sabato 21 novembre 2015

Repubblica 21.11.15
Castellitto e ‘In treatment 2’ “La parola è un effetto speciale”
Nuovi personaggi nella serie diretta da Saverio Costanzo da lunedì su Sky Atlantic HD
di Silvia Fumarola


ROMA Lo psicanalista Giovanni Mari si è separato. Nel salotto-studio della nuova casa fa i conti con la sua vita e con le vite degli altri. Il padre di un paziente, Dario (Guido Caprino), convinto che il figlio si sia suicidato perché l’analista non ha saputo aiutarlo, l’ha denunciato. Sarà Irene (Maya Sansa), avvocato e sua ex paziente, a difenderlo. La seconda stagione di In treatment di Saverio Costanzo da lunedì su Sky Atlantic HD (19.40 e alle 23.10) è emozionante. «Abbiamo lavorato quasi in presa diretta », racconta Costanzo «con lunghi ciak per non spezzare la tensione». Nel cast Licia Maglietta (mentore di Mari), la coppia in crisi Adriano Giannini-Barbora Bobulova porta in terapia il figlio considerato «debole» che si consola col cibo. Isabella Ferrari è un ex amore dello psicanalista. Tra i nuovi pazienti l’ingegnere Michele Placido: tiene tutto sotto controllo - anche il cappotto di cachemire sul divano, nel timore che glielo rubino - ha un rapporto conflittuale con la figlia Alba Rohrwacher e soffre di attacchi di panico; la studentessa Greta Scarano non vuole sottoporsi alla chemioterapia che potrebbe salvarla, durante la seduta non ce la fa a pronunciare la parola «cancro », la scrive su un foglietto.
Castellitto, si prova quasi imbarazzo ad ascoltare.
«È così. Ci siamo noi, la macchina da presa e dietro milioni di spettatori: In treatment ha osato l’inosabile».
Com’è cambiato Mari?
«È più fragile , più aggressivo, e più solo: deve aiutare gli altri e fa i conti con la sua vita».
Si è chiesto il perché del successo della serie?
«Siamo riusciti a riconsegnare alla parola un primato eccezionale: è l’unico effetto speciale. Mi sembra che abbia un valore profondo, soprattutto oggi».
In che senso?
«Andare sempre di fretta è anche un modo di anestetizzare il dolore. Invece dopo gli attentati di Parigi siamo tornati a rallentare i tempi e a riconsegnare alla parola la giusta importanza. Abbiamo ascoltato».
Però uno psicanalista parla poco.
«Il silenzio fa più rumore delle parole, la risposta è il piano d’ascolto. Quando la paziente consegna il bigliettino su cui scrive la parola che la fa soffrire, chiede aiuto: c’è il dicibile e l’indicibile.
In treatment svela lo spettacolo dentro le parole. Con tutto il rispetto è più innovativo del Trono di spade, che è un meraviglioso kolossal delle immagini. Il colpo di scena è la psiche umana, quanto di più prezioso e spettacolare esista».
In questo senso è impudico.
«Quasi scandaloso, direi: è la ricerca della verità o meglio la ricerca del percorso per arrivarci. Il personaggio di Placido pensa di avere il controllo su tutto, si spegne la luce ed è una formica».
Gli attori si mettono a nudo.
«C’è un’adesione sentimentale e psicologica, è uno straordinario lusso anche per noi confessare, recitando, frammenti della propria esperienza».
Ha mai avuto la sensazione che sia successo?
«Di sicuro è successo. Io, ad esempio, ho riflettuto sulla paternità, su mio padre e sull’essere orfano, condizione definitiva... Lo ripeto, il cinema è una forma di psicanalisi. Agli attori scappano le parole o non riescono a dire una battuta, si chiama inconscio. Forse quelle parole hanno qualcosa a che fare con la propria vita».
PROTAGONISTI Sergio Castellitto con il cast: Alba Rohrwacher, Michele Placido, Isabella Ferrari, Greta Scarano, Maya Sansa, Barbora Bobulova, Francesco De Miranda, Adriano Giannini e Licia Maglietta
Corriere 21.11.15
Placido nuovo paziente di Castellitto «Ma vado in analisi solo per la tv»
Torna «In Treatment». Lo psicoterapeuta Sergio: l’unico effetto speciale è la parola
di Laura Martellini


ROMA «Mai andato in analisi, siamo in otto fra fratelli e sorelle, parliamo tanto, finora non ce n’è stato bisogno», confessa Michele Placido. Eppure il suo personaggio ne ha di turbamenti da raccontare al dottor Mari/Sergio Castellitto nella seconda stagione di In Treatment , da lunedì su Sky Atlantic Hd alle 19.40 e alle 23.10 (su Sky cinema cult hd alle 20.30, il lunedì in anteprima su Sky on demand). New entry nella serie, ispirata a un format israeliano che ha sdoganato la psicanalisi in tv, Placido sarà un manager tormentato da attacchi di panico e dubbi genitoriali (la figlia Alba Rohrwacher va a cercare se stessa in India): «Il mio personaggio è dentro l’attualità, un amministratore delegato la cui azienda finisce sui giornali», spiega l’attore.
Castellitto faccia a faccia con Placido, come poi con la coppia in crisi dal figlio bulimico formata da Adriano Giannini e Barbora Bobulova, con la giovane Elisa (Greta Scarano) incapace di pronunciare la ragione del suo dramma (la scrive), con l’avvocato di successo (Maya Sansa) dalla vita più arida di un deserto. La casistica è ampia. La stessa esistenza del dottore ha preso una piega problematica, fra la separazione, i figli, un vecchio amore (Mara: è Isabella Ferrari). Anche qui a dargli una mano è la sua analista, Licia Maglietta. «Nella nuova serie sono più fragile — chiarisce Castellitto — e insieme più aggressivo: viviamo di corsa illudendoci di non sentire il dolore, ma a salvarci è solo la parola. E la parola è l’unico effetto speciale di In Treatment. Per questo tante star hanno accettato di partecipare». E guarda Lorenzo Mieli, soddisfatto di «produrre una soap opera dalla narrazione di altissimo livello».
Svela la lavorazione il regista Saverio Costanzo: «Ciak lunghissimi, anche di trenta minuti filati, senza interruzione. Come una vera seduta psicoanalitica, imprevisti compresi». Il futuro prossimo di Sky? Fra le produzioni originali, il ritorno di Corrado Guzzanti con «Dov’è Mario», fra sitcom e fiction, Gomorra 2, The young pope di Paolo Sorrentino, la commedia adolescenziale per il grande schermo Piuma, con i protagonisti di «Braccialetti rossi». Placido si candida per In treatment: «Se fate il tris, sono pronto».
Corriere 21.11.15
Diari e taccuini «Qui c’è una donna che vola...» Marc e la leggerezza degli scritti
di Robertaa Scorranese


Il 28 marzo del 1985, Marc Chagall aveva 97 anni ed era felice: l’Unione Sovietica aveva inaspettatamente prestato alcuni suoi dipinti giovanili per una mostra alla Fondazione Maeght, a due passi dalla sua casa di Saint-Paul-de-Vence, Francia. Li aveva rivisti dopo tanto tempo, si era commosso. In quel giorno di primavera uscì nel cortile. Sedette su una panca. Appoggiò la testa al gomito. E morì.
E morì come andava raccontando da decenni, con il suo mondo natìo che gli ronzava negli occhi: violinisti epilettici, cani volanti, donne robuste, croci danzanti, filastrocche incomprensibili. Il calore odoroso russo della sua Vitebsk, che oggi è Bielorussia, era stato il midollo della poesia di Chagall, poesia declinata in uno dei modi più originali: tempera e china, parole e matita.
Con scrittura finissima. «La città pare spaccarsi, come le corde di un violino, e tutti gli abitanti si mettono a camminare al di sopra della terra», scrive in Ma vie , straordinaria autobiografia che accompagna le opere della mostra bresciana.
«Vitebsk, ti abbandono. Restate soli con le vostre aringhe», annota negli anni Venti, ricordando l’abbandono vero, dieci anni prima. Perché «Sto molto bene con voi tutti. Ma… avete sentito parlare delle tradizioni, di Aix, del pittore che si tagliò l’orecchio, di cubi, di quadrati, di Parigi?...». Annotava, cancellava, abbozzava — in mostra anche due preziosi taccuini di schizzi e poesie, ritrovati nel 2012. Scriveva anche quando dipingeva, nell’impellenza di qualcosa che non si saziava mai. Il padre sapeva di aringhe, la nonna aveva una «faccia di petali di rosa», tutto in quel poverissimo villaggio «veniva venduto. Le monete tintinnano. I mugik, i mercanti, la gente di Dio, tutti borbottano, tutti puzzano».
Guardate, al Santa Giulia, la Veduta dalla finestra a Vitebsk , 1908: un vaso di fiori esposto all’altrove, al panorama che splende lontano fuori dalla finestra. Perché non era facile la vita in quegli anni russi, così «in quel periodo mi inebriavo di disegno. Non sapevo che cosa significasse. Al di sopra delle teste volavano i fogli disegnati, raggiungendo spesso la testa del professore». Parigi, i cubi, il pittore che si era tagliato l’orecchio. Come raggiungere tutto questo? Dove trovare il coraggio? Forse arrivò insieme a una ragazza «col collo giallo» (giurava visionario) che aveva visto a san Pietroburgo e poi rivisto a Vitebsk, una che lo guardava indulgente e che — in silenzio — gli prometteva non un banale amore, ma la forza per allontanarsi da aringhe e mercanti.
Bella Rosenfeld non aveva il collo giallo ma piegò quello di Marc fino a farglielo torcere in una posizione innaturale (come l’amore!) nel bacio dolcissimo del Compleanno (1915). Bella s’involò sopra di lui come un palloncino ridente (quante volte abbiamo immaginato l’amato simile a un palloncino leggero, sempre sul punto di svanire?) ne La Passeggiata , il quadro più intenso in mostra. Bella tradusse in francese la sua Vita (l’autobiografia composta tra il ‘20 e il ‘21) e lui illustrò le sue favole, la accompagnò a comprare fiori cappelli, la amò fino a quando lei morì, nel ‘44. Per lei scrisse le pagine più belle del diario: «Quando ti guardo a lungo mi sembra che tu sia opera mia. Più d’una volta hai salvato le mie tele da una triste sorte... Tutto ciò che dici è giusto. Dirigi la mia mano. Prendi il pennello e, come un direttore d’orchestra, trascinami verso lontananze ignote».
Con Bella si lasciò alle spalle le polemiche sulla sua arte, lontana dai dettami dell’avanguardia suprematista o cubista. «Sì, cari miei», pareva dire, «sì, qui c’è una donna che vola, mi dispiace per voi che non la vedete». Scrive: «Io aprivo la finestra della stanza e l’aria azzurra, l’amore e i fiori entravano con lei. Tutta vestita di bianco o tutta in nero lei vola da molto tempo attraverso le mie tele, guidando la mia arte. Non finisco quadro o incisione senza chiedere il suo “sì” o “no”».
Bella morì e lui non dipinse più per un anno. Verranno Virginia prima e Valentina dopo. Verrà il tempo del ritorno in Russia (ma mai nella sua Vitebsk), verrà il tempo del ricordo. Poi la morte. Sui registri delle visite funebri, sfilarono i nomi di: Jacqueline Picasso (la vedova), Roland Dumas (ministro degli Esteri), Pierre Matisse, figlio dell’artista, lo scultore César. Eccetera, eccetera.
Corriere 21.11.15
«Io, l’amore e Chagall»
L’omaggio di Fo all’artista russo «nella poesia dei suoi clown ritrovo la mia lingua dei sogni»
di Giuseppina Manin


