giovedì 13 aprile 2006

Liberazione 13.4.06
Bertinotti: "Con questa maggioranza si può governare. Vi spiego perché"
di Stefano Bocconetti


I giornali sono pieni di commenti sulla variante italiana della Merkel, sono pieni di riflessioni sulla Grande coalizione. Con Fausto Bertinotti proviamola a prendere, però, dal "nostro" versante. La domanda è secca: si può governare con il cinquanta virgola uno per cento? Si può governare con un voto di più dell’avversario?
"Domanda secca, risposta secca: sì".
E credi che avrebbero risposto così i leader della sinistra di qualche decennio fa?
Ti faccio una premessa: che io, anche allora, all’inizio degli anni ’70, non ero affatto convinto dell’elaborazione di Berlinguer, secondo cui non si sarebbe dovuto governare con una maggioranza risicata. Ma mettiamo da parte le mie obiezioni di allora. Io credo che non si possano paragonare le due situazioni. L’idea di Berlinguer, elaborata all’indomani del colpo di Stato in Cile, nacque insomma a tutt’altra latitudine. Non era dentro il sistema politico dell’alternanza, nasceva, si fondava soprattutto su un dato: l’esistenza di grandi partiti di massa. Parlo di partiti veri, radicati, popolari. Perché, non scordiamocelo mai, in quegli anni c’era corrispondenza fra paese reale e paese ufficiale, e “paese della politica”. C’era uno scambio continuo fra quei due mondi. Ora la situazione è completamente diversa. Quei partiti, quelle forme-partito non ci sono più. E oggi, soprattutto in ragione dell’alternanza, il voto diventa un mandato preciso alla coalizione. Oggi il voto diventa un mandato ai partiti che fanno parte della coalizione. E’ il mandato a governare, è il mandato a realizzare, comunque, il programma con cui ti sei sottoposto al voto. E si potrà dire quel che si vuole, ma il mandato emerso domenica scorsa mi sembra chiaro: l’Unione deve governare.
Avanti comunque, dici questo?
Certo, ma attenzione. Quello che si realizza sul piano parlamentare è un conto, diverso è ciò che avviene nella società.
Cosa vuoi dire?
Voglio dire che con un voto in più si governa alle Camere, ma non si realizzano le riforme col cinquantuno per cento nella società. Beninteso, non penso ad una logica referendaria da utilizzare ad ogni pie’ sospinto. Penso però che ciò che può passare nelle aule parlamentari con una ristretta maggioranza, poi debba vivere con un consenso assai più vasto. Consenso che può esprimersi attraverso le mille forme della partecipazione: dal conflitto ai pronunciamenti delle comunità locali, a tante altre forme da inventare. Insomma, sarà lì, nel sociale che ti giochi la tua capacità di egemonia, di essere il motore della trasformazione. E per essere ancora più chiaro: col cinquanta e uno per cento puoi modificare le norme che istituzionalizzano la precarietà a vita di un’intera generazione. Ma per cambiare, per riformare davvero, devi avere il consenso del sessanta, settanta per cento del paese. Questa è la scommessa.
Hai tirato fuori una cifra a mo’ di esempio. In un paese che tutti gli osservatori descrivono, invece, come diviso a metà, al 50% A proposito: ti convince la definizione dell’Italia come di una comunità spaccata?
Sì e no.
Più nel dettaglio?
Diciamo così: è sicuramente un paese spaccato politicamente, ma frastagliato - ecco: frastagliato credo sia la definizione giusta - socialmente. Nel senso che la divisione politica, netta e inequivoca, non porta con sé una spaccatura nella vita quotidiana. Si vota diversamente, si hanno magari due concezioni opposte della vita ma poi ci si ritrova al lavoro, al bar, allo stadio. In realtà, insomma, mi sembra che prevalga un fenomeno che chiamerei di voglia di comunità. In questo senso non è esattissima la definizione di Italia spaccata. Quella linea di separazione, insomma, vale per le elezioni, non per tutto il resto. Anche se…
Anche se cosa?
Io una divisione la vedo. Non è netta, nel senso che è più sotterranea. Ma solo perché è poco esplorata.
E qual è questa divisione?
La chiamerei la divisione fra l’alto e il basso. Fra l’alto e il basso della società.
L’alto, più o meno, ce l’hanno tutti chiaro. Ma cos’è davvero quel basso?
E’ davvero difficile risponderti perché sono pezzi di società - mi verrebbe da dire sono “buchi neri” della società, ma lascia perdere perché rischiamo di non farci capire -, pezzi di società profonda, ti dicevo, dove la sociologia non è arrivata. Noi non abbiamo gli strumenti per indagarla, altri non ne hanno la curiosità.
Almeno proviamo a definirla sommariamente.
Penso alla campagna elettorale che abbiamo appena fatto. Penso ad alcune zone industriali, proprio al limite di quelle aree industrializzate del Nord - dove per altro le destre sono tornate a vincere -, penso ad alcune fabbriche. Fabbriche poco o nulla sindacalizzate. Lì, me l’hanno raccontato i compagni, i lavoratori rifiutavano i nostri volantini. Persone, insomma, spogliate di tutto. Della camicia, certo, loro che non hanno diritto neanche ad organizzarsi per la tutela sul lavoro. Ma spogliate anche di qualcosa in più: del loro diritto a pensare un futuro sicuro. E questo, tutto questo, li porta a vedere, a vedere anche te, come uno straniero. Te che magari hai un lavoro sicuro, te che magari hai la camicia da impiegato, te che magari parli ma in quanto politico godi di qualche privilegio. Ecco questo è il basso di cui ti parlavo.
Ed è questo “basso” che ha portato nelle casse della destra quasi due milioni di voti in più rispetto alle regionali?
Sì, almeno in parte.
Le altre “parti”, invece, quali sono? Insomma, perché la destra ha sorpreso tutti rimontando in quella maniera?
Ha recuperato per una somma di fattori. C’è un elemento di collante ideologico, che forse abbiamo sottovalutato. Parlo dell’ideologia proprietaria. Sì, in fondo la campagna elettorale della destra e del suo leader è stata rivelatrice di questo: dicevano a quei settori non ti faccio pagare l’Ici, non ti faccio pagare le tasse. Ti regalo questo, quest’altro. Gli altri, invece, te le faranno pagare. Se ci pensi bene, insomma, la cifra della propaganda di Berlusconi è stata davvero la boutade alla Confindustria di Vicenza. Perché il leader della destra aveva capito bene che un pezzo della borghesia gli aveva voltato le spalle e aveva deciso di votare l’Unione.
Come chiameresti quel pezzo della borghesia?
Impresa difficile. La vogliamo chiamare “borghesia educata”?
Quel pezzo di borghesia gli ha voltato le spalle, e a quel punto?
E allora Berlusconi ha lasciato perdere. Si è concentrato sul resto della borghesia. Quella improduttiva, quella che vuole arricchirsi subito, quella che vuole fare i soldi con altri soldi, senza rischiare. Ha puntato su di loro. Pensaci bene: in questa campagna elettorale è partito proponendo improbabili bilanci positivi del suo governo, poi ha provato con Dio, patria e famiglia, poi s’è improvvisato un po’ Schroeder, collocandosi all’opposizione del nuovo probabile governo, ma alla fine ha scelto: ha fatto appello all’egoismo proprietario. E s’è buttato sulle tasse.
A guardare bene, però, non è proprio lo stesso blocco sociale che lo portò a vincere nel 2001.
Esattamente. Anche cinque anni fa, Berlusconi ebbe l’intuizione giusta. Sapeva che qui da noi, la ricetta Thatcher non avrebbe avuto spazio. E così si inventò quel mix di neoliberismo e subcultura leghista, centrata sulla figura dell’imprenditore del Nord Est. Ma quella miscela non ha retto alla prova del governo. Così ha capito prima di altri…
Anche di qualcuno a sinistra?
Sì, certo anche di qualcuno a sinistra. Comunque ha capito che fare appello a quel blocco era impossibile, perché si era disgregato. E così ha provato a inventarsene un altro. Centrato sulla paura dei proprietari. Nonostante tutto, però, ha perso.
Ora la destra rappresenta quei settori. E con questa destra esistono spazi di intesa bipartizan?
No. Nel modo più assoluto. Perché i due schieramenti sono portatori di due visioni diverse della società. Ce lo siamo detti in campagna elettorale, forse è arrivato il momento di farne discendere comportamenti concreti. E qui vedo una possibilità di rigenerarsi della politica.
In che senso?
Te lo dico così: in questa elezioni abbiamo affermato il principio dell’alternanza. Ma, nel caso dell’Unione, magari anche indipendentemente dalla volontà di molti dei soggetti che ne fanno parte, l’alternanza può e si sta trasformando in alternativa. Vedi, la grande coalizione, fa sicuramente parte delle cose possibili. In altre parti d’Europa è all’ordine del giorno. Può non piacere, come a noi, ma è così. Qui da noi, però, non è così. Qui da noi si sono misurate due concezioni non mediabili, due angoli di visuale non sovrapponibili della società. Loro di là, noi di qua. Ecco perché la proposta – che è sempre aleggiata in questa campagna elettorale – quella elaborata dai poteri forti, da Montezemolo, l’idea del grande centro insomma, in Italia non ha chances. E’ sbagliata ma anche inapplicabile per geografia politica, per realtà sociale. Forse semplicemente perché il centro s’è dissolto: o stai di là, o stai di qua. E ritorno al discorso di prima. Se l’Italia non è divisa sociologicamente, lo è sicuramente dal punto di vista politico. Pensa anche all’ultimo appello, quello un po’ volgare di Berlusconi: votate secondo i vostri interessi. M a volte anche se i loro interessi stanno di là, non è impossibile vedere altre ragioni per stare da questa parte. E, fortunatamente, la nostra parte ha vinto.
Dentro questa parte che ha vinto c’è sicuramente Rifondazione. In due parole, perché il successo del tuo partitoi?
In pillole. Anche qui, mi sembra che si siano messi insieme due elementi. Uno, che magari non è stato quantitativamente enorme ma significativo. Il voto ha voluto premiare il partito che più di ogni altro ha innovato, ha spinto e scommesso sull’innovazione: la sezione italiana della Sinistra europea, la non violenza, il rapporto coi movimenti. Il secondo: mai come stavolta siamo stati percepiti come la forza che più di altre garantisce unità e radicalità. Impegnati fino in fondo nella battaglia comune per mandar via le destre, impegnati ogni giorno per spostare a sinistra l’intera coalizione.
Però Rifondazione è andata meglio al Senato che alla Camera. Come te lo spieghi?
E’ un tema sul quale abbiamo cominciato a riflettere. Ma già i primi dati, le prime analisi qualcosa ci dicono. Per esempio che siamo riusciti ad intercettare una parte del voto diessino che si oppone alla nascita del partito democratico. Questo però è valso soprattutto al Senato, dove invece era presente il simbolo della Quercia. Perché quel voto è venuto soprattutto di quella parte del partito die diesse più legata alla militanza, alle attività politiche. Alla Camera, invece, è inutile negarlo, l’idea del partito democratico, seppure nelle vesti del Listone-Ulivo, ha esercitato un grosso fascino fra gli elettori più giovani.
Ed è un problema?
Francamente sì. Perché ci rivela che il bisogno di unità è un valore enorme, di cui non sempre cogliamo l’ampiezza. Anche qui mi spiego meglio: io sono convinto che non esista una netta linea di separazione fra l’elettore radicale e quello riformista. Meglio: diciamo che è un confine mobile. Ma il terreno dei programmi non è il solo che decide la loro collocazione. Esiste quel tema, quello dell’unità, che pesa, eccome. Certo, è un tema difficilissimo da trattare. Perché in Italia siamo ancora alle prese con tutto ciò che s’è portato dietro lo scioglimento del Pci. Dalla crisi di quel partito, il gruppo dirigente ha scelto di uscirne a destra, con un’opzione moderata. Con tappe successive. E questo, diciamocelo francamente, se non impossibile, rende difficilissimo, riuscire a costruire qualcosa che tenga assieme quel bisogno d’unità con una politica di sinistra. E’ un tema, uno dei tanti che abbiamo davanti.
Le ultime domande sono sull’attualità. Avete già cominciato a parlare della delegazione di Rifondazione nel nuovo governo?
No, ti assicuro di no. L’unica cosa che voglio dire, e che ho già detto, è che non ci sono luoghi di governo, non ci sono incarichi di governo che possano essere ritenuti indisponibili per Rifondazione.
Ma chi dovrà dare l’incarico a Prodi?
Il nuovo Capo dello Stato.
Hai qualche idea su chi possa essere?
Ce l’ho, ovviamente. Ma la tengo per me, francamente mi sembra non corretto.
E te? Che farai? Tutti continuano a parlare di incarichi istituzionali?
Ho detto e ripeto che sono indisponibile a qualsiasi incarico di governo. Non mi sento di rispondere allo stesso modo se la domanda si riferisse ad altri incarichi.
Repubblica 13.4.05 Pagina 7 - Interni
Bertinotti: al Quirinale mi piacerebbe vedere una donna. "Con il 51 per cento si governa"
"Con questa destra non si tratta. Io alla Camera? Non potrei dire no"
I tempi lunghi. Ciampi ha ragione sui tempi dell'incarico a Prodi. Ma non stiamo con le mani in mano. Pensiamo, da subito, all'agenda di governo
I due Berlusconi. Secondo me Berlusconi non crede alla storia dei brogli, altrimenti non proponeva il governissimo. È incerto tra populismo e inciucio
di Umberto Rosso


