sabato 19 gennaio 2019

Corriere 19.1.19
Il nuovo numero Nel supplemento anche il progetto di oggi, a Venezia, per lo storico mercato del pesce
Marco Polo investiva su Rialto
«La Lettura» svela l’inedito
di Ida Bozzi


Una bellissima storia che ha mille anni eppure è (di nuovo) solo all’inizio: la vicenda del mercato di Rialto a Venezia, con un progetto culturale e commerciale per la sua rinascita. Il tutto, nello spirito e sotto il nume tutelare di Marco Polo (1254-1324).
Sul nuovo numero de «la Lettura», il #373 (che sarà in edicola fino a sabato 26 gennaio), un ampio servizio di Carlo Vulpio entra nel cuore di questa vicenda. Che è poi la storia stessa di una città unica al mondo: fin dal X secolo Rialto, cioè Rivoaltus, nucleo originario di Venezia sul Canal Grande, era il fulcro delle grandi rotte commerciali e la porta accogliente, aperta ed evoluta tra l’Oriente e l’Occidente. Così importante che i grandi commercianti e mercanti-viaggiatori avevano pressoché tutti a che fare con Rialto e il suo vivacissimo mercato.
Anche Marco Polo: su «la Lettura» #373 vengono pubblicati per la prima volta due documenti inediti che lo riguardano, scovati nell’Archivio di Stato di Venezia da Luca Molà, docente di Storia del Rinascimento all’Università di Warwick, Inghilterra. Rarissimi e da vedere, perché di documenti sull’attività di Marco Polo mentre era ancora in vita ne esistono appena una decina negli archivi. Uno dei due è proprio l’atto notarile del 2 settembre 1317 con cui Marco Polo prestò una cifra allora cospicua, 400 ducati, a un mercante veneziano affinché li investisse a Rialto.
Ma Rialto, in cui rimane un mercato che si sta spopolando e non somiglia più a quello della Venezia di Marco Polo, vuol rivivere: proprio Luca Molà, insieme con i docenti dello Iuav Donatella Calabi e Paolo Morachiello, ha in progetto di creare un «Museo di Venezia nel Commercio internazionale» che ripenserebbe lla Loggia della Pescheria e le Fabbriche Nuove, con il rilancio del mercato ittico, la nascita di luoghi di cultura, l’apertura di padiglioni gastronomici.
E la gente del luogo, con l’associazione «Rialto Nuovo», sostiene il progetto dei tre accademici, che sarà presentato il 1º febbraio a Venezia, nell’Ateneo Veneto, e che già sembra interessare le istituzioni, dal Comune alla Regione e le imprese: un ponte — proprio come quello famoso di Rialto — tra cultura e commercio.
Nel supplemento si affrontano molti altri argomenti: il tema di apertura, cui sono dedicate 5 pagine, è la bellezza. Se ne parla nella conversazione curata da Alessia Rastelli tra il fisico teorico Vincenzo Barone, il filosofo Remo Bodei e lo scrittore spagnolo Manuel Vilas. Bellezza anche come conoscenza, emozione, relazione con il sacro e il tribale: ne scrive Nuccio Ordine a partire dal nuovo saggio (Sull’estetica, Raffaello Cortina) del grande sociologo Edgar Morin. Mentre lo storico Alessandro Vanoli affronta il tema della bellezza e del rapporto con le immagini nel mondo islamico e il sinologo Maurizio Scarpari racconta il concetto di estetica nella tradizione cinese fino alla commistione globalizzata di oggi.
Immagine del mondo, immaginario del mondo: tra i servizi della sezione Libri, due interviste ad altrettanti noti autori di universi fantastici. Il creatore di Eragon, Christopher Paolini, autore dei bestseller fantasy del «Ciclo dell’eredità» parla a Severino Colombo del nuovo libro di racconti (La forchetta, la strega e il drago, Rizzoli, in libreria dal 22 gennaio), ma anche del rapporto con la tecnologia e perfino con la cucina. E il russo Dmitrij Gluchovskij illustra, nel dialogo con Emilio Cozzi, i suoi progetti multimediali, la serie dei romanzi Metro (Edizioni Multiplayer) che ha dato vita a videogame e giochi da tavolo, alla vigilia dell’uscita del videogioco Exodus (dal 15 febbraio su tutte le piattaforme di gioco).
Tra i mondi raccontati nel numero, molti sono reali: ad esempio, la sanità italiana. Su «la Lettura» #367 del 9 dicembre 2018, Giuseppe Remuzzi aveva dibattuto sul rapporto tra privato e pubblico anche in quest’ambito con il politologo Maurizio Ferrera e l’esperto di orientamento scolastico Francesco Dell’Oro. Sulle tesi di Remuzzi ora risponde l’ex ministro della Salute Girolamo Sirchia: si possono leggere affiancate le posizioni di Sirchia (il privato aiuta la sanità pubblica) e la risposta di Remuzzi (salute e mercato non vanno d’accordo). Altri temi: la fine del «finale» (dopo la scelta del film Bandersnatch, nuovo capitolo di Black Mirror, di far decidere allo spettatore gli snodi della trama) raccontata da Aldo Grasso; la Napoli della scrittrice Heddi Goodrich, americana che vive in Nuova Zelanda, intervistata da Cristina Taglietti; e l’Africa narrata da chi ci è nato, in un testo di Wilbur Smith.
Repubblica 19.1.19
Inchiostro e dintorni
La bella scrittura contagio gentile
di Irene Maria Scalise


Il 1985 ha segnato, per le scuole italiane, la fine dell’obbligo d’insegnare la bella calligrafia ai bambini. Da allora quei piccoli studenti, e non solo, hanno posato la penna e sono diventati un popolo di digitatori. Oggi a mano si scrive poco, pochissimo e soprattutto male.
Ma (curiosamente) in questa storia c’è un ma. Ultimamente si sta infatti verificando un ritorno all’arte della bella calligrafia. E così saranno in molti a festeggiare il 23 gennaio, sdoganato come National Handwriting Day, la Giornata nazionale della scrittura a mano. In quell’occasione accade l’impensabile: gli opposti si attraggono e i più accaniti frequentatori dei social cominciano a postare foto della loro miglior grafia.
Dopo il revival dei dischi in vinile ecco dunque il ritorno del pennino. Come si spiega? Lezioni di calligrafia come risposta alla natura glaciale di mail e WhatsApp è lo scenario suggerito da Francesca Biasetton, artista, calligrafa e presidentessa dell’Associazione Calligrafica Italiana: « C’è una sorta di saturazione per il digitale e quindi torna la voglia di scrivere e noi, come associazione, registriamo un interesse crescente » . È d’obbligo una precisazione: «In Italia usiamo lo stesso termine per indicare tre cose e cioè la scrittura a mano che s’impara nelle scuole, la scrittura a mano educata e la calligrafia che si apprende con corsi specifici » . Chi sono gli studenti? Spiega Biasetton: « In questi 27 anni abbiamo riscontrato una forte crescita degli allievi giovanissimi e dall’anno dell’apertura è scesa molto l’età. Ci sono persone che arrivano per imparare un mestiere e approfondiscono i modelli storici e la conoscenza delle diverse scritture. Ma anche quelli che si avvicinano per hobby per riscoprire un tempo lento, dimenticandosi del cellulare per qualche ora, e usano la calligrafia come una forma di meditazione » . Che tipo di atteggiamento è consigliato agli aspiranti calligafi? « Come accade nello studio di uno sport o nella musica bisogna fare allenamento. Si parte dal passato per arrivare alla pratica quotidiana » . Cosa si scrive in bella grafia? « Diplomi, scritte per eventi, loghi, lettering per editori».
L’Associazione Calligrafica Italiana ha 300 iscritti, in diverse città, e organizza visite alle biblioteche, studio delle lettere antiche e corsi di formazione. Ce n’è anche uno di una settimana con insegnanti che arrivano da tutto il mondo ». Responsabile dei corsi e delle attività Aci è Anna Schettin. Spiega: « Molti si iscrivono perché vogliono migliorare la loro scrittura quotidiana; altri, invece, vorrebbero avvicinarsi al mondo della bella scrittura per conoscere i vari stili. Il nostro obiettivo è che l’arte non sia solo decorativa ma un modo per riprodurre la nostra storia » . Quali sono i corsi più frequentati? « Quelli di scrittura gotica sono amatissimi dai ragazzi e dai writer – racconta Schettin – piacciono anche quelli con il pennino a punta sottile, quelli di corsivo inglese e si sta diffondendo la passione per la calligrafia con il brush pen, in pratica un pennarello con la punta di un pennello. In generale c’è una crescita esponenziale dei nativi digitali che vivono la calligrafia come scoperta» .
Da sei anni è stata inaugurata Scriptorium Foroiluliense ( Scuola Italiana Amanuensi). Racconta il direttore Roberto Giurano: « I nostri corsi sono frequentati da chi vuole diventare amanuense e da chi ha solo la passione e l’ 80 per cento degli allievi sono giovani. Indubbiamente i ragazzi sono pieni di entusiasmo ma hanno un difetto, vorrebbero fare tutto subito, mentre nella scrittura non bisogna avere fretta » . Le materie sono le più varie: « Insegniamo scrittura antica ma anche grafica e nuove tecnologie, in pratica si parte dalla pennino d’oca per arrivare ad Acrobat » . E c’è anche una crescita professionale: «I corsi, spesso con allievi americani, russi e cinesi, sono di tre livelli; superato il primo, si è ammessi a quello successivo per un totale di quattro mesi».
Infine la scrittura come funzione sociale e integrazione: « Abbiamo un progetto con 20 carceri per il reinserimento sociale dei detenuti mediante la creazione di manufatti » . E come opportunità di reinventarsi un lavoro: « Facciamo agende, alberi genealogici, segnaposti per eventi, copiatura di libri ». Gli allievi migliori? «Le donne perché sono più perfezioniste».
Corriere 19.1.19
Israele, terra di tesori
Meraviglie archeologiche ma anche kibbutz: venite a scoprire il Paese con il «Corriere della Sera»
di Davide Frattini


La città vecchia di San Giovanni d’Acri, Masada, i giardini Bahai ad Haifa, i siti archeologici di Megiddo, Hazor, Beer Sheva, i villaggi nabatei scavati nella roccia desertica del Negev, il quartiere Bauhaus disegnato dagli architetti europei a Tel Aviv. Sono i beni locali (c’è anche la basilica della Natività a Betlemme, su raccomandazione dei palestinesi) già tutelati e inseriti nella lista planetaria dell’Unesco, tesori che nelle sue tappe il viaggio del Corriere visita in gran parte.
Da anni la commissione israeliana presso l’ente delle Nazioni Unite chiede che i kibbutz vengano aggiunti a questo patrimonio dell’umanità. Come il DNA di un dinosauro scomparso o i ruderi di un fortino in disfacimento, i villaggi che sopravvivono uguali a cent’anni fa — collettivi e socialisti — sono rimasti solo 65 su 279. La mensa per tutti, la stalla vicino alla biblioteca, i canti attorno al fuoco, gli asili comunitari. Cimeli di un passato da pionieri che la maggior parte degli israeliani considera superato. Un passato che il gruppo di studiosi e ricercatori vuole preservare a partire dal progenitore Degania — già in attesa di ammissione nell’elenco dell’Unesco — costruito nell’ottobre del 1910 sulle rive del lago di Tiberiade.
Gli immigrati arrivati dall’Europa agli inizi del secolo scorso stabiliscono le comunità agricole nelle piane (spesso acquitrini da bonificare) che il nostro viaggio attraversa durante lo spostamento da Tel Aviv verso il nord del Paese. Alla fine di marzo, dopo le piogge intense dei due mesi precedenti, i campi sono ancora verdi, come le colline della Galilea che salgono tra Haifa e Nazareth: il bianco delle tipiche case a un piano spicca ben visibile, anche se la vita all’interno ha subito una rivoluzione opposta a quella sognata dai fondatori. La maggior parte di questi villaggi è stata privatizzata per limitare l’emorragia di denaro e adepti. Nel 2007 si sono arresi pure i 320 abitanti di Degania e l’85 per cento ha votato per abolire la frase incisa nello statuto originario: «Il 25 di Tishri 5671 (28 ottobre 1910, ndr), noi compagni, dieci uomini e due donne, abbiamo fondato un insediamento indipendente di lavoratori ebrei. Una cooperativa, senza sfruttatori e senza sfruttati. Una comune» .
Anche la Città Vecchia di Gerusalemme – con tutta la sua complessità è al centro del viaggio del «Corriere» – è stata inserita su richiesta della Giordania nel forziere dell’Unesco che protegge i tesori culturali e naturali. Il naso rivolto all’insù, gli occhi spalancati, è verso queste pietre che Yitzthak Yifat rivolge lo sguardo commosso. Tiene l’elmetto tra le mani, assieme ai commilitoni ha combattuto per i vicoli, è tra i primi israeliani ad arrivare davanti al Muro del Pianto: è il 7 giugno del 1967, i macigni incastrati uno sopra l’altro puntellano da un paio di millenni la speranza e la volontà degli ebrei di tornare a pregare qui, ormai sorreggono anche la Spianata delle Moschee, il terzo luogo più sacro per l’islam.
La Sura 17 del Corano racconta della notte in cui Maometto fuggì sulla bestia mitologica chiamata Buraq alla «moschea più lontana» – in arabo «al- Masjid al-Aqsa – dove guidò in preghiera un gruppo di profeti prima di ascendere in cielo. Nel 691, quasi sessant’anni dopo la sua morte, il califfo Abd Al-Malik ibn Marwan diede ordine di costruire una moschea sulla roccia al centro del monte a 740 metri sul livello del mare.
Nella tradizione ebraica quella roccia è il punto d’incontro tra il Cielo e la Terra, è la rupe a cui Abramo ha legato Isacco, è il basamento del Primo e del Secondo Tempio, che venne distrutto dai romani nel 70. Lo aveva ricordato Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, quando un paio di anni fa aveva polemizzato con i diplomatici che avevano sostenuto una di serie di risoluzioni votate proprio all’Unesco: «Cancellano la nostra storia e il legame che unisce gli ebrei al Monte del Tempio». Li aveva invitati a visitare l’Arco di Tito a Roma: sul marmo è inciso ed esaltato il saccheggio di Gerusalemme, il bottino di guerra che comprendeva anche la menorah a sette bracci. Il candelabro a olio acceso dai sacerdoti per illuminare il Secondo Tempio è ancora il simbolo di Israele.
La Stampa 19.1.19
Milano celebra il cinquecentenario di Leonardo riprendendosi per tre mesi la Madonna Litta
di Egle Santolini


