giovedì 16 luglio 2009

l’Unità 16.7.09
La maschera della politica
La vicenda di Luca Bianchini insegna tante cose. Ad esempio che l’impegno politico può gratificare una persona ma non guarirla
di Luigi Manconi


Se per una ipotesi oggi inaudita, ma che non può essere esclusa in assoluto, Luca Bianchini fosse vittima di un errore giudiziario (che so? A causa di un complotto di Rupert Murdoch), il suo diritto costituzionale alla difesa sarebbe stato già irreparabilmente leso dal trattamento mediatico subito. Basti pensare a come lo sguardo invadente delle telecamere abbia già mandato in onda su tutte le tv le pagine più private del suo supposto diario, assicurando così un imponente vantaggio alle tesi accusatorie; e a come il possesso di un “ampio materiale pornografico” sia stato presentato come prova schiacciante. Tanto varrebbe dar fuoco alle edicole. (E tralascio la secolare disputa scientifica intorno al quesito: il consumo di pornografia è fattore incentivante o disincentivante rispetto all’esercizio della violenza sessuale?). Ma qui non si vuole insistere sullo stato desolante in cui versa, nel nostro Paese, il sistema delle garanzie processuali: si vuole, piuttosto, tentare di ragionare su cosa possa dirci la vicenda dello “stupratore seriale”.
Innanzitutto va chiarito che l’errore di Ignazio Marino non è stato quello di utilizzare, a fini di dibattito congressuale, un episodio criminale. No, l’errore del medico Marino è stato quello di non affrontare il “caso Bianchini” da medico, bensì da politico di professione. Un errore classico di politicismo (tentazione irresistibile in particolare, per chi ha, della politica, un’esperienza recente). Certo, è possibile – eccome – una lettura “politica” di questa crudelissima vicenda, ma su un piano radicalmente diverso, fuori dalla logica ordinaria delle lotticine di corrente e delle colluttazioni congressuali. Da questo punto di vista devo dire di aver molto apprezzato le parole dell’assessore provinciale democratico (già Margherita), Patrizia Pristipino. Nessun tentativo di nascondersi dietro un dito, di ridimensionare la portata della conoscenza amichevole con Bianchini, di occultare la drammaticità della scoperta. Che non è la scoperta di un mascalzone che coltiva una doppia morale: un’esistenza quotidiana e una militanza politica irreprensibili e, poi, un’attività criminale fatta di corruzione e di tangenti, come tanti altri lestofanti, piccoli e grandi, della vita pubblica italiana. Nulla di tutto ciò. Siamo in presenza, piuttosto, di una tragedia umana, che va affidata alla diagnosi (e alla terapia, semmai una terapia fosse possibile) degli specialisti della psiche. Ciò che si può dire, da profani, è che si tratta, va da sé, di una acutissima psicopatologia, espressione di un disturbo della personalità, che rimanda a un vissuto, sul quale è la medicina che in primo luogo deve pronunciarsi, una volta messo l’interessato in condizione di non nuocere ulteriormente.
Ma la vicenda dice ancora due cose importanti. La prima: se il quadro caratteriale e relazionale di Bianchini, almeno nei suoi tratti visibili, è quello descritto da quanti lo conoscevano, arriviamo appena a immaginare quali abissi dell’animo e della mente possano celarsi dietro i comportamenti abituali delle persone con le quali intratteniamo rapporti e condividiamo esperienze. In altre parole, quanto sia fragile e incerto il concetto di normalità e come esso possa risultare semplicemente l’abito che si indossa, per consuetudine sociale, a coprire un organismo malato e profondamente sofferente. Insomma, la malattia, la patologia, la mostruosità possono essere componente ordinaria della nostra quotidianità. Seconda considerazione: la mostruosità tende costantemente a mimetizzarsi, a cercare l’anonimato nei comportamenti collettivi e nella vita sociale. Sotto questo profilo, la politica può essere, per un verso, la maschera e per l’altro – azzardo - una sorta di tentativo di terapia da parte del soggetto affetto da patologia. Infine, la lezione più terribile, e, insieme, istruttiva che questa vicenda ci consegna: la politica non può salvarci. La politica può essere un’attività bellissima e appassionante, capace di dare gratificazioni straordinarie e piacere quotidiano. Ma non è in alcun modo in grado di guarirci. Non può salvarci l’anima e nemmeno può cancellare la disperazione quando accade di soffrirne o ridurre il male di vivere, quand’esso ci affligge. Se abbiamo imparato, cioè, che la politica non può dare la felicità, né quella individuale, né quella collettiva (il paradiso in terra, una società di uguali, la liberazione dal bisogno...), dobbiamo anche accettare che essa non può emanciparci dal dolore e dalla malattia. Può, nel migliore dei casi, renderci più consapevoli di tutto questo. E non è poco.

l’Unità 16.7.09
L’Italia sta cambiando, le leggi da «Stato etico» non passeranno
Da Torino a Genova molte città stanno approvando i registri per il testamento biologico
L’opinione pubblica conta sempre di più. Incostituzionale il testo licenziato dal Senato
Intervista a Beppino Englaro di Federica Fantozzi


Neotesserato Pd, Beppino Englaro ieri era a Milano ad un incontro pubblico a sostegno di Ignazio Marino, il “terzo uomo” in pista per il congresso autunnale dei Democratici. E stasera dialogherà di bioetica con Nando Dalla Chiesa e don Paolo Farinella nell’ambito della Settimana dei Diritti che si apre a Genova. Fino a mercoledì 22 luglio, il capoluogo ligure si occuperà di libertà di stampa, vittime di mafia, disabilità, immigrazione. Ad invitare Englaro è stato un gruppo di associazioni impegnate sul fronte della laicità e di docenti universitari, ad accoglierlo il sindaco Marta Vincenzi.
Signor Englaro, è cominciata la discussione sul biotestamento a Montecitorio. Che legge si attende?
«Se non rispettano la Costituzione, come ha rilevato anche Fini, se continuano su posizioni da Stato etico, se non rispettano le libertà fondamentali, c’è poco da dire. Non è possibile invadere il tuo corpo contro la tua volontà. Nessuno ha questo potere. neppure lo Stato. È semplice, quasi banale: una legge uguale a quella uscita dal Senato sarebbe illegittima e incostituzionale».
Ha fiducia nell’azione del presidente della Camera?
«Non solo in lui, anche nei deputati. Vedremo gli sviluppi del dibattito parlamentare».
Lei è stato a Torino per l’istituzione del registro sul biotestamento. Si stanno muovendo così anche Genova, Pisa, Bologna, Roma. La petizione online promossa da Marino e Giuliano Amato ha raccolto 300mila firme. La società civile si muove in direzione diversa dalla politica. Potrà influenzare il dibattito in corso?
«Assolutamente sì. L’opinione pubblica ha fatto passi da da gigante. Noi vogliamo proprio che la società civile si faccia sentire: la gente non si fa più imporre nulla. La mia convinzione è che che questo percorso non potrà non incidere sulla legge in fieri perché il clima culturale sta cambiando».
È stata approvata ieri la mozione Buttiglione che impegna il governo in sede Onu contro l’aborto come contraccettivo. Un altro diritto in pericolo?
«Guardi, non entro in cose che non conosco. Difendo le libertà fondamentali che mi riguardano o possono riguardarmi. Sulla vicenda di Eluana avevo promesso di andare fino in fondo e l’ho fatto. Anche io potrei trovarmi in qualsiasi momento nella stessa situazione, dunque faccio sentire la mia voce. Ma resto in quel campo: non sono un tuttologo».
Lei si è iscritto al Pd in aperto appoggio del terzo candidato, Ignazio Marino, che ha conosciuto durante la sua battaglia per far rispettare la volontà di Eluana. Oltre a essere un medico competente, ritiene che possa essere un valido leader di partito?
«Conoscendo la persona non ho il minimo dubbio. Senza le qualità necessarie non sarebbe sceso in campo. La mia non è idolatria: in 3 anni di conoscenza ho verificato che può affrontare in modo efficiente un problema estremo, figuriamoci gli altri. È un cattolico che rispetta i laici, attenzione però: non identifichiamo Marino solo con laicità e bioetica. Se vince sarà un uomo all’altezza della carica. E io farò di tutto per aiutarlo».
Come procede l’inchiesta giudiziaria che la vede indagato per omicidio insieme al primario anestesista Amato De Monte ed altri componenti dell’équipe medico-infermieristica della clinica udinese dove è morta sua figlia?
«Manca l’ultimo tassello. La fine delle indagini è attesa per fine agosto, inizio settembre. Noi siamo tranquillissimi perché abbiamo sempre operato nella legalità. Non ci aspettiamo qualcosa di diverso dall’archiviazione».

l’Unità 16.7.09
Il comitato ad hoc presieduto dal professor D’Agostino, detto «il mastino della Cei»
Dovràscrivere le linee guida per la fecondazione assistita dopo la sentenza della Consulta
Integralisti per rivedere la legge 40
Aborto, passa la mozione Buttiglione
di Susanna Turco


Alla Camera passa con una sostanziale convergenza la mozione per il no all’aborto. Intanto, al ministero della Salute, si insedia una commissione che lavora sulla legge 40: i membri “laici” sono due su undici.

Mentre la Camera con una sostanziale convergenza bipartisan (via astensione di Pd e Idv al testo proposto dal centrista Buttiglione e sostenuto dal Pdl)dice no all’aborto come strumento di controllo delle nascite, non nuovissimo principio contenuto anche nella legge 194, e rinuncia invece a dire una parola esplicita sul tema della «libertà di scelta della donna» (per non parlare della contraccezione), tutt’altro clima si respira dalle parti del ministero della Salute.
Molto più fattivo, molto più concreto. Di certo pochissimo alla ricerca di quel «minimo comun denominatore etico» sbandierato dai fautori della mozione che, da ieri, impegna il governo a proporre in sede Onu una risoluzione antiabortista. Un clima tutt’altro che trasversale.
Commissioni al Welfare
Si è, infatti, che proprio oggi, a ventiquattr’ore dalle gentili convergenze Buttiglione-Binetti, e dalla soddisfazione della gran parte del mondo cattolico, si insedierà la commissione istituita a fine giugno dal ministro Maurizio Sacconi per «valutare le implicazioni giuridiche ed etiche» della sentenza della Consulta sulla legge 40 che regola la procreazione assistita. All’inizio di aprile, infatti, la Corte Costituzionale aveva dichiarato inammissibili alcuni punti della legge, in particolare quello sul limite dei tre embrioni. Rendendo opportuno un ulteriore lavoro per armonizzare il testo con le indicazioni della Consulta. «Procederemo emanando nuove linee guida», aveva risposto all’epoca la sottosegretaria Eugenia Roccella a chi già si azzardava a ipotizzare una revisione della legge.
Detto, fatto. Le nuove linee guida, come annunciato in un trafiletto di Avvenire, «scaturiranno» dal lavoro di questa commissione, che si occuperà in particolare dei problemi relativi alla crioconservazione degli embrioni, più quello di un Osservatorio che dovrà monitorare l’applicazione delle norme sulla fecondazione assistita.
Due su undici
Curioso è tuttavia che, in stridente contrasto con la ricerca volenterosa di convergenze parlamentari su un tema come l’aborto, le personalità di giuristi e bioeticisti individuate per lavorare su una questione controversa come la procreazione assistita provengono tutte o quasi dalla stessa parte. Circostanza sulla quale i radicali hanno già presentato una interrogazione parlamentare. Presidente, per dire, è Francesco D’Agostino. Qualche maligno lo chiama «mastino della Cei». Più laicamente, di lui si può dire che ha guidato per otto anni complessivi il Comitato nazionale per la bioetica, che è presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, che è membro della Pontificia Accademia per la Vita, che è editorialista di Avvenire. C’è poi Bruno Dalla Piccola, presidente dell’associazione Scienza e Vita, plaudentissimo ieri per «il fronte trasversale che ha detto no all’aborto». Assuntina Morresi, consulente ministeriale e alter ego ciellino della Roccella. Alberto Gambino, mente giuridica di Rutelli e teodem nella campagna per l’astensione al referendum sulla legge 40. Angelo Vescovi, altro protagonista della campagna referendaria «la vita non si tocca» e convinto sostenitore della tesi che la ricerca sulle staminali embrionali sia inutile. Enrico Garaci, il «signor nessuno» che Comunione e liberazione candidò all’89 a sindaco di Roma sotto le insegne della Dc. Ci sarebbe da citarne qualcun altro, ma in sostanza, per fare un bilancio, di cosiddetti “laici” figurano Carlo Alberto Redi e Amedeo Santosuosso. Due membri su undici. Un bell’esempio di ricerca di convergenze, non c’è che dire.

