congeniale per far attecchire la propria versione, più fantasiosa e fulgente, delle novità rinascimentali, riuscendo a portare a termine nella Libreria Piccolomini in Duomo un ultimo, strepitoso ciclo figurativo, nel quale si prenderà anche la soddisfazione di trarre profitto dalla collaborazione di un giovane allievo del suo rivale, dotato di un talento straripante: Raffaello.

Repubblica 1.2.08
‘68. Il bene e il male di quell´anno fatale
Quarant'anni fa esplodeva la contestazione in Europa
di Michele Serra


Fu una data che divise in modo netto il prima e il dopo. Cambiarono il costume e le idee
Una ventata di novità che il terrorismo inquinò con le sue pulsioni di morte

Le fotografie e i filmati delle prime manifestazioni studentesche, sul finire dei Sessanta, sono dominate da giacche e cravatte, camicie candide, capelli corti, occhiali con grosse montature. Gli universitari, in larghissima maggioranza maschi, hanno sembianze di adulti, paiono docili repliche dei loro padri impiegati, funzionari e operai, il colpo d´occhio antropologico e sociale non è molto dissimile da quello del vicino dopoguerra: in molte città italiane le macerie belliche ancora ingombrano alcuni isolati, in molte case il bucato si fa sempre a mano, i calciatori hanno maglie vergini in attesa dell´evo degli sponsor, le figurine si attaccano con la colla Coccoina, la televisione è in bianco e nero, si accende girando una grossa manopola e i canali sono appena due.
Appena si scavalla nei Settanta (il tempo brevissimo di un anno o due), l´immagine cambia radicalmente. Maglioni, barbe e capelli lunghi, jeans e giacconi militari, le stesse fisionomie fino a poco prima contenute nei canoni del decoro piccolo borghese sembrano quasi esplose, come ritratti che hanno spaccato una cornice troppo stretta.
Volendo riassumere all´osso, probabilmente il cosiddetto Sessantotto è stato fondamentalmente questo: una drammatizzazione-celebrazione collettiva del ripudio del Padre (a partire dalla sua immagine), estrema nei modi ma soprattutto nei tempi, concentrata in uno scorcio di vita individuale e sociale così breve da deflagrare con potenza impressionante. Mai più ripetuta. La gioventù, in virtù di un inedito benessere che preservava dal lavoro e concedeva il lusso o il vizio di pensare, provò ad autodefinirsi, a fissare i punti di una condizione umana nuova e sconosciuta tranne che nella sua ferrea determinazione a discostarsi dai costumi e dalle intenzioni degli adulti.
Per merito o per colpa delle rievocazioni di questo quarantennale, avremo modo di discutere fino alla nausea se quell´alluvione libertaria e ribelle (solo successivamente incanalata negli alti argini dell´ideologia) ha lasciato più rimpianti o più rimorsi. Se, cioè, ribellarsi ai divieti e alle norme, rinnegare l´obbedienza, e farlo fino allo stremo, sia stato "giusto" oppure "sbagliato". Se al vecchio ordine se ne sia sostituito uno più fantasioso e più sopportabile, oppure si siano gettate le fondamenta di un caotico individualismo narciso, ingordo di diritti e sordo a qualunque dovere.
Ma a monte di questa discussione, anche per non rischiare di trascinare il Sessantotto dentro il ring dei nostri attuali rovelli - che sono rovelli di quasi mezzo secolo più nuovi - mi sembra indispensabile dire questo: che se è vero - ed è vero - che quell´esplosione fu tanto rapida e potente da non lasciare quasi il tempo agli italiani di allora di capacitarsene, questo vuol dire che sopra la pentola c´era un coperchio pesantissimo. Nessuna esplosione può avvenire se non in seguito a una forte compressione.
Quanto al coperchio. Nel mio liceo milanese, il Manzoni, che pure era la scuola della buona borghesia della città allora più moderna e culturalmente avanzata d´Italia, le ragazze erano invitate dalle professoresse più solerti a non tenere i capelli sciolti, a non indossare i pantaloni, men che meno a truccarsi con quel poco di rimmel e di fard allora in circolazione. Nel 1966 tre studenti-modello del liceo classico Parini erano stati inquisiti dalla magistratura, e sospesi dalla scuola, per avere condotto sul giornalino d´istituto, la Zanzara, un´inchiesta sull´amore tra i giovani senza omettere brevi e garbati cenni sulla vita sessuale. In quello stesso decennio la siciliana Franca Viola era oggetto di qualche lode e di accese critiche (anche sulla televisione pubblica) per avere rifiutato di sposare il suo "rapitore", un mafioso di paese, disobbedendo a un´antica consuetudine di sottomissione. Il delitto d´onore era ampiamente in auge nel codice penale, con forte attenuante della pena. Non esisteva divorzio, e si abortiva clandestinamente dalle mammane di paese (le donne povere) o nelle cliniche private dei cosiddetti Cucchiai d´Oro (le donne ricche). Il certificato di buona condotta rilasciato dal parroco valeva ancora, e non solo al Sud, come viatico per l´assunzione, specie per le mansioni umili. Nelle fabbriche (in primis la Fiat) gli operai sindacalizzati erano schedati e malvisti. La dolce vita di Fellini aveva destato enorme scandalo e rischiato di non avere il visto della censura perché si parlava di suicidio. Il professor Aldo Braibanti, "reo" di avere una relazione omosessuale con un ragazzo consenziente e maggiorenne, venne processato e condannato per plagio da un tribunale della Repubblica, dopo avere sollevato grave scandalo, in quanto corruttore della gioventù, sui rotocalchi da parrucchiere come sui quotidiani nazionali.
Questo breve excursus era forse pedante, magari in parte tendenzioso. Ma necessario. Se si perdono la memoria, e la definizione storica, di come poteva apparire la società adulta di quegli anni a un ragazzo di qualche pensiero, di qualche inquietudine culturale, di qualche curiosità politica, non è possibile capire come sia potuto accadere (in Italia più ancora che in altri paesi occidentali) uno sconquasso così profondo. E il "gap" di cui sopra tra le foto del 1969 e quelle del 1971 apparirebbe incomprensibile, quasi un refuso nelle didascalie.
Con il senno di poi, siamo invece in grado di dire che il discrimine raccontato da quelle fotografie è stato davvero un discrimine d´epoca: le prime immagini, quelle dei ragazzi in giacca e cravatta, ci rimandano indietro, lungo il declivio che ci riconduce a ritroso verso il boom economico, la ricostruzione, il dopoguerra e la guerra. Le seconde già accennano all´oggi, basta andare davanti a un liceo del Duemila per scoprire che non c´è poi un grande scarto tra gli studenti di adesso e quelli degli anni Settanta, vestiti e musica si assomigliano, le pettinature anche.
Non è in discussione il fatto che anche il pre-Sessantotto ebbe le sue virtù (molte ci risultano più chiare adesso, e vorrei dire adesso che i nostri padri purtroppo non ci sono più). E nemmeno che anche il dopo-Sessantotto ha avuto i suoi vizi, alcuni dei quali sicuramente imputabili anche alla perdita di una bussola mai rimpiazzata da altri strumenti d´orientamento. Mi premeva soltanto chiedere, se possibile, che commemorazioni e maledizioni tengano ben presente in quale società, quale atmosfera, quali istituzioni politiche e religiose accadde che un gran numero di ragazzi gridassero enormità come "è vietato vietare", o "la famiglia è una camera a gas". Dell´Italia in bianco e nero possiamo rimpiangere infinite cose, l´eleganza, il quartetto Cetra, il cinema, Studio uno, Mina e Modugno. Ma rileggetevi, se ne avete la pazienza, il breve elenco di eventi degli Happy Sixties che ho citato poco fa, e chiedetevi se quell´Ordine e quella Morale meritavano di convogliare ancora un paio di generazioni di italiani lungo i binari di quella censura, di quella disciplina nelle fabbriche-caserma, di quella sessuofobia, di quella fragile ipocrisia.