Spose prodigiose, innamorati abbracciati, cavalli gialli, angeli blu, violini e rabbini... Gioca con i colori e con i sogni Dario Fo. Un gioco di libertà e felicità, malinconia e follia, che l’ha accompagnato tutta la vita, dai tempi dell’Accademia di Brera fino a oggi, alle soglie dei 90 anni. Nella sua casa milanese, un atelier affollato di cavalletti e tele, matite e pennelli, Dario dipinge freneticamente.
«Una trentina di quadri in 15 giorni — annuncia —. Una media di due al giorno. Naturalmente ho chi mi aiuta. Un gruppo di giovani assistenti che lavorano con me fianco a fianco da mattina a sera, preparano i fondi, colorano alcune parti. Una vera bottega d’arte per un progetto a cui tengo moltissimo: rifare Chagall».
Progetto ambizioso. «Nato per caso. Qualche mese fa Luigi Di Corato, direttore della Fondazione Brescia Musei, mi parlò di una grande esposizione chagalliana in programma nello spazio di Santa Giulia. Era preoccupato perché dal museo di San Pietroburgo sarebbero arrivate meno opere del previsto. E l’esposizione era a rischio». Con uno dei suoi guizzi di follia e spinto da una vera passione per l’artista russo, Fo sferrò la proposta: «E se dipingessi io quel che manca?». Chagall secondo Fo, il fantastico mondo del pittore reinventato dal giullare premio Nobel. Due personalità affascinanti, spiazzanti. Due maestri del raccontare la realtà capovolta.
Detto fatto. La mostra Marc Chagall. Opere russe 1907-1924 , da ieri al 15 febbraio al Museo di Santa Giulia, propone 33 originali e, nella sala accanto, le tele di Fo ispirate a quel mondo. «Ho accettato la sfida perché Chagall è il mio grande amore — racconta —. Avevo vent’anni quando vidi a Parigi una grande mostra su di lui e rimasi folgorato. Non solo per la sua genialità artistica, ma perché in quelle immagini così intrise di leggerezza e follia, di passione e immaginazione, mi pareva di ritrovare un altro me stesso».
Non solo. «Il suo modo di dipingere mi ha segnato, l’uso del colore puro, il viola accostato al giallo, il verde all’arancio... I suoi personaggi, gioiosi e poetici, clowneschi e dolenti, somigliano a quelli di tante mie commedie. Lui del resto era un uomo di teatro, ha realizzato fior di scene e costumi per opere e balletti. Chagall ha messo in scena il sogno, come anch’io tante volte, da Gli arcangeli non giocano a flipper alla rilettura di Maria Callas».
Un realismo onirico presente anche nelle situazioni più tragiche. «La tragedia ha fatto parte della sua esistenza fin dal primo istante. Il giorno della sua nascita, il 7 luglio 1887, il suo villaggio, popolato di ebrei, viene messo a ferro e a fuoco dai cosacchi. Lui sta per morire assiderato, si salva solo perché qualcuno lo immerge in una vasca di acqua calda. Quella scena originaria l’ossessionerà per sempre, quelle case, quelle sinagoghe date alle fiamme le ritroviamo in molti suoi quadri. “Io sono nato morto”, scriverà nella sua autobiografia».
Un ricordo indelebile che Dario ritrae in uno suo quadro. In un altro celebra invece il grande amore di Chagall, sua moglie Bella. «Ne La passeggiata lui la tiene per mano ma lei volteggia in cielo, allegra come un palloncino, pronta a prendere il volo. Un’immagine felice ma già presaga di un distacco straziante. Così, mentre la dipingevo, continuavo a pensare a Franca. E alla fine nel mio quadro, l’amata è già lontana, volteggia eterea tra le nuvole, mentre a terra il marito la rincorre come impazzito».
Il senso di quei quadri sta lì, non nel rifare quel che Chagall aveva ideato, ma nel prenderne spunto per andare oltre. «Un sogno nato dal suo sogno... È la grande magia dell’arte». Per Fo, che già tante volte si è accostato ai capolavori del passato reinventandoli a modo suo, un mezzo per entrare nell’anima di un altro artista. «Non ho mai avuto modo di conoscere Chagall in vita, ora lo incontro dentro i quadri». Entrando e uscendo da atmosfere fiabesche e surreali, mescolando in piena libertà asili viola, cavalli gialli, spose celesti... E il 16 gennaio a Brescia, sarà di scena con una lezione-spettacolo su Chagall. «Ripercorrerò la sua storia di artista e di uomo che ha sempre lottato per la libertà e la democrazia». Titolo? «Chagall da un sogno all’altro».
La Stampa 21.11.15
Da Lichtenstein a Cattelan
Picasso è diventato una mania
Al Grand Palais una singolare mostra ripercorre l’influenza che il genio delle avanguardie del ’900 ha avuto su artisti di diverse generazioni
di Francesco Poli


I grandi quadri multicolori dedicati al tema dei Moschettieri, insieme ai dipinti e alle incisioni di spudorata eroticità, sono le ultime vampate creative di Pablo Picasso, che muore a novantadue anni nel 1973. Questa produzione, esposta all’epoca nel castello di Avignone era stata giudicata da quasi tutti come il segno di una penosa decadenza. In modo sprezzante e stupido, il noto critico Douglas Cooper aveva addirittura scritto: «Sono scarabocchi realizzati da un vecchio frenetico nell’anticamera della morte». Ma proprio come era successo con le opere di tutti i suoi precedenti periodi, anche con questa pittura così genialmente sgangherata (e con quella dei precedenti cicli di d’après) Picasso riesce di nuovo a lasciare il suo segno nella storia dell’arte. La rivalutazione eclatante del Picasso finale avviene con la svolta post-concettuale degli Anni 80. Nella grande mostra «A New Spirit of Painting» alla Royal Academy di Londra (1981), con un gruppo di questi ultimi quadri viene proposto come il maestro di riferimento del ritorno alla pittura in chiave postmoderna, ironica, eclettica, transavanguardista, neoespressionista, e finanche della «bad painting».
Con un paradossale cortocircuito culturale, il massimo inventore del modernismo avanguardista diventa così un alfiere dello spirito postmoderno. La messa a fuoco di questa inedita interpretazione di Picasso è uno degli aspetti principali dell’interessante esposizione «Picasso.mania» che si è aperta al Grand Palais di Parigi.
A partire dal Picasso «moschettiere postmoderno» si sviluppa una sezione che propone lavori di artisti che nei modi più svariati fanno riferimento alle sue opere, ai suoi stili e al suo personaggio, da Malcom Morley a Georg Baselitz, da David Hockney a Julian Schnabel, da Martin Kippenberger a Georges Condo e Jeff Koons. Ma nel suo complesso la mostra non è incentrata tanto sull’evoluzione recente del «picassismo» (la cui influenza si era fatta sentire pesantemente per decenni fino agli Anni 50) quanto piuttosto sulla fascinazione del mito dell’artista, che diventa lui stesso insieme alle sue opere più famose una vera e propria icona pop, un elemento pervasivo della cultura di massa. E questo lo avevano già capito molto bene i veri artisti pop, tra cui in particolare Roy Lichtenstein che in molti quadri traduce in chiave ironicamente fumettistica lo «stile Picasso».
Intorno a tre opere di Picasso ruotano i lavori di molti artisti. Si inizia con le Demoiselles d’Avignon (di cui sono presenti alcuni dipinti e disegni preparatori originali), oggetto di versioni parodistiche, come quella di Robert Colescott, di plagi espliciti come quelli di Mike Bidlo, o di omaggi alla sua africanità da parte di Romuald Hazoumé.
Segue Guernica, icona politica contro tutte le guerre, su cui nessuno osa scherzare. Di particolare intensità è il film, dal titolo omonimo, di Emir Kusturica. E veramente impressionante è l’immenso assemblage di animali carbonizzati (della stessa identica misura del dipinto) di Adel Abdessemed che si intitola Chi ha paura del gran lupo cattivo?. Ma l’intervento più intelligente è l’installazione di Goshka Macuga: un grande tavolo per riunioni politiche con sullo sfondo la grande foto della sala dell’Onu dove si vede Colin Powell che sta pronunciando il suo famoso discorso sulle armi chimiche di Saddam Hussein (inesistenti). Dietro di lui, nella sala, c’era un arazzo che riproduce Guernica, che per l’occasione fu nascosto con un telone. Svelando la censura e mettendo di nuovo in evidenza l’immagine dell’opera, l’artista polacca dimostra la malafede politica e la forza di impatto sempre attuale di quel capolavoro.
La terza icona picassiana è La donna che piange, dove si vede il viso di Dora Maar stravolto. Questo dipinto ha ispirato un’affascinante e spiazzante videoinstallazione di Rineke Dijkstra, dove non si vede mai il quadro ma solo le espressioni delle facce di ragazzi che lo stanno guardando e commentando. Questo e altri ritratti femminili degli Anni 30 (di cui sono esposti vari esempi), con i loro tratti scombinati e gli occhi da una sola parte come le sogliole, sono diventati nell’iconografia di massa gli stereotipi più diffusi dello «stile Picasso», e nelle vignette comiche, insieme alle composizioni astratte alla Mondrian, gli esempi classici dell’arte moderna incomprensibile. In ogni caso a dominare dappertutto in ritratti, documentazioni fotografiche e filmati è lui stesso: la sua inconfondibile figura piccola ma carica di energia, il suo sguardo penetrante, l’universo magico dei suoi vari atelier, i suoi calzoni corti con la mitica maglietta alla marinière. Ed è proprio Picasso in persona che ci accoglie all’entrata, ma trasformato in una comica e grottesca maschera da carnevale di Viareggio. Si tratta di una «statua», in fibra di vetro e polistirolo a colori, di Maurizio Cattelan. Nel 1998 il MoMa di New York gli chiede un progetto, e l’artista realizza questo pupazzo con il testone che (animato da un attore all’interno) passeggia davanti al museo, si fa fotografare con i visitatori e rilascia autografi. Picasso diventa come Topolino, e il museo d’arte un parco d’attrazioni.

(© Courtesy Maurizio Cattelan’s Archive and Galerie Perrotin ADAGP, Paris 2015) - Cattelan è l’opera di Maurizio Cattelan qui accanto dedicata a Picasso del 1998
Corriere 21.11.15
Dormire due volte
E se invece di otto ore di fila ci riposassimo in due turni di tre ore ciascuno?
Torna il mito del sonno «bifasico». Nell’Ottocento infatti molti facevano così. Regole e consigli
di Maria Egizia Fiaschetti


20 minuti è il tempo medio di un «sonnellino» nel primo pomeriggio che può aiutare a compensare l’eventuale perdita del sonno notturno Chi lo fa Ryan Farley e Steven Corcoran, imprenditori: hanno sperimentato il sonno «interrotto», per gestire il superlavoro e ricaricare le energie

Applicazioni per monitorare il sonno. Tabelle che mostrano come frazionare il riposo nel corso della giornata. E, invenzione di un ex gufo (più attivo alla sera, mentre il tipo allodola carbura meglio al mattino), una maschera sincronizzata con lo smartphone (costo 300 dollari). Il dispositivo, dotato di sensori che registrano le onde cerebrali, i movimenti oculari, i livelli di ossigeno e la temperatura corporea, promette di aiutare chi fatica ad addormentarsi — sia per il jet-lag, la videoconferenza all’alba o una vita sempre più disordinata — a resettare l’orologio biologico. Sarà che nelle 24 ore non si riesce più a incastrare tutto, sarà che la tentazione di manipolare la Natura è sempre dietro l’angolo, l’economia di tempo costringe alla spending review anche sotto le coperte. Risultato, siamo divisi tra il bisogno di ascoltare il corpo e l’aspirazione a migliorare le prestazioni individuali. Con buona pace dei ritmi circadiani. Tant’è: il sonno non accenna ad arretrare tra i trending topics , i temi di maggiore interesse sul web. Ed ecco che la piazza virtuale si divide tra apocalittici e integrati: chi rassegnato all’insonnia cronica (ne soffrono circa 4 milioni di italiani, il 10 per cento della popolazione), chi alla ricerca di stili alternativi, fluidi e ubiqui come il nostro modo di vivere e relazionarci.
Il relativismo sotto le coperte
Poliamoroso, polifunzionale, polifasico... Semplice assonanza? Non solo. I neologismi esprimono un concetto comune: la versatilità come spirito di adattamento e liberazione dagli schemi. Motivo per cui il sonno monofasico non è più un dogma, se non fosse che il cambio di passo non è poi così epocale: l’abitudine di dormire otto ore di fila, in realtà, è piuttosto recente (guarda caso, post Rivoluzione industriale). Nel suo libro «At Day’s close: Night in Times Past», Roger Ekirch, docente di Storia a Virginia Tech, ha raccolto un’ampia documentazione, con oltre 500 fonti, che confermerebbe la tendenza a dormire in due tempi: a letto due ore dopo il tramonto, svegli tra mezzanotte e le due (per fumare, parlare, pregare, fare sesso...), di nuovo tra le braccia di Morfeo fino al mattino seguente. Negli anni Duemila, però, il risveglio notturno è percepito più come sintomo di stress che come interludio (ri)creativo. Guai a soffrire di «3 am blues», l’inquietudine delle 3. Occhi sbarrati, muscoli tesi, spossatezza: hai voglia a rigirarsi tra le lenzuola, meglio alzarsi e provare a distrarre la mente. Dovremmo forse tornare ai ritmi ottocenteschi? Se per molti svegliarsi nel cuore della notte è una maledizione, altri cercano invece di trasformare lo svantaggio (quantomeno nell’accezione comune) in opportunità. Prendiamo il caso di Ryan Farley e Steven Corcoran, cofondatori di Lawnstarer: gli imprenditori statunitensi hanno sperimentato il sonno bifasico (due cicli di tre ore ciascuno), per gestire il superlavoro e ricaricare le energie tra un impegno e l’altro. Nella storia, del resto, non si contano gli eterodossi vigili ed efficienti anche con ritmi di sonno fuori dagli standard o al di sotto della media: da Leonardo da Vinci a Napoleone, da Margareth Thatcher a Madonna. Per non parlare del metodico Immanuel Kant: sveglia alle 5, colazione e passeggiata rinvigorente. Il punto è proprio questo: darsi una regolarità, dopo aver fatto a pezzi le consuetudini. «I ritmi circadiani si possono allenare — osserva Lino Nobili, responsabile del Centro di Medicina del Sonno del Dipartimento di Neuroscienze dell’ospedale Niguarda di Milano — purché non ci siano interferenze». Tipico l’esempio dei turnisti notturni che vorrebbero riposare di giorno, ma a casa inciampano in mille distrazioni.
La riscoperta della pennichella
«Si sta esagerando con l’idea che dormiamo meno rispetto al passato - sottolinea l’esperto - . Recenti studi su popolazioni africane e sudamericane mostrano che in assenza di luce artificiale le ore di sonno sono molto simili alle nostre. La vera differenza non è nella quantità, ma nella qualità». Compromessa da ritmi scombinati, eccesso di stimoli luminosi (Pc, tablet, smartphone), ansia di non riuscire a soddisfare tutte le richieste. Motivo per cui si riscoprono i benefici della siesta: «Un sonnellino di 20 minuti — spiega Nobili — può aiutare a compensare la perdita di riposo notturno». Tanto più nel primo pomeriggio, in sincronia con il ritmo circasemidiano, quando la temperatura corporea tende a diminuire. Google, non a caso, ha allestito delle salette per la nap, la pennichella, dei dipendenti. Meglio ancora un micro-sonno di 30-40 minuti: «Si carbura più lentamente — chiarisce Nobili — , ma l’effetto ristoratore è più duraturo». Se è vero che esistono cronotipi diversi influenzati da età e sesso, «il più diffuso però è quello intermedio tra gufi e allodole (il cosiddetto colibrì). Di notte la temperatura corporea si abbassa, mentre la luce è un forte stimolatore dei livelli di vigilanza».
I rischi dell’insonnia cronica
La sintesi è che, comunque si dorma, l’importante è farlo bene e per un tempo sufficiente al proprio fabbisogno. Le conseguenze della deprivazione cronica di sonno? «Non solo la perdita di attenzione e di memoria — avverte Nobili — ma anche un aumentato livello di stress di difesa. Gli effetti negativi colpiscono il sistema ormonale e l’apparato cardiovascolare, oltre a modificare il senso di appetito».
Repubblica 21.11.15
Mata Hari, principessa e spia
Ma soprattutto un’invenzione
di Elena Stancanelli