ROMA - Al primo vertice dell'Unione dopo la vittoria, Fausto Bertinotti non c'era. Impegni di partito, riunione di direzione. Ma con il Professore si è incontrato a quattr'occhi, quasi una corsia preferenziale, a rinsaldare l'asse fra i due. «Ho trovato Prodi di eccellente umore. Tonico, senza incertezze, e soprattutto tranquillo e non preoccupato per il futuro del governo e del centrosinistra. E Rifondazione su questa esperienza di governo fa un grande investimento. Garantito: la coesione come grande forza riformatrice».
Che vi siete detti, onorevole Bertinotti, in questo vostro primo faccia a faccia dopo il 9 aprile?
«Intanto, ci siamo scambiati la reciproca soddisfazione per il risultato elettorale. Il successo di Romano Prodi e della coalizione tutta, e il successo di Rifondazione, grande, senza se e senza ma. Ma abbiamo parlato anche delle difficoltà incontrate, e che abbiamo di fronte. Con una conclusione molto netta, condivisa in pieno: l'autosufficienza di questa maggioranza. Con il 51 per cento si governa».
Non si discute con Berlusconi.
«La presidenza della Camera e del Senato saranno espressione della maggioranza. Se ne discuterà, nelle due assemblee, ma la scelta sarà dell'Unione».
E con Prodi avete parlato dei candidati presidenti?
«No, niente nomi».
Lei resta il maggiore «indiziato» per la guida di Montecitorio.
«Io, come ho ripetutamente spiegato, certamente non farò il ministro. Ma è il solo no che dico, non posso permettermene altri ancora. Se altre proposte istituzionali mi verranno avanzate le prenderei in considerazione, con disposizione favorevole. Vorrei suggerire però a questo punto una questione di metodo. Andiamo all'appuntamento con una sola proposta, arriviamoci con un unico nome. Che sia espressione univoca di tutta l'Unione. In maniera limpida».
Come si arriverebbe a costruire quest'unica nomination?
«Con una discussione aperta. Il solito, vecchio sistema per risolvere le questioni politiche».
E i requisiti per la scelta? Che cosa conta: il profilo personale, il successo elettorale o meno del partito del candidato, qualcos'altro?
«È un problema generale di rappresentanza delle forze dell'Unione, tenendo conto degli equilibri politici. Perciò, nella scelta del futuro presidente della Camera o del Senato si intrecciano le caratteristiche personali con l'attenzione ad un equilibrio fra tutte le forze dell'Unione».
Nel toto-incarichi che gira, però, la casella dei Ds rischia di restare vuota. Bertinotti alla Camera, Marini al Senato, Ciampi riconfermato al Quirinale.
«Appunto, è un toto-incarichi. Lasciamo perdere».
Ma esiste per il maggiore partito del centrosinistra il «diritto» alla rappresentanza istituzionale? I ds hanno posto la questione.
«Esiste, come esiste per gli altri partiti, in proporzione. Ma messa così, ha poco senso. Perché può valere per la presidenza della Repubblica, per le Camere, vicepremier, i ministri. Seguendo questa logica, perché allora non candidiamo Piero Fassino alla presidenza della Repubblica? Avrebbe tutte le carte in regole».
Senza Bertinotti alla guida della Camera, tre ministri al Prc?
«Mai avanzato numeri. Osservo solo che dopo il nostro risultato elettorale non vi può essere nulla di precluso a Rifondazione. Per dire, gli Esteri? No, non possono dirci niente da fare».
Sull'elezione del capo dello Stato si può trattare con il centrodestra?
«Confronto sì, trattativa no. Il nome deve essere indicato dalla maggioranza. Ma il capo dello Stato porta in se un tale specifico istituzionale da richiedere un sovrappiù di confronto con l'opposizione. Ma sarà una donna o un uomo dell'Unione a salire sul Colle».
Le piacerebbe una donna presidente della Repubblica?
«Mi piacerebbe, sì. Ma fra il dirlo e il farlo...».
C'è in pista un Ciampi-bis.
«Non mi pronuncio. Per rispetto di un confronto e una decisione che spetta alle forze dell'Unione e a Romano Prodi. E perché mi pare inelegante parlarne, nei confronti del presidente in carica».
La riconferma sarebbe però la soluzione più rapida.
«Non mi pare. Fra tutte le possibili ragioni, non è certo questa la principale. I candidati si possono fare anche in mezz'ora o in tempi lunghissimi. Dipende. E tutti comunque oggi si ritroverebbero sullo stesso piano. Occorre un confronto e una discussione. Perché non si tratta di un'eredità ma di una nuova investitura».
Ciampi non darà subito l'incarico a Prodi, tempi lunghi per il nuovo governo.
«Sarebbe stato meglio partire immediatamente ma considerazioni istituzionali non lo consentono. Ciampi ha ragione. E del resto noi eravamo proprio sulla sua stessa linea. Bisogna adattarsi e aspettare. Ma non con le mani in mano. Cominciamo a pensare, da subito, all'agenda di governo. A questo servirà il coordinamento dell'Unione deciso da Prodi. Non parliamo di governo-ombra, che sarebbe ridicolo, ma vuol dire mettersi al lavoro come se in qualche modo fossimo già entrati a Palazzo Chigi».
Apprensione per il clima che la «conta» chiesta da Berlusconi può innescare?
«Questa storia è destinata a sgonfiarsi rapidamente. Secondo me, che pure gli riconosco alcune capacità, non ci crede neanche Berlusconi ai risultati truccati».
Cosa glielo fa pensare?
«Il suo atteggiamento del tutto contradditorio. Se uno pensa che ci sono stati dei brogli, poi non va a proporre agli avversari il governissimo. Si barcamena. Fra il Berlusconi 1 populista della campagna elettorale e il Berlusconi 2 inciucista delle larghe intese. Ma non sarà l'esito della verifica elettorale a determinare quale dei due Berlusconi alla fine resterà».

mercoledì 12 aprile 2006

Liberazione 12.4.06
Il segretario del Prc chiude alla Grosse Koalition e alla presidenza bipartisan del Parlamento. «Per noi visibilità nel governo»
Bertinotti: «Nessun ponte
alle destre, siamo autosufficienti»
«I “poteri forti” potranno esercitare pressione sul prossimo esecutivo per farlo andare nella direzione che vogliono, dovremo affrontarli politicamente per far valere le riforme»


«Vorrei vivere in un Paese in cui quando dici buongiorno si intenda proprio buon giorno», esordisce così, con le parole di Cesare Zavattini, il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti nella conferenza stampa di ieri mattina, a poche ore dalla certezza assoluta che anche il Senato è stato vinto dall’Unione e che Romano Prodi sarà il futuro presidente del Consiglio. La «buona novella» è «la sconfitta del governo in carica e la fine politica dell’era di una maggioranza costruita attorno alla filosofia di Berlusconi»; il «pericolo» sta nella «pressione che i “poteri forti”, economicamente, culturalmente e ideologicamente, potranno esercitare sul prossimo governo per farlo andare nella direzione che vogliono loro», e questo è un «problema reale che va affrontato politicamente per far valere le riforme»; la
scommessa è quella di «conquistare l’altra parte del Paese, perché si può governare con il 51% dei seggi in Parlamento ma non si può senza l’appoggio della realtà sociale»: tre argomenti per definire il presente e l’immediato futuro di un’Italia uscita abbastanza malconcia dalla tornata elettorale. Intera segreteria alle sue spalle, il Bertinotti segretario di partito non può e non vuole esimersi dal sottolineare quel 7, 4% al Senato (e anche il 5, 8% alla Camera, ovviamente) e lo fa subito dopo aver liquidato Berlusconi: «E’ straordinario, un risultato sperato e in qualche modo previsto alla fine della nostra campagna elettorale». A chi gli chiede di individuare i motivi dell’exploit e della differenza fra i due rami del Parlamento, Bertinotti risponde così: «Ci sono due elementi, il primo è l’innovazione culturale e politica verso la nonviolenza che abbiamo intrapreso dopo Genova e che rafforzeremo nelle modalità costituenti della Sinistra europea; la seconda riguarda il voto alla Camera che credo, aspettando di indagare bene il voto giovanile, sia stato anche favorito dall’assenza dell’Ulivo.
Siamo il secondo e terzo partito in Parlamento: rivendichiamo non solo un peso, ma anche visibilità» e così anche chi voleva sapere la posizione per gli incarichi di governo è soddisfatto. Le domande dei giornalisti vanno ad orientarsi poi su temi specifici, come la guerra: «Come recita il programma (cita a memoria, Ndr), il governo proclamerà immediatamente il ritiro delle truppe dall’Iraq nei tempi tecnici strettamente necessari»; la legge elettorale: «Prodi ha detto che la rivedremo, siamo disponibili ad andare al confronto parlamentare con proposte unitarie. Noi guardiamo ai modelli francese e tedesco»; l’ipotesi Ciampi bis: «Prima ci vuole un colloquio interno all’Unione. Credo comunque, per una ragione di correttezza istituzionale, che debba essere il nuovo presidente della Repubblica a conferire l’incarico a Prodi». L’«integrità» e l’«autosufficienza» sono i due indirizzi che Bertinotti indica all’Unione. Anche, e a maggior ragione, quando a voto appena acquisito si alzano voci (leggi Gavino Angius, Ds) di “grossa coalizione” o di presidenza di una camera (verosimilmente il Senato) da assegnare al centrodestra: «Qualunque forma di ponte offerto ai perdenti è un elemento di oscuramento del risultato, così come la Grosse Koalition alla tedesca sarebbe un tradimento». E’ molto netto il segretario di Rifondazione comunista nel tranciare ogni ipotesi di accordo con il centrodestra: «E’ una minaccia, noi investiamo sull’integrità e l’autosufficienza dell’Unione. Prodi è una guida certa e l’Unione deve parlare come coalizione di governo unitaria, perché ha la responsabilità di guidare le istituzioni. Ogni anticipazione su accordi presi unilateralmente è una sgrammaticatura politica». In quanto agli annunciati ricorsi della Casa della libertà sull’esito del voto, non ha dubbi: «Gli sconfitti si devono rassegnare. So che ci sarà un po’ di turbolenza, perché la natura dell’avversario è turbolenta» scherza Bertinotti. E’ evidente che ieri è stato proprio un altro giorno. Il primo.
Il Giornale 12.4.06
Bertinotti: io vado alla Camera e Romano starà in sella 5 anni
di Roberto Scafuri