Repubblica 16.7.09
Aborto, sì alla moratoria Onu "Non si usi per controllare le nascite"
Passa la mozione Udc-Pdl, quella Pd respinta per un voto
di Mauro Favale


ROMA - Il governo italiano si impegnerà a promuovere, presso le Nazioni Unite, una «moratoria sull´aborto obbligatorio». Il vincolo è il risultato della mozione, promossa da Udc, Pdl e Lega, approvata ieri a Montecitorio con l´astensione di Pd e Idv. Il Vaticano è entusiasta. Esecutivo e maggioranza esultano, i democratici non si oppongono e, fuori dal Parlamento, solo Sinistra e Libertà parla di «imbroglio e ipocrisia».
La Camera dice no, dunque, all´aborto come strumento di controllo demografico. Nel dispositivo approvato viene affermato «il diritto di ogni donna a non essere costretta e indotta ad abortire». Al risultato di ieri si è giunti con un gioco di astensioni e voti trasversali: governo e maggioranza fanno propria la mozione dell´Udc, sulla quale Pd e Idv decidono di astenersi. Ad eccezione di Paola Binetti e di una folta pattuglia di cattolici del centrosinistra che votano a favore del documento di maggioranza. Specularmente, alcuni deputati del Pdl votano la mozione Pd, sulla quale il governo aveva dato parere contrario. Eppure non è stata approvata per un solo voto, quello del dipietrista Gabriele Cimadoro, che ha consentito al governo di non andare sotto. Quasi un rompicapo da interpretare: perché se sul dispositivo finale (no all´aborto per controllare le nascite) tutto il Parlamento era d´accordo, erano le premesse a differenziare le posizioni. In aula Livia Turco ha puntato sulla contraccezione, sulla libertà delle donne e sull´autodeterminazione femminile; aspetti che la mozione dell´Udc non prendeva in considerazione. «Se avessi dovuto votare sulla base di ciò che ho sentito dire da Livia Turco – afferma Paola Binetti – avrei votato contro. La mozione del Pd, invece, era scritta con quegli "equilibrismi lessicali" che mi hanno permesso di votarla». Motivazione simile a quella fornita da Cimadoro, deputato (autodefinitosi «binettiano») dell´Idv, che però si è astenuto sulla mozione Pd. «Dispiace che non sia passata per un voto – spiega la Turco – ma ho apprezzato comunque l´iniziativa di Buttiglione». Margherita Boniver, laica del Pdl, si è astenuta in tutte le votazioni: «Trovo che queste risoluzioni contengano al loro interno la volontà di boicottare le agenzie Onu che si occupano dei progetti di Family planning nei Paesi in via di sviluppo e che vengono, a torto, accusate di puntare sull´aborto». Soddisfatto, invece, il primo firmatario della mozione, Rocco Buttiglione: «È ora di contrastare – ha detto l´esponente centrista – sia chi è contro la vita sia chi è contro la scelta».
Il governo, per bocca del ministro degli Esteri Franco Frattini, parla di «un risultato di alto valore morale». Il Vaticano, con il cardinale Renato Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace, si definisce «entusiasta», perché quello di ieri «è un sì alla vita». Claudio Fava, di SL, invece, interpreta il voto come «un imbroglio e un´ipocrisia: non si può condannare l´aborto anziché promuovere la libera scelta delle donne in materia di maternità».
Ancora indietro, invece, la pratica testamento biologico: il testo approdato ieri in commissione alla Camera andrebbe riscritto per Pd e Idv mentre, per il Pdl, quello approvato al Senato rappresenta il punto di partenza.

l’Unità 16.7.09
Il festival di Genova
Sette giorni dedicati a laicità, mafia diritti e immigrati


DIRITTI. Si apre stasera a Genova una settimana dalla parte dei più deboli. Ideato e organizzato da Nando Dalla Chiesa, il Festival dei Diritti comprende diverse sezioni con ospiti illustri. Per «bioetica e diritti» è stato invitato Beppino Englaro, protagonista nei mesi scorsi di una titanica battaglia di laicità.
Per «diritti delle vittime» a discutere degli anni di piombo ci saranno Sabina Rossa, Giovanni Bachelet, Benedetta Tobagi. «Diritto di informare, di comunicare, di sapere» domenica 19 luglio prevede l’intervento del giornalista moldavo Oleg Brega, che insieme al fratello denunciò i brogli elettorali nel suo Paese; della giornalista iraniana Farian Sabahi e della collega rumena Roxana Smil.
Il giorno dopo, il Teatro dell’Ortica - nella sezione «disabilità e diritti» - presenterà a Palazzo Tursi un laboratorio teatrale i cui attori sono pazienti psichiatrici.E martedì 21 luglio il sindaco di Genova Marta Vincenzi conferirà la cittadinanza onoraria a due donne: Fernanda Contri e Bianca Guidetti Serra.
Altri appuntamenti: il forum su diritti umani, immigrazione, sicurezza e respingimenti; la presentazion del libro «Scuola Diaz- Vergogna di Stato» di Dario Rossi sui giorni del G8 genovese del 2001.

l’Unità 16.7.09
Il rapporto su «Piombo Fuso» raccoglie video e testimonianze
L’esercito doveva ridurre le perdite: si sparava anche sui civili
L’accusa dei soldati israeliani: «A Gaza l’ordine era uccidere»
di U.D.G.


Le denunce raccolte in un rapporto di una ong israeliana per i diritti umani. I racconti di alcuni soldati: l’ordine era «se non sei sicuro, spara». La replica dei vertici di Tsahal: sono testimonianze «anonime e generiche».

Sparare senza preoccuparsi della sorte dei civili palestinesi: questa era la prassi seguita dall’esercito israeliano a Gaza durante l’operazione «piombo fuso», che dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio scorso ha provocato circa 1.300 morti, secondo le testimonianze di una trentina di soldati, che hanno partecipato alle operazioni di guerra, raccolte da «Breaking the silence», un’organizzazione composta da ex militari che si batte per il rispetto dei diritti umani. Il rapporto è composto da 112 pagine e raccoglie le testimonianze anche video di uomini «coinvolti nelle operazioni a ogni livello».
ROMPERE IL SILENZIO
Dalle testimonianze, raccolte dall’organizzazione non governativa israeliana (breakingthesilence.org.il) risulta chiaramente che era meglio colpire un innocente che attardarsi a individuare il nemico, perché la regola era «prima sparare e poi preoccuparsi». Un piano basato sull’imperativo di ridurre al minimo le perdite israeliane, avanzando sempre ad armi spianate. Secondo le testimonianze, l’ordine era: «Se non sei sicuro, spara». Il fuoco, racconta un soldato, «era dissennato, appena raggiunta la nostra nuova postazione cominciavamo a sparare contro tutti gli obiettivi sospetti». Perché, come dicevano i capi, «in guerra sono tutti tuoi nemici, non ci sono innocenti». Il rapporto della ong, finanziato da gruppi di attivisti per i diritti umani israeliani e dai governi di Spagna, Gran Bretagna, Olanda e dall’Ue, parla di «civili usati come scudi umani, costretti a entrare in siti sospetti davanti ai soldati che usavano la loro spalla per tenere il fucile puntato».
Secondo Mikhael Mankin, di Breaking the Silence, «le testimonianze provano che il modo immorale in cui la guerra è stata condotta era dovuto al sistema in vigore e non al comportamento individuale di soldati». «Si è dimostrato - continua - che le eccezioni in seno alle forze armate sono divenute la norma e ciò richiede una profonda riflessione e una seria discussione. Questo è un urgente appello alla società israeliana e alla sua dirigenza a guardare sobriamente alla follia delle nostre politiche». Nel dossier si ripetono, inoltre, le accuse sull’uso indiscriminato di armi al fosforo bianco nelle strade di Gaza da parte dell’Esercito dello Stato ebraico e si parla di «distruzioni totali non collegate a nessuna minaccia concreta per le forze israeliane», oltre che di «permissive» regole d’ingaggio. «Non siamo stati istruiti a sparare a ogni cosa che si muovesse - ha dichiarato un altro soldato - ma ci dicevano: «Se vi sentite minacciati sparate». Secondo uno dei testimoni citati dal rapporto, «l’obiettivo era terminare la missione con il minor numero possibile di perdite per l’Esercito senza chiedersi quale sarebbe stato il prezzo pagato dagli altri (i palestinesi ndr)». «Meglio colpire un innocente che esitare a sparare a un nemico», era l’ordine impartito dai vertici di Tsahal, secondo un’altra confessione pubblicata nel dossier di «Breaking the silence».
Barak: criticate me
In una minuziosa risposta alla denuncia, il portavoce militare israeliano, dopo aver ricordato che l’operazione Piombo Fuso fu lanciata in risposta a otto anni di tiri di razzi sulla popolazione civile nel sud di Israele, ha accusato l’ong di aver redatto un rapporto basato su «testimonianze anonime e generiche». L’ong, afferma il portavoce, «non ha avuto la decenza di presentare il rapporto alle forze armate e non ha permesso di investigare le testimonianze prima della sua pubblicazione pur continuando a diffamare le forze armate e i suoi ufficiali». Il portavoce militare sottolinea l’assenza «di ogni elemento atto a identificare gli autori delle testimonianze, il loro grado e la loro posizione al momento degli incidenti denunciati, l’unità di appartenenza, il modo in cui le testimonianze sono state raccolte e come la credibilità delle testimonianze sia stata verificata». «Le critiche rivolte alle forze di sicurezza israeliane da questo o quel gruppo sono inappropriate», taglia corto il ministro della Difesa Ehud Barak. «L’Idf (le forze di difesa israeliane, ndr) sono uno degli eserciti che meglio rispettano l’etica al mondo e agiscono nel rispetto di alti valori morali. Ogni critica alle operazioni delle forze di sicurezza - aggiunge Barak - dovrebbe essere rivolta a me, in quanto ministro della Difesa israeliano».

Repubblica 16.7.09
Distruggere tutto. Prima sparare. La procedura Johnnie
Raccolte dalla Ong "Breaking The Silence" le testimonianze di 54 militari israeliani
Guerra di Gaza, i soldati si confessano "Scudi umani e distruzioni gratuite"
di Fabio Scuto


Venivano demolite case dappertutto, non ce ne era una senza danni. Era terribile, sembrava un film sulla Seconda guerra mondiale
Nessuno ti diceva di uccidere innocenti ma i sospetti dovevano essere stesi. Ho capito che era meglio sparare prima e fare le domande dopo

«A ogni casa palestinese a cui ci avvicinavamo mandavamo avanti il vicino, un Johnnie. Poi si entrava nella casa puntando il mitra alla schiena del civile». La racconta così in forma anonima un sergente maggiore della Brigata Golani - una delle unità di élite dell´esercito israeliano - la sporca guerra di Gaza dello scorso gennaio. E´ una delle 54 testimonianze dirette raccolte dall´organizzazione Breaking The Silence - composta da ex militari che si battono per il rispetto dei diritti umani- sulla condotta dell´esercito nell´operazione Cast lead (Piombo fuso): 22 giorni di battaglie, 1400 palestinesi uccisi, 13 israeliani caduti, distruzioni immani.
Nelle 112 pagine i soldati di Tshal raccontano non solo come civili palestinesi vennero utilizzati come scudi umani, senza fare distinzioni fra miliziani di Hamas e popolazione e senza altre regole d´ingaggio se non quella di minimizzare le proprie perdite. «Nessuno ti diceva di uccidere degli innocenti, ma le istruzioni erano che chiunque fosse sospetto doveva essere ucciso. Ho capito che era meglio sparare per primi e fare domande dopo», racconta un altro militare. Testimonianze di omicidi assolutamente gratuiti come quello di un uomo di 50-60 anni , descritto da un altro soldato. Racconta di aver visto di notte un palestinese con in mano una torcia, apparentemente disarmato: l´ufficiale al comando del reparto vietò di sparare colpi di avvertimento e quando fu vicino fece aprire il fuoco su di lui. «Non lo dimenticherò finché vivo, tutti sparavano e l´uomo gridava. Quando venne il giorno mandammo fuori un cane per controllare se avesse esplosivi addosso...ma non portava nulla, solo la torcia. L´ufficiale si giustificò così: «Era di notte...era un terrorista».
Nel dossier si ripetono le accuse sull´uso indiscriminato di armi al fosforo bianco nelle strade di Gaza e di «distruzioni totali non collegate a nessuna minaccia concreta per le forze israeliane». Il rapporto, finanziato da gruppi di attivisti per i diritti umani israeliani e dai governi di Spagna, Gran Bretagna e dall´Ue, prova secondo il portavoce di Breaking The Silence Mikhael Mankin «il modo immorale in cui la guerra è stata condotta, un modo dovuto al sistema di comando in vigore e non al comportamento individuale dei soldati».
In una minuziosa risposta alla denuncia, il portavoce militare israeliano, dopo aver ricordato che l´operazione Piombo Fuso fu lanciata in risposta a otto anni di tiri di razzi sulla popolazione civile nel sud di Israele, ha accusato Breaking The Silence di aver redatto un rapporto basato su «testimonianze anonime e generiche» ma ha aggiunto che verranno aperte delle inchieste su ogni denuncia di cattivo comportamento dei soldati. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha chiesto che tutte le denunce siano presentate presso il suo dicastero ed ha ripetuto che l´esercito israeliano «è quello con il più alto senso morale del mondo», una frase che il governo usa spesso per rispondere alla valanga di critiche per l´uso spregiudicato della forza militare che piovono sulla testa dei soldati sempre più frequentemente.