Repubblica 1.2.08
L’America che sognava la pace e i nuovi diritti
di Todd Gitlin


Gli anni Sessanta sono una reincarnazione del valore anti autoritario che c´è già nella Rivoluzione americana. Il 1968 è davvero un tentativo di restaurare lo "spirito americano"
Barack Obama e Hillary Clinton non sarebbero oggi come sono senza le idee nate quell´anno

Trecentosessantacinque giorni di assoluta intensità. Lo ricordo così, il 1968, un anno in cui convergono e precipitano decenni di fatti e tensioni. È l´anno dell´offensiva del Tet, del massacro di My Lai, della candidatura di Eugene McCarthy, della rivolta alla Columbia, degli assassini di Robert Kennedy e di Martin Luther King, dei disordini alla Convention democratica di Chicago, della protesta di Miss America ad Atlantic City e dell´elezione di Richard Nixon. Sarebbe però un errore guardare a quell´anno come puro spettacolo, come un seguito di choc improvvisi che travolsero la nazione. Il 1968 deve essere inserito in un processo di più lunga durata. Ricordo per esempio con particolare forza gli scontri davanti a un bowling per soli bianchi a Orangeburg, South Carolina. La polizia uccise tre studenti neri. Nessun agente finì in carcere. Quei fatti indicano che il movimento per i diritti civili non inizia con il boicottaggio dei bus a Montgomery, e si conclude con il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Act del 1965. Ancora nel 1968 si poteva morire per ragioni razziali.
L´interpretazione del 1968 come un anno di eccessi e di eventi clamorosi e irripetibili - disordini, rivolte, sesso, droga, «le indulgenze di un´élite», come ebbe a dire Newt Gingrich - è servita soprattutto alla destra, per circoscrivere la portata di quei fatti. Questa interpretazione è servita alla classe dirigente per giudicare quegli eccessi immotivati, ingiustificati, non necessari. La storia americana è invece racconto del confronto tra un´autorità, spesso illegittima, e l´azione popolare, nell´interesse della libertà. Con il ‘68 entrano così in collisione forze che si erano sviluppate per decenni. Il ‘68 è un momento di rottura di equilibri e tensioni a lungo covate. Per certi versi, io lo vedo anche come il prodotto del movimento per i diritti civili degli afro-americani degli anni precedenti. È lì, in quella coalizione, che cresce anche la convinzione che l´azione sociale può vivere al di fuori dei canali istituzionali stabiliti. Questa percezione si generalizzò in seguito nei movimenti contro la guerra, per le donne, per i diritti degli omosessuali.
Certo, il 1968 è anche un anno di "wishful thinking", di pio desiderio, che portò all´esaltazione di personaggi e gruppi che avevano, come loro unica caratteristica, quella di essere "nemici dei nostri nemici". Penso per esempio a icone della sinistra come Che Guevara e le Black Panthers, che furono esaltati nella quasi totale ignoranza dei loro aspetti autoritari e violenti. Tutto ciò che aveva un sia pur vago sentore di establishment venne condannato. Gli standard intellettuali furono combattuti come elitarismo, le leggi come strumento di oppressione, le istituzioni come prigioni. Ma ciò fa parte della complessità della storia, della sua irriducibilità a formule e schemi. Nel 1968 la fede nell´azione sociale del movimento per i diritti civili e lo spirito di avventura intellettuale si intrecciarono a un senso di gioia e di disperata reazione alla guerra, al suprematismo bianco, all´obbedienza supina, al materialismo. Il risultato fu un ammutinamento generale, una liberazione che travolse l´ordine costituito. Talora, i fini furono violati dai mezzi scelti.
Non sono comunque d´accordo con quanti vedono nel radicalismo del ‘68 il punto più alto del relativismo che avrebbero messo in crisi la società americana. I movimenti degli anni Sessanta, erano sì simili a choc, ma avevano come loro ragione principale la reazione a un ordine oppressivo. L´America che pensava che il paese era un´entità unica, reagì con violenza, aggressività, ostilità. Per quell´America il patto sociale era fissato, stabilito; non valeva la pena di mettere a repentaglio l´esistente, bisognava conservare le istituzioni. La violenza della reazione si spiega proprio con l´intensità della sfida dei movimenti. I vari movimenti conservatori e neocon che si sono sviluppati in questi ultimi decenni, fino a Bush, si radicano proprio nella paura sollevata dal ‘68. Reagan, un maestro della reazione, venne eletto in California nel 1966 sulla base di un programma che mirava esplicitamente a contrastare il movimento nero e la rivolta nelle università. Nei successivi anni, quelli come lui riuscirono a generalizzare la paura, nazionalizzarono l´idea che gli Stati Uniti si trovassero sull´orlo di un baratro e che si dovesse tornare indietro.
Il ‘68 è per me anche un´altra cosa. È la riproposizione del dramma dell´Illuminismo, che sta nella collisione tra le forze dell´autonomia e quelle dell´autorità tradizionale. La Rivoluzione americana trasforma quel dramma in scontro tra colonialismo e indipendenza, ma è comunque incarnazione dell´ideale illuministico. L´essenza della Rivoluzione americana risiede nel principio che ognuno di noi deve assumere il controllo della sua vita per perseguire felicità e virtù. Gli anni Sessanta sono una reincarnazione di quell´idea, la reincarnazione del valore antiautoritario che c´è già nella Rivoluzione americana. Il 1968 è davvero un tentativo di restaurare lo "spirito americano". Si può discutere degli errori di tutto quel periodo, ma il bene di quell´immane sforzo - per un allargamento della democrazia e della libertà - supera di gran lunga il male. La prospettiva storica, oggi, ci mostra proprio quanto di quelle promesse non è stato realizzato.
Certo, a quarant´anni di distanza è forse ancora troppo presto per dire cosa resta. Io so cosa, personalmente, mi porto dietro, dell´esperienza di presidente degli "Students for a Democratic Society" e militante per i diritti civili: la necessità di rinnovarmi, l´apertura della storia. Poi mi guardo attorno, e mi trovo a pensare che almeno due dei candidati - Barack Obama e Hillary Clinton - non potrebbero essere in corsa, oggi, senza le storie, le idee, gli uomini del 1968. C´è una frase di William Blake che ho citato di recente, e che mi pare appropriatissima per ricordare il 1968: «La strada dell´eccesso, avendo calpestato la terra dell´innocenza, può ancora condurre al palazzo della saggezza».
(testo raccolto da Roberto Festa)

