sabato 5 marzo 2016

Repubblica 5.3.16
Aleksandr Rodcenko
La rivoluzione russa della fotografia
Con oltre 300 opere tra scatti e costruzioni spaziali, il Museo della Svizzera italiana di Lugano rende omaggio al maestro sovietico
di Olga Gambari

Le fotografie di Aleksandr Rodcenko sono l’esempio perfetto e stupefacente di come la realtà sia una questione di punti di vista. E forse anche la verità che essa contiene. Dipende da come la si guarda. E Rodcenko la guardava volandoci attorno, osservando da postazioni audaci, dall’alto e dal basso, con tagli obliqui che scoprivano prospettive e visioni inimmaginabili. Per abituare le persone a nuovi punti di vista è essenziale fotografare gli oggetti quotidiani e familiari da angolazioni totalmente inaspettate e in posizioni del tutto inconsuete – diceva.
Ancora oggi le sue fotografie dinamiche e potenti sono un invito a osservare davvero il mondo attorno, ad avere un occhio critico personale, non accontentandosi dello sguardo che il proprio fisico, o la cultura dominante, impongono. Sin dalle prime foto, scattate per realizzare fotomontaggi con cui illustrava riviste e manifesti, si era reso conto dell’enorme potenziale di questo
nuovo mezzo, che assorbiva e oltrepassava gli altri linguaggi artistici, cambiando la percezione s del reale.
Mosso da una creatività libera e anticonvenzionale, che eleggeva la sperimentazione come pratica, inscindibile dal rigore tecnico e formale, fu uno dei protagonisti dell’eccezionale periodo dell’avanguardia russa e della sua rivoluzione artistica. Il suo atteggiamento attivo nei riguardi della vita nasceva dalla fede in un futuro migliore per la società, che si poteva costruire anche attraverso la cultura. Rodcenko, influenzato da suggestioni futuriste, suprematiste e dada, si ispirava soprattutto ai principi del movimento costruttivista, che negava l’arte per l’arte. Erano gli anni Venti del Novecento, la rivoluzione era appena accaduta, gli intellettuali e gli artisti credevano in progetto comune a servizio della società russa. Un fuoco creativo alimentato da utopie, ideali politici e accelerazioni innestate dalle avanguardie in corso. La nuova Unione Sovietica era da educare e costruire. L’arte era una grande risorsa e le immagini avevano un ruolo fondamentale, dovevano sviluppare un concetto comunicativo efficace. Rodcenko inizia proprio dalla dimensione della grafica, che gli conferisce l’inconfondibile stile con cui caratterizzerà anche il lavoro fotografico, quello scultoreo e pittorico. Per lui ogni immagine era prima di tutto un progetto compositivo preciso, volto a esprimere un’idea, in cui elementi grafici come linee, curve e volumi ne determinavano la struttura formale.
La mostra che gli dedica il Museo d’arte della Svizzera italiana nella sede del LAC di Lugano, curata da Olga Sviblova, direttrice del Moscow House of Photography, è un percorso che esplora la sua produzione fotografica, anche quella meno famosa, messa in relazione con altri aspetti della sua ricerca. Primo fra tutti, la grafica, con un ricco nucleo di fotomontaggi e di collage, anche satirici, usati per illustrare riviste e libri, dalle tavole di
Pro Eto di Vladimir Majakovskij al progetto di copertina per una raccolta di versi di poeti costruttivisti, Mena vsech.
Ma ci sono anche manifesti, di natura politica come quelli sindacali, o per il film di Dziga Vertov Cine- occhio. Tutte collaborazioni che raccontano di una comunità di intellettuali che lavorava insieme, al di là dei percorsi individuali. Rodcenko ne ha fissato i volti, scatti come appunti di memoria. In una sezione della mostra sfilano le immagini di sua moglie, Varvara Stepanova, con cui condivise vita e progetti, poi Lilija Brik, scrittrice e attrice, oltre che musa di Majakovskij e moglie dello scrittore Osip Beskin, tutti presenti. E ancora il pittore Aleksandr Sevcenko, lo scrittore Sergej Tret’jakov, i registi Lev Kulesov e Aleksandr Dovzenko. Poi arrivano le immagini celebri come Scale, con una donna persa su una scalinata immensa, che evoca Ejzenstejn, perché le sue foto erano anche cinema. Ci sono le parate, i ginnasti, Mosca anni ‘20, con balconi e palazzi che si stagliano come volumi puri, la fabbrica di automobili AMO con gli elementi meccanici esposti. Ci sono anche le foto che lo resero poco per volta inviso al potere, fino a ostracizzarlo per aver abbandonato il carattere sociale della sua ricerca a favore di un’indulgenza manierista e di un puro estetismo. Per la serie dei Pioneer (1930), uomini e donne del popolo fotografati dal basso e trasformati in eroi, venne accusato di deformare i soggetti oltraggiandoli. Rodcenko provò a reagire, realizzando servizi per riviste celebrative come SSSR na strojke (URSS in costruzione).
E poi ritirandosi in una dimensione onirica e intimista, fuori dal presente. Fino a rifugiarsi nella pittura, dove ritroverà una sua libertà espressiva. Lontano dalla fotografia.
La Stampa 5.3.16
Nel segno di Iside l’incontro delle civiltà
L’influsso dell’antico Egitto sul mondo greco-romano
di Maurizio Assalto

Certo, a vedere quelle statuette con una giovane donna che allatta il figlioletto al seno, non è possibile non pensare alle miriadi di immagini della Madonna col Bambino prodotte dal Medioevo in poi. Invece la giovane donna è Iside, la grande dea degli Egizi, il Bambinello è suo figlio Arpocrate (il nome da infante di quello che diventerà Horus), e il tutto è stato plasmato lungo il Nilo (ma poi anche in varie parti del Mediterraneo, anche sulle coste italiche) alcuni secoli prima (e poi anche dopo) la venuta di Nostro Signore.
Un plagio cristiano? Sappiamo che il cristianesimo è debitore di molte concezioni più antiche, rimodellate e reinterpretate (anche Arpocrate-Horus, come più tardi il greco Dioniso-Zagreus, conosce una vicenda di uccisione, addirittura di smembramento, e risurrezione). Ma nella mostra «Il Nilo a Pompei», che si apre oggi al Museo Egizio (fino al 4 settembre, con importanti prestiti italiani e internazionali), la suggestione è lasciata in sospeso: tanto più che le immagini di Maria lactans, nell’Egitto cristiano del V-VII secolo, sono molto rare, e il motivo iconografico riemerge soltanto nell’Italia del 1100. Pure, le contaminazioni dell’Egitto con la koiné greco-romana, e più in generale con il mondo mediterraneo, sono innegabili e non in una sola direzione. Come dimostra questa intelligente rassegna che nel rinnovato museo inaugura lo spazio dedicato alle esposizioni temporanee, che il direttore Christian Greco, curatore della mostra con Federico Poole e Alessia Fassone, vorrebbe organizzare annualmente per investigare le influenze della cultura egizia nell’arte e nella cultura di tutti i tempi, fino alle avanguardie novecentesche.
Se le prime tracce di contatti risalgono addirittura alla metà del secondo millennio (esposto un grande vaso di impostazione minoico-cipriota e con iscrizioni geroglifiche, da Deir el-Medina), è nei secoli successivi, con Omero e poi con Erodoto, Platone, Diodoro Siculo, Plutarco, che l’immagine dell’Egitto si fissa presso i greci come quella di un luogo esotico, misterioso, affascinante e di sapienziale antichità. Nel III secolo a.C. sono attestati i primi insediamenti di mercanti egiziani a Delo, quindi al Pireo e, tra la fine del II e l’inizio del I, sulle coste della Campania.
Intanto la conquista del paese dei faraoni da parte di Alessandro e il successivo insediamento della dinastia greca dei Tolemei nella nuova capitale Alessandria hanno dato vita al crogiolo di una nuova civiltà. Alcune vecchie divinità egizie passano in secondo piano, altre nascono e vengono assimilate a quelle elleniche, come Serapide (un misto di Osiride a Api, variamente e liberamente identificato con Ades, con Zeus, con Asclepio). Su tutte, e al centro di tutto, Iside, l’antica grande dea della fertilità identificata con Afrodite e infinitamente rideclinata, come si vede nei reperti in mostra: Isis Fortuna, Isis Pelagia (protettrice dei naviganti), Isis Panthea (sintesi di tutta la divinità immaginabile), Isis come dea dei misteri iniziatici (cosa che non era mai stata nella terra d’origine) associata alla Demetra eleusina.
A Roma e nelle altre città della repubblica (poi dell’impero, fino alla piemontese Industria, l’odierna Monteu da Po) ai larari con la tradizionale triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva) si affiancano quelli con Iside, Arpocrate, Serapide e Anubi. Alla grande dea madre è dedicato un imponente tempio a Benevento, da cui proviene una statua di diorite dell’imperatore Domiziano (I sec. d.C.) ritratto come un faraone, con il copricapo nemes, le braccia rigide lungo i fianchi, la gamba sinistra avanzata, secondo una plurimillenaria tradizione iconografica. Un altro Iseo sorge a Pompei intorno al 100 a.C., e nelle domus della città vesuviana le decorazioni parietali si affollano di elementi egittizzanti, come negli affreschi esposti, dalla Casa del Bracciale d’oro, con lussureggiante vegetazione mediterranea dalla quale spuntano teste di faraoni e - in funzione ormai meramente decorativa - sfingi alate, quindi greche, ma in posizione accovacciata, come quelle egizie. Ormai l’Egitto è una moda, sovente una mania.
Attraverso i primi scambi commerciali, poi le due conquiste - quella di Alessandro (332 a.C.) e quella romana (31 a.C.) - due grandi civiltà si sono contaminate con vantaggi reciproci. Ed è questo, in filigrana, l’insegnamento della mostra: ospitata nelle sale opportunamente dedicate a Khaled al-Asaad, l’anziano archeologo trucidato la scorsa estate a Palmira dai fanatici dell’Isis, che per una felice combinazione si inaugurano col racconto di una storia che è l’esatto opposto di quella vissuta in questi tempi nel Medio Oriente in fiamme. E che corregge in qualche modo la profezia di Samuel Huntington: tra le civiltà, se sono davvero civiltà, ci può essere, c’è incontro; lo scontro si dà soltanto con l’inciviltà.
La Stampa 5.3.16
Caro Violante, il mercato non fa male alla democrazia
di Alberto Mingardi

I mercati finanziari «svuotano» la democrazia? Chi lo sostiene in realtà presume che la democrazia sia quel sistema nel quale non esistono vincoli all’utilizzo politico della spesa pubblica.
Bisogna fare un po’ di pulizia lessicale. Nessuno ha mai visto «i mercati». Il mercato è il luogo, la piazza nella quale qualcuno porta la sua bancarella e qualcun altro ne compra la mercanzia. Diciamo mercato e utilizziamo la parola come metafora dell’atto di scambiare. Scambiare che cosa? In questo caso, titoli di debito.
Una certa classe politica, democraticamente eletta, sceglie di indebitarsi per disporre di denaro che altrimenti dovrebbe togliere forzosamente ai propri elettori attraverso la tassazione. Indebitandosi, spende oggi ma paga domani: ovvero impiega quattrini a vantaggio dei cittadini di oggi (che votano), lasciando il conto da pagare ai cittadini di domani (che ancora non votano).
Per anni, ci è stato detto che si trattava di una specie di partita di giro: un prestito che la collettività fa a se stessa. Quando una certa quota del nostro debito ha cominciato ad essere detenuta da operatori internazionali, ci siamo accorti che le cose non stavano proprio così. Costoro sono ben lieti di prestarci quattrini, ma a fronte di un interesse. Anche gli Stati, esattamente come le persone, possono essere buoni o cattivi debitori. Il debitore cattivo è quello che pare meno in condizione di ripagare il debito: per esempio perché continua a spendere allegramente. È normale che indebitarsi gli costi più caro.
Fa bene dunque Luciano Violante a osservare con un po’ di scetticismo i laudatores temporis actii. Né Parlamento né governo possono però far cadere la manna dal cielo. Ma questa non è una crisi della democrazia: è semplicemente un principio di realtà.
È forse anzi una speranza di rigenerazione della politica. I vincoli di bilancio sono un limite imposto alla libertà di promettere del politico. Se davvero tenessimo il bilancio in pareggio, a ogni nuova spesa dovrebbe corrispondere una nuova entrata (ovvero, più imposte che qualcuno dovrebbe pagare) o un taglio alla spesa attuale. Le scelte collettive sono scelte anch’esse: saremmo costretti a chiederci che società vogliamo, anziché immaginare che tutto possa, in qualche modo, tenersi assieme.
Il cosiddetto «populismo» altro non è, in fondo, che un tentativo di restaurare la totale libertà di promessa. Quella che ci ha portato a un debito pubblico al 136% del Pil. Le soluzioni del populista sono tutte una variazione sul tema del ritorno al Paese di Bengodi: che si tratti di uscire dall’euro o di costruire una muraglia di dazi contro la Cina. Ci allettano con la prospettiva che possano essere altri, a pagare per noi.
Qualche cosa di simile può essere detto circa le difficoltà di reazione della democrazia innanzi a un cambiamento, soprattutto tecnologico, assai più rapido che in passato. Il problema è che ci siamo abituati all’idea che la democrazia, come la spesa pubblica, non conosca confini. Che non ci sia ambito della nostra vita che non possa essere materia di scelta collettiva. Se l’attività legislativa riguarda, semplicemente, tutto, come stupirsi se procede lenta, o se deve essere appaltata a autorità amministrative di varia natura? Ci aspettiamo che il medico faccia bene il suo mestiere, e così l’idraulico, ma non che l’uno sappia armeggiare con gli attrezzi dell’altro. Invece, il decisore politico si proclama onnisciente: ripara tubi e aggiusta ossa, è inverosimile che faccia l’una cosa e l’altra nel migliore dei modi.
È vero, viviamo in un mondo sempre più complesso. Il legislatore fatica a tenerne il passo. Se deve rincorrere ogni nuovo sviluppo, ogni innovazione, è probabile che sarà un generale che combatte sempre la battaglia precedente. Ci sono, per carità, questioni sulle quali la politica non può non pronunciarsi: forse, però, non è proprio il caso di tutta la nostra frenetica e obsolescente produzione legislativa.
E se provassimo a decidere che su certe cose non dobbiamo decidere? Se provassimo, cioè, a recuperare un senso del limite, ad ammettere che ci sono porte che non vanno aperte, che la vita di una società deve procedere, in larga misura, senza che le istituzioni rappresentative s’ingegnino a progettarla?
Repubblica 5.3.16
La vera rivoluzione del voto alle donne
di Nadia Urbinati

