sabato 2 gennaio 2016

MISCELLANEA DEL 2 GENNAIO 2016

Corriere 2.1.16
Referendum, la posta in gioco
di Francesco Verderami

Sarà referendum o plebiscito? Sarà un voto sul futuro delle istituzioni o sul futuro del presidente del Consiglio? Non c’è dubbio che il destino di Renzi sia legato alle riforme, ma il fatto che il leader del Pd abbia deciso di rimarcarlo, fino a far proprio l’evento, può rivelarsi pericoloso.
Ancora qualche tempo fa il risultato referendario appariva scontato, ma ci sarà un motivo se il premier, che l’estate scorsa in Consiglio dei ministri scommetteva sull’«ottanta percento di sì» nelle urne, ora dice che «arriveremo almeno al 55-60 percento». Il fatto è che sul giudizio degli elettori — al di là del merito delle riforme — incidono i fattori esterni, il contesto politico ed economico. Ce n’è la prova nei sondaggi sull’Italicum, che negli indici di gradimento ha avuto una curva calante pari a quella di Renzi. È vero che accentrando su di sé la consultazione, il segretario del Pd cerca di creare un ponte per superare gli appuntamenti parlamentari ed elettorali del 2016: dalla legge sulle unioni civili — una palla di neve che al Senato potrebbe trasformarsi in una valanga — fino alle Amministrative, dove i dirigenti del suo partito sperano «al massimo in un pareggio».
Ma l’idea dell’uno contro tutti sul referendum costituzionale è un azzardo, anzitutto perché il capo del governo rischia di alienarsi quella fascia di astensionisti e di elettori di centrodestra a cui in fondo piace il rinnovamento della Costituzione. E certo non potrebbe bastargli far affidamento sull’appeal personale e sui soli voti democratici: nell’analisi di fine anno fatta da Pagnoncelli sul Corriere si è notato come tra il gennaio e il dicembre del 2015 la fiducia di Renzi sia scesa dal 47 al 34,3%, con una contemporanea e vistosa riduzione della forbice rispetto al Pd, passato dal 38 al 31,2%. Per di più, durante un vertice con lo stato maggiore dei democratici, Renzi ha messo in conto che la minoranza interna del partito «non ci aiuterà» nella consultazione, anche se alla Camera l’undici gennaio voterà compattamente a favore delle riforme.
Come non bastasse, l’operazione «one man band» del premier ha innescato il malcontento nell’alleanza che sostiene il governo, ed è chiara la distinzione che fa il capogruppo di Ap Lupi sulle due opzioni: «Se ci sarà da dare battaglia con il referendum, per sostenere nel Paese il processo di innovazione costituzionale al quale abbiamo collaborato in prima linea, noi ci saremo. Ma non siamo disposti a partecipare a un plebiscito». Se così stanno le cose, perché Renzi ha deciso di intestarsi per intero e da solo l’operazione? La sua idea è che «comunque le opposizioni faranno coincidere le riforme con me, e useranno il referendum come uno strumento per mandarmi a casa», ancor più dopo le Amministrative che si preannunciano per il Pd ad alto rischio.
La tesi ha un fondamento, visto che Berlusconi punta proprio sull’uno-due per tentare il riscatto. Ancora ieri l’ex premier ha sostenuto che «mi toccherà tornare in campo per evitare che i Cinquestelle conquistino Palazzo Chigi. La parabola di Renzi è discendente. Dai sondaggi, con qualsiasi scenario, continua a emergere che i grillini vinceranno. La Casaleggio Associati sta allevando i suoi polli da batteria. E allora devo fare di tutto perché Forza Italia recuperi consensi rispetto al mio indice di fiducia personale che tocca il 25%. E dopo le Amministrative ci batteremo al referendum, dove sono certo che vinceremo».
È da dimostrare che possa essere Berlusconi a intestarsi un’eventuale sconfitta del premier nella doppia sfida, mentre sono chiare le ragioni che — dopo un’iniziale ritrosia — hanno spinto il leader del Pd a «giocare d’anticipo», a osare cioè l’uno contro tutti, rispetto a quello che Verdini definisce il «passaggio dirimente» della legislatura e della carriera politica del suo giovane amico. Una prova che gli stessi renziani prevedono molto dura, tra «diserzioni e opposizioni» di alleati e avversari: «Quella sarà la loro occasione», ha ammesso pubblicamente il premier.
Così se il referendum si trasformasse in un plebiscito, per Renzi sarebbe un’equazione con molte incognite, a partire dell’affluenza al voto: per vincere infatti bisognerà portare gli elettori alle urne su un tema che non scalda il cuore della gente. Perciò il premier ha alzato la posta della scommessa, conscio che la variabile più importante sarà legata alla condizione economica del Paese. E l’appuntamento in autunno sulle riforme, guarda caso, è previsto in coincidenza con la presentazione della legge di Stabilità.

Repubblica 2.1.16
La posta in gioco del referendum sul Senato
di Piero Ignazi

MATTEO Renzi si gioca tutto sul referendum confermativo della riforma del Senato. È come se il presidente del Consiglio avesse lanciato il guanto della sfida all’elettorato: o me o il caos, come diceva il generale De Gaulle. Questa di Renzi è una sfida rischiosa sia per l’oggetto del contendere — la riforma del Senato — , sia, e soprattutto, perché i referendum in Italia sono sempre stati “contro”.
Da quando è stato introdotto il referendum, il consenso è andato quasi sempre in direzione opposta all’establishment politico o alle idee correnti. Il primo, quello sul divorzio del 1974, fece epoca perché contraddisse platealmente i timori della classe politica laica. Allora i partiti favorevoli al divorzio e soprattutto il Pci temevano che il “popolo non capisse” e scegliesse la tradizione. Invece votò “contro”: contro il clericalismo e contro l’arretratezza dei suoi rappresentanti. Per una volta la società civile dimostrò di essere molti passi avanti rispetto alla politica.
Ma il più clamoroso voto contro si ebbe nel 1978 quando si andò alle urne per abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Mentre solo radicali e liberali erano a favore (poco più del 5% dell’elettorato), il 43% dei cittadini sostenne l’abrogazione. Uno schiaffo a tutti i partiti “tradizionali”.
Ultimo esempio significativo: i referendum post-Tangentopoli indetti da un comitato variegato di politici e intellettuali capitanato da Mario Segni e Augusto Barbera, per eliminare, tra l’altro, la legge elettorale proporzionale e (ancora) il finanziamento pubblico: la valanga di consensi che ricevettero quelle proposte seppellì la classe politica della “prima repubblica”.
Affidare la propria sorte politica all’esito di una consultazione referendaria costituisce quindi un azzardo, proprio perché il referendum è stato interpretato come uno strumento correttivo delle scelte politiche operate dalle istituzioni. Essendo una espressione di democrazia diretta tende a porsi come un contropotere, e soprattutto così è stato praticato nella recente storia politica nazionale. Renzi oggi rappresenta il potere, l’establishment, la “classe politica”. Quando gli elettori andranno a votare guarderanno anche a questo aspetto, del tutto estraneo al merito della questione.
Se poi prendiamo in considerazione l’oggetto del referendum, la riforma del Senato, anche qui emerge una difficoltà supplementare per il presidente del Consiglio. Non si deve infatti decidere se confermare o meno l’abolizione del Senato bensì una sua trasformazione affidando i seggi a una rappresentanza di consiglieri regionali. Al di là di ogni giudizio nel merito, se la riduzione numerica e funzionale del Senato doveva placare pulsioni antipolitiche — e molte argomentazioni dello stesso Renzi hanno avuto questo registro (si risparmiano soldi, ci sono meno politici in giro, e così via) — la riforma lascerà scontenta quella grande platea che oggi si sente estranea e persino antitetica rispetto alle istituzioni. Questo perché, semplificando, Renzi non può rincorrere Grillo. Non si cavalcano dal governo i sentimenti antipolitici se non si è dei populisti, come lo erano Bossi e Berlusconi. Se invece si è legati, più o meno saldamente e più o meno convintamente, ad una visione riformista, non si è credibili nel solleticare sentimenti che non fanno parte della cultura di governo della sinistra.
Per questo la campagna elettorale di Renzi non sarà facile. Dovrà convincere che una riduzione è meglio di una abrogazione, che risparmiare un po’ è meglio di risparmiare tutto, che qualche navetta parlamentare tra le due Camere è meglio di nessuna doppia lettura, ecc. Un esercizio difficile quando si ha di fronte una opinione pubblica che ha perso fiducia nella politica e nei partiti, senza grandi distinzioni.
Rimane la via d’uscita già indicata nella conferenza stampa del premier: portare il referendum su un terreno diverso, più congeniale alle risorse del capo del governo. E cioè arrivare ad uno scontro imperniato sulla sua figura, in una sorta di replica a livello nazionale delle primarie. Di nuovo, o con me o contro di me. Ma, in questo caso, non voteranno solo i simpatizzanti del Pd. La coalizione “contro” può essere numerosa, molto numerosa.