Nel libro di Giuseppe Scaraffia gli ultimi giorni della celebre seduttrice, simbolo e capro espiatorio della Belle Epoque
Margaretha Geertruida Zelle era nata nel 1876 in Olanda. Oppure in India, da una famiglia della casta sacra dei bramini. Era figlia di una bajadera morta a quattordici anni nel partorirla, o anche bisnipote del reggente di Madura. Principessa, sacerdotessa, puttana... Qualunque cosa fosse stata in vita, quando morì, fucilata all’alba del 15 ottobre 1917 a Parigi, era ormai per tutti Mata Hari. “Occhio dell’alba”, sole, nella lingua che aveva imparato a Giava.
Mata Hari aveva capelli neri e lunghi, occhi grandi e il seno piccolo. Danzava in modo seducente e si esibiva nei salotti. Dove poteva eludere il giudizio degli esperti e creare quella intimità, quella prossimità nella quale sapeva esprimersi alla perfezione. Femme fatale, ballerina di scarso talento, e infine spia. Un po’ per soldi un po’ per avventura, Mata Hari iniziò a fare il doppio gioco tra i servizi segreti francesi e quelli tedeschi. Probabilmente. Ma se la sua condanna fu opinabile, di certo la sua morte volle essere esemplare. «Il suo processo diventò il palcoscenico su cui il nuovo secolo giudicava e giustiziava la Belle Époque», scrive Giuseppe Scaraffia, scrittore e francesista, ne Gli ultimi giorni di Mata Hari” (Utet). Colto e divertente, il libro è costruito intorno a un’intuizione: Mata Hari è un impostore, un sogno, una bugia e non sarebbe mai esistita senza il pubblico specialissimo che la inventò. Intorno a lei, nella Parigi di inizio secolo, pascolano e si pasciono infatti intellettuali e visionari, stupefacenti mentitori e vendidori di leggende. Che importa se Ernest Hemingway arrivò a Parigi solo due anni più tardi la fuciliazione di Mata Hari? «Una notte me la sono scopata ben due volte, anche se francamente trovavo che avesse la vita larga e aveva più voglia di farsi fare delle cose che di dare quel che si può dare a un uomo». Anzi meglio: tanti particolari si sanno solo di qualcuno che non si è mai conosciuto.
E Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti la incontrarono davvero? O semplicemente avrebbero potuto, cosa che renderebbe perfetto il loro incontro. E tutte quelle magnifiche donne, Colette, Virginia Wolf, la marchesa Luisa Casati, Misia Sert, Natalie Clifford Barney, Isadora Duncan. Ognuna di loro, come i colleghi maschi, al guinzaglio del proprio talento e dei propri desideri. I più specializzati, e anche un po’ disgustosi, sono senz’altro quelli di Marcel Proust, che frequentava un bordello gay e si eccitava guardando due... Non ve lo dico. Leggetelo.
Biografie e bibliografie precise e fascinose, brevi racconti con uomini straordinari rincorsi dal rancore della Storia. D.H. Lawrence e sua moglie Frieda in fuga dalla Cornovaglia, Lawrence d’Arabia e quel suo strano incidente in motocicletta... Mata Hari ebbe moltissimi uomini, qualche donna e un solo amore. E con quanta meravigliosa crudeltà il raffinato Scaraffia, nelle note finali, spiega che quello, il capitano Klingham, l’uomo che non l’aveva tradita neanche al processo, è l’unico personaggio inventato.
IL LIBRO Gli ultimi giorni di Mata Hari di Giuseppe Scaraffia ( Utet, pagg. 172, euro 11,90)
Repubblica 21.11.15
Jack London
L’umanità derelitta e magica negli scatti di un reporter
I bassifondi di Londra. Il terremoto di San Francisco. Le isole Samoa Raccolti in volume i diari e le foto realizzati dallo scrittore americano
di Michele Mari


Pochi mesi dopo essere tornato in California dal Klondike, Jack London scrisse a un amico: «Non ho ancora smesso di prendermi a calci per non aver portato con me una macchina fotografica ». Non osiamo pensare a come sarebbe la corsa all’oro fotografata dall’autore del “Richiamo della foresta”, e il nostro rimpianto aumenta di fronte alla bellezza e all’intensità delle fotografie scattate da London nel corso dei suoi reportage. Fotografie (ne ha lasciate più di 12.000) che spesso sembrano uscire direttamente dai suoi libri, tanto sono
organiche al carattere e allo stile di uno scrittore che come pochi al mondo ha coniugato il senso della realtà (della più cruda e impoetica realtà) con il mito e con il sogno.
Una piccolissima ma eloquente porzione di questo tesoro è riprodotta in un libro curato da Alessia Tagliaventi e introdotto da un londoniano militante come Davide Sapienza ( Le strade dell’uomo, Contrasto). In ciascuna delle quattro sezioni che lo compongono (le condizioni di vita nell’East End londinese, 1902; il fronte coreano della guerra russo- giapponese, 1904; il terremoto di San Francisco, 1906; un viaggio di due anni nel Pacifico, 1907-1909) le immagini sono accompagnate dai testi che London scrisse come reporter, e che in due casi divennero poi un libro ( Il popolo dell’abisso, 1903, e La crociera dello Snark, 1911). Non nascondo la mia predilezione per le due sezioni metropolitane: brulicante di derelitti quella londinese, spettralmente disabitata quella su San Francisco. Per la prima London si travestì da disoccupato, per non suscitare diffidenza e «incontrare la gente da uguale »: cenciosi ed emaciati, gli abitanti «di quella voragine infernale che ha nome East End» gli appaiono come «una razza nuova e diversa», la stessa che sette anni prima, nella Macchina del tempo, Wells aveva collocato sottoterra dandole il nome di Morlocks. Solo i bambini sembrano ancora umani, anzi talmente umani che descrivendoli London sembra parlare di se stesso: «Sono pieni di immaginazione. Hanno una capacità fuori del comune di proiettarsi nel regno del romanzesco e del fantastico. La vita scorre nelle loro vene piena di una gioia tumultuosa». Una foto in particolare mi ha colpito: ritrae una ragazza che sta sfregando un pavimento («una serva dell’East End», recita la didascalia), e che guarda nell’obbiettivo con un sorriso da innamorata: per quanto mimetizzato, mi piace pensare che London le sia apparso come una specie di angelo.
All’alba del 18 aprile 1906 San Francisco fu abbattuta dal terremoto: nei quattro giorni successivi divampò un immenso incendio che completò la distruzione, e che London osservò da alcune miglia di distanza. Invitato da più giornali a scriverne si rifiutò, affermando che nessuna combinazione di parole avrebbe mai eguagliato quella tragedia: accettò invece quando il Collier’s Magazine gli chiese un servizio fotografico. London arrivò in città mentre ancora infuriava l’incendio e avanzò a misura che le fiamme arretravano: eppure le sue fotografie non recano alcuna traccia di agitazione o precarietà; al contrario ci consegnano una San Francisco già “classica”, una moderna Pompei fissata da uno sguardo leopardiano: ma basta distrarsi un attimo e da Pompei ci ritroviamo a Berlino o a Dresda nel 1945, con un’anticipazione che sul piano tecnico ha del miracoloso.
Il momento fatale di Lord Jim fu l’abbandono della nave; quello di London, a prendere alla lettera le sue parole, fu il salvataggio di una nave, allorché un capitano sgomento gli affidò il timone durante una tempesta: «Il successo di cui vado più fiero, il momento supremo di tutta la mia vita, l’ho vissuto a diciassette anni», scrive nella Crociera dello Snark per motivare la scelta di investire i suoi risparmi nella costruzione di un’imbarcazione “su misura” per fare il giro del mondo, tempo stimato sette anni.
A causa di una malattia tropicale che colpì London alle Isole Salomone, il viaggio durò invece due anni, durante i quali il marinaio non si dimenticò mai di essere scrittore e fotografo. Lo vediamo studiare una carta nautica insieme alla sua compagna Charmian e con le gambe penzoloni dalla fiancata dello Snark, ma soprattutto vediamo gli abitanti delle Samoa oppure lo straordinario Ernest Darling, “l’uomo natura” che scelse di vivere nelle foreste di Tahiti, e che in una splendida fotografia, stagliato su un fondale degno di Henri Rousseau, ci appare come il Ben Gunn dell’Isola del tesoro. Ma forse l’immagine in cui lo spirito dell’autore è più evidente è quella che ritrae una banda musicale di quattordici elementi in divisa da parata: sono i lebbrosi dell’isola di Molokai, oggetto di “spaventose leggende” cui London non vuole credere, tanto più dopo aver scoperto che nessun cronista ha mai messo piede sull’isola. Così adesso è davanti a loro, che lo guardano impugnando uno strumento, pronti a suonare a un suo cenno.
IL LIBRO Jack London, Le strade dell’uomo. Fotografie, diari, reportage ( Contrasto, pagg. 196, euro 19,90), a cura di Alessia Tagliaventi, con introduzione di Davide Speranza. Il libro sarà presentato il 25 novembre a Forma Meravigli ( Milano) e a Roma il 2 dicembre all’AuditoriumExpo
La Stampa TuttoLibri 21.11.15
Fittipaldi più veloce di Nuzzi
di Luciano Genta


Come l’omonimo ferrarista, Fittipaldi accelera, raddoppia e supera Nuzzi, con i 100 punti ora a 20 mila copie. Questa settimana è toccata a lui la benzina mediatica. Spente le luci della ribalta, vedremo chi avrà il miglior motore. Due le novità tra i primi 10, sotto quota 5000. Riecco la Schiappa di Kinney al suo 9° titolo, costretto alle disavventure, non sempre spiacevoli, di un viaggio vacanza con la sua maldestra famigliola: ovviamente è subito 1° tra i Ragazzi, dove mai si vedono i titoli scelti dai critici, ad esempio i finalisti dello Strega junior o i vincitori del premio «Laura Orvieto» (Mio padre il grande pirata di Davide Calì, Orecchio acerbo e Fuori fuoco di Chiara Carminati, Bompiani). Poi torna Grisham, con un avvocato che si racconta in prima persona e sferza la giustizia americana: uno che afferma il diritto alla difesa per qualunque canaglia e qui da noi se la potrebbe intendere con il vicequestore Schiavone di Manzini. La rilevazione si ferma al 14 novembre: sabato prossimo ci sarà in libreria l’eco della carneficina di Parigi? Non manca l’offerta di letture per ragionare a mente fredda e sulla lunga durata. Lo storico inglese Ian Mortirer, chiudendo Il libro dei secoli (Bollati Boringhieri), istruttiva e affabile sintesi del secondo millennio, sostiene, da non credente, che il più importante e positivo «agente del cambiamento» è stato Dio. Fino all’ ‘800. Poi non più.
La Stampa TuttoLibri 21.11.15
Gillo Dorfles
“Il privilegio d’aver 105 anni? Ho conosciuto Svevo”
“Per capire l’arte bisogna innanzitutto esercitare lo sguardo e girare i musei. E poi aiuta leggere i miei libri, tutti”
di Francesco Rigatelli