Repubblica 1.2.08
Quel vecchio mondo che volevamo cambiare
Intervista a Daniel Cohn-Bendit: "Fu una rivolta, non una rivoluzione"


Il movimento ha suscitato reazioni virulente perché ha messo in discussione quello che prima si dava per scontato: cioè che il potere si deteneva per una sorta di diritto naturale

BERLINO. Quarant´anni dopo, le forze politiche che criticano il Sessantotto con particolare virulenza sembrano in rimonta in Italia. È triste». Daniel Cohn-Bendit, leader transnazionale francotedesco di quella rivolta giovanile, accetta volentieri di parlare ma si aggancia subito al presente. «È il solito modo di trattare chi cerca nuove via della politica: il vecchio pensiero politico vuole sempre vendicarsi, oggi come allora».
Cioè secondo lei i vostri avversari sarebbero lupi che perdono il pelo ma non il vizio?
«Oggi come ieri, il problema è che negli anni Sessanta il vecchio mondo ha avuto tanta paura. Intendiamoci: quarant´anni fa noi giovani ribelli dicemmo un sacco di cose sbagliate. Ma il vecchio mondo aveva tanta, tanta paura di perdere il potere. Quella paura produsse bisogni di vendetta che mai, neanche oggi, quarant´anni dopo, si sono spenti. Certi conservatori parlano di allora come se affrontassero oggi gli stessi problemi e sfide di allora».
Perché tanta paura del ricordo del ´68, persino oggi, dopo la fine della Guerra fredda?
«Perché allora si impose una considerazione che torna sempre problematica. Che cioè l´ordine del potere – chi comanda e chi no – fu messa in discussione. I conservatori pensano sempre che il potere sia loro concesso: Sarkozy, Berlusconi, Bush, Putin o il Pc cinese, la pensano così. Il Sessantotto ha lanciato l´idea che sulla politica si può e si deve discutere, che non c´è un ordine naturale».
È il significato e messaggio principale che resta del Sessantotto?
«Il Sessantotto è passato. Non possiamo paragonare la società di oggi a quella degli anni Sessanta. Uno dei momenti centrali della lotta dei sessantottini, cioè l´autonomia dell´individuo, si è diffusa nella società. L´idea della libertà dell´individuo, del suo diritto di decidere da solo della sua vita, individuale, sociale, sessuale, insomma l´idea di una società libertaria e libera, si è fatta strada. Non ovunque: non nella Chiesa, ad esempio.
Visto dagli occhi di un ex leader del ´68, Ratzinger è diverso da Wojtyla?
«Karol Wojtyla era in una contraddizione. Per la lotta per la libertà era molto vicino ai sessantottini polacchi, a cominciare da Michnik, ma non accettò mai la dimensione emancipatoria del Sessantotto nella vita privata. A Ratzinger invece non è mai successo nella vita di trovarsi a fianco di giovani rivoluzionari. La Chiesa come istituzione deve ancora affrontare una simile rivolta. Me l´aspetto: la Chiesa come l´Islam e altre religioni, deve accettare molte acquisizioni del mondo moderno. Verità fastidiosa per i Buttiglione o i neocon americani, ma è così».
Il Sessantotto ha cambiato la Germania più di altre società?
«A suo modo sì. Perché i sessantottini tedeschi – magari non tutti, ma alcuni leader – pur non sentendosi pentiti verso il passato ribelle hanno ridefinito il loro rapporto con istituzioni e valori democratici».
Gente come lei e Joschka Fischer?
«Per esempio. Abbiamo coniugato il Sessantotto ribelle con Hannah Arendt».
Ma poi venne la restaurazione: de Gaulle, gli Usa, l´Italia. Il Sessantotto come grande sconfitto? Il Sessantotto come rivoluzione vinta ma feconda, come il ´56 polacco e ungherese o il Sessantotto di Michnik a Varsavia o di Dubcek a Praga?
"No, perché il Sessantotto non fu una rivoluzione bensì una rivolta. Ma chi visse il Sessantotto senza unirvi Hannah Arendt approdò alla deriva degli Anni di piombo, al Terrore. I Sessantottini hanno anche una responsabilità politica e morale per il terrorismo. In ogni rivolta c´è sempre un momento di rivendicazione assoluta, pericoloso perché non democratico. È vitale ricordarlo se vogliamo una necessaria resa dei conti positive con il nostro movimento di allora».
Cosa rimpiange o deplora del Sessantotto?
«Deplorare è il falso livello del dibattito. Chiediamoci cosa abbiamo imparato. Che una dialettica tra movimenti sociali e culturali e democrazia politica è irrinunciabile. E che il movimento soffrì della contraddizione tra spinta libertaria e ideologie totalitarie. Lottare per una società libera in nome della rivoluzione culturale cinese, del totalitarismo cubano o della Corea del Nord, si rende conto?».
Peccato originale imperdonabile?
«No, l´errore fu credere che fosse una rivoluzione, invece era una rivolta. Il movimento aveva molti volti, in parte era troppo realista. La rivolta ha cambiato la società. Quindi non ha perso, come rivolta: doveva perdere e ha perso se si credeva rivoluzione. Ma non lo era, insisto. E in parte ha riformato le nostre società e ha portato a una nuova autocoscienza».
Chi ne sono gli eredi? I no global?
«Tutti possono richiamarsi al Sessantotto. O molti. I no global cercano di porre questioni importanti, ma corrono gli stessi rischi che corremo noi, affrontano oggi le nostre contraddizioni di allora: minaccia di una ideologia unidimensionale e totalitaria che può svilupparsi in radicalismo».
Qual è il suo ricordo più bello di quell´anno?
«Quando mi fu proibito l´ingresso in Francia. A Parigi centinaia di migliaia di persone in piazza – francesi e no, ebrei e no, comunisti e cattolici, laici e musulmani – gridarono "siamo tutti ebrei tedeschi". Fu uno dei momenti più belli del movimento».
E il ricordo peggiore?
«Quando al corteo della maggioranza silenziosa per de Gaulle, la destra in piazza sugli Champs-Elysees, gridarono "Cohn-Bendit a Dachau". C´era intolleranza da ambo le parti allora, oggi troppo spesso lo si dimentica. Non a caso, insisto, gli anti-68 di ieri hanno oggi come allora la stessa paura di sviluppi che non possono controllare. Ecco perché certe reazioni ostili oggi al ricordo di quella nostra rivolta, quando eravamo giovani 40 anni fa. 40 anni insieme presenti e lontani».