Corriere 2.1.16
L’Italicum è rischioso premia troppo chi vince di poco
Dubbi Se nessuno supera il 30-35% un governo monocolore può nascere con il sostegno di partiti esclusi dal ballottaggio
di Stefano Passigli

Vi sono politologi, come Maurice Duverger e molti suoi epigoni, che affermano che i sistemi di partito sono largamente dipendenti dalle leggi elettorali. Altri studiosi, come Giovanni Sartori o Stein Rokkan, affermano invece che sistemi di partito e forma di governo sono sì influenzati dai sistemi elettorali, ma più ancora da fattori di lungo periodo quali le modalità di formazione dello Stato nazionale, la presenza di minoranze etniche o religiose, la forma di Stato, i conflitti interni al sistema economico, e così via. Nella scienza politica del ‘900 vi sono insomma stati due indirizzi, ma oggi i politologi più accorti riconoscono ormai l’insufficienza di una analisi focalizzata solo sull’influenza delle leggi elettorali.
Le recenti elezioni spagnole si prestano egregiamente ad illustrare la questione. Tutti i commentatori hanno sottolineato che il loro esito, assieme ai risultati in altri Paesi europei, sembra sancire la fine di quel bipolarismo che i più avevano salutato con favore. Solo Angelo Panebianco sul Corriere ha giustamente ricordato che una competizione bipolare caratterizza ancora Gran Bretagna e Francia, cui unirei la Germania. Ma non si può tacere che l’assetto bipolare della competizione elettorale ha subito anche in questi Paesi — con l’eccezione proprio della Germania — un marcato indebolimento, con l’emergere in Gran Bretagna di un partito nazionalista (Ukp) e il rafforzarsi degli indipendentisti scozzesi, e in Francia con il consolidarsi del Front National.
Su questa crisi del bipolarismo le leggi elettorali hanno avuto ben poca influenza: la legge spagnola è stata a lungo indicata in Italia come un possibile toccasana per superare la frammentazione del sistema partitico, e descritta (grazie ai suoi piccoli collegi e al mancato recupero nazionale dei resti) come una legge dall’esito implicito fortemente maggioritario. Ma è bastata una crisi economica per vedere sorgere nuovi partiti e assestare al supposto inevitabile bipolarismo spagnolo un colpo forse mortale. A un sistema pensato come sostanzialmente maggioritario non ha insomma risposto un esito bipolare, bensì un probabile difficile periodo di instabilità.
Di contro la Germania, notoriamente caratterizzata da un sistema proporzionale, ha conosciuto stabili coalizioni, e una competizione elettorale bipolare. Contrariamente all’assunto che a governi di coalizione corrisponda necessariamente instabilità politica, la Germania dimostra che anche in caso di grande coalizione tra i due partiti protagonisti della competizione bipolare (Cdu e Spd) si può avere stabilità politica ed efficacia dell’azione di governo. Il rapporto tra leggi elettorali e struttura del sistema partitico e natura della competizione elettorale non è insomma univoco, ed è vano ricorrere all’ingegneria elettorale per forzare un sistema in un assetto bipolare. Paradossalmente, potremmo affermare che non è un sistema elettorale maggioritario a produrre il bipolarismo, ma al contrario che è il bipolarismo a consentire leggi fortemente maggioritarie.
Quali conclusioni trarre da questi sviluppi europei per la situazione italiana ed il ruolo dell’Italicum? Nessuno ha mai messo in dubbio che in tempo di guerra siano opportuni governi di unità nazionale. Viviamo in tempi di grave crisi economica, di terrorismo internazionale, e di tensioni generazionali con una forte disoccupazione giovanile e una popolazione anziana destinata alla povertà dalla crisi dello stato sociale. In queste condizioni, se vi è un partito dominante che superi il 40-45% dei voti è lecito ricorrere a un premio di maggioranza che assicuri efficaci governi monopartitici. Ma in una situazione multipolare, in cui nessun partito superasse il 30-35% dei voti e distanziasse nettamente gli avversari, una legge elettorale ipermaggioritaria produrrebbe artificiosi governi monopartitici frutto della scelta degli elettori dei partiti esclusi dal ballottaggio. Se questo è vero, teorizzare — come da tempo si va facendo in Italia — che governi sostanzialmente monopartitici, risultato non della presenza di un partito dominante ma di iperbolici premi di maggioranza, siano necessariamente da preferire a stabili governi di coalizione basati (come in Germania) su solidi accordi programmatici è un indubbio azzardo.
In conclusione, l’Italicum è una buona legge, ma potrà produrre un governo efficace solo se un partito raggiungerà il 40% dei voti; un ballottaggio tra partiti del 30% o poco più, deciso dagli elettori dei terzi partiti, non potrebbe infatti garantire un governo in grado di rispondere alle domande della maggioranza degli elettori. Se questo è il caso, sarebbe opportuno introdurre nell’Italicum una clausola di salvaguardia prevedendo che nel caso nessun partito superi il 35% del voto non si ricorra al ballottaggio. Piuttosto che a governi monopartitici, maggioritari in Parlamento ma fortemente minoritari nel Paese, meglio sarebbe, in condizioni di emergenza, il ricorso ad una grande coalizione. Ha funzionato in Germania e in Gran Bretagna. Potrebbe funzionare anche in Italia. È anche dalla capacità di giungere a mediazioni condivise che si giudica l’adeguatezza e il senso di responsabilità di una classe politica.

il manifesto 2.1.16
Rai, una partita vitale
Informazione. La pessima legge che consegna al governo il monopolio sulla tv pubblica dimostra come l’emergenza democratica italiana sia sempre più profondamente radicata nella costruzione eteronoma della coscienza collettiva
di Alberto Burgio

Un piccolo assaggio di quel che sarà la Rai plasmata dalla nuova legge renziana si è avuto martedì scorso. La conferenza-stampa di fine anno del presidente del Consiglio è stata somministrata in tutte le salse, sicché nessuno ha potuto risparmiarsi lo spettacolo grottesco di un premier che si erge ad antidoto contro il populismo nel momento stesso in cui punta tutto su un referendum costituzionale che già si profila come l’apoteosi del martellamento propagandistico in stile plebiscitario.
Ma attenzione. Oggi è ancora possibile avanzare e diffondere qualche pur debole obiezione, costringendo il pinocchio nazionale ad arrampicarsi sui vetri e a scoprire il fianco di una retorica sempre più frusta. Domani il governo sarà monopolista assoluto del cosiddetto servizio pubblico e non avrà ostacoli nell’intrappolare il popolo televisivo — il grosso dei sudditi — in una narrazione lontana dalla realtà.
Della nuova legge sulla Rai già non si parla più. Le regole dell’informazione non fanno sconti, l’attenzione si brucia in un paio di giorni al massimo. Ma in questo caso si deve resistere, la partita è vitale. Ricalcando il modello della «buona scuola», la nuova Rai sarà nelle mani di un amministratore delegato scelto in sostanza dal governo e dotato di poteri pressoché assoluti. Come in un’azienda privata, l’ad non solo provvederà alla gestione del personale e all’attuazione del piano industriale, ma avrà anche potere di nomina dei dirigenti (a cominciare dai direttori di rete, canale e testata) e potrà firmare in autonomia tutti i contratti di importo inferiore ai dieci milioni.
È vero che a nominarlo sarà il Cda su proposta del Tesoro. Ma il nuovo Cda sarà composto per la quasi totalità (6 membri su 7) da personale politico governativo (4 parlamentari generati in regime di Italicum e due membri designati direttamente dal Consiglio dei ministri). Insomma il gioco è fatto ed è di una semplicità disarmante. Palazzo Chigi (o Venezia) detterà, e la Rai, amplificando, trasmetterà. O forse non ci sarà nemmeno bisogno di dettare, dato lo zelo degli interpreti legittimi e dei ventriloqui.
È la Rai consegnata al governo (che, con la legge di Stabilità, si è riservato anche il controllo anno per anno dei finanziamenti del servizio pubblico). È la post-democrazia 2.0, senza troppi fronzoli. È il modello dell’uomo solo al comando che scende «per li rami», come ha involontariamente ammesso anche uno dei fautori del nuovo corso. Grazie alla legge, ha sottolineato il capogruppo Pd in Commissione Lavori pubblici del Senato, l’ad potrà «guidare l’azienda senza dovere tener conto dei desideri dei partiti». Vero: potrà fare di testa sua in quanto fiduciario e portavoce dell’esecutivo.
Ci si lamentava un tempo della cappa democristiana sulla tv di Bernabei e già oggi è peggio, come puntualmente documentano gli osservatori imparziali. Con la nuova legge si profila un controllo governativo sul servizio pubblico ancora più assorbente, totalitario. L’informazione Rai sarà l’esatto contrario di quel potere indipendente — di quel contropotere — che dovrebbe incarnare in una democrazia, stando a quel fastidioso rudere che è la Costituzione repubblicana del ’48.
Naturalmente Renzi è convinto che sarà lui a beneficiare di questa innovazione, ma non è sicuro che andrà così e che non stia invece servendo su un piatto d’argento il controllo della tv pubblica all’avversario che potrebbe vincere le prossime elezioni e sfrattarlo finalmente da palazzo Chigi. Sin dai primi anni Novanta (dall’introduzione del maggioritario) i geniali strateghi del partito dei progressisti moderati ci hanno abituato ad astute manovre rivelatesi dei boomerang. Chissà che il film non si ripeta anche stavolta nel paese di Berlusconi, ancora padrone di metà della comunicazione televisiva e quasi monopolista dell’editoria.
Comunque sia, questa partita dimostra la centralità del tema egemonico, cioè del terreno cognitivo: del controllo della comunicazione pubblica e dei cosiddetti apparati ideologici. Centralità esasperata dall’elevato grado di mistificazione delle narrazioni diffuse dal governo con la complicità di un sistema mediatico in larga misura omogeneo e connivente. E da ultimo drammatizzata dalla scommessa annunciata da Renzi sul referendum confermativo sulla controriforma costituzionale come autodafé nel quale giocarsi faccia e carriera. Il che equivale ad annunciare sin d’ora che non si baderà a mezzi pur di convincere un’opinione pubblica disinformata e di estorcerle l’autorizzazione a manomettere definitivamente in senso autocratico la forma di governo di quella che fu a suo tempo pensata come una Repubblica parlamentare.
Ha ragione Vincenzo Vita nel suo recente commento alla «legge-porcata» sulla Rai (il manifesto del 23 dicembre): tra voto amministrativo e referendum costituzionale, l’anno che incombe porta con sé un drammatico finale di partita, e dio non voglia che Renzi vinca la sua scommessa. Ma in questo quadro tutto si tiene, come in un gioco di società. Lungi dall’essere un fuor d’opera, la nuova Rai sarà uno strumento decisivo di governo in un paese in cui metà del corpo elettorale diserta le urne e un altro buon 25% è prigioniero di una messinscena che lo induce a votare inconsapevolmente contro i propri propositi e interessi. Anche questa pessima legge dimostra come l’emergenza democratica italiana sia sempre più profondamente radicata nella costruzione eteronoma della coscienza collettiva, tema concretissimo, materialissimo, che ha a che fare nientemeno che con la produzione della soggettività.
Come sappiamo sin dai tempi di Pericle, una democrazia non vive senza sfera pubblica o con una sfera pubblica ridotta a un simulacro perché ostaggio di un’oligarchia di poteri sovraordinati e coesi. Lo si veda o meno, è proprio questa la condizione verso cui stiamo rapidamente scivolando, anche per effetto di questa nuova controriforma. Dopodiché il cerchio della servitù involontaria rischia di saldarsi ed evadere da questa invisibile prigione non sarà per niente agevole.