Ha compiuto 105 anni. Gillo Dorfles mi riceve per cortesia fuori dalla porta di casa, al piano alto di uno scuro palazzo novecentesco milanese ai margini del centro. La casa del principe dei critici d’arte è a metà tra un archivio di carte e un deposito di quadri. Le lampadine sono quelle fioche di una volta. Sorvegliati da un Fontana rosa alla parete, ci sediamo a un tavolo di noce con Luigi Sansone, che la casa editrice Skira descrive come l’angelo custode del grande esteta e il curatore dell’opera monumentale
Gli artisti che ho incontrato
. Ultima zampata di Dorfles con la mostra su di lui a cura di Achille Bonito Oliva, che inaugura venerdì al Macro di Roma. Nell’intervista sui suoi gusti lo scopritore della modernità nell’arte non fa nomi per discrezione, per non ingelosire nessuno e per rimandare ai suoi scritti, esibisce il tratto mitteleuropeo da triestino elegante e a volte nichilista, vanta il risultato «di essere sempre riuscito a fare quello che mi piaceva» e se ne esce ogni tanto così: «Se vuole un superalcolico me lo dica: ne ho parecchi!».
Dorfles, cos’è per lei l’arte contemporanea?
«Se uno potesse rispondere a questa domanda non ci sarebbe più arte».
Lei come la riconosce? In base a cosa capisce se è arte o no?
«Per la sensibilità estetica che viene dimostrata dall’artista. Chi più, chi meno. Se uno per professione si occupa dell’argomento si spera abbia una capacità maggiore degli altri. E che si noti».
Cosa la colpisce di un artista nuovo?
«Questa è una domanda di psicologia a cui io, psichiatra di formazione, non posso rispondere. Certo per me viene prima la persona che l’artista».
Così veniamo ai suoi inizi. Qual è la sua formazione?
«Sono laureato in Medicina e specializzato in psichiatria».
E com’è avvenuto il trasferimento nel mondo dell’arte?
«In realtà ho scritto i miei primi articoli a 18 anni sull’argomento. Il che non toglie il mio interesse per la neurologia, pur mai esercitato».
Perché non ha fatto il medico e ha scelto la critica d’arte?
«Per generosità verso i possibili pazienti. Mi sono reso conto che sarei stato un pessimo dottore».
La Trieste della sua gioventù?
«Vi sono nato e vi sono rimasto fino a quando mi sono trasferito a Roma per l’università. Poverina, Trieste era una città più speranzosa di oggi, che si aspettava dall’Italia molto più di quanto ha avuto. Da parecchi anni casa mia è Milano, dove vivo in questo archivio di quadri regalatimi dagli artisti che ho scoperto».
Lei stesso è un artista.
«Ho dipinto fino agli Anni 60 poi mi sono distratto insegnando Estetica a Milano e a Cagliari, ma in realtà non ho mai smesso e ho fatto diverse mostre. E’ la mia professione, l’ho svolta più o meno bene ma continuamente. L’ultimo quadro è di quest’estate».
Di cosa narra?
«Non racconta niente, perché non faccio quadri narrativi ma pittorici. Certe volte astratti, altre no».
A cosa si ispira quando dipinge?
«A me stesso ovviamente. Senza alcuna definizione. Dipingo quello che ho dentro e le stagioni non mi influenzano».
Con Gianni Monnet, Bruno Munari e Atanasio Soldati ha fondato il Movimento per l’arte concreta.
«Volevamo un astrattismo depurato e razionalizzato contro l’arte figurativa. Durò cinque o sei anni poi negli Anni 50 finì: il destino di tutte le cose».
Questo suo spirito le viene dal clima triestino d’inizio secolo?
«A Trieste ho conosciuto Italo Svevo, Umberto Saba e Bobi Bazlen. A Milano e a Roma nessuno sapeva ancora chi fosse Freud».
Poi il Novecento si è chiuso, che ne pensa?
«Che non si può dire questo, è ancora in atto e la pittura di oggi è la continuazione di quella novecentesca».
Gli artisti contemporanei sono più o meno interessanti di quelli di allora?
«Ogni secolo ha i suoi artisti e ogni pittore è interessante se è riuscito. Se è fallito non è da ammirare in qualsiasi secolo. Gli artisti del Novecento sono stati maggiori di quelli dell’Ottocento. Ora è un momento difficile, ma ci sono delle individualità».
Lei non ama i nomi, ma può fare un’eccezione per uno dei suoi preferiti: Lucio Fontana?
«Non faccio mai i nomi e non so raccontare favole. Gli artisti si vedono, non si raccontano. Fontana è stato un mio amico come Agostino Bonalumi, Giuseppe Capogrossi e Enrico Castellani».
Ha raggiunto delle quotazioni incredibili.
«Finalmente viene riconosciuto il suo valore».
Cosa c’è dietro un taglio di Fontana?
«La sua personalità».
E il Fontana di oggi chi è?
«Non c’è per fortuna. Un grande artista non ha ripetitori».
Il critico d’arte ha ancora una funzione?
«Notevole, perché le persone non si avvicinano da sole all’arte contemporanea. Il critico dovrebbe servire a illuminare il pubblico».
Perché ha scelto Estetica come materia?
«È la branca filosofica più vicina all’arte. Creazione, fruizione, storia vi sono compresi. Ho vinto la cattedra e ho insegnato fino alla pensione».
Ci può essere un’estetica senza etica?
«Sono due cose diverse. Uno può essere un artista e al contempo un delinquente. Ci sono molti casi del genere».
Cosa suggerisce a chi vuole capire l’arte contemporanea?
«Di girare i musei più importanti per farsi una preparazione. Per capire d’arte bisogna prima di tutto esercitare lo sguardo. Poi leggere tutti i miei libri aiuta».
E lei chi ritiene fondamentale per la sua formazione?
«Nessun altro che me stesso».
Lei come si definisce politicamente?
«Un bipede implume».
Non ha una posizione politica?
«No, per fortuna il fascismo è finito quindi non ho più neanche bisogno di essere antifascista».
Si sente un liberale?
«E’ una parola che non ha più significato. Beh, mi pare che abbia fatto abbastanza domande: un articoletto riuscirà a scriverlo…».
Posso fargliene una su Milano?
«E perché non su Torino? Io la preferisco, ci ho fatto il servizio militare e ne conservo ottimi ricordi».
La domanda vale per tutte le città: che ne pensa dei nuovi grattacieli?
«Era ora che si muovesse un po’ la situazione. Viva la verticalità, con tutta la pianura che ci circonda».
La fotografia è un’arte?
«Può esserlo. Non ogni dilettante fotografo è un artista».
A lei interessa o la considera un’arte minore?
«Non mi interessa, anche se ho fotografato a volte per divertimento».
E perché le interessa di meno?
«Vuole mettere con la pittura? Non c’è confronto!».
La Stampa TuttoLibri 21.11.15
Jung, la libido è anche bere un bicchiere di vino prima di lasciare la vita
L’intatta attualità dello psichiatra svizzero nelle 9500 pagine (e 10 mila note) digitalizzate
di Alessandro Defilippi


Il 6 giugno del 1961, a Küsnacht, sul lago di Zurigo, moriva Carl Gustav Jung. Pare che le sue ultime parole siano state, la sera prima della morte: «Beviamoci un buon bicchiere di vino. Oggi ce lo siamo meritato». E, riferisce Sandra Petrignani nel suo bel blog, «Si scatenò un violento temporale e il vecchio pioppo del giardino sulle rive del lago fu colpito da un fulmine». In queste frasi, in questo evento, sono racchiusi molti dei segreti del vecchio saggio: la sua fisicità, il suo amore per la vita, il mistero e i simboli.
Sono dunque trascorsi cinquantaquattro anni, eppure la sua voce – più di altre a noi più vicine - ci tocca chiara e forte come non mai. È come se lo psichiatra svizzero avesse intuito il nostro futuro e ci avesse donato, con i suoi libri, alcuni strumenti per comprendere questa post modernità. Pensiero debole, quello di Jung? Certo così potrebbe apparirci, a confrontarlo con la rigorosità della costruzione freudiana, con il legame di Freud con determinismo e positivismo e con la sua etica stoica e pessimistica. La grande rottura tra i due avvenne proprio sul concetto fondante della psicoanalisi, quello dell’inconscio e della sua energia, la libido. Freud confina quest’ultima nel campo della sessualità e la contrappone alle pulsioni di morte, per cui ogni costruzione umana, anche le più astratte, altro non sarebbero che una sublimazione delle pulsioni sessuali o aggressive. Jung rifiuta questo riduttivismo: per lui la libido è semplicemente energia psichica, che può investire ogni campo dell’attività e della sensibilità umane.
Ma pensiero forte in altro senso: Jung ha donato ai suoi lettori sempre un obiettivo e una speranza. L’obiettivo rappresentato da quello che egli chiama processo individuativo: il cercare di divenire ciò che si è appreso di essere, il tentativo di essere noi stessi fino in fondo, portando il peso del nostro piccolo o grande talento di vivere. La speranza che il nostro mondo e la nostra vita non siano limitati nel qui e ora ma che esista una qualche forma di ulteriore: «Per me, sin dall’inizio, il mondo è stato infinito e inafferrabile».
Dunque, benvenuta questa edizione in e-book dell’opera completa di Jung che Bollati Boringhieri licenzia in questi giorni. Si tratta della digitalizzazione dei 18 volumi delle Opere, oltre 9500 pagine di edizione cartacea, in un unico e-book consultabile con un tablet o con un e-reader. Un’operazione, ci raccontano i responsabili della casa editrice, che ha richiesto tre anni di gestazione e che è rivolta anche, se non soprattutto, a un pubblico più giovane e comunque in confidenza con i supporti informatici. Un’edizione peraltro, di grande utilità anche per lo studioso e lo psicoterapeuta, con la possibilità che offre di passare rapidamente da un’opera all’altra e di effettuare ricerche mirate in tempo reale.
Ma torniamo a Jung e alla sua attualità. Rimuoviamo intanto quelle accuse talora portategli di fumisteria misticheggiante o, ancora peggio, di essere una specie di anticipatore della cosiddetta New Age. Jung ci ricorda sempre di essere principalmente un medico, un empirista. E questo atteggiamento si ritrova nell’arco di tutta la sua vita, dai primi testi dedicati alla psichiatria a quelli che hanno invece come oggetto temi ben diversi, come il mito e l’alchimia. In questi ultimi Jung ci mostra in tutta la sua pienezza l’importanza della vita simbolica, della capacità cioè, tramite i simboli, come quelli che si ritrovano nei miti o nei testi alchemici, di accedere a un senso in un mondo che pare di senso essere privo. Scriverà in effetti: «Il bisogno di mitologia è il bisogno di senso».
Dunque i libri di Jung non ci parlano del contingente, del temporaneo. Ma proprio per questo restano di bruciante attualità. Essi in realtà si occupano delle cose davvero fondamentali: il coraggio, l’amore, il senso, la morte, Dio o cosa per esso. Ecco perché in questo tempo oscuro ci vengono ancora incontro, ci interrogano e ci stimolano a cercare nuove risposte.
La Stampa TuttoLibri 21.11.15
Sulla zattera della gelosia inevitabile è il naufragio
Uno studio finora inedito in Italia del filosofo e psichiatra: la sindrome di Otello tra indagine culturale ed esame clinico
di Diego Fusaro