Vuoi vedere che il Prodinotti resiste alle tempeste. Quelle prossime. Non era tra gli slogan della campagna elettorale, potrebbe diventare il «vuoi vedere che» più concreto di una legislatura nata in salita. Nella quale il successo arride soprattutto all'architrave dell'accordo di programma, racchiuso in quella «convergenza reale» tra Prodi e Bertinotti, come se gli elettori unionisti avessero compreso e premiato esattamente lo sforzo di stare assieme. E hanno fatto splitting, come viene detto con parola alla moda il voto «disgiunto»: Ulivo prodiano alla Camera, Rifondazione bertinottiana al Senato. Spiegazione eloquente anche del dato che oggi incorona Fausto Bertinotti «diarca», quello «straordinario successo» di Prc che nelle aree metropolitane porta il 7.4 per cento di media nazionale a toccare vette impensabili (talora oltre il 10%), proiettandolo al sorpasso della Margherita come secondo partito dell'Unione.
Insomma, volenti o nolenti si deve partire da qui. Dalla scommessa vinta da Rifondazione, che ora legittimamente attende «peso nel governo e chiara visibilità». Una posizione che si prefigga di «tenere il quadro limpido», ovvero di mettere al riparo la coalizione (e la legislatura) da ciò che il Prodinotti al momento più teme: «Cedimenti a pasticci, ponti levatoi gettati verso la minoranza e qualsiasi tipo di operazione che corroda la correttezza istituzionale». La grosse koalition alla tedesca, dice Bertinotti (Prodi ribadirà), «sarebbe un tradimento del Paese, una minaccia per l'integrità della coalizione». Rifondazione invece «confida nell'autosufficienza dell'Unione di cui Prodi è guida», perché «qualunque possibilità di accordi diversi rispetto al risultato elettorale sarebbe un oscuramento del risultato elettorale, mentre la responsabilità dell'Unione è quella di governare il Paese e guadagnare nuovi consensi attraverso la sua politica riformatrice». Il percorso si va definendo, l'incarico «per galateo istituzionale» dovrebbe essere conferito dal nuovo presidente della Repubblica a tempo debito: «Non bisogna avere fretta» perché oggi più che mai occorre rispettare la «correttezza istituzionale, veniamo da un periodo in cui è stata fatta carne di porco delle istituzioni e anche per questo l'Unione deve avere un sovrappiù di scrupolo».
Se questa è l'esatta cornice nella quale il centrosinistra dovrà muoversi, emergono chiare le condizioni per le quali la presidenza della Camera a Bertinotti è il passaporto per un futuro governo Prodi, «che durerà 5 anni». Scenario nel quale, certo, ci sarà il peso di ministri rifondatori (a cominciare da Giuliano Pisapia, in pole position per la Giustizia), ma dove soltanto la visibilità di un riconoscimento istituzionale a Prc può segnare la fase politica e garantire la sua continuità. Improprie e pericolose sono perciò quelle che Bertinotti definisce le «sgrammaticature istituzionali» di alcuni esponenti del centrosinistra (il ds Gavino Angius per primo), che tendono a lanciare segnali verso la Casa delle libertà. La premessa è che «l'Unione oggi debba parlare come una coalizione di governo unitaria ed è sbagliata ogni anticipazione di qualunque iniziativa politica non concordata».
Il succo è che Prc sarà fortemente «indisponibile» a concedere la presidenza di una Camera all'opposizione: «Sarebbe un grosso errore politico». Anche in questo caso, «un confronto aperto nelle sedi istituzionalmente coinvolte come la Camera e il Senato» non dovrà avere il sapore dell'«inciucio». Al contrario: «Chi ha la maggioranza ha la responsabilità di assumersi la guida di queste istituzioni».
Una nitidezza che porta, rovesciando la medaglia, a non dare spazio a «fenomeni disdicevoli» quali una «campagna acquisti» in settori centristi del Parlamento per rafforzare la maggioranza al Senato. «Però un conto sono gli acquisti - spiega -, un conto invece è la frana; i primi vanno evitati, la seconda va solamente regolata perché un'eventuale fuga dal fronte avverso non dipende dalla tua volontà». Il problema vero e temibile allora è racchiuso altrove. «Non nei transfughi, bensì nella pressione che i poteri forti del Paese eserciteranno sull'Unione per rendere il programma riformatore della coalizione compatibile con i loro interessi». Questa pressione, dice Bertinotti, va combattuta accentuando e facendo emergere il processo riformatore all'interno della coalizione. E si tratta di un «problema reale», legato anche al legittimo proposito di allargare il consenso del Paese, «conquistare altri sostegni alla tua politica in altre realtà sociali». Anche perché «con il 51 per cento si governa un Parlamento, non una riforma; una riforma richiede più egemonia». Egemonia che si conquista con l'impegno, con la serietà, con il mantenimento delle promesse. Vuoi vedere che qualcuno se ne potrebbe dimenticare già tra qualche mese. Quelli che «inciuciano».

lunedì 10 aprile 2006

Segnalato da Roberto Giorgini:
www.enel.it, 06.04.06
«Il pensiero dell'uomo? Altruista»


Secondo l'Economist, il 2006 sarà l'anno dei neuroni specchio. Artefice di quella che dal mondo scientifico internazionale è una scoperta dalla portata rivoluzionaria (pari a quella della doppia elica del Dna) è Giacomo Rizzolatti. Il direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università degli Studi di Parma, ha animato il penultimo appuntamento de “La Parola Contesa”, dedicato al Pensiero.
I meccanismi della conoscenza sono stati per secoli un tema esclusivamente filosofico. In questi anni le cose sono cambiate: le neuroscienze hanno, infatti, sviluppato una serie di tecniche per affrontare problemi che normalmente erano di pertinenza della filosofia.
Ma cosa sono i neuroni specchio? Questo tipo di cellule, scoperte nella scimmia, ha una duplice proprietà. Si attivano sia quando la scimmia compie un’azione (ad esempio prende un oggetto) sia quando la scimmia vede un altro individuo (un'altra scimmia o un uomo) fare la stessa azione. Un'azione fatta da un altro fa "risuonare" - nell'interno di chi osserva l'azione - i neuroni che si attiverebbero se lui stesso facesse quell'azione.
Come precisato dallo stesso Rizzolatti, «nell'uomo il sistema "mirror" è stato dimostrato in maniera indiretta, mediante varie tecniche. Il sistema comprende molteplici aree cerebrali, incluse quelle del linguaggio, e interviene, oltre che nella comprensione delle azioni, anche nella capacità di imitare, una capacità che in senso proprio appartiene solo all'uomo e ai primati superiori».
Quella che a prima vista sembra una scoperta che, sebbene sensazionale, non varcherebbe le soglie del mondo accademico, in realtà comprende dei risvolti molto pratici, dal punto di vista sociale, economico e anche medico. Le scoperte sul sistema specchio ci dicono in sostanza che siamo altruisti. Molti economisti si stanno interessando all'argomento perché sono messe in discussione alcune teorie economiche classiche, in base alle quali l'unica molla che fa agire l'uomo è l'egoismo, che andrebbe quindi indirizzato a fin di bene. Il sistema specchio, invece, ci dimostra che siamo contenti quando gli altri sono contenti e scontenti in caso opposto. Esiste dunque un meccanismo di base fisiologico in cui la felicità altrui è anche la propria».





















Segnalato da Silvana:
Il manifesto, 06.04.06
Il librone di Berlusconi dedicava un piccolo spazio anche a due deportate sopravvissute ad ushwitz. […]
Le quali, tutt'altro che contente per la trovata hanno scritto una lettera aperta spiegando che loro con la campagna elettorale di Silvio non c'entrano proprio nulla. "Scopriamo con sconcerto
nell'opuscolo - scrivono Andra e Tatiana Bucci, le due italiane più giovani scampate al lager e la cui storia è stata raccontata dal libro "Meglio non sapere" pubblicato da Laterza - una testimonianza di Andra Bucci sulla nostra esperienza di bambine prigioniere dei nazisti nel campo di Aushwitz.
Vorremmo far sapere a quanti hanno ricevuto l'opuscolo che Andra Bucci non è mai stata intervistata né interpellata dagli autori o dai mandanti della pubblicazione.
Aggiunge dolore al nostro dolore il fatto che l'appropriazione abusiva del nostro cognome e delle nostre sofferenze sia stata fatta a vantaggio di un governo dove siede un ex brigatista di Salò ed una coalizione che vede raccolti tutti gli epigoni del fascismo e del nazismo italiani".





































Korazym.org, 06.04.06
Vaticano – Talebano: metti una sera a piazza Navona…
di Stefano Caredda


Serata in piazza dai risvolti sorprendenti: i giovani della GMG si ritrovano nella chiesa di Sant’Agnese dopo l'incontro col papa per messa e adorazione. E in contemporanea, chiusura della campagna elettorale della Rosa nel Pugno.

A volerlo fare apposta, non ci si sarebbe riusciti. La liturgia della parola e l’abolizione del concordato. La proclamazione del Vangelo e l’avvento dei Pacs. La consacrazione del pane e del vino e la consacrazione dell’aborto e dell’eutanasia. Tutto in pochi metri, tutto in pochi passi. Da un lato i manifesti con il tema della GMG 2006 (Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino), dall’altro i manifesti con i temi elettorali della Rosa nel Pugno (Un voto di laicità). Il tutto a Roma, piazza Navona.

I fatti. Questa sera, come ogni giovedì che precede la domenica delle Palme, si festeggia nella diocesi di Roma la Giornata Mondiale della Gioventù: appuntamento (ad evitar danni…) in piazza San Pietro, dove il papa incontrerà tutti i giovani che vorranno essere presenti. Evento che potrete seguire in diretta su RaiUno e che si concluderà poco prima delle ore 20. Giusto in tempo per i titoli del Tg1. Mentre gli italiani saranno informati degli ultimi veleni della campagna elettorale, un consistente numero di giovani da San Pietro si sposterà verso piazza Navona, per incontrarsi nella chiesa di Sant’Agnese in Agone. Qui, come ogni giovedì, alle 21 ci sarà la messa, celebrata da mons. Mauro Parmeggiani, direttore del Servizio diocesano per la pastorale giovanile, e a seguire, dalle 22 fino a mezzanotte, l’adorazione eucaristica notturna.

Questo giovedì però non è un giovedì qualsiasi. E’ l’ultimo giovedì di campagna elettorale, con i partiti impegnati nelle ultime manifestazioni pubbliche prima del voto. Chi al Palaeur, chi in piazza del Popolo, è caccia alla cornice più bella e piazza Navona non poteva davvero mancare. E chi ci sarà, oggi, dalle 17 fino a notte inoltrata, in piazza Navona? Semplice: Marco Pannella e Enrico Boselli, Emma Bonino e Ugo Intini. Insomma, la Rosa nel Pugno, la formazione che ha fatto della “laicità” e dello scontro – aperto e dichiarato – con la chiesa cattolica il proprio cavallo di battaglia. Dalle 21 è previsto un vero e proprio spettacolo, condotto da Toni Garrani e Miriam Fecchi. Ci sarà la musica di Eugenio Bennato, Mariella Nava, Dolcenera, Marco Masini, Andrea Mirò, Fabio Canino, Simone Cristicchi, Rais (Almamegretta), Nicky Nicolai e Simona Bencini (proveniente quest’ultima direttamente da San Pietro, dove avrà nel frattempo cantato davanti ai giovani della GMG… "Divido fede politica e fede religiosa: ho condiviso tante battaglie del Partito Radicale", ha "spiegato" ieri all'agenzia Apcom) e poi le testimonianze (elettorali) di Claudio Coccoluto Dj, Imma Battaglia, Biagio De Giovanni, Andrea Occhipinti, Antonella Elia e Marco Bellocchio. Previsto anche un collegamento telefonico con Peter Gabriel da Washington e dulcis in fundo il comizio finale, quello che vedrà al microfono Emma Bonino, Enrico Boselli, Marco Pannella, Ugo Intini e tutti gli altri dirigenti della Rosa nel Pugno. Chiusura prevista: a notte inoltrata.

Due calcoli e il gioco è fatto: i due appuntamenti, quello (all’interno della chiesa) dei giovani della GMG e quello (esterno, sulla piazza) dei militanti della Rosa nel Pugno, viaggiano in contemporanea. Stesse ore e stessi minuti. E stesso campo sonoro, perché piazza Navona non è certo immensa. Cinque scalini e una fragile porta di legno separeranno il raccoglimento di chi prega dal divertimento e dalla passione politica di chi fa festa prima di una tornata elettorale che pare annunciarsi estremamente positiva.

A cercar di metterla sull’ironia, possiamo pensare allo spaesamento dei giovani cattolici in arrivo da San Pietro, alle nove della sera. Che facce faranno al vedere la piazza da loro “vissuta” ogni giovedì colma di manifestanti inneggianti alla laicità dello stato? Che diranno mai i responsabili della pastorale giovanile romana di fronte a questo incontro ravvicinato con chi non guarda propriamente di buon occhio a quanto viene deciso nel palazzo del Vicariato, sede del vicario di Roma, il “famigerato” cardinale Ruini? E dal canto loro, nel vedere arrivare i giovani della GMG, i simpatizzanti della Rosa penseranno forse ad un assalto delle truppe vaticane? Ad una nuova crociata? Ad una breccia di Porta Pia alla rovescia? Chissà, magari qualcuno, come faceva don Camillo a Peppone nei famosi film tratti dai romanzi di Guareschi, avrà l’idea di suonare le campane della chiesa per tutta la sera, ininterrottamente, tanto per dimostrare a Bonino&Co che non avranno vita facile. E forse qualche “militante vaticano” travestito da laico, da socialista, da liberale e pure da radicale tenterà di mettere fuori uso – ovviamente non riuscendoci – gli amplificatori proprio un attimo prima del comizio del buon Marco Giacinto… Chissà.