LA CONQUISTA del diritto di voto è stata per le donne di gran lunga più difficile che per ogni altra fetta di popolazione, non solo in Italia. Come Natalia Aspesi ha scritto su Repubblica introducendo il film Suffragette, la lotta per il suffragio è stata lunga e dura, in tutti i paesi, anche quelli di storia liberale come l’Inghilterra, o quelli che nacquero sul consenso elettorale e l’eguaglianza, come gli Stati Uniti. È quindi giusto dire che il decreto legislativo più rivoluzionario che ha avuto l’Italia fu quello a firma De Gasperi- Togliatti che in data 31 gennaio 1945 riconobbe il diritto delle donne al voto, anche se non all’eleggibilità, una discriminazione che sarebbe caduta di lì a poco: ventuno furono le donne elette il 2 giugno 1946 all’Assemblea costituente.
Quello suffragista fu il primo movimento globale, la prima forma di mobilitazione rappresentativa che conquistò legittimità mediante l’opinione e grazie a celebrità intellettuali che associarono il loro nome alla causa. Harriet Taylor e il marito, John Stuart Mill, furono tra i primi europei a collaborare al movimento, raccogliendo finanziamenti e scrivendo proclami. Chi come Mill o il nostro Salvatore Morelli provarono ad avanzare proposte di legge in tal senso trovò in parlamento un muro: la proposta di Mill ottenne una settantina di voti, quella di Morelli non venne neppure discussa. Certo, vi erano state, anche in Italia, proposte per concedere alle donne il diritto di voto amministrativo: ci provò Minghetti appena dopo l’unità, e poi il sindaco di Firenze, Peruzzi, la cui moglie aveva anche organizzato un salotto di discussione per preparare l’opinione suffragista. Tra gli invitati vi era il giovane Vilfredo Pareto, allora un sostenitore radicale del suffragio femminile (e della rappresentanza proporzionale!) e ammiratore del
Subjection of Women ( La servitù delle donne) di Mill che Annamaria Mozzoni tradusse in italiano nel 1870. Ma seppure moderata (e reiterata altre volte fino all’avvento del fascismo), la proposta del voto amministrativo non decollò.
Quale la ragione di tanta ostilità? L’argomento più usato, un pregiudizio radicato da secoli, era quello dell’impossibilità della donna di sviluppare ragionamenti di giustizia perché incapace di giudizi di imparzialità. Destinata dalla natura a procreare e prendersi cura della specie, l’intelletto femminile era portato a comprendere l’utile vicino e l’interesse parziale della sua famiglia, non quello lontano e generale. La donna era votata all’economia domestica quindi; quella politica era privilegio dei figli, dei mariti e dei padri.
Quando questa idea così radicata nella cultura occidentale entrò in crisi? Questa domanda consente di mettere a fuoco la portata rivoluzionaria del suffragismo. Fu la trasformazione del voto da funzione (in difesa di interessi) a diritto della persona la chiave di volta. Infatti, se la rappresentanza deve essere espressione degli interessi che gli eletti svolgono con libero mandato e competenza, perché il suffragio universale? James Mill, il teorico del governo rappresentativo, scrisse negli anni Trenta dell’Ottocento che siccome ogni interesse riflette quello degli altri, sembra ragionevole che il voto del capofamiglia porterà in Parlamento anche le esigenze dei componenti della famiglia, per cui non serve che i giovani maschi e le donne votino. Fino a quando il voto fu inteso come funzione e non come diritto di sovranità, l’esclusione delle donne fu ritenuta funzionale alla loro vocazione di cura e giustificata con l’argomento della rappresentanza surrogata.
Il Settecento radicale — l’illuminismo francese — fu lo spartiacque. Quando il voto, a partire da Rousseau, divenne la “volontà” del sovrano come libertà di darsi leggi, allora il non voto parve subito segno di assoggettamento. Mary Wollstonecraft volse questo argomento contro Rousseau stesso, il quale aveva escluso le donne dalla città mostrando quanto il pregiudizio potesse contro la logica. Ma con la Rivoluzione francese, il mutamento del paradigma della legittimità politica fu radicale. Di qui si fece strada l’idea che il governo fondato sul consenso elettorale non era semplicemente rappresentativo degli interessi, ma costituzione di libertà. E nel 1792 Olympe de Gouges presentò al governo rivoluzionario una
Déclaration des droits de la femme nella quale venivano richiesti per le donne tutti i diritti civili e politici.
Siccome il voto è potere, non potersi difendere da esso godendo di un potere eguale si traduce nel sottostare a un potere arbitrario. In questa nuova concezione del voto è radicata l’idea della designazione elettorale diretta da parte dei singoli, in quanto non parte di gruppi, ceti o classi; non perché portatori di specifici interessi da difendere: ecco l’argomento rivoluzionario dell’idea del suffragio come diritto individuale nel quale si inserisce il suffragismo. Un movimento che cominciò proprio insieme all’idea del cittadino come parte uguale della nazione, sede del popolo sovrano. Ecco perché la decisione che la Consulta prese nel 1945 approvando l’estensione del diritto di voto ai cittadini e alle cittadine, “senza distinzione”, fu rivoluzionaria e coerentemente democratica.
Corriere 5.3.16
Il sessantotto in Italia. Un confronto con la Francia
risponde Sergio Romano

Non ho vissuto il Sessantotto come periodo storico, ma ne ho sentito molto parlare in diverse salse e con diversi condimenti e gusti. Vorrei solo sapere: 1)perché in Italia è durato quasi un decennio e sembra che si sia trascinato sconclusionatamente, 2) che cosa ha lasciato in eredità al nostro Paese? Un periodo storico credo che vada analizzato con molta freddezza e con i numeri non con enfasi, sminuimenti e ridicolizzazioni. Lei che cosa ne pensa?
Massimo Moletti

Caro Moletti,
Un confronto con il «maggio francese» può forse aiutarci a meglio inquadrare il fenomeno italiano. In Francia le proteste studentesche cominciarono all’inizio del maggio 1968 in una università parigina (Nanterre) ed esplosero con l’occupazione della Sorbona nella notte fra il 10 e l’11 maggio. Da quel momento la protesta si estese alle scuole, a molti uffici pubblici e a parecchie fabbriche dei sobborghi di Parigi. Vi fu certamente un momento in cui avemmo l’impressione che la vicenda assumesse una dimensione rivoluzionaria e avesse per suo principale obiettivo la repubblica presidenziale del generale De Gaulle. Ma le autorità, dopo uno smarrimento iniziale, dimostrarono di avere una strategia. Il Primo ministro Georges Pompidou separò gli operai dagli studenti aprendo con i sindacati un negoziato per nuovi contratti di lavoro che si concluse con gli «accordi di Grenelle» del 27 maggio. Il presidente della Repubblica sciolse l’Assemblea nazionale e chiamò i francesi alle urne per la fine di giugno: un voto che dette al partito gollista la maggioranza assoluta. Un milione di persone, nel frattempo, avevano manifestato lungo i Champs Elysées per chiedere il ritorno all’ordine.
Questo non significa, caro Moletti, che il maggio francese sia stato una rivoluzione fallita. Negli anni seguenti, lo spirito del ’68 operò una formidabile trasformazione delle mentalità, delle convenzioni sociali e dei costumi sessuali francesi.
In Italia le cose andarono molto diversamente. Le proteste studentesche erano iniziate nel 1967 e si estesero nel 1968 a quasi tutte le maggiori università italiane e a numerosi licei. Da quel momento, l’Italia divenne teatro di una interminabile sequenza di occupazioni, scioperi, cortei e, dal 1969, sanguinosi attentati terroristici che la destra attribuiva alla sinistra e la sinistra alla destra. A questa ininterrotta fermentazione della società nazionale corrispondeva l’instabilità politica: sei governi durante la IV legislatura dal 19 maggio 1968 al 28 febbraio 1972. Si fece strada in una parte della sinistra la convinzione che questa fosse la grande occasione storica, il momento per la svolta rivoluzionaria che l’Italia aveva mancato in altri momenti del suo passato. Ci vollero parecchi anni perché i dirigenti sindacali e quelli del Pci riuscissero a riprendere il controllo delle proprie fazioni più radicali. Fu questa, caro Moletti, la pesante eredità del sessantotto italiano.
La Stampa 5.3.16
«E ora vogliano crescere ancora»

Il 12 gennaio 2016 potrebbe essere ricordato come una data storica per Hollywood: quel giorno Wanda annunciò di aver acquistato Legendary Pictures per 3,5 miliardi di dollari. «Il tanto atteso e annunciato sbarco della Cina a Hollywood è avvenuto», scrisse Variety. Legendary («Jurassic World», «Steve Jobs», «Straight Outta Compton», «Interstellar» gli ultimi titoli di successo), passava così a Wang Jianlin, mentre voci di altre acquisizioni grandi si rincorrevano. «È possibile - disse Wang Jianlin quel giorno - vogliamo crescere ancora». Fino ad allora, l’intervento cinese su Hollywood era stato più discreto, come nel caso di «Revenant», il film che ha dato l’Oscar a DiCaprio: nel 2014 Alpha Group aveva stretto un accordo con New Regency Productions e investito 60 milioni di dollari in tre film da coprodurre e distribuire in Cina: uno dei tre era, appunto, «Revenant».
La Stampa 5.3.16
È cinese la maxi-catena dei cinema Usa
L’America vende Hollywood all’Asia
Wanda compra le sale Carmike ed è il maggiore operatore. La Miramax al Qatar
di Paolo Mastrolilli