La Madonna Litta torna a casa, a Milano, per le celebrazioni leonardesche: la notizia arriva da Londra, dove l’assessore alla Cultura del Comune Filippo Del Corno ha presentato alla National Gallery il palinsesto del cinquecentenario, con la vicesindaca londinese Justine Simons che, in epoca di Brexit e di divisioni, ha sottolineato «il potere unificante della cultura», lodando «la capacità di visione della città di Milano».
Il prestito arriva dall’Ermitage di San Pietroburgo, che permette dopo circa trent’anni il ritorno del quadro nella città dove venne dipinto nel 1490, alla corte degli Sforza. Dopo un possibile passaggio ad aprile alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, la Litta sarà il fulcro di una mostra in corso al Museo Poldi Pezzoli dal prossimo 8 novembre fino al 10 febbraio 2020, intitolata «Intorno a Leonardo. La Madonna Litta e la bottega del Maestro», che farà reagire il dipinto ospite, attribuito a lungo al genio vinciano ma al centro da tempo di polemiche, con la Madonna della rosa del Poldi Pezzoli, eseguita intorno al 1485-1487 da Giovanni Antonio Boltraffio che di Leonardo è stato tra gli allievi migliori e, secondo diversi studiosi, potrebbe essere il vero autore della Litta.
L’occasione, nell’anno che celebra il cinquecentenario della morte, è dunque quella di ragionare sul circolo leonardesco, e in mostra andrà anche un numero limitato e prezioso di quadri e disegni provenienti da tutto il mondo. Certo la Litta, seppure di dubbia paternità, ha conosciuto nei secoli un’enorme fama. Venduta nel 1865 dagli eredi Visconti al duca Antonio Litta che la conservò nel suo palazzo di corso Magenta, poi passata allo zar Alessandro II, fu riesposta all’Ermitage subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e rappresenta per i russi una specie di simbolo del ritorno alla pace.
E il 16 maggio la festa comincia al Castello Sforzesco con la riapertura della Sala delle Asse in restauro. Il salone di rappresentanza del Duca decorato a trompe-l’œil con un pergolato di gelsi viene presentato al pubblico senza ponteggi e dopo una nuova fase di lavori.
La Stampa TuttoLibri 19.1.19
L’artista di Morin è uno sciamano che ci aiuta a conoscere noi stessi
Da Beethoven a Orson Welles, dalle serie tv al fumetto, dalla cucina alla camera da letto: il filosofo spiega perché non possiamo fare a meno dell’esperienza estetica
di Federico Vercellone


L’estetica non riguarda soltanto le modalità secondo le quali gli uomini si relazionano consapevolmente all’opera d’arte in quanto creatori o fruitori. Sarebbe troppo poco ritenere che essa concerna solo la riflessione sul prodotto artistico già ultimato e già disposto nelle sedi che gli sono deputate, che si tratti della galleria, del museo, della biblioteca o della sala da concerto. Un atteggiamento di questa natura non riesce infine a rispondere al quesito fondamentale circa il perché abbiamo a che fare con l’arte e non possiamo farne a meno. Se delle profondissime motivazioni estetiche non si annidassero nelle radici dell’essere umano, ecco che all’arte potremmo in fondo tranquillamente rinunciare. Quando ci si dimentica di questo, come oggi troppo spesso avviene, l’arte finisce per diventare un nobile brand, un «bene» culturale ed economico. E questo coincide con una cultura nella quale l’estetizzazione dei prodotti, il loro design va di pari passo con la loro forza sul mercato.
Su questa base non si capirebbe per altro perché l’umanità abbia da sempre creato opere d’arte. Proprio di qui si avvia la riflessione estetica di uno dei grandi filosofi ed epistemologi del nostro tempo, Edgar Morin del quale Cortina pubblica ora Sull’estetica. Morin rileva che la necessità di un’espressione caratterizzata esteticamente, e cioè non finalizzata ad altro che a produrre il proprio splendore percorre non solo la vicenda umana nella sua interezza, ma anche, quantomeno a tratti, quella degli animali. Il dispiegarsi delle penne del pavone non può per esempio essere ridotto a un’esibizione rivolta alla conquista della femmina. Si tratta piuttosto di una manifestazione dotata di una portata autonoma che si può legittimamente definire come estetica. Il grande bacino della poesia e della poetizzazione della vita è ben più ampio di quello dell’arte soltanto, e contempla – secondo Morin - tutti i momenti di partecipazione empatica e intelligente del mondo che aprono la via alla sua comprensione.
L’atteggiamento estetico è, per Morin, quello con cui si vengono a oltrepassare i limiti della soggettività, la quale conosce così una condizione estatica. L’artista è, in altri termini, un soggetto che cade in una sorta di trance controllata. Quell’irrazionalità dell’arte di cui si è sin troppo parlato, non è in fondo che questa minaccia di aprire le porte dell’io asserragliato su sé stesso. L’atteggiamento estetico, in breve, mette in questione il carattere schermato e chiuso del soggetto moderno. L’artista, tornando a Morin, è una sorta di sciamano che viaggia fuori di sé facendo provare sensazioni analoghe ai suoi fruitori. L’estasi è in breve condivisa sia dal creatore sia dal fruitore. Né potrebbe essere diversamente poiché altrimenti l’opera d’arte risulterebbe muta e incomprensibile. L’arte, in breve, produce, in chi la crea e in chi la fruisce, una sorta di reincantamento empatico del mondo disincantato dalla razionalità tecnologica.
L’arte inaugura da questo punto di vista, in tutte le sue forme, una diversa relazione del soggetto con il mondo. Si tratta di un surplus vitale che accompagna la relazione estetica con il mondo. Questo vale per la letteratura, per le arti figurative nella loro mutevole configurazione, e soprattutto per la musica che incarna il linguaggio affettivo più intimo e toccante, e dunque più prossimo a questa dimensione di esteriorizzazione dell’Io. La quale per altro non è enfatica: per esempio siamo posseduti da una musica anche, semplicemente, quando una canzone o un ritornello continuano a tornarci in mente e, letteralmente, non riusciamo a prender congedo da loro. In ogni caso grazie all’arte veniamo a contatto con il nostro io profondo, ci conosciamo meglio trasferendoci nello spazio dell’opera e della sua trama, dei suoi personaggi e dei loro sentimenti. Un atteggiamento di questa natura fa sì che l’estetica preceda l’arte per fondare quest’ultima antropologicamente, e consente per altro di allargare lo sguardo sull’arte di massa, dalla fotografia, al fumetto, sino ai serial televisivi. Esemplare è la difesa che Morin fa proprio dei serial che producono una partecipazione empatica più intensa rispetto ad altri generi proprio in quanto ci rimandano allo specchio la nostra quotidianità e ce ne rendono partecipi negli spazi intimi e quotidiani della nostra vita che si tratti di una sala d’aspetto, di una cucina o di una camera da letto. Proprio qui si rivela in tutta la sua portata l’estrema originalità e plausibilità dell’approccio di Morin. In tutte le sue forme, senza distinzione tra high and low, l’arte - secondo Morin- ci aiuta a conoscere la nostra identità, a sapere chi siamo, ed è dunque sempre ben più che una mera forma dell’apparenza.
La Stampa TuttoLibri 19.1.19
“Volete capire Anna Frank?
Dovete provare la sua stessa paura”
Un pamphlet di Cynthia Ozick contro le letture edulcorate del Diario della ragazzina ebrea uccisa dai nazisti “Troppi se ne vogliono appropriare in modo consolatorio: per chiudere gli occhi su cosa è stato l’Olocausto”
di Caterina Soffici


Nel 2018 ha compiuto 90 anni. Quanti ne avrebbe avuti Anna Frank. Un dettaglio che spiega tante cose. Cynthia Ozick è della stessa generazione degli adolescenti che finirono i loro giorni nei campi di sterminio nazisti. Ma lei era dall’altra parte dell’Atlantico, mentre loro morivano. Forse la sua ossessione per l’Olocausto viene da lì, da un senso di colpa mai sopito?