Tutte cose sulle quali sorridere, ma da non augurarsi. Ovviamente. Perché anche se stretti, c’è spazio per tutti, e le diverse opinioni non impediscono la pacifica coesistenza, anche a pochi passi gli uni dagli altri. E chissà anzi che l’occasione non si tramuti in una insperata opportunità. Chissà che chi sta nel (quasi) silenzio dell’interno non venga richiamato ad un certo punto dal chiasso dell’esterno, per tentar di capire bene cosa accade. E chissà che chi sta all’esterno non cerchi ad un certo punto un po’ di silenzio (o di volume più basso) all’interno, per tentar di capire cosa accade di solito dentro una chiesa. Hai visto mai che – fra una preghiera e un’arringa elettorale – non nasca qualcosa di nuovo?





























Il manifesto, 07.04.06
Il voto laico ultima preda
Fassino scrive al Corriere. Il cedimento confessionale rischia di danneggiare i Ds Pochi ma determinanti, i voti dell'area laica possono condizionare la formazione del partito riformista. Per questo l'ultimo round di campagna elettorale a sinistra ha come obiettivo principale proprio le aree non confessionali
COSIMO ROSSI


Chi l'avrebbe mai detto che l'ultimo voto utile inseguito lungo lo stivale sarebbe stato quello laico, anzi laicista? Agli sgoccioli della campagna elettorale, invece, le forze di sinistra dell'Unione sono tardivamente impegnate proprio a non smarrire la rappresentantività delle istanze non confessionali. A cominciare per l'appunto dal principale partito di sinistra e del centrosinistra: cioè la Quercia. Il cui segretario, Piero Fassino, ieri ha firmato un intervento sul Corriere della sera volto a sostenere la titolarità del proprio partito a interpretare «il carattere laico dello stato».
Questione di pochi voti: numericamente forse non dirimente ai fini dell'articolazione del centrosinistra che verrà ma altresì determinante per la composizione delle delicate geometrie politiche. La quantificazione - possibile - del voto laico, e laicista, può infatti riflettersi sugli equilibri futuri del centrosinistra. Specie nella misura in cui il voto laico si attesterà sulla Rosa nel pungo, che nel suo piccolo potrebbe di conseguenza rivendicare i propri argomenti circa la costruzione del partito riformista prossimo venturo.
Da «cattolico adulto», Romano Prodi è tutto sommato quello che ha fatto - e fa - l'uso migliore delle proprie credenziali biografico-politiche. Lo scorso anno il professore si è recato alle urne in occasione del referendum sulla procreazione assistita per esprimere la propria posizione, ancorché di matrice confessionale. E' Prodi a chiedere in questo ore che la fede - non solo la sua - non venga tirata in ballo durante la campagna elettorale, nonché al momento di esprimersi nell'urna. E' l'ex Dc ad aver ammesso di fronte agli alleati l'esigenza del riconoscimento da parte dello stato dei diritti estranei ai valori del catechismo.
Ma, ben oltre Prodi, da ben oltre un anno la Margherita di Francesco Rutelli incide a colpi di falce il campo della tutela dei diritti civili. Un'ipoteca, quella dei moderati del centrosinistra, sulla stessa costruzione del partito riformista.
Questione di pochi voti, ovviamente. Ma se ai consensi della lista unitaria ulivista verrà a mancare la simbolica presenza laica - e laicista -, l'ammanco graverà in special modo sul peso politico dei Ds. E se oltre alle forze della sinistra radicale - Prc, Verdi e Pdci - se ne avvantaggerà la Rosa nel pugno, il percorso di edificazione del partito riformista diverrà più che mai l'unificazione spartitoria tra le burocrazie in competizione di Quercia e Margherita. Quesione di pochi voti, ma se la Rosa si attestasse solidamente alle pendici del 4 per cento la questione ulivista dovrebbe essere riletta in primo luogo dalla Quercia.
Caccia al voto laico, quindi, nell'ultimo scorcio di campagna elettorale. Perché il campo confessionale non oltranzista è ottimamente rappresentanto dal professore, mentre l'ingerenza bigotta può rivelarsi più dannosa di quanto non immaginato. Tuttavia Fassino e i Ds pagano un atteggiamento imbarazzato e barcamenante. Last but not least proprio l'intervento di Fassino sul Corriere. «L'Ulivo, luogo di incontro tra riformismi laici e cattolici, può essere strumento prezioso ed essenziale per superare antichi steccati e per affermare pienamente il carattere laico dello Stato e della società - sostiene il leader della Quercia - Non perché una cultura, un'etica, una fede prevalga, ma per unire la società intorno ai valori forti della libertà individuale, della coesione sociale e della responsabilità morale».
Fassino si rivolge al principale quotidiano nazionale, campione del moderatismo nazionale tuttavia tradizionalmente attento a difendere i precetti liberali. Ultimamente il Corriere - non meno della Stampa, ancor più affettivamente legata al laicismo sabaudo di cui è stato capostipite Norberto Bobbio - ha rimproverato specialmente ai Ds la debolezza sul piano della difesa dei principi laici connaturata alla costruzione del partito democratico. Fassino risponde che «l'Ulivo può essere utile a superare gli steccati», arrampicandosi in una difesa della legislazione nazionale sui diritti civili: dalla 194, all'impegno non meglio declinato a favore della «scuola pubblica», alla disciplina annunciata sulle coppie di fatto. Nel segno di una «laicità come disponibilità al confronto e rifiuto della coartazione delle coscienze». Un mix a tavolino che continua ad apparire più che altro un'alchimia politicista. Tanto più nella misura in cui non risponde nemmeno con la relatività dei programmi elettorali ai temi sensibili dei diritti civili. Non a caso Emma Bonino ieri confidava ai piedi del palco delle festa della Rosa nel pugno che «sui Pacs e sui diritti civili, anche se vince l'Unione dovremo combattere e vincere dal giorno dopo le elezioni una battaglia nel paese. Altrimenti...».









































Liberazione, 05.04.06
Intervista a Fausto Bertinotti
Comunista e non solo
Rina Gagliardi


Questa campagna elettorale non cessa di riservarci sorprese - a volte proprio molto belle. Come quella di Livorno, dove qualche giorno fa un tripudio di bandiere rosse e di falci e martello ha accolto il comizio di Bertinotti. D’accordo, Livorno è terra tradizionalmente rossa, rossissima. Ma non capita spesso che si debba chiudere un grande teatro (come lo storico Goldoni, dove nel gennaio del ’21 nacque il Pci) e trasferire in piazza la folla che si accalca in platea, così fitta da far scattare l’allarme sicurezza. E’ successo qualche giorno fa. Una segnale che ci autorizza a ben sperare? Bertinotti, quasi ancora emozionato, ci diffida dal coltivare troppe illusioni - non fosse altro perché non porta bene. Di sicuro, attorno a Rifondazione c’è spesso un coinvolgimento lusinghiero. E «su di noi si concentrano molta simpatia, una domanda forte, l’istanza più intensa di una nuova politica». Riusciremo a tradurre tutto ciò in consenso elettorale? «Lo spero vivamente, perché, insomma, questo partito se lo merita, e perché è anche e soprattutto una buona carta per la sinistra e per il futuro dell’alternativa». Intanto, ci sono gli ultimi giorni di lavoro, in cui bisogna pedalare al massimo. E gli ultimi impegni del segretario - tra un “Porta a porta” e un “Omnibus”, Bertinotti affronterà ancora due piazze prestigiose, Bologna, piazza Maggiore, e poi Milano, piazza Duomo, per la conclusione della campagna.

Tutto chiaro? Ma sì, che cosa rappresenti per la sinistra (ma anche per l’Italia, se non vi sembra troppo roboante) la risorsa Prc, forse l’hanno capito, lo stanno capendo in molti. Potrebbe essere anche per questo che abbiamo subìto attacchi così malevoli? Prima, la campagna sui candidati così detti “impresentabili”, per fortuna quasi spentasi per autoesaurimento. Poi, operazioni più subdole e “sofisticate”: come quando i giornali hanno parlato di svolte, di strappi, di abbandono della prospettiva di classe - anche di “imborghesimento”. Si insinua l’idea di un imminente mutamento d’identità e di nome, come se il comunismo fosse divenuto un orizzonte troppo stretto per la pratica dell’innovazione che da anni Rifondazione ha fatto sua. Non sono “sussurri”, ma titoli di giornali che disinformano e disorientano. Prendiamo il toro per le corna e chiediamolo direttamente a Bertinotti: ma insomma sei comunista o no?


Il tuo intervento conclusivo al meeting della Sinistra Europea di marzo è stato “letto” da alcuni giornali come una svolta politico-culturale: l’abbandono di un’ottica di classe e la parallela scoperta della centralità della persona. E’ così?

No, non è così. Nient’affatto. E, anche se non amo molto la retorica dell’“avevo in realtà detto”, colgo l’occasione per fare alcune precisazioni. Non è in discussione l’abbandono di uno strumento-chiave come il conflitto delle classi, senza il quale non saremmo in grado di leggere il passato e il presente, le dinamiche del passato e le contraddizioni del nostro tempo. Non è in discussione l’identità del partito della rifondazione comunista, che in questi anni ha svolto un ruolo prezioso nella sinistra e continuerà a svolgerlo per molti anni. Non è in causa il nostro storico simbolo, quella falce e martello che rappresenta il nostro referente privilegiato, il mondo del lavoro. Tantomeno è in discussione il riferimento a Karl Marx. Se, per uno di quei giochi o quiz un po’ scemi che si fanno, dovessi per forza scegliere un unico grande pensatore, sceglierei proprio Marx - con una particolare menzione per “La questione ebraica”.


Perché, allora, questa storia della svolta?

I media hanno l’abitudine di semplificare e di “sensazionalizzare”. Non riescono, e spesso nemmeno ci provano, a rappresentare posizioni un po’ più complesse della dialettica “o bianco o nero”….


Non farai, anche tu, come quei politici che dicono che è sempre tutta colpa dei giornali?

Ma no, non è questione di “colpa”, se mai di una specie di legge sistemica che tende a governare tutto il mondo dell’informazione e a determinare larga parte dell’immaginario comune: in base a cui una notizia, per diventare tale, dev’esser comunque forzata e ridotta a una verità semplice e\o di comodo. Questo meccanismo produce, spesso perfino contro le intenzioni dei singoli cronisti, vere e proprie falsificazioni - io, per esempio, quella famosa frase (“Basta con il conflitto di classe”) non l’ho proprio pronunciata, nemmeno suggerita concettualmente. Figuriamoci, se mai sono a tutt’oggi accusabile di operaismo…


Dunque, che cosa hai effettivamente detto?

Ho detto e ribadisco che oggi una politica di trasformazione ha il suo imprescindibile riferimento nella pratica del conflitto di classe, ma non può esaurirsi in essa. Ho detto che si deve stare “con Marx”, senza il quale non si capisce nulla del tempo presente, ma che allo stesso tempo non si può non andare “oltre Marx”. In particolare nella seconda metà del ‘900, sono emerse culture critiche - e conflitti - che fanno parte integrante di una strategia di sinistra, di una cultura politica innovata: la contraddizione di genere così come ce l’ha proposta il femminismo; così come la questione dell’ambiente e del rapporto uomo-natura. Non si tratta di due, se così posso dire, “complementi di lusso” alla centralità operaia, ma di paradigmi che modificano e arricchiscono la nostra idea di liberazione: il movimento delle donne ci ha proposto una critica pratica della politica, che era ieri - e resta in parte sostanziale oggi - fondata su categorie patriarcali; l’ecologismo ci ha insegnato a mettere definitivamente in causa ogni visione produttivistica della società. E i movimenti di questi ultimi anni, da Seattle a Genova in poi, ci hanno prospettato lezioni ulteriori…


E la scoperta della centralità della persona, una nozione peculiare della cultura cattolica?

Una nozione che il movimento operaio ha spesso trascurato, a volte ignorato e calpestato nelle sue esperienze statuali. Un’idea, non un’ideologia, che oggi invece ci appartiene interamente, e che è declinabile sia come “inviolabilità” dei diritti del singolo, sia come dignità assoluta delle diversità. Non è una conversione al personalismo di Mounier, e neppure una fuoruscita da una visione classista della società. Se mai, se c’è rottura, essa concerne lo schema tradizionale della sinistra - comunisti, socialisti e anche socialdemocratici - secondo cui, appunto, gli interessi di classe, per esser tali e affermarsi come tali, devono disconoscere quelli della persona. Altra cosa, naturalmente, è l’individualismo, talora senza limiti, se il capitalismo neoliberista coltiva come una grande e menzognera illusione, e anzi propone quasi come un nuovo oppio dei popoli: qui, il tentativo deliberato è quello di distruggere ogni soggettività organizzata - come il sindacato - e di azzerare per questa via la capacità contrattuale dei lavoratori. Ma dove sta qui la centralità della persona? Qui, se mai, c’è un arretramento molto grave, anche di natura culturale e civile, rispetto alle conquiste della modernità. C’è la società ridotta a una giungla, a un “bellum omniun contra omnes”. C’è l’isolamento e anzi la solitudine del lavoratore, presente e futuro, costretto a una condizione di sudditanza permanente e privato di ogni certezza: è la precarietà, nuova frontiera globale della lotta di classe, che devasta al tempo stesso il potere della classe lavoratrice e la dignità della persona. Vedi come le due dimensioni si intrecciano organicamente, intimamente? La globalizzazione liberista (e la sua crisi) fanno emergere, da capo, un capitalismo che, in tendenza, non tollera più alcun limite alla sua espansione, perciò vive i diritti, tutti i diritti, quelli di classe e quelli sociali, quelli ambientali e quelli civili, quelli collettivi come quelli della persona, come un impaccio. Un ostacolo alla sua voracità onnipervasiva.