Un tempo lo spauracchio era la colonizzazione giapponese, ma ora Hollywood non sa più dove voltarsi prima, per proteggersi le spalle. Cinesi, arabi, e chissà chi altro si prepara a lanciare il prossimo assalto. Oppure non intende minimamente difendersi, perché i soldi non hanno odore e gli investimenti sono sempre benvenuti, in particolare se arrivano da mercati in rapida espansione.
La riflessione diventa inevitabile dopo le notizie degli ultimi tempi. Ieri è arrivato l’annuncio che i cinesi del Wanda Group, già protagonisti a gennaio dell’acquisto dello studio di Jurassic World Legendary Entertainment per 3,5 miliardi di dollari, hanno comprato la catena di sale cinematografiche Carmike Cinemas.
Per la precisione è stata la Amc Entertainment, compagnia già posseduta dalla Wanda che controlla 5.425 schermi, ad acquistare Carmike, che ne gestisce 2.954, per la cifra di 1,1 miliardi. Un matrimonio perfetto, perché la prima opera soprattutto nei centri urbani, mentre la seconda nelle periferie, e quindi le loro sale non si sovrappongono.
In questo modo è nata la più grande catena di distribuzione cinematografica americana, superando la Regal.
Due giorni fa il BeIn Media Group del Qatar, in sostanza l’ex divisione sportiva di al Jazeera, ha comprato la Miramax da un gruppo di investitori guidato dal fondo Colony Capital. Per chi non lo ricordasse, questo studio ormai storico era stato fondato nel 1979 dai fratelli Harvey e Bob Weinstein, per sviluppare il cinema indipendente.
Aveva avuto così tanto successo - producendo da Pulp Fiction a Shakesperare in Love, fino al Paziente inglese e Non è un paese per vecchi - da trasformarsi nell’establishment. Molti altri studios lo avevano imitato, creando le proprie case indipendenti. Nel 1993 la Disney aveva acquistato la Miramax per 60 milioni, lasciando la gestione ai fratelli Harvey e Bob, che però nel 2005 l’avevano lasciata per fondare la Weinstein Company.
Nel 2010 avevano cercato di ricomprarla, quando la Disney l’aveva messa sul mercato, ma erano stati battuti dai 660 milioni offerti da Colony Capital. Ora il cerchio si chiude, e mentre la Miramax ha ripreso ad investire in produzioni come il nuovo Bridget Jones e Southside With You, che racconta la storia d’amore fra Barack e Michelle Obama, arrivano gli arabi con l’intenzione di «crescere nell’industria dell’intrattenimento e sviluppare nuovi contenuti».
Entrambe le mosse hanno senso economico. La Wanda sta sviluppando il mercato cinematografico cinese, che l’anno scorso ha fatto incassi per 6,78 miliardi di dollari, piazzandosi subito alle spalle di quello americano: creare una struttura che opera in entrambi i Paesi è logico, per chi vuole espandersi. Il BeIn Media Group invece si sta posizionando come il leader nel mondo arabo e in Africa, e quindi ha bisogno di produrre più contenuti, appoggiandosi a qualcuno già pratico del settore. Per Hollywood, poi, questi investimenti rappresentano un’occasione per crescere.
Nello stesso tempo, però, è inevitabile chiedersi se non sia in corso anche una colonizzazione culturale. Il presidente del Wanda Group, Wang Jianlin, ha servito a lungo nell’esercito della Repubblica Popolare e non fa mistero di appoggiare, o essere strumento, delle ambizioni espansionistiche del suo governo.
Al Jazeera ha un ruolo politico molto chiaro, mentre il Qatar è stato spesso accusato di finanziare almeno indirettamente l’estremismo islamico, a partire da gruppi terroristici come l’Isis. Magari non useranno Hollywood per promuovere queste cause, ma di certo rafforzano l’apparato culturale di due sistemi quanto meno in competizione con quello americano e occidentale.
Il Sole 5.3.16
Roma, ovvero il ring di Berlusconi e Salvini per la leadership nazionale
di Lina Palmerini

Silvio Berlusconi che ieri confermava Bertolaso come candidato sindaco di Roma non parlava solo della Capitale ma del futuro del centro-destra. Nel senso che la sua uscita - «non credo alle primarie, non ci ho mai creduto» - non è solo un altolà a Salvini sui gazebo romani ma è un’indicazione precisa su come verrà scelta – nel prossimo futuro – la leadership del centro-destra. La lotta non è tanto se Berlusconi debba essere ancora il candidato premier ma piuttosto è in gioco il suo ruolo di determinare il futuro della destra e il suo capo.
E dunque su Roma il Cavaliere e il giovane segretario leghista continuano a duellare - come ieri su Bertolaso - perché stanno giocando una partita che li proietta già sulle elezioni nazionali per mettere in chiaro come si sceglierà il capo della coalizione. Salvini vuole espropriare Berlusconi del suo ruolo di kingmaker e lui resiste e rilancia. Prima l’ex premier aveva i voti e aveva i soldi, oggi che ha meno voti e meno soldi - almeno per il partito – con le primarie firmerebbe il suo declino perché non avrebbe più nemmeno il ruolo di determinare il suo successore. Per questo ormai non torna indietro sul sindaco di Roma, perché cedere vorrebbe dire ammettere la sua irrilevanza presente e futura. Lui può accettare i gazebo ma solo come corollario di una scelta già fatta a monte – e infatti annuncia che sarà nelle piazze romane il 19 e 20 marzo – ma non può aprire una breccia che demolirebbe quel che resta della sua leadership.
È vero che a Milano Berlusconi è riuscito a imporre il suo candidato, Stefano Parisi, senza trovare troppi ostacoli. Ma lì la partita è completamente diversa. Lì c’è un governo regionale guidato da Roberto Maroni che si fonda su un’alleanza di centro-destra e qualsiasi scontro sul candidato sindaco avrebbe avuto un riflesso pure sulla Regione. Insomma, nel territorio di Maroni non si scherza e Salvini si è messo in riga. Roma invece è diventato il ring perfetto per un duello con l’ex premier di Forza Italia perché nella Capitale poteva anche osare una spaccatura del centro-destra.
Roma è quindi diventata un set perfetto per mettere in scena un quesito locale che rimanda al quesito nazionale: come e chi sceglie il candidato sindaco di Roma e dunque anche il nuovo leader del centro-destra per la sfida nazionale? Perché è evidente che una volta che si dà il via alla macchina delle primarie non si può più tornare indietro. Se si fanno a Roma è difficile che poi non si facciano per la scelta della premiership nazionale. Come si vede nel Pd, quello dei gazebo è un punto di non ritorno.
Unica piccola concessione del Cavaliere a Salvini è la decisione di allestire dei gazebo per indicare le priorità del programma per la città. Il nome però non si tocca, resta quello di Bertolaso. Di nuovo, in tarda serata, Salvini ha gelato l’ex premier dicendo che farà le primarie e che Bertolaso non è il suo candidato ma per quanto sia difficile capire come andrà a finire viene un sospetto. Se Berlusconi respinge così nettamente l’offensiva di Salvini, non sarà che qualche sponda l’ha trovata pure nella Lega? Viene da pensare che l’ex premier abbia calibrato una mossa potenzialmente dirompente con l’alleato più importante dopo aver trovato un qualche sostegno in via Bellerio. Insomma, il dubbio che anche nel Carroccio c’è chi non vorrebbe Salvini come prossimo leader del centro-destra c’è. Magari per lanciare Luca Zaia, per esempio.
il manifesto 5.3.16
Super Sunday della Nazione
Democrack. Domani le primarie dem, ma nella Capitale si teme il flop
Orfini: «Unico problema il meteo, faremo la danza del sole»
«Parlare di Verdini non ha senso, siamo di centrosinistra»
di Daniela Preziosi

Alla vigilia dell’apertura dei gazebo nella capitale arrivano gli ultimi endorsement. Non sono colpi di scena clamorosi, ma nella comunità dem fanno un po’ chiasso. A sorpresa per Roberto Morassut si pronuncia Alessandra Cattoi, braccio destro e fedelissima dell’ex sindaco Ignazio Marino: «Domenica sarò a Milano per un impegno preso in precedenza, non so se farò in tempo a votare. Nel caso voterei Morassut perché è più vicino alla mia visione di città». Roberto Giachetti invece incassa il sì dei big dell’area popolare cattorenziana: il ministro Delrio, il sottosegretario Angelo Rughetti. E Linda Lanzillotta, ex Pd poi in Scelta Civica oggi di nuovo approdata nel Pd: «Lo voterò perché il suo buon rapporto con Renzi potrà assicurare alle politiche per la rinascita di Roma il pieno sostegno del governo». Motivazione non elegante. Il messaggio ai romani, sempreché lo vengano a sapere, è: Giachetti ha l’appoggio del premier che doserà i suoi aiuti alla città a seconda di chi vincerà. Del resto è già andata così con Marino, che ha aspettato inutilmente i soldi per il Giubileo, sbloccati solo dopo il suo dimissionamento. Morassut, che renziano sarebbe ma nella competizione è sostenuto dalla sinistra del Pd romano, replica infastidito: «Ho motivo di ritenere che l’interesse per Roma del governo Renzi prescinderà dall’esito di queste primarie». Piccoli sgambetti finali. Come quello di Riccardo Magi, dei radicali italiani e vicino a Emma Bonino, che ora pensa di correre per il Campidoglio perché si dichiara «deluso» da Giachetti: «Siamo stupiti dal nulla di questa prima fase elettorale, in particolare dalle primarie del centrosinistra. Stiamo valutando la possibilità di una partecipazione diretta: entro prossima settimana decideremo». Giachetti, tessera radicale, ha già incassato l’appoggio di un pannelliano comitato di «radicali per Giachetti sindaco».
Oggi le ultime iniziative dei sei candidati. I due Roberti batterano le periferie popolose ma anche tese di problemi: Morassut chiuderà a Torbellamonaca, Giachetti a Corviale. L’affluenza di domenica è il vero busillis. La sfida alla camomilla non trascina ai gazebo. L’endorsement di Verdini potrebbe allontanare gli indecisi. Orfini tranquillizza i militanti: «L’ipotesi di una lista civica promossa da Verdini? Non credo che accadrà. Le nostre primarie sono di centrosinistra, la nostra coalizione è di centrosinistra, quindi parteciperanno elettori di centrosinistra e alle elezioni andrà una coalizione di centrosinistra». Peccato che il generale Domenico Rossi, candidato in quota Centro Democratico, faccia appello «al mondo cattolico romano» rivendicando la sua presenza al Family Day.
Nel 2013 ai gazebo arrivarono quasi 100mila persone. Oggi, dopo le traversie della giunta Marino, lo scoperchiamento delle vicende di Mafia Capitale e il commissariamento del Pd romano, fare il bis sembra impossibile. Nonostante le nuove regole che fanno votare gli immigrati, purché regolari, residenti nella Capitale e «pre-registrati», per evitare le immancabili polemiche. La pre-registrazione è possibile fino alle 12 di oggi. Ma a questo giro manca una fetta del tradizionale elettorato, quello di sinistra. Anche se le primarie di domani vengono puntigliosamente definite di «centrosinistra» grazie alla partecipazione di Rossi, dei Verdi, con l’ex viola ex ex arancione Gianfranco Mascia, e della candidata civica Chiara Ferraro, una venticinquenne affetta da una forma grave di autismo.
Per Morassut l’asticella dell’investitura popolare non può stare sotto i 50mila voti. Per Giachetti «bastano alcune decine di migliaia». Ma il renziano, consapevole del fatto che un flop rimetterebbe comunque tutto in forse, aveva chiesto di allungare la consultazione a due giorni, per aumentare la possibilità di voto. Il niet è arrivato da Stefano Pedica, altro candidato, ex Idv. «Per fare un favore a Morassut, di cui è la bad company», soffiano dal comitato Giachetti, convinti di essere favoriti dal voto di opinione. Il commissario Pd Matteo Orfini minimizza il problema: «Sono troppo esperto per dare numeri in queste occasioni. Vedremo, ma secondo me ci sarà una buona partecipazione. Stiamo ovviamente facendo la danza del sole, perché come sempre l’unica preoccupazione è il maltempo». Buona parte delle 195 urne infatti dovrebbe essere sotto i gazebo.
La Stampa 5.3.16
Giachetti nelle periferie per far dimenticare il Pd
Il candidato alle primarie contestato: “Siete quelli di mafia capitale”
di Giuseppe Alberto Falci