il manifesto 2.1.16
Orfini: «Sel con noi, a Roma ci ripensi»
Il presidente Pd: Fassina partecipi alle primarie, dalla regione ai municipi evitiamo rotture. Vendola rientri in coalizione, non torni indietro ai tempi della testimonianza
intervista di Daniela Preziosi

ROMA Presidente Matteo Orfini, il premier Renzi ha detto: «Noi siamo disponibili alle alleanze, se la sinistra non lo è più ne prendiamo atto». Il centrosinistra è morto anche nelle città?
Credo di no. Lo spero. Com’è sempre stato nella storia d’Italia alle amministrative si possono avere maggioranze anche fra forze che nazionalmente hanno posizioni diverse. Con il centrosinistra abbiamo vinto e governiamo bene in quasi tutti i comuni e le regioni d’Italia. In questi anni, benché divisi in parlamento, abbiamo continuato a governarli bene. Perché dovremmo interrompere in modo artificioso progetti che funzionano? Tanto più che per i candidati utilizzeremo ancora le primarie, lo strumento scritto nel dna del centrosinistra. Le condizioni per tenere vivo il centrosinistra ci sono. Mi impegnerò su questo, per la verità ci stiamo già impegnando.
Ma se il centrosinistra funziona bene, perché con l’Italicum e il premio alla lista avete deciso di cancellarlo?
Il premio al primo partito è un elemento di saggezza in un paese in cui quello alla coalizione ha prodotto ammucchiate che vivevano solo per arrivare in parlamento e un momento dopo sfasciarsi. L’Italicum non preclude la rappresentanza alle forze più piccole: su questo siamo venuti incontro alle giuste richieste anche di Sel. La divaricazione fra noi c’è stata quando Vendola è tornato indietro rispetto alla prospettiva di aderire al partito socialista europeo.
Lei parla di rotture «artificiose» nelle amministrazioni. A Roma la frattura però è stata sulla cacciata di Marino: Sel vi accusa di averlo dimissionato in modo notarile, impedendo una discussione trasparente nell’aula consiliare.
Non è vero. È stato Marino a scegliere di ritirare le dimissioni anziché portarle al dibattito dell’aula. Sel ha annunciato la mozione di sfiducia ben prima della nostra decisione. Ma la discussione sul passato interessa solo chi vuole tenerci divisi. Oggi l’obiettivo è non rinunciare alla città e rilanciare la coalizione con energie che in gran parte vengono dal tessuto amministrativo che insieme abbiamo messo in campo in questi anni. Oltre ai limiti, tra le cose positive c’è l’esperienza dei municipi e quella fondamentale della regione Lazio: sarebbe sbagliato disperderla per ragioni nazionali.
Restiamo sul caso Marino. Prima della sua cacciata c’è la cacciata di Sel dalla giunta, con il licenziamento del vicesindaco Luigi Nieri.
Di questo deve chiedere conto a Marino.
Vuol dire che il sindaco all’epoca non rispose a un imput suo, o del Pd?
Il sindaco ha agito in autonomia, lo ha sempre rivendicato. Ma, ripeto: ha senso parlare ancora di questo o piuttosto dei problemi della città? La sinistra pensa che la soluzione possa venire dalla vittoria di Grillo e della destra o da un rilancio di una stagione di governo, correggendo gli errori?
Marino sostiene che l’avete fatto fuori perché volete fare il villaggio olimpico a Tor Vergata secondo i desideri di Malagò e Montezemolo.
Marino ha sottoscritto la candidatura di Roma alle Olimpiadi con un progetto che prevede il villaggio olimpico a Tor Vergata. Io Caltagirone non lo conosco, lui, a giudicare dalle nomine, aveva una certa consuetudine.
E se Marino si ricandidasse?
Farà quello che riterrà.
Si è reiscritto al Pd. Se partecipasse alle primarie?
Se ha i requisiti, potrà partecipare alle primarie.
Marino ha i requisiti?
Immagino di sì.
La sinistra ha lanciato la corsa di Fassina fuori dalle primarie.
Siamo sicuri che è così? Ho visto che Fassina si è candidato e che ha deciso una linea. Ma la sua linea non rappresenta quella di tanti amministratori di Sel. Non mi sembra neanche un’impostazione che parla agli elettori e agli iscritti di quel partito. Non so dove è stata decisa questa candidatura. Anzi lo chiedo: dove? Da noi le candidature le decidono gli elettori. Faccio un invito a Fassina: si misuri nelle primarie.
Fassina è sostenuto da forze e persone di diverse culture. Sta facendo un giro di ascolto della città. Per candidarsi non esistono solo le primarie.
A me non risulta che gli amministratori condividano l’impianto della rottura del centrosinistra. Fassina ascolti anche loro.
«Il centrosinistra è morto» lo ha detto più volte anche Nichi Vendola, fra gli altri.
Questa è la linea politica nazionale di Nicola Fratoianni, forse di Vendola: ma per lo più di persone che non vivono a Roma.
Le primarie cominciano ad essere impraticabili da sinistra: a Milano per Giuseppe Sala arrivano gli endorsement di esponenti di centrodestra. Com’è successo alle regionali liguri.
No, in Liguria è successo che chi ha perso le primarie ha sfasciato tutto.
Cofferati ha lasciato il Pd denunciando il voto inquinato.
Il ragionamento sarebbe: per paura che qualche elettore di destra voti il nome di sinistra Cofferati — che io ho sostenuto — ha prodotto la vittoria della destra. È un ragionamento che fa disastri.
Non è che in Liguria la destra ha vinto perché la vostra candidata piaceva più a destra e che a sinistra?
Questa è stata la campagna politica per danneggiarci. Vogliono fare così anche a Milano, Torino, Roma?
Le coalizioni nelle città si sono rotte su vicende precise, non per capriccio. A Bologna lo sgombero di un’occupazione, a Roma la cacciata di Marino.
La verità è che a Roma la giunta è caduta per l’inadeguatezza del sindaco. E invece cos’è successo a Torino? Nulla. La linea politica nazionale è cambiata e Sel ha rotto con Piero Fassino.
Non è che invece ora avete realizzato che in molte città senza la sinistra non vincerete? A Roma i sondaggi vi danno molto sotto i 5 stelle.
No, per me non rompere una storia di buon governo è importante. Anche perché se Sel decide che il Pd è impraticabile, dovrà rompere ovunque. Quanto ai sondaggi, quelli che li citano poi non li pubblicano: perché non esistono. I nostri ci dicono che il Pd se la gioca già ora senza neanche il traino di un candidato.
Sarà Roberto Giachetti il vostro candidato sindaco?
Quando sarà chiaro il perimetro della coalizione scriveremo le regole. Il candidato lo decideremo con le primarie.
Avete già inglobato dieci parlamentari vendoliani. Puntate a una nuova rottura di Sel?
Spero che la sinistra resti più unita possibile, di rotture ce ne sono state anche troppe. Semmai il nostro obiettivo è tenere tutti insieme nel centrosinistra. Seguendo l’appello di Pisapia, Doria e Zedda, tre sindaci che sono la prova che in questo perimetro anche le forze a sinistra del Pd hanno possibilità di incidere e governare bene. Fuori da questo perimetro invece c’è solo la testimonianza. E un favore alle destre. E l’idea di riportare indietro le lancette dell’orologio. Nel 2009 Vendola ruppe con Rifondazione per contestare proprio quell’impianto minoritario, per misurarsi in una sfida di governo. Oggi tornare a prima di quella rottura sarà difficile per chi ha contribuito a costruire la stagione del buon governo di centrosinistra.

Repubblica 2.1.15
Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, in pensione da ieri: “Orfanotrofi lager e neonati in vendita Così in quarant’anni ho visto cambiare la famiglia”
La giudice coraggio e i diritti dei bambini “Vi spiego perché i gay possono adottare”
intervista di Maria Novella De Luca

«Era 1986, un’altra era. I piccoli venivano lasciati nelle culle con i biberon legati alla bocca... Ma di recente ho dovuto chiudere un altro posto terribile, vicino a Frosinone. Però siamo riusciti a far adottare in Italia molti ragazzi anche grandicelli ».
Si è schierata per il diritto alla conoscenza delle origini degli adottati.
«Conoscere la pianta da cui si proviene infatti è un diritto».
Sta per uscire a fine gennaio un suo libro per la casa editrice Laterza.
«La mia vita di giudice in 15 storie».
La famiglia italiana può farcela?
«Le famiglie dovremmo dire. Sì. Purché la società ne accetti la metamorfosi».
Se è giusto donare un rene a un’amica che così sopravviverà, dov’è lo scandalo di far nascere un bimbo con l’utero di un’altra?
Oggi c’è un’attenzione enorme, ma gli abusi non sono diminuiti Anzi: i nostri figli sono addirittura più soli e più esposti