E’ la prima cosa di cui parliamo, quando la chiamo al telefono nella sua casa di New Rochelle, un sobborgo di New York. Risponde la voce di una donna anziana, ma dal timbro giovanile e brillante.
«Lei ha colto perfettamente nel segno. Ha capito il mio sentimento più profondo. Io ero a scuola, entusiasta di tutte le scoperte dell’età di passaggio da bambina a adolescente: la poesia, Virgilio, le letture. Era un periodo bellissimo, il più felice della mia vita. Poi, finita la guerra abbiamo saputo. Mioddio, ho pensato. Mentre io stavo vivendo quattro anni fiabeschi, le ciminiere bruciavano. Noi americani eravamo molto patriottici, anche nelle scuole sostenevamo i nostri soldati, ma fino al 1945 non abbiamo saputo cosa era successo. Io sono qui ora, perché non era là allora».
Un’ossessione che passa attraverso tutta l’opera di questa scrittrice ebrea americana, citata da David Foster Wallace fra i tre migliori scrittori americani insieme a Cormac McCarthy e Don De Lillo, finalista al Man Booker International Prize e al Pulitzer, vincitrice del National Book Critics Circle Award e di varie edizioni del Pen e di altri premi, soprattutto per le sue short stories. E’ l’autrice di una ventina di libri tra racconti, romanzi, saggi, di cui solo una metà tradotti in italiano, tra cui ricordiamo Lo scialle e Eredi di un mondo lucente, per Feltrinelli; e Le carte delle signorina Puttermesser, per la Nave di Teseo, che ora pubblica anche Di chi è Anna Frank?, un breve saggio apparso nel 1997 sul New Yorker.
Anna Frank, dunque. Perché avrebbe avuto adesso circa la sua stessa età. E perché il diario è divenuto sì un simbolo della Shoah, ma troppo spesso oggetto di interpretazioni fuorvianti. Come spiega con veemenza la Ozick nel pamphlet, lo si è sempre letto con una lente troppo edulcorata, strattonandolo da più parti, - complice soprattutto lo spettacolo teatrale che ne fu tratto - a seconda di chi se ne è via via appropriato, ma sempre in modo consolatorio. Più che la testimonianza della brutalità nazista, della paura, del nulla dei Lager, si è descritto come il diario di un’adolescente che ha una grande forza d’animo e che nonostante tutto ha una fiducia nell’intima bontà dell’uomo.
Niente di più falso, dice Cynthia Ozick. «Anna è profondamente pessimista e scrive pagine di paura nelle quali nessuno può identificarsi, se non ha provato la stessa esperienza. Ogni appropriazione è un tradimento». Mezzo secolo dopo che Miep Gies ha ritrovato le pagine sparpagliate del diario, di chi è davvero Anna Frank, si chiede la Ozick?
La risposta è solo una: «La verità è che Anna non era una persona felice, non c’è niente di divertente, di positivo, nel diario. La storia è stata diluita nella versione da Broadway, ripulendo ogni riferimento alle radici ebraiche e al giudaismo. Anche questa è la dimostrazione di come si voglia chiudere gli occhi su cosa è stato veramente l’Olocausto».
Pure il padre Otto Frank ha fatto delle censure e ha avuto le sue responsabilità in questa forma di manipolazione, però.
«Non me la sento di biasimarlo. Le censure che lui ha fatto nascono da un senso di protezione. Era un padre borghese, ha cercato di ripulire il diario dai riferimenti alla sessualità, alle accuse contro la madre, ai litigi famigliari. Dopo aver letto per la prima volta il diario, ha ammesso di non conoscere affatto sua figlia».
Quindi perché questo revisionismo?
«Si torna sempre lì, all’antisemitismo. La gente dice: gli ebrei usano l’Olocausto, usano il vittimismo per giustificare la loro aggressività. E adesso non si può più separare l’antisionismo dall’antisemitismo. Chi dice di essere antisionista è antisemita».
Questa non è un’esagerazione? Si può criticare la politica di un governo di Israele senza essere antisemiti, no?
«Secondo me il governo di Israele in un dato momento non fa alcuna differenza. Chi usa questi argomenti fa propaganda e lavaggi del cervello che sfociano nell’antisemitismo. Ormai anche nelle università americane c’è una forte lobby che insegna l’antisemitismo tramite l’antisionismo. Gli studenti ebrei – e ho due nipoti quindi parlo per esperienza diretta - sono spaventati. Anche l’antisionismo di Corbyn in Inghilterra è assimilabile all’antisemitismo. Conosco persone che se verrà eletto lasceranno il Paese».
In Europa l’antisemitismo sta tornando, in una nuova forma di razzismo strisciante. Che ne pensa?
«Sono sempre stata ossessionata dal ritorno dell’antisemitismo. Ma non è una cosa che nasce dalla politica o nei partiti. E’ un sentimento popolare. Da che esistono gli ebrei, esiste qualcuno che li vuole uccidere. L’antisemitismo è più vecchio dell’Olocausto. Quindi secondo me è endemico. Il problema è che molti giovani non sanno cosa sia l’Olocausto perché a scuola non se ne parla e perché la memoria è corta».
Lei è considerata una delle voci dell’ebraismo americano. L’hanno anche definita la Emily Dickinson del Bronx. Come concilia tutta queste anime?
«Io mi sento profondamente ebrea. E anche profondamente una scrittrice. Sono due realtà parallele. Ma mi sento anche profondamente americana. L’America salvò i miei nonni e tanti altri immigrati. Quindi credo nell’America e credo che sia un paese eccezionale, nonostante Trump. Scusi se mi sento così patriottica. Il patriottismo da voi sta distruggendo l’Europa? Posso chiederle cosa pensa?» .
Casomai è il nazionalismo che distrugge l’Unione europea. Penso che si possa essere patriotticamente italiani senza essere anti europei. E penso che c’è molta meno differenza tra un italiano e un francese o un tedesco di quanta ce ne sia con un americano, perché apparteniamo a due continenti diversi.
«Curioso. Proprio in questi giorni stavo rileggendo un racconto di Henry James che si intitola Europe. Lì c’è l’immagine di un continente romanticamente idealizzato, grazie ai pittori, all’arte, eccetera. Ma è stato anche il luogo delle due grandi guerre mondiali, dell’Olocausto. Ora forse la civiltà occidentale è a rischio?».
Lo chiede a me?
«Parlo in generale. Forse è una esagerazione, ma c’è una nuova civilizzazione che arriva, legata alle grandi migrazioni che sia l’Europa che gli Stati Uniti stanno sperimentando. I musulmani, almeno qui a New York, vogliono diventare americani, cercano appartenenza, si integrano velocemente. L’islamofobia però è una forma di ostilità diversa, più moderna e secondo me passeggera. E’ diversa dall’antisemitismo».
Visto il grande attaccamento alle sue radici ebraiche ha mai pensato di trasferirsi in Israele?
«Sì, dopo la guerra, negli anni dell’entusiasmo per l’indipendenza. Ma io appartengo alla lingua inglese e la mia vita è la scrittura e non avrei potuto scrivere in ebraico. Posso leggere i testi religiosi, i libri di preghiera, ma lì c’è il trucco, perché hanno il testo a fronte in inglese».
Come è nato il suo amore per i libri?
«Penso nello stesso modo che capita a tutti i lettori. Si comincia da bambini. Non c’è un motivo particolare. Sai semplicemente che tu devi leggere per stare bene. A me è successo negli anni in cui Anna Frank scriveva il suo diario. E io oggi sono finalmente nel mio paradiso di lettrice perché leggo da quando mi sveglio la mattina alla sera quando vado a dormire. Privilegi dell’età. A 90 anni è un lusso che posso permettermi».
Non scrive più?
«Certo che scrivo. Ho appena finito una nuova novella. Che sarà pubblicata l’anno prossimo».
Corriere 19.1.19
La figlia di Amos Oz, il grande scrittore israeliano
«Vi racconto chi era mio padre»
di Fania Oz


Mio padre è morto di venerdì. Se i veri giusti muoiono nel giorno dello Shabbat, solo ora capisco che gli scrittori devono morire di venerdì.
L a notizia è trapelata appena prima di questo sabato invernale e per tutto il lungo fine settimana, in Israele e altrove, decine di migliaia di persone hanno saputo di mio padre e hanno letto le sue parole. Uno scrittore deve morire di venerdì.
All’età di quattro anni ho scoperto la morte. Sono andata da mio padre per confidargli il mio terribile spavento. Mio padre mi disse: «Non temere, Fania, perché per quando sarai grande avrò inventato qualcosa che impedirà alla gente di morire». Disse proprio così, con queste esatte parole. Andate a vedere: il papà venticinquenne che diceva queste cose alla sua bambina era il ragazzo di Soumchi , il ragazzo di Una pantera in cantina , il ragazzo del Monte del cattivo consiglio , e di Una storia di amore e di tenebra . Quel ragazzo di colpo è diventato padre: il mio.
Alcuni sostengono, e a ragione, che non bisogna dire a un bambino spaventato dalla morte che il padre inventerà qualcosa per fermarla. Come se da sole le parole bastassero a donarci la redenzione, la guarigione completa e finale, o almeno ci consentissero di guadagnare tempo, di rimandare il timore della morte di un bambino, di un adulto o di un anziano, per cullarli in un incantesimo artificiale addolcito dal miraggio di un futuro ancora possibile. Questa critica abbraccia anche la visione politica di mio padre. Certo, voglio parlare qui della sua visione politica perché, sia per lui che per me, la politica era una questione anche personale. Non tutto ciò che è personale è politico, ovviamente, ma tutto ciò che è politico è anche personale.
Alcuni pensano che l’«ottimismo» politico che ha accompagnato Amos Oz in quasi tutta la sua vita — non negli ultimi anni, ma per quasi tutta la sua vita — sia stato una fantasia sulla pace mondiale, sulla bontà complicata ma possibile del genere umano, sulla speranza di guarire la società. Riparare e guarire con zappe e badili, con libri e penne. Costoro hanno disprezzato il suo «ottimismo», e anzi, ne erano spaventati, quasi che la sua cocciuta battaglia per la pace tra arabi e israeliani, in particolare tra Israele e la Palestina, fosse una folle illusione, una pericolosa licenza poetica, un’ombra effimera nella caverna di Platone.
Mio padre ha insistito fino alla fine, fin verso la fine, che uomini e donne diventano più buoni con il passar del tempo, più complessi e più buoni, grazie al contatto con il prossimo, e con il dolore del prossimo, per quanto lontano e straniero, attraverso la capacità di raccontare storie e di ascoltare storie, che ci permette di immedesimarci per un breve istante nell’umanità estranea di personaggi lontani e sconosciuti. Mi diceva spesso: «Possiamo condensare tutte le leggi morali, i Dieci comandamenti e tutte le virtù umane in un unico precetto: non infliggere dolore. Tutto qui. Non fare del male. E se non ci riesci, almeno sforzati di causare il minor male che puoi. Di infliggere il minor dolore possibile».
Per tutta la sua vita mio padre si è sforzato di non causare dolore, ma talvolta non ci è riuscito. So benissimo che in alcune circostanze ha causato dolore agli altri. Ma so anche che tantissime persone si sono fatte avanti nelle ultime settimane per raccontarci come mio padre avesse prestato loro ascolto, o assistenza, con pazienza e generosità. Vedete, è davvero possibile alzarsi ogni giorno alle quattro del mattino e far di tutto per causare meno dolore. Causare meno dolore e scrivere. Anche questo faceva, dalle cinque del mattino, dopo la sua camminata all’alba, con la penna nera e la penna blu, per distinguere la voce del narratore dalla voce del cittadino-oratore.
Mio padre creava personaggi inquieti e perseguitati e per loro cercava la pace perfetta. Gettava i suoi incantesimi sulle tenebre per far sgorgare la luce dell’amore. E tra l’amore e le tenebre, e altrettanto complicato quanto l’amore per una donna, mio padre ha trascorso la sua vita a lottare con l’amore per la sua terra e il suo paese, Israele, lo Stato che è germogliato dalle lacrime dei suoi genitori. Con l’energia del testimone davanti al trionfo del sionismo, con la fede incrollabile della generazione che ha fondato uno Stato per gli ebrei in Israele, mio padre ha continuato a esplorare le vie per realizzare la speranza più recondita del sionismo, forse l’ultima speranza sionista rimasta ancora incompiuta: la pace qui tra noi e gli arabi. Ci sono uomini e donne, mi ripeteva, che crescono in bontà e saggezza negli angoli più sperduti del Paese, e saranno loro prima o poi ad afferrare in mano il timone di Israele. Saranno le persone più inattese, forse gli ultimi arrivati — non i famosi e gli assetati di gloria — che si faranno avanti e si metteranno alla guida. Verranno da terre ignote, dove già spuntano in segreto le grandi speranze del domani.
Non ottimismo, ma speranza. L’ottimismo è il colore della previsione; la speranza è la consapevolezza di un valore profondo, o figlia di un’immaginazione sovrumana. La speranza è l’opposto del fanatismo e del suo cugino germano, la disperazione, e di quell’altro parente, il cinismo. Tutti coloro che sbarrano le porte sono nemici della speranza. Parlo nella speranza che un giorno avremo anche noi pace e giustizia, quella giustizia sollecita e benevola che governa una società solidale e matura, non avida né zelante per qualche grande teorema, bensì capace di condividere in ogni cosa il rispetto e l’affetto per gli esseri umani così come sono. È la speranza per una società israeliana capace di nutrire giudaismo e umanesimo, le parole gemelle incise sulla porta di casa di nostro zio, Joseph Klausner. Quella stessa ebraicità i cui ingranaggi segreti, pur nell’assenza di fede in Dio, sono i figli, i libri e il dialogo. E per noi, nella nostra casa e nella nostra cultura, il dialogo con chiunque è sempre benvenuto, e il dibattito è accolto con gioia, infervorato e assordante quanto si voglia, purché non causi dolore a nessuno.
Così radicata e solida è questa grande speranza, che sebbene oggi taluni la respingano nel timore che potrebbe indebolirci e consegnarci nelle mani dei nostri nemici, un’infinità di persone ne sanno cogliere la grandezza. È una speranza che si annida nel centro stesso del sionismo, nel centro stesso dell’umanesimo. La speranza fa bene al cuore, lo allarga, spalanca gli orizzonti e spinge all’azione. Rappresenta l’arena e l’eredità per i nipoti che vivono in questa terra. E per i nipoti che vivono in qualunque parte del mondo.
Mio padre è morto, e chiunque pensi che una speranza come questa sia morta in Israele con la morte di Amos Oz non conosceva bene mio padre, perché lui sapeva che avremmo proseguito su questa strada. Aveva escogitato un’invenzione per non far spegnere la speranza. I suoi figli e nipoti, amici, studenti, lettori e interlocutori, persino i suoi degni oppositori, noi tutti faremo sì che non si estingua. Che sia chiaro: mi riferisco alla speranza di una vera pace qui tra un Israele democratico, uno Stato degli ebrei e di tutti i suoi cittadini, uno Stato fondato sul diritto e sulla giustizia sociale, uno Stato in cui la lingua della Torah possa fiorire, al pari della cultura giudaica ed ebraica, a fianco delle culture arabe e mondiali. (...)
Abbiamo già cambiato la storia una volta. I genitori di mio padre, e i genitori della mia amatissima madre, i pionieri del Kibbutz Hulda e gli ebrei che sono approdati fin qui per vie di mare e di terra, da ogni angolo della diaspora, con un unico scopo nella mente, sospinti da un’immane catastrofe, tutti costoro hanno cambiato la storia. Sfuggiti alle fauci del demonio, hanno cambiato la storia. E noi, non possiamo anche noi, qui e ora, sperare e agire? Non credo che mio padre possa sentire quello sto dicendo. Era un ebreo profondamente laico. Lo sono anch’io. Eppure io sono certa, fermamente certa, che in questo momento egli stia accennando di sì con il capo.
Pertanto è possibile inventare qualcosa per far in modo che la nostra speranza umana e israeliana non muoia. È una speranza saggia e misurata, molto ebraica in un certo senso, una speranza che abbraccia tutti gli uomini e il mondo intero. La speranza che sia concessa a tutti una buona vita sulla terra, e che tutti, o quasi tutti, siano capaci di narrare storie e di ascoltare storie, ma con grande attenzione. La speranza che tutti allora possano cominciare, uno dopo l’altro, a non causare più dolore a nessun altro essere umano, o perlomeno a causare meno dolore.
Ho amato profondamente mio padre e la mia anima era vicina alla sua. Pensavo di venire qui oggi e di non riuscire ad aprir bocca, ma vedo che non mi sono mancate le parole. Abbiamo le parole. Le parole di mio padre e le parole degli altri, e tutte le parole buone che aspettano ancora di essere pronunciate. Queste parole ravvivano l’amore, incarnano i sogni e talvolta cambiano il mondo. Queste parole non moriranno, e presto qualche speranza si trasformerà in realtà anche qui da noi.
Grazie, abba (papà, ndt ).
( Traduzione di Rita Baldassarre )
il manifesto 19.1.19
Visioni   
Enrico IV, gioco al massacro di una apparente follia
A teatro . Carlo Cecchi riscrive il testo pirandelliano, lo spettacolo assume così una fluidità nuova. Nel cast Angelica Ippolito, Gigio Morra e Roberto Trifirò
di Gianfranco Capitta