«Giachetti, i politici come lei hanno rubato tutto. Non è possibile venire qui per una passerella». Alle quattro di pomeriggio a Tor Sapienza al complesso Ater di viale Morandi, periferia abbandonata di Roma est, Irene, leader del movimento per il diritto all’abitare, non le manda a dire al candidato delle primarie del Pd Roberto Giachetti. Qui si trovano più 500 abitazioni. Decine di extracomunitari che hanno occupato alcuni locali all’interno dell’agglomerato. «Una volta c’erano farmacie, negozi. Adesso ci sono soltanto disperati», spiega un assessore del VII municipio.
In questo mese Giachetti ha macinato più di duemila chilometri, attraversando la Capitale in lungo e in largo. E ha riservato per il penultimo giorno di campagna elettorale delle primarie questo angolo dimenticato di Roma. Qui il problema sembra essere il famigerato articolo 5 del «Piano casa», una norma che regola gli sfratti. Omero, sulla cinquantina, se la prende con il candidato dem: «Siete tutti uguali, è venuto Orfini promettendo di risolvere la questione ma poi non si è fatto più vivo». Giachetti non si scompone. Anzi, risponde per le rime ai manifestanti: «Io non c’entro nulla. Non ho rubato. Non sono stato né con la giunta di Marino né con quella di Veltroni. Non pensate che sia venuto a fare passerella o a chiedere voti». Nonostante la pazienza di Giachetti, accompagnato dalla fedele Benedetta che gli detta i tempi («putroppo Roberto dobbiamo andare»), il grande accusato fra questi palazzoni è il partito democratico.
L’ombra di mafia capitale
Irene è una furia: «Lei sta con il Pd, lo stesso partito di Ozzimo, lo stesso partito di mafia capitale». L’aria non cambia nemmeno a Piazza De Cupis. Davanti alla scuola elementare Gesmundo l’ex radicale incontra il presidente dei commercianti, Mario Marchetti. La piazza è blindata da quattro camionette della polizia. Si teme una protesta da parte dei neri di Casapound. «Da minuto all’altro arriveranno e si scaglieranno contro Giachetti», annuncia Alberto, un pensionato seduto al Bar Valeri. Alberto non voterà mai per Giachetti perché «il Pd non è un partito di sinistra. L’unico che vedo di sinistra è Paolo Ferrero». Forte invece è il vento che gonfia le vele ai Cinquestelle. «Dopo un anno di disoccupazione a 250 euro al mese adesso lavoro per una ditta di pulizie. Ma questa volta non mi fregheranno. Ormai ho deciso: voterò i grillini», annuncia Pino. Brucia anche l’allarme sicurezza. Per il presidente dei commercianti Mario Marchetti è il problema numero uno: «Abbiamo un campo rom fra i più caldi di Roma. Inoltre, ci sarebbero tante abitazioni che rischiano di essere occupate. Ci sentiamo abbandonati». Questo quartiere sembra essere il manifesto dello scontento delle periferie. Un anno fu l’epicentro degli scontri fra residenti e migranti. Dovettero intervenire le forze dell’ordine. Giachetti però non si arrende. Non ha promesso denaro ma «competenze» per far diventare i municipi «veri e propri comuni». Basterà a placare questa rabbia?
L’appello ai cittadini
Nella lunga giornata il vice presidente della Camera non trascura nulla. Fa visita a un centro per anziani in viale Lepetit. L’accoglienza almeno stavolta è calorosa. Una signora l’invita a fare un match a burraco. «La ringrazio, ma non so giocare», risponde sorridendo. Giachetti ha fretta di andare, il pomeriggio di campagna elettorale è ancora lungo, ma la presidente del Circolo lo invita a dire due parole: «Qui la gente vuole sentire la sua voce, non la conoscono». Il candidato obbedisce, quasi incredulo. C’è ancora qualcuno che ha voglia di ascoltare un politico da queste parti. Prende il microfono e in poche parole spiega quale sia il suo programma: «Sono qui per ringraziarvi. Voglio dirvi semplicemente che sto raccogliendo tante idee per far ripartire Roma. Allo stesso tempo non ho alcune intenzione di fare promesse a vanvera. Non accadrà più quello che è successo negli anni passati. Però, vi dico anche che non bastano il miglior sindaco e la migliore squadra di assessori. Ogni cittadinodeve contribuire».
Pietro, un anziano seduto in un tavolo di burraco, dice all’amico: «È una brava persona, ma non lo voterò perché è del Pd». In fondo è questa la difficoltà di «Bobo». Vincere anzitutto contro la cattiva fama del suo partito.
Il Sole 5.3.16
Andrea Orlando
«Terrorismo, l’Italia dice no al coprifuoco
intervista di Donatella Stasio

«Non siamo in guerra, non ci sono stati strappi costituzionali e la missione in Libia non prefigura misure eccezionali contro il terrorismo». Il ministro della Giustizia Andrea Orlando assicura che, nonostante l’innalzamento del livello di allerta, «la strada scelta dall’Italia non è il coprifuoco» ma «il rispetto delle garanzie e dei diritti fondamentali».
«Non si tratta di tatticismo», in ossequio alla prudenza raccomandata da Renzi, spiega in questa intervista, ma di una scelta precisa, diversa dal «presunto pragmatismo» imboccato da altri Paesi, «destinato al fallimento».
Signor ministro, la missione italiana in Libia significa che siamo in guerra? In queste ore c’è chi denuncia uno strappo alle regole in nome dell’emergenza, sia per la mancanza di un preliminare passaggio parlamentare sia per aver previsto che la missione sarà diretta dall’Aise, il servizio segreto della sicurezza interna che risponde al premier e non alla Difesa...
Non siamo un Paese in guerra. Per la guerra ci sono le procedure previste dalla Costituzione. Il decreto presidenziale sulla missione in Libia non configura un’azione militare e i poteri del premier sono quelli contenuti in una legge approvata dal Parlamento. Quella prevista è un’attività di sicurezza e prevenzione. Un nostro impegno diretto è possibile solo nel quadro di una decisione della comunità internazionale. Peraltro, dobbiamo sapere di essere entrati in una fase storica in cui le categorie di guerra e di pace sono più sfumate. Abbiamo una dimensione che unisce il fenomeno della guerra all'attività di terrorismo internazionale e questo fa sì che l'attività di intelligence sia sempre più legata al monitoraggio di ciò che avviene sui teatri di guerra veri e propri.
L’incipit dell’articolo 2 del decreto presidenziale fa riferimento a «situazioni di crisi e di emergenza che richiedono l’attuazione di provvedimenti eccezionali e urgenti». È la premessa anche per eventuali leggi speciali contro il terrorismo, visto il contemporaneo innalzamento dell’allerta?
No. L’Italia ha agito in modo tempestivo, ben prima dei fatti di Parigi, con un decreto che ha superato i punti di debolezza del sistema, ampliando i poteri della Procura antiterrorismo, individuando alcuni reati funzionali alla repressione del terrorismo di matrice jihadista ed estendendo alcune attribuzioni dell’intelligence. Credo che le contromisure giurisdizionali siano già state prese tutte. Semmai, si tratta di portare a compimento alcune azioni di carattere amministrativo, come lo scambio di informazioni, e di monitorare il fenomeno della radicalizzazione in alcuni contesti, a partire dal carcere. Dico subito, però, che una normativa assunta solo in una dimensione nazionale avrà il respiro corto.
I migranti fuggono da Paesi che negano i diritti fondamentali ma si ritrovano in un’Europa che nega anch’essa quei diritti. Sullo sfondo c’è anche la paura del terrorismo...
Credo si debba riconoscere che l’Italia è sulla strada giusta, e ci si è messa prima di altri Paesi, perché tutte le altre strade sono percorse sulla base del presunto pragmatismo ma sono destinate al fallimento. L’idea dei muri mette in moto meccanismi destabilizzanti anche per i Paesi che pensano di essersi messi al riparo. La vera domanda è: quando arriveremo a una politica comune? Tutte le altre strade si sono rivelate e si stanno rivelando fallimentari. Ci sono Paesi che rischiano di far esplodere di nuovo un’area stabilizzata da pochi anni come quella dei Balcani.
La Francia, dopo gli attentati di Parigi, ha scelto la via di un socialismo pragmatico, appunto, più attento alla sicurezza interna che alla tutela dei diritti. «Ne faisons pas de juridisme» ha detto il primo ministro al Parlamento, riducendo a legalismo il rispetto delle regole giuridiche, contrapponendole alle esigenze di sicurezza dei cittadini. Possibile che le due cose siano in antitesi?
Bisogna trovarsi nella situazione che hanno vissuto i francesi per rispondere... anche se non mi convince molto la distinzione, penso utilizzata per fare i conti con un’opinione pubblica comprensibilmente terrorizzata.
Quindi, se noi fossimo attaccati, sarebbe tutta un’altra storia?
Non dico questo, anche perché noi non siamo in una situazione di tranquillità. Dico che dobbiamo rispettare le loro decisioni, augurandoci di non trovarci nella stessa situazione di fortissima tensione e lacerazione. Dalla nostra abbiamo il passaggio storico della lotta al terrorismo interno e quella guerra è stata vinta restando nel perimetro della Costituzione. Ed anzi, continuando a promuovere la sua attuazione legislativa.
«Resistere a volte vuol dire restare, altre volte andar via. Per dare l’ultima parola all’etica e al diritto» ha detto l’ex guardasigilli Christiane Taubira, dimettendosi in polemica con le scelte di Holland, tra cui il tentativo di rendere permanenti le misure eccezionali. Taubira era una che aveva le idee ben chiare sui diritti. Lei farebbe lo stesso?
Non lo so. Non credo sia semplice né opportuno giudicare le vicende interne di un Paese con cui cooperiamo nel contrasto al terrorismo. Detto questo, ho apprezzato molto il lavoro della Taubira e in questi due anni mi è capitato di trovarmi spesso su posizioni comuni in contrasto con quelle influenzate da populismo e xenofobia entrate anche nel dibattito dell’Unione europea.
Il filoso Ronald Dworkin diceva che il rispetto dei diritti umani non è un impiccio di cui liberarsi per placare la paura e riscuotere consensi ma è «la briscola», la carta vincente in ogni partita, anche quella sulla sicurezza. Il governo, tutto, si rispecchia, secondo lei, in questa metafora?
Il governo ha sensibilità diverse. Parlare di un’adesione collettiva a una visione filosofica è un azzardo. Però questa è la strada seguita fin qui. E l’abbiamo seguita fino in fondo.
Non è tatticismo, in ossequio alla prudenza raccomandata da Renzi?
Non credo che la posizione di Renzi si limiti alla prudenza. La sua è stata l'unica voce fuori dal coro quando ha detto, dopo Parigi, «Per ogni euro speso per la sicurezza, un euro va speso per la cultura». Il messaggio è chiaro: non solo repressione ma svuotamento dei bacini in cui si nutre l’odio. E così ci siamo mossi e in parallelo ha preso vigore una stagione di rafforzamento delle garanzie. Mi piace contrapporre la nostra azione, che tiene insieme sicurezza, rafforzamento delle garanzie e estensione dei diritti, a quella di altri Paesi: noi abbiamo chiuso gli Opg, abbiamo fatto la riforma della custodia cautelare, stiamo approvando quella sulle unioni civili ed è in atto la discussione sulla tortura.
È una strada impopolare. Lega docet...
Non lo so. Ma so che rinunciare a una cifra di libertà significa rinunciare alla libertà di tutti e che non bisogna piegarsi a una destra che ha imposto per anni un pensiero diverso. Non si tratta di essere impopolari o provocatori ma di rovesciare un’impostazione, perché può essere più conveniente per tutti. Se il prezzo per una presunta sicurezza totale è avere città come quelle che controlla l’Isis, abbiamo regalato la vittoria all’Isis. Non credo che gli italiani apprezzerebbero una vita regolata dal coprifuoco.
La tenuta di questa identità garantista del governo si misura anche su altri fronti, per esempio sul carcere. Gli Stati generali da lei indetti sono una grande sfida culturale per ridurre lo scarto tra diritti fondamentali e senso comune. Sempre che la montagna non partorisca un topolino...
Intanto arriviamo a questo grande appuntamento avendo fatto una serie di cose che lo giustificano, e cioè, progressi significativi sul sovraffollamento e sviluppo altrettanto significativo delle misure alternative. Ma, anche qui, non si tratta di sfidare l’impopolarità bensì di dire la verità, perché quando si parla di carcere non si va oltre gli slogan. Ricordo sempre che spendiamo 3 miliardi per il carcere ma abbiamo il più alto tasso di recidiva d’Europa. Il tema non è “carcere sì, carcere no” ma “quale carcere”, qual è la pena che fa uscire da un circuito nocivo per la tutela della sicurezza collettiva. È bene che si sappia che se le carceri sono un’università del crimine, il contribuente paga la formazione dei criminali.
Prima lei accennava alla radicalizzazione dei terroristi in alcuni contesti, a cominciare dal carcere. Il carcere dei diritti avrebbe gli anticorpi contro la radicalizzazione? E quali?
Il binomio è semplice: scrupoloso rispetto delle garanzie previste dalla legge, il che necessita di un costante controllo, e monitoraggio sui fenomeni. Sono due elementi da tenere insieme. Nessun eccezionalismo ma un controllo più stringente soprattutto nei bacini dove si ritiene sia più facile la radicalizzazione. Che non sono solo quelli che hanno matrice nel fondamentalismo religioso.
Ministro, due domane fuori tema imposte da un’altra attualità: il nuovo falso in bilancio ha spaccato la Cassazione e andrà alle sezioni unite dopo appena sette mesi di vita. Colpa dei giudici o della qualità scadente della riforma?
Premesso che risolvere contrasti è il mestiere della Cassazione, la stagione delle norme nitide è finita. Le norme penali sono sempre più spesso frutto di mediazioni estenuanti, in particolar modo in un governo in cui le posizioni di partenza sono molto distanti. Non bisogna quindi stupirsi della ricerca di un punto di equilibrio, anche se non privo di difetti, ma, semmai, di avercela fatta.
Così, però, si scarica costantemente sui giudici.
Credo sia un dato strutturale delle società post moderne, caratterizzate dalla frammentazione politica e, quindi, dall’esigenza di mediazioni. Questo lascia alle nostre spalle le grandi codificazioni e scarica sui giudici un ruolo sempre più importante, per cui il tema del “diritto vivente” diventa cruciale. Perciò condivido il grido d’allarme lanciato dal primo presidente della Cassazione Gianni Canzio.
Il 15 e 16 marzo lei presiederà a Parigi la Conferenza Ocse sulla corruzione. Ci andrà con una serie di misure adottate ma senza la riforma della prescrizione, in passato considerata dall’Ocse una priorità. Come si giustificherà?
Vado a Parigi con una posizione solida perché, dopo gli inasprimenti di pena introdotti dalla Severino e poi da noi, credo che in Italia sia diventato improbabile far prescrivere i reati di prescrizione.
Quindi la riforma è archiviata?
No, ma rispetto alla corruzione si può dire che il numero di processi prescritti dopo i nuovi aumenti tendono allo zero.
Corriere 5.3.16
Perché i teorici dell’attacco sono dovuti arretrare
di Massimo Franco