ROMA. Le sue ultime sentenze hanno spalancato le porte alla stepchild adoption, facendole cadere sulla testa insulti e lodi in pari misura. Ma l’ironia è compagna fedele della giudice Melita Cavallo: «Prima o poi dovranno rassegnarsi, ho soltanto applicato la legge sulle adozioni». Per 40 anni ha difeso l’infanzia violata e abusata nei tribunali di Milano, Napoli e Roma. «Quando ho cominciato a fare il magistrato l’Italia era piena di figli. I bambini non avevano voce. Potevano essere comprati, venduti. Ricordo i loro occhi spaventati. Per questo ho deciso di dedicarmi alla giustizia minorile».
Da due giorni Melita Cavallo, presidente del tribunale per i minori di Roma, il più grande d’Italia, è in pensione. Classe 1943, «siamo nati sotto le bombe, forse è per questo che la mia generazione è così tenace», è stata testimone della metamorfosi della famiglia. Oggi a più di 70 anni ne abbraccia il cambiamento. Spiazzando colleghi e politici. Accanto a lei, in una casa fresca di trasloco, Giuseppe, marito (affettuoso) da quasi mezzo secolo.
Verrà ricordata come il giudice delle coppie gay...
«Un errore, sono un giudice e basta. E così come ho ritenuto, in sei sentenze, che per quel figlio fosse giusto essere adottato dalla compagna della madre, così ho curato le adozioni di centinaia di bambini nelle coppie eterosessuali».
E la legge che spacca il Parlamento?
«Le norme già esistono. Articolo 44 della legge 184 del 1983».
Direbbe di sì anche a una coppia di padri omosessuali?
«Se fosse giusto per i figli, perché no? Sono i legami affettivi che contano. A una coppia di donne l’adozione l’ho negata. Era evidente che il bambino non riconosceva la partner della madre come madre anch’essa. Ma ormai se ne occuperanno i miei colleghi...».
E la maternità surrogata?
«Soltanto come un dono. Se posso donare un rene a un’amica o a una sorella che grazie a questo sopravviverà, dov’è lo scandalo di far nascere un bambino grazie all’utero di un’altra donna. E del resto la “surrogacy” è sempre esistita. Ma era molto peggio».
Si faceva e non si diceva?
«Negli anni ‘70, quando ho iniziato, la condizione dell’infanzia era disastrosa. A Milano c’erano i figli degli immigrati calabresi e siciliani che non riuscivano a integrarsi, e spesso finivano nelle case di correzione. Ma a Napoli accadeva di tutto».
Adozioni illegali, compravendite?
«Tra i poveri chi aveva molti figli li vendeva a chi non ne aveva. Poi venivano in tribunale chiedendo di legittimare quell’adozione di fatto. Me li mettevano sul tavolo. “Lo faccia per la creatura, giudice...”. Negli anni del terremoto dell’Irpinia fu l’apice. Migliaia di sfollati. I cacciatori di bambini ne approfittarono senza scrupoli. Abbiamo lavorato moltissimo per ricostituire i nuclei familiari».
Diceva della maternità surrogata...
«Accadeva nelle famiglie ricche. Il marito pagava una qualche ragazza sfortunata, la metteva incinta, poi questa scompariva, l’uomo riconosceva il bambino, in tribunale la moglie chiedeva l’adozione del figlio del marito...».
Stepchild adoption di fatto.
«Più o meno. Ma non sono storie di ieri. E ancora oggi abbiamo notizie di compravendite ».
Però i bambini stanno meglio.
«Verso i bambini c’è più rispetto, e la grande differenza è che oggi la Giustizia li ascolta. Prima quasi mai venivano creduti. Le vittime venivano messe a confronto con chi le aveva violentate. Per paura molte ragazze ritrattavano. Una mi disse che scagionava il padre colpevole perché non voleva più vederlo».
Gli abusi sono diminuiti?
«C’è un’attenzione enorme. Ma gli abusi non sono diminuiti. Anzi, oggi i bambini sono addirittura più soli e più esposti».
Erano meglio le famiglie numerose?
«Senza dubbio».
Lei ha tre figli, un marito e nipoti. È stata dura conciliare?
«Sì, ma non ci avrei mai rinunciato».
Un ricordo forte?
«Era il 1989. Francesco, un bambino focomelico senza braccia e gambe, abbandonato da una ricca famiglia napoletana in ospedale. Misi un annuncio su Famiglia Cristiana per trovargli dei genitori. Lo adottò una coppia del Nord che aveva già una figlia disabile. Ricordo quando incontrò papa Wojtyla. Un’emozione enorme. E poi un padre camorrista».
Ne avrà conosciuto più d’uno.
«Disposi l’allontanamento dei suoi figli. Credo che mi abbia odiato con tutto se stesso. Dopo vent’anni mi scrisse dal carcere ringraziandomi perché i ragazzi si erano salvati».
Gli errori.
«Più che errori rimpianti. Per quei ragazzi che non sono riuscita a fermare prima che finissero male».
Nel 2001 diventa presidente della Commissione adozioni internazionali.
«Anni bellissimi. I Paesi stranieri ci spalancavano le porte. Vado ancora fiera dell’accordo che riuscii a fare con il Vietnam. Portai in regalo decine di cd con le canzoni napoletane».
Oggi l’adozione è in crisi.
«Spesso dall’estero arrivano ragazzi con seri problemi. Noi assistiamo al dramma delle restituzioni. Il 10% delle adozioni. Una sconfitta».
Finiscono negli istituti?
«Sì, e non sempre in luoghi adeguati. Ne ho chiusi diversi».
Il famoso brefotrofio dell’Annunziata a Napoli.

La Stampa 2.1.16
Dimezzare i miliardi evasi vale 355mila posti di lavoro
Se il buco fosse la metà degli attuali 122 miliardi il Pil salirebbe del 3,1%
di Alessandro Barbera

A prima vista sembra una tesi di quelle fatte apposta per compiacere il pensiero corretto: se l’evasione calasse drasticamente, il Paese crescerebbe molto di più. Ogni anno fra Iva, contributi previdenziali, Irpef e Ires vengono sottratti al Fisco 122 miliardi. Se - per ipotesi - fossero la metà, il Pil crescerebbe del 3,1 per cento, i consumi del 5,2, gli investimenti del 5,9, i posti di lavoro di ben 355mila unità. Possibili numeri simili concedendo ancora più fondi ad uno Stato già onnivoro e più inefficiente di altri? Ovviamente no. Una ricerca apparsa di recente sull’Economist conferma quel che molti studiosi sostengono da tempo: quanto più le tasse sono alte, tanto più è probabile che aumenti la propensione ad evadere. I numeri citati da Sergio Mattarella, raccolti in una indagine di Confindustria, devono essere accompagnati da un caveat: la pressione fiscale è troppo alta perché sono in troppi ad evadere. Ma le ragioni per le quali c’è troppa evasione non hanno solo a che fare con la tendenza tutta italiana a non fare il proprio dovere. Basta mettere in fila i numeri dell’analisi.
Prendiamo il numero medio dei pagamenti da effettuare in un anno per adempiere agli obblighi fiscali: in Italia sono quattordici, in Germania nove, in Francia otto. O il numero delle ore necessarie a calcolare il dovuto: 269 l’anno, appena sei in meno di quelle chieste ad un portoghese, 51 in più di quelle imposte ad un tedesco, il doppio di quelle che servono ad un francese. Se dividiamo quelle ore per una media di otto ore al giorno sono 33 giorni, poco meno di tre al mese. Ovviamente non si tratta del tempo necessario ad una normale dichiarazione dei redditi, o ad una fattura Iva. La gran parte di quel tempo - ben 198 ore all’anno - servono a calcolare le imposte dovute sul lavoro. Ecco una prima conferma alla tesi di cui sopra: quanti più dipendenti si occupano in un’azienda, tanto più è alta la possibilità di rimanere ingarbugliati nelle fitte maglie degli adempimenti.
Quando si ha a che fare con fenomeni di massa, le risposte non possono essere univoche. Però la logica dei numeri aiuta a farsi un’idea. Prendiamo il numero dei lavoratori indipendenti, le cosiddette partite Iva: in Italia sono uno su quattro, in Grecia uno su tre, in Germania e Francia uno su dieci. O ancora la dimensione delle imprese: in Italia il valore aggiunto prodotto da imprese con meno di dieci occupati sfiora il trenta per cento; in Grecia è del 35 per cento, in Germania del 15. Tanto più è piccola l’impresa, tanto più è alta la propensione ad evadere e bassa la probabilità di ricevere un controllo dal fisco. A proposito di controlli: l’indagine calcola che il 99 per cento dei contribuenti ha la probabilità di ricevere un controllo ogni 33-50 anni. Non tutti però. Fatti cento il numero dei dichiaranti, nel 2014 sono stati fatti accertamenti sul 98 per cento delle grandi imprese, il 25 per cento delle medie, il 3 per cento delle più piccole. Alcuni sono convinti che proprio per questa ragione il governo non avrebbe dovuto alzare la soglia per l’uso del denaro contante, o i criteri per la punibilità in sede penale dell’evasione Iva. Ma secondo gli estensori della ricerca il problema è un altro: la scarsa volontà politica di combattere l’evasione su larga scala. «Va fatto un uso integrato delle banche dati, costantemente aggiornate». E soprattutto «è indispensabile realizzare l’integrazione dell’Anagrafe tributaria con le banche dati di altre amministrazioni pubbliche». Insomma, gli strumenti ci sono. Si tratta di farli funzionare.

Repubblica 2.1.16
Andrea Bolla, vicepresidente Confindustria
“Stop al sommerso e il Paese decollerà”
Se ogni euro recuperato all’evasione venisse usato per tagliare le tasse, il Pil salirebbe del 3,1 per cento
intervista di Filippo Santelli

ROMA. «Se ogni euro recuperato all’evasione venisse usato per tagliare le tasse, il Pil italiano salirebbe del 3,1 per cento, con 335 mila nuovi occupati». Cita i risultati di un recente studio di Confindustria Andrea Bolla, presidente del comitato Fisco dell’associazione industriale. Dati che Mattarella ha ricordato nel suo messaggio di fine anno: «Un grande orgoglio - dice Bolla - e un riconoscimento dell’autorevolezza del nostro lavoro».
Come siete arrivati a questi numeri?
« L’evasione, 122 miliardi (oltre le stime del Mef, ndr), è stata calcolata dal nostro Centro studi con un nuovo metodo che incrocia dati di Inps, Istat e delle Entrate. Quanto agli effetti sul Pil, abbiamo ipotizzato che tutto il nero recuperato diventi minor prelievo fiscale. Questo aiuterebbe la manifattura, settore trainante che evade poco».
Eppure questo automatismo non esiste.
Un suggerimento al governo?
« Il fondo “taglia tasse”, da finanziare con la lotta all’evasione, non è decollato per ragioni di contabilità dello Stato. Ma l’importante è che la pressione fiscale scenda, e con le ultime due leggi di stabilità sta avvenendo».
Come si recupera il sommerso?
«La prima cosa è conoscerlo a fondo per settori, tipologie, geografia, finora i numeri sono stati ballerini. La delega fiscale prevede che dal prossimo anno il Mef elabori un nuovo sistema di monitoraggio dell’evasione».
Basta avere numeri più precisi?
«Nel frattempo il Fisco deve creare un nuovo clima di collaborazione con imprese e contribuenti, senza vessarli con oneri inutili. Anche nei controlli, puntando più sulla prevenzione che sulle verifiche ex post, poco efficaci».
Le imprese sembrano opporsi a ogni nuova misura anti evasione come a un onere.
«Solo se piomba tra capo e collo. Nel caso della fatturazione elettronica c’è tempo per conformarsi fino al 2017, e incentivi adeguati. Così non ci saranno resistenze».