Corriere della Sera 1.2.08
Figli concepiti senza il papà
Test sui topi in Gran Bretagna, sperma da cellule del midollo femminile
di Mario Pappagallo


Un gruppo di scienziati inglesi ha chiesto il permesso di continuare la sperimentazione sulle persone

MILANO — Fare figli senza bisogno delle cellule riproduttive di un partner. Dalla cellula staminale di una donna si crea lo sperma, poi con questo si feconda un ovulo della stessa donna. Risultato: nasce una bambina «clone» della mamma, con il patrimonio genetico (XX per una femmina) dato dalla stessa persona. La stessa tecnica può anche permettere la nascita di una bambina da due donne, o di un bambino/bambina da due uomini, o di un figlio clone da un uomo. Ma negli ultimi due casi si dovrebbe ricorrere comunque a un «utero in affitto ». E' quanto prospettano ricercatori inglesi che sarebbero riusciti, nei topi, a creare spermatozoi «femminili» da cellule staminali adulte prelevate dal midollo osseo. L'annuncio sulla rivista New Scientist che racconta della nuova sfida in fatto di fecondazione artificiale. E dei laboratori nel mondo che vi stanno lavorando. Una sfida che nasconde l'obiettivo di una clonazione un po' più «naturale»...
Per ora esperimenti solo sui topi. In Brasile, l'Istituto Butantan di San Paolo sarebbe riuscito a sviluppare ovuli e spermatozoi utilizzando cellule staminali di embrioni di cavie maschio. L'équipe, guidata da Irina Kerkis, non è però ancora riuscita a dimostrare la fertilità degli ovuli ottenuti a partire da cellule maschili. E' un'altra, però, l'équipe che ha destato l'attenzione di New Scientist. E' quella inglese della Newcastle Upon Tyne University, guidata dal biologo Karim Nayernia: avrebbe trasformato cellule staminali femminili del midollo osseo in spermatozoi. Nayernia annuncia ad effetto: «Tra cinque anni sarà possibile la riproduzione omosessuale ». E chiede l'autorizzazione a portare avanti gli esperimenti.
Le perplessità non mancano: interrogativi sulla possibilità effettiva di creare una vita artificiale, ma soprattutto dubbi etici. Lo scoglio da superare è la creazione dello sperma a partire da cellule femminili, che mancano del cromosoma Y in cui risiedono i geni che determinano il sesso maschile.
«Sono molto perplesso — commenta Giulio Cossu, docente di Istologia dell'università Statale di Milano e ricercatore del San Raffaele proprio nel campo delle staminali —. Riuscire a trasformare una staminale in una delle cellule tra le più specializzate, come lo spermatozoo, è strabiliante. Se è vero, è strabiliante». Forse una fortunata coincidenza.
Sperma dal midollo della donna, che renderebbe di fatto l'uomo «superfluo» per la procreazione, ma anche ovuli dal midollo di un uomo, che però non potrebbe mai fare del tutto «da sé». Come ha fatto Nayernia a ottenere questa sorta di «autoriproduzione»? Grazie a un massiccio bombardamento di sostanze chimiche e vitamine (ma qualcosa viene tenuto nascosto, ndr) per «convincere» le staminali adulte del midollo osseo a diventare spermatozoi o ovuli in grado di fecondare o essere fecondati. Il biologo inglese garantisce: «Due anni per avere "sperma femminile" immaturo, cinque per la prima cellula spermatica feconda autoprodotta da una donna». Ovviamente, da una donna solo sperma femminile. Ma alle lesbiche poco importa. Anzi.
Dal punto di vista medico, quali i vantaggi attesi? Innanzitutto, creare staminali da donatori adulti senza dover ricorrere agli embrioni. Poi, la possibilità di procreare per malati di cancro divenuti sterili o per coppie infertili in assoluto.
I dubbi però non sono solo etici. Ve ne sono anche di natura scientifica, perché i topi che hanno fatto da cavia avrebbero manifestato problemi di salute alcuni mesi dopo gli esperimenti. Quindi, ancora molto da studiare. Forse cinque anni sono pochi. Eppoi c'è il discorso clonazione. Ai più è sfuggito. Dice Claudio Bordignon, esperto internazionale di staminali: «Abbiamo acquisito molta esperienza nella tecnica che ha portato alla pecora Dolly, senza però risolvere i molti problemi riscontrati negli animali clonati. Arrivare invece a un embrione clone concepito dall'unione di uno spermatozoo e di un ovulo che hanno identica informazione genetica potrebbe essere una novità concettuale non indifferente».