Repubblica 16.7.09
Odifreddi riprende la tessera: il chirurgo è un credente, può farcela
"Torno e voto per Ignazio se vince lui addio Binetti"


Al centro del suo programma due temi cruciali: laicità e battaglia contro la nomenklatura

ROMA - Piergiorgio Odifreddi rientra nel Pd per sostenere Ignazio Marino. Il matematico e filosofo era stato chiamato nella commissione sui valori del Pd. Ma non firmò il manifesto. «Non faccio la foglia di fico laica», disse. Lasciò il Pd prima ancora di iscriversi prevedendo che il pasticcio sui valori avrebbe prodotto risse a non finire.
E adesso, professore, ci riprova con Marino. Perché?
«Perché al centro del suo programma ci sono due questioni fondamentali. La laicità e la battaglia anti-nomenclatura, anti-burocrazia. Due cose che avrebbe dovuto fare Veltroni, sull´esempio di Zapatero. Purtroppo non le ha fatte».
Perché Marino dovrebbe farcela?
«Ha un vantaggio: è credente. Forse per questo può riuscire: come Nixon che in forza del suo anticomunismo aprì il dialogo con Russia e Cina».
Quante chance dà, come matematico, a Marino?
«Una su tre, se ai candidati non si aggiungerà Grillo».
Lo vorrebbe?
«Parafrasando Brecht direi "sfortunati i tempi in cui la politica ha bisogno dei comici". Effettivamente Grillo non è credibile. Ma Marino è una cosa diversa».
Non considera il chirurgo un outsider?
«Forse. Ma ha una serie di punti di forza. Franceschini e Bersani, per quanto relativamente nuovi, non sono trascina-popolo. Non hanno carisma. Marino inoltre ha una professione, è un fior di chirurgo, e anche nel Pd sta crescendo la schiera chi non sopporta più gli uomini di apparato».
E se Marino perde, lei lascia di nuovo il Pd?
«Dipende. C´è modo e modo di perdere. Se una posizione laica dovesse essere nettamente minoritaria... da non credente potrei sempre ricorre al divorzio. Ma può finire diversamente. Se vince Marino, ha detto Paola Binetti, me ne vado. Già questo mi basta».
(l.n.)

il Riformista 16.7.09
Sexgate, Pd diviso sull'iniziativa «bacchettona» Bagarre sulla mozione Papi
E i dalemiani non firmano
di Tommaso Labate



Per alcuni è diventata «la mozione bacchettona». Per altri, «un documento fondamentale per non lasciar cadere battaglia in nome della "verità" promossa da Repubblica e con le sue venti domande». Altri ancora, come il sito internet Dagospia, l'hanno ripresa sintetizzandola col «chi governa non deve avere l'amante» e chiosando: «Neanche ai tempi dell'Inquisizione!». Così, con tanto di punto esclamativo.
Sia come sia, nelle stanze del gruppo del Pd a Palazzo Madama la mozione presentata ispirata da Luigi Zanda, presentata da Gianrico Carofiglio e sottoscritta anche dal capogruppo Anna Finocchiaro sugli standard comportamentali di chi govera ha creato, nelle ultime quarantott'ore, un'autentica bagarre.
Il testo, esplicito che più esplicito non si può, mira a portare nell'aula del Senato «taluni comportamenti personali del presidente del Consiglio dei ministri», gli stessi che «sono stati oggetto di osservazioni e censure oltre che da parte della stampa nazionale ed internazionale, anche da autorevoli rappresentanti della Chiesa Cattolica». E ancora: «Chi governa - si legge - deve essere credibile e assumere comportamenti coerenti tra la vita pubblica e quella privata, sfere che devono rimanere distinte; inoltre serve prudenza nelle frequentazioni per non esporre a rischi la sicurezza nazionale».
Più che il contenuto, però, sono interessanti le firme in calce alla mozione. Da quelle, infatti, è possibile decrittare lo scontro sottotraccia in corso nel Pd. Dell'ufficio di presidenza del gruppo l'hanno firmata, oltre a Finocchiaro e Zanda, anche i segretari Albertina Soliani (prodiana d'antico conio) e Carlo Pegorer. Ma attenzione: nessuno dei due dalemiani che stanno ai vertici della truppa democrat al Senato - il vicecapogruppo Nicola Latorre e il tesoriere Mario Gasbarri - ha apposto la propria firma sulla mozione.
Non è tutto. La mozione anti-Papi ha convinto Ignazio Marino, il terzo uomo al congresso, che la sosterrà con convinzione. Ma sembra essere Dario Franceschini il principale tifoso del testo. La stragrande maggioranza dei senatori che hanno promosso il documento sostengono il segretario nella sua corsa al congresso: tifano infatti per «Dario» le ex ds Vittoria Franco e Katia Pinotti, così come il veltroniano Vincenzo Vita e l'ex sindacalista della Cgil Paolo Nerozzi. Oltre a Zanda, s'intende. «La prima regola capitale riguarda l'esigenza di non tenere comportamenti personali in contrasto con i valori posti alla base dell'azione politica», aveva detto Carofiglio presentando la mozione in un'intervista a Repubblica. «Non si possono sostenere i valori della famiglia tradizionale e poi, per dire, avere l'amante. Il problema non è l'amante, ma l'incoerenza», aveva aggiunto il senatore-magistrato giallista.
Non tutti nel Pd sono d'accordo. Soprattutto quelli che lavoreranno perché la mozione cada nel vuoto. Non foss'altro che per evitare l'ennesima "conta" interna.

il Riformista 16.7.09
La mozione presentata dal Pd al Senato sulla moralità di Berlusconi è un classico esempio di quello che un tempo si sarebbe chiamato «cretinismo parlamentare»


La mozione presentata dal Pd al Senato sulla moralità di Berlusconi è un classico esempio di quello che un tempo si sarebbe chiamato «cretinismo parlamentare». Non potendo resistere alle pressioni esterne (Repubblica) che li spingevano a portare nelle aule parlamentari una vicenda che per la sua stessa natura non vi può entrare, i parlamentari che l'hanno scritta hanno dovuto infilarsi in una gimkana col buon senso, dicendo e non dicendo, alludendo e correggendo, e producendo alla fine un testo di involontaria ma sublime comicità.
La mozione comincia dichiarando che «la presente mozione non è diretta ad aprire un dibattito su tali temi specifici». Fantastico. Prosegue affermando che «chi governa deve essere credibile e assumere comportamenti coerenti tra la via pubblica e quella privata», ma subito dopo afferma che queste «sfere devono rimanere distinte». E allora perché mai dovrebbero essere coerenti? Conclude elencando un astruso decalogo di norme di comportamento cui dovrebbero attenersi i membri del governo al fine di «mantenere la credibilità che l'Italia ha recuperato a livello internazionale attraverso l'impegno che ha caratterizzato l'organizzazione del vertice del G8». Un complimento rivolto proprio a quel Berlusconi che la mozione vorrebbe censurare.
Avevamo già messo in guardia il Pd dalla tentazione di trasformare una campagna giornalistica in una battaglia parlamentare. Non si può fare. Il cretinismo della mozione lo dimostra.

Repubblica 16.7.09
"Stanno massacrando i nostri figli"
Iran, la denuncia delle mamme. Oppositori impiccati come "trafficanti di droga"
Le cifre ufficiali parlano di 20 morti, ma negli obitori ci sono mucchi di cadaveri
di Vanna Vannuccini


Nella zona sud di Teheran, in un ex mattatoio trasformato in obitorio della Facoltà di Medicina legale, sono accatastati più di 150 cadaveri. Lo dicono testimoni oculari, genitori che sono stati chiamati a riprendersi i corpi dei loro figli e che in molti casi hanno dovuto, per riavere il cadavere, firmare una lettera contro Moussavi, il candidato defraudato della vittoria da un colpo di mano degli ultrà fondamentalisti. In alcuni casi le famiglie hanno anche dovuto versare denaro per i "danni" provocati dall´ucciso. La cifra ufficiale data dal regime dei morti durante le manifestazioni è di 20, ma già i medici ospedalieri a Teheran avevano contato fino a una settimana fa 92 morti. «Coloro che vengono arrestati saranno trattati in modo da impartire loro una lezione indimenticabile» aveva minacciato un portavoce di Ahmadineajd. E così è stato. Negli ultimi giorni si sono rincorse sul web accorate notizie di giovani uccisi nelle prigioni con accuse pretestuose. «La Repubblica islamica dell´Iran ha cominciato a uccidere i giovani arrestati durante le manifestazioni contestando loro il reato di traffico di droga. Si prega di far sapere alle organizzazioni per i diritti umani che giovani innocenti vengono impiccati solo per aver chiesto elezioni non manipolate» si legge negli appelli. Impiccagioni di "spacciatori" in numeri esorbitanti sono state eseguite in questi giorni nelle carceri iraniane. Martedì a Zahedan sono state impiccate tredici persone definite "ribelli sunniti" del gruppo separatista Jundollah, ieri a Teheran altri tre "trafficanti di droga": tutti identificati solo con i nomi propri e senza nome di famiglia.
Centinaia di famiglie iraniane si sono rivolte al comitato creato da Mehdi Karroubi, l´ex candidato riformatore, per avere notizie di persone arrestate o scomparse. Cinquantasei appelli riguardano persone i cui arresti sono stati confermati dalle autorità, 46 i desaparecidos. Un´altra trentina persone picchiate dalla polizia o nelle cui case hanno fatto irruzione i basiji; centinaia di persone hanno presentato denunce anonime per il timore di ritorsioni, scrive Sohamnews.
Tutti gli occhi sono rivolti alla preghiera del Venerdì che per la prima volta dopo le elezioni sarà guidata domani da Hashemi Rafsanjani. Nei tre venerdì succeduti alle elezioni la preghiera era stata guidata prima dal Leader Khamenei, che aveva dichiarato definitiva l´elezione di Ahmadinejad, e poi da due ayatollah oltranzisti che avevano minacciato ritorsioni contro i manifestanti. Questo cambiamento può significare o che dietro le quinte è stato raggiunto un compromesso per non mettere ulteriormente in pericolo il sistema islamico; oppure al contrario che i riformatori, con l´appoggio di Rafsanjani, hanno deciso di andare al conflitto aperto con il regime. In prima fila ad ascoltare Rafsanjani ci saranno Moussavi, Karroubi e l´ex presidente Khatami, e Moussavi ha chiesto ai suoi sostenitori di prendervi parte. Calcola che il regime non potrà continuare a vietare anche le riunioni religiose (finora sono state vietate anche le cerimonie funebri). La crisi di legittimità del governo continua: buona parte del clero ha preso le distanze da Ahmadinejad (con l´eccezione di due ayatollah, nessuno da Qom si è congratulato con lui per la rielezione), e perfino l´ex candidato conservatore Rezai ha parlato della possibilità di "un´implosione del sistema" se il regime non riacquista credibilità. L´Occidente farebbe bene a prepararsi a un periodo di gelo con l´Iran, anche se il settimane Stern lancia l´allarme sulla bomba iraniana: Teheran, scrive, potrebbe fare il primo test atomico già nel 2010. Ma per utilizzare un´arma nucleare le mancano - dicono i servizi tedeschi - altre risorse e altro know how e per questi occorrono ancora anni.

il Riformista 16.7.09
Teheran aspetta la resa dei conti contando cadaveri
di Luigi Spinola


Centinaia di vittime dicono fonti riformiste. Domani Rafsanjani guida le preghiere del venerdì. Potrebbe rispuntare l'Onda Verde. Obama intuisce che la repressione mal si concilia con il dialogo. Dalla Germania parte il conto alla rovescia: bomba tra 6 mesi.