PORDENONE Parte con un piccolo trionfo al Verdi di Pordenone (in grande rilancio della propria programmazione), la seconda stagione con intensa tournée di Enrico IV di Luigi Pirandello (produzione Marche Teatro, a metà febbraio a Roma all’Argentina). Un testo che Carlo Cecchi, che ne è anche protagonista, ha in qualche modo rimesso «in equilibrio». Attorno a lui una compagnia che come sempre riunisce suoi antichi compagni di scena (come Angelica Ippolito e un irresistibile Gigio Morra), solidi attori che di buon grado entrano nel suo gioco scenico (Roberto Trifirò) e alcuni giovani e giovanissimi di sicuro avvenire che hanno l’opportunità di misurarsi con un uno dei pochi veri «mostri sacri» del nostro palcoscenico.
ANCHE per loro, oltre che per sacrosante ragioni «culturali», Cecchi ha sfrondato il ridondante quasi-monologo del protagonista del titolo, dando così maggior spessore non solo ai compagni ma allo stesso testo. Pirandello l’aveva scritto per Ruggero Ruggeri, ma è stato ereditato poi da diversi emuli del «grande attore», anche quando si era già compiuto il «tramonto» di quel genere recitativo. Ora, grazie a Cecchi, lo spettacolo assume una fluidità nuova, così come il racconto, che svela trame impreviste in quel gioco al massacro di una apparente follia. Un gioco in cui si entra immediatamente, con gli accordi tra i giovani badanti che del vecchio folle si occupano,uno dei quali deve superare un vero e proprio test di ammissione che è quasi un provino.
È UNA MESSINSCENA del resto quella del padrone di casa, che stufo dei giochi di corteggiamento e di interesse dei suoi parenti e frequentatori, quando è caduto da cavallo durante una rappresentazione in costume dedicata all’incontro di Canossa, auspice la duchessa toponima, tra il papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV appunto, ha finto la pazzia per schermarsi da quelle presenze e dal loro assillo. Una pazzia che solo lentamente traspare come voluta e «recitata».
PROPRIO QUI, in quel confronto tra la affettata presenza parentale, morbosa quanto corrotta, e la dolorosa consapevolezza del protagonista, si risveglia l’interesse di oggi. La recita del finto imperatore offre una perfidia insperata, che si rivela perfino «divertente», come un gioco di ruolo, o una grande interpretazione. Cecchi del resto padroneggia da sempre il gioco del teatro, e qui lo conduce con divertita crudeltà. Egli è il solo, assieme a noi spettatori, a conoscere la verità, appena dissimulata e quasi accresciuta dai costumi di medievale naiveté (di Nanà Cecchi), e dalla scena (di Sergio Tramonti) che come quinte o fondali si apre e si rovescia. Quella scelta del protagonista prende progressivamente corpo come radicale cambio di identità rispetto a una realtà che (in Pirandello, ma anche ai giorni nostri davanti ai bla bla che ci assediano dai talk show), non si può sfuggire se non parlando un’altra lingua, e abito e comportamento.
E COSA meglio del teatro può permettere questa fuga: non dalle responsabilità, ma dal dover prendere per serie e decisive tutte le chiacchiere altrui. Un’esperienza liberatoria che, grazie a Cecchi, a Pirandello ci riavvicina, conferendogli nuovo interesse, e utilità.
Corriere 19.1.19
Governo anti destra tra mille stampelle, la Svezia si scongela
Via libera a Löfven dopo quattro mesi di stallo
di Francesco Battistini

Fuori dal sin-bin. L’ultima mattina elettorale di Stoccolma, sotto un sole settembrino color peltro, tutta la stampa straniera aspettava all’angolo di Sergels Torg la nuova star Jimmie Akesson, il Salvini di Svezia, mediatico e arrembante. Il probabile vincente. Invece con un giubbotto blu modello saldatore (qual è stato), i jeans del sabato, con una sola guardia del corpo, a un certo punto comparve Stefan Löfven. Il socialdemocratico. Il primo ministro uscente. Il sicuro perdente. Che passava di lì. E non si sottrasse alla sua immagine di sfavorito. Mister Löfven, gli chiesero sapendolo appassionato di hockey, si sente già cacciato nel sin-bin, la panchina di chi è fuori partita? «In politica puoi anche finire nel sin-bin. Ma le espulsioni sono a tempo».
È stato fuori solo quattro mesi. Lo stallo è finito e la Svezia è andata sull’usato sicuro. Richiamando a capo dell’ennesimo governo di minoranza il leader del (comunque) primo patito del Paese, il premier saldatore d’un Parlamento spaccato in due blocchi uguali, il salvatore d’una socialdemocrazia ai minimi storici. Una maggioranza rosso-verde. Che agli eterni alleati su welfare e ambiente stavolta associa anche liberali e centristi, eletti nella coalizione di centrodestra, ma passati al centrosinistra pur d’evitare nuove elezioni e soprattutto una vittoria dell’ultradestra di Akesson. Il nuovo premier ha incassato 115 sì, 153 no, 77 astenuti, ma in Svezia questo non è mai stato un problema: per avere la fiducia del Riksdag, basta non avere contro la maggioranza assoluta dei deputati. «Sfidiamo l’ambizione dell’estrema destra — annuncia Löfven —, proteggeremo la democrazia».
Un governo di salvezza nazionale. Chiamato prima di tutto a salvare se stesso: il sostegno dei due nuovi alleati, che il leader moderato dell’opposizione Ulf Kristersson ora bolla come «traditori del mandato elettorale», che Akesson irride come «comparse al teatro dell’assurdo», ha un alto costo politico. Decisivi saranno partiti agli antipodi dei rosso-verdi. Ai quali Löfven ha dovuto fare concessioni sul programma: meno tasse nel Paese più tassato del mondo, mercato del lavoro flessibile, deregulation del mercato immobiliare… «Sono minate le colonne portanti del welfare — è la fronda nel partito —, rischiamo di perdere molta base»: chi già lo fece, Persson a fine anni 90, perse anche le elezioni.
Non solo. Nell’ultimo secolo, i socialdemocratici hanno governato per 75 anni. E pur di non perdere la leadership, a questo giro hanno negoziato l’astensione dell’estrema sinistra: «L’abbiamo concessa, per evitare una coalizione coi razzisti e gli xenofobi di Akesson — dice il leader, Jonas Sjostedt —. Ma se Löfven prova a fare politiche di destra, siamo pronti a staccare la spina». Il premier è un sorvegliato speciale degli ex comunisti: quando l’ondata migratoria travolse la Svezia, 163 mila profughi solo nel 2015, in Europa la più alta percentuale pro capite, il suo governo tentò di chiudere il gigantesco ponte che collega la Danimarca e, prima volta, sospese i trattati internazionali che da più di sessant’anni permettono agli scandinavi di girare il Nord Europa senza documenti. «Siamo nella No Man’s Land», nella terra di nessuno, scriveva un giornale di Stoccolma settimane fa, nel mezzo del rebus che impediva di formare una maggioranza. Qualcuno ora c’è: i soliti noti di sempre, per evitare l’ignoto d’adesso.
il manifesto 19.1.19
È tornata la questione balcanica
Russia/Nato. Entusiasmo al calor bianco quello che ha accolto Putin in Serbia. Un’adunata quasi oceanica di 120mila persone. Ma ci sono sempre due Serbie, l’una in conflitto con l’altra quasi a dare un senso alle due teste dell’aquila dello stemma del paese
di Alberto Negri


C’è un Est europeo di avvoltoi che vuole cancellare la memoria, come scriveva domenica Tommaso Di Francesco su il manifesto, e un altro che non dimentica mai nulla. Vladimir Putin si è così preso la rivincita russa in Serbia.
Quando la Nato e l’Italia bombardarono Slobodan Milosevic nel marzo 1999 (al governo da noi c’era D’Alema) sui muri di Belgrado qualcuno ironicamente scrisse: «Russia se hai bisogno ti aiutiamo». Allora un battaglione russo inviato in Kosovo dalla Bosnia fece una veloce parata per le vie di Pristina e poi lo vidi scomparire nella zona dell’aereoporto. Ma quella era ancora la Russia di uno Yeltsin ad un etilico passo d’addio.
Ben diverso il clima di entusiasmo al calor bianco che ha accolto Putin con il presidente serbo Aleksandar Vucic alla cattedrale ortodossa di San Sava, un’adunata quasi oceanica di 120mila persone, in contrasto con le manifestazioni del giorno prima dell’opposizione per ricordare Oliver Ivanovic, politico serbo-kosovaro, di cui ricorreva il primo anniversario dall’omicidio. Ma ci sono sempre due Serbie, l’una in conflitto con l’altra quasi a dare un senso alle due teste dell’aquila dello stemma del paese.
Una visita quella di Putin durata poche ore ma che è servita a rafforzare i rapporti, già solidi e stretti, tra Russia e Serbia, principale alleato di Mosca nei Balcani. E soprattutto per lanciare un avvertimento sul Kosovo e sull’espansione della Nato nei Balcani.
Mosca e Belgrado hanno masticato amaro per l’ingresso del Montenegro nell’Alleanza Atlantica e guardano con sospetto i recenti passi della Macedonia del Nord per entrare sia nell’Unione europea che nella Nato. Anche Belgrado è candidata e entrare nell’Unione ma come ha ripetuto Vucic non ha nessuna voglia di aderire all’Alleanza che ha bombardato la Serbia vent’anni fa.
E la Serbia, come ha già detto Vucic più volte, non ha neppure l’intenzione di rinunciare al suo alleato russo per aderire alla Ue, rifiutando di unirsi al fronte occidentale sulle sanzioni alla Russia per la crisi ucraina. Anzi, Mosca – ha annunciato Putin – è pronta a investire 1,4 miliardi di dollari nel prolungamento del Turkish Stream nei paesi europei attraverso la Serbia, una sorta di cordone ombelicale per la sopravvivenza energetica di Belgrado.
Questi forti legami, politici ed economici, tra Serbia e Russa sono un aspetto certo non secondario di cui dovrà tenere conto anche l’Italia che quest’anno ha la presidenza dell’Iniziativa centro europea, il più esteso forum di cooperazione e integrazione regionale nell’Europa Centrale, Orientale e Balcanica con sede a Trieste.
Quella riservata al presidente russo è stata dunque un’accoglienza straordinaria e al tempo stesso impensabile in una qualsiasi altra capitale europea, a dimostrazione della enorme popolarità di cui gode tra i serbi il leader del Cremlino. Non solo per la storica vicinanza spirituale, religiosa e linguistica tra i due Paesi slavi ma anche per la ferma posizione di Mosca a sostegno dell’integrità territoriale della Serbia contro l’indipendenza del Kosovo. I motivi di tensione sono continui e permanenti, l’ultimo i dazi doganali insostenibili imposti da Pristina alle importazioni dalla Serbia e la costituzione stessa dell’esercito kosovaro – contro la Risoluzione Onu 1244 -, ritenuto come parte di un progetto di Grande Albania che coinvolgerebbe oltre a Tirana, la Macedonia e parti della Serbia meridionale.
La guerra del Kosovo è stata l’ultimo atto dell’apocalisse balcanica, fatta di pulizie etniche, stragi, stupri di massa, che costituirono in un certo senso la fase terminale di un orrore che aveva già riempito i cimiteri nella seconda guerra mondiale. Questi Balcani sanguinanti hanno cominciato a ricostruirsi soltanto ora, dopo una lunga sequenza di eventi drammatici. Mai dimenticare però una frase di qualche anno fa dello storico George Prévélakis che suona ancora oggi, come un ammonimento: «I Balcani sono un avvertimento mortale per chi crede che il prestigio di uno Stato, la sua potenza e la prosperità restino tali nel corso del tempo. I Balcani sono tutto il contrario del facile ottimismo». Qui la memoria è più viva che mai, forse anche troppo.
Il Fatto 19.1.19
Non ne Podemos più
Lite Errejon-Iglesias: c’eravamo tanto amati
Spagna - Il partito collegiale, speranza della sinistra, si spacca a quattro mesi dalle Amministrative. A Madrid, il numero due corre con la sindaca, il leader lo scomunica
Dall’indignazione al Congresso – Podemos è l’erede politico del movimento degli “Indignados” spagnoli
di Alessia Grossi