Si è soliti pensare che la gelosia rimandi naturalmente all’amore, di cui sarebbe, per così dire, un eccesso che si traduce in patologia del possesso.
Forse, però, a ben vedere, il delirio della gelosia andrebbe posto in relazione con l’egoismo più che con l’autentica passione amorosa. È quanto, nelle sue massime, ci suggerisce La Rochefoucauld: «nella gelosia c’è più egoismo che amore».
Si pensi anche solo alle memorabili pagine della Recherche di Proust dedicate ad Albertine, che altro non sono se non una variazione sul tema del solipsismo amoroso, accompagnata da considerazioni sul tema della gelosia.
A suffragare questo aspetto, in fondo, è il fatto stesso che il lemma «gelosia» (zhlos) rinvii al desiderio bramoso di preservare e custodire ciò che appartiene al singolo io, per ciò stesso sorgendo da un istinto tutt’altro che legato all’altruismo amoroso del donarsi all’amata. Sarà, forse, per questa ragione che nel nostro tempo dell’«amore liquido» e della precarietà affettiva, in cui la stabilità della passione amorosa è sostituita dalla fugacità del godimento autistico dell’io isolato, la gelosia si conserva, coerente con la cifra dell’epoca dell’egoismo rapace e dell’individualismo possessivo. Si rivela prossima al narcisismo più che al sentimento, all’egoismo calcolatorio che all’altruismo donativo.
Non che nel mondo premoderno la gelosia fosse sconosciuta. Tutt’altro. Le tragedie greche ce ne restituiscono un affresco grandioso. È, tuttavia, con il teatro della modernità che essa diventa passione dominante, a partire da quello che resta, in fondo, il più noto volto di questa patologia nell’evo moderno: l’Otello di Shakespeare, tragicamente in preda a quel «mostro dagli occhi verdi che dileggia la carne di cui si nutre».
L’individualismo radicale e lo spazio dell’interiorità disegnano tanto l’orizzonte di senso del moderno, quanto, a maggior ragione, della gelosia: la quale induce il soggetto ad agire non sulla base di elementi concreti e di effettivi tradimenti, bensì a causa di paure e di fantasmi che si agitano negli antri della sua interiorità, facendolo da ultimo prigioniero di se stesso.
Già l’Etica di Spinoza distingue tra effetti passivi, nei quali l’uomo è in balia degli eventi, ed effetti attivi, dei quali invece è artefice. La gelosia, proprio come l’ambizione, è una passione triste, che espropria l’uomo della facoltà del controllo di sé e lo rende vittima dei propri fantasmi. E ne dirotta l’intelligenza verso obiettivi di per sé inconsistenti, facendo della gelosia – come notava Nietzsche – la passione più intelligente e, insieme, la massima sciocchezza.
Intrecciando virtuosamente le proprie competenze culturali e filosofiche con quelle mediche, nel Novecento anche Karl Jaspers si soffermò su questa passione triste: e lo fece dedicandovi, nel 1910, uno studio che ora viene per la prima volta tradotto e pubblicato in lingua italiana, Delirio di gelosia. Un contributo alla questione: «sviluppo di una personalità» o «processo»?
L’opera di Jaspers è dedicata a un’esplorazione del «delirio di gelosia», studiato tramite l’esame – frutto di lunghe e minuziose analisi – dei vissuti di alcuni pazienti da esso affetti.
A cavaliere tra indagine culturale ed esame clinico, il lavoro di Jaspers si addentra nella vita dei pazienti, uomini e donne deliranti, in balia della passione triste della gelosia, nel tentativo di comprenderne le radici e le conseguenze.
La domanda che guida e orienta l’analisi di Jaspers potrebbe così essere formulata: fino a che punto il soggetto in preda al delirio di gelosia è ancora in grado di agire come soggetto libero e responsabile e quando, invece, diventa mera espressione di un corpo malato, vittima degli spettri che ne ottundono la mente e ne offuscano la ragione? La sindrome di Otello, come anche potremmo qualificarla, comporta il precipitare del paziente in uno stato di totale passività o resta, nel suo agire, un barlume di libertà?
Che cosa accomuna il caso dell’orologiaio Julius Klug all’insegnante Max Mohr e agli altri casi esplorati nel testo di Jaspers, tutti vittime del delirio di gelosia? Paure di avvelenamenti, soggettività eccentriche e personalità ipomaniacali, rapidità del costituirsi del «sistema delirante», molteplicità dei sintomi e delle cause: sono questi i principali elementi in comune rinvenuti da Jaspers nel suo studio; dal quale traspare nitidamente un’attenzione focalizzata soprattutto sul prodursi della rottura e della discontinuità nell’esperienza esistenziale dei soggetti che, in una sorta di analogon psicopatologico della «situazione limite», improvvisamente precipitano nel delirio di gelosia. Che è, poi, la prova, dal punto di vista clinico, che la gelosia nasce da un amore esasperato del proprio io che porta alla perdita dell’altro e, alla fine, anche di se stessi.
La Stampa 21.11.15
Libera la spia più dannosa
Era la talpa di Israele negli Usa
Pollard lascia il carcere dopo 30 anni, vivrà a New York Analista della Marina, fu catturato davanti all’ambasciata
di Maurizio Molinari


Jonathan Pollard è uscito dal penitenziario di Butner in North Carolina dopo 30 anni di detenzione per un caso di spionaggio senza precedenti nelle relazioni fra Israele e Stati Uniti. Negli anni Ottanta Pollard era un analista dell’intelligence della Us Navy, decise di consegnare a Israele informazioni segrete sui Paesi arabi, sui gruppi armati palestinesi e anche sugli spostamenti del sottomarini nucleari sovietici fino a quando non venne scoperto dall’Fbi e catturato nel 1985 mentre tentava di rifugiarsi nell’ambasciata israeliana a Washington. Pollard venne condannato all’ergastolo e la Cia ha considerato il danno subito «fra i maggiori di sempre», ottenendo dall’alleato israeliano l’impegno a interrompere da quel momento ogni tipo di attività di intelligence sul territorio degli Stati Uniti. Durante i 30 anni di detenzione più premier israeliani hanno chiesto ai presidenti americani Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama la grazia per Pollard ma la Cia si è sempre opposta, imputandogli «un danno strategico senza precedenti». Pollard è uscito dal carcere perché l’amministrazione Obama non si è opposta alla concessione della libertà vigilata, prevista dopo 30 anni nei casi di ergastolo. Pollard ha lasciato il penitenziario di notte, ha incontrato la moglie Esther e ora andrà a risiedere a New York restando obbligato a sottoporsi a rigidi controlli: per 5 anni non potrà lasciare gli Stati Uniti, non potrà dare interviste, porterà un braccialetto Gps per essere sempre sorvegliato e qualsiasi computer che adopererà per navigare su Internet dovrà essere monitorato. I suoi avvocati sperano di ottenere l’autorizzazione a recarsi in Israele per vivere con la moglie, immigrata da molti anni, ma il premier Benjamin Netanyahu ha scelto il basso profilo, limitandosi a un comunicato scritto nel quale afferma: «Ho sperato a lungo che questo giorno potesse arrivare, consentendogli di ricongiungersi alla sua famiglia». In Israele il movimento «Liberate Pollard» è molto popolare ma i suoi portavoce hanno evitato reazioni pubbliche, su indicazioni del governo, nel timore che le condizioni della libertà vigilata in America possano essere riviste. Dietro tale prudenza c’è una storia di spionaggio per molti versi ancora avvolta dal mistero che ha messo a dura prova le relazioni fra i due alleati. In una ricostruzione dei fatti pubblicata da «Yedioth Aharonot» gli agenti israeliani che raccoglievano le informazioni da Pollard hanno raccontato che fu lui a cercarli, consegnando quantità significative di materiale - soprattutto immagini scattate da satelliti militari Usa - che consentirono fra l’altro allo Stato ebraico di realizzare il raid contro l’Olp a Tunisi nel 1985. Gli stessi agenti hanno raccontato che Pollard chiedeva in cambio denaro e che, nei mesi prima della cattura, aveva offerto di vendere informazioni top secret anche a Taiwan. Gli 007 israeliani avevano affittato a Washington un appartamento per fotocopiare tutto il materiale fornito da Pollard. Quando ebbero sentore che l’Fbi era sulle sue tracce, gli chiesero di interrompere ogni attività ma Pollard continuò, scegliendo il 21 novembre 1985 di tentare di entrare con l’auto nella sede diplomatica israeliana, il cui guardiano gli chiuse il cancello affermando di «non conoscerlo», consentendone l’arresto.
Corriere 21.11.15
Nel Mar cinese gli Stati Uniti navigano a vista

Gli Usa «voleranno, navigheranno e opereranno ovunque lo consenta la legge internazionale» aveva detto il segretario alla Difesa Ashton Carter a fine ottobre, quando la nave militare Lassen era entrata nel Mare cinese del Sud, sfidando Pechino. Ma, fa notare Euan Graham sul Financial Times , il resto della missione, avvolta nel silenzio, fa sospettare che la nave Usa si sia invece tacitamente «piegata» ai diktat cinesi. Del resto, gli Usa invocano il rispetto della Convenzione Onu sul diritto del mare. Ma non l’hanno mai ratificata.
il manifesto 21.11.15
Hebron nella morsa
Il governo Netanyahu, dopo l'agguato a Etzion e l'uccisione di due israeliani a Tel Aviv, azioni compiute da palestinesi di Hebron, ha varato misure punitive volte a colpire economicamente gli abitanti del sud della Cisgiordania.
di Michele Giorgio


HEBRON Sulla superstrada che da Betlemme porta a Hebron l’autista del nostro taxi service in alcuni tratti tocca i 130. «Non intendo rischiare, i coloni sono arrabbiati dopo quanto è accaduto ieri (giovedì) e non voglio prendermi le loro pietre», ci dice con tono preoccupato riferendosi all’attacco armato che un palestinese di Beit Awwa, un villaggio a sud di Hebron, ha compiuto allo svincolo per gli insediamenti ebraici di Etzion uccidendo due ebrei, un colono e un giovane americano, Yaakov Don ed Ezra Schwartz, e un palestinese, Shadi Arafeh. In realtà, scrive qualche giornale, Arafeh non sarebbe morto per i colpi esplosi dall’attentatore bensì per le raffiche sparate da soldati e poliziotti israeliani intervenuti sul posto. Per questo ieri è stato sepolto come “martire”. «Il punto più rischioso sarà alla rotonda (per le colonie di Etzion, ndr), lì potrebbero esserci dei coloni pronti a lanciare sassi alle auto con la targa verde, come la nostra», aggiunge sempre più teso l’autista. Giunti a Etzion però scorgiamo soldati, tanti, schierati in ogni punto, che tengono sotto tiro le auto in transito. Ci sono anche coloni che sventolano grandi bandiere israeliane, senza apparenti intenzioni ostili verso le automobili palestinesi.
Il nostro autista non sarà un cuor di leone però lungo le strade del sud della Cisgiordania si avverte forte un clima da conflitto aperto. Un conflitto non tra Israele e i palestinesi, piuttosto tra i coloni e i palestinesi, in una rappresentazione fin troppo chiara dell’impossibilità della convivenza tra occupanti ed occupati. La situazione è esplosiva da anni e alla fine la deflagrazione è avvenuta. «Tanti si domandano perchè l’Intifada di Gerusalemme è diventata l’Intifada di Hebron. Perchè qui non ce la facciamo più, per i palestinesi è peggio persino di Gerusalemme est. I coloni israeliani decidono tutto, condizionano della nostra vita, anche se dobbiamo andare per questa strada o per un’altra. E non solo qui a Hebron, anche più a sud, tutto intorno ci sono i loro insediamenti. I nostri giovani sono pieni di rabbia», ci dice Raed Abu Sneineh, residente nella zona H2, circa il 22% della città sotto il controllo di Israele e dove sono insediati circa 700 coloni. Una prova delle spiegazioni di Abu Sneineh l’abbiamo pochi minuti dopo quando, percorrendo Shuhada Street, tre coloni ci impediscono di proseguire verso la Tomba dei Patriarchi, intimandoci di tornare indietro verso il “posto di blocco container” (tra le due città). La nostra colpa? Giungiamo dalla zona H1, sotto il controllo palestinese e non siamo entrati in quella H2 attraverso la colonia di Kiryat Arba come fanno gli israeliani. Passiamo solo grazie all’intervento di un soldato che, controllate minuziosamente le nostre credenziali giornalistiche e chiesta l’autorizzazione al suo superiore, alla fine ci dice apre la strada. In giro neanche l’ombra di un palestinese.
Il governo Netanyahu, dopo l’agguato a Etzion e l’uccisione di due israeliani a Tel Aviv, azioni compiute da palestinesi residenti nel distretto di Hebron, ha varato misure che mirano a restringere la libertà di movimento in aree vicino alle colonie e a colpire economicamente gli abitanti di questa parte della Cisgiordania. Sono stati congelati i permessi di lavoro di 1.200 di palestinesi di Hebron e severe punizioni subiranno gli israeliani che impiegano illegalmente manovali cisgiordani. Saranno demolite in tempi stretti le case delle famiglie degli attentatori. Misure che hanno innescato nuovi scontri tra giovani e soldati israeliani a Ras al Jorah, all’ingresso di Hebron. Scontri sono divampati anche lungo le linee tra Gaza e Israele, alla periferia di Ramallah, a Taqua vicino a Betlemme. Almeno 87 palestinesi sono rimasti feriti, non pochi dei quali da proiettili veri sparati dai militari.
Israele ieri ha festeggiato la scarcerazione dell’americano ebreo Jonathan Pollard, la spia rimasta per 30 anni in un carcere della North Carolina. Per ora non potrà lasciare gli Stati Uniti. «Il popolo di Israele saluta la liberazione di Jonathan Pollard», ha commentato un raggiante Benyamin Netanyahu. «Ho sollevato il caso di Pollard per anni con vari presidenti Usa e ho sperato a lungo che questo giorno alla fine arrivasse», ha aggiunto il premier israeliano. E alla fine il “regalo” è giunto da Barack Obama, il presidente tanto contestato e criticato da Netanyahu e da una buona fetta di israeliani. E in Israele sanno che presto o tardi Pollard arriverà a Gerusalemme dove lo attendono un appartamento e la promessa della Knesset di una pensione a vita. Arrestato il 21 novembre del 1985, Pollard, che lavorava alla US Navy, ha sempre sostenuto di aver tradito il suo Paese per amore di Israele. Tesi contestata da tre ex superiori secondo cui si sarebbe venduto al miglior offerente e, prima dello Stato ebraico, avrebbe passato documenti segreti a tre altri governi spiando anche per il Sudafrica razzista.
Repubblica 21.11.15
La follia di punirli come i ladri di biciclette
Servono norme più severe per tutelare il nostro enorme patrimonio artistico: nel codice penale italiano bisogna introdurre il reato di disastro culturale
di Tomaso Montanari