Corriere della Sera 1.2.08
Il genetista. Una speranza anti sterilità (con un dubbio etico)
di Edoardo Boncinelli


Le conseguenze
Una donna potrebbe con questa tecnica mettere incinta la compagna omosessuale

Le cellule del nostro corpo si dividono in due grandi categorie: le somatiche e quelle della linea germinale. Le prime costituiscono la gran massa del nostro corpo e ci fanno vivere. Le seconde sono messe da parte molto presto durante lo sviluppo embrionale e sono destinate solo a produrre i gameti: gli spermatozoi nel maschio e le cellule-uovo nelle femmine. Si tratta di due universi separati. Durante la vita alle cellule somatiche possono succedere le cose più strane, ma fino a che questi cambiamenti non raggiungono le cellule della linea germinale, non verranno ereditati dai figli e dai nipoti. Insomma la linea germinale è il tesoro nascosto, gelosamente custodito, del nostro corpo e della nostra vita. Sono la nostra immortalità biologica.
In tutti i discorsi fatti in questi ultimi anni sulle staminali, si è sempre assunto implicitamente che si trattasse di produrre per questa via popolazioni di nuove cellule somatiche. Sono rarissimi i casi nei quali un gruppo di ricerca si è dedicato alla produzione di cellule della linea germinale o direttamente dei gameti. La notizia di ieri si riferisce proprio a qualcosa del genere, la produzione di gameti o di pre-gameti a partire da cellule adulte. Scientificamente è molto interessante e promettente, perché fa intravedere la soluzione di un formidabile problema biologico. Con questa impresa si completerebbe in sostanza il quadro della produzione ex novo di cellule del nostro corpo, di ogni tipo di cellula del nostro corpo. E scusate se è poco. E' evidente l'utilità di produrre gameti per una persona che non sa farlo o che lo fa imperfettamente. Il numero e la varietà delle forme di sterilità sono tali e tanti che la possibilità di far produrre gameti a persone che non lo possono fare, appare una sorta di miraggio, soprattutto in considerazione dell'attuale sensibile aumento delle sterilità maschili.
Ma c'è sempre un ma. Anzi due: uno tecnico e uno etico- sociale. Il problema tecnico riguarda la cosiddetta «ricombinazione », un fenomeno genetico che interessa le cellule germinali prodotte per via normale. Prodotti in questa nuova maniera, questi gameti non subirebbero la ricombinazione e non sarebbero quindi «normali » a tutti gli effetti. Il problema etico-sociale riguarda invece la possibilità che così si apre di produrre gameti, e in particolare spermatozoi, da parte di persone che normalmente non lo farebbero affatto, nemmeno per via ordinaria. Una donna di una coppia omosessuale potrebbe in questa maniera produrre spermatozoi con i quali si potrebbero fecondare le cellule-uovo della compagna. Da una parte è un grande incremento di libertà — la scienza è libertà — dall'altra solleva problemi sociali difficili da ignorare. Ai posteri l'ardua sentenza.

Corriere della Sera 1.2.08
Graffiti millenari sfregiati dai soldati di pace. L'Onu chiede scusa
di G. Sant.


LONDRA — Le Nazioni Unite hanno dovuto chiedere scusa al Fronte Polisario, il movimento independentista del Sahara Occidentale, per gli sfregi lasciati dai soldati di pace sui graffiti preistorici di un famoso sito nel deserto noto come la Montagna del Diavolo. I dirigenti del popolo sahrawi avevano denunciato il caso da mesi, ma c'è voluto un articolo del Times per spingere il Palazzo di Vetro a intervenire con un comunicato nel quali si «riconosce che le informazioni disponibili provenienti da certi siti suggeriscono che alcuni dei graffiti presenti (sulle pitture rupestri) sono opera del personale militare Minurso».
Non si poteva più tacere di fronte all'evidenza delle foto che mostrano le scritte lasciate dai militari: sulle figure stilizzate di giraffe, leoni e cacciatori di seimila anni fa sono state tracciate con la vernice spray scritte come «Petar, Esercito Croato», «Ahmed, Egitto», «Evgeny, Russia». Un maggiore del contingente venuto dall'Etiopia oltre al nome, Issa, ha pensato bene di tracciare anche la data e il numero di matricola: si è accertato che aveva appena completato un corso dell'Onu in «Etica del peacekeeping ». Vandali e stupidi, dunque, perché i caschi blu con le loro firme hanno reso semplice l'identificazione. Il ministero della Difesa di Zagabria, che ha schierato nel Sahara sette soldati, ha già promesso che il colpevole sarà punito.
Il Palazzo di Vetro di New York sostiene che molti degli insulti al patrimonio culturale sahrawi sono stati commessi da «altre persone nel corso degli anni». Anche il professor Noureddine Dharif, attivista dei diritti umani ha confermato la situazione da Laayoune nel Sahara Occidentale: «Oltre che dal personale delle Nazioni Unite le nostre ricchezze culturali sono state deturpate da turisti europei e trafficanti d'arte che hanno staccato parti di rocce con le pitture preistoriche per contrabbandarle e venderle ».
Julian Hartson, il funzionario britannico che rappresenta il segretario generale dell'Onu nella regione ha detto al Times
di essere scioccato, perché «il personale che abbiamo qui è composto da ufficiali istruiti, non da soldati semplici. E oltretutto hanno rovinato il sito lasciando praticamente un biglietto da visita».
Lo scandalo rilancia i dubbi sull'adeguatezza del personale inviato in missione sotto la bandiera dell'Onu: negli ultimi tre anni circa 200 caschi blu sono finiti sotto inchiesta per abusi sessuali e traffico d'armi compiuti nelle terre che dovevano pacificare. Il Sahara Occidentale, ex colonia di Madrid, è stato annesso dal Marocco nel 1975 quando gli spagnoli si ritirarono con la fine del franchismo. Da allora i sahrawi del Fronte Polisario si sono battuti per vent'anni per ottenere l'indipendenza, sostenuti dall'Algeria. La regione sulla costa atlantica dell'Africa è ricca di fosfati e potenzialmente possiede giacimenti petroliferi offshore. Nel 1991 il cessate il fuoco e l'invio della Minurso (la Missione Onu). I sahrawi invocano un referendum per l'autodeterminazione, il Marocco offre autonomia sotto sovranità del governo di Rabat. I negoziati dovrebbero riprendere a marzo.