La Stampa 2.1.16
I fondi volevano le sofferenze di Etruria ma il commissariamento bloccò tutto
Offerte presentate fuori tempo massimo. Adesso Anacap ci riprova
di Gianluca Paolucci

Agli uomini del fondo d’investimento Anacap, Banca Etruria piace davvero. Sono stati tra i primi a farsi avanti con Roberto Nicastro per manifestare il loro interesse a rilevare in tutto o in parte le «nuove» banche uscite dalla procedura di risoluzione. Ma già un anno fa si erano fatti avanti, con un passaggio che avrebbe potuto cambiare radicalmente la storia di questi giorni. È il 5 febbraio 2015. Sul tavolo dell’allora presidente di Banca Etruria, Lorenzo Rosi, c’è una lettera che potrebbe risolvere tutti i problemi dell’istituto aretino. Il mittente è Anacap, fondo d’investimento britannico specializzato nel settore del credito che da tempo sta cercando occasioni tra le banche del nostro Paese. Nella lettera, Anacap chiede di avviare una «due diligence» sui crediti del gruppo, propone di comprare tutte le sofferenze - circa 2 miliardi di euro - ad un prezzo tra il 28 e il 32 per cento del nominale. Dichiarandosi pronto anche ad entrare nel capitale dell’istituto partecipando ad un successivo aumento di capitale.
Anacap, che un anno fa era arrivato ad Arezzo grazie ai buoni uffici di Banca Imi, è già piuttosto attivo nel nostro Paese. Tra il 2014 e il 2015 ha comprato circa 6 miliardi di sofferenze bancarie italiane. In gran parte, oltre tre miliardi, da Unicredit. Ma è anche proprietario di istituti bancari: controlla la britannica Aldenmore Bank, la maltese Mediterranean Bank, un istituto in Repubblica Ceca e la polacca Fm Bank.
Ma quando arriva la lettera è ormai troppo tardi: i manager di Etruria non fanno neppure in tempo ad avviare una trattativa. L’11 febbraio la banca viene commissariata e il resto è cronaca di questi giorni.
In quei giorni di febbraio Anacap non era l’unico fondo ad interessarsi delle sofferenze di Etruria. A farsi avanti per comprare un pacchetto di crediti difficili dell’istituto era stato anche Algebris del finanziere Davide Serra. Una serie di abboccamenti, andati avanti per mesi e frenati dai rispettivi timori per la presunta vicinanza del finanziere al premier Matteo Renzi. E concretizzatisi con un’offerta quando ormai era, ancora una volta, troppo tardi. La proposta di Serra per i crediti difficili di Etruria arriverà con i commissari di Bankitalia già insediati nell’istituto.
La proposta di Anacap e l’interesse di Serra, seppur fuori tempo massimo, mostrano che il mercato vedeva ancora delle potenzialità nell’istituto toscano. Che era da tempo alla ricerca di un compratore, dopo che il governatore Ignazio Visco, con una durissima lettera, aveva imposto al management una integrazione fin dalla fine del 2013. Nella lettera, si chiedeva una integrazione con «un gruppo bancario di elevato standing in grado di apportare le risorse patrimoniali e manageriali adeguate al risanamento della Etruria». Il partner favorito da Bankitalia sarebbe stata la Popolare di Vicenza, che in effetti un’offerta la fece. La trattativa non andò in porto, con reciproche accuse di non voler in realtà andare avanti davvero. Certo è che con quanto emerso poi anche a Vicenza, quel «elevato standing» richiesto dal governatore accompagnato dalla risorse «patrimoniali e manageriali» fa quantomeno un po’ sorridere.

Repubblica 2.1.16
Rodolfo Maria Sabelli, Anm
“Non contrapporre i giovani magistrati ai più anziani o si perde la memoria storica. Le riforme di sinistra? Non lo so Alcune vanno bene, ma la responsabilità civile è un errore”
“Giudici, Orlando sbaglia il ricambio sia graduale”
intervista di Liana Milella

ROMA. Riforme sulla giustizia di sinistra? «Bisogna andare ancora avanti». Il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli risponde al Guardasigilli Andrea Orlando.
Dice il ministro, spazio alle nuove generazioni di magistrati. Anche se stanno andando in pensione toghe famose, da Guariniello a Pomarici. Da che parte sta l’Anm?
«È ovvio che non si può impostare la questione in termini di contrapposizione tra giovani e anziani. La successione delle generazioni è un fatto naturale e il ricambio è fisiologico, ma dovrebbe essere anche graduale. L’Anm non si è mai opposta alla riduzione dell’età pensionabile e quando il limite fu portato da 70 a 72 anni e poi addirittura a 75, fummo fermamente contrari. Abbiamo criticato i tempi troppo repentini della riduzione dell’età, perché sapevamo che avrebbero causato la scopertura improvvisa di centinaia di posti in organico, soprattutto negli incarichi direttivi».
Uno svuotamento della vostra memoria storica non rischia di fare anche un danno alle indagini?
«La diluizione nel tempo del ricambio serve a consentire la trasmissione graduale delle esperienze. Questo si realizza affiancando nelle indagini i giovani ai più anziani. Purtroppo quando abbiamo chiesto maggiore gradualità, alcuni ci hanno accusato, in modo del tutto ingiustificato, di reazione corporativa. Il tempo ci ha dato ragione, tant’è che poi si è dovuta prevedere una parziale proroga».
Orlando vanta di aver fatto “cose di sinistra” nella giustizia e cita anticorruzione, autoriciclaggio, falso in bilancio...
«La mia valutazione si sottrae a una classificazione di tipo politico. Il giudizio su quelle riforme è complesso. Averci messo mano è senz’altro una cosa positiva, ma servono ulteriori iniziative. Sulla corruzione bisogna rafforzare gli strumenti di indagine. Quanto all’autoriciclaggio, è un reato che si attendeva da anni, ma la previsione di non punibilità per i beni destinati a uso personale rischia di introdurre incertezze applicative. A fronte del ripetersi di gravi fatti criminali, occorre rafforzare la capacità di intervento del sistema penale nel suo complesso, anche per evitare il diffondersi di un ingiustificato senso di insicurezza che potrebbe alimentare pericolose derive dettate da un irrazionale populismo penale».
Era di sinistra fare la responsabilità civile dei giudici?
«È stata una riforma sbagliata. Penso all’aver eliminato il filtro, che ha dato via libera alle azioni strumentali e inammissibili, che faranno perdere tempo in cause inutili, o alla pericolosa confusione che nasce con le nuove ipotesi di responsabilità per travisamento del fatto o delle prove. Per comprendere il clima che ha accompagnato la riforma, basta considerare le altre proposte, largamente sostenute, che pretendevano addirittura di introdurre l’azione diretta o di sindacare la motivazione di alcuni provvedimenti giudiziari, proposte fortunatamente non approvate e palesemente incostituzionali».
Il Guardasigilli ritiene un successo l’aver messo nella legge di stabilità un concorso per mille cancellieri. Lo è?
«Naturalmente è una buona notizia e ci aspettiamo che il bando di concorso segua in tempi brevissimi. Purtroppo non basterà a risolvere i problemi. Le carenze di organico sono molto maggiori per il blocco del turn over e le difficoltà dell’organizzazione sono numerose e non riguardano solo il personale».
Renzi, nella conferenza stampa di fine anno, dà per fatto il ddl sulla prescrizione. Il suo giudizio su quel testo?
«Insoddisfacente, come abbiamo detto in ogni occasione. L’unica soluzione adeguata sarebbe il definitivo blocco della prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, che restituirebbe alle impugnazioni la loro natura genuina di strumenti di verifica sulla decisione di primo grado e di appello. Ciò non dovrebbe portare a un aumento dei tempi dei processi: si dovrebbe procedere alle necessarie riforme organizzative e a semplificare le regole processuali, fermo restando il rispetto delle garanzie effettive. Da questo punto di vista, il disegno di riforma del codice di procedura penale, in parte è insufficiente, in parte è sbagliato. Alcune previsioni rischiano addirittura di indebolire lo strumento investigativo e processuale».

La Stampa 2.1.16
La Spezia, il “bambinello” del presepe rapito e impiccato
di Sandra Coggio

Il “bambinello” riposava al calduccio, nella cesta: la pecorella ai piedi, fiocchi rossi e pigne, e una stella di giunchi, intrecciati, a vegliarlo dall’alto. E’ stato sollevato, di notte, ed impiccato in mezzo al paese la vigilia del Capodanno. E la gente di Pitelli - mille e duecento anime di collina a pochi chilometri dalla Spezia – l’ha trovato così: niente più copertina, la sola vestina bianca a ricoprirlo, la testa infilata dentro un cappio. E’ toccato al bambolotto che i volontari avevano posto nella piazza del paese a simboleggiare la nascita di Gesù: un presepe semplicissimo, fatto a mano, credenti e non credenti assieme, per contribuire alla ricerca contro le leucemie.
Difficile comprendere quale astrusa motivazione possa esserci dietro un gesto simile: una goliardata, un atto minatorio, un qualche riferimento al satanismo. Il vescovo ha scritto al parroco, anziano missionario, manifestando «vivo dolore per l’atto sacrilego»: sacrilego perché «il credente - ha scritto - ma anche ogni altra persona che pratichi una sincera ricerca della verità, non può non vedere nel presepe la bellezza di una vita che nasce». Gesto «esecrabile e ingiustificabile», ma «non riconducibile ad una semplice bravata»: e pertanto tale da richiedere una «riparazione, conversione e perdono per chi l’ha fatto».
Lo stesso presidente della Regione, Giovanni Toti, che ha chiesto “rigore” verso gli autori, rei di tale provocazione, nel clima di tensione che già c’è. E il presidente della Cei, e arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, l’ha definito un fatto «triste, e proprio penoso». A Pitelli, la gente scuote la testa, e ripete che dev’essere stato uno scherzo: brutto, e ingiustificabile, nato male e finito peggio, con tutto il clamore, che il paese avrebbe evitato volentieri. Pitelli è un borgo particolare, capace di un’ironia vivace. Pitelli è il borgo operaio che conserva come un cimelio una bandiera storica comunista del 1921: e della sua solidarietà sociale ha sempre fatto vanto. Pitelli che ha tanto pagato, alla politica delle discariche, e si ritrova ora in cronaca, sconcertata, per questa storia del Bambino impiccato.