LA prima cosa da dire è che questi quadri vanno recuperati prima di subito: un ministro dell’Interno italiano si gioca la faccia su Mantegna, Pisanello o Rubens come davvero su poco altro. E non si dica che ora ci sono cose più importanti a cui pensare: come rispose Winston Churchill a chi gli chiedeva di tagliare gli ultimi fondi per la cultura mentre Londra era sotto i bombardamenti nazisti: «e allora, per che cosa stiamo combattendo?».
Il secondo punto è impedire che accada di nuovo. Nessuno poteva prevedere che la rapina in villa sarebbe diventata, e proprio nel Nordest, la rapina in museo. Ma non è possibile che Castelvecchio fosse difeso da una singola guardia giurata, come l’ultimo dei supermercati. Il famoso patrimonio culturale diffuso (quello che non è nei venti supermusei di Franceschini, per intenderci: e cioè la sua parte incommensurabilmente più ampia) è completamente indifeso, reso vulnerabile da decenni di tagli selvaggi ai bilanci della cultura e degli enti locali.
Il terzo punto riguarda la tutela penale del nostro patrimonio culturale. In un recente convengo a Napoli, Gianni Melillo (il capo di gabinetto del ministero della Giustizia) ha ben spiegato come da questo punto di vista siamo all’anno zero. Il Codice dei Beni culturali non prevede pene adeguate, né soprattutto dà i mezzi per fare le indagini necessarie. Quando si trovò di fronte allo scempio della Biblioteca dei Girolamini a Napoli (spogliata dal suo stesso direttore, allora braccio destro di Marcello Dell’Utri), lo stesso Melillo (allora sostituto procuratore a Napoli) dovette contestare reati ideati per combattere le rivolte agrarie, come la devastazione e il saccheggio. E, partendo dallo stesso caso, Paolo Maddalena ha ben spiegato che bisognerebbe creare il reato di “disastro culturale”, sul modello del disastro ambientale. Oggi come oggi, se rubo un Mantegna è come se rubassi una bicicletta: e i ladri di Castelvecchio rischiano per le modalità del reato (rapina a mano armata), ma non per l’oggetto straordinario di quel reato. È dunque urgentissimo creare le premesse codicistiche per una vera tutela penale del nostro povero patrimonio culturale: per esempio, prevedendo il reato di detenzione illegale di bene culturale, che oggi non esiste.
Mai come in questi giorni abbiamo bisogno di chiamare all’appello tutte le ragioni per cui siamo ancora esseri umani: diciassette di quelle ragioni (alcune straordinariamente importanti) sono sparite. Devono tornare a Verona.
Corriere 21.11.15
Proteggere l’arte senza blindarla Tutte le falle dei piani sicurezza
di Paolo Conti


4.588 i siti di interesse artistico, pubblici ed ecclesiastici, sparsi in tutta Italia. Di questi 3.850 sono musei e gallerie

Da ieri pomeriggio l’Interpol, e quindi tutte le polizie del mondo, hanno sott’occhio le immagini e le schede dei tesori d’arte trafugati a Verona. Sono già stati inseriti nella banca dati del Comando carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, considerato il migliore e il più ricco del mondo, punto di riferimento della lotta al traffico illegale internazionale di opere d’arte.
Dice il comandante, generale Mariano Ignazio Mossa: «Abbiamo inviato a Verona i nostri uomini migliori, cioè il reparto operativo che ha competenza in campo nazionale e internazionale». Ma qual è il livello di sicurezza dei musei italiani rispetto ai furti, generale? «Considerando la vastità del patrimonio, direi che è nel suo complesso eccellente. Noi stessi, in accordo con lo Stato e con gli enti locali, assicuriamo una continua consulenza per migliorare i servizi anti-furto».
L’Italia, si sa, è un immenso scrigno d’arte: 4.588 siti culturali tra statali, comunali, ecclesiastici, privati aperti al pubblico. Un patrimonio che si divide in 3.850 musei e gallerie, 240 aree o parchi archeologici, 500 monumenti e complessi monumentali. Il rischio di furti è dunque elevatissimo, come dimostrò il caso dell’immensa tela del Guercino («Madonna con i santi Giovanni Evangelista e Gregorio Taumaturgo», 293 x 184,5 centimetri) trafugata nell’agosto 2014 dalla chiesa di San Vincenzo a Modena e mai più ritrovata. Anche allora, come oggi per Verona, si parlò di un possibile furto su commissione, magari da parte di un raffinato, solitario, ricchissimo collezionista.
Il problema della sicurezza dell’arte in Italia è molto articolato, come spiega il prefetto Fabio Carapezza Guttuso, coordinatore dell’Unità di crisi del ministero dei Beni culturali, protagonista di tante emergenze, come il terremoto in Emilia nel maggio 2012: «Il nostro Patrimonio d’arte non può diventare un inaccessibile Fort Knox. Sarebbe facile proteggere i nostri capolavori blindandoli in luoghi inaccessibili. Ma la Costituzione e il Codice dei beni culturali prevedono un corretto equilibrio tra tutela e fruizione, tra l’obbligo di proteggere le opere e quello, parallelo, di metterle a disposizione del pubblico. Non ci sarà mai in Italia un museo chiuso per evitare un furto. Per questa ragione dal 2004 è stato messo a punto un piano complessivo di emergenza per i musei italiani che tiene conto di molti fattori: la possibilità dei furti, i servizi anti-incendio, i problemi sismici, l’eventualità di azioni terroristiche. Bisogna aggiornare continuamente i piani perché i fattori non si sovrappongano. Nel 1975, quando venne rubata La Muta di Raffaello e due Piero della Francesca al Palazzo Ducale di Urbino, c’erano le impalcature per il restauro della facciata. Così come, per fare un altro esempio, i maniglioni anti-panico degli impianti anti-incendio possono diventare la via di fuga per possibili ladri».
Il ministro Dario Franceschini fa sapere che verranno al più presto utilizzati per gli impianti anti-furto del patrimonio i 100 milioni di euro previsti nella legge finanziaria per garantire la completa applicazione dell’articolo 9 della Costituzione, che prevede la tutela del paesaggio e di tutto il retaggio storico-artistico della Repubblica. Aggiunge Ugo Soragni, che guida la Direzione generale Musei: «Le risorse previste anche dalla legge di stabilità sono ingenti, riusciremo certamente ad alzare il livello di sicurezza dei nostri musei. In più posso assicurare che il ministero può contare su un corpo di addetti alla vigilanza di elevatissima professionalità». Naturalmente questo vale per i musei statali. Poi ci sono i musei comunali, come nel caso di Verona: e lì le realtà sono diverse, da città a città.
La realtà dei musei comunali è insomma diversa da quella dello Stato. Come dimostra il caso di Verona (la vigilanza è affidata a un corpo privato) ogni amministrazione sceglie il proprio metodo, e non esiste un indirizzo unitario. Roma a palazzo Braschi ha, per esempio, una sala operativa di vigilanza su 90 siti controllati, tra cui i 22 musei civici, con 2.500 telecamere installate. Ma si tratta, appunto, di una struttura comunale e non statale.
Il Fatto 21.11.15
Toh, Rossi s’è svegliato renziano

Che non fosse esattamente uno col killer instinct si era capito. E avevamo intuito che se Matteo Renzi avesse potuto scegliersi un oppositore, mai avrebbe chiesto qualcuno diverso da lui. Ma il governatore della Toscana Enrico Rossi ormai pecca di eccesso di zelo nel dimostrare di essere sì un candidato alternativo (o complementare?) a Renzi per il congresso del Partito democratico nel 2017, ma non certo un avversario. Mai e poi mai un nemico. “La rottamazione ha avuto un senso positivo”, dice Rossi a La Stampa. E ci mancherebbe, ha rottamato gli altri ma non lui che, pur essendo rosso e post comunista, è sopravvissuto ed è stato pure rieletto. Andrà perfino alla Leopolda, cioè alla convention di Renzi: “Rappresenta la corrente maggiore del mio partito, dove parlerà il mio segretario. Se mi daranno la parola, parlerò di legge di Stabilità e di radicamento del partito. Questa convention autorizza a organizzarne anche altre: dobbiamo essere plurali ma uniti”. Dove lo trova Matteo Renzi un altro oppositore così? Finirà che, al congresso, Enrico Rossi voterà Renzi. Unito e plurale.
il manifesto 21.11.15
Scuola, Bruxelles chiude la pratica sui precari, ma la realtà è diversa
La Commissione Ue avrebbe chiuso la procedura di infrazione contro l'Italia. Per il governo è merito delle assunzioni della "Buona Scuola"
In realtà la situazione è molto diversa e 100 mila precari sono stati esclusi dalla riforma
Anief pronta a un nuovo ricorso: «Siamo pronti a tornare di nuovo davanti alla Corte di Lussemburgo»
di Ro.Ci.


Una notizia circola in queste ore in rete. Non è una bufala, è il ministero dell’Istruzione ad averla diramata allegando una dichiarazione della ministra Stefania Giannini, rafforzata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega agli affari europei Sandro Gozi. La Commissione Europea avrebbe archiviato la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia sul lavoro a tempo determinato nella scuola. L’Italia in realtà è stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Ue a Lussemburgo il 26 novembre 2014: la normativa sui contratti di lavoro a tempo determinato nella scuola è contraria al diritto dell’Unione. Il rinnovo oltre i 36 mesi è illegale e lo Stato italiano dovrebbe assumere oltre 200 mila persone. Dopo vari rinvii, il prossimo 17 maggio sarà la Corte Costituzionale a esprimere su questa sentenza.
Sempre ammesso che si stia parlando della stessa cosa, questa vicenda dai contorni ancora non definiti rivela la fretta del governo di chiudere uno dei gravosi problemi del precariato scolastico. Che non è stato affatto cancellato dalla riforma di Renzi. Per Giannini e Gozi, invece, non c’è dubbio: il merito della decisione europea è della «Buona Scuola» che ha assunto 102 mila docenti precari dalle graduatorie in esaurimento (Gae).
«Con la riforma – affermano – interrompiamo la pratica di usare i contratti a tempo determinato in modo reiterato per coprire i posti che risultano vacanti. È un risultato importante che attesta lo sforzo del governo nel dare soluzioni strutturali». «Non ci siamo limitati a questi e abbiamo creato 55 nuovi posti in organico per il potenziamento dell’offerta. Non eravamo obbligati a farlo». Le cose non stanno propriamente così. Con la «Buona scuola» il governo ha escluso almeno 80 mila persone (ma le stime sono superiori), abilitate e con un’esperienza didattica superiore ai 36 mesi. E, in più, ha escluso il personale Ata, precario anch’esso da molti anni. La sentenza della Corte di Lussemburgo è inequivocabile: i precari aventi diritto vanno assunti tutti.
Senza contare che i 55 mila «potenziatori», detti anche «docenti tappabuchi», avranno uno status diverso dai loro colleghi già assunti: faranno parte di un organico a disposizione del «preside manager» e potrebbero svolgere mansioni diverse rispetto ai loro pari grado con la «chiamata diretta».
Questa distinzione obbedisce al progetto di trasformazione del ruolo della docenza nella scuola, la vera posta in gioco della riforma. Tutti i prossimi assunti nella scuola avranno lo status dei «potenziatori» attuali, saranno cioè «capitale umano» gestito dai presidi-reclutatori. I docenti perderanno la titolarità della cattedra per trasformarsi in un curriculum a disposizione del portfolio dei presidi. Marcello Pacifico dell’Anief ha una tesi: in realtà, Giannini e Gozi si riferiscono a una denuncia avanzata da un bidello. La Commissione, vista la «Buona scuola» e la sentenza della Corte Ue, ha ritenuto di non aprire una nuova procedura.
Comunque siano andate le cose, l’Anief ricorrerà contro la «Buona scuola»: «Non è conforme al diritto comunitario perché dal prossimo anno negherà ai docenti con più di 36 mesi il diritto a essere chiamati come supplenti o a essere immessi in ruolo. Tanto è vero che la legge istituisce un fondo dedicato ai risarcimenti in questi casi» sostiene. Se per la Commissione il caso è chiuso, non lo sarà per i tribunali del lavoro italiani e per la Corte di Lussemburgo alla quale anche i sindacati confederali si sono già rivolti una volta. Potrebbero farlo ancora.
La Stampa 21.11.15
Consulta, il gioco degli interessi
di Ugo De Siervo