Sarebbe gonfio di cadaveri di oppositori l'obitorio di Teheran. Martiri della repressione nascosti dal regime che fissa a 20 il bilancio delle vittime dei "disordini" post-elettorali. Il sito di Musharakat Islami- organizzazione vicina a Mir Hossein Mousavi - afferma di avere «informazioni certe sulla presenza di centinaia di cadaveri nella sede di medicina legale». Di cento morti ha parlato anche la solitamente prudente Nobel Shirin Ebadi.
Fonti sentite dal Riformista a Teheran confermano un bilancio superiore al centinaio di morti. E raccontano una città schiacciata da una cappa di sospetti, memorie e presagi. L'impressione è che la storia dello scontro tra i golpisti di Ahmadinejad e l'Onda verde sia rimasta in sospeso, in attesa di un finale, luminoso o cupo che sia. Non c'è stato, nelle strade come nelle case degli iraniani e nei palazzi del potere, un ritorno alla realtà. La repressione del resto continua, con retate a tappeto. Basta essere stati avvistati in una manifestazione per finire dentro. Dove tutto può capitare: testimoni parlano di pestaggi, torture, stupri in stazioni di polizia trasformate in lager occasionali. E le vittime sono sfuggenti come i morti: sarebbero almeno 46 secondo il sito Soham Nes vicino a Mehdi Karrubi, le persone scomparse dall'inizio delle proteste.
Risultava "desaparecido" fino a pochi giorni fa anche Sohrab Aarabi, 19 anni. Di lui si erano perse le tracce il 15 giugno, tre giorni dopo il voto, durante una delle prime grandi dimostrazioni contro i brogli. La madre di Sohrab per quasi un mese ha mostrato la sua foto a tribunali, prigioni ed ospedali. Dopo 26 giorni è stata informata dalle autorità della morte del ragazzo, ucciso da un colpo d'arma da fuoco che gli ha spaccato il cuore. Sabato alla madre è stato consegnato il corpo di Sohrab. Non si è fatta intimorire. Ha denunciato le autorità che avrebbero registrato - e nascosto - la morte del figlio già il 19 giugno. Ora la madre di Sohrab chiede un'inchiesta indipendente. E a casa sua si sarebbero già fatti vedere i leader riformisti Karrubi e Mousavi. Alla vigilia di una giornata cruciale.
Per la prima volta dalle elezioni, domani il più importante pulpito di Teheran sarà affidato a Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Dall'università di Teheran, la Guida Suprema Ali Khamenei una settimana dopo le elezioni chiese la fine delle manifestazioni. Rafsanjani quel giorno non c'era. L'indomani i basiji fecero morti e feriti per le strade. Dal 12 giugno a guidare le preghiere del venerdì sono stati chiamati solo religiosi vicini a Mahmud Ahmadinejad. Domani parla il suo peggior nemico, l'eminenza grigia dell'opposizione, che da presidente dell'Assemblea degli Esperti (organo che nomina e supervisiona l'operato della Guida Suprema) avrebbe addirittura tentato di far destituire Ali Khamenei. Cosa dirà Rafsanjani?
Sarà il momento dell'abiura e dell'allineamento sostengono alcuni analisti locali. Rafsanjani fin qui si è mosso con prudenza, neanche dopo l'arresto (e la detenzione-lampo) della figlia Faezeh ha preso posizione. La sua storia di accorto "gerarca" del regime accredita questa previsione. Le aspettative del popolo riformista però sono radicalmente diverse. A Teheran, ci raccontano, c'è l'eccitazione tipica della vigilia di un grande evento. La leadership riformista al completo - da Mousavi a Khatami fino a Karrubi - sarà lì ad ascoltare Rafsanjani. Sarà la loro prima apparizione a un evento ufficiale dal giorno del voto. E Mousavi e Karrubi hanno chiesto ai loro sostenitori di partecipare numerosi alla preghiera. Potrebbe dunque rispuntare l'Onda verde.
La leadership riformista, comunque vada, vuole dar vita a un fronte politico permanente. L'ipotesi evocata in un primo tempo da un esponente del partito Karzogaran, vicino a Rafsanjani, è stata confermata martedì da Ali Reza Beheshti, uno dei principali consiglieri di Mousavi. Uno sbocco politico che paradossalmente può rassicurare il vertice del regime, ansioso di canalizzare la protesta all'interno delle strutture della Repubblica. La scossa delle proteste è stata forte. La repressione ha tolto legittimità al potere. L'inconfessabile paura è che la fine del regime sia già iniziata. «Il regime rischia la sorte dello Shah» è la profezia del Grande Ayatollah Montezeri, il successore designato di Khomeini poi caduto in disgrazia.
Trent'anni fa la rivolta aveva un andamento ciclico. Il regime uccideva i manifestanti e il popolo tornava in piazza dopo i quaranta giorni di lutto prescritti dallo sciismo. Raccoglievano i loro martiri e la volta dopo erano più numerosi a chiedere la morte del dittatore. Fino a quando lo shah fu costretto alla fuga. Il trenta luglio saranno passati quaranta giorni dal sabato di sangue voluto da Khamenei, il giorno del martirio di Neda. Un test cruciale, prima dell'insediamento di Ahmadinejad fissato per inizio agosto.
Perfino a Washington ora sospettano che lo scontro interno possa avere conseguenze anche sull'ipotesi di dialogo diplomatico. Barack Obama martedì alla Cnn ha ammesso che «la violenza e la repressione delle ultime settimane ...potrebbero danneggiare i negoziati diplomatici». La mano rimane tesa ma il conto alla rovescia è iniziato. «L'offerta non rimarrà sul tavolo a tempo indeterminato» ha confermato ieri sera Hillary Clinton. Tanto più se fosse vera la rivelazione del settimanale tedesco Stern che - citando i servizi segreti nazionali - riferiva ieri che l'Iran può costruire una bomba atomica e testarla entro sei mesi.

Repubblica 16.7.09
Gli sceicchi cercano personale sanitario. Da ieri a Bologna le selezioni: centinaia di partecipanti
Medici, infermieri e ostetriche futuro d´oro negli Emirati Arabi
Stipendi extra lusso. Un neo laureato può guadagnare fino a 3800 euro al mese
di Micol Lavinia Lundari


BOLOGNA - La terra promessa dei medici italiani sono gli Emirati Arabi Uniti. Gli sceicchi che governano il paese hanno mandato a Bologna due incaricati per convincere dottori - ma anche infermieri e ostetriche - a trasferirsi nella penisola arabica: garantiti stipendi da favola, benefici di tutto rispetto e un´ottima esperienza da mettere sul curriculum, in cambio della «miglior professionalità al mondo» al servizio dei loro ospedali.
Le selezioni, iniziate ieri e che proseguono fino a domani in un hotel del centro, sono curate dalla società "Idea Lavoro" di Bologna: tre impiegati a tempo pieno e un part time, attiva da sedici anni, ha già piazzato 1600 infermieri soltanto in Inghilterra. Ieri, nella prima giornata almeno 110 professionisti della sanità hanno fatto un colloquio per un posto di lavoro negli ospedali di Dubai, Abu Dhabi o Doha nel Qatar, ma anche per l´Inghilterra, il Canada e gli Stati Uniti. «Io vorrei fermarmi solo qualche mese», confessa un urologo dell´Emilia, «ho la famiglia qui in Italia e un posto sicuro, di prestigio, semplicemente mi piacerebbe fare un´esperienza nuova». Un caso isolato, spiega da Londra Helen Tarbet di Hcl, azienda internazionale che sta collaborando con Idea Lavoro: «Sono invece molti quelli che accettano di rimanere anche diversi anni, allettati dagli incentivi economici e dai benefici. Qualche esempio: un medico alle prime armi guadagnerebbe 3800 euro al mese», a cui bisogna aggiungere vitto e alloggio - quantomeno un bilocale - sconti per viaggiare, bollette pagate, istruzione privata per i figli fino a 6mila euro all´anno.
«Oltretutto gli stipendi sono netti, là non si pagano tasse. Un chirurgo dalla carriera già avviata può arrivare a prendere anche 7mila euro al mese. E non dimentichiamo che c´è chi vuole emigrare anche solo per poter lavorare in strutture dotate delle migliori tecnologie».
Sarà, ma gli stipendi altissimi sembrano essere comunque l´esca più ghiotta. Massimo Zivelli, il numero uno di Idea Lavoro, racconta che «ha fatto il colloquio anche un medico che lavora già a Dubai, prende 20mila dollari a settimana, e vuole vedere se qualche altro ospedale gli offre di più». Non sarà difficile trovare una proposta interessante, perché la concorrenza fra le strutture sanitarie è molto forte, «si entra in reparto per chiamata diretta, e quindi le aziende cercano di attirare i medici per strapparli ad altri ospedali».
Almeno cento, forse duecento posti di lavoro assicurati. Un paio di colloqui e i medici italiani potrebbero staccare un biglietto aereo destinazione Dubai.

Repubblica 16.7.09
Novant’anni fa la firma del Trattato di pace con la Germania
Segreti e capricci dei grandi di Versailles
di Lucio Villari


"Parigi 1919. I sei mesi che cambiarono il mondo" è il titolo di una ricerca di Margaret MacMillan ricca di documenti inediti

Nell´estate di novanta anni or sono Parigi non fu più al centro del mondo. Lo era stata per oltre sei mesi quando, a Versailles, si riunirono ripetutamente le delegazioni dei paesi che avevano vinto la Prima guerra mondiale. Ma il 28 giugno 1919 i riflettori si spensero e le bandiere delle quattro potenze vincitrici - Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti - furono arrotolate: era stato firmato il Trattato di pace di Versailles. Il presidente americano Woodrow Wilson, discussa star della Conferenza di pace, lasciò Parigi la notte stessa per il porto di Le Havre. Il primo ministro inglese David Lloyd George e quel che restava della delegazione britannica (dopo l´abbandono dell´economista J. M. Keynes e di altri funzionari del Tesoro per protesta per il trattamento inflitto alla Germania), ripartirono con un treno speciale con la sorpresa di dover pagare una pesante nota spese per il viaggio in ferrovia fino a Calais; il presidente del consiglio italiano Orlando (che si era distinto, tra lo stupore degli alleati, per avere polemicamente abbandonato ad aprile i lavori della Conferenza) partì immediatamente per Roma, ma il suo governo non era più in carica: ed egli era stato nel frattempo sostituito da Francesco Saverio Nitti. A Parigi rimase il primo ministro Clemenceau a difendere l´operato della Conferenza, fronteggiando i numerosi giornalisti stranieri, e subendo le aspre critiche del governo tedesco, ingiustamente inchiodato alle responsabilità non sue della guerra. Unici contenti i direttori dei raffinati alberghi della capitale francese che poterono finalmente riaprire al normale, elegante turismo mentre, come si legge in un documento governativo, solo le belle prostitute parigine ebbero un calo verticale degli affari.
Su Clemenceau, "il Tigre", su Wilson, "l´uomo dai quarantadue denti" (e sulla sua non bella consorte) e sul povero Orlando piovevano poi gli insulti e l´ironia dei nazionalisti italiani e di D´Annunzio. Erano ritenuti responsabili della "vittoria mutilata" dell´Italia: Clemenceau perché assolutamente indifferente agli interessi italiani, Wilson (con i suoi Quattordici Punti in difesa di un nuovo equilibrio europeo) perché contrario all´annessione di Fiume e alle pretese italiane sulla Dalmazia, Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino per non essersi fatti valere con gli alleati. E che non si trattasse solo di battute volgari (su Nitti pioverà poi l´insulto di "cagoia") ma di pretesti e di precisi progetti eversivi D´Annunzio lo dimostrerà qualche mese dopo.
Intanto a Versailles la pace con la Germania, divenuta repubblica democratica, era stata firmata. Con gli altri paesi coinvolti nella guerra saranno firmate altre paci dopo difficili accordi, discussioni e polemiche sulla ridefinizione dei confini nei Balcani e nei territori dell´Austria-Ungheria (erano sorti due nuovi Stati, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia che avrebbero dovuto agevolare le ricomposizioni geo-politiche ed etnico-linguistico-religiose) che dureranno fino all´agosto 1920 e oltre. Dunque il grande problema della ricostruzione dell´Europa ebbe al centro dei sei mesi di lavori soprattutto la Germania, costretta al pagamento in milioni di marchi oro delle riparazioni dei danni di guerra e l´Austria-Ungheria, divenuta anch´essa repubblica, che vedeva smembrata la sua compagine imperiale, quella Mitteleuropa che aveva racchiuso tanti popoli in una ecumene anche culturale a lungo rimpianta. Ma la Parigi del 1919 fu anche il motore di una ricomposizione politica sia del quadro coloniale europeo (le colonie tedesche dell´Africa furono spartite tra i vincitori) sia delle questioni più delicate dello scacchiere mediorientale. Dai rapporti tra l´Europa e il mondo arabo, alla questione della Palestina, al problema della Turchia che, finito il tempo del Sultanato, era svegliata dalla modernizzazione di Kemal Ataturk nell´imminenza della prevedibile entrata nel consesso dell´Europa. Insomma fatti che paiono accaduti appena ieri.
Ha ragione dunque la storica Margaret MacMillan (insegna storia all´Università di Toronto ed è pronipote di Lloyd George) a intitolare una sua importante ricerca su quanto accadde novanta anni or sono: Parigi 1919. Sei mesi che cambiarono il mondo (Mondadori, pagg. 712, euro 26). Altrettanto importante è che, grazie a questo volume che si avvale di documenti inediti provenienti in gran numero da archivi americani e inglesi, sia possibile ricostruire con obiettività quei sei mesi che hanno condizionato tutta la storia del Novecento e che, non sembri un paradosso, influenzano oggi molti segmenti e sentimenti della storia non solo europea.
La storiografia e i mezzi di informazione non sembrano essersi accorti di questo anniversario che ha il carattere di un evento-chiave del Novecento. Il 1919 è un anno decisivo anche per l´Italia perché iniziano, dopo i numerosi errori dei trattati di pace, le turbolenze e le ansie di un paese che per molto tempo non ritroverà se stesso.