E’ in questo quadro che oggi la lotta per l’eguaglianza e la lotta per la libertà procedono insieme e non possono più esser contrapposte?

No, anche questa è un’acquisizione, anzi una riacquisizione, necessaria. Troppe volte abbiamo bollato la libertà come un valore “borghese” e abbiamo esaltato l’eguaglianza a discapito della libertà. Dopo le drammatiche esperienze del socialismo reale - dello stalinismo - ma anche nel fuoco della crisi di civiltà dell’occidente, siamo in grado di riproporre questo binomio nella sua integrità. Non è una “concessione” all’avversario: l’abbiamo imparato sulla nostra pelle, a nostre spese, che un processo di liberazione non può fare a meno dell’eguaglianza, ma non può fare a meno né di libertà “formali” né di libertà “sostanziali”.


Tutto questo ragionamento ha però anche uno sbocco politico: la nascita del partito della sinistra europea. Ora, quando nasce una cosa nuova, in genere ne muore una vecchia, o una che c’è già…O no?

No, lo contesto radicalmente. Questo è proprio uno di quei vecchi schemi di cui ci dobbiamo liberare: che cioè nella sinistra si debba procedere o per scioglimenti o per confluenze. O liquidando le identità o assorbendo quelle altrui. Io penso che qui, su questa cruciale modalità del fare politica, è necessaria, anzi urgente, una forte innovazione. Nella fattispecie, stiamo parlando di un nuovo soggetto politico che nasce dalla convergenza tra Rifondazione comunista ed altre esperienze della sinistra, dei movimenti, dell’associazionismo: un incontro che, in parte, c’è già stato nelle battaglie di questi ultimi anni. Ora, certo, si tratta di fare un salto, di imprimere al processo un’accelerazione politica: che non sarà, però, il frutto di una “sintesi” organizzativa di natura tradizionale. Noi - ed io, per esempio - continuiamo a ritenere essenziale il compito della rifondazione di una forza comunista, radicalmente innovata anche nella concezione della politica (la nonviolenza) ma tesa alla meta, pur storica, del superamento del capitalismo e della costruzione di una società liberata dallo sfruttamento e dall’alienazione. Altre soggettività, si muovono su opzioni diverse: il pacifismo radicale, la contraddizione di genere, l’alternatività del modello di sviluppo, l’ampliamento della frontiera dei diritti. Altri soggetti condividono con noi la gran parte degli obiettivi su cui ci muoviamo, ma diffidano dello strumento-Partito così come è andato strutturandosi nel ‘900 e così come, nella sostanza, continua a strutturarsi. Ecco, si può tentar di comporre queste diversità convergenti in una forza politica di nuovo tipo, di respiro e riferimento europeo, in cui ciascuno rimane se stesso, non si sottrae all’incontro e alla contaminazione, non impone primazie e non rinuncia alle proprie persuasioni? In cui il vero dominus è la pratica di trasformazione che unisce e con la quale tutti si confrontano? Io credo di sì. Questa è la scommessa del Partito della sinistra europea, Sezione italiana.







Liberazione, 05.04.06
Persone e politica, il vuoto della normalità
Pino Ferraro


Non sono una persona normale. Mi auguro di non esserlo. Non vorrei che qualcuno un giorno dicesse di me «era una persona normale». Lo si sente ripetere ogni volta e sempre a seguito di un’azione cruenta e crudele. L’uomo che ammazza gli zii e si prodica nella ricerca dei presunti colpevoli, «era una persona normale». Erika pure «era una ragazza normale», così oggi chi ha ucciso un bambino «era una persona normale». «Era». Allora è propria questa normalità ripetuta che non va bene. Si può pensare che la frase ricorrente valga anche a difendersi da una responsabilità così terribile e propria di ognuno che si riconosce in una tale normalità. Come per dire che non ci riguarda come possibilità propria. Come per dire, faceva parte della normalità, ma adesso ne è fuori, perché questa normalità non lo riconosce più tale. Se posso insistere nel giro di pensiero che una tale ripetizione istituisce, in quello «era una persona normale» c’è anche una condanna, un’esclusione retroattiva, «era». La normalità di fatto è sempre al presente, è sempre normale tutto quello che succede, salvo a dire che non era normale quando proprio da quella normalità vengono tante azioni delittuose. Bisognerà prima o poi fare una “critica della ragione normale”, non una critica della ragione pura, ma di quella normale, appunto, responsabile di un assopimento di coscienza di fronte a quello che non è sopportabile per nessun motivo, ragione o sentimento. Una questione di coscienza, ma anche di comunità che in questa normalità si riconosce. Quale? Quella che basta dire “buon giorno” e “buona sera” per dirsi normale. Quella di tacere, di chiudersi in casa, salire le scale salutando il portiere o la vicina senza aggiungere altro. Quella di farsi i fatti i propri e di non interessarsi degli altri se non dietro la tendina della finestra, se qualcosa si può vedere. Ma poi è una comunità intera che ne resta coinvolta. E quando si ribella allora diventa la comunità dei ragazzi di Locri, che normali non sono, perché scendono in piazza a dire basta e a non riconoscersi nella “normalità” della mafia, che è quella acquiescenza che vede e non sente, la stessa della pubblicità che ha preso il posto della politicità, di un paese che si è ridotto allo status di azienda, di una politica fatta di poltrone e di annunci pubblicitari inspiegabili. Ma è normale anche questo, anzi è da tutto questo che viene la normalità, fatta di quei sorrisi ammiccanti, di parolacce e barzellette, di programmi elettorali, fatta di non senso, come un qualsiasi spot politico lanciato all’ultimo sorriso, e non importa per quali conseguenze irresponsabili. Allora Mario Alessi si potrà dire certamente un uomo vuoto, ma è vuoto di normalità, perché la normalità è adesso il vuoto. Bisogna ricominciare a parlare di comunità, bisogna ricominciare a ritrovare la passione di una coscienza in comune, parlare con altri, dirsi nella propria diversità, nella propria solitudine e nella propria miseria e follia. I balordi non sono folli, sì, non sono folli, dice bene Andreoli, sono troppo normali. Banali come banale è il male. Ed è normale quello che succede, è sempre successo, tranne che non era normale quando qualcuno prova a interpretarne il non senso. La battaglia politica è una battaglia di cultura. Ai politici non si può chiedere della pena di morte, ma di una cultura della vita. Alla città non si può chiedere se non di rappresentare una comunità di generi differenti e diversi e misurarsi a questa altezza. Non può essere che una altezza di cultura. Il richiamo è alla televisione, questo tubo di normalità di non senso tanto volte accusato ed assolto. Bisogna riprendersi allora uno spazio pubblico di dissenso, meglio, di critica per una coscienza non più vuota. Ma c’è dell’altro in questa normalità. Il suo viso, il volto di chi parla e dice nascondendo le cose più terribili, fingendo. Ed è la finzione la faccia della normalità che massacra da un momento all’altro un bambino. Quella finzione per cui l’assassino si traveste da ben pensante e ci crede a furia di interpretarlo davanti alla televisione, perché gli riesce meglio. Altri la fanno con facce d’occasioni di notizie, con la loro infingardaggine, la propria falsità di promesse elettorali e irresponsabili ed è la normalità, questa, che è fonte di ogni altro e più terribile gesto di crudeltà. Il richiamo alla cultura deve essere il richiamo di nuove alleanze di saperi, dalla scuola ai centri di formazione e di produzione d’arte, ma deve essere anche l’espressione di nuove alleanze tra le persone, di nuove riconoscimenti ed espressioni. Quello che fa male è che, se ci si abitua allo sbalordimento di chi mente apertamente, non sarà creduto neppure chi dirà la verità apertamente. Ed “è normale” anche questo, che l’accusato sarà chi “era normale”. Non voglio esserlo mai, ci deve essere pure una via tra la mattità e la normalità, credo che sia la coscienza politica per una cittadinanza che sappia esprimere il riconoscimento di una Città non fatta di un solo genere, ma generi differenti e di diversi. Una normalità differente.













































Liberazione, 06.04.06
Storie antiche: votanti infidi e canaglie. Un po’ come oggi...
E Saragat maledì gli elettori: «Destino cinico e baro»
Maria R. Calderoni


Anche lui se la prese con gli elettori (anche se la parola «coglioni» non la disse mai). Se la prese a morte e la sua invettiva - da lamento escatologico, da erinni - doveva passare alla storia. Lui era Giuseppe Saragat e la frase-maledizione imprecava con classicheggiante accento al «destino cinico e baro».

Proprio così, nè più nè meno, contro quegli elettori, infidi e canaglie, che gli avevano tirato lo scherzetto di non votare quasi per niente la sua creatura, nata Psli (poi ribattezzata Psdi) alle cruciali elezioni dell’anno 1953. L’anno della legge-truffa.

Povero Saragat, sconvolto, furioso, se la prese col cielo. E dal suo punto di vista, beh, non senza ragione. Ne aveva fatte di tutti i colori, infatti - in obbedienza ai dettami Usa - per ricacciare indietro quei comunisti di Togliatti ormai predominanti nella sinistra italiana. Correvano gli anni più duri della Guerra Fredda, e lui - da filo-atlantico e anticomunista qual è - non esita ad entrare in urto con il “fusionista” Nenni; non esita (1947) a spaccare il Psiup (storica scissione di Palazzo Barberini); non esita a partecipare - dopo la storica visita di De Gasperi negli Usa e la storica cacciata di Pci e Psi da Palazzo Chigi - al governo quadripartito (Dc, Pri, Pli), smaccatamente di destra.

Per di più, a lui va in buona parte anche il merito (elezioni 8 aprile 1948) di aver fatto balzare la Dc al 48,8% dei voti, grazie alla provvidenziale scissione in casa socialista, che ha oggettivamente indebolito la lista unitaria della sinistra (il Fronte Democratico Popolare). Il merito va a lui e ai suoi “piselli” (dall’acronimo Psli) come vengono chiamati: combattuti, sputtanati, ingiuriati e derisi da comunisti e socialisti. I “piselli” saragattiani, appunto, allora sinonimo di traditori e rinnegati al soldo Usa.

E dopo tutto ciò, che ti va a capitare? Che nelle elezioni 1953, lanciate e combattute come una crociata sia a destra che a sinistra, va a capitare che il suo Psli (frattempo diventato Psdi) ha uno splash terrificante, solo il 4,5, la miseria di un milione o poco più di voti (il Pci si piazza oltre il 22, il Psi dell’odiato Nenni oltre il 12). E per di più la lista di disturbo, messa in piedi in quattro e quattr’otto da Parri e Codignola, è bastata, coi suoi 171 mila voti, per far saltare la legge-truffa.

Troppo era troppo. C’era di che gridare al cospetto del Cielo, e lui lo fece, povero Saragat. Tra lazzi e frizzi - e contumelie e barzellette e feroci caricature - scagliati contro di lui, disgraziato, dagli ex fratelli socialcomunisti (così si chiamavano ancora), lui maledì la sorte. Inutilmente.

Da quello splash non si riprese mai più. E per sempre rimase quello, il partitino “sottopancia” della Dc. Il partitino “dei saragat”.








Liberazione, 06.04.06
Il movimento per la vita
un pericolo da non sottovalutare
Ritanna Armeni ne “La colpa delle donne” ricostruisce il prima e il dopo della legge 194, avvertendo del rischio che si torni all’aborto clandestino. Oggi la grande novità è data dal salto prodotto dalle biotecnologie
Elettra Deiana


A venticinque anni dal referendum del 1981, quello che confermò, con una straordinaria partecipazione di popolo, la legge 194, siamo di fronte a un “nuovo movimento per la vita”, agguerrito e insidioso quanto il precedente, ma nello stesso tempo diverso, perché diversi sono i protagonisti e le modalità dell’odierna strategia antiaborista e soprattutto diverso è il contesto politico-culturale in cui questa strategia si dispiega. L’Italia di oggi infatti, un Paese per molti versi figlio ed erede proprio della stagione che rese possibile la legge 194, appare nello stesso tempo attraversata da ritardi, smemoratezze, indifferenze e paure che rischiano di riportarla indietro di decenni, all’ombra di una sempre più invadente schiera di chierici, atei devoti, politici senza bussola che non sia l’occhio rivolto al Vaticano.