Liberazione 1.2.08
Bertinotti: «Legislatura politicamente finita»
La sfida è: Veltrusconi o sinistra
di Piero Sansonetti


Le probabilità che Franco Marini riesca a formare un governo, al momento, sembrano poche. I partiti dell'opposizione - tutti - confermano il loro non interesse a permettere il rinvio delle elezioni di qualche settimane e il varo di una legge elettorale un po' meno indecente della legge attuale. Non gliene fraga niente. Ma non è nemmeno questo l'ostacolo principale per il presidente del Senato; l'ostacolo principale gli viene dal suo partito, cioè dal Pd. Il Pd conferma la sua vocazione "destabilizzante". I suoi problemi interni e le sue incertezze di linea hanno favorito la crisi e ora ne rendono difficile la soluzione. Le uscite di Veltroni e D'Alema che tornano a prospettare l'anticipo del referendum elettorale, e lo usano come una clava per minacciare i partiti alleati, oggettivamente è un siluro verso il lavoro di Marini. Perché? Diciamo che il referendum è stato concepito per cancellare i partiti piccoli e indebolire moltissimo i partiti di media grandezza. E' difficile dire a questi partiti: «Vi offriamo di mettere in piedi un governo che non servirà a fare una legge elettorale buona e democratica, ma servirà invece a far celebrare il referendum che vi colpirà mortalmente. Siete D'accordo?». E' abbastanza complicato che i partiti interpellati rispondano: «Ma certo signor Veltroni, certo signor D'Alema, siamo qui per questo, per suicidarci...». Veltroni e D'Alema sanno benissimo che le cose stanno così. E dunque, nel momento nel quale dichiarano di volere un governo che permetta il referendum, di fatto liquidano le possibilità di formare questo governo e spingono per le elezioni anticipate subito, e con la legge attuale.
Converrà forse fermarsi un momento a spiegare cosa prevede questo referendum. Prevede una sola sostanziale correzione alla legge attuale (peggiorativa): che alla lista che otterrà la maggioranza relativa dei voti (qualunque sia questa maggioranza relativa, anche il 25 o magari il 20 per cento) sarà assegnato il 55 per cento dei seggi parlamentari. Cosa vuol dire? Che il potere legislativo (rappresentativo) sarà interamente sequestrato da un solo partito, e che i piccoli partiti, se vogliono avereanche solo la possibilità di accedere al governo, devono accettare la propria subalternità ai partiti più grandi, senza porre condizioni e senza poter trattare né sugli equilibri né sui programmi politici. Non ci sono molti precedenti nella storia italiana. Qualcuno dice che una legge così assomiglia alla famosa legge-truffa voluta nel '53 da De Gasperi, ma poi bocciata dalle urne. Però non è vero, perché quella legge assegnava un cospicuo premio di maggioranza solo a chi superasse il 50 per cento dei voti. Era meno prepotente. L'unico precedente vero è la legge-Acerbo, fatta votare da Mussolini nel '23, che assegnava il premio di maggioranza a chiunque superasse il 25 per cento dei voti. La legge-Acerbo (che diede la maggioranza parlamentare del 75% a Mussolini) fu usata una sola volta, nel '24: poi in Italia non si votò più, come forse sapete, per vent'anni...
Dunque - dato il no pronunciato ieri sera da Mastella a Marini, dato che Dini è ormai schierato col centrodestra, date le posizioni del Pd, non sembra che Marini abbia via d'uscita e l'inizio della campagna elettorale appare vicinissimo. Che campagna elettorale sarà?
Un po' balorda, un po' truccata. Perché? Gli schieramenti che si contrapporranno saranno tre. Il centrodestra, unito dietro Berlusconi; il centro di Veltroni; la sinistra, che probabilmente sarà guidata da Bertinotti. Quale sarà la differenza di programmi tra questi tre schieramenti? Il centrodestra e il centro presenteranno ricette quasi uguali per l'economia, basate sulla flessibilità (e dunque contenimento dei salari e dei diritti dei lavoratori) e sulla competitività (e dunque aiuti cospicui alle imprese sia in termini di soldi che di regole). La sinistra proporrà soluzioni opposte: redistribuzione delle ricchezze (tenendo conto che tutti gli studi di questi anni dicono che si è creata una sproporzione pazzesca tra profitti e rendite da una parte e salari e stipendi dall'altra), allargamento dei diritti del lavoro, politica industriale fondata sulla ricerca e sull'innovazione e non sulla riduzione del costo del lavoro. Sui temi dei diritti civili e dei grandi valori di laicità e di liberazione delle relazioni tra le persone e tra i sessi, le cose non cambiano: come hanno dimostrato le recenti polemiche sul papa all'Università (e la criminalizzazione degli intellettuali che si sono opposti) destra e Pd non hanno idee molto diverse. Pensano che sia giusta una qualche egemonia della Chiesa, con le sue concezioni che prevedono la subalternità della donna, una certa persecuzione degli omosessuali, la negazione della libertà sessuale e il ridimensionamento della libertà di pensiero. Sull'altro fornte c'è la sinistra e i partiti laici (ma non si sa che scelte di schieramento faranno i socialisti e i radicali) che pensano l'opposto.
E dopo le elezioni cosa succederà? E' molto probabile che il centrodestra vincerà - data la scelta del Pd di correre solo, per spostarsi a destra e rifiutare alleanze- ma la sua vittoria non sarà clamorosa. E in Senato resterà una situazione di equilibrio. A quel punto, dicono molte voci anche interne al Pd, si farà l'alleanza tra Pd e Berlusconi. Il famoso Veltrusconi- termine spiritoso inventato da questo giornale ma che ormai è entrato nel gergo politico - divcenterà realtà.
La partita elettorale sarà questa. Veltrusconi, potentissimo, contro una sinistra che non vuol mollare e pretende di dare al paese una possibilità di opposizione. Partita difficilissima: varrà la pena di metterci cuore, corpo e anima.