I teorici italiani di un attacco in tempi brevi sono costretti a battere in ritirata. Sta prendendo corpo un’unità nazionale inedita, che per paura e per lucidità si rende conto delle incognite di un’azione militare affrettata in Libia. Sono i fantasmi del passato e quelli di oggi a suggerire cautela. Nel marzo del 2011 i bombardamenti di francesi e inglesi, e poi i missili statunitensi, archiviarono l’era del dittatore Muhammar Gheddafi. Senza programmare il «dopo», però.
Il contraccolpo di quell’intervento è il caos libico odierno: un vuoto che rischia di essere riempito dall’Isis, Daesh, come si preferisce dire in Occidente usando la dizione araba che significa «seminatori di discordia». E lo spettro che adesso sconsiglia qualunque accelerazione è duplice. «Con atti di guerra cresce il pericolo del terrorismo», spiega il procuratore nazionale Franco Roberti. E si prevedono nuove ondate di migranti in fuga da una Libia sconvolta da un conflitto del quale saranno accusati l’Europa e l’Occidente.
Per questo, dopo le prime parole bellicose affiorate qui e là dopo la morte di due ostaggi (altri due sono stati liberati ieri), il «no» alla guerra è trasversale. Dal M5S alla Lega, passando per i partiti di governo, la consapevolezza di infilarsi in un gioco pericoloso è diffusa. Non basta l’idea di guidare una spedizione armata in una situazione di totale caos. Quello che in apparenza è un omaggio al prestigio nazionale, in realtà potrebbe rivelarsi presto una trappola. Per paradosso, la pressione degli alleati suggerisce a Matteo Renzi un supplemento di cautela.
La via maestra risulta dunque ancora di più un passaggio in Parlamento. L’obiettivo è di prendere il tempo necessario per capire che cosa sta realmente accadendo sul territorio libico; e solo dopo avere analizzato con freddezza le forze in campo, concordare una reazione. L’idea di bruciare i tempi senza aspettare quelli del governo di Tripoli è già tramontata. Fino a che non nascerà un esecutivo in grado di chiedere aiuto, l’Italia aspetterà. L’ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, ieri è stato di una chiarezza brutale. «La guerra in Libia l’hanno iniziata i francesi con gli inglesi», ha ricordato. «Ed è stata un disastro».
C’è più del sospetto che quei Paesi invochino una massiccia presenza militare italiana, perfino una leadership delle operazioni, per scaricare le proprie responsabilità. Ma per motivi diversi, i partiti sono uniti nel «no». No a un «nuovo Vietnam», secondo Alessandro Di Battista del M5S. No a un conflitto che porta «un’immigrazione selvaggia», per il leghista Roberto Maroni. Meglio una «santa alleanza» anche con russi e arabi, secondo Pier Ferdinando Casini, capo dell’Udc. Forse conta anche il fatto che, nei sondaggi, l’81 per cento degli italiani non vuole un intervento in Libia.
La Stampa 5.3.16
La strettoia e il conto alla rovescia
di Marcello Sorgi

Almeno una cosa è chiara, nel confuso scenario dell’intervento in Libia: Renzi non ha alcuna intenzione di entrare in guerra, né di accelerare la realizzazione degli impegni presi fin qui sul piano internazionale, in particolare con gli Usa, che premono perché l’Italia assuma effettivamente la guida della missione sulla sponda che guarda la costa siciliana. L’ondata emotiva sollevata giovedì dall’uccisione dei due operai italiani sequestrati, fortunatamente seguita ieri dalla liberazione degli altri due ostaggi, non ha fatto cambiare idea al presidente del Consiglio, sempre più convinto che in questo momento la Libia sia un vespaio, con in corso una guerra per bande, in cui sarebbe rischioso e sbagliato andarsi a cacciare.
Interventi «chirurgici», azioni di intelligence contro obiettivi mirati, sì. Ma niente fughe in avanti.
Renzi si è rafforzato nelle sue convinzioni ragionando proprio sugli opposti destini toccati ai quattro emigrati italiani: i primi due sarebbero stati vittime di una banda affiliata all’Isis.
Gli altri due sarebbero stati liberati dai loro avversari, che ovviamente, nel restituirli alle autorità italiane, si sarebbero presentati come nostri alleati.
In un quadro del genere, è difficile stabilire a chi credere e ancor di più capire che margini avrebbe un governo di unità nazionale imposto dalla comunità internazionale. Sta di fatto che quel governo che avrebbe dovuto insediarsi già uno o due mesi fa, ancora non c’è. Questo è l’esile gancio a cui è appesa la resistenza di Renzi. Una posizione razionale, ma giorno dopo giorno sempre più difficile da sostenere, mentre gli Usa bombardano con i droni partiti da Sigonella e francesi e inglesi sono già in Libia.
Ma così come gli attentati di Parigi del 2015 a Charlie Hebdo e al Bataclan sono considerati legati alla decisione di Hollande di scegliere la linea dura contro il terrorismo islamico e puntare sulla Libia, anche la sorte dei due operai italiani uccisi e degli altri due liberati prima di essere condannati a morte è il primo effetto del ruolo più visibile assunto dall’Italia. Basta solo ricostruire la sequenza delle ultime settimane: le lodi del segretario alla Difesa americana Carter all’Italia dopo l’incontro a Palazzo Chigi con Renzi e l’annuncio della disponibilità italiana a coordinare la missione in Libia.
L’incontro a Washington tra Obama e il presidente Mattarella, seguito dalla convocazione, da parte del Capo dello Stato, del Consiglio supremo di difesa, e dal decreto del governo che apre alla collaborazione, in Libia, tra i servizi e i corpi speciali delle Forze armate italiane. L’Italia è entrata così nel mirino dell’Isis, prima ancora di aver mosso un dito in territorio libico. E per Renzi, dopo quel che è accaduto agli italiani sequestrati, ora c’è una ragione in più per tenere subordinati gli impegni presi con gli alleati all’effettivo insediamento del governo libico e alla creazione di una coalizione internazionale in cui Usa, Francia e Inghilterra collaborino realmente, e non si muovano in ordine sparso come hanno fatto finora.
Una logica del genere, è inutile nasconderlo, in prospettiva è difficile da accettare per gli Usa, che avevano salutato la disponibilità italiana come garanzia di affidabilità di un vecchio alleato. Renzi insomma è entrato in una strettoia, perché in questo momento, in Europa, ha bisogno dell’appoggio di Hollande e Moscovici per ottenere flessibilità e aiuti per l’immigrazione, evitare la procedura d’infrazione e portare a casa l’approvazione della legge di stabilità a Bruxelles. Ma allo stesso tempo sa di non poter reggere a lungo le pressioni americane.
Pur razionale, di fronte alla confusione libica, la linea attendista che prevedeva un primo e un secondo tempo tra il dire e il fare - subito gli impegni diplomatici e solo dopo le iniziative strategiche e militari - è messa a dura prova. La sensazione è che anche per l’Italia il conto alla rovescia si stia avvicinando.
Il Sole 5.3.16
Intervista Franco Frattini ex ministro degli Esteri
«Il decreto era necessario»

Ma serviva proprio quel Decreto del presidente del Consiglio dei ministri, firmato da Matteo Renzi il 10 febbraio scorso per autorizzare l'invio in operazioni speciali all'estero di militari delle forze speciali equiparati agli agenti dell'intelligence?
Prima di rispondere Franco Frattini, oggi presidente della Sioi ma alle spalle una lunga carriera in Italia e a Bruxelles come vicepresidente Commissione Ue, ministro degli Esteri, responsabile dei servizi e presidente del Copaco ci tiene a fare una premessa. «Mi dispiace molto – osserva Frattini - avere letto sui giornali i contenuti di quel decreto, capisco le esigenze del diritto di cronaca ma ci sono cose che, nell’interesse del Paese e della sua sicurezza, non possono essere divulgate perché potrebbero finire nelle mani sbagliate».
Premesso ciò, secondo Frattini «era assolutamente necessario il Dpcm perché il decreto di rifinanziamento delle missioni all'estero del novembre 2015 rappresentava solo la base normativa che il Dpcm di febbraio ha tradotto in norme pratiche». E allora vediamole queste norme. Non c'è un tetto al numero dei militari dei corpi speciali che il premier può attivare per missioni speciali. Ciò significa che potrebbe chiedere di impegnare anche cento e più militari? «Anche se il numero massimo non è previsto – risponde il presidente della Sioi – per la loro natura si tratta di operazioni circoscritte, per numeri superiori ai 50 uomini è difficile, tra l'altro, non immaginare un coinvolgimento del Parlamento».
Ma il problema, secondo Frattini, è capire bene la natura della missione: «Se si tratta di fare un blitz in un edificio dieci uomini possono bastare, se si tratta di un quartiere allora me ne serviranno 50. Ma a decidere quale corpo impiegare per la missione è sempre la Difesa che, a seconda delle esigenze richieste, indicherà le forze più adeguate: San Marco o Comsubin se c'è proiezione dal mare, Tuscania o Col Moschin se occorrono paracadutisti e così via».
Come funzionerà la catena di comando? «È stata valutata la possibilità per la prima volta – spiega Frattini - di estendere temporaneamente le prerogative funzionali tipiche degli agenti dei servizi agli appartenenti alla Forze armate. Questo vale solo per il periodo della missione e finirà quando i militari torneranno ai reparti di origine. Durante le missioni i militari risponderanno ai responsabili delle operazioni che potranno essere anche agenti Aise ma sono situazioni temporanee». Non c’è il rischio di accentrare troppo potere in capo al presidente del Consiglio? «In realtà già la riforma del ’77 dei servizi, come poi quella del 2007, identificava nel presidente del Consiglio il responsabile ultimo della sicurezza nazionale; è sempre lui che presiede il Comitato per la sicurezza della Repubblica ed è giusto che sia lui a derogare dalle norme ordinarie per casi eccezionali». E il controllo parlamentare? «Per quello c’è il Copasir che potrà sempre chiedere i resoconti delle missioni ma non l’identità precisa degli agenti e trasmettere poi all’aula relazioni depurate dagli elementi più sensibili».
il manifesto 5.3.16
Da Pantelleria i voli top secret degli Stati uniti
di Antonio Mazzeo


Intelligence. L’uso dei due scali siciliani per le attività delle forze armate Usa in Nord Africa era stato denunciato un anno fa circa da alcuni blogger tunisini. Allora però si trattava di missioni che interessavano esclusivamente la Tunisia nelle aree di Monte Chaambi, Djebal Salloum e Foussena, al confine con l’Algeria (dove erano in corso violenti combattimenti tra le forze armate e i gruppi ribelli) e, successivamente, Sousse (la località turistica dove si è consumata l’efferata strage dei turisti in spiaggia), Hammamet e Bargou (governatorato di Siliana). Ora che Washington e la Nato minacciano di sferrare un attacco aeronavale in Libia, le operazioni d’intelligence sono state estese anche a buona parte del territorio settentrionale libico