Come nel martirio di San Paolo, la testa dell’omonimo spagnolo politico contemporaneo Pablo Iglesias, ora decapitata da quella bifronte di Inigo Errejon, co-fondatore con lui del partito Podemos, ha rimbalzato per tre volte. E da ogni rimbalzo sono nate non tre fontane, ma tre tappe diverse della storia della formazione politica speranza della sinistra. L’ultima, però, pare la definitiva. A quattro mesi dalle elezioni amministrative e dai festeggiamenti per il quinto anniversario dalla nascita, Íñigo Errejón, il più “politico” della coppia che nel 2014 creò dal nulla (o quasi) una forza in grado di scalfire il bipolarismo spagnolo alle Europee prendendo l’8% dei voti, ha deciso di correre per la Comunità di Madrid insieme all’attuale sindaca Manuela Carmena, con cui pure Podemos aveva stretto un patto alle scorse votazioni. Peccato però che lo faccia “a carattere personale” e voltando le spalle al partito, che con il compagno Iglesias pensa a opporgli un’altra candidatura.
Finisce così anche la conduzione a due di Podemos, che altrettante volte aveva vacillato. Ultima: la scissione ricompattata al congresso di due anni fa, chiamato Vistalegre 2, in nome del primo Vistalegre, in cui davanti a centinaia di delegati, i due avevano ritrovato un’intesa emotiva, corredata da tanto di foto di abbraccio; e numerica, con l’89% dei voti a favore della linea radicale e più di sinistra di Iglesias. Che però non ha tenuto.
“Oggi tutti sanno che c’è bisogno di uno stravolgimento”, è tornato infatti a spiegare “el niño” Errejon nella lettera co-firmata con Carmena, nella quale si sottolinea che la “maggioranza ha bisogno di un progetto che rinnovi la speranza e la fiducia nelle cose che si possono fare, anche meglio”. Dunque, un’amara ammissione: Podemos, che portava in sé la speranza di trasformare la piazza degli “Indignados” in un progetto politico, così come si era presentato al Teatro del Barrio, nel quartiere multietnico di Lavapiès a Madrid nel 2014 ha fallito, perché già ha esaurito proprio quella speranza. “Un compleanno amaro”, risponde Iglesias con un’altra lettera in cui si dice “incredulo” non solo per la notizia in sé, arrivata fulminea dal suo compagno di battaglie, ma per averla letta solo pochi istanti dopo su tutti i media spagnoli. Una di “quelle manovre politiche”, vergognose agli occhi del segretario generale che alle strategie politiche si è sempre detto ostile. “Fossi in lui mi dimetterei da deputato, ma di qualcosa deve pur vivere”, attacca Errejon l’altro Pablo, Echenique, organizzatore generale di Podemos che sarcasticamente sottolinea quanto “anche questa sarà una decisione personale”.
Personale contro collettivo. Collettività contro egoismi. Quello di Errejon di protagonismo, secondo molti, è solo cresciuto nel tempo, ma è sempre stato l’ago di bilancia di Podemos. Fin da quando – nominato numero due – il niño decise di dare la segreteria dell’Organizzazione a Sergio Pascual, suo fedelissimo, poi segato da Iglesias per una sospetta cospirazione contro di lui. E da qui a cascata l’intera deflagrazione della Direzione del Partito, i cosiddetti “Cinque di Vistalegre”.
Ad andarsene per prima era stata Carolina Bescansa, la quale non allineata con il leader all’ultimo congresso, seppure non sosteneva neanche la mozione Errejon, nell’ottica del “chi non è con me è contro di me” del segretario, fu bollata come traditrice. Sospetto poi confermato quando l’anno passato per sbaglio diffuse su Telegram una bozza di piano per detronizzare Iglesias. L’altro auto-epurato è stato Luis Alegre, il primo leader di Podemos nella Capitale spagnola che da “pablista” passò a essere “errejonista”, e in vista del secondo congresso scrisse una dura lettera contro il segretario generale accusandolo di portare il partito alla “distruzione”. L’ultima, ma in realtà prima in ordine di importanza nonché più “toccante” defezione era stata quella di Juan Carlos Monedero, primo fedelissimo di Iglesias a dimettersi nel 2015 dopo che venne fuori che aveva preso 400 mila euro per le consulenze ai governi di Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua, non dichiarandoli secondo le regole fiscali spagnole. La versione ufficiale fu che lasciava il partito per divergenze strategiche. La verità è che dal suo studio universitario ha sempre continuato ad appoggiare l’amico Pablo contro quello che a Vistalegre definì “ambizione smisurata” del numero due.
Ed eccola qui “l’ambizione smisurata” del deputato e co-fondatore di Podemos nell’ultimo braccio di ferro con il leader. E – dopo aver aperto la crisi del partito – dichiara di non volerlo abbandonare, restando anzi, non solo come deputato, ma anche come dirigente. Questa volta però in gioco non c’è solo l’unione di due ragazzi in grado di tenere testa ai più tenaci politici spagnoli, ma una formazione politica di governo, visto il patto su con l’esecutivo di Pedro Sanchez.
Il governo infatti, alla vigilia del voto per la Manovra economica in Parlamento, teme che la rottura porti gli oppositori di Iglesias a votare contro l’accordo con i socialisti. Inoltre la rottura tra i due rischia di acuire la crisi già serpeggiante nelle formazioni regionali del partito che nei prossimi mesi dovranno affrontare le elezioni amministrative e comunali. La prova è il calo alle urne di dicembre in Andalusia, dove Podemos, alleato della sinistra Unita ha ottenuto 3 scranni in meno delle precedenti votazioni in cui correva da solo. Sulla sponda opposta, i sovranisti di Vox festeggiano su Twitter i sondaggi che li darebbero come seconda forza a Madrid, “con voti rubati a Podemos”.
La Stampa 19.1.19
“Censura, polizia e lager. La repressione cinese a 30 anni da Tiananmen”
La Cina di Xi non sarà mai una democrazia
di Gianni Vernetti 


La foto simbolo della protesta di piazza Tiananmen, Pechino: uno studente che da solo e completamente disarmato si ferma davanti a una colonna di carri armati per fermarli. È passato alla storia come il Rivoltoso sconosciuto
   
Wuer Kaixi fu uno dei leader della protesta repressa nel sangue nel 1989 “Allora i carri armati, oggi Pechino ha affinato le strategie per colpire”
intervista
«Eravamo giovani e pieni di speranze, vedevamo mutamenti in tutto il mondo comunista, e pensavamo che anche in Cina i cambiamenti radicali fossero dietro l’angolo. Il regime invece mandò i carri armati per soffocare la nostra protesta pacifica». Wuer Kaixi divenne uno dei leader della rivolta di Tiananmen del 1989 quando sfidò in un dibattito l’allora presidente Li Peng. Un testimone diretto che oggi, esule a Taiwan, osserva la Cina e non è fiducioso sulla possibilità che «questo regime attui riforme per arrivare a una società libera e aperta».
Sono passati 30 anni dalle proteste di Tiananmen. Come iniziò la rivolta?
«Avevo 21 anni ed ero studente dell’Università Normale di Pechino. Alle fine degli Anni 80 in Cina c’era una grande speranza di cambiamento ed una grande voglia di libertà e democrazia. La rivolta studentesca nacque per una combinazione di fattori diversi: le prime aperture verso un’economia di mercato favorivano solo la classe dirigente controllata dal Partito comunista al potere, i casi di corruzione si moltiplicavano e la grande aspettativa di cambiamento non era soddisfatta. Nonostante ciò, la Cina stava cambiando giorno dopo giorno, e i giovani avevano grande fiducia che cambiamenti radicali fossero dietro l’angolo. Questo era il contesto in cui nacque il grande movimento di Tiananmen: i giovani volevano più democrazia, libertà di parola, di stampa, stato di diritto».
Ci fu qualche leader o movimento a livello internazionale che ispirò la protesta?
«Eravamo affascinati dall’esperienza di Solidarność in Polonia e in un certo senso tentammo di imitarla. C’era una grande speranza e sentivamo di poter cogliere un’opportunità storica per la nostra generazione e avevamo la sensazione di non essere soli. Era in atto un forte cambiamento dall’Europa dell’Est a Mosca e fino qui a Pechino».
Poi sulla piazza arrivò Gorbaciov.
«Lo ricordo come se fosse ieri; era il 15 maggio quando il presidente Gorbaciov venne a Tiananmen a incontrare gli studenti. Era stato fissato in quei giorni il primo summit fra Urss e Cina. Gorbaciov aveva avviato una serie di riforme politiche inimmaginabili solo fino a poco tempo prima ed eravamo convinti che la “perestroika” avrebbe finito per contagiare positivamente il regime cinese. In più la sua visita rappresentava per noi la possibilità di aumentare il consenso politico e l’audience internazionale del nostro movimento».
E il consenso all’interno della Cina?
«Il nostro era un movimento spontaneo, non organizzato e molto “romantico”, che ottenne un grandissimo sostegno popolare: giorno dopo giorno crescevano le delegazioni di impiegati, operai, insegnanti che venivano a portare solidarietà. Tutto ciò ci rendeva ottimisti ed eravamo convinti che il governo avrebbe aperto un dialogo con gli studenti e che si sarebbe incamminato sulla strada delle riforme e dell’apertura politica».
Non finì così però.
«No, il governo della Repubblica popolare cinese ignorò le richieste degli studenti, si spaventò per il grande consenso popolare che stava crescendo in tutta la Cina e dopo cinquanta giorni di pacifica e nonviolenta occupazione di piazza Tiananmen, scelse l’opzione peggiore, quella militare. Ma non furono solo gli studenti ad essere colpiti. Non posso dimenticare Liu Xiaobo: insegnava nella mia facoltà ed era un uomo mite e estremamente intelligente, un vero mentore per me. La sua presenza al campo tutti i giorni e la sua vicinanza al movimento studentesco fu la ragione della durissima persecuzione che subì negli anni successivi. Prima fu radiato dal corpo insegnante, poi venne ripetutamente incarcerato, e non potè ritirare il Premio Nobel per la Pace nel 2010, per poi morire due anni fa in carcere».
Come si vive 30 anni in esilio?
«Abbiamo combattuto per la libertà e il prezzo che abbiamo pagato è stato molto alto: molti hanno perso la vita, altri hanno subito il carcere o l’esilio. Ho iniziato il mio esilio in Francia, poi negli Usa e da anni vivo a Taiwan. Ho avuto la fortuna di vivere in tre Paesi nei quali libertà e democrazia sono la norma, non l’eccezione. Ho studiato, lavorato e viaggiato nel mondo libero e mi ritengo fortunato, ma l’esilio è una condizione terribile: da 30 anni non incontro i miei genitori. Non posso tornare in Cina e il governo ha sempre impedito loro di uscire dal Paese per vedermi. La loro unica colpa: essere i miei genitori. Questa è una concezione della giustizia barbarica e primitiva. L’esilio è una terribile forma di tortura mentale e spirituale».
Com’è la tua vita oggi a Taiwan?
«Taiwan è la dimostrazione di come sia possibile costruire un Paese cinese libero e democratico. Questo Paese mi ha adottato ed è diventato il mio Paese. Qui è la mia casa, dove mi sono sposato, vivo e lavoro. La stampa è libera e sono editorialista e commentatore politico per tv e giornali. Da qui, non ho mai smesso di lavorare per costruire un futuro democratico per la Cina».
Dove sta andando la Cina? Qual è la tua previsione 30 anni dopo Tiananmen?
«Negli Anni 80 la Cina si era incamminata in un positivo processo di riforme economiche e politiche che fu interrotto bruscamente dalla repressione militare del 1989. Le conseguenze immediate furono lo stop della crescita economica per i due anni successivi (1990 e 1991). Deng Xiaoping a quel punto fece una scelta strategica, proponendo un nuovo patto con i propri cittadini: più libertà economica in cambio di maggiore cooperazione politica. Da un punto di vista politico, una mostruosità. E l’Occidente, purtroppo, ha adottato in questi 30 anni una politica di “appeasement” nei confronti della Cina, aiutandola di fatto a consolidare il proprio regime».
Il modello cinese del «capitalismo senza democrazia» lega la stabilità alla crescita economica. Lo ritieni ancora un modello credibile?
«Intanto va ricordato che nel caso cinese si tratta non soltanto di un modello non democratico, ma anche di un capitalismo molto particolare, senza regole del gioco trasparenti e condivise. In Cina c’è solo una parvenza di libero mercato e di competizione fra gruppi economici e l’unica regola che esiste e quella dettata dalla grandi corporazioni economiche ancora direttamente controllate dal governo. Questo non è capitalismo e non è un modello credibile nel medio termine».
Qual è lo stato della democrazia e dei diritti nella Cina del 2019?
«Nel 1989 il regime cinese inviò l’esercito per schiacciare le manifestazioni studentesca compiendo il massacro di Tiananmen. Oggi la repressione del dissenso si è evoluta e raffinata, con ciò che il regime chiama con un eufemismo “Harmony keeping forces”, le “forze per il mantenimento dell’armonia”: un grande esercito di censori dei media, controllori dei social network e della rete, insieme alle forze di polizia più tradizionali che si occupano di reprimere ogni forma di dissenso religioso, sindacale, politico, culturale. Da Tiananmen a oggi, ogni giorno sono stati incarcerati dissidenti: tibetani, religiosi cristiani, praticanti della Falun Gong e adesso la campagna contro il popolo uiguro. Anch’io sono di origini uigure e ciò che sta accadendo nella mia regione (lo Xinjiang nell’Ovest della Cina, ndr) è qualcosa di brutale, terribile ed al di là di ogni immaginazione. La situazione della minoranza uigura è molto più tragica di quanto si pensi: si stima che vi siano fra i 500.000 e i 2 milioni di cittadini uiguri rinchiusi nelle prigioni e nei centri di lavoro forzato (quasi il 20% dell’intera popolazione). Il regime cinese li chiama “Campi di ri-educazione”, ma non sono altro che immense prigioni e l’intero Xinjiang è sigillato e occupato militarmente. Le notizie che filtrano sono pochissime. Anche i campi di concentramento nella Germania nazista furono scoperti solo pochi mesi prima della fine della guerra».
È possibile prevedere in futuro una Cina democratica?
«È una possibilità certo, ma non con questo regime, che non è in grado di auto-riformarsi e di promuovere vere riforme che portino ad una società libera e aperta».
La formula «un Paese, due sistemi» sembra essere in crisi, a cominciare da Hong Kong. Qual è la tua opinione?
«Io non posso andare a Hong Kong. E quanto sta accadendo giorno dopo giorno, dimostra che la formula “un Paese, due sistemi” non può funzionare né a Hong Kong, né a Macao, né a Taiwan».
Cosa pensa del riarmo cinese e della vicenda del Mar Cinese Meridionale?
«Premesso che non sono un esperto di questioni relative alla sicurezza ed alla difesa, credo che l’occupazione militare degli isolotti nel Mar Cinese Meridionale rappresenti una sfida della Cina nei contorni dei Paesi del Sud-Est asiatico ed un tentativo di ridurre l’influenza Usa nella regione. Il governo di Pechino è convinto che nel lungo periodo un confronto militare con l’Occidente sia inevitabile».
Come l’Occidente deve affrontare le nuove sfide lanciate dalla Cina?
«Gli ultimi 30 anni sono stati caratterizzati da una politica di “appeasement” nei confronti della Cina e sempre più la Cina sta rivelando oggi la sua vera identità. Per anni, si è proposta come una tranquilla e pacifica potenza orientale, la cui crescita economica avrebbe portato benefici all’intero pianeta. Ma non è così. La Cina propone un sistema di valori antitetico alle democrazie liberali ed oggi si sente in grado di promuoverlo ed esportarlo a scapito dell’Occidente. Spesso in Occidente ritenete che la Cina sia quasi giunta vicina alla vostra porta di casa, ma non così: è già entrata nel vostro soggiorno e vi chiede di cambiare il vostro stile di vita per adottare il suo».
il manifesto 19.1.19
Oggi, la nuova Women’s march a Roma
Oggi una nuova manifestazione, in rete contro la violenza maschile alle donne
Women's March (Washington)
di Alessandra Pigliaru