La Stampa 2.1.16
A testa in giù
L’Europa è marginale
di Stefano Stefanini

Visto dall’interno l’intreccio delle crisi intorno all’Ue è indissolubile. La concreta possibilità d’uscita del Regno Unito e le spinte centrifughe del populismo rischiano di mettere in forse l’irreversibilità dell’Unione. Dall’esterno queste rigidità si attenuano. L’Europa appare meno fragile di quanto temiamo, ma più marginale nel mondo di quanto desideriamo.
L’Australia è un buon barometro del clima mondiale. È al centro di quell’Asia-Pacifico verso cui si sono spostati gli equilibri internazionali.
Enorme isola fra tre oceani (Indiano, Antartico, Pacifico), con un’esigua popolazione (23 milioni) non può fare da sola. Le fortune economiche dipendono dalla Cina; la sicurezza dagli Usa; l’identità è legata all’Europa sia per le radici britanniche che per le grandi correnti immigratorie (irlandese, italiana, greca, balcanica).
L’immagine di un’Europa avviluppata nelle crisi va in dissolvenza. La dissolvenza ridimensiona le crisi, ma stempera anche il ruolo dell’Ue facendone un attore di secondo piano. L’Oscar va invece alla doppia minaccia del terrorismo e del proselitismo fondamentalista; seguono la latitanza di Obama, il protagonismo di Putin e la potenza economica di Pechino. Non è un mondo capovolto, ma certamente diverso da quello visto da Bruxelles.
La «tirannia della distanza» condiziona i rapporti dell’Australia con il resto del mondo. All’illusione che tenga lontani i pericoli, gli australiani hanno sempre anteposto la solidarietà che eviti loro di trovarsi isolati nell’affrontarli. Hanno versato il sangue per l’Europa in due guerre mondiali, sono stati in Vietnam con gli americani, in Afghanistan con la Nato e sono oggi in Iraq nella coalizione contro Isis. E non si sono mai sentiti estranei da quanto avviene in Europa, che sia un disastro naturale o una crisi politica o economica.
Eppure Terry Spence, un veterano dell’informazione di Channel 9 in Australia Occidentale, oggi non ha esitazioni. Scarta debito greco o persino la marcia dei rifugiati attraverso i Balcani. Per l’Australia il campanello d’allarme sono gli attentati di Parigi, i jihadisti che vanno e vengono dalla Siria, la piaga non sanata di Molenbeek in Belgio, le comunità islamiche non integrate nella società europea, soprattutto in quella francese, il proselitismo di seconda generazione. Quest’ultimo, ammette, è problema anche per l’Australia.
Pur involontariamente, un’Europa così vulnerabile al terrorismo ne diventa potenziale esportatore. Quella la principale minaccia. Non preoccupa invece la prospettiva di conflitti militari nel Mar cinese meridionale. L’Australia teme piuttosto di essere «comprata» da Pechino che continua nello shopping di terreni e proprietà australiane, compreso l’investimento strategico del porto di Darwin (accanto a una base americana). Putin non è percepito come una minaccia; per quanto se ne disapprovi la politica, è un personaggio che incontra una sorta di riluttante ammirazione. Il Presidente russo è riuscito ad imporre il proprio marchio prima sull’Ucraina, poi sulla Siria. Le sanzioni non l’hanno fermato e Obama non ha saputo tenergli testa. Solo a denti stretti, invece, trovano riconoscimento meriti del Presidente americano (gestione dell’economia, riforma sanitaria, Iran, Cuba, trattato commerciale transpacifico – Tpp di cui l’Australia è parte).
Il terrorismo incalza ed è un pericolo che gli australiani conoscono bene. Dietro la spiaggia di Bondi, a Sydney, un lungo murale porta i nomi delle giovani vittime della discoteca di Bali nel 2002. Putin ha riportato la Russia al centro della scena internazionale. Obama lascia a desiderare quanto a leadership, ma fra un anno e 19 giorni ci sarà un nuovo Presidente americano. Intanto i rapporti militari fra Washington e Canberra restano «altrettanto stretti quanto quelli all’interno della Nato», secondo un alto funzionario che ha alternato responsabilità diplomatiche e d’intelligence. Il grande assente è l’Europa.
Forse, il risveglio della Forza la rimetterà in gioco. Agli antipodi, a molti, non dispiacerebbe.

Corriere 2.1.16
Angela Merkel ai tedeschi: «I migranti? Un’opportunità»
di Fr. Bas.

BRUXELLES «Accogliere e integrare». L’atteggiamento della Germania verso l’immigrazione non cambia nemmeno nel 2016. Nel tradizionale discorso di fine anno Angela Merkel ha affrontato il problema politico che le ha procurato il maggior numero di critiche in patria: l’aver aperto le porte nel 2015 a un milione di rifugiati. Una scelta politica coraggiosa, che ha rafforzato il suo ruolo di leader europeo ma che in casa le è costata cara, con tensioni all’interno del suo partito e con gli alleati della Csu, e una caduta nei sondaggi a vantaggio delle forze populiste. In marzo si terranno tre elezioni regionali e il movimento di estrema destra anti immigrati «Alternativa per la Germania» è dato in crescita, primo test in vista delle elezioni politiche del 2017. Il discorso in tv alla nazione è stato quindi l’occasione per ribadire e difendere la scelta fatta dalla Germania proprio nel momento in cui alcuni Stati europei come la Polonia, l’Ungheria o i Paesi baltici si rifiutavano con forza di accogliere sul proprio territorio la massa di rifugiati in fuga dalla Siria. La cancelliera Merkel ha ringraziato i tedeschi per «l’ondata di spontanea solidarietà con cui hanno accolto i rifugiati» e ha riaffermato, così come fece allora, che gli immigrati sono «un’opportunità» sul piano economico e sociale. Ha fatto anche un appello all’unità e alla solidarietà nazionale: «È importante che non ci dividiamo né tra le generazioni, né tra chi è qui da molto tempo e chi è un nuovo cittadino». Non ha nascosto che l’accoglienza avrà un costo di «tempo, energia e denaro» ma i tedeschi non dovranno seguire coloro che hanno «freddezza o addirittura odio nel cuore e rivendicano il diritto di essere chiamati tedeschi solo per loro stessi mentre cercano di escludere gli altri». Merkel si è anche rivolta agli immigrati chiedendo loro uno sforzo d’integrazione, dovranno imparare i valori tedeschi, le tradizioni e le leggi, oltre ovviamente alla lingua. Il suo discorso nella versione sul web è stato trasmesso per la prima volta con i sottotitoli in arabo e in inglese per renderlo comprensibile alla maggior parte dei rifugiati. L’impegno tedesco nel 2016 sarà anche di lavorare per ridurre il numero di rifugiati con una forte attività a livello internazionale e rafforzando i confini esterni dell’Europa.

il manifesto 2.1.16
La resistenza di frau Merkel
Germania. Con un discorso sottotitolato in arabo, la cancelliera rivendica la politica di accoglienza tedesca verso i migranti. «Per l’integrazione ci vorrà tempo - dice -, ma rappresenta le fondamenta dela nostra società»
di Sebastiano Canetta