Speriamo davvero che il nostro Parlamento riesca finalmente a eleggere i tre nuovi giudici costituzionali che finora non è riuscito a designare, malgrado il lungo periodo trascorso. È vero che per eleggere un giudice occorre conseguire il voto di almeno il sessanta per cento dei parlamentari, ma siamo ormai in presenza di una situazione seria e grave. La Corte Costituzionale, infatti, lavora ormai da troppo tempo a ranghi ridotti.
E addirittura rischia di non poter funzionare, essendo obbligatoria la presenza di almeno undici giudici perché essa possa esercitare le sue funzioni giudiziarie: non solo basterebbe l’assenza di due giudici in carica per impedirle di decidere, ma comunque ogni decisione presa da un collegio giudicante in cui i giudici designati dal Parlamento sono ridotti da 5 a 2 altera il delicato equilibrio fra i giudici costituzionali di diversa provenienza (gli altri vengono designati – come noto - dal Presidente della Repubblica e dalle supreme magistrature).
Il problema è sorto ormai da tempo per le designazioni del Parlamento, perché sembra che i parlamentari si siano specializzati in tecniche di interdizione delle varie candidature, piuttosto che nella ricerca di buoni candidati sulla base di intese fra i diversi gruppi parlamentari ed anche fra le loro componenti interne: perfino quando – come negli ultimi trent’anni - il Parlamento doveva eleggerne contemporaneamente due o tre, così rendendo più facile scelte equilibrate, si è dovuto attendere molto a lungo (due anni o poco meno) per superare veti e preclusioni di ogni tipo. E’ vero che alcune volte si è assistito a iniziali candidature discutibili, ma la vera difficoltà emersa è stata spesso quella dell’assoluta indisponibilità dei gruppi di opposizione a confluire con i gruppi di maggioranza per motivi strumentalmente politici. E ciò senza considerare le correnti interne ai gruppi.
In selezioni di questo tipo la necessità di maggioranze qualificate, superiori alla stessa maggioranza assoluta dei parlamentari, dovrebbe spingere le forze di maggioranza a nominare anche giudici designati dalle forze di opposizione e ad indicare candidati indipendenti e largamente apprezzati.
Questa palese e prolungata difficoltà dei gruppi parlamentari a superare i loro interessi particolari pur nella nomina di cinque giudici costituzionali, deve far temere molto per l’ improvvisata proposta di modificare le maggioranze necessarie per eleggere il Presidente della Repubblica: come noto, infatti, nel disegno di legge di revisione costituzionale che attualmente si dice essere destinato a rapida approvazione finale, si prevede che il Presidente della Repubblica debba essere necessariamente eletto da una maggioranza di voti pari al 60% dei componenti della Camera (dalla nona votazione basterebbe il 60% dei deputati, ipotesi che peraltro anch’essa dipenderebbe dalla volontà di parte delle opposizioni di non partecipare al voto).
La nomina del Presidente della Repubblica, non prevedendosi alcuna ipotesi alternativa, dipenderebbe quindi dall’assenso di parte dei gruppi politici dell’opposizione, che quindi disporrebbero di un potere insuperabile di veto. Ma allora, anche sulla base dell’esperienza concreta fatta per tanti anni in relazione alla nomina dei giudici costituzionali, c’è seriamente da temere che, salva l’ipotesi di una maggioranza arrendevole ai condizionamenti od ai ricatti, si possa verificare un lungo o lunghissimo ritardo nella nomina del massimo organo di garanzia politica del nostro sistema costituzionale, solo molto più debolmente supplito dal Presidente della Camera (come prevederebbe la Costituzione mutata).
Appare paradossale che una riforma del genere sia stata motivata dalla volontà in tal modo di rafforzare gli strumenti di riequilibrio del temuto eccessivo potere del governo dopo la nuova legge elettorale e l’eliminazione del Senato dal circuito fiduciario: al contrario, ne potrebbe derivare un forte indebolimento dei poteri presidenziali ove il Presidente della Repubblica fosse eletto in modo compromissorio o addirittura ove dovesse essere sostituito per un periodo indeterminato da parte del Presidente della Camera, che normalmente viene designato dalla maggioranza politica.
La Stampa 21.11.15
Se le correnti risvegliano la politica
di Fabio Martini


Mancano due anni al congresso Pd, chiamato a rinnovare o bocciare la leadership di Matteo Renzi, ma le piccole, grandi manovre correntizie sono già cominciate. Fino ad oggi le aree si sono mosse indisturbate in periferia, mentre a Roma la centralizzazione di Renzi ha asciugato la dialettica: da una parte il capo, dall’altra la minoranza. Bipolarismo asimmetrico che ha mandato sott’acqua le altre componenti. Ora è come se il mutismo fosse finito: dentro la grande palude renziana, quelli della prima ora rivendicano gli slogan «ante-marcia»; i giovani turchi si spostano leggermente a sinistra. La minoranza si unifica. Se sapranno far politica e non solo caccia alle quote, le neo-correnti potrebbero aiutare il Pd a crescere.
La Stampa 21.11.15
Orfini: il Pd va rivoluzionato dai circoli fino al centro
Il presidente sulle critiche di Richetti al leader: “Dobbiamo essere più coraggiosi per contrastare le degenerazioni, altrimenti prevale il cesarismo locale”, intervista di Carlo Bertini


Certo oggi siamo respingenti più che attraenti, il Pd va rivoluzionato dai circoli fino al centro». Matteo Orfini che del Pd è presidente, non elude le critiche sollevate da Matteo Richetti e annuncia che a gennaio l’assemblea nazionale voterà le modifiche dello statuto elaborate da tutte le anime del partito, che verranno prima discusse nei circoli: per capire se rivoltare da cima a fondo le regole, oppure fare solo un po’ di maquillage sulle primarie.
Il Pd è privo di identità e soffre di rottamazione incompiuta come sostiene Richetti?
«E’ il più grande partito della sinistra europea, membro del Pse e questa è la sua identità, non è certo il partito della Nazione...».
Inteso come taxi per transfughi della destra?
«Esatto, non è questo il modello di un partito di sinistra. Il Pd sta governando l’Italia e la sta portando fuori dalla crisi e il suo segretario è impegnato, con gli alleati, nella sfida molto complessa della lotta al terrorismo. Dopodiché è ovvio che il Pd per come è oggi organizzato non è all’altezza della speranza che ha evocato nel Paese».
Una delle critiche ricorrenti è che Renzi si disinteressa al Pd, si concentra solo sul governo.
«A riconoscere la difficoltà del Pd ad essere all’altezza delle sfide è prima di tutto il segretario: è su suo mandato che stiamo lavorando ad una proposta di modifica della struttura del Pd. Abbiamo due comunità di iscritti ed elettori non omogenee tra loro. Ci sono elettori che ci votano e partecipano alle primarie, ma non ci frequentano, come quei parenti che si evitano tranne il giorno di Natale. Ecco, dobbiamo invogliarli a partecipare. Nei territori il Pd è una struttura che vive sostanzialmente per organizzare la dialettica interna tra le correnti, gestire candidature e lì abbiamo bisogno di un rinnovo radicale delle modalità con cui si fa politica e di passare meno tempo a discutere di fatti nostri».
L’idea di Renzi di tornare in piazza con i banchetti la convince?
«E’ l’abc: quando mi ha chiamato per dire che voleva fare i tavolini gli ho spiegato che noi comunisti li abbiamo sempre chiamati banchetti e che quindi andavano chiamati così, se no non avremmo capito. È un esempio di come stimolare il Pd a non essere introverso».
Partito commissariato in Liguria, in crisi a Roma e in Campania, dilaniato un po’ ovunque. Come farete le amministrative?
«A Roma il Pd si sta risollevando e faremo le primarie. A Napoli il partito è in gravissima difficoltà e dobbiamo reagire con una candidatura di innovazione».
Ve la dovrete vedere con Bassolino però...
«Ancora non sono convocate le primarie, vedremo. Bisogna capire che c’è grande bisogno di cambiamento. Il tema non è renzismo o rottamazione, ma far crescere amministratori capaci e un Pd che sappia innovare sè stesso e la classe dirigente che esprime. Quando un partito perde il rapporto con la sua gente e guarda al proprio ombelico, crescono i fenomeni di cesarismo e autoreferenzialità. Renzi e noi tutti dobbiamo rifiutare compromessi ed essere più coraggiosi nel contrastare queste degenerazioni. E sperimenteremo forme di organizzazione e partecipazione nuove, nazionale e locale».
Renzi cita la Leopolda. Lei ci è mai andato?
«No, ho una forma di resistenza al fatto che si possa fare un ragionamento politico in 5 minuti e non sarei a mio agio. Sicuramente però è una formula che ha aggregato tanta gente».
I sondaggi che danno i 5 stelle vincenti in caso di ballottaggio vi preoccupano?
«Penso ci porteranno bene, li davano vincenti pure alle europee...».
La Stampa 21.11.15
Dal Senato via libera alla manovra con fiducia


Via libera del Senato, con voto di fiducia, alla manovra. La legge di stabilità ha superato il primo giro di boa arricchendosi soprattutto sul capitolo casa, ma non affrontando ancora i temi centrali della sicurezza, del Mezzogiorno, pur considerato in un primo momento essenziale a Palazzo Madama, delle pensioni e dei tagli alle Regioni e alla sanità. Tutti nodi che ora passano alla Camera, dove il menu di novità e modifiche si preannuncia già da ora ben più ricco e complesso. Le novità essenziali riguardano proprio uno dei pilastri voluti da Matteo Renzi: l’abolizione della Tasi. Il Senato ha aggiunto la riduzione del 25% di Imu e Tasi sugli affitti a canone concordato e in materia di edilizia popolare, ha chiarito che militari e coniugi separati non sono tenuti al pagamento della tassa sulla prima casa e ha dichiarato esenti anche le cooperative edilizie a proprietà indivisa e gli alloggi sociali. La fiducia al governo è passata con il voto favorevole di 164 senatori, tra cui non figurano però i dissidenti di Ap. La palla passa ora a Montecitorio, dove si giocheranno molte delle partite lasciate in sospeso in un esame che, al Senato, si è rivelato piuttosto lento e poco accattivante. [R. E.]
Corriere 21.11.15
La politica sceglie di sospendersi
Non aumenta la fiducia nelle istituzioni nonostante le minacce
Così sta cambiando l’Italia
di Francesco Verderami


Loro sono qui. E siccome nell’ombra non c’è niente di più reale che avvertire una presenza, la politica ha decretato per se stessa uno stato d’emergenza. a pagina 20