Dalla Sicilia non solo droni per le operazioni di guerra in Libia. Us Africom, il comando statunitense per gli interventi nel continente africano, sta utilizzando un aereo spia che decolla quotidianamente dall’isola di Pantelleria o dall’aeroporto «civile» di Catania Fontanarossa per monitorare una vasta area tra la Libia e la Tunisia. Il velivolo è di proprietà dell’Aircraft Logistics Group Llc, società contractor del Dipartimento della difesa con sede a Oklahoma City, il cui vicepresidente è l’ex generale Peter J. Hennessey, già responsabile delle attività logistiche dell’Us Air Force durante l’operazione Enduring Freedom in Afghanistan.
I tracciati radar più recenti documentano che l’aereo dotato di sofisticate apparecchiature d’intelligence, sorveglianza e riconoscimento ha eseguito due missioni lo scorso 1 marzo. Decollato alle ore 5.34 da Fontanarossa, il Super King si è diretto sino a Misurata; dopo aver sorvolato per circa un’ora le coste ad ovest della città libica, l’aereo si è diretto a Pantelleria da dove è ripartito ancora verso la Libia alle 16.35 per atterrare infine in serata a Fontanarossa. Il giorno precedente, l’aereo-spia aveva percorso una rotta molto più contorta nel Mediterraneo volando ancora da Pantelleria sino a Misurata. Differenti le destinazioni invece il 26, 27 e 28 febbraio, quando da Catania e Pantelleria il Super King di Us Africom aveva raggiunto la Tunisia per sorvolare Sousse, Sfax, Monastir e le città più interne di al-Qaraiwan e Ouled Chamekh.
L’uso dei due scali siciliani per le attività delle forze armate Usa in Nord Africa era stato denunciato un anno fa circa da alcuni blogger tunisini. Allora però si trattava di missioni che interessavano esclusivamente la Tunisia nelle aree di Monte Chaambi, Djebal Salloum e Foussena, al confine con l’Algeria (dove erano in corso violenti combattimenti tra le forze armate e i gruppi ribelli) e, successivamente, Sousse (la località turistica dove si è consumata l’efferata strage dei turisti in spiaggia), Hammamet e Bargou (governatorato di Siliana). Ora che Washington e la Nato minacciano di sferrare un attacco aeronavale in Libia, le operazioni d’intelligence sono state estese anche a buona parte del territorio settentrionale libico.
Rispondendo nel giugno 2015 ad alcune interrogazioni del M5S, il ministero della difesa aveva ammesso di aver autorizzato Us Africom a «rischierare sino al 31 maggio 2015 sulla base aerea di Pantelleria un assetto civile non armato e gestito da una compagnia privata, al fine di consentire l’esecuzione di missioni di riconoscimento e sorveglianza nel Nordafrica (a fronte delle quali non si è al corrente di specifici accordi fra la Tunisia e gli Stati uniti)». Il ministero aggiungeva che in base di un «apposito accordo tecnico di contingenza», il distaccamento dell’Aeronautica italiana forniva ai contractor Usa un «limitato supporto tecnico-logistico» e che l’Ambasciata Usa aveva comunque avanzato una richiesta di proroga sino alla fine del 2015 «attualmente in fase di valutazione da parte dello Stato maggiore».
La proroga è stata accordata senza che il Parlamento venisse poi informato. Pantelleria è stata utilizzata in questi ultimi mesi anche per gli scali tecnici di velivoli in dotazione alle forze speciali Usa impegnate in missioni top secret in Libia. Lo scorso 14 dicembre sarebbe atterrato nell’isola un aereo C-146A «Wolfhound» proveniente dalla base aerea di al-Watiyah a sud ovest di Tripoli. Che Pantelleria sia destinata a fare da vera e propria «portaerei naturale» per i prossimi raid multinazionali in Libia è provato dal vertice tenutosi il 5 febbraio presso il locale distaccamento dell’Aeronautica tra il responsabile del 3° Reparto dello Stato Maggiore, gen. Gianni Candotti e il gen. David M. Rodriguez, comandante in capo di Us Africom. «La visita è proseguita con un tour presso le strutture di Pantelleria, tra cui lo storico ed imponente hangar, scavato all’interno di una piccola montagna», riporta una nota emessa dal Comando aereo.
il manifesto 5.3.16
I Signori del caos
Il fronte libico. L’establishment occidentale ha fallito
di Marco Revelli

A passi felpati e a occhi bendati l’Italia si avvia alla guerra. Per certi versi, a contare i caduti sul terreno, c’è già dentro.
E la fortunata soluzione per i due altri lavoratori che hanno avuto il coraggio di liberarsi e sono vivi, comunque fa capire che a Sabratha di un «assaggio di guerra» si è trattato, vale a dire del caos e della ambiguità nel quale rischieremmo di precipitare se solo l’Italia intervenisse in armi in Libia. Ma purtroppo, come in altri momenti oscuri della storia, ci si avvia a una nuova avventura coloniale che ha tutte le caratteristiche per annunciarsi disastrosa, e lo si fa nelle condizioni peggiori.
Con poche idee (forse nessuna). In un quadro di collaborazione sgangherato (mentre a Roma si chiede la «guida delle operazioni», americani inglesi e francesi già operano per conto loro). Con i peggiori alleati che ci si possa immaginare: Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, i foraggiatori di quell’Isis che si dice di andare a combattere. E  come riferimento l’orrendo generale Haftar in quella Cirenaica in cui, nella prima metà del secolo scorso, noi italiani – con generali che si chiamavano Badoglio e Graziani – abbiamo perpetrato una vera e propria pulizia etnica, deportandone la popolazione e facendo oltre centomila morti in operazioni di repressione e quarantamila nei lager messi su lungo quella costa da cui oggi partono i barconi.
Così a sud. Mentre a nord, sulle spiagge di Calais, il socialista Hollande attacca a colpi di ruspa la città dolente dei profughi di altre guerre, in combutta col conservatore Cameron il quale annuncia che, di quella moltitudine di fuggiaschi, non ne accetterà più di 5000 all’anno ma in compenso donerà 20 milioni di euro al governo francese, per compensarne la complicità.
E a est nuovi fascismi crescono, a murare la Grecia di Alexis Tsipras, unico paese capace di una cosmopolitica umanitaria, già prosciugato dalle vessazioni economiche di un’Europa a sua volta murata nel proprio egoismo e ora condannato a divenire un enorme campo profughi a cielo aperto.
L’immagine che ne emerge è quella di una classe dirigente disastrosa. Spaventosamente al di sotto delle sfide che è chiamata ad affrontare. Uomini, in prevalenza, ma anche donne – poche, ma potenti – dai volti ingessati, di circostanza. (Si pensi alle foto di gruppo dei summit europei), che si riempiono la bocca promettendo Ordine, Sicurezza, Responsabilità, Rispetto delle Regole, e sono in realtà i Signori del Caos. Incapaci di immaginare le condizioni elementari della convivenza civile e di un sistema di relazioni tra persone, gruppi sociali, popolazioni razionalmente e umanamente sostenibile.
Non è solo Matteo Renzi – che pure quanto a faciloneria e demagogia non scherza – con il suo giglio magico, incerto tra la grande catastrofe dell’intervento armato aperto e la piccola catastrofe dell’azione coperta, anche agli occhi del Parlamento, ma comunque incapace di pensare un’alternativa alla guerra.
È tutto l’establishment politico e finanziario occidentale che ha fatto fallimento. E che continua a riproporsi, fallendo. Nel silenzio, e nella penombra spessa che ha avvolto il mondo della cultura, incapace di pensare un’alternativa di sistema nell’età dei tramonti.
È quanto Luciano Gallino, nel suo ultimo libro-testamento, ha descritto parlando della sconfitta del «pensiero critico» e del «trionfo della stupidità» su scala globale (gara nella quale l’Oscar spetterebbe probabilmente di diritto ai vecchi partiti socialisti e socialdemocratici europei, che come ha scritto Piero Bevilacqua «si ritirano dai valori della propria storia»).
Pesa dunque, in uno dei momenti più difficili e pericolosi del passaggio di secolo, il vuoto lasciato aperto dalle vecchie sinistre, tutte, quale più quale meno, in dissoluzione, mentre le nuove crescono a macchia di leopardo, impetuose in alcuni Paesi – non per nulla bersaglio di oligarchie politiche e finanziarie europee e globali -, fragili e stentate in altri (il nostro in primis).
Su questo scenario, e questi compiti, dovrebbe concentrarsi l’impegno delle nostre frastagliate e disperse forze, fuori da tatticismi, competizioni intraspecifiche, piccole rivalità, grandi vuoti mentali.
Prima che siano la guerra e i disumani populismi a dettare le regole del gioco. 5.3.16
Corriere 5.3.16
Multe per Etruria. C’è papà Boschi
di Federico De Rosa

Bankitalia ha comminato 2,2 milioni di multa a 27 manager di Banca Etruria. Tra loro l’ex vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre della ministra delle Riforme Maria Elena.
MIlano Pier Carlo Padoan assicura che «non c’è nessun rischio di tracollo delle banche». Da Londra, dove ieri ha parlato alla Guildhall, il municipio della City, il ministro dell’Economia ha ribadito che la tenuta del sistema non è a rischio, cercando di frenare l’ondata di vendite che a Piazza Affari è tornata a colpire le banche. Le parole di Padoan hanno rallentato le vendite limitando allo 0,3% il calo dell’indice Ftse Mib, ma non sono riuscite a salvare i titoli bancari. A riaccendere i timori è stata innanzitutto Carige, in ribasso del 9,6% in seguito alla notizia che la Bce ha chiesto un nuovo piano per «adeguarsi ai requisiti di vigilanza» dopo aver rivisto i conti e portato a 101 milioni il rosso. Una tegola che arriva proprio mentre la banca genovese si appresta a rinnovare il consiglio. Ieri è scaduto il termine per il deposito delle liste e dopo quella di Malacalza Investimenti, che punta su Giuseppe Tesauro alla presidenza e Guido Bastianini come amministratore delegato, anche Gabriele Volpi ha presentato il suo elenco con tre candidati, guidato da un manager di lungo corso: Claudio Calabi. La debolezza di Carige ha contagiato Intesa Sanpaolo, in calo del 2,02%, Unicredit (-2,2%) e Ubi (-1,9%). Più accentuato il ribasso di Bpm e Banco Popolare, arretrate rispettivamente del 3,3% e del 4,2% in attesa del parere della Bce sul piano di integrazione. Il mercato inizia ad avere dubbi. In più ora c’è anche l’incognita dell’assemblea dove i sindacati hanno annunciato battaglia sull’integrazione emettendo un comunicato unitario in cui definiscono «non scontato» il matrimonio Milano-Verona. I sindacati hanno un peso importante, soprattutto in Bpm. Più passano i giorni, insomma, è più c’è la sensazione che le complessità stiano aumentando.
Sulla tenuta del sistema continua ad aleggiare il sospetto che la montagna di sofferenze accumulate, e le difficoltà per smaltirle, possano richiedere nuovi interventi. A Londra ieri Padoan ha riconosciuto che le sofferenze «rappresentano un freno per la crescita» ma ha chiarito che si tratta di 89 miliardi di crediti netti e non di 201 miliardi che è il valore lordo. E comunque «non c’è nessun rischio di tracollo».
La Stampa 5.3.16
Etruria, Bankitalia multa gli ex vertici per 2,2 milioni
Sanzionato il papà del ministro Boschi
di Gilda Ferrari Francesco Spini