Parte da qui - cioè dall’idea dell’esistenza di questo “nuovo movimento per la vita” - il libro di Ritanna Armeni, La colpa delle donne (Ponte delle Grazie, pp. 200, euro 12,00). Un libro dal titolo quanto mai significativo, così denso, in quelle quattro brevi parole, delle suggestioni misogine che affollano le pontificie esternazioni sulla vita di feti ed embrioni - e a metà strada tra il saggio e l’inchiesta. Un libro che si pone l’obiettivo di ricostruire le tracce di una grande vicenda sociale politica culturale, di cui le donne sono state protagoniste; dei risvolti antropologici, rintracciabili nelle forti trasformazioni che questa vicenda ha introdotto nelle relazioni tra i due sessi, ma anche delle contraddizioni che ne hanno accompagnato il dispiegarsi nel tempo.

Armeni vuole raccontare che cosa sia l’aborto oggi in Italia e che cosa fosse prima della legge, anche attraverso la testimonianza diretta, il racconto, la memoria “delle donne e degli operatori sanitari”, con cui è venuta in contatto, documentando per quanto è possibile, i cambiamenti intervenuti in questi venticinque anni. Cambiamenti che sono stati di notevole rilievo, ma che oggi sono messi a dura prova se, come l’autrice argomenta, si può, anzi si deve parlare oggi di un “nuovo movimento per la vita” e della necessità di fare i conti con la sconfitta del referendum sulla legge 40.

La novità, argomenta Armeni, sta tutta nel gigantesco salto - di senso, di percezione, di immaginario - prodotto dalle biotecnologie. La “difesa della vita” oggi non è solo la difesa del feto dall’aborto, come nel 1981, ma anche dell’embrione fecondato artificialmente, dell’essere umano dall’eutanasia, della persona «da un progresso scientifico che può manipolarla, cambiarne le caratteristiche, eliminarla». La “difesa della vita” fin dal suo concepimento, come predica il cardinal Ruini e con lui predicano tutte le gerarchie ecclesiastiche, fa leva oggi sulla sensazione di spiazzamento indotta nel corpo sociale dalla corsa tecnologica, azzerando o depotenziando in questo modo il principio di responsabilità personale e autodeterminazione rispetto a scelte come quella della fecondazione artificiale, che dovrebbero essere considerate di stretta pertinenza della donna o dell’accordo all’interno di una coppia. La sconfitta del referendum per cancellare la legge 40 fa la differenza dell’oggi rispetto a ieri, delinea il perimetro e la portata del cambiamento: questo l’approccio analitico che Armeni propone.

Dietro la sconfitta del fronte referendario ci sono i protagonisti di questa nuova stagione pro life, uomini soprattutto, ovviamente - perché sono sempre gli uomini a pontificare sul corpo delle donne - ma anche donne, di fede ma anche no, i cosiddetti “atei devoti” guidati da Giuliano Ferrara, Marcello Pera e Oriana Fallaci, che si muovono sull’onda di un convincimento fortemente ideologico, cioè quello che la difesa dei valori occidentali debba essere connessa con la battaglia contro la secolarizzazione e il relativismo e che la conservazione dei valori cristiani sia un tutt’uno con la difesa della civiltà occidentale. Il tema della vita - quella vita biologica considerata dalla Chiesa sacra fin dall’inizio e su cui si stanno spendendo fiumi di inchiostro, sempre sottacendo che a nulla approderebbe senza il corpo vivente della donna che l’ospita, la nutre, la porta al mondo - è diventato per queste ragioni centrale e ossessivo e la mai interrotta campagna contro la legge 194 ha acquisito una valenza tutta nuova e inquietante.

La legge ha funzionato, sottolinea Armeni, sulla base dei dati da tempo acquisiti sul forte decremento abortivo dovuto proprio al ruolo dei consultori, alla contraccezione, alla crescita di consapevolezza delle donne. L’autrice mette però in evidenza anche le zone d’ombra dell’esperienza femminile, attraverso testimonianze che raccontano un vissuto di dolore o rimpianto per la scelta fatta, oppure di difficoltà materiali, sempre maggiori, a mettere al mondo un figlio, che si vorrebbero superare, oppure di una solitudine esistenziale che non poche volte, scrive l’autrice, è la vera ragioni della scelta di abortire. Oppure, ed è il rischio che Armeni sottolinea con grande forza, l’angoscia di fronte alla possibilità che il figlio possa nascere con qualche forma di handicap. In Italia fra gli operatori, sottolinea Armeni, c’è la sensazione di un aumento dell’aborto terapeutico, cioè dell’aborto dopo il terzo mese di gravidanza quando si scopre che il feto è malato e potrebbe nascere con qualche forma di handicap fisico e mentale. Su questa linea di frontiera può far breccia il “ nuovo movimento per la vita”, accusando di smisurato egoismo le donne e rinnovando a ogni pie’ sospinto la campagna sulla “colpa delle donne”.

Per l’autrice insomma non basta dire che la 194 non si tocca né soltanto richiamarsi all’autodeterminazione. Occorre invece vedere quanto in ogni scelta femminile pesino il disimpegno maschile nelle relazioni di coppia e l’indifferenza sociale rispetto al problema. E allora, si chiede Armeni, quali passi si possono fare in Italia per ridurre l’aborto alla soglia minima? Il libro si conclude consegnandoci questo interrogativo. Interrogativo da accogliere anche pensando che sono soprattutto le giovanissime e le migranti ad abortire. Va accolto purché ovviamente si tenga a mente che il “nuovo movimento per la vita”, di cui Ritanna Armeni parla, è il frutto avvelenato di una stagione complessivamente segnata da una più generale vocazione oscurantista. In essa operano attori politici per i quali il benessere psichico e fisico delle donne è l’ultima delle preoccupazioni e la prima è invece l’affermazione della superiore civiltà occidentale. E che l’autodeterminazione è un principio giuridico di civiltà irrinunciabile, da cui non dipendono certo automaticamente né la felicità né l’agio del vivere, ma sicuramente sì il diritto di sottrarsi agli avvilenti diktat di chi pretende di essere depositario della giusta via in materia etica.














Liberazione, 07.04.06
Ingrao e il ’900, secondo Sanguineti
Gilda Policastro


Come da tradizione il Crs (Centro per la Riforma dello Stato) ha offerto a Pietro Ingrao una mattinata di studi in occasione del genetliaco, lo scorso 30 marzo: gli anni sono novantuno e il dono una lectio magistralis di Edoardo Sanguineti. Nella sala conferenze della Camera dei Deputati l’età media si tiene alta e non solo per il contributo del celebrante, recente settantacinquenne, e del celebrato. Difficile stabilire quanto gioco abbiano avuto nella diserzione giovanile la sede istituzionale, la tipologia altisonante della conferenza o il tema all’apparenza demodé: come si diventa materialisti storici (e però col punto interrogativo). In realtà il corso della lectio, pure per buona parte effettivamente incentrata su Manifesto, marxismo, lotta di classe e coscienza intellettuale, ha in qualche suo momento essenziale virato su un motivo tutt’altro che inattuale: il compito dell’intellettuale oggi. Intanto il “mestiere” dell’intellettuale, nelle sue varie possibilità e declinazioni, non garantisce ormai nessuna autorevolezza sociale, tanto meno agli esordi, in proporzione alla sua scarsa rilevanza economica. Ma restando al “compito”, in alcuni passaggi cruciali Sanguineti ne definisce il senso, recuperando i fondamenti del proprio “apprendistato” intellettuale e inquadrandoli in un contesto storico e filosofico più generale: dall’irrazionalismo anarchico dei primi anni di impegno allo stalinismo rigido, come alternativa unica all’imperialismo e al nazismo, all’approdo non tanto al materialismo storico, quanto all’aspirazione ad esso, nei termini della inesausta collaborazione alla consapevolezza di classe, in tempi, peraltro, di totale crisi di coscienza da parte del proletariato, ma certo non di annullamento della oppressione e dello sfruttamento, che è poi il vero contenuto socio-economico del marxismo al di là del nodo, pure connesso, di ricchezza e povertà. E la maniera critica di “non credere in niente”, di cui reca testimonianza un celebre verso-bilancio sanguinetiano, si fa ancora oggi diffida dalla rivendicazione (da qualunque parte essa provenga) del possesso di una verità piena e compiuta da propagandare: proprio dal riconoscimento della parzialità dell’esperienza individuale muove il dissenso di Sanguineti da Marx rispetto all’accezione negativa dell’ideologia, ritenuta viceversa inscindibile dalla coscienza intellettuale, a patto di salvaguardarne, appunto, la consapevole parzialità. Non sono mancate indicazioni pragmatiche ed “agonistiche”: l’intellettuale oggi, come nell’omonimo saggio lukácsiano di quasi un secolo fa, deve anzitutto impegnarsi a diffondere la “coscienza di classe”; deve poi, come nei Minima adorniani, propagandare non la fratellanza universale, che svelerebbe il senso di appartenenza a una società riconosciuta come umana, ma, al contrario, un odio di classe che sia presa d’atto della disumanità del mondo; infine auspicare la rivoluzione. Rivoluzione è parola risuonata anacronisticamente anche in un’altra recente occasione pubblica che ha visto Sanguineti protagonista: la sede era quella istituzionale dell’Accademia romana, un’aula del dipartimento di Lettere della Sapienza, e il target degli uditori si rovesciava rispetto alla Camera in favore degli studenti ventenni. Finito l’excursus avanguardistico e rivolto l’invito “incendiario”, Sanguineti veniva immortalato dai telefoni cellulari di ultima generazione, e proprio dopo averne stigmatizzato il potenziale di dissociazione e autoreferenzialità.

“I nostri trent’anni, generazioni a confronto” s’intitolava lo scorso anno l’esordio di Giovanna Taviani, regista appena più che trentenne, appartenente, quindi, a una generazione che non è solo, come va ripetendo Fausto Bertinotti in questi giorni elettorali, deprivata di futuro, trovandosi a vivere in condizioni sociali, economiche e culturali per la prima volta nella storia italiana più disagiate delle precedenti: la “generazione precaria” è pure, di fatto, quella che ha accorciato il corso, leopardianamente, alla “speme” e alla memoria. I padri non li rinnega e figuriamoci se si sogna di ucciderli: li dimentica, o, peggio ne ha bisogno in termini di sussistenza economica, ma finisce con l’ignorarne completamente il passato, il vigore ideologico, la passione fattuale. Nei suoi trent’anni Sanguineti elaborava con altri il programma neoavanguardistico e rivoluzionario e Ingrao, prima di lui, contribuiva alla sconfitta del fascismo, vedendo nascere la Costituzione. Quella stessa Costituzione cui Sanguineti nella lectio rinviava come all’unico e solo necessario punto di un programma elettorale realmente alternativo a quello della destra: attuare la costituzione, è tutto lì. Il problema del lavoro, su cui la Repubblica italiana dovrebbe fondarsi, è invece oggi vissuto come soggettivo, e individualmente se ne cerca la soluzione, secondo il diktat liberista. Sanguineti nessuno dei potenziali rivoluzionari l’ha sentito alla Camera, e dopo la lezione in aula I all’Università pochi dei più giovani hanno osato chiedere e capire. La rivoluzione: roba buona per le canzoni degli Intillimani, e gli Intillimani, a loro volta, per dirla alla Rossanda, del secolo scorso, come Ingrao.










































Liberazione, 07.04.06
Perù, le sterilizzazioni forzate di Fujimori
Angela Nocioni, Anta (Cusco)


«Non posso avere figli. Dopo l’ultimo parto non posso più. Mio marito dice che non servo a niente, che ora non sono come le altre». Ines ha partorito sei volte. Ha trentasei anni e quattro figli. I primi due sono morti. Gli altri lavorano nei campi. Vive ad Anta, altura gelida del Perù profondo, in una casa di mattoni senza finestre a due ore di auto da Cusco, la capitale archeologica dell’America latina, il cuore dell’impero incaico.