La Women’s march, arrivata al terzo anno, avrà la sua tappa anche in Italia. A Roma, oggi dalle 11 alle 13, donne e uomini –  americane/i e italiane/i – si riuniranno in piazza dei Santi Apostoli per manifestare insieme riguardo “l’eguaglianza e il progresso”. Così si legge nel comunicato stampa diffuso dalle organizzatrici che, già nel 2017 e nel 2018, hanno destato l’interesse internazionale per la loro cifra antiliberista contraria a Trump. In un’epoca come quella presente, in cui i nuovi fascismi e nazionalismi avanzano a passo spedito, e dove la misoginia e il razzismo trovano sempre più terreno fertile, le donne che hanno cominciato questa azione di protesta negli Stati Uniti hanno trovato sponda, nei vari territori, con le associazioni che da sempre si occupano di diritti, libertà e in particolare di un tema serio e grave come la violenza maschile contro le donne.
“Anche quest’anno – prosegue il comunicato – ci uniamo alle centinaia di marce in tutto il mondo per attrarre l’attenzione su quei valori progressisti che siamo impegnate/i  a difendere”.
Uno dei principali hashtag sarà #EndViolenceAgainstWomen.
Per ulteriori informazioni sulla violenza contro le donne si può consultare il Rapporto della Women’s March Global
Il sito ufficiale delle manifestazione del 2019 è QUI
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Sono previsti interventi di:
Emma Bonino
Lella Paladino, presidente di D.i.Re
Giulia Bosetti, giornalista di Presa Diretta
Luisa Betti Dakli,  giornalista e femminista
Gabriella Guido, vice presidente di CILD
Luisa Rizzitelli, giornalista e fondatrice di Rebel Network
Loretta Bondi, consiglio direttivo della Casa Internazionale delle Donne
Bo Guerreschi, fondatrice di bontworry
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 Le organizzazioni seguenti hanno annunciato la loro partecipazione:
-Women’s March Rome  (https://actionnetwork.org/events/womens-march-rome )
-Democrats Abroad Italy (https://www.democratsabroad.org/it)
-American Expats for Positive Change (https://www.facebook.com/AEPCGlobal/ )
-Women’s Ordination Conference (http://www.womensordination.org)
-Donne in Rete contro la violenza (http://www.direcontrolaviolenza.it)
-CILD Coalizione Italiana Liberta’ e Diritti (https://cild.eu/ )
-One Billion Rising Italia (https://www.facebook.com/obritalia/)
-Rebel Network ( https://www.rebelnetwork.it/)
-The Gay Center Roma (http://www.gaycenter.it/)
-ArciLesbica Roma (http://www.arcilesbicaroma.it/)
-Arcigay Roma  (http://www.arcigayroma.it/ )
-Azione Trans ( https://azionetrans.org/)
-Casa Internazionale Delle Donne (http://www.casainternazionaledelledonne.org /)
-Women’s March Naples  (https://www.facebook.com/WomensMarchNapoli/)
-I Sentinelli di Roma (https://www.facebook.com/isentinellidiroma/ )
-bon’t worry (https://www.bontworry.org/)
-Bellies Abroad (https://www.belliesabroad.com/ )
-Joel Nafuma Refugee Center Roma (http://jnrc.it/ )
Repubblica 19.1.19
"In Vaticano c’è un complotto contro Francesco"
I nemici di Bergoglio "sognano un nuovo conclave" sfruttando la crisi provocata dallo scandalo degli abusi
di Paolo Rodari


Città del Vaticano «Ci sono persone che semplicemente non amano questo pontificato. Vogliono che finisca il prima possibile per avere quindi, per così dire, un nuovo conclave. Vogliono anche che vada in loro favore, che abbia un risultato che si adatti alle loro idee». Il cardinale Walter Kasper non è una personalità di secondo piano nel piccolo ma variegato mondo vaticano. Ex responsabile dei rapporti ecumenici, è stato uno dei grandi elettori di Francesco nel conclave del 2013. Fine teologo e profondo conoscitore delle dinamiche interne all’orbe cattolico, fa una denuncia non secondaria: i nemici del Papa, dice in sostanza, sognano una nuova convocazione del collegio cardinalizio per mettere la parola fine al pontificato. Per Kasper il piano è chiaro: gli oppositori di Francesco puntano ad arrivare a un cambio di leadership – non a caso l’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò ha chiesto espressamente « le dimissioni » del Pontefice – approfittando dell’attuale crisi degli abusi sessuali dei preti. È su Francesco che vogliono addossare la colpa degli insabbiamenti, seppure questi abbiano radici lontane.
Kasper parla in una recente edizione del programma " Report München", trasmesso dall’emittente statale tedesca Ard. Nel programma, che include anche interviste al cardinale americano Raymond Burke e alla vittima di pedofilia irlandese Marie Collins, Kasper sostiene che ci sono settori nella Chiesa che stanno approfittando della crisi degli abusi sessuali come piattaforma per far fuori Francesco. Burke è stato uno dei 4 prelati che ha scritto e pubblicato i 5 "dubia" sull’esortazione apostolica post-sinodale di Francesco del 2016, Amoris Laetitia, che ha aperto cautamente la porta alla possibilità che i cattolici divorziati e risposati ricevano la comunione.
In una lettera del 26 agosto 2018, pubblicata l’ultimo giorno del viaggio di Francesco a Dublino, Viganò accusò Francesco di aver ignorato le accuse di cattiva condotta mosse contro l’ex- cardinale Theodore McCarrick, attualmente sotto inchiesta per tre accuse di abuso di minori, e ha chiesto le dimissioni del Pontefice. Su Ard Kasper dice che gli oppositori del Papa stanno usando una strategia « inappropriata » , cercando di trasformare la discussione sulla questione degli abusi « in una discussione su Papa Francesco » . Si tratta, a suo dire, di «un abuso di abuso » . E ancora: « Questo distoglie l’attenzione dal vero problema, e questa è la parte peggiore».
Il Fatto 19.1.19
Kasper: “Ecco il complotto” I dossier Usa sui cardinali
“Conclave anti-Bergoglio” - L’alto prelato: “Manovre per le dimissioni” E negli Stati Uniti le associazioni cattoliche indagano sulle porpore
di Carlo Tecce


Complotto. La parola è una tradizione per il Vaticano. Complotto contro papa Francesco, denuncia il cardinale Walter Kasper in un’intervista a una televisione tedesca. Quando risponde da un appartamento in Vaticano, Kasper è consapevole che la parola – pronunciata con cognizione – può agitare la già fibrillante Chiesa in epoca di Francesco, ma non sorprende, non disorienta. Perché lo scontro tra le opposte fazioni – oltre la dicotomia banale ta conservatori e progressisti – ha raggiunto ormai l’apice e la luce. Lo scontro è visibile. Il tedesco Kasper, presidente emerito del Pontificio consiglio per l’unione dei cristiani, fu scelto da Francesco per la relazione introduttiva al sinodo su famiglia e divorziati. Il rapporto è solido.
Kasper argomenta: “Ci sono persone che non amano il pontificato di Francesco. Vogliono che finisca il prima possibile per avere, per così dire, un nuovo conclave. Vogliono anche che vadano a loro favore, quindi confidano in un risultato che si adatta alle loro idee”. Per chi conosce il Vaticano è semplice parafrasare l’invettiva di Kasper, perché i segnali che arrivano, soprattutto dagli Stati Uniti, inquietano Francesco.
Il baricentro dei cattolici è sempre più asiatico e africano, ma la potenza economica e trainante degli Usa è ancora ineguagliabile. Non è la Conferenza episcopale americana, spesso in contrasto con la Curia, a spaventare Jorge Mario Bergoglio, ma c’è un sistema molto coeso e ricco di associazioni che si muove per incidere su Roma e, di conseguenza, sul prossimo conclave.
Il Vaticano segue con attenzione il progetto chiamato Red hat report, finanziato dai gruppi cattolici americani con milioni di dollari e lanciato l’autunno scorso: si tratta di un dossier, che coinvolge giornalisti, ricercatori, avvocati, per scoprire e raccontare i segreti del collegio dei cardinali, cioè gli elettori del pontefice. Un anno e mezzo di lavoro e – come scrive Crux – l’enorme materiale sarà pronto, forse per l’aprile del 2020. “Un’iniziativa che rasenta la scomunica”, commenta un amico di Bergoglio. La lettera di monsignor Carlo Maria Viganò per chiedere le dimissioni di Francesco; le accuse di aver coperto l’ex cardinale Theodore Edgar McCarrick, molestatore sessuale seriale; i lenti e inesorabili repulisti interni: frammenti di un pontificato costretto a ritrovare un equilibrio mentre intorno aumenta la confusione. Ancora più evidente è l’incompatibilità con le politiche dei governi sull’immigrazione, un terreno di pessimo dialogo che va dagli Stati Uniti all’Italia. La paura di Francesco, però, è soltanto una: i fedeli, scoraggiati dagli scandali, che si allontanano.
Il cardinale Kasper, ancora, sostiene che il tema della pedofilia sia usato da chi congiura per indebolire Francesco, per scalfirne la figura e avvicinare la data di un nuovo conclave. Il compito della Chiesa e la protezione dei minori è anche l’argomento di una riunione tra i vescovi del mondo dal 21 al 24 febbraio in Vaticano. Quattro giorni non bastano. E Francesco lo sa.
Repubblica 19.1.19
L’espatriato
"Vitto e alloggio quasi gratis così mi hanno convinto a restare"
di mi.bo.