Su Banca Etruria si abbatte la scure di Banca d’Italia, che ha comminato un totale di 2,2 milioni di sanzioni a 27 tra amministratori, sindaci e manager del vecchio istituto poi finito in procedura di risoluzione. Tra questi spicca l’ex vice presidente Pier Luigi Boschi - papà del ministro Maria Elena - cui toccherà sborsare 130 mila euro. Cifra analoga è stata comminata all’ultimo presidente dell’istituto aretino, Lorenzo Rosi e all’altro vice, Alfredo Berni, oltre che ai consiglieri Andrea Orlandi e Luciano Nataloni. Per l’ex direttore generale, Luca Bronchi, la sanzione ammonta a 129 mila euro. Mentre per il predecessore di Rosi al timone della banca, Giuseppe Fornasari, la Banca d’Italia ha fissato una multa di 69.500 euro. Sono gli esiti della procedura aperta nel maggio del 215 dopo l’accertamento ispettivo che Via Nazionale ha condotto tra il novembre del 2014 e il febbraio dell’anno successivo. Insomma la stessa ispezione , sottolineano da Palazzo Koch, che portò la Banca d’Italia «a proporre al ministero dell’Economia si sottoporre la banca ad amministrazione straordinaria» disposta poi il 10 febbraio dell’anno scorso.
Ma quella di ieri è stata una giornata nera per le banche anche in Borsa, dove ha pesato la decisione presa dalla Bce nei confronti di Banca Carige. All’indomani della notizia della bozza di decisione della Bce che chiede all’istituto ligure un diverso piano di gestione della liquidità e nuovo piano industriale che «tenga conto del deterioramento dell’attuale scenario rispetto alle previsioni» e «rifletta nuove considerazioni sulle opzioni strategiche del gruppo», il titolo a Piazza Affari è crollato, perdendo il 9,6% a 0,57 euro e polverizzando il +6,4% guadagnato nella seduta di giovedì, quando i mercati avevano brindato alla lista dell’azionista di maggioranza Malacalza Investimenti (17,58%) con il giurista Giuseppe Tesauro indicato per la presidenza, Vittorio Malacalza vice presidente e Guido Bastianini amministratore delegato in pectore.
Quella di Bastianini e Tesauro sarà dunque una corsa contro il tempo, poiché dopo l’assemblea degli azionisti programmata il 31 marzo i nuovi vertici di Carige dovranno adottare un nuovo piano industriale entro il 31 maggio. Non solo. La Bce ha anche allargato la perdita dai 44,6 milioni denunciati a 101,7 milioni, obbligato alla svalutazione integrale dell’avviamento residuo, pari a 57,1 milioni, che non provoca impatti sul patrimonio, i cui ratio (Cet1r al 12,2%) sono stati confermati. L’organo di vigilanza chiede anche un diverso funding plan entro il 31 marzo. Un piano sostanzialmente già pronto - almeno secondo quanto ritengono in banca - in parte realizzato con emissioni di «covered bond» da 850 milioni e in parte in via di realizzazione con cartolarizzazioni di leasing e cessioni del quinto, con un effetto sulla liquidità da 500 milioni.
Intanto ieri è arrivata la lista di minoranza di Assogestioni (2%) per il rinnovo del cda. Il comitato dei gestori ha reso noto che la lista è guidata da Giulio Gallazzi, seguono Mariella Tagliabue e Massimo Desiderio. Il patto Coop Liguria, la Fondazione Cr Savona e Fondazione Cr Carrara candida Remo Checconi e Silvano Tabò. Attesa la lista a tre di Gabriele Volpi (6%) e Aldo Spinelli (2%) che vedrebbe in prima posizione Claudio Calabi, ex presidente di Rcs e attuale numero uno di Risanamento, seguito da Sara Armella.
Repubblica 5.3.16
Pell, l’imbarazzo del Vaticano: “Indifendibile”
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO. Il cardinale australiano George Pell, super prefetto del dicastero dell’Economia vaticana, per la Santa Sede è un “caso”. E in Vaticano cresce il silenzioso esercito pronto a brindare per vederlo sollevato d’autorità dal suo prestigioso incarico. «Ormai non è più difendibile » dicono Oltretevere quanti (anche tra vescovi e cardinali) sono rimasti «delusi e sconcertati » per le risposte date dal porporato in teleconferenza alla Commissione australiana che indaga sui preti pedofili nella ex diocesi retta da Pell.
Malumori che, però, non emergono nelle parole del portavoce papale, padre Federico Lombardi, che – parlando ieri alla Radio Vaticana – ha dato atto al cardinale di «aver contribuito a purificare la memoria della Chiesa» nella lunga deposizione rilasciata alla Commissione d’inchiesta quando, tra l’altro, ha chiesto scusa per non essere stato capace in passato di difendere le vittime dai preti pedofili.
«Per un atteggiamento simile c’è solo una strada da intraprendere, quella delle dimissioni », filtra tra i prelati dei Sacri Palazzi, in particolare negli ambienti della Penitenzeria Apostolica, il dicastero preposto al giudizio sui grandi peccati (i Delicta Graviora), tra i quali le violenze sessuali di prelati sui minori. E c’è anche chi – per sostenere le tesi del “partito” delle dimissioni “immediate” di Pell – ricorda che «è stato proprio papa Francesco a dire, di ritorno dal Messico, che i vescovi colpevoli di omesso controllo sui casi di pedofilia tra il clero devono dimettersi».
Di tutt’altro tono l’analisi di padre Lombardi, secondo il quale Pell ha dato «una testimonianza personale dignitosa e coerente» ricordando che «in molti Paesi i risultati dell’impegno di rinnovamento sono confortanti, i casi di abuso sono diventati molto rari e quindi la maggior parte di quelli di cui oggi si tratta appartengono a un passato relativamente lontano di diversi decenni». Un risultato «né piccolo, né indifferente» che per il portavoce pontificio si deve «all’impegno coraggiosamente dedicato dai Papi ad affrontare le crisi manifestatesi successivamente in diversi paesi e situazioni, come Stati Uniti, Irlanda, Germania, Belgio e Olanda, Legionari di Cristo, con norme e ordinamenti di controllo più restrittivi».
«Le ammissioni di colpa del cardinale Pell lasciano abbastanza indifferenti, in quanto oramai sono passati 15 anni e ben tre Papi, siamo oramai abituati alle scuse, oramai non più credibili per noi vittime », risponde invece Francesco Zanardi, portavoce della rete L’Abuso, organismo di tutela e di denuncia di casi di pedofilia tra il clero. Ma proprio ieri da Lione è arrivata un’altra pesantissima denuncia per un cardinale, il francese Philippe Barbarin, accusato di aver coperto alcuni sacerdoti colpevoli di violenze sessuali nei confronti di scout nel periodo compreso fra il 1986 e il 1991.
Corriere 5.3.16
La scoperta raccontata da Carlo Rovelli
Storia delle onde gravitazionali
. Lo spazio s’increspa come un lago
Cento anni dopo la teoria di Einstein l’annuncio in diretta mondiale sul web: «Abbiamo rilevato le onde gravitazionali». Il trionfo di un piccolo gruppo di ostinati ricercatori
di Carlo Rovelli

Il mondo della fisica era in fibrillazione da settimane. Le regole del gioco, che servono per ridurre il rischio di falsi allarmi, imponevano riserbo fino all’annuncio ufficiale, e i colleghi tenevano la bocca cucita. Ma lo scintillio dei loro occhi li tradiva. In fondo è un Nobel praticamente certo. Ieri, in un’emozionante conferenza stampa seguita in diretta sul web nel mondo intero, è arrivato l’annuncio ufficiale: rilevate le onde gravitazionali. Per i fisici è un momento estatico. Fino al giorno prima, le uniche onde fondamentali osservate dall’uomo erano le onde elettromagnetiche, quelle di cui sono fatti i segnali radio e la luce. Ieri è stato osservato un altro tipo di onda. È come se dovessimo riscrivere la Genesi, sostituendo «Fiat lux» con «Fiat lux et gravitatis fluctus». Sono onde un po’ simili a quelle elettromagnetiche, ma anche qualcosa di diverso e strano: sono oscillazioni dello spazio. Lo spazio si increspa e oscilla come la superficie di un lago.
Ne conoscevamo già l’esistenza molto prima di vederle
L’aspetto più spettacolare di questa storia non è la stranezza della Natura, né la maestria degli scienziati che hanno costruito l’antenna capace di rilevare le onde di spazio. Quello che è straordinario è che noi conoscevamo l’esistenza di queste onde molto prima di vederle: la loro esistenza è predetta della relatività generale di Albert Einstein, di cui abbiamo appena festeggiato il centenario. Se la Natura benigna voleva onorare Einstein a cent’anni dalla sua teoria, ha trovato il modo più elegante. Difficile immaginare un’indicazione più chiara della forza di un pensiero che, appoggiandosi sugli indizi e sulla ragione, è capace di vedere così lontano; tanto che occhi e mani hanno bisogno di un altro secolo per seguirlo. Per arrivarci, è stata necessaria una vasta collaborazione internazionale, dove gli italiani hanno — ancora una volta — un ruolo maggiore. Eravamo convinti che queste onde esistessero. Ma una cosa è essere convinti che esistano leoni. Un’altra è cercare un leone vero e guardarlo negli occhi. La differenza è ciò che chiamiamo «scienza».
Sono state prodotte dallo sfracellarsi di due buchi neri
L’esistenza di queste «onde di gravità» è conseguenza del fatto che niente va più veloce della luce. La luce impiega otto minuti per arrivare dal Sole a noi. Se il Sole fosse spazzato via adesso, magari da una stella di neutroni che pazzia per la galassia (evento improbabile), che succederebbe nei successivi otto minuti sulla Terra? Risposta: niente. Perché non c’è modo qui di sapere che il Sole non c’è più, nessun messaggio ha avuto il tempo di arrivare. Ma la gravità del Sole tiene la Terra sulla sua orbita, quindi per otto minuti la Terra sarebbe ancora attratta dal Sole, anche se il Sole non c’è più! Nel corso di questi otto minuti, qualcosa deve viaggiare nello spazio, portando l’informazione che il Sole non c’è più, e l’attrazione del Sole deve spegnersi. Questo qualcosa, è un’onda gravitazionale: il propagarsi rapido di una minuta deformazione dello spazio. Le onde osservate ora dal Ligo (Laser interferometer gravitational-waves observatory: osservatorio di onde gravitazionali a interferometria laser) sono state prodotte da un evento catastrofico: lo sprofondare di due buchi neri uno nell’altro. Erano ciascuno pesante diverse decine di volte il Sole, e nel loro sfracellarsi spiraleggiando l’uno sull’altro hanno irradiato nello spazio una quantità di energia pari a tre interi «Soli» vaporizzati in pochi istanti. La violenza dell’evento ha prodotto onde che come uno tsunami galattico hanno viaggiato milioni di anni nello spazio interstellare e ora sono arrivate a sciabordare, indebolite, sulle nostre antenne.
Il ruolo dei fisici italiani
Un’antenna per osservare queste deformazioni dello spazio è semplice in linea di principio. Basta prendere due oggetti, due palle appese a un filo, e misurare con precisione la distanza fra loro. Un’onda gravitazionale fa cambiare, oscillare, la distanza, perché lo spazio si stira e si tira come un filo per stendere che oscilla al vento. Il problema è che il cambiamento è piccolo, e rilevarlo richiede ingegneria avanzatissima. Ligo misura la distanza fra due grandi masse sospese a distanza di qualche chilometro, per mezzo di un laser che rimbalza fra le due e fa interferenza con un secondo laser che rimbalza fra due masse disposte a novanta gradi. Per questo le antenne sono costruzioni con due lunghi bracci perpendicolari. Il leggero sfasamento fra i due bracci è quello che si misura. In Italia c’è una simile antenna presso Pisa, chiamata Virgo, parte integrante della vasta collaborazione che ha portato al risultato di ieri. Anche Virgo ha due bracci lunghi qualche chilometro. È uno spettacolo visitarli. Virgo non era accesa quando c’è stato l’evento celeste visto da Ligo, ma i fisici italiani che hanno costruito Virgo hanno giocato un ruolo essenziale. L’Italia è in primissima fila nel mondo e la ricerca delle onde gravitazionali è di antica tradizione da noi — risale alla lungimiranza di Edoardo Amaldi, allievo di Enrico Fermi, padre nobile della fisica italiana del dopoguerra e del dipartimento di Fisica a Roma — ed è stata condotta su molti fronti. Ricordo, studente a Trento, le esplorazioni artigianali e geniali di Massimo Cerdonio e Stefano Vitale che, forse troppo in anticipo sui tempi, provavano a usare i superconduttori come piccole antenne per rilevare le onde di spazio… Un briciolo di amarezza di non essere stati i primi a «vedere», ma anche per i fisici delle onde gravitazionali italiani è momento del trionfo: Virgo è, come Ligo, un macchina straordinaria che ora diventa un fantastico telescopio per osservare l’universo. Perché quello di ieri non è un punto di arrivo, è un punto di partenza: abbiamo aperto nuovi telescopi sull’universo. Siamo al punto in cui Galileo, dopo aver perfezionato il suo cannocchiale, è riuscito a usarlo per vedere il cielo. Quello che vedremo, nuovamente, ci stupirà.
Quella cena con Isaacson negli anni Novanta
Alla costruzione di queste antenne hanno partecipato decine di fisici, tecnici, ingegneri, e torme di studenti. Per decenni. Nei primi anni Novanta ero giovane professore in America, e Richard Isaacson era venuto a Pittsburgh, dove insegnavo. Richard era il responsabile per la fisica della gravitazione della National science foundation, l’agenzia americana che assegna i fondi per la ricerca scientifica. Aveva appena deciso, in prima persona, come si usa in America, di investire fondi cospicui per Ligo. L’obiettivo era rilevare le onde in cinque anni. Io avevo manifestato perplessità. Lui, di passaggio da Pittsburgh, voleva capirne i motivi. Cenavamo assieme a un piccolo tavolo in uno di quei simpatici ristoranti etnici che costellano le zone universitarie americane. Mi chiese se avessi dubbi sull’esistenza delle onde gravitazionali. «Praticamente nessuno». Critiche al principio della misura? «No», tutto limpido. Allora? Le onde sono deboli, ricordo gli risposi, e prima che la tecnologia arrivi a vederle, passerà tempo. Gli chiesi cosa gli desse la convinzione che ci si potesse arrivare. La risposta fu netta: la fiducia in Kip Thorne. Kip è uno dei grandi relativisti. Lavorava a Caltech. È lo stesso Kip Thorne che ha partecipato alla scrittura del film Interstellar: merito suo se oggi anche l’uomo della strada si è convinto che sia possibile rincontrare la propria figlia, più anziana di sé. Qualche anno dopo, incontratolo a una conferenza, gli chiesi cosa gli avesse dato la sicurezza per convincere Isaacson della fattibilità della misura. Kip ha aspettato a lungo prima di rispondere, guardandomi negli occhi. Poi mi ha chiesto: «Secondo te non dobbiamo provarci?». Sono passati venticinque anni. Finalmente ho capito: aveva ragione Kip. Oggi abbiamo visto le onde gravitazionali.
La fede nella ragione
È un trionfo per la scienza, un ennesimo trionfo per Einstein, un trionfo per Thorne e Isaacson, e la loro scommessa da poker. È un trionfo per una piccola comunità di ostinati ricercatori, in America come in Italia, che ha passato la vita a costruire delle macchine fantastiche, con finanziamenti molto più piccoli di quelli del Cern, inseguendo un sogno: vedere onde di tipo completamente nuovo, che nessuno aveva mai visto prima. Un sogno basato su una fede strana, la fede che la ragione scientifica funzioni: che le deduzioni logiche di Einstein e della sua matematica siano affidabili. Solo che la fede nella ragione è una fede peculiare: una fede a cui non si crede davvero fino in fondo, si chiede sempre di controllare. Abbiamo controllato. Ci sono. È un grande giorno per la scienza. Per fortuna Isaacson non ha badato ai miei dubbi.
Quella cena con Isaacson negli anni Novanta
Alla costruzione di queste antenne hanno partecipato decine di fisici, tecnici, ingegneri, e torme di studenti. Per decenni. Nei primi anni Novanta ero giovane professore in America, e Richard Isaacson era venuto a Pittsburgh, dove insegnavo. Richard era il responsabile per la fisica della gravitazione della National science foundation, l’agenzia americana che assegna i fondi per la ricerca scientifica. Aveva appena deciso, in prima persona, come si usa in America, di investire fondi cospicui per Ligo. L’obiettivo era rilevare le onde in cinque anni. Io avevo manifestato perplessità. Lui, di passaggio da Pittsburgh, voleva capirne i motivi. Cenavamo assieme a un piccolo tavolo in uno di quei simpatici ristoranti etnici che costellano le zone universitarie americane. Mi chiese se avessi dubbi sull’esistenza delle onde gravitazionali. «Praticamente nessuno». Critiche al principio della misura? «No», tutto limpido. Allora? Le onde sono deboli, ricordo gli risposi, e prima che la tecnologia arrivi a vederle, passerà tempo. Gli chiesi cosa gli desse la convinzione che ci si potesse arrivare. La risposta fu netta: la fiducia in Kip Thorne. Kip è uno dei grandi relativisti. Lavorava a Caltech. È lo stesso Kip Thorne che ha partecipato alla scrittura del film Interstellar: merito suo se oggi anche l’uomo della strada si è convinto che sia possibile rincontrare la propria figlia, più anziana di sé. Qualche anno dopo, incontratolo a una conferenza, gli chiesi cosa gli avesse dato la sicurezza per convincere Isaacson della fattibilità della misura. Kip ha aspettato a lungo prima di rispondere, guardandomi negli occhi. Poi mi ha chiesto: «Secondo te non dobbiamo provarci?». Sono passati venticinque anni. Finalmente ho capito: aveva ragione Kip. Oggi abbiamo visto le onde gravitazionali.
La fede nella ragione
È un trionfo per la scienza, un ennesimo trionfo per Einstein, un trionfo per Thorne e Isaacson, e la loro scommessa da poker. È un trionfo per una piccola comunità di ostinati ricercatori, in America come in Italia, che ha passato la vita a costruire delle macchine fantastiche, con finanziamenti molto più piccoli di quelli del Cern, inseguendo un sogno: vedere onde di tipo completamente nuovo, che nessuno aveva mai visto prima. Un sogno basato su una fede strana, la fede che la ragione scientifica funzioni: che le deduzioni logiche di Einstein e della sua matematica siano affidabili. Solo che la fede nella ragione è una fede peculiare: una fede a cui non si crede davvero fino in fondo, si chiede sempre di controllare. Abbiamo controllato. Ci sono. È un grande giorno per la scienza. Per fortuna Isaacson non ha badato ai miei dubbi.
Corriere 5.3.16
Pensiero ed esperienza
Contraddirsi? A volte aiuta
La recente conferma sperimentale delle onde gravitazionali intuite da Einstein riapre il dibattito (mai pacificato) sui fondamenti del metodo scientifico e su come possano convivere tecnica e senso comune
di Emanuele Severino