Corriere della Sera 16.7.09
Mauritania: cantante contro la dittatura
Nel Paese nordafricano dove i militari «giocano» con la democrazia, la vera opposizione è affidata alla musica
Malouma la ribelle. Una voce che fa paura ai generali golpisti
di Michele Farina


Il suo «blues del Sahara» non piace ai dittatori. Malouma Minth Meidah, 49 anni, lo sa: «La censura mi ha col­pito tante volte» eppure «rifiuto di abituarmi».

E’ una censura dolce rispetto a quella praticata in altri Paesi. Però beffarda e capillare: in Mauritania non fanno sparire una cantante schie­rata contro il leader di turno, tanto più se eletta senatrice nell’unico voto libero che sia mai capitato in mezzo secolo di indipendenza. Però confi­scano la sua musica. Gliela prendono dal baule. E’ successo alla frontiera con il Senegal qualche settimana fa. Malouma, una delle sei donne in Par­lamento, tornava a Nouakchott, la ca­pitale insabbiata tra l’oceano e il de­serto: alla dogana le hanno preso i car­toni con i Cd che aveva in macchina. «L’ordine viene dall’alto» le ha detto quasi dispiaciuto l’ufficiale di servi­zio. L’ennesima umiliazione, per una delle più grandi artiste africane co­stretta a guidare oltreconfine per ma­sterizzare brani inediti.
Inediti e per qualcuno indigesti: «L’ordine non può che essere partito da Aziz», ha raccontato Malouma al quotidiano Le Monde. Aziz, il dittato­re riciclando con il baffo spiovente. Il golpista che un anno fa ha incarcera­to Sidi Abdallahi, il primo leader a es­sere democraticamente eletto (nel 2007), ora ha la forza e la faccia tosta di presentarsi a nuove elezioni presi­denziali indette per il 18 luglio (da cui Sidi è escluso). Aziz ha pochi ne­mici che lo combattono a voce aper­ta. La prima è Malouma. Se la «Diva Ribelle» di Nouakchott decidesse di trasferirsi al centro del mondo, maga­ri a Parigi dove è adorata, il generale Mohammed Ould Abdelaziz le paghe­rebbe il trasloco. Tra i brani sequestra­ti alla frontiera ce ne sono un paio che lo riguardano: «Gente di princi­pio » e «Unilaterale». Il primo parla del vizio dei militari mauritani con l’abitudine di sottrarre il potere ai ci­vili salvo giurare sulla divisa che «se ne andranno presto». II secondo attac­ca Aziz per l’improvvisa decisione, an­nunciata senza l’accordo dei partiti politici, di indire nuove elezioni per il 6 giugno con l’intento di togliersi di dosso la macchia del golpe e mante­nersi al comando con la legittimità del voto popolare.
Il piano di Aziz ha funzionato in parte. Il golpista riciclato ha dovuto spostare le consultazioni di un mese e mezzo, e questo ha permesso ad al­tri candidati di organizzarsi. Il prono­stico è incerto, possibile un secondo turno. Non ci sono facce nuove. L’uni­co assente è il presidente deposto. In corsa come due anni fa il «nero» Mes­saoud Boulkheir, leader del movimen­to antischiavista (in Mauritania la schiavitù è stata ufficialmente abolita nel 1981). In corsa il portabandiera storico dell’opposizione, il tecnocrate Ahmed Ould Daddah che nel 2007 aveva ottenuto il 48%. Malouma è una grande sostenitrice di Daddah. Tra i candidati redivivi c’è il colonnel­lo Vall, l’ufficiale che aveva detroniz­zato il vecchio dittatore Taha con la promessa (mantenuta) di ridare il po­tere ai civili. Prima che il rivale Aziz lo riconsegnasse ai militari cioè a se stesso.
In questo labirinto maschile di stel­lette e lacchè che si giocano poltrone e contratti petroliferi alla faccia della povertà imperante, Malouma è di un altro mondo. Erede di una famiglia berbera di artisti tradizionali (la casta dei griot), divorziata con quattro fi­gli, capelli rossi all’henné, un profilo da Lilli Gruber, velo bianco e una vo­ce che i critici descrivono «un incro­cio tra Fairuz e Janis Joplin», la Diva Ribelle ha cominciato presto a sfidare il potere. A 10 anni tirò le pietre a un emiro, un capo religioso, colpevole di aver lasciato il vecchio padre a canta­re per ore sotto il sole. Malouma se­gue la tradizione per riempirla di con­tenuti nuovi. Un’arpa esplosiva. A 16 anni diventa celebre (e odiata dal­l’establishment religioso) per una canzone dal titolo zuccheroso («Habi­bi habeytou», Mi piace amare il mio amore) che in realtà è un atto d’accu­sa contro la pratica diffusa dei matri­moni con le bambine. Con tre album (il Giardino dell’Eden, Dunya e Nour) la «Diva Ribelle» riesce a coniugare ar­te e denuncia, le chitarre elettriche e la tradizionale ardin (l’arpa a 10-14 corde riservata alle donne). Il blues del Sahara riesce a chiudere, almeno in musica, quella ferita tra arabi op­pressori e schiavi neri che costituisce il peccato originale della Mauritania. Malouma diventa un’icona, all’estero e tra la sua gente. Persino nei perenni momenti bui delle dittature militari, durante le manifestazioni di protesta, i poliziotti sanno che «Malouma non si tocca». Tutto questo svanisce sotto Aziz: «Ho ricevuto minacce telefoni­che, per la prima volta ho avuto un po’ di paura». Non abbastanza da la­sciare la sua casa tra oceano e deser­to. Aspettando la caduta del dittatore. E l’avvento del prossimo.

Corriere della Sera 16.7.09
Disputa tra Giustolisi e Simoncelli
Stragi naziste nascoste L’armadio della vergogna torna a dividere
di Dino Messina


All’Armadio della vergogna viene ora contrapposto La ver­gogna dell’armadio. Il titolo del libro edito da Nutrimenti di Franco Giustolisi, giornalista che denunciò sull’ «Espresso» l’occultamento di 695 fascicoli riguardanti le stragi naziste in Italia, viene ribaltato dal saggio uscito da Nuova Cultura di Maurizio Cosentino, che contesta alcuni dati ritenuti acquisiti: innanzitutto non ci fu nessun armadio con le ante rivolte verso il muro in cui sarebbe stata occultata la documentazione; il procuratore militare generale Enrico Santacroce, morto nel 1975, non impedì lo svolgimento dei processi ma anzi inviò moltissimo materiale alle varie procure; non regge nemmeno la tesi della ragion di Stato secondo cui i ministri Taviani e Martino nella seconda metà degli anni Cinquanta avrebbero invitato a rallentare l’attività processuale contro i criminali di guerra per favorire la serena integrazione della Repubblica federale tedesca nel blocco occidentale.
Questi argomenti erano stati esposti il 30 giugno sulle pagine culturali di «Avvenire», in un’ampia e parteci­pata recensione al saggio di Consenti­no firmata dallo storico Paolo Simon­celli. Ieri, sempre sul quotidiano catto­lico, la veemente risposta di Giustoli­si e la replica di Simoncelli. Giustolisi ricorda le indagini del Consiglio della magistratura militare, le conclusioni della Commissione d’inchiesta della Camera e quelle della Bicamerale, sottolinea che dal 1945 al 1999 «quando dopo la scoperta dell’armadio furono distribuiti alle procure di competenza i fascicoli relativi alle stragi nazifasciste, di processi ne furono fatti solo 18». Chiede infine: «Come mai i processi per le stragi di Stazzema, di Marzabotto sono stati fatti soltanto ora con la condanna all’ergastolo delle SS ancora in vi­ta? ». Non si vorrà mica dar credito al «'fascista' Enzo Raisi» se­condo cui «l’armadio della vergogna è un’invenzione delle sini­stre »?
Nella disputa si è inserito il presidente dell’Anpi (Associazio­ne nazionale partigiani italiani), Raimondo Ricci, che ha scritto una lettera ai presidenti della Camera e del Senato, sollecitando l’istituzione di una nuova commissione d’inchiesta. L’obiettivo è di bloccare il nuovo «negazionismo» e istituire, come ha solle­citato Giustolisi su «Liberazione» del 5 luglio scorso, una giorna­ta della memoria che ricordi le vittime delle stragi nazifasciste.
Per lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, autore dell’Occupa­zione tedesca in Italia, saggio uscito nel 1997 da Bollati Borin­ghieri, e di una serie di studi sulle stragi naziste, «il quadro è molto chiaro. Non solo i processi vennero rallentati ma addirit­tura furono liberati alcuni nazisti già condannati». L’insabbia­mento dei processi, secondo l’autorevole studioso, è un fatto «incontestabile». I vari procuratori generali che si succedettero a Palazzo Cesi, da Umberto Borsari a Enrico Santacroce, lavoraro­no, «sotto la spinta di sollecitazioni esterne e che cambiarono nel corso degli anni, per non far svolgere i processi». Una sola cosa Klinkhammer concede a Cosentino e Simoncelli: «È possi­bile che l’armadio della vergogna con le ante rivolte verso il mu­ro sia stata una esagerazione giornalistica. Ma questo non cam­bia la sostanza della storia».

Terra 16.7.09
Kapuscinski, il maestro di reportage che detestava il cinismo

di Simona Maggiorelli


Esce il Meridiano Mondadori dedicato al grande giornalista e scrittore polacco. Nel frattempo Feltrinelli pubblica Giungla polacca che contiene i lavori degli anni 50 che ebbero una travagliata storia editoriale, andando incontro a censura. Ora Feltrinelli li pubblica in nuova edizione integrale

“Viaggiare per scrivere un reportage esclude qualsiasi curiosità turistica. Esige un duro lavoro e una solida preparazione teorica. A cominciare dalla conoscenza del terreno su cui ci si muove. È un modo di viaggiare senza un momento di relax, in continua concentrazione… In un’ora dobbiamo registrare l’atmosfera e la situazione, vedere, sentire più cose possibili. Il viaggio per reportage esige un surplus emotivo e molta passione. Anzi la passione è l’unico motivo valido per farlo. è per questo che così poche persone praticano il reportage» raccontava Ryszard Kapuscinski in un’intervista pubblicata nel 2003 nel libro Autoritratto di un reporter (Feltrinelli). Per poi constatare con un pizzico di malinconia: «Di tutti i reporter che viaggiavano per il mondo negli anni Sessanta ci sono rimasto solo io. Gli altri sono diventati stanziali». Coraggioso reporter di guerra e instancabile viaggiatore, curioso non tanto di conoscere nuovi fatti ma persone, storie, culture diverse, Kapuscinski (1932-2007) apparteneva a un tipo di giornalista oggi, purtroppo, in estinzione: quello che passa settimane e mesi a studiare e documentarsi prima di partire. E poi impegna settimane e mesi per conoscere a fondo la realtà che vuole raccontare. Con un taccuino in tasca. Che Kapuscinski non tirava mai fuori. Perché prendere appunti in certe circostanze suscitava diffidenza e irrigidiva la conversazione. Ma soprattutto perché gli interessava conservare l’emozione e il senso più profondo di ciò che le persone gli regalavano di sé, per strada, nelle locande, nei quartieri più fuori mano, nei luoghi più imprevisti. Anche quando si trovava in teatri di guerra, come è noto, Kapuscinski non era tipo da scrivere i suoi pezzi standosene chiuso in albergo. «Il vero reporter – diceva- non abita all’Hilton: dorme dove dormono i personaggi dei suoi racconti. Mangia e beve con loro. è l’unico modo per scrivere qualcosa di decente».
Insomma se «ogni reportage degno di questo nome deve avere un pizzico di romanticismo» è vero che nella sua scrittura colta e insieme immediata, l’importante era la fedeltà al vissuto. Le date, le nozioni, i dettagli si possono ricostruire anche una volta rientrati a casa con valigie zeppe di libri. Torna in mente quando Kapuscinski annotava:« Con Kish potremmo dire che la descrizione delle difficoltà incontrate per arrivare sul posto a volte era più interessante dell’argomento in sé. Ma questo tipo di reportage è ormai finito. Ma non è finito il reportage d’autore, in cui approfondisce il problema, lo filtra attraverso la propria personalità, lo sfaccetta. Di questo ci sarà sempre bisogno».