Liberazione 1.2.08
Il successo della Linke cambia il panorama politico in Germania
di Paola Giaculli


Berlino. La Germania si sposta a sinistra. È questa l'analisi di autorevoli o popolari organi di stampa e osservatori politici, che vedono in DIE LINKE la vera novità di questa tornata elettorale. Per la prima volta il partito della sinistra entra in parlamenti di regioni dell'ovest. Già presente nella città stato di Brema, lo sfondamento in Bassa Sassonia con il 7,1%, ma soprattutto nella conservatrice Assia dove arriva al 5,1%, sono risultati clamorosi.
Lothar Bisky, presidente del partito insieme a Oskar Lafontaine ha definito il traguardo raggiunto la scorsa domenica «Una pietra miliare», ma soprattuto è un risultato che cambia le sorti della sinistra e addirittura del paese dove vige, ormai, un sistema a cinque partiti, e con l'insediamento definitivo a ovest di un partito a sinistra della socialdemocrazia, rappresenta una novità nella storia del dopoguerra. DIE LINKE si rafforza in virtù dei temi sociali che riesce a imporre nel dibattito politico, sospingendo la Spd più a sinistra, e che cerca, anche se gradualmente, di allontanarsi, dal neoliberismo assolutista che ha caratterizzato l'era Schröder. Politiche che hanno creato sfiducia anche nell'elettorato più fedele della Spd: prevedibile in un paese con uno stato sociale tradizionalmente forte e un tenore di vita medio abbastanza elevato, che si trova di fronte ad un impoverimento accelerato della popolazione e che colpisce soprattutto i ceti medi.
I toni razzisti, anticomunisti e populisti da guerra fredda ("LINKE riporta la Ddr e il muro", etc.), a cui il candidato CDU Koch, ormai ex governatore dell'Assia, aveva affidato la sua campagna elettorale, si sono rivelati un boomerang per il democristiano, comunque troppo aggressivo anche per il partito della cancelliera Angela Merkel. Il governatore CDU della bassa Sassonia Wulff, ha perso (42,5 contro 48,5), ma, a fronte anche di una SPD più defilata e in calo (da 33,4 a 30,3). In Assia, si mantiene in sella grazie alla sua moderazione. Tanto da spingere alcuni analisti conservatori a lamentarsi di uno spostamento a sinistra anche della CDU.
Si chiude così il ciclo inaugurato dall'ex cancelliere democristiano Kohl,artefice nel 1990 della riunificazione di fatto del paese, in realtà mancata con l'esclusione del popolo dell'est, che in gran parte affidava le proprie speranze alla Pds. A oltre 17 anni da quella annessione dell'ovest sull'est, l'anticomunismo è finalmente archiviato: in Assia per nove anni in mano alla CDU, contribuiscono al clamoroso 5,1% di DIE LINKE 16.000 ex votanti della CDU, 31.000 della Spd, 18.000 dei Verdi, 5.000 dei Liberali-FDP, 26.000 da altre formazioni minori e locali e altrettanti 26.000 dall'astensionismo. Oltre alla SPD, che raggiunge la CDU (36,7, +7,6, contro 36,8), anche DIE LINKE concorre quindi al crollo della CDU (-12). A "tirare" sono i temi sociali e ambientali, ed è per questo che l'elettorato premia sia SPD che DIE LINKE. Fallita quindi la logica del "voto utile": per cacciare Koch, non basta la Spd, nonstante la sua candidata, Andrea Ypsilanti, abbia da smpre osteggiato la famigerata Agenda 2010 di Schröder. Insomma, il voto alla DIE LINKE è utile sia ai numeri che alla politica, e il suo successo non ridimensiona quello della Spd.
È il partito di Bisky e Lafontaine che però ha cambiato le priorità: le sue campagne sul salario minimo, un'istruzione popolare e gratuita, contro la riforma delle pensioni e dei sussidi sociali, hanno suggerito alla SPD i suoi "nuovi" cavalli di battaglia elettorali. La situazione di stallo apparente sulla futura coalizione di governo, dovuta alla nuova ripartizione della "torta" parlamentare in Assia, per l'ingresso di DIE LINKE, deve far riflettere: prima o poi ci si dovrà rassegnare all'idea che è impossibile escludere a priori partiti entrati a pieno titolo in parlamento. È la politica a vincere, e infatti non ci sono i numeri sufficienti per una coalizione CDU-Liberali, né per SPD e Verdi (dal 10,1 al 7,5), mentre invece è ipotizzabile un asse rosso-rosso-verde (SPD-LINKE-Verdi), che Ypsilanti ha ottusamente escluso in partenza, confidando nel fatto che DIE LINKE sarebbe rimasta fuori. Del resto, a ben guardare, la maggioranza nel paese è a sinistra da tempo. E la große Koalition , come si vede, non gode certamente di un elevato indice di gradimento. Insomma o si cambiano le politiche o non si governa: Andrea Ypsilanti può anche voler sommare volgarmente mele e pere, ma, certamente, se governa con i liberali si può scordare la chiusura delle centrali nucleari, l'energia eolica e solare, l'istruzione popolare, il blocco delle speculazioni edilizie intorno all'ampliamento dell'aeroporto di Francoforte. Questo ragionamento potrebbe far riflettere anche chi in Italia, non vede di buon occhio il sistema elettorale tedesco.
Il successo della sinistra intercetta e porta in parlamento i bisogni e i desideri della maggior parte della popolazione tedesca, che al 70% è contro le missioni militari all'estero e critica le politiche antisociali. Non è un caso che i sondaggi rilevino che i conflitti sociali godono di un appoggio quasi incondizionato (comunque superiore al 60%): come nel caso dei pur lunghissimi scioperi dei macchinisti - una vera e propria rottura di un tabù in Germania - o del recente "scandalo" di Nokia che ha trasferito in Romania lo stabilimento tedesco di Bochum a fronte di un utile di 7,2 miliardi di euro nel 2007, due terzi in più rispetto all'anno precedente, gettando sul lastrico più di 2.000 lavoratori (indotto più di 4.000), dopo aver usufruito di sovvenzioni pubbliche per oltre 80 milioni di euro. Il disperato bisogno di giustizia sociale è alle origini del "terremoto" in atto in Germania. Come dice Lafontaine, «il clima politico e sociale è cambiato».

Repubblica Roma 1.2.08
Cominciò così. Storia vera di Capinera
Vulcanici, veloci, rivoluzionari. Li chiamavano "Gli Uccelli"
di Francesca Giuliani


Volevamo rendere visibile quello che non lo era. Un giorno aprii un ombrello...