Ines è scesa a Cusco per la prima volta giovedì scorso, con gli autobus messi a disposizione insieme a un cesto di pane e formaggio dall’ex presidente Alan Garcia, candidato alle elezioni di domenica, per riempire la piazza del suo comizio. «Lo voto, ci darà le autoambulanze gratis. Sono importanti le ambulanze. Ora dobbiamo pagare trenta soles (dieci dollari) per andare all’ospedale». Ines è una india quechua, il castigliano l’ha imparato a scuola. Conosce poche parole. Con quelle racconta il suo ultimo parto. «E’ stato dieci anni fa. Un parto difficile. Ho avuto una emorragia. Mi hanno mandato a casa. Continuavo a perdere sangue e sono tornata in ospédale. Il medico ha detto a mio marito che dovevano togliermi l’utero. Lui gli ha risposto che io non volevo. Il medico ha detto che allora le medicine per curarmi dovevo pagarle. E che se non mi operavo mi avrebbero portato in carcere. Mi hanno operato. Quando mi sono svegliata stavo male. Il medico mi ha detto: ringrazia il governo se non continuerai a partirire una volta all’anno. Non mi avevano spiegato che non avrei avuto più figli».

na ha trentadue anni. Mani minuscole e sguardo da vecchia. E’ da Ines in visita. Anche lei è stata operata, le hanno legato le trombe. A sua insaputa. E’ avvenuto dopo il suo primo e unico parto, sotto anestesia. «Ho avuto dolori addominali per settimane. Quando sono andata in ambulatorio mi hanno spiegato che non avrei più avuto figli e che era meglio così perché non avevo soldi per mantenerli».

Li chiamavano “Progetti di painificazione familiare e salute riproduttiva”. Se li era inventati il governo di Alberto Fujimori, il presidente della “democradura” degli anni 90 - feroce mistura di tirannia e democracia formale - fuggito in Giappone nel 2000 e dallo scorso novembre agli arresti a Santiago del Cile su richiesta di Lima per violazione dei diritti umani. La campagna di sterilizzazione forzata delle donne indigene della montagna e della selva è stata la politica pubblica ufficiale di contenimento delle nascite del Perù dal 1995 al 2000. Parteciparono al piano migliaia di medici e infermieri. Sono tutti ancora al loro posto negli ospedali pubblici. Dopo la caduta di Fujimori, il centrosinistra dell’(uscente) presidente Alejandro Toledo promise inchieste e punizionie semplari. Nessun processo è stato celebrato. Nessuna indagine, nemmeno administrativa, è approdata a risultati concreti.

In Perù la media nazionale è di tre figli per ogni donna in età fertile. La media arriva a sei nelle zone rurali. Fujimori decise di andare per le spicce e pianificò la sterilizzazione.

Lo fece assecondando le richieste di controllo demografico suggerite (insieme alla privatizzazione del settore sanitario) dal Fondo monetario internazionale in cambio di crediti e di una rinegoziazione del debito.

Il piano fu finanziato da una serie di agenzie estere che non si occuparono di verificare i metodi seguiti per la riduzione del numero delle nascite. Principale fonte di finanziamenti fu l’Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid): 36 milioni di dollari. Seguita dal Fondo per la popolazione delle Nazioni unite (Unfpa). Dalla fondazione giapponese Nippon Zaidan due milioni di dollari. E da alcune organizzazioni non governative tra cui l’ong femminista peruviana Manuela Ramos.

Le operazioni avvenivano in una cornice grottesca. Nei municipi rurali si organizzavano i “Festival della legature delle trombe”. Medici arrivavano preceduti da altoparlanti, palloncini colorati e volantini di sensibilizzazione alla meternità consapevole. Chi si presentava spontanemaente veniva sterilizzata in ambulatorio. Chi non voleva veniva ricattata e minacciata finché non cedeva. Ad alcune donne delle comunità della sierra è stata promessa una protesi dentaria in cambio dell’operazione. Altre raccontano di avere accettato in cambio della promessa di medicine, cibo e denaro. Mai ricevuti. Nella maggior parte dei casi non ci sono stati controlli sanitari postoperatori. Nessuno ha mai spiegato alle pazienti come proteggersi dalle infezioni. Molte sono state sterilizzate senza che lo sapessero.

Quindici sono morte. Le defensorias del pueblo (l’ufficio pubblico del difensore del popolo) sparse per il Perù sospettano siano molte di più. Le autorità sanitarie hanno falsificato le cartelle cliniche con le ragioni del decesso.

La campagna di sterilizzazione forzata fu scoperta e denunciata da una avvocata di Lima, Giulia Tamayo, del Comitato latinoamericano per la difesa dei diritti delle donne. Con l’aiuto di una rete capillare di attivisti nelle Ande e nella selva Giulia Tamayo ha raccolto una montagna di dati pubblicati poi nel libro bianco “Nulla di personale”. Ha ricevuto minacce di ogni tipo. Gli archivi le sono stati rubati due volte. Alla fine la denuncia è uscita. E’ servita a interrompere il piano. Ma non a cacciare dagli ospedali del Perù l’esercito di medici che partecipò consapevolmente al piano.

Ad Ayacucho, secondo alcune testimonianze raccolte dalla Defensoria del pueblo, si assicurava alle donne che la legatura delle trombe era un nodo che poteva sciogliersi. A Sayan si era stabilito un premio per il maggior numero di operazioni effettuate: il medico modello vinceva un viaggio per tre persone a Machu Picchu.

La defensoría del pueblo di Cusco, città tradizionalmente progressista (ora governata da un fujimorista) culla insieme a Arequipa della resistenza peruviana al regime, organizzò un movimento di sostegno alle vittime. E raccolse testimonianze di parenti di donne morte dopo la sterilizzazione. Questo è il racconto del marito di una donna di 34 anni morta dopo l’operazione subita nell’ospedale di Cajamarca:
«Ogni volta che scendevo al villaggio per comperare le medicine per mia figlia malata la signorina dell’ambulatorio mi diceva che avevo sette figli e che sette figli sono troppi, che il governo non voleva, che se mia moglie non si fosse operata lei mi avrebbe denunciato e sarei andato in prigione». «Io non capivo cosa fosse questa legatura di trombe. Io vengo dalla campagna, lei parlava come un dottore. Mi diceva: io ti aiuto, io ti aiuto, io ti aiuto. Io non volevo, ma mia moglie alla fine ha accettato. Dopo cinque volte che venivano con l’auto a trovarla dall’ambulatorio ha accettato. Siamo andati all’ospedale. Non l’ho vista firmare niente. (Risulta una cartella clinica con l’impronta digitale della donna in cui accetta le eventuali conseguenze dell’operazione). Quando è uscita vomitava e diceva di non sentirsi la testa. Ho chiesto che la ricoverassero ma mi hanno detto di no. Non ci hanno accompagnato. Lei non poteva camminare. Ho pagato un taxi. Cinque soles. Sono tornato la mattina dopo alle otto. Ho chiesto che la controllasse il medico che l’aveva operata. Mi hanno detto di no. Ho preso in affitto una stanza vicino all’ospedale. Sono tornato la mattina dopo. Ho pregato un medico di venire. Sono venuti in tre fino alla stanza della pensione. Mia moglie vomitava e diceva di avere male alla colonna vertebrale. L’hanno visitata e hanno detto: tu stai bene, sei sana, non possiamo ricoverarti, torna a casa». Lei è morta qualche tempo dopo. Dall’ospedale di Cajamarca non è mai uscito il nome del medico che la operò.

L’8 settembre 2001, meno di un anno dopo che Alberto Fujimori era fuggito in Giappone, il nuevo ministero della Salute costituì una commissione speciale di inchiesta sulle attività del programma anticoncezionale chirurgico volontario. Una commissione parlamentare viene costituita per studiare il caso. L’indagine è diretta da Hector Chávez, parlamentare e presidente della Federazione dei medici della regione Ayacucho, Andahuaylas e Huancavelica. Un anno dopo esce un rapporto di 137 pagine nel quale si afferma che tra il 1995 e il 2000, 331.600 donne sono state sterilizzate, e 25.590 uomini hanno subito una vasectomia. «Queste persone sono state convinte attraverso pressioni, ricatti e minacce. In questo modo è stato impedito loro di prendere una decisione pienamente consapevole» si legge nel documento.

Inizia un ping pong infinito in Parlamento per arrivare a una messa in stato d’accusa dell’ex presidente e dei tre ministri della Salute dei suoi governi, ma il processo si insabbia.

E le organizzazioni per i diritti umani, i gruppi femministi, le ong che si occupano di questioni femminili? Sapevano, non potevano non sapere che nelle montagne di svolgevano i festival della legatura delle trombe. Restarono in silenzio, tacciono tuttora. Il timore fu che, dando seguito alle denunce delle sterilizzazioni forzate che arrivavano da voci cattoliche, insieme al piano Fujimori sarebbe stato spazzato via anche quel poco di buono che in materia di diritto alla maternità consapevole si era ottenuto fino ad allora. Loro, difensori dei diritti umani e femministe (nella maggior parte bianche, di sinistra e metropolitane) preferirono chiudere un occhio sulle indigene sterilizzate pur di non perdere la scatola vuota della asserzione formale del diritto alla maternità consapevole. Risultato: l’aborto è tuttora vietato e severamente punito. E migliaia di donne muoiono ogni anno in conseguenza di aborti clandestini.




























Liberazione, 08.04.06
La costruzione giuridica e mediatica dell’innocenza di Padre Fedele
La violenza sessuale è reato?
Sì, ma con molte attenuanti
Angela Azzaro


L’ultima, in ordine di tempo, è la sentenza della Corte d’Appello di Roma: il giudice ha riconosciuto le attenuanti a due stupratori, per violenza su quattordicenne, perché vivevano in un ambiente degradato. Ma la lista è lunga: a partire dalla Terza sezione della Cassazione che, lo scorso 14 febbraio, ha stabilito che la violenza sessuale sarebbe meno grave se la minore non è «vergine». Sono fatti slegati oppure c’è un triste filo logico che li unisce? Il filo c’è e parla di una cultura giuridica maschilista che si sta riaffermando in maniera preoccupante contro la piena signoria delle donne sul loro corpo. Indignarsi è importante ma non basta. La gravità della situazione impone di capire le ragioni profonde, di analizzare le dinamiche sociali e culturali sottese.

C’è un altro esempio, sotto i riflettori ma non per questi motivi, che aiuta nell’opera di decostruzione. Il caso di Padre Fedele accusato da Suor T di violenza sessuale ripetuta. Aiuta, almeno su due piani: quello giuridico e quello mediatico.

In attesa che venga fissato il processo, è stato - come è noto - il Tribunale della libertà ad intervenire con una decisione che non ha niente da invidiare alle sentenze della Corte d’Appello e della Terza sezione della Cassazione. Il giudice, chiamato a pronunciarsi sul collaboratore di Padre Fedele, Antonello Gaudio, ha deciso di revocare gli arresti domiciliari con un atto grave nel metodo e nel merito. Nel metodo, perché il Tribunale della libertà, che dovrebbe vagliare le esigenze cautelari entrando poco nel merito dell’accusa, in questo caso è stato di manica larga andando ben oltre il suo compito. Nel merito, perché non solo si è espresso su una materia che non gli compete ma ha anche preso di mira la credibilità di Suor T. Secondo il giudice, la vittima sarebbe poco attendibile per due ragioni: la testimonianza di una sola persona, contro quella di molte altre, che l’accuserebbe di avere avuto rapporti con altri uomini, di bere e di fare una vita dissoluta e soprattutto il fatto di essere depressa. La depressione non è un’invenzione: è testimoniata dal parere tecnico richiesto dal pm, ma fa riferimento al trauma subito. Per il Tribunale della libertà è invece un elemento che inficia l’accusa. Invece di pensare: sei depressa quindi hai bisogno di essere tutelata. Il giudice dice l’opposto: sei depressa quindi non ti credo.

Comprensibile la reazione dell’avvocata, la penalista Marina Pasqua, che assiste Suor T: «Il pronunciamento del Tribunale della libertà si inscrive a pieno titolo nelle pagine nere della giurisprudenza in materia di reati sessuali».

La costruzione mediatica del caso non è stata da meno, complici - bisogna dirlo - anche i giornali di sinistra. La dinamica è stata molto chiara: da una parte si è proceduto nell’esaltare le qualità dell’accusato come se questo potesse o possa avere qualcosa a che fare con la sua innocenza.

Non è la prima volta che chi stupra è il cosiddetto uomo normale, una persona “perbene”, il padre, il marito, il vicino di casa tanto gentile e tanto onesto. L’innocenza, se esiste, va provata su un altro piano: spesso infatti chi stupra è uomo affermato socialmente, impegnato politicamente, dedito alla famiglia. I religiosi non sono diversi. Dall’altra invece si è tentato in tutti modi di screditare Suor T. Niente è stato detto del suo impegno, pure testimoniato da tanti e tante. La sua bontà, la sua attenzione agli altri non valgono quanto quelle di Padre Fedele. Al contrario si sono ventilati tanga comprati e indossati (La Stampa), labbra con rossetto, fino ad arrivare ad accusarla per avere messo i jeans, segno tangibile della sua cosiddetta perversione. La costruzione è chiara anche in questo caso e anche in questo caso viene da lontano: la violenza sessuale è meno grave se la donna provoca, se è una “poco di buono”. Lo slittamento semantico procede veloce per arrivare da una parte all’immagine del guerriero (sia pure buono, sia pure votato alla castità) che afferma le sue doti virili, dall’altra alla donna “puttana”. Al Padre si perdona, anzi si sorride per la sua intraprendenza, alla suora (ancella) no. Il risultato è un ribaltamento. Una menzogna.