Con questo “metodo” sono nati libri indimenticabili come Ebano (1998) dai reportage realizzati nell’amata Africa. Ma anche un capolavoro di inchiesta e letteratura come Shah-in-Shah (1982), frutto di un anno passato in Iran quando l’ayatollah Komeini prese il potere. Insieme a Imperium (1993) dedicato al dissolvimento dell’impero sovietico e a Il Negus (1978), il libro che lo segnalò al pubblico più ampio, Ebano e Shah-In-shah formano il nucleo centrale del Meridiano che Mondadori dedica al giornalista e scrittore polacco. A fare da filo rosso di questa ininterrotta narrazione di oltre 1.600 pagine la ricostruzione puntuale di spaccati di storia del Novecento e un convincimento profondo: «Quello del reporter è un mestiere troppo difficile per i cinici, richiede troppo sacrificio e impegno», sconfessando ogni stereotipo da giornalista d’assalto.

«Parole che traeva dal suo modo di essere – ha detto Silvano De Fanti presentando il Meridiano Mondadori che ha curato insieme alla traduttrice Vera Veridiani. «Aveva una grandissima capacità di comunicare, di entrare in sintonia con gli altri – ricorda il docente di polacco dell’università di Udine -. Era convinto che dentro ogni uomo ci fosse una bontà; talvolta nascosta, ma che riuscendo ad arrivare a questo nucleo originario si possa stabilire un dialogo con chiunque, a prescindere dalle ideologie e dalle appartenenze religiose».

Un tratto che si ritrova già sorprendentemente incarnato nelle pagine di Giungla polacca, la raccolta di scritti realizzata quando – dopo gli studi in storia dell’arte a Varsavia – Kapuscinski già lavorava per l’agenzia di stampa Pap e decise di raccontare la Polonia più profonda. Basta leggere lo scambio di battute all’apparenza surreale, di fatto radicalmente spiazzante fra Kofi e , Kwesi e il grande Nana, capo di una tribù del Ghana che si incontrano con Kapuscinski nel pezzo omonimo del libro. Camminando nella giungla Kofi aveva spiegato all’autore: “Per 100 anni ci hanno inculcato che i bianchi erano il meglio del meglio, degli esseri superiori… Sapevamo che al mondo c’era solo l’Inghilterra, che Dio era inglese… sapevamo solo quello che loro volevano che noi sapessimo. Adesso è difficile disabituarsi».

Ma a Kapusinski arriva dritta al cuore anche la domanda di un ragazzo che tagliando la legna gli chiedeva a bruciapelo: « Come si chiama il tuo paese?” “Polonia”». La Polonia, gli spiega Kapuscinski, «è lontana, oltre il Sahara, oltre il mare, verso il Nord, l’Oriente…Il mio Paese non ha colonie. Anzi c’è stato un tempo in cui era una colonia. Con tutto il rispetto per le vostre sofferenze… Da noi, però, sono successe cose spaventose: c’erano tram, ristoranti e quartieri solo per tedeschi. Ci sono stati i campi di concentramento… Si chiamava fascismo la peggior specie di colonialismo mai esistita».

Un libro, Giungla polacca,uscì per la prima volta nel 1962 dopo una storia editoriale travagliata di stop e censure. Ora utilmente Feltrinelli lo pubblica in italiano facendoci scoprire anche un Kapuscinsky anticlericale che denuncia la violenza delle suore e della religione su una studentessa. Nel pezzo “Ratto di Elzbieta” il giornalista ricostruisce l’agghiacciante sistema psicologico usato in una scuola cattolica per “convincere” una giovane a farsi suora. Facendo leva sulle sue fragilità e paure.

dal quotidiano Terra del 16 luglio 2009

mercoledì 15 luglio 2009

l’Unità 15.7.09
Da Ginevra. l’Unhcr chiede chiarimenti al governo ma riceve solo insulti
La Russa si dice «indignato» per la presa di posizione. Ronchi: si devono vergogn
L’Onu accusa l’Italia: respinti in mare 82 immigrati senza alcuna verifica
di Massimo Solani

Hanno trascorso quattro giorni in balia delle onde prima di essere salvati da una nave della Marina Militare al largo delle coste di Lampedusa. Ma il miraggio è durato poche terribili ore, il tempo di essere trasbordati su una motovedetta libica e riportati sulle coste africane, da dove il viaggio della speranza era partito. Dodici ore senza cibo nè soccorso medico, respinti senza che nessuno si preoccupasse di chiedere loro da dove venissero e da cosa scappassero. Ottantadue persone, fra loro anche sei bambini e nove donne, rispediti in Libia in nome della nuova politica italiana dei respingimenti. Lo ha denunciato ieri l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) con una lettera in cui ha chiesto chiarimenti all’Italia dopo aver incontrato i migranti respinti in Libia: eritrei soprattutto (76), ma anche etiopi, egiziani e u marocchino che dal 2 luglio sono reclusi nei centri di detenzione temporanea di Zuwarah e Zawaiyah. E sono stati proprio i migranti, settantasei dei quali hanno chiesto asilo politico, a raccontare ai rappresentanti dell’Unhcr di essere stati trasferiti con la forza dai marinai italiani sulla motovedetta libica vista la loro opposizione (sei di loro hanno riportato ferite curate soltanto dopo l’arrivo a Tripoli) e di essersi visti confiscati documenti e telefoni cellulari. Ore concitate senza che ai migranti, spossati da quattro giorni in balia del mare, sia stato fornito cibo. «In considerazione dalla gravità di quanto riportato - ha scritto l’alto commissariato in una nota - l’Unhcr ha inviato una lettera al governo italiano con la richiesta di chiarimenti sul trattamento riservato alle persone respinte in Libia e richiedendo il rispetto della normativa internazionale». A dire il vero, secondo indiscrezioni, una prima lettera era già stata inviata nei primi giorni di luglio, ma da parte del governo italiano non era arrivata alcuna risposta. Da qui la decisione di rendere pubblico quanto accaduto.
Accuse che hanno scatenato la reazione furibonda dell’esecutivo. «Indignato», il ministro della Difesa Ignazio La Russa che ha puntato il dito contro «la faciloneria con cui questo organismo internazionale accusi i marinai italiani di essere ladri, affamatori e violenti». «Abbiamo fatto tutti i necessari accertamenti - ha proseguito - e le risultanze contrastano nettamente con quanto riferito dall'Unhcr che, per sua stessa ammissione, ha riportato soltanto la versione delle persone incontrate successivamente nei campi libici, senza interpellare sul punto le autorità italiane». Una qualche ammissione, però, La Russa l’ha fatta quando ha spiegato che «alcuni di questi migranti, pochi per la verità, hanno tentato una vera e propria azione di forza mettendo addirittura in pericolo la sicurezza dell’imbarcazione, tanto da costringere i militari ad immobilizzarli». Dura anche la replica del ministro per le Politiche Europee Andrea Ronchi, secondo cui quelle dell’Alto Commissariato sono «accuse avventate, false, demagogiche, offensive e ripugnanti. L’Unhcr si vergogni - ha concluso Ronchi - E chieda scusa all’Italia».
Dal canto suo il Partito Democratico ha chiesto al governo di «chiarire al più presto» quanto successo il 1 luglio al largo di Lampedusa.

82 migranti respinti in mare con la forza al largo di Lampedusa. È la denuncia dell’Unhcr chie chiede chiarimenti al governo italiano. Ma ottiene solo insulti. La Russa: «Sono indignato». Ronchi: «Si vergognino».

l’Unità 15.7.09
«Gaza dimenticata da tutti. È la tomba dei diritti del popolo palestinese»
Conversando con Mairead C. Maguire, Nobel per la Pace
di Umberto De Giovannangeli

La Striscia oscurata:
«È immorale che non faccia più notizia La sofferenza di donne, uomini e bimbi continua»

C’è un rapporto dell’Onu, un altro della Croce Rossa Internazionale, un altro ancora di Amnesty International. Tutti convergono nell’affermare che a Gaza sono stati commessi dalle forze armate israeliane crimini di guerra. Rapporti che inchiodano alle loro responsabilità le autorità israeliane. Ma nulla accade. Il dolore della gente di Gaza si perde nel silenzio complice della comunità internazionale e nel disinteresse dei media. Ciò è immorale. Perché Gaza resta un inferno, un enorme prigione a cielo aperto, isolata dal mondo; una prigione per un milione e mezzo di palestinesi, in maggioranza bambini e ragazzi. Fino a quando ne avrò la forza, non smetterò di denunciare l’ignominia delle punizioni collettive che Israele continua a infliggere alla gente di Gaza». Dolore e rabbia. E volontà di continuare a battersi per i «senza diritti». Questi sentimenti fanno da filo conduttore del nostro colloquio con la premio Nobel per la Pace nordirlandese Mairead Corrigan Maguire. La Maguire, è con lei Cynthia McKinney, attivista pacifista Usa ed ex deputata, sono state arrestate il 30 giugno scorso e detenute per una settimana con altri 19 componenti della delegazione pacifista del movimento Free Gaza, per aver cercato di forzare il blocco della Striscia di Gaza. Il 6 luglio, le autorità israeliane hanno espulso la Nobel per la pace e l’ex deputata Usa. «Gli aiuti che stavamo portando – racconta la premio Nobel nordirlandese – erano un simbolo di speranza per la gente di Gaza. Speranza che possa essere aperta una via di mare, e che loro stessi possano essere messi in condizione di trasportare i loro materiali e poter, così, ricominciare a costruire le scuole, gli ospedali e le migliaia di case distrutte durante la carneficina chiamata “Piombo fuso”. «Ma questi atti di pirateria di Stato – aggiunge – non faranno venir meno la nostra determinazione. Con queste missioni vogliamo dire alla gente di Gaza che noi siamo con loro e che non sono soli».
I riflettori si sono spenti su Gaza. Il silenzio sembra essere calato su quella tragedia.
«Sì, Gaza sembra non far più notizia. E questo è scandaloso, immorale, riprovevole. Perché la sofferenza della gente di Gaza non è diminuita. Perché Gaza resta una prigione a cielo aperto dove vivono in condizioni disperate un milione e mezzo di persone, in maggioranza donne, bambini, ragazzi. E tutto questo avviene nel silenzio complice della comunità internazionale. Nonostante rapporti dell’Onu, della Croce Rossa Internazionale, di Amnesty International, che denunciano i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano. Dobbiamo avere il coraggio e l’onesta intellettuale di chiamare le cose con il loro nome: quello che da tre anni è in atto a Gaza è un assedio disumano».
Un’accusa pesante.
«Pesante, pesantissime sono le condizioni di vita, se di vita si può parlare, a cui è costretta la popolazione di Gaza. C’è penuria di medicine, cibo, elettricità e delle cose indispensabili a vivere. Nella Striscia di Gaza, su una lista di 4000 “prodotti autorizzati” da Israele (prima dell’assedio imposto dal giugno 2007, ndr.), solo 30-40 sono tollerati oggi, e un milione e mezzo di persone restano rinchiuse, sottomesse all’arbitrio più totale. Libri, dischi, indumenti, tessuti, scarpe, aghi, lampadine elettriche, candele, fiammiferi, strumenti musicali, lenzuola, coperte, materassi, tazze, bicchieri… sono proibiti e non possono passare se non attraverso i fragili tunnel dall’Egitto, obiettivi di ripetuti bombardamenti. Ma forse la peggiore forma di tortura per un essere umano è quella di non poter stringere e toccare i propri cari, e agli abitanti di Gaza non è permesso attraversare i confini attualmente chiusi per poter stare con le proprie famiglie. i malati non possono andare via per ricevere cure mediche, oltre l’80% dei bambini soffre di denutrizione, e per loro scarseggia anche il latte. La Striscia di Gaza è divenuta la tomba dei diritti umani. La punizione collettiva contro una comunità civili, da parte del governo israeliano, viola la Convenzione di Ginevra, è illegale, è un crimine di guerra e un crimine contro l'umanità. E come tale andrebbe perseguito se la parola Giustizia avesse ancora un senso alto, nobile, super partes. La tragedia più grande è che gli Stati Uniti, l’Unione Europea, l’Onu restano zitti di fronte alla tragedia umanitaria del popolo palestinese. Un popolo di dieci milioni di persone, sette milioni delle quali sono profughi».
Lo scorso 30 giugno Lei ha vissuto momenti drammatici…
«Non dimenticherò mia ciò che è accaduto. Le navi della Marina israeliana ci hanno abbordati, minacciati e costretti a fare rotta sul porto di Ashdod. Poi ci hanno ammanettati e condotti in cella. Un blitz degno dei pirati. Siamo stati rapiti e portati in Israele, dalle acque territoriali di Gaza, sotto la minaccia delle pistole; siamo stati sequestrati. Così Israele ha fermato una nave carica di medicinali e di giochi per i bambini di Gaza».
Lei ha vissuto la tragedia della guerra civile nell’Ulster. Pensando a quella drammatica storia e proiettandola nello scenario mediorientale, cosa si sente di dire ai dirigenti palestinesi?
«Ho avuto modo di incontrare sia dirigenti di Hamas che di Al Fatah. A loro ho parlato con il cuore in mano, partendo dalla mia esperienza personale. A tutti loro ho detto che un popolo palestinese diviso, la lotta armata, e il militarismo non risolveranno i problemi. L’alternativa al militarismo non è la rassegnazione, il piegarsi alla legge del più forte. L’alternativa non è la resa, ma realizzare è la resistenza civile non violenta. Un’”arma” straordinaria nelle mani dei più deboli».
E al più forte, Israele, cosa si sente di dire?
«Che non è opprimendo, umiliando, annichilendo un altro popolo che potrà sentirsi in pace. Che pace e giustizia sono tra loro indissolubili. E che non è degno di uno Stato democratiche perseguire politiche che finiscono per supportare un sistema di apartheid».
Lei chiede giustizia per la popolazione di Gaza. Chiede la fine dell’assedio. Ma cosa si sente oggi di chiedere ai capi di Hamas che comandano a Gaza?
«Chiedo un atto di umanità: liberate il soldato Shalit. Restituitelo a due genitori straordinari che hanno espresso più volte e con parole nobili il loro sostegno alla gente di Gaza».