«Qui in Francia ci fanno fare tanta pratica e ci aiutano economicamente e con vitto e alloggio». Maurizio Caputi, trentenne di Molfetta in provincia di Bari, è uno di quelli della nuova guardia. Medici che si spostano all’estero per diventare specialisti, cioè decidono di lasciare l’Italia dopo la laurea.
Da quanto tempo è arrivato?
«Sono entrato con il concorso in medicina d’urgenza nel giugno dell’anno scorso, dal 5 novembre lavoro. Ho scelto la sede di Brest in Bretagna».
Perché ha lasciato l’Italia?
«Avevo fatto l’Erasmus in Francia e ho conosciuto un po’ il sistema sanitario. Molta pratica, meno teoria, o meglio meno teoria inutile, nozioni importanti a cui veniva sempre affiancata la pratica. Mi è piaciuto da subito».
E l’insegnamento in Italia non andava bene?
«Abbiamo metodi vecchi, poco aggiornati. Parlando con altri ragazzi italiani qui in Francia, si capisce che il problema non è solo del Sud ma di tutto il Paese. Forse al Nord ci sono più attività pratiche e laboratori, ma niente di veramente diverso dalle altre regioni».
È stato difficile inserirsi nel nuovo sistema?
«L’iniziò è stato traumatico, ma conoscevo le difficoltà perché i colleghi francesi iniziano presto a fare molta pratica. Noi italiani siamo partiti svantaggiati, un po’ tutti. Abbiamo vari gruppi online e ne parliamo, però chi più chi meno stiamo facendo progressi velocemente».
Resterà in Francia finita la specializzazione?
«Intanto faccio questi 4 anni, poi vediamo cosa mi offrono la Francia e l’Italia, dal punto di vista professionale e per la famiglia. Qui aiutano molto i giovani, con alloggi e mense a prezzi bassi. Anche questa è una grande differenza con il nostro Paese».
Come specializzandi quanto siete retribuiti?
«All’inizio pagano 1.450 euro netti al mese, che salgono di 200 euro all’anno. Poi ci sono le guardie che vengono pagate extra, 120 euro l’una. In più ho vitto e alloggio al costo di 20 euro al mese».
Repubblica 19.1.19
Fuga dagli ospedali
Francia e Germania si prendono i migliori medici italiani
Cacciatori di teste da Parigi e Berlino: offrono contratto immediato e stipendio doppio Contromossa delle Regioni che vanno a reclutare studenti e specializzandi in Slovenia
di Michele Bocci


Il dottor Michele Valente di Vicenza ogni tanto riceve una chiamata dalla Francia.
A parlare è una persona che gli chiede se conosce colleghi disposti a trasferirsi in quel Paese a lavorare.
Soprattutto in zone rurali, soprattutto come medici di famiglia. «Non so come hanno avuto il mio numero ma so che sono insistenti, mandano anche email». Non è un caso che il dottor Valente venga contattato: è il presidente dell’Ordine dei medici della sua città. Le agenzie di reclutamento di camici bianchi di mezza Europa, dalla Germania alla Francia fino ai Paesi scandinavi e il Regno Unito, stanno puntando sull’Italia e un modo per farsi conoscere ed entrare in contatto con papabili per il trasferimento è quello di battere gli ordini professionali provinciali, in particolare del Nord. Cercano di fissare incontri, colloqui, conferenze di presentazione. «I francesi che mi contattano sono persone molto preparate, prospettano stipendi alti, da 150mila euro in su all’anno, per posti in località piccole dove non si riescono a mandare i medici del loro sistema sanitario», dice Valente, che di recente ha discusso dell’invadenza di queste agenzie in una riunione con gli altri presidenti veneti: «Circa il 20% dei 150 nuovi iscritti al mio ordine passa a salutare perché se ne va all’estero». Qualcuno lascia anche subito dopo la laurea e prima della specializzazione.
Che in Italia ci sia un problema con il reclutamento dei camici bianchi ospedalieri è un fatto ormai assodato. In più, di recente vengono segnalate anche carenze di medici di famiglia: il nostro Paese è il decimo in Europa per numero di questi professionisti ogni 100mila abitanti secondo Eurostat. E come dice anche il sindacato di categoria, Fimmg, l’età media è sempre più alta. I tanti pensionamenti, tra chi lavora sul territorio e in ospedale, non vengono compensati dal numero di giovani che si specializzano, molti dei quali restano comunque fuori dal sistema perché in molte Regioni le assuzioni sono praticamente bloccate.
E così c’è chi, appena diventato specialista o anche prima, cerca una sistemazione all’estero.
Mentre l’Italia vede andare via professionisti dei quali pure avrebbe bisogno, qualcuno da qui parte per altri Paesi alla ricerca di medici. È uno dei controsensi della situazione. Di recente funzionari proprio della Regione Veneto sono andati all’università di medicina di Lubiana a cercare camici bianchi disposti a venire da noi.
Su quanti siano i giovani medici italiani che vanno all’estero girano cifre non sempre omogenee. Fino al 2015 Enpam (l’ente previdenziale dei dottori) e Eurispes, ne hanno calcolati ben mille all’anno per dieci anni. Adesso le cose sarebbero pure peggiorate ma non è facile avere un dato preciso perché ci sono tante variabili, legate ad esempio alla durata della permanenza all’estero o al Paese scelto per trovare lavoro.
«Una cosa è certa, le agenzie di cacciatori di teste sono molto pressanti ma la maggior parte dei colleghi fa da solo, attraverso internet o consultando chi già si è spostato». A parlare è Matteo Riccò, un medico del lavoro di Reggio Emilia che è stato per un anno in Germania e di recente ha realizzato una ricerca sull’emigrazione sanitaria. L’ha elaborata grazie a una serie di questionari compilati da quasi 500 camici bianchi per poi presentarla al congresso della Società italiana di Igiene.
Intanto il primo Paese di destinazione è la Gran Bretagna (27% delle scelte), seguono Germania (24%) Svizzera (22%) e Francia (18%). C’è addirittura un 16% di coloro che partono che non conosce ancora la lingua del Paese dove andrà a lavorare, questo per dire quanto è forte la motivazione a lasciare l’Italia.
L’80% ritiene che gli stipendi in Italia non siano adeguati al lavoro svolto, il 78% che «la selezione dei professionisti italiani non è lineare». Qualcuno parte dopo la laurea perché qui «la formazione dei professionisti è insufficiente rispetto agli standard internazionali» (68%).
«Il nuovo fenomeno è l’uscita prima della specializzazione. È nato soprattutto dopo gli accordi europei che liberalizzato il titolo di studio, la laurea in medicina», spiega sempre Riccò: «Probabilmente andare via a questo punto è diventata una cosa un po’ di moda, ma alle spalle ha problemi veri come l’effetto imbuto delle scuole di specializzazione italiane».
Ad attrarre i camici bianchi sono le economie più ricche, i Paesi che pagano stipendi più alti «come Usa, Canada e Australia — prosegue Riccò — E i nostri dottori hanno una caratteristica che li spinge verso l’estero: sono formati bene e hanno stipendi che ritengono non adeguati».
Detta così fa un po’ dispiacere.
La protesta
Un momento del sit in di venerdì scorso organizzato dai sindacati dei medici davanti al ministero della Funzione pubblica a Roma per chiedere rinnovo del contratto e sblocco del turn over
“Transgender” /2
La Stampa 19.1.19
Il conflitto scienza-etica nei cambio di genere
di Gilberto Corbellini


La assegnazione chirurgica del genere in un minore è una scelta molto complessa sotto il profilo medico e carica di risvolti bioetici. Il problema, detto banalmente, è se sia meglio subire le conseguenze di una disforia di genere, cioè star male perché non ci si riconosce nel proprio sesso così come appare anatomicamente o nel genere assegnato alla nascita, o sottoporsi a una assegnazione ormonale o chirurgica del genere, cioè cambiare genere per via medica. Un cambiamento che possibilmente deve essere affrontato, per risultare pienamente soddisfacente, prima dei 18 anni. Anche in Italia sembra si sia capito che a volte le leggi possono causare danni anche là dove esistono per prevenirli. I valori in gioco e i pesi tra essi sono chiari, almeno da una punto di vista bioetico. I dati però non sono così chiari e le incertezze rimangono, nel senso che serve studiare a fondo per aiutare meglio e con più garanzie le persone che soffrono per disforia di genere.
I principi etici che guidano le decisioni mediche sono quelli classici, cioè il rispetto per l’autonomia (da cui discende il consenso informato), la beneficità e la non maleficità. La persona deve mostrare autonomia di giudizio, e nell’intenzione di prendere le decisioni sul trattamento medico. Già questo è un problema delicato nel trattamento della disforia di genere, perché a volte i desideri, le speranze e le aspettative della persona potrebbero non essere collegati alla realtà. Gli esperti psicologi e psichiatri soprattutto devono quindi essere molto chiari e onesti, senza essere direttivi, riguardo alle possibilità, ai rischi e ai benefici specifici delle cure mediche, specialmente considerando che l’ultima fase della transizione medica, la conferma chirurgica del genere, è irreversibile. Il vincolo della beneficità implica che si deve agire solo per fare del bene, cioè fare solo ciò che è nell’interesse del paziente. Alcuni sostengono che l’intervento chirurgico a carico di organi sani, in caso di conferma chirurgica del genere, non è in linea con questo principio. La non-maleficità deve quindi garantire che il trattamento non danneggi l’individuo in un senso emotivo, sociale o fisico.
Stante che la condizione ha una eziologia sconosciuta e una definizione fluttuante (malattia mentale o medica, costruzione sociale, variante sessuale, etc.) come si può decidere con sufficiente affidabilità rispetto ai risultati quale trattamento è nel migliore interesse di una particolare persona? Anche quando sembra che un individuo soddisfa tutti i criteri sulla carta, a volte i medici pensano alla situazione di quella persona con gli svantaggi che paga, la giovinezza, la menomazione o la disperazione. Poiché le linee guida di trattamento hanno preceduto le risposte a domande di etico-psicologica, non sempre la rassicurazione e la raccomandazione di un professionista della salute mentale cancella il disagio etico
Sulla base di principi bioetici, i bambini di solito non possono prendere decisioni e azioni legali sull’inizio della terapia ormonale. Tuttavia, è internazionalmente acclarato che il loro giudizio non deve essere ignorato. La terapia aiuta le persone con disforia di genere ad armonizzare il loro aspetto esteriore con il loro genere cui sentono di appartenere. In questo caso, un’adeguata educazione della persona e l’indicazione dei vantaggi e delle carenze di tale trattamento sono di cruciale importanza. Seguendo il principio di beneficenza, i medici sono obbligati ad aiutare la persona somministrando il trattamento ormonale. Poiché non esistono opzioni migliori al momento. Le persone a cui viene negato il trattamento possono sviluppare gravi disturbi psicologici.
La chirurgia della assegnazione del genere è l’ultimo passo. Secondo gli standard di assistenza della World Professional Association for Transgendere Health un criterio per l’ammissibilità alla conferma chirurgica del genere è aver «raggiunto l’età legale della maturità in un determinato Paese». In genere, 18 anni nella maggior parte delle nazioni. Tuttavia, l’aumento dell’uso di bloccanti della pubertà e il superamento dei limiti per l’inizio della terapia ormonale portano a ulteriori dilemmi. Con questi sviluppi, era solo questione di tempo prima che si presentasse il tema della assegnazione chirurgica del genere sui minori. I punti di vista sono diversi e variano tra il principio di non maleficità, rappresentato dal «non fare nulla di male», e la variante di non gravità del «piano di trattamento, che comporta un intervento chirurgico meno esteso o del tutto assente».
Cambiando la legislazione per la terapia ormonale senza assegnazione chirurgica del genere è aumenta il divario tra le due procedure mediche, posticipando l’esito desiderato della transizione. Lasciare questi pazienti ad aspettare la fase finale della loro transizione può avere un impatto sul loro stato sociale e psicologico. La comunità transgender è più spesso oggetto di bullismo e ha più alti tassi di suicidio. Se gli altri mettono in discussione l’identità di genere della persona, compresa la presenza di genitali congruenti, questa non riesce a gestire lo stigma e diventa «screditato». Inoltre, posticipare relazioni romantiche e incontri fino all’età di 18 anni può anche portare a lotte psicologiche e sfide.
“Transgender” /1
La Stampa 19.1.19
“Sempre più persone si liberano dalla zavorra
È fondamentale intervenire il prima possibile”
di Nadia Ferrigo


Intrappolato in un corpo impossibile da riconoscere. E che fa soffrire. Ne parliamo con Fabrizio Quattrini, presidente dell’Istituto italiano di Sessuologia, psicoterapeuta e professore di Clinica delle parafilie e della devianza all’Università dell’Aquila.
Cos’è la disforia di genere?
«Significa non riconoscersi nel sesso biologico di appartenenza. Precisazione importante, non ha nulla a che fare con l’orientamento sessuale. Le persone che ne soffrono possono avere, sia in fase di transizione che di raggiungimento del sesso sentito, un orientamento etero, omo o asessuale».
E l’età, che ruolo gioca nella diagnosi?
«Quando si iniziò a parlare di transessualismo si distinse tra primario e secondario. Infanzia e adolescenza oppure l’età adulta. Ma non sempre la consapevolezza del malessere si lega alla percezione della persona. Può darsi anzi che si nasconda, per i timori legati alla società o alla famiglia di appartenenza».
Nella sentenza di Genova a decidere di cambiare sesso è un minorenne, da femmina a maschio, mentre i pochi precedenti erano opposti. Domanda brutale: troppo presto?
«No. L’età numerica non cambia nulla. Sedici o diciotto, è lo stesso. Anzi è importante intervenire il prima possibile».
Perché?
«Per evitare che i cambiamenti della pubertà possano danneggiare in modo grave e irreversibile, a livello emozionale e psicologico, la persona che poi comunque andrà in transizione. Pensiamo per esempio alle prime mestruazioni. Molti studi sulla disforia in età evolutiva riguardano la possibilità di bloccare con gli ormoni la fase di sviluppo. Serve ad avere il tempo di superare il periodo critico e capire se la persona va in una direzione o nell’altra. Quando è chiaro, si somministrano gli ormoni adeguati».
Classico commento da bar: «Una volta mica c’erano queste cose».
«Si registra un crescendo di richieste, sia di diagnosi di disforia che d’interventi chirurgici. Ottimo segno, fa pensare a un crescente numero di persone che si libera della zavorra della paura. Anche per l’omosessualità, dal momento in cui non si considera più una forma patologica, ma un modo di essere a prescindere dagli stereotipi, sono molte di più le persone che fanno coming out».
La transizione di genere è un processo sia medico che psicologico delicato. Qual è il ruolo dei genitori?
«Ancora oggi ascolto le storie di ragazzi e ragazze cacciati da casa dopo aver detto come si sentono. Il percorso psicologico si fa non solo con la persona che desidera cambiare sesso, ma anche con la famiglia. Quando gli amici accettano e integrano un cambiamento, quest’ultimo e l’accettazione sono reali. È una condizione che esiste e così va accettata».
Perché il passaggio da donna a uomo è medicalmente più invasivo?
«Nel cambio di sesso da uomo a donna, oltre agli ormoni, l’unico intervento è l’asportazione della parte anatomica maschile. E lì si chiude».
Al contrario?
«Alla terapia ormonale seguono mastectomia e rimozione di utero e ovaie. Molto invasivo. Quando e se una persona desidera un neo-fallo, allora ce n’è un quarto. Anche se non avrà terminazione nervose, né la circolazione del sangue. Non è dunque funzionale, se non in modo meccanico con una protesi idraulica. E si perde la sensibilità del clitoride, che resta “schiacciato” e così si perde pure la sensibilità che porta all’orgasmo. In una ricerca di qualche anno fa, scoprii che tanti scelgono la falloplastica non per la sessualità, ma per fare la pipì da in piedi. Un elemento simbolico del maschile».
Nessuna possibilità di diventare genitori?
«Complicato, ma non impossibile. Si può pensare alla conservazione di ovociti e sperma, per esempio. Non naturalmente, ma artificialmente, si può anche preservare la capacità genitoriale».
Il Fatto 19.1.19
Il sociologo che per primo raccontò i braccianti indiani: “In questa inchiesta non solo sfruttatori, ma il Mondo di Sopra”