BERLINO Germany, governo da Berlino dei flussi migratori, tradizione applicata al futuro. È il marchio di fabbrica di Angela Merkel, in corsa per il quarto mandato da Kanzlerin federale. Lo ha scandito in diretta dagli schermi di Zdf, la televisione pubblica di Magonza: «È importante non dar seguito a coloro che, con freddezza o addirittura odio nei loro cuori, pretendono l’identità tedesca esclusivamente per sé negandola agli altri».
Un discorso, sottotitolato in arabo e inglese, che conferma la linea politica uscita vincente dal recente congresso Cdu di Karlsruhe. «Sono profondamente convinta: affrontato per il verso giusto anche il grande compito dell’arrivo e dell’integrazione di così tante persone è un’opportunità per il domani. Tutto dipenderà dalla capacità di stare uniti».
Mutti Angela ringrazia i volontari per «l’ondata di spontanea solidarietà con cui hanno accolto i rifugiati» e rivendica lo spirito convincente della riunificazione, lo stesso che ha permesso alla Germania di Helmut Kohl di metabolizzare una sfida altrettanto gigantesca. Il milione di migranti del 2015 ha messo sotto pressione i 16 Land e le autorità locali «ben oltre quanto spettasse ai nostri obblighi». Il capo del governo spiega ai tedeschi quello che ha convinto i delegati del suo partito.
E avverte: «Per l’integrazione ci vorrà tempo, denaro e fatica, senza ricadere negli errori del passato e difendendo il modello di integrazione che rispetta i nostri valori, le tradizioni, le leggi, la lingua e le regole». L’esempio migliore della ricetta democristiana? La nazionale campione del mondo che schiererà agli Europei di giugno in Francia calciatori tedeschi all’anagrafe, ma di origine turca, albanese, ghanese, tunisina, polacca e marocchina.
Nessuna concessione al populismo, ai sovranisti e agli alleati di coalizione. «Sono queste le fondamenta che sorreggono la nostra società, requisiti fondamentali per la convivenza positiva e reciprocamente rispettosa di tutte le persone in Germania. Vale per tutti coloro che vogliono vivere qui. L’immigrazione così comporta un guadagno economico e sociale». Ma è anche «un concetto politico globale» che deve coinvolgere tutti i livelli: nazionale, europeo e internazionale.
Anche in tv Merkel ribadisce l’imperativo categorico «Wir schaffen das – ce la possiamo fare» perché «la Germania è un paese forte». Messaggio forte e chiaro anche per Bruxelles, tanto più che lei nel 2017 punta alla consacrazione politica e storica sulla scia di Vladimir Putin (zar dal 1999) e Recep Erdogan (sultano dal 2003).
Missione impossibile secondo Financial Times che pure aveva scelto proprio Merkel come personaggio dell’anno 2015: «Aprendo le porte dell’Europa ad oltre un milione di rifugiati, per lo più musulmani, Angela Merkel lascia un’eredità permanente quanto quella del suo mentore Kohl, che ha presieduto il processo di riunificazione tedesca e la nascita dell’euro».
Gideon Rachman, capo del desk esteri della prestigiosa testata inglese, prevede al contrario la caduta della cancelliera proprio a causa dell’emergenza profughi: «Al ritmo di migliaia di arrivi al giorno, la pressione diventerà insostenibile fino a rendere ingestibile la situazione». Di qui la previsione di Rachman: Merkel lascerebbe, proprio sulla soglia del nuovo storico mandato.
Fuori dal discorso ufficiale, in realtà, c’è la vera agenda europea della cancelliera. Il «confronto» con il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker sul controllo dei conti pubblici dei 28 paesi membri. La vicenda dei rapporti con la Russia che va al di là del disegno geografico per il gasdotto baltico. E soprattutto la bomba a orologeria del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Ue: per Merkel, l’eventuale Brexit sarebbe ben peggio della scongiurata Grexit.
Nel frattempo, Die Welt contabilizza la spesa per la gestione dei profughi. Nel 2016 è prevista una somma pari a 16,5 miliardi di euro, in base ai bilanci dei responsabili finanziari delle regioni tedesche con l’eccezione di Brema, città-stato che non ha fornito cifre. Uscite più onerose rispetto a quelle del sistema dell’educazione che assorbe15,3 miliardi all’anno.
In parallelo procede spedita la politica dei rimpatri. Le statistiche ufficiali — fornite da Thomas de Maizière, ministro degli interni e «falco» Cdu — registrano fino a novembre 2015 l’esecuzione di 18.363 procedure di espulsione dalla Germania. In tutto il 2014 i rimpatri erano stati 10.844. In cima alla classifica delle domande dei richiedenti asilo respinte la Baviera di Horst Seehofer, padre-padrone della Csu: oltre 3.600 rimpatriati rispetto al migliaio di dodici mesi prima. Soltanto in Turingia l’unico fenomeno in controtendenza con 152 rimpatri rispetto ai precedenti 234.
E da oggi si apre il capitolo, anche politico, della gestione dei minori non accompagnati: ora saranno distribuiti in tutti i Land e non più affidati a chi li aveva registrati al momento del loro ingresso in Germania.

Corriere 2.1.16
I fantasmi dell’intolleranza nell’Europa dell’est
di Antonio Armellini

Può apparire strano che Paesi liberatisi da dittature che ne hanno represso a lungo la libertà, si rifiutino di ammettere che l’accoglienza è un dovere di civiltà dell’Ue tutta intera e siano intenti a rimpiazzare i vecchi muri con nuovi steccati, per tenere fuori un’umanità che fugge dalla guerra e da regimi che si fanno beffe della dignità e del diritto. Strano forse, ma è la realtà di buona parte di quella che un tempo si chiamava Europa dell’Est. Sessant’anni di un processo di integrazione difficile hanno dato a una parte dell’Europa — la nostra — la possibilità di fare i conti con il proprio passato dopo due devastanti guerre mondiali, di elaborare il pesante bagaglio delle dittature e di darsi una struttura democratica che garantisse pace e stabilità. Nulla di ciò è accaduto nell’ex «comunità socialista».
La dominazione sovietica h a annegato per cinquant’anni le identità nazionali in un internazionalismo posticcio, impedendo una autonoma riflessione politica e isolando il dibattito da ciò che si andava sviluppando criticamente altrove. Caduto il diaframma con la fine dell’Urss, tutto è sembrato ripartire dalla situazione esistente nell’immediato dopoguerra, se non in molti casi prima. L’adesione all’Ue è stata perseguita nella sua dimensione di mercato e di garanzia di sicurezza, mentre l’impegno per l’unione politica è rimasto al margine. Si trattava di tornare ad essere se stessi, prima di pensare ad ipotetiche cessioni di sovranità. Geografia e storia hanno fatto sì che identità nazionali forti e confini statuali deboli si siano spesso incrociati, con la risultante che in nessun’altra parte d’Europa si può trovare un simile intreccio di minoranze, viste quasi sempre come un elemento «antinazionale» dal quale difendersi. Intolleranze e xenofobie hanno radici profonde, cui si aggiungono pulsioni antisemite che stupiscono in Paesi che più di altri hanno patito la Shoah, e il rifiuto venato di razzismo nei confronti dei migranti non appare destinato ad essere un fenomeno passeggero. La crisi economica ha gettato un’ombra sulla scelta europea e fatto tramontare il sogno di un rapido avvicinamento ai livelli di vita dell’Occidente, dando nuova forza a vecchi fantasmi non solo nell’Ungheria di Orbán e nella Polonia di Duda ma anche, in forme solo apparentemente meno marcate, in quasi tutto il resto della regione .
La Le Pen e Salvini, gli antieuropeisti olandesi e scandinavi, hanno matrici politiche e radici storiche di tutt’altro tipo, ma attenzione ai collegamenti. L’affievolirsi del collante del sentimento europeo e l’insicurezza causata anche da noi da una crisi economica che stenta a morire, alimentano movimenti basati sulla paura del futuro e il rifiuto del diverso, i quali hanno motivazioni se possibile ancora più implausibili ma che, per quanto strumentali, devono preoccupare. Allargandosi verso Est l’Ue aveva ritenuto che l’attrazione di un modello vincente di libertà e tolleranza avrebbe permesso di unificare il continente sulla base di principi condivisi. Abbiamo probabilmente avuto troppa fretta e sottovalutato una divisione che la fine delle ideologie aveva cancellato solo in parte. Ciò detto, non si tratta di creare nuovi e controproducenti cordoni sanitari: la Polonia è stata a lungo un membro costruttivo dell’ Ue e deve poter tornare ad esserlo, così come l’Ungheria. In una Europa che sarà chiamata a muoversi sempre più lungo linee autonome e non necessariamente convergenti, vi potrà essere spazio per processi più lenti, a condizione che questi non mettano in pericolo il procedere degli altri. Nel prendere atto del ritardo di alcuni, dovremo ribadire che l’Unione Europea ha una caratterizzazione economica e politica che va salvaguardata, ma è in primo luogo portatrice di valori di civiltà che ne rappresentano l’irrinunciabile essenza comune. Contestarli vorrà dire chiamarsi fuori, perché l’Europa potrà essere anche non soltanto cristiana, ma se rinunciasse ad essere tollerante avrebbe perso la ragione della sua esistenza .

Repubblica 2.1.16
Polonia, tv in mano al governo i direttori si dimettono in massa
La protesta. contro le norme sui media l’inno Ue in radio

VARSAVIA. In Polonia si sono dimessi i direttori dei principali canali della tv pubblica
Tvp per protestare contro la controversa legge sui media voluta dal partito di destra al governo del leader Jaroslaw Kaczynski e varata l’ultimo giorno dell’anno dal parlamento di Varsavia. Sempre in segno di disaccordo, e per «avvertire tutti gli ascoltatori della minaccia per la libertà di parola e del pluralismo», il principale programma della radio pubblica polacca Polskie Radio da ieri trasmette ogni ora l’inno europeo (l’Inno alla gioia tratto dalla nona sinfonia di Beethoven) alternata con quello nazionale, La Mazurka di Dabrowski.
La contestata legge, che richiama le riforme introdotte in Ungheria dal premier Victor Orbán, prevede l’immediata sospensione di tutti i componenti delle direzioni nonché dei consigli d’amministrazione di media pubblici polacchi e conferisce al ministro del Tesoro la facoltà di nominare i nuovi responsabili senza il dovere di scegliergli attraverso i concorsi, che finora venivano organizzati dal Consiglio nazionale della radio e televisione, un organo costituzionale.
Si dà per scontato che la legge voluta dal partito Diritto e giustizia (Pis) di Kaczynski verrà presto firmata dal presidente Andrzej Duda. Secondo analisti non-governativi si tratta di un tentativo di mettere i media pubblici al servizio dell’unico partito al governo. «È un ritorno al modello di media ideologizzati, che funzionava nella Polonia prima della svolta democratica del 1989», ha sottolineato Dorota Piontek dell’Università di Poznan. Contro questi cambiamenti hanno già espresso perplessità diversi enti polacchi e internazionali temendo che in Polonia vengano messi in pericolo diritti fondamentali: dall’Associazione europea dei giornalisti (Aej) al primo vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans.
Ma per Varsavia tutto è in regola. Secondo il viceministro della Cultura e responsabile per media, Krzysztof Czabanski, per ora si tratta di un primo passo della riforma cioè vanno cambiati i “quadri” dirigenziali. Fra qualche mese, ha ricordato, sarà modificato anche lo status legale di media polacchi che da “pubblici” diventeranno “nazionali” e come tali godranno anche di un nuovo sistema di finanziamento. Intanto però si temono “purghe” fra i giornalisti non riconosciuti come “fedeli” dal Pis.