l’Unità 15.7.09
La parola è Tu
Tra slanci e sospetti il superamento del recinto Io
di Manuela Trincia

Donald Winnicott «Cosa vede il bebè quando guarda il viso della madre? Di solito ciò che il bebè vede è se stesso, e se il volto della madre è poco responsivo, allora il suo viso, lo specchio, sarà qualcosa DA guardare ma non qualcosa IN CUI guardare»

La citazione «Tu, tu che sei diverso, almeno tu nell’universo!/un punto, sai, che non ruota mai intorno a me/un sole che splende per me soltanto
come un diamante in mezzo al cuore»
Mia Martini, Almeno tu nell’universo

IO. Io tronfio, Io alieno, Io sintetico, Io corporeo, Io pelle, Io sabotatore, sussidiario, libidico, ma anche Ego sintonico, autoreferenziale, egotista, egoista, egocentrico. E ancora, sostegno dell’Io, scissione dell’Io, difese dell’Io, psicologia dell’Io… Io Io Io… e tu?
Muovendo dai recinti in cui si nasce, andare verso il TU, il diverso da sé, lo straniero, e ospitare l’intruso, che sia un figlio nella pancia o un organo trapiantato o semplicemente il prossimo tuo, è oggigiorno sempre più fonte di affanno e di sospetto. Le famiglie sono diventate «elicottero» volano basse, controllano, vogliono figli esenti rischio, mentre per le strade iniziano a girare le ronde. Brutte cose.
Peraltro siamo figli di un pensiero e filosofico e psicoanalitico che si avvia sì dal convincimento che l’io si istituisce nella relazione con l’altro, ma a partire dal riconoscimento – dall’assorbimento - dell’altro dentro di sé. Capovolgere, allora, il primato della dimensione egocentrica per la quale l’Io non riceve nulla dall’esterno, e ritenere che il soggetto si costituisce a partire all'alterità, in un reciproco dialogo con il Tu, sono gli spiragli aperti, in questi ultimi anni, dal concetto di «campo» di «funzionamento mentale relazionale» o di «ospitalità» o dalla la filosofia del dialogo. L’autentica esperienza dello stare insieme non avviene, infatti, nel cerchio magico dell’interiorità, scriveva Emmanuel Lévinas, «ma è un insieme di faccia a faccia». Il volto è il trionfo del Tu, perché esprime l’unicità del soggetto.
«Il bebé guarda la faccia della mamma» e quel primo «specchio» - ipotizzava Donald Winnicott - avviene uno scambio significativo con il mondo, un processo a due vie, in cui l’arricchimento di sé si alterna con la scoperta dell’altro». È un volto, dunque, che segna la rottura con la totalità, che avvia, con la separazione, il movimento verso il Tu. «Egli è come te, non te», si legge in Rosenzweig. «Io sono te, quando io sono io», scriveva Paul Celan in Elogio della lontananza.
Anche Jaques Lacan, teorico del decentramento dell’Io, annotava come nella speculare fusione madre-bambino, nel desiderio di totalità narcisista, il bambino stesso fosse un segregato. Solo nell’extimitè si poteva auspicare una diversità non assimilabile tout court all’Io.
Il Tu si svela allora nell’esperienza della prossimità e non della fusionalità ed esorta a muoversi per dare e ricevere «doni» in una collettività che il Tu lo riconosca e lo valorizzi: «Io dico Tu a tutti quelli che si amano», proprio come scriveva Jaques Prevert.

Repubblica 15.7.09
Noi medici tra legge e volontà del paziente
risponde Corrado Augias

C aro Augias, nella nostra storia medica ci sono stati in passato numerosi momenti di sintesi fra evidenze scientifiche, principi dell'ordinamento, differenti visioni etiche. Questo ha consentito la stesura di ottime leggi che noi medici applichiamo in piena coerenza. Ad esempio la legge 194/78 sull'interruzione di gravidanza, la legge 578/95 sull'accertamento della morte. Negli ultimi anni questa armonizzazione è venuta meno con preoccupante crescendo. Presupposti ideologici, in cui ha avuto un peso il magistero Cattolico, sono stati presentati come certezze «non negoziabili», giustificando scelte politiche in contrasto con l'oggettività delle evidenze scientifiche. Così la Legge 40/04 sulla procreazione assistita per la cui stesura non è stata tenuta in alcun conto né l'opinione delle società scientifiche né quella dei giuristi che vi scorgevano un impianto anticostituzionale. Infatti una sentenza della Corte Costituzionale ha poi affermato che «in materia di pratica terapeutica la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali». La stessa linea scientificamente errata informa ora il disegno di legge detto 'testamento biologico' approvato al Senato e tra poco in discussione alla Camera. I cittadini sempre più spesso chiedono di conciliare le possibilità del progresso scientifico con le proprie scelte esistenziali, in un contesto di pluralismo etico e culturale. Saremo capaci di corrispondevi?

Davide Mazzon Direttore Dipartimento Chirurgico Ospedale di Belluno

N on lo so. Sul testamento biologico (dichiarazione anticipata di volontà sul proprio fine vita) s'è scatenata una guerra di religione. La Chiesa vuole dimostrare la forza con la quale sa condizionare le scelte legislative; il capo del Governo potrebbe usare il provvedimento come moneta di scambio, dopo le note oscenità, per recuperare favore nelle gerarchie vaticane. In una parte della lettera che ho dovuto tagliare, il professor Mazzon elencava le numerose società scientifiche e mediche, oltre al Codice di deontologia medica, che hanno affermato, più volte, «che il paziente può rifiutare qualsiasi trattamento, compresi quelli che il medico ritenesse proporzionati». Tra le numerose mostruosità contenute nel progetto di legge c'è quella di cui all'art. 3 comma 6 dove si afferma con assoluta antiscientificità che la Nutrizione artificiale forzata non è trattamento medico bensì «sostegno vitale destinato ad alleviare la sofferenza». Chiede il professor Mazzon, e io con lui: si può immaginare il sollievo di un morente nell'essere ingozzato per legge? Meglio non immaginare, il solo pensiero è raccapricciante.

Corriere della Sera 15.7.09
Il caso Balducci. sollevato da Di Bella, che potrebbe essere sostituito dalla Berlinguer. Pannella: è taleban-vaticanismo
Battuta sul Papa, rimosso il vaticanista del Tg3
Zavoli: «Disarmante grossolanità». E la poltrona del direttore torna in bilico
di Andrea Garibaldi



ROMA — Roberto Balduc­ci, da due anni vaticanista del Tg3, autore di una battuta iro­nica sul Papa in un servizio di domenica scorsa, non segui­rà più le vicende della Chiesa cattolica. Balducci ieri ha scritto una lettera al suo diret­tore, Antonio Di Bella, nella quale, «in virtù della decenna­le amicizia», si rimetteva alle valutazioni del direttore stes­so. Balducci ribadiva di non aver mai voluto essere irri­spettoso nei confronti del Va­ticano e di essere dispiaciuto per il danno causato al diret­tore, alla testata e all’azienda. Di Bella ha sollevato Balducci dalle competenze sul Vatica­no. Spiega: «Ho dovuto farlo, per difendere la testata».
Ieri sera, ore dopo la «rimo­zione », è intervenuto nella vi­cenda il presidente della Com­missione parlamentare di vi­gilanza Rai, Sergio Zavoli: «Ho scritto una lettera al pre­sidente e al direttore generale della Rai in cui richiamo l’ur­genza di far rispettare i vinco­li contrattuali del servizio pubblico, stabilendo il princi­pio che al merito professio­nale deve corrispondere la re­sponsabilità. L’episodio del Tg3 — in sé un tentativo mal­destro di fare dello spirito, ri­soltosi in una palese e disar­mante grossolanità — ag­giunge nuove voci al vocio di quanti si dicono scontenti della Rai senza distinzioni e senza mezze misure. La lezio­ne di questa spiacevole circo­stanza riconduce all’indiriz­zo della Commissione di vigi­lanza la necessità di incre­mentare il rapporto fiducia­rio che lega l’azienda e l’opi­nione pubblica».
Una censura che investe an­che la direzione del telegior­nale coinvolto. Domani il Consiglio di amministrazio­ne Rai si occuperà proprio di nomine, compresa quella del direttore del Tg3. Di Bella an­dava con una certa sicurezza verso la riconferma, per i buo­ni risultati dei suoi otto anni di comando. Come possibile concorrente alla direzione è circolato un unico nome, quello di Bianca Berlinguer, conduttrice e inviata della te­stata. Questione interna al centrosinistra, quindi. Ieri Eu­ropa, ex quotidiano della Mar­gherita, ha scritto che l’inci­dente del Papa può «diventa­re il pretesto per un colpo di mano che qualcuno ha in mente da tempo». E poi: «Il tg di Di Bella è stato pratica­mente l’unico a raccontare gli sviluppi dell’inchiesta di Ba­ri, il solo a fare le pulci alle promesse sulla ricostruzione in Abruzzo. E’ questo che dà fastidio? O gli ascolti troppo alti? Prima di cambiare facce, sarebbe bello sapere perché». Da cosa nasce tutto ciò? Bal­ducci presentando le vacanze del Papa in Valle d’Aosta ha raccontato che lassù lo atten­dono anche due gatti, «che gli strapperanno un sorriso al­meno quanto i proverbiali quattro gatti, forse un po’ di più, che hanno il coraggio e la pazienza di ascoltare anco­ra le sue parole». Il comitato di redazione del Tg3 esprime «la sensazione che il Tg3 sia vittima di una strumentalizza­zione politica: stiamo parlan­do di una battuta riuscita ma­le e di cui il collega si era scu­sato. Il Vaticano sembrava avesse accettato questa lettu­ra ». Marco Pannella definisce la rimozione di Balducci «epi­sodio di 'taleban-vaticani­smo italiota'». Di Bella non ha nominato il nuovo vatica­nista. Attende, prima, la ri­conferma al suo posto.

il Riformista 15.7.09
Biotestamento. La Chiesa si fida di Silvio
di Paolo Rodari

VERSO UNA LEGGE. Inizia oggi alla Camera il dibattito sul ddl Calabrò. I sospetti di accelerazione forzata non spaventano la maggioranza. E nemmeno la Cei, sicura della promessa del premier di 5 mesi fa.