L´ultimo degli Uccelli vive in uno squarcio di campagna dietro la Trionfale. Paolo detto Capinera, il ragazzo magro e capellone protagonista di un´epoca, anima di un gruppo che ha assaltato, protestato, sperato in una rivoluzione possibile, è oggi un signore di sessantacinque anni con la faccia segnata dal sole dei campi, le mani grosse di chi da una vita le usa per lavorare: «Ricordo volentieri i giorni quando il Sessantotto cominciò». Studente di architettura in quella facoltà di Valle Giulia scenario di uno degli episodi centrali di un anno che ha fatto Storia, offre con il fiume dei suoi ricordi uno sguardo diverso, la traccia di una gioventù rimasta dentro, la rabbia di un´occasione perduta. Racconta così.
L´ombrello. «In facoltà c´erano i fascisti. Saluti romani. Cose di questo genere. Erano fascisti i professori. Borghesi gli studenti. Morpurgo, Fasolo, i padroni erano loro. Occupammo per mandarli via. Poi vennero Quaroni, Zevi, Piccinato, persone aperte, progressiste. Fu un inizio straordinario. Le assemblee, vedersi e finalmente parlarsi, incontrarsi, dirsi certe inquietudini, far finire quella condizione di studenti individualizzata e solitaria. Le cose cominciarono subito ad andare diversamente. A parlare erano quelli che venivano dalle scuole di partito. Parlavano, parlavano. Il Vietnam, la guerra. Un giorno, in assemblea, io avevo un ombrello. Perché pioveva, evidentemente. Lo aprii come a proteggermi da quella pioggia di parole. Tutti risero molto, molti applaudirono. Gli Uccelli sono nati con quel primo gesto. A parlare era un ragazzo che si chiama Renato Nicolini. Noi, invece, decidemmo di non parlare più. Quando gli altri ci rivolgevano la parola, fischiavamo. Poi ci hanno chiamato Uccelli».
Le pecore di Guttuso. «Eravamo consapevoli di un certo fermento culturale a Roma e ci piaceva l´idea di incontrare i protagonisti di quegli anni, andarli a scovare, farli parlare nelle nostre assemblee, sentire cosa pensavano del mondo. Così prendemmo appuntamento con Renato Guttuso. Andammo nel suo studio alla salita del Grillo dove ci accolse con grande simpatia. Anche Pasolini ci apprezzava, era con noi. A Guttuso gli abbiamo chiesto dei soldi per comprare delle pecore. Lui ce li diede. E le abbiamo comprate. Le abbiamo portate in facoltà, perché lì c´erano i campi. E ce le avevamo anche durante gli scontri di Valle Giulia. Guttuso venne in facoltà a fare con noi i famosi graffiti che ancora si vedono sulla facciata. Lui tracciò le prime linee. Noi poi continuammo con lo scalpello. Che fossimo proprio noi a portare all´università un pezzo grosso del Pci fu un colpo. Quelli del Pci boccheggiavano, ci volevano ammazzare».
Ammazzagalline. «Si vede che già allora dentro di me c´era l´agricoltore che sarei diventato. Perché anche a Giacomo Manzù che andammo a trovare ad Ardea chiedemmo dei soldi. E con quei soldi comprammo delle galline. Quando con un furgone le portammo in facoltà e le liberammo in giro gli studenti le inseguirono per agguantarle, strozzarle. C´era una presunzione in quegli studenti borghesi».
Fellini, Carla. «In quegli anni Roma era una città piccola, provinciale, tristissima. Dove non succedeva niente. Io venivo dall´Abruzzo come il mio amico Martino. Ho dormito anche alla Casa dello Studente. Giravo in tram oppure a piedi. Andavamo al cinema, qualche volta. Fellini, Antonioni erano i registi di quegli anni. Donne non se ne vedevano, le studentesse stavano per conto loro. Tranne Carla, la più bella di tutte. Lei era una di noi. L´ho frequentata fino al ´69. È tanto che non la sento».
Il sacrificio dopo la battaglia. «Ci riunivamo la sera. Le nostre fonti di informazione erano i giornali. Soprattutto l´Espresso. Discutevamo gli articoli. Pensavamo le nostre imprese future. Come utilizzare anche il patrimonio culturale. Allora dopo la battaglia di Valle Giulia decidemmo di andare all´Ara pacis. Eravamo cinque o sei. Ci portammo un agnello. Gli tagliammo la gola sulle scale dell´altare sotto gli occhi del custode che non fece in tempo a reagire. Volevamo pace, dopo tutta quella guerra. Cercavamo di esercitare un´attenzione critica a quello che c´era nella testa delle persone. Pensammo che la strada intrapresa fosse tremenda. Oggi questo paese soffre ancora di come andarono le cose: la carica forte, positiva di allora fu sviata e defraudata da gruppi che si richiamavano falsamente al marxismo. Troppe potenzialità sono state distrutte in quegli anni. Dopo allora niente è stato più uguale».
La cacciata «Portammo la musica, i dischi dei Rolling Stones. Volevamo fare una festa. Ci caricammo di pennelli e secchi di vernice. Per tirare su l´atmosfera. Ma gli studenti chiamarono il servizio d´ordine. Ci fecero buttare fuori. Il gruppo dirigente, Fuksas, Sergio Petruccioli. Volevamo solo guardare alle cose con la massima franchezza. Dopo la cacciata, scrivemmo un volantino intitolato "Il dentro e il fuori". Loro ci cacciarono. Noi fuori, liberi. Loro dentro, intrappolati».
Dopo. «Mi sono laureato nel ‘72. Sono andato un anno in Sicilia, ho lottato con i disoccupati, i carcerati. Dentro Lotta continua, anche. Tanti intorno a me hanno preso strade vuote. La droga. La lotta armata. È difficile capire come andò. C´era un clima che rendeva tutto possibile. L´energia pura di quelle prime contestazioni nell´aria non c´è più stata».
La campagna sulla Trionfale è diventata casa sua trent´anni fa. Era una discarica, tra il San Filippo Neri e il Santa Maria della Pietà. Oggi ci sono duemila ulivi coltivati che Capinera ricama con le sue cesoie. Ha due figli, uno ad architettura. Aspetta a fine mese la prima pensione da agricoltore.