Princìpi
Kurt Gödel ha dimostrato la possibilità che lo sviluppo della conoscenza matematica implichi anche delle contraddizioni

Nobel: il fisico Albert Einstein, (1879 - 1955), premio Nobel nel 1921. Previde le onde gravitazionali nel 1915, registrate il 14 settembre 2015.

In una lettera inviata a Max Born alla fine del 1926, Albert Einstein scrive: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato». Da dieci anni aveva incominciato a render nota la teoria della relatività generale, in cui viene dedotta l’esistenza delle «onde gravitazionali», ora finalmente osservate da un laser di altissima tecnologia. L’«osservazione» è un «esperimento». In esso viene constatato un «fatto», ossia una certo evento — ad esempio un punto luminoso (interpretato come «stella») che in un telescopio opportunamente predisposto coincide con una lineetta nera del reticolato. Ma, dice Einstein, «nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione» — e che quindi egli aveva ragione nel prevedere, ad esempio, l’esistenza delle «onde gravitazionali».
Si può dire che in sostanza l’affermazione di Einstein si muova nell’ambito del concetto aristotelico di «induzione» ( epagoghé ): si può osservare per un numero di volte alto quanto si vuole che le cose di una certa specie hanno una certa proprietà ma da queste osservazioni non si può concludere che tutte le cose di quella specie abbiano questa proprietà e che quindi mostreranno, nelle osservazioni successive, di avere tale proprietà. Non si può infatti escludere che, dopo un gran numero di conferme, il laser che ha consentito di sperimentare le «onde gravitazionali» non abbia più a mostrarne l’esistenza. È improbabile quanto si vuole ma non impossibile.
Queste considerazioni non scalfiscono minimamente l’enorme importanza della sperimentazione di quelle onde. Anche perché la seconda parte dell’affermazione di Einstein — «un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato» — non è così fuori discussione come può sembrare (soprattutto dopo gli sviluppi che essa ha avuto nell’epistemologia di Karl Popper). Infatti, se è possibile che il laser di cui si sta parlando, abbia a mostrare l’opposto di quel che ha mostrato, è anche possibile che in seguito torni a mostrare quel che in primo tempo ha mostrato. Se per «aver ragione» intorno a una tesi si intende che nessun esperimento potrà far osservare qualcosa di opposto a essa, allora, certamente, un unico esperimento può mostrare che questa tesi è sbagliata.
Ma che dire di un laser che nella maggior parte dei casi abbia a mostrare l’esistenza delle onde gravitazionali e solo in uno o in pochi altri casi non abbia a mostrarla? Che dire di un motore che una volta o poche volte non ha funzionato ma che per lo più funziona bene? Lo si butterà via? La scienza ha imparato a non buttar via le conoscenze che funzionano come questo motore. Anzi, quando riesce a guardare sé stessa, si rende conto che nessuno dei suoi principi «ha ragione» nel senso qui sopra indicato: nessuno è universalmente valido e definitivamente vero. L’estrema potenza che la scienza e la tecnica sanno oggi produrre è proprio dovuta al rifiuto di conoscenze che abbiano la pretesa di essere universali e definitive. La potenza si è tolta la maschera della verità ed è diventata il valore supremo. Il valere non è forse l’avere potenza?
E i supremi principi della tradizione filosofico-scientifica? Ad esempio il «principio di non contraddizione»? Per essa non può venire smentito dai «fatti». Tale principio afferma: È impossibile che, nel medesimo tempo, una cosa abbia e non abbia una certa proprietà. La tradizione ha creduto che come non può essere smentito dai «fatti», così non è affermato in base alla loro osservazione. Che un segmento di retta — crede la tradizione — non possa essere nel medesimo tempo maggiore e minore di un altro segmento non lo si afferma perché finora non abbiamo osservato segmenti di retta che nello stesso tempo siano maggiori e minori di altri; ed è impossibile che lo si osservarvi in futuro.
Certo, queste sono le intenzioni della tradizione. Negli ultimi due secoli è emersa la tendenza a ritenere che quel principio non è una verità assoluta e definitiva ma ha un valore pratico (si pensi a Nietzsche o a Lukasiewicz). Se si vuol esser potenti, bisogna che, quando lo si è, non si sia contemporaneamente impotenti. E d’altra parte, se la contraddizione (per esempio il mentire) rende potenti, perché non contraddirsi? Ma la questione è estremamente complessa, e non può essere qui districata. Limitiamoci ad alcune osservazioni.
I due contributi fondamentali della fisica contemporanea — teoria della relatività e fisica quantistica mostrano — almeno sinora, di essere tra loro in contraddizione. Ma nessun fisico rinuncerebbe per questo a servirsi di entrambi. E se Kurt Gödel ha dimostrato la possibilità che lo sviluppo del sapere matematico abbia a implicare delle contraddizioni, qualora ciò avvenisse i matematici non volterebbero le spalle alla matematica esistente. L’esperimento che ha fatto osservare l’esistenza delle onde gravitazionali è stato salutato con legittima soddisfazione perché non smentisce la teoria della relatività. Ma che cosa significa non smentirla? Significa che non l’ha contraddetta. Se l’avesse contraddetta, i fisici avrebbero incominciato a dubitare della sua validità ma non smetterebbero di praticarla. In questo modo la fisica mostra la volontà di non contraddirsi. La quale è insieme volontà che la realtà non sia contraddittoria: volontà, pertanto, che i «fatti» che smentiscono il contenuto di una teoria e questo contenuto non abbiano a coesistere. Si metta da parte, si pensa, il mito della verità assoluta e definitiva del «principio di non contraddizione»; ma è «meglio» — «opportuno», «conveniente», «utile», fortificante — evitare la contraddizione.
Che nelle opere e nelle conoscenze sia «meglio», in molti casi, non contraddirsi è un precetto ampiamente seguito. D’altra parte i grandi principi della cultura occidentale, come appunto il «principio di non contraddizione», si presentano come dogmi, miti che non riescono a mostrare la loro innegabilità. C’è oggi una certa propensione ai «fatti», all’«esperienza», piuttosto che ai «princìpi»; perfino in campo matematico. Tra la previsione teorica delle onde gravitazionali, operata dalla logica e dalla matematica della teoria della relatività, e l’esperimento che ha fatto osservare la loro esistenza, è questo secondo, tendenzialmente, ad avere l’ultima parola. Una tendenza diffusa, ovunque si tratti di confrontare le teorie ai «fatti» — e, questo, anche se è a sua volta diffusa la convinzione che i «fatti» non siano puri fatti ma «carichi di teoria» (come si sostiene, sia pure in modi diversi, in un certo settore della filosofia del nostro tempo e nella fisica quantistica).
Presente, quella tendenza, anche negli ambiti apparentemente più distanti dalle questioni qui considerate. Ad esempio in ambito giuridico. In sede giudiziaria, la deduzione logica dell’esistenza di un «fatto» (la deduzione che propone una «teoria») non ha la stessa forza di convinzione di una testimonianza affidabile. Il testimone è infatti colui che sperimenta un fatto. Se i giudici decidono che la sua testimonianza sia affidabile, essa è da loro ritenuta più affidabile della teoria consistente nella deduzione logica che conduce all’affermazione o alla negazione dell’esistenza di quel fatto. Questo, anche se il decidere che una testimonianza sia affidabile è un enorme «carico» che viene messo sulle spalle del fatto testimoniato.
Ho inteso mostrare alcuni aspetti del farsi largo, nel nostro tempo, della volontà di potenza. Poi, la gran questione è il senso di tale volontà. Essa è presente sin dall’inizio della storia dell’uomo. E continua ad esserlo anche quando il popolo greco, dando inizio alla storia dell’Occidente, incomincia a pensare il senso della verità innegabile, cioè a credere nella differenza tra volontà e verità. Oggi la volontà di potenza si sta liberando della verità. Sta diventando estremamente coerente. Ma siamo sicuri che non si tratti della coerenza della Follia?