Mentre il ddl sicurezza è destinato a rallentare la sua corsa verso l'entrata in vigore al fine di approvare, contestualmente, quella sanatoria tanto apprezzata dalla Chiesa italiana che prevede la possibilità di regolarizzare colf e badanti, si parla in queste ore di un movimento contrario riguardante un altro ddl, quello sul biotestamento che inizia oggi l'esame alla Camera. Movimento contrario che significherebbe accelerazione e, dunque, allineamento dell'iter parlamentare ai voleri della Chiesa italiana.
Le cose stanno così? Davvero, come hanno denunciano i radicali, il centrodestra imponendo la discussione sul ddl in sede di commissione Affari Sociali della Camera ha di fatto manifestato la volontà di procedere a tappe forzate? Davvero la manovra del Pdl sarebbe «politica» e cioè mirerebbe a rendere impossibile qualunque discussione e modifica del ddl stesso assecondando in questo modo le aspettative della Chiesa italiana? Oppure ha ragione il relatore, Domenico Di Virgilio (Pdl), secondo il quale «sarà una normale discussione, senza alcun paletto sui tempi», insomma un «dibattito che si spera sia tranquillo, sereno» e «su basi scientifiche e non ideologiche»?
Difficile rispondere. Certo è che un accordo Chiesa-maggioranza di Governo sull'argomento non c'è stato. C'è stata, questo sì, una promessa avanzata da Silvio Berlusconi nelle ore immediatamente successive la scomparsa di Eluana Englaro. Questi - e le sue parole sono state recepite bene dal segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone - ha promesso che una legge ci sarebbe stata. Non ha detto quando, ma la certezza della Chiesa italiana è che la cosa si farà senz'altro entro l'anno. E questa certezza basta e avanza.
Gli incontri tra Berlusconi, esponenti del Governo e importanti rappresentanti della Chiesa italiana (e anche del Vaticano) furono due. Il primo avvenne immediatamente dopo la morte di Eluana Englaro. Il secondo poco dopo, nella metà del mese di febbraio durante il ricevimento all'ambasciata italiana della Santa Sede in occasione degli 80 anni dei patti Lateranensi e dei 25 anni della revisione del Concordato. Berlusconi, dopo aver incontrato Bertone e il presidente della Cei Angelo Bagnasco, assicurò che «il tema della fine della vita è un problema che non è assolutamente di parte ma riguarda tutti, quindi l'auspicio è che si possa trovare una soluzione condivisa». E ancora, disse che tra il Governo e il Vaticano «vi sono visoni comuni».
Quale poi sia il contenuto di questa visione comune lo spiegò bene, sempre alla metà del mese di febbraio, un altro importante esponente vaticano, il cardinale Camillo Ruini. Al Tg1 tornò sul caso Englaro affermando che la vicenda di Eluana «ha insegnato che è necessaria una legge che escluda l'eutanasia e l'accanimento terapeutico. Quindi che non consenta di rinunciare a idratazione e nutrizione, una pessima forma di eutanasia. Serve una legge - disse - che lasci al medico le sue responsabilità professionali, una legge che chieda che sia espressa la volontà del paziente, una volontà informata e scritta. La Chiesa non è un legislatore e non vuole esserlo, ma come qualunque altro soggetto vuole esprimere la sua opinione».
Oggi, al di là della questione morale, al di là delle ripetute critiche (la maggior parte indirette e consumate a mezze parole) dei vescovi italiani intorno al libertinaggio, alla necessità di fare chiarezza, a una certa condotta morale che si ritiene importante per chi guida un Paese, la Chiesa sembra avere chiara una cosa: la promessa del premier sarà da questi mantenuta.
Un segnale positivo per Berlusconi sul fronte ecclesiastico è venuto nelle scorse ore da Avvenire. Il giornale dei vescovi italiani, dopo qualche critica sul ddl sicurezza e anche sulla questione morale, ha lodato la gestione del G8. E la cosa non è secondaria. Inoltre, quanto al testamento biologico, il giornale della Cei non ha mai offerto particolari spunti di frizione o di scontro con la maggioranza, come fosse consapevole che, in un modo o nell'altro, la cosa si farà.
A conti fatti l'unica accelerazione reale dell'iter parlamentare potrà venire "per colpa" delle forze avverse al ddl Calabrò. Ovvero da coloro che ritengono di poter modificare i contenuti del ddl in chiave eutanasica. Se poi Ignazio Marino imposterà la campagna verso il congresso del Pd tutta ruotante attorno alle questioni etiche - bio testamento incluso - sarà inevitabile la messa in campo d'una reale accelerazione da parte del Pdl (con la scontata benedizione della Chiesa italiana).

il Riformista 15.7.09
Prodotto di nicchia. È questo il destino dei quotidiani?
di Ritanna Armeni
Con la brutalità, ma anche con la chiarezza dei quindicenni, Matthew Robson (foto), in una sconvolgente ricerca sul rapporto fra media e gli adolescenti per la Stanley Morgan, ha detto a proposito della stampa quotidiana che i suoi coetanei «non perdono tempo a sfogliare tante pagine quando possono trovare titoli o sintesi on line». Suscitano scandalo parole che affermano ciò che in molti già sappiamo ma che fatichiamo a pronunciare. In questo caso quelle sulla crisi dei giornali, sulle loro perdite nelle vendite, nella pubblicità e, talvolta, nella credibilità. Su quello che sembra il progressivo, ma inesorabile restringimento della capacità di penetrazione nell'opinione pubblica della stampa quotidiana e settimanale. Matthew Robinson ne ha denunciato lo scarso appeal presso gli adolescenti, ma i dati europei e internazionali parlano di calo delle vendite in generale anche presso gli adulti. Del resto chiunque può fare un'indagine personale. Mentre va al lavoro, prende il bus o la metropolitana, entra nel bar a prendere un caffè, provi a contare quanti hanno in mano un quotidiano. Di quelli che si comprano in edicola, naturalmente, non di quelli distribuiti gratis. Potrà fare una sua personale e veritiera statistica dei lettori della carta stampata.
La crisi è talmente grave che già qualche anno fa l'Economist prevedeva la scomparsa dell'ultimo quotidiano nel 2043. Mentre la situazione dei giornali Usa e la vendita, per far fronte al calo delle vendite e degli introiti, da parte del New York Times della sede, il grattacielo progettato da Renzo Piano, ha reso plasticamente la disfatta della stampa mondiale. Oggi - ci racconta Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera - solo due gruppi editoriali uno inglese, The Economist e l'altro tedesco, quello di Axel Springer l'editore di Bild Zeitung e Die Welt sono in attivo, hanno aumentato il numero delle copie vendute e i ricavi on line. Esiste allora una ricetta per evitare la pronosticata fine della carta stampata? Lo stesso Mucchetti fa notare che le due eccezioni, quella inglese e quella tedesca, hanno conseguito l'obiettivo con due ricette diverse: qualità ed autorevolezza nel caso inglese, giornali popolari e territoriali con concorrenza diretta alla tv nel caso tedesco.
E l'Italia? In Italia non ci si interroga pubblicamente sulla crisi dei quotidiani. Nel momento in cui giornali piccoli e grandi parlano della situazione economica e finanziaria, analizzano nei minimi particolari e senza pietà la crisi dei partiti, discutono sui mali della scuola e dell'università evitano di esprimersi sulle loro difficoltà e di analizzarle come se queste non facessero parte della difficile situazione del Paese.
Pure qualche riflessione sulla stampa italiana e su come la crisi ha già influito su di essa si può cominciare a fare.
I quotidiani in Italia non hanno mai avuto la straordinaria diffusione che c'è stata negli altri Paesi (leggiamo poco) e si sono distinti per essere molto politicizzati e poco popolari. Queste loro caratteristiche unite all'attuale declino hanno già provocato o accentuato un cambiamento. Oggi nessuno osa dirlo ma non esistono grandi giornali nazionali. Esistono solo giornali di nicchia. Nicchie più o meno piccole o più o meno grandi. Una nicchia piccola significa un bacino di 2.000 lettori o meno, una grande di 200mila o poco più, ma questa è già la realtà.
Quali le conseguenze? In questa realtà acquistano paradossalmente un peso maggiore i piccoli giornali il cui ruolo nella formazione dell'opinione pubblica e nella battaglia delle idee ha un peso specifico superiore rispetto ai giornali che sono ritenuti grandi, ma che non hanno poi veramente i numeri per influenzare più di tanto l'opinione pubblica. È, inoltre, già abbastanza evidente che anche quelli che sono ritenuti importanti quotidiani nazionali, proprio perché di nicchia e con una tradizione di politicizzazione, si sono già trasformati. Sono tutti divenuti "secondi giornali" (rispetto all'informazione tv) o giornali-partito. Tutti rappresentano solo una parte ben delimitata della società e dell'opinione pubblica: il centro moderato, la borghesia progressista, il riformismo pluralista, l'intransigenza valoriale, la sinistra, la propaganda berlusconiana, il mondo cattolico più osservante. Tutti per mantenere e non restringere la propria nicchia abbandonano le illusioni dell'obiettività e dell'imparzialità e innalzano una loro bandiera. Tutti dichiarano nei fatti la propria inclinazione a formare oltre che informare. Ecco, la risposta italiana alla crisi non può che partire da qui.
Queste trasformazioni, se riconosciute, vissute e valorizzate, possono non essere del tutto negative. Possono persino aiutare il Paese a uscire da una sorta di apatia intellettuale nella quale è caduto, a ricostruire punti di vista, a condurre battaglie di idee. Possono portare la carta stampata a ben radicarsi nella società seppure in modo diverso da come siamo abituati a pensare. E a dare - nel ridimensionamento - una soluzione alla sua crisi. Non in termini di copie vendute - questo mi pare impossibile - ma di credibilità e di ruolo, di nuova indipendenza. Il coraggio di riconoscere i propri limiti e di giocare su un altro terreno è la condizione indispensabile perché la stampa quotidiana non perda il confronto con l'altra faccia dell'informazione, quella televisiva, che dilaga con notizie e immagini e occupa spazi che la prima non può più coprire. Un' informazione televisiva la cui impronta in Italia è oggi decisamente governativa e berlusconiana. Si tratta di costruire e raccontare dove l'altra spesso nega, distrugge e disgrega, fornire nuovi modi di pensare che forse qualche volta possono apparire minoritari, poi influiscono sull'opinione pubblica. Non so se ci riuscirà o se continuerà a seguire strade ormai superate, ma questa è la nuova sfida.

Il Tempo 15.7.09
Intervista a Bobo Craxi: "Nencini cancella la cultura socialista"
di Lanfranco Palazzolo

Riccardo Nencini sta costruendo un altro partito «che non ha nulla a che vedere con il socialismo riformista». Bobo Craxi spara a zero contro il segretario del Partito socialista.
Onorevole, si aspettava questo esito bulgaro del Consiglio nazionale che ha confermato la vicinanza con Sinistra e libertà?
«Nel Consiglio non erano in discussione due linee politiche alternative, ma la richiesta di un congresso. In realtà sono molto soddisfatto di questo pronunciamento. Se c’è una parte del partito che desidera costruirne un altro, questo significa che la mia idea è giusta. Io voglio mantenere in vita il Ps mentre gli altri vogliono costruire un soggetto nuovo».
Nel corso di questo CN il segretario Nencini ha detto che il Pd terminerà la linea dell’autosufficienza. Come fa a dirlo?
«Quella di Nencini è un piccola speranza. A me interessa capire come i socialisti contribuiscono a dare vita ad un’ala riformista nel Paese. A questo punto sarà inevitabile riaprire il dialogo con tutte le aree riformiste. La politica dell’autosufficienza non fa il paio con gli equilibri più avanzati. Io voglio il Ps e non una macedonia di sconfitti della sinistra».
Qual è il limite del progetto di Vendola e di Fava nel quale molti socialisti sono stati assorbiti?
«Con questa scelta scompare la cultura socialista. Noi proveniamo da storie diverse e rappresentiamo delle esigenze differenti. L’unica cosa nella quale vedo una volontà comune è quella di riuscire a superare gli sbarramenti elettorali».
È vera la voce che vorrebbe Vendola come candidato del Pd alle prossime elezioni regionali?
«Escludo che ci possa essere questa ipotesi. In questa fase Vendola è nel mezzo di una polemica molto serrata con il Pd in Puglia. La polemica tocca quella parte del Pd controllata da D’Alema. L’aspro confronto di Vendola in Puglia si salda con le tentazioni neopopuliste e regionaliste come quella di Lombardo in Sicilia».
In cosa si materializza l’approdo riformista del Partito socialista? Pensa che sia necessario riaprire il confronto con Marco Pannella?
«L’approdo socialista non è Sinistra e libertà. I socialisti devono avviare un dialogo a 360 gradi e riconsiderare quella esperienza della "Rosa", del rapporto privilegiato con i radicali. Invece il dialogo con Fava e Vendola ci sposta drammaticamente verso la deriva di una sinistra indistinta. Il voto socialista non è dalla parte di Sinistra e libertà».