Loro sono qui. E la politica è sospesa. In Parlamento, senza confusione di ruoli e senza strepiti, vengono licenziati a stretto giro la legge di Stabilità e il decreto per le missioni militari, con la maggioranza che pubblicamente riconosce «i meriti» alle forze di opposizione. Il futuro incombe per tutti, c’è da capire cosa accadrà e anche come si comporterà il Paese. Perciò nessuno tiene in particolare conto i sondaggi sulle variazioni decimali dei partiti nell’ultima settimana. Piuttosto si riflette sui report che descrivono l’umore dei cittadini, l’approccio diverso rispetto a un fenomeno che pure li accompagna dall’Undici settembre.
A Palazzo Chigi, il fatto che la fiducia nei riguardi del premier (40%) e del suo governo (38%) sia rimasta stabile dopo i fatti di Parigi sarà questione da valutare. Perché solitamente dopo un evento drammatico — e a fronte di una minaccia esterna — si registra un’impennata di consenso per le istituzioni, considerate una forma di scudo, una specie di riparo. Andrà studiato se l’opinione pubblica si è mitridatizzata o se questo è segno di una nuova e relativa indipendenza.
Ma che loro siano qui è una percezione chiara anche per il Paese, se è vero che a caldo, all’indomani del 13 novembre, solo il 12% degli italiani si dichiarava pronto a cambiare le proprie abitudini. Pochi giorni più tardi la percentuale si è triplicata (36%), a testimonianza che più passa il tempo più i cittadini avvertono la vulnerabilità. Ecco il motivo che sta spingendo il premier a iniettare massicce dosi di messaggi tranquillizzanti, per evitare che una condizione psicologica negativa dei cittadini incida sulle aspettative di fiducia nel futuro (che stava invece risalendo) e impatti sui consumi gelando la ripresa.
In questo momento però gli eventi gli hanno strappato lo story-telling dalle mani. Allora si capisce perché da giorni Renzi reagisce a ogni stormir di notizia dei servizi e della rete, così come Alfano trattiene il respiro quando resta da solo nella sua stanza al Viminale dopo l’ennesima riunione. Gentiloni e la Pinotti sono perfettamente consapevoli di quanto sta accadendo, «ma quella parola sulle mie labbra avrebbe un effetto dirompente per il ruolo che ricopro», si spiega il ministro della Difesa: «Perciò quella parola non la pronuncio». Come fa il titolare della Farnesina. E come ha chiesto il premier: «Nessun leader mondiale l’ha usata in questi giorni, tranne Hollande».
Non è solo una questione di sondaggi in questo caso, è acclarato il fatto che l’Italia sia contraria a indossare mimetica e scarponi, perché — come raccontava a suo tempo Berlusconi — «il nostro è un Paese di mamme». Ma se tutti i partiti si sono imposti una sorta di stato d’emergenza, se hanno preso tempo per riposizionarsi è (anche) perché l’Italia sta mutando sotto la spinta violenta della storia. Lo testimonia un report di Swg, con cui è stato misurato l’indice di gradimento verso i capi di Stato e di governo internazionali: ed è stupefacente come gli italiani preferiscano Putin (48%) a Obama (al 32%).
È cambiato tutto. E la sfida coinvolge le forze di maggioranza e di opposizione, che infatti — dopo un’iniziale fiammata — stanno evitando di esporsi, e hanno accettato di comune accordo di sospendere la politica. I Cinquestelle sono arrivati a spaccarsi in Parlamento per decidere se dare o meno il loro sostegno al governo sulle missioni militari, così come Berlusconi ha decretato una forma di embargo ad interim negli attacchi a palazzo Chigi, sebbene sugli affari esteri ripeta sempre che «avevo ragione io quando ho cercato di evitare la spedizione contro Gheddafi. Guardate che disastro». In fondo, glielo riconosce lo stesso Renzi, che a sua volta ha cambiato i suoi toni e il suo linguaggio. Solo una volta ha perso il filo della nuova narrazione, quando ha svelato il «ruolo importante» avuto dai servizi italiani nell’individuazione del tagliagole Jihadi John. Ma da palazzo Chigi è calata un’immediata cortina mediatica. Perché loro sono qui.
Repubblica 21.11.15
David Grossman.
“Fermiamo subito Daesh o la paura ci distruggerà”
Da Parigi lo scrittore israeliano analizza il dopo-stragi: “L’Is vi uccide per quello che siete, non per ciò che fate. E se nel mio Paese non ci sarà la pace dilagherà anche lì”
“La politica di Hollande in Siria in parte c’entra, però il vero scopo è colpire i tre grandi valori figli della Rivoluzione”
intervista di Alexandra Schwartzbrod


Lo scrittore israeliano David Grossman il weekend scorso era a Parigi per presenziare a un congresso di psicanalisti, alla fine annullato a causa degli attentati. Mi ha ricevuta nel suo albergo nel centro di Parigi ed è stato lui a fare la prima domanda: «È lontana da qui place de la République? Quanto ci vuole a piedi? Mi piacerebbe unirmi alla folla».
Lei che vive in un Paese lacerato dagli attacchi terroristici, come spiega gli attentati di venerdì 13?
Perché la Francia è presa di mira?
«È difficile mettersi nella testa di persone fanatiche. Non solo loro non riescono a capire gli occidentali, anche gli occidentali non riescono a capirli. La politica estera della Francia probabilmente spiega almeno in parte questi attacchi dello Stato islamico. Ma anche il modo di vivere dei francesi e quel motto repubblicano “Liberté, égalité, fraternité”. Anche se non sempre viene rispettato, per i fanatici resta una provocazione, qualcosa da distruggere. Quello che la Francia però deve capire bene è che questi atti terroristici non sono appelli disperati al dialogo, sono una volontà ermetica di diffondere il terrore. Non si può negoziare nulla con questa gente, sono venuti per uccidere. Non può esserci nessun dialogo possibile con persone che vogliono ammazzarvi non per quello che fate, ma per quello che siete».
C’è dunque un parallelo con la situazione in Israele?
«Intendiamoci: un omicidio è un omicidio, qualsiasi atto terroristico dev’essere condannato col massimo vigore. Ma ritengo che ci sia una grande differenza fra quello che vive oggi la Francia e quello che viviamo noi. In Israele, se riusciremo a trovare una soluzione con i palestinesi, sono sicuro che le azioni terroristiche cominceranno a diminuire. Il buon senso finirà per imporsi. Sono profondamente convinto che rimane uno spazio di negoziazione con i palestinesi».
Dopo questi attentati cosa cambierà nella società francese?
«Vivere nella paura è distruttivo. Si acquisisce il riflesso istintivo di vedere dei pericoli dappertutto. Non si riesce a evitare di guardare l’altro, se è diverso da te, come un pericolo. È questa la forza del terrore. Ci riporta a un volgare stadio animale. E soprattutto ci mostra con quanta rapidità si possono dimenticare i nostri valori di libertà e di democrazia. Ci vorrà tempo per uscire da tutto questo. Ma ci sono momenti, nella vita, in cui bisogna scegliere fra due cose sgradevoli. La Francia deve assolutamente unirsi con i Paesi che combattono lo Stato islamico, e in particolare la Russia. E soprattutto deve andare a combattere sul terreno. Lo Stato islamico ha un impatto enorme, ma è un’organizzazione piccolissima. In compenso, non bisogna assolutamente confondere lo Stato islamico con l’islam. È esattamente quello che vuole Daesh: dividere la società francese, aizzare i non musulmani contro i musulmani».
Amos Oz ha dichiarato che non parteciperà più alle manifestazioni ufficiali israeliane per protesta contro la politica di Netanyahu. Lei è sulla stessa linea?
«Rispetto la posizione di Amos Oz, ma considero importante che le ambasciate israeliane nel mondo rappresentino anche le mie opinioni critiche, anche quando faticano a mandarle giù».
Non ha paura che Daesh finisca per insediarsi a Gaza o in Cisgiordania?
«Sì, naturalmente. E il solo modo per evitarlo è negoziare con i palestinesi. Se non offriamo loro un modo per esprimere la loro identità nazionale, c’è il rischio che cedano alla tentazione del radicalismo. E bisogna fare in fretta, non abbiamo abbastanza tempo: il “terrorismo dei coltelli” è già influenzato dallo Stato islamico».
Netanyahu è in grado di farlo?
«Difficile a dirsi. Io penso che faccia un errore di fondo: la sua più grande aspirazione non è risolvere il conflitto, ma gestirlo, contenerlo. La destra israeliana ritiene che esista una sorta di status quo con i palestinesi, che comprende fasi di violenza. Ma hanno torto. Quando un popolo è oppresso, non può esserci nessuno status quo. La rabbia dei palestinesi è sempre più trattenuta, finirà per esplodere, e questa volta sul modello dello Stato islamico».
Bisogna dialogare anche con Hamas?
«C’è una differenza fra Hamas e lo Stato islamico. Hamas affonda le sue radici nella popolazione, per molto tempo ha rappresentato una causa che alla popolazione appariva difendibile. Daesh è un esercito che cerca di fabbricarsi una popolazione. Non gode di un ampio consenso fra la gente come Hamas. Nell’Olp ci sono ancora dei leader con cui si può discutere, in Hamas no. Se si trova un compromesso con i palestinesi, allora bisogna riuscire a stipulare un cessate il fuoco con Hamas. Ridurre l’intensità del fuoco che cova sotto la cenere di questo conflitto sarebbe già un grande successo. Se i palestinesi riusciranno a ritrovare un po’ di normalità e di dignità, invece di umiliazioni quotidiane e check-point, allora saranno sempre meno quelli decisi a combatterci. Bisogna fare in modo che i nostri due popoli straziati arrivino a trovare un compromesso, anche doloroso, nonostante manchino drammaticamente del vocabolario della pace».
© Libération 2015 Traduzione di Fabio Galimberti
Repubblica 21.11.15
Atiq Rahimi.
L’autore afgano è stato vincitore del premio Goncourt “Una crisi come questa cambia tutto Ma non è una guerra di religione”
“Ora i migranti pagheranno per colpe che non hanno commesso”
intervista di Francesca Caferri


Nel 2008 quando vinse il premio Goncourt con il romanzo Pietra di pazienza (uscito in Italia da Einaudi), Atiq Rahimi sembrò incarnare una nuova idea di Francia: quella in grado di aprire il suo premio letterario più prestigioso a uno scrittore che non ha il francese come lingua madre, che viene da una cultura musulmana e da un Paese, l’Afghanistan, noto alle cronache più per i suoi lunghi conflitti che per la sua produzione culturale. Da allora, tutti i lavori di Rahimi – che nel frattempo è diventato anche un pluripremiato regista – sono stati volti a gettare un ponte fra i due mondi in cui la sua vita si è sviluppata. Mondi che oggi, dopo gli attacchi di Parigi, la città dove Rahimi vive, sembrano più distanti che mai.
Signor Rahimi, cosa ha pensato quando ha sentito degli attacchi? In molti, già dalle prime ore, hanno iniziato a parlare di un “noi contro loro”, Francia contro Islam. Questo l’ha impressionata?
«All’inizio ero sconvolto, come tutti. Lo sono ancora. Ma fatico anche solo a pensare a una contrapposizione simile. Io oggi sono un francese, i miei figli sono francesi, i Bleu sono la nostra nazionale di calcio. La ferita che è stata inferta non è stata solo contro la Francia, ma contro l’umanesimo, contro la civiltà, contro le speranze e i sogni di tante singole persone. Che sia accaduto a Parigi o a Kabul per me non fa differenza, mi sarei sentito in ogni modo ferito come essere umano. La contrapposizione che lei ha menzionato per me non esiste».
Però lei sa che questo avrà conseguenze su chi, come lei ai suoi tempi, lascia certi paesi per sfuggire alla guerra o alle dittature e viene in Europa in cerca di un futuro diverso…
«Io so che in nessun attacco terroristico, che sia avvenuto in Libano, in Francia o in Nigeria, sono coinvolti afgani. Gli afgani non sono terroristi e questo la gente lo sa. Per quanto riguarda chi arriva da altri paesi, è chiaro che la situazione oggi è molto diversa rispetto a quando sono arrivato io. Tutti qui in Francia sono spaventati da questa ondata di migranti ed è comprensibile: il paradosso oggi è che sempre più persone si fingono afgane per ricevere i benefici legati al fatto di venire da un Paese in guerra, ma fatto da gente pacifica».
Se allarghiamo il discorso ai musulmani che stanno arrivando in Europa il quadro cambia?
«Allora devo dire che il problema c’è. È vero, è legato ai musulmani. Ma non a loro in quanto persone, piuttosto alla guerra geopolitica da cui stanno fuggendo: una guerra fra sunniti e sciiti, fra sauditi e iraniani, che sta presentando il conto alla gente comune. I nemici dell’Europa oggi, i terroristi, sono quelli che all’inizio la stessa Europa e i suoi alleati del Golfo hanno appoggiato in chiave anti-Bashar al Assad. Come già accadde in Afghanistan. Ci tengo a sottolineare che la questione è geopolitica, non religiosa: il conflitto vero non è fra ebrei, musulmani o cristiani. È fra paesi contrapposti».
Che aria respira oggi a Parigi?
«Ho tanti amici che come me hanno origini diverse da quelle puramente francesi: tutti come me oggi si sentono, anzi sono, francesi. Ma sappiamo che nulla da ora in avanti sarà più semplice come era prima».
Il successo di Houllebecq e di chi si riconosce nelle sue idee la spaventa?
«È il prezzo della democrazia. In democrazia tutti sono responsabili degli errori commessi, i politici per primi. Ha pagato Sarkozy, sta pagando Hollande: è chiaro che di fronte a questo cresce Marine Le Pen. La gente cerca di prendere le distanze dalle situazioni di crisi chiudendosi in se stessa, cercando i colpevoli nel mondo politico e cercando nuovi protagonisti. Hitler è arrivato al potere così, ma pensate anche alla classe politica che stanno esprimendo i paesi dell’ex blocco socialista, su cui negli anni Novanta erano state riposte tante speranze. In Europa ora i migranti sono diventati quelli da colpevolizzare: Le Pen senza dubbio raccoglierà i frutti di questo».
Il suo premio Goncourt sembrò aprire un’epoca nuova nella cultura francese: i premi successivi hanno confermato questa tendenza a riconoscere la ricchezza delle tante culture che sono confluite in quella francese negli ultimi decenni. Crede che anche la cultura finirà con il pagare il prezzo della mentalità di chiusura che sta avanzando?
«Le posso solo dire che sono preoccupato, perché il cambiamento di mentalità fra tanti francesi lo vedo tutti i giorni davanti ai miei occhi. Le crisi cambiano la visione, la mentalità, la filosofia di un Paese. Questa è una lezione che la Storia ci ha insegnato molto bene. Non sarei sorpreso se ciò accadesse anche qui adesso”.