Ma Suor T non è sola. Non dovrà esserlo nel momento del processo. Un primo segnale importante è arrivato da Cosenza, la città dove sono ambientati i fatti. Il Centro contro la violenza alle donne “Roberta Lanzino” ha già annunciato che al momento del processo si costituirà parte civile. Noi siamo di parte. Siamo dalla parte di Suor T, hanno annunciato in un comunicato passato sotto silenzio da parte della stampa nazionale, denunciando il provvedimento del Tribunale della libertà e il modo in cui finora sono stati descritti i fatti e i personaggi.

Il caso è ancora aperto. E’ importante non far venire meno le ragioni di una cultura giuridica garantista. Ma è altrettanto importante non essere indifferenti. Vigilare. Far sentire ai giudici che c’è un movimento di donne che li tiene d’occhio. Facciamo di tutto per evitare l’assurdo, in questi casi sempre dietro l’angolo, di una sentenza in cui i jeans di Suor T diventino la scusa per giustificare la violenza sessuale. Vi ricorda qualcosa?
































Liberazione, 08.04.06
Chi è coglione e chi onesto
Lamberto, via e-mail


Cara “Liberazione”, penso che questa volta l’indignazione del popolo della sinistra rispetto alla vicenda del “coglione” sia sbagliata. Infatti, il premier alla riunione della Confcommercio ha detto, se ho capito bene, che chi è abitualmente un disonesto e non paga le tasse è un coglione se vota per la sinistra. Ha ragione, i disonesti che evadono le tasse sanno che per loro è meglio votare persone disoneste come loro e sono dei coglioni se non lo fanno. Ci ha fatto un complimento, ha detto che chi vota a sinistra è una persona onesta mentre chi vota a destra è un disonesto. Stavolta Berlusconi ha ragione. Una domanda a Fausto sulla libertà: esiste la libertà di essere disonesti? Evidentemente in Italia sì.

Lamberto via e-mail



Liberazione, 08.04.06
I furbi, i “non furbi”
Gian Carlo, via e-mail


Caro Sansonetti, ho appena letto il tuo articolo su “Liberazione” del 7 aprile dove parli di sviluppo e di lavoro precario. Come tu accenni, lo sviluppo deve essere compatibile con il concetto di umano e quando Berlusconi dice “coglioni” si allontana da questa idea di umanità. Le parole sono come un vagone che viene riempito di senso e significati. Quando egli ha detto “coglioni” in quel contesto intendeva dire “non furbi”. Traduzione: «Non sarete così poco furbi da rinunciare a tutti i vantaggi che avrete con me?». E il pensiero, a questo punto esplicito, è quello di dare benefici a una classe di furbi che possa saccheggiare gli onesti, i non furbi. I furbi devono essere i parassiti dei non furbi o come diceva Marx “il più violento domina il meno violento”. Ed è barbarie, “una giungla (…) bellum omnium contra omnes”, come ricordava Bertinotti mercoledì su “Liberazione”. Questa è la società che vuole la destra e chiunque creda che l’uomo nasca naturalmente perverso o che abbia una realtà umana da rapace, forse grazie a qualche peccato originale. Chiunque pensi all’altro da sé come a qualcosa da sfruttare, forse sarà furbo, ma, certamente non è umano.

Gian Carlo via e-mail














Liberazione, 08.04.06
La multinazionale del farmaco avrebbe nascosto gli effetti collaterali del farmaco
Il Paxil induce i bambini al suicidio
GlaxoSmithKline alla sbarra


Tonya Brooks soffre dall’adolescenza di disturbi del sonno, agitazione e aggressività. All’età di quindici anni il medico curante le prescrive un antidepressivo, il Paxil. Ma lei peggiora finché tenta il suicidio con un’overdose di Paxil, associata al sonnifero Ambien, sopravvivendo. Due giorni dopo si fa un buco nel piede con la punta di una forbice, cui segue il ricovero per diversi giorni in ospedale.

Tonya è una delle protagoniste del documentario: “Prescription: suicide? ”, il film che racconta l’esperienza di sei famiglie, i cui figli minorenni hanno tentato il suicidio, mentre erano in cura con antidepressivi. Il video è in concorso al Beverly Hills Film Festival e sarà proiettato domani 8 aprile. Tonya non è la sola ad aver scontato gli effetti collaterali del Paxil e la sua storia è diventata un atto d’accusa contro la GlaxoSmithKline, il colosso farmaceutico produttore del Paxil. Brooks si è infatti rivolta al Tribunale di Philadelphia, Pennsylvania, assieme alla madre di un bambino di 11 anni del Kansas, impiccatosi con il guinzaglio del cane nella lavanderia di casa a novembre, dopo 5 anni di terapia con questo farmaco, nonostante il suo uso pediatrico non sia autorizzato negli Usa. Frode e negligenza i reati su cui la Corte indagherà: Glaxo avrebbe nascosto i rischi di induzione al suicidio nei bambini trattati col farmaco, sebbene dal gennaio 2005 la Food and drug administration (Fda) esiga su ogni confezione un black box sui possibili rischi di tendenze al suicidio nei minorenni. La denuncia chiede inoltre di essere classificata come class action, ovvero come una causa collettiva sottoscritta da molti cittadini in rappresentanza di tutti i minorenni statunitensi, che si sono suicidati, o hanno tentato di farlo, in seguito ad una reazione avversa al Paxil.

Non si scompone la big pharma, dopotutto non è certo la prima volta che finisce in tribunale. La multinazionale farmaceutica, nasce nel dicembre 2000 dalla fusione di Glaxo Wellcome e SmithKline Beecham e oggi è al secondo posto al mondo con oltre 100mila dipendenti, un fatturato di 34 miliardi di euro e una quota di mercato del 7 per cento. I guai legali della multinazionale iniziano da lontano. E’ il marzo 1998 quando la Fda invia una lettera a SmithKline, che poi si sarebbe fusa con Glaxo, intimandole di non ripetere quanto fatto in Florida, quando ad alcuni bambini fu distribuita una maglietta, con su scritto “Multiple Symptons - One Solution” (Molti sintomi - una soluzione), seguita dal logo del Paxil e dal nome della casa produttrice. Per Fda la scritta indossata dai bambini induceva a ritenere che il farmaco fosse adatto anche a loro, mentre era autorizzato solo per gli adulti. Inoltre, il Paxil non era stato autorizzato per sintomi multipli ma solo per indicazioni specifiche. Stessa storia nel giugno 2004. La Fda invia una lettera d’ammonimento a Gsk, in relazione ad uno spot televisivo del Paxil, giudicato «falso o ingannevole», perché non informa con chiarezza sugli effetti collaterali, suggerisce che il farmaco possa essere più utile di quanto non sia e ne sollecita un esteso utilizzo. Sei mesi dopo, settembre 2004, Glaxo patteggia il pagamento di 2,5 milioni di dollari allo Stato di New York, pur ritenendo infondate le accuse, e si impegna a pubblicare sul web tutti i risultati degli studi clinici sui propri farmaci, in cambio della chiusura della causa che la vede accusa di frode dal Procuratore generale dello Stato di New York, Eliot Spitzer. La causa contro Gsk era stata avviata a giugno e contestava alla compagnia farmaceutica l’occultamento degli studi che riportavano l’inefficacia e gli effetti negativi dell’utilizzo dell’antidepressivo su bambini e adolescenti. E sulla vicenda Paxil, oltre alla recente denuncia, pende già una class action per diffusione di notizie false e ingannevoli, presentata nell’aprile 2004 dagli stessi azionisti della casa farmaceutica.


Corriere della Sera, 10.04.06
Intelligenza. Quando calcolare se eccellerà
I cinque anni che fanno diventare geni
Uno studio sostiene che l'intelligenza dipende dall'età in cui si raggiunge un certo spessore della corteccia cerebrale
Cesare Peccarisi


Uno studio pubblicato su Nature indicherebbe che il vero «intellingentone» non è chi ha un cervello più grosso, ma chi in un preciso periodo della vita sviluppa uno spessore della corteccia cerebrale che anche gli altri raggiungono - e magari superano -, ma più tardi. Ricercatori dei National Institutes of Mental Health di Bethesda (Usa), insieme con colleghi canadesi dell’Università di Montreal, dopo aver studiato, tramite risonanza magnetica, 307 bambini, hanno infatti evidenziato che, ai test di valutazione del quoziente intellettivo, risultavano migliori i ragazzi nei quali, fra i 7 e gli 11 anni, si era verificato il maggior ispessimento della corteccia fronto-temporale, notoriamente sede delle facoltà intellettive. In altre parole, l’intelligenza non sarebbe legata a un fattore «statico» come il volume del cervello, ma a uno «dinamico», ovvero la maggiore formazione di neuroni in un periodo dello sviluppo in cui il bambino è come una spugna capace di assorbire ogni stimolo. Secondo questa ricerca, quindi, geni non si nasce. Ma si nascerebbe con la possibilità di diventarlo, grazie agli stimoli ambientali che qualcuno riuscirebbe a sfruttare meglio grazie al cervello che si sta sviluppanodo di più proprio in un’età «strategica». Secondo Vincenzo Guidetti, professore straordinario di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Università La Sapienza di Roma, il punto debole di questo studio è l’estrema difficoltà del controllo degli stimoli con cui l’ambiente agisce sullo sviluppo di ogni cervello. «Senza nulla togliere all’importanza della ricerca, - osserva, infatti, Guidetti - come facciamo ad essere sicuri che i 307 bambini di questo studio abbiano tutti ricevuto gli stessi stimoli ambientali e che il loro cervello sia stato sottoposto alle medesime sollecitazioni?». «Forse sui topini di laboratorio è possibile creare condizioni ambientali uguali per tutti, per verificare se, a parità di stimoli, sia proprio il diverso spessore di una parte del cervello a formare topi più abili di altri» prosegue Guidetti. «Dubito, tuttavia, che nell’uomo ciò possa essere realizzato, anche per l’inevitabile imprinting sociale che caratterizza qualsiasi ambiente sperimentale deontologicamente accettabile in cui tenere un bambino: basterebbe un’infermiera maggiormente affettiva nei suoi confronti, per cambiare lo sviluppo del suo cervello. E anche se i bambini fossero studiati facendoli semplicemente restare a casa, gli stimoli dell’ambiente familiare sarebbero assolutamente diversi».

















Le Scienze, 10.04.2006
L'origine dell'autismo
La risonanza magnetica funzionale mostra come il prestare attenzione ai volti non porti al normale incremento dell’attività cerebrale


C’è un deficit di connessione tra diverse aree cerebrali all’origine dell’autismo. È quanto sostiene un gruppo di ricercatori dell’University College di Londra che ha analizzato le scansioni di risonanza magnetica funzionale (fMRI) di 16 soggetti nello spettro autistico (autism spectrum disorders, ASD) utilizzando come gruppo di controllo 16 volontari sani.
A tutti sono state mostrate su un schermo coppie di immagini raffiguranti abitazioni o volti di persone, e a ciascuno è stato chiesto di concentrarsi e di decidere se fossero coppie di immagini identiche. Le scansioni hanno mostrato notevoli differenze nell’attività cerebrale tra i due gruppi.
Nel gruppo di controllo, infatti, il prestare attenzione alle immagini di volti determinava un notevole incremento dell’attività cerebrale. Nel caso dei soggetti con ASD, al contrario, questo tipo di attività sembrava non avere alcuna influenza sul cervello, il che spiega la mancanza di interesse per le facce che si riscontra nelle persone con questo disturbo. Le immagini di abitazioni, invece, non hanno determinato differenze rilevanti tra i due gruppi di partecipanti.
“Secondo una concezione diffusa - ha spiegato Geoff Bird, dell’Institute of Cognitive Neuroscience dell’UCL – esisterebbe un problema nella regione cerebrale che elabora le immagini dei volti. La nostra ricerca suggerisce che non è questo il problema vero: sembra piuttosto che il prestare attenzione alle facce non porti al normale incremento dell’attività cerebrale. Ciò avviene perché le aree che elaborano i volti non sono ben collegate a quelle parti che invece controllano l’attenzione come le regioni frontale e parietale.”
© 1999 - 2006 Le Scienze S.p.A.