“Qui non serve più la Procura della Repubblica, serve la politica. Adesso non lasciamo soli i lavoratori. Grazie alla legge sul caporalato, soltanto in provincia di Latina, 500 braccianti sono stati salvati. La legge funziona e va difesa”. Lo dice Marco Omizzolo, sociologo, responsabile scientifico della cooperativa InMigrazione, insignito al merito di Cavaliere della Repubblica, meno di un mese fa, dal presidente Mattarella per la sua opera di contrasto allo sfruttamento dei braccianti agricoli. Omizzoli – che nel corso dell’ultimo anno ha ricevuto diverse intimidazioni – spiega come di tutte le inchieste sul caporalato questa messa a segno dalla squadra mobile di Latina sia l’unica che indaga sul Mondo di Sopra: “Non più solo caporali ma tutti coloro che per anni attraverso i loro ruoli anche istituzionali hanno agito nell’interesse degli sfruttatori violando norme fondamentali ed esponendo lavoratori e lavoratrici a pericoli per la loro stessa vita”. Per arrivare a questi arresti c’è stato un impegno della Questura e della Procura di Latina lungo 15 anni. E c’è stato un grande lavoro di ricerca partito proprio dal sociologo che, come tesi di dottorato, anni fa, decise di studiare la comunità sikh. Fu il primo italiano ad occuparsi di loro e ad aiutarli: per tre mesi Omizzolo fece il bracciante agricolo. La mattina lasciava la macchina al residence Bella Farnia e poi raggiungeva i campi in bicicletta. Come “loro”
Il Fatto 19.1.19
Sabaudia, Latina, Sperlonga, Fondi: tra i “mostri” del Circeo
Fra cocomeri e bufale – Nell’Agro Pontino si stimano 30 mila braccianti sikh. Molti abitano nel Residence Bella Farnia Mare, un ex gioiello turistico fallito
di Antonello Caporale


Tra i ricchi e gli schiavi ci sono le dune. Tra le dune e la Pontina c’è Sabaudia, disposta ai piedi del promontorio del Circeo, la magnifica gobba sfregiata da una iniezione super abusiva di circa 100 mila cubi di cemento, nell’area detta del “Quarto caldo”, che dopo quarant’anni le ruspe finanziate dall’Ente Parco hanno finito di rimuovere, restituendo in limine mortis alla legge la sua forza.
Sabaudia è connessa in spirito, e non solo, a Latina, Fondi e Sperlonga. Le magnifiche quattro dell’Agro Pontino, cinque con San Felice al Circeo, e formano un club esclusivo in cui il movimento di pensiero, insieme economico e, diciamo così, culturale, trasforma spesso il vizio in virtù, e interpreta, sovvertendone i canoni, l’illegale in legale, l’insolito con il possibile. Forse è per questa ragione che tre giorni fa, il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, generale di brigata, indica Antonio Ricciardi, generale dei carabinieri, come presidente del Parco Nazionale del Circeo. E forse è sempre per questa ragione che la nomina non passa, si blocca nella commissione parlamentare che deve ratificarla. “È una questione di metodo”, dichiara la Lega, il partito oggi monopolista quaggiù, dove Matteo Salvini è acclamato come l’erede della destra romantica, di quella muscolare e di quella imprenditoriale.
Cambio di scena. Ventiquattro ore dopo lo stop parlamentare, una retata manda in prigione alcuni schiavisti, i cosiddetti “caporali”, più un sindacalista e un ispettore del lavoro, per la gestione disumana dei braccianti agricoli, 20mila immigrati nell’area. “La pacchia è finita”, dice immediatamente Angelo Tripodi, capogruppo leghista alla Regione, già personal trainer e responsabile risorse umane della palestra PalaFitness di Latina. Finora la “pacchia” – se vogliamo chiamarla così – è dei padroncini, gli imprenditori agricoli, molti dei quali entusiasticamente di centrodestra. Hanno la fortuna di far raccogliere lattuga e rafano, fragole e melanzane a disgraziati che accettano una stalla per dormire, disponibili a lavorare 10-12 ore al giorno prima per 2, poi 3, oggi forse (calcolo ottimistico) per 4 euro all’ora, sempre meno della metà del dovuto. Quando la fatica era troppa – e questi sono sempre i verbali di polizia a raccontarcelo –, allora le metanfetamine, le droghe, rendevano possibile lo sforzo. Erano i sikh, l’etnia preponderante ingaggiata dal lontano Punjab, a utilizzare pure la droga per far fronte all’impegno. Docili, pazienti, disciplinati. Senza contributi, senza ferie. La pacchia, sì.
“Oggi gli ultimi degli ultimi non sono più i sikh. Il tempo li ha resi meno docili, la fatica e i soprusi li hanno indotti a denunciare le condizioni di lavoro impossibili. E infatti è iniziato, come dimostra questa inchiesta, il rimpiazzo con i romeni e i richiedenti asilo. Questi, per la fragilità della loro condizione, accettano ogni tipo di rapporto, e statuiscono una progressiva discesa agli inferi che permette all’imprenditoria locale, che da sempre fa riferimento ai partiti dominanti dell’area, di ottenere braccia a buon peso. È merce tradotta quotidianamente dai dormitori alle campagne e stipata in pulmini. Chi si sente male durante il tragitto, per esempio sviene per il troppo caldo d’estate, viene lasciato a terra. L’auto accosta e fa scendere o rotolare”, dice Marco Omizzolo, sociologo da sempre impegnato nella lotta allo sfruttamento e nel contrasto all’illegalità, e da poco insignito da Sergio Mattarella dell’onorificenza di Cavaliere del lavoro.
Da feudo di FI e Alleanza nazionale a terra leghista
L’élite qui era con Forza Italia e Alleanza nazionale. Dimagrita la prima, evacuata la seconda, oggi si ritrova nelle braccia di Matteo Salvini, il trasformer giusto, il potente che decide e accoglie nel nome di “Prima gli italiani”.
Latina ha solo 86 anni e conta 120 mila abitanti. L’amatissima Littoria è fascista per nascita e conserva nella struttura urbanistica un sentimento indiscutibile, manifesto vivo dell’architettura futurista, e della devozione al Duce (il muscoloso palazzo M ne è il segno visibile). Latina è il luogo fisico in cui criminalità organizzata e devianza politica si incrociano, e sviluppano attraverso la finanza una connessione sentimentale. Dell’usura e nell’usura lo sviluppo sostenibile, e anche la rappresentazione cinematografica che la inchioda al suo vizio d’origine. Il regista Paolo Sorrentino scelse la Pontina per girare il suo Amico di famiglia, il cui protagonista, Geremia de Gemerei, nell’eccellente interpretazione di Giacomo Rizzo, è l’usuraio perfetto, figlio d’arte, romantico ma spietato.
Qualche anno fa Giorgia Meloni tentò di acchiappare una fetta di fan e traghettarli verso i suoi Fratelli d’Italia, e in Parlamento fece sedere Pasquale Maietta che scese in campo con la squadra di calcio, finalmente in serie B. L’epilogo è stato triste: Maietta non è più deputato, finito incarcerato per presunti reati di natura tributaria e per legami con i clan locali, e la compagine della Meloni ora è candela fioca dinanzi al fuoco che arde sotto i piedi di Alberto da Giussano.
Nera fuori e nera dentro. Instancabilmente di destra, affascinata dalle cubature fuori terra che sul litorale, specialmente nelle aree di pregio, ha raggiunto negli anni d’oro anche 15mila euro al metro quadrato. La tentazione di costruire sempre e comunque (il dato risale ad alcuni anni fa, ma fa ugualmente impressione: a Sabaudia 1 abuso ogni 3 residenti, 1 a 1 a San Felice al Circeo) è stata, se non scoraggiata, almeno un po’ ostruita dall’esistenza del Parco nazionale. Il presidente uscente Gaetano Benedetto (proveniente dal WWF), insieme al direttore Paolo Cassola, hanno per esempio vanificato la più incredibile e appetitosa operazione commerciale. Fare del Lago di Paola, il Lago del Circeo, patrimonio dell’umanità, un porto. Benché il divieto di navigazione fosse assoluto, i vincoli enormi quanto la montagna che lo sovrasta, il club dell’imprenditoria e della politica promosse l’idea e, senza l’ente Parco, avrebbe certamente avuto la forza contundente dei numeri: quanti nuovi occupati, quanta ricchezza traghettata, quante opportunità. Il Parco, dunque, e un generale che faccia rispettare le regole, in un territorio allenato a evaderle, può divenire un problema. Certo, la bolla immobiliare oggi è scoppiata, il mattone non tira più. Ma domani?
Qui uno strano intreccio delle tre mafie controlla tutto
“Il livello di commistione, l’intensità dell’intreccio tra criminalità e politica, tra clan e vita quotidiana è tale che le famiglie della ‘ndrangheta, della camorra, ma anche pezzi di Cosa Nostra arrivati nell’agro-pontino negli anni Settanta perché mandati al confino, controllano tutto, dalle pompe funebri agli appalti, al Mof – il mercato dell’ortofrutta più grande d’Europa – alle concessioni urbanistiche in aree con varianti vantaggiose”. È un passo, fosse il più noto e il più drammatico, della possente relazione della commissione d’accesso prefettizia che supplicava l’allora ministro dell’Interno di commissariare Fondi, la città che ospita questo enorme e incontrollato movimento merci, dietro le quali e sotto le quali hanno spesso viaggiato armi e droga.
Cinquecento pagine inviate al ministro dell’Interno che ieri come oggi era un leghista: si chiamava Bobo Maroni. L’unico caso in cui il Consiglio dei ministri non mostrò accordo. Tre, nella consultazione a palazzo Chigi, i membri contrari: Meloni, Brunetta e Matteoli. Era richiesta l’unanimità. E così Fondi fu l’unico municipio a salvarsi dalla legge, anzi a vederla elusa, mortificata e persino irrisa. I consiglieri comunali poi – come ciliegina sulla torta – scelsero le dimissioni anticipate, rendendo impossibile il commissariamento. Il boss politico, allora come ora era Claudio Fazzone, magistrale parlamentare di Forza Italia, ras delle tessere e onnipotente delle clientele, così tanto adeguato da essere indicato negli anni, senza che alcuno avvertisse almeno una punta di imbarazzo, prima nella Commissione antimafia e poi nel Copasir, il comitato parlamentare per i servizi segreti. E l’allora sindaco di Sperlonga, pluri indagato, anche rimosso e pure arrestato, accusò i funzionari che avevano osato chiedere il commissariamento di Fondi di essere “pezzi deviati” dello Stato.
Fazzone è dove l’avevamo lasciato, politicamente super attivo, anche se il tramonto berlusconiano ne ha ridotto le aspirazioni. E quel sindaco arrestato, rimosso, inquisito, è tornato nel municipio con la fascia tricolore. Armando Cusani si chiama: acclamato dalla sua gente, che lo amava e lo ama.
Ecco il quadrilatero su cui svetta Latina, cioè Littoria, che Antonio Pennacchi, l’autore di Canale Mussolini, ama e difende. “Non mi piace che Latina venga dipinta come il luogo dei fetenti, la fogna d’Italia. La città sta nel medesimo gorgo delle altre, ha le sue vanità, le sue debolezze, le sue porcherie ma anche il suo lavoro, la sua storia, la sua grande bonifica. Certo, vennero a colonizzarla non i migliori ma i peggiori, o i figli dei peggiori, i più disgraziati e poveri. Però resta un fatto: Latina ha una sua vitalità persino intellettuale, e una radice che in qualche modo parla al Paese”.