Repubblica 2.1.16
Il libro proibito diventa un best seller
Borderlife è la storia d’amore di una ragazza ebrea con un pittore palestinese

TEL AVIV. Un’immaginaria storia di amore fra un’israeliana e un palestinese ha innescato una polemica furibonda fra i vertici del ministero dell’Istruzione ed esponenti della cultura laica israeliana fra cui gli scrittori più rinomati come Amos Oz, e A.B. Yehoshua. La vicenda si è subito imposta sulle prime pagine dei giornali, mentre le vendite del libro sono aumentate. Ad accendere la miccia è stata la direzione pedagogica del ministero che, nell’esaminare una lista preliminare dei libri consigliati ai liceali, ha trovato opportuno depennare Gader Haya (Borderlife) della scrittrice Dorit Rabinyan.
In una prima spiegazione fornita ad Haaretz, il ministero ha giustificato la decisione spiegando che la lettura di quel libro non pare appropriata per adolescenti israeliani perché il suo contenuto potrebbe incoraggiare “l’assimilazione”, ossia renderli più aperti a matrimoni con non-ebrei. In seguito il ministro Bennett ha fornito una spiegazione aggiuntiva, sostenendo che nel libro della Rabinyan i soldati israeliani sono rappresentati in maniera fortemente denigratoria. Dunque, ha aggiunto, non è il caso che quel testo venga insegnato e approfondito nei licei pubblici.
Il romanzo narra l’amore fra una ricercatrice israeliana, originaria di Tel Aviv, e un pittore palestinese, di Ramallah, in una New York effervescente, fra mostre d’arte e locali notturni. Lei ha servito nell’esercito israeliano, lui ha scontato quattro mesi di carcere in Israele per aver dipinto bandiere palestinesi nelle strade. «Per divertirsi - ricorda - i miei guardiani mi umiliavano facendomi cantare una popolare canzone in ebraico». Eppure i due presto scoprono di essere molto simili. Poi i due protagonisti torneranno separatamente nella propria società di origine. Di fronte all’imposizione del ministero dell’Istruzione, i grandi nomi della letteratura israeliana si sono mobilitati per protestare. Amos Oz ha notato polemicamente che anche personaggi biblici importanti si scelsero donne non ebree. Altri rilevano che peraltro in Israele i matrimoni fra ebrei e non sono rari. Nel frattempo chi beneficia della polemica è la stessa Rabinyan il cui libro è andato a ruba fino al tutto esaurito nelle librerie. Di conseguenza nei prossimi giorni sarà ristampato. Fra gli altri scrittori è ora palpabile l’invidia: «Magari - scrivono alcuni su Facebook - il ministero sconsigliasse ora anche i miei libri!».

Il Fatto 2.1.16
“Spese allegre” di Netanyahu: la moglie prova a difendersi

SARA NETANYAHU, la moglie del premier israeliano, il 31 dicembre, si è presentata alla polizia per fornire la propria versione su una serie di “buchi” registrati dal Controllore di Stato nella gestione dei fondi della residenza ufficiale del primo ministro a Gerusalemme. Secondo la stampa, l’onnipresente e aggressiva seconda moglie di Benjamin Netanyahu, è sospettata di aver fatto ricorso a fondi pubblici per acquistare merci e mobili per la residenza privata della famiglia sul litorale mediterraneo nei pressi di Cesarea. Non è la prima volta che la first lady, famosa per la sua passione per il lusso sfrenato e per l’avarizia patologica, finisce dagli inquirenti. Dai chili di gelato pagati a peso d’oro con i soldi dei contribuenti, al maltrattamento e sfruttamento dei collaboratori domestici. Lo scorso anno, la sempre imbellettata e ben pasciuta Sara, sorella di uno dei leader dei coloni che occupano illegalmente la Cisgiordania, è stata denunciata per non aver pagato quanto promesso a un autista del marito che lavorava di fatto per lei. Anni prima era stata accusata da una domestica di averla sottoposta per anni ad angherie e soprusi.

Repubblica 2.1.16
Dennis Ross.
L’ex inviato Usa in Medio Oriente: “Stop alle colonie. E i palestinesi rinuncino alla violenza”
“Senza i due Stati c’è solo la guerra L’Europa aiuti il processo di pace”
di Pietro Del Re

“NO, NON credo che si possa chiamare terza Intifada l’ultima rivolta palestinese perché oggi gli attacchi contro gli ebrei sono gesti individuali, e non coordinati da un’organizzazione politica come accadeva in passato», dice Dennis Ross, 66 anni, diplomatico, saggista e per tre decenni inviato in Medio Oriente per conto delle amministrazioni Bush, Clinton e Obama nel tentativo di costruire una pace duratura tra israeliani e palestinesi. Su quel conflitto Ross ha appena pubblicato “Doomed to succeed”, destinati a farcela, in cui analizza le relazioni tra Washington e Tel Aviv da Truman a Obama. «Certo, non si può dire che oggi ci siano buoni rapporti tra lo Stato ebraico e la Casa Bianca ma Netanyahu e Obama fanno di tutto per evitare di rompere il dialogo: il primo perché amministra un Paese sotto attacco, l’altro perché è consapevole che Israele è il solo Paese democratico della regione, dove ci sono la separazione dei poteri, la libertà di stampa e una magistratura indipendente ».
Che cosa sta succedendo in Israele, signor Ross? Da dove nasce questa Intifada dei coltelli?
«Se dietro le prime due Intifada c’era una leadership politica, stavolta sono attacchi tuttalpiù pilotati dai social media, che incitano i giovani alla violenza raccontando spesso tante bugie, quali la volontà israeliana di distruggere la moschea di Al Aqsa ».
Non crede che gli attacchi contro gli ebrei siano anche scatenati dalla disperazione che affligge molti giovani palestinesi?
«Certo, e lo è anche dalla loro frustrazione e dalla loro rabbia nei confronti degli israeliani e della loro stessa classe dirigente palestinese, che è estremamente corrotta. Ma nulla può giustificare la violenza contro i civili».
Come giudica la reazione del premier Netanyahu?
«Credo che con sua politica sulle colonie non faccia che peggiorare le cose, gettando benzina sul fuoco. E’ proprio il contrario che andrebbe fatto. Quanto alle misure prese per difendere i cittadini israeliani contro le aggressioni palestinesi mi sembrano necessarie. Gli israeliani hanno il diritto di vivere senza il terrore di essere uccisi quando aspettano l’autobus o accompagnano i loro figli a scuola».
Pensa ancora che per risolvere la crisi israelo-palestinese quella dei due Stati sia la soluzione migliore?
«Al momento, non vedo alternative poiché ci sono due popoli e due nazioni divise su due territori. L’esistenza di un solo Stato, e cioè la soluzione odierna, porta solo alla guerra».
Vent’anni dopo l’assassinio del premier Yitzhak Rabin si direbbe che in Israele nessuno voglia più pronunciare la parola pace. Si sente soltanto parlare di sicurezza.
«La paura e i problemi legati alla sicurezza sono perfettamente comprensibili, visto quanto sta accadendo da qualche mese. In questo scenario è difficile che gli israeliani vedano la pace a portata di mano. Ma credo che molti di loro siano perfettamente consapevoli dei rischi che corre il Paese se non c’è un cambio di politica. Dallo status quo non ci si può aspettare nulla di buono ».
Quale ruolo può svolgere la comunità internazionale?
«Deve anzitutto far capire che non c’è spazio per la violenza, e deve poi riportare al tavolo delle trattative le parti per giungere alla creazione di due Stati. I palestinesi devono riconoscere la piena legittimità del popolo ebreo a risiedere su quella terra e gli israeliani devono concedere ai palestinese la nascita di un loro Stato. Quanto agli europei, dovrebbe spettare a loro il ruolo di aiutare i palestinesi a costruire le future istituzioni del loro nuovo Stato».
Da molti, troppi anni tutti processi di pace in Palestina sono falliti. Perché?
«Perché evidentemente non si è ancora trovata la soluzione che convenga a entrambe le parti. Tuttavia le ultime tre proposte per il raggiungimento della pace, nel 2000, 2008 e 2014, sono state tutte rifiutate dalla comunità palestinese, compresa quella che avrebbe previsto la creazione di un loro Stato».
Come giudica la politica americana in Siria? Non crede che Obama sarebbe dovuto intervenire con molto anticipo per evitare la nascita e l’espansione dello Stato Islamico?
«Può darsi. Ma era difficile per Obama inviare truppe in Siria poiché le aveva appena ritirate dal vicino Iraq. Ciò che Washington avrebbe invece dovuto già costruire da tempo in Siria è un santuario per i rifugiati, una no-fly zone per i civili in fuga dalle zone dove di combatte. Ma adesso credo che Obama si senta molto più coinvolto di prima. Perché la minaccia terroristica s’è fatta davvero molto pesante».

Corriere 2.1.16
Perché a Erdogan piace la Germania di Hitler
di Francesco Battistini

Lui è tornato. Non c’è bisogno d’aspettare la traduzione turca di Timur Vermes e del suo fantaromanzo ( Lui è tornato ), dove s’immagina un Adolf Hitler di ritorno fra noi contemporanei: di rientro dall’Arabia Saudita, dov’era andato in visita, ha provveduto il presidente Recep Tayyip Erdogan a spiegarci che se oggi in Turchia si facesse come quando c’era Lui, caro lei, le cose andrebbero molto meglio.
Al Sultano piace il Führer. E non se ne vergogna, anzi: appena scende dall’aereo gli chiedono della Costituzione che vorrebbe riformare e della sua idea di «Stato unitario»? La Germania è stato un esempio della storia, risponde lui (minuscolo), uno dei tanti in cui il sistema presidenziale ha funzionato. E com’è capitato a tanti maiuscoli della storia (perfino il giovane JFK rimase affascinato dalle camicie brune) o a un Bernie Ecclestone qualunque, aggiunge: «Quando guardate alla Germania di Hitler, lo vedete».
Naturalmente, l’hanno travisato. Mal interpretato. Decontestualizzato. E subito il portavoce ha corretto, ma che avete capito, il Sultano intendeva dire che «ci sono buoni e cattivi sistemi presidenziali, l’importante è bilanciare poteri e controlli, e comunque la Germania fu un disastro».
Però il titolo è su quel paragone. E sulla Costituzione turca che Erdogan da tempo vorrebbe trasformare: attribuendo più poteri al presidente (cioè a lui, per ora in minuscolo) e un po’ meno al premier (che era sempre lui, in minuscolo, fino a due anni fa).
Le urne hanno già detto che questo superpotere non può attribuirselo da solo. Ma lui (minuscolo) non molla. S’è fatto un palazzo da autocrate, in piazza Taksim gli svasticano i baffetti autoritari, è già fortissimo nel negare antichi genocidi e nel precipitare l’opposizione nel buio di notti da cristalli. Prima o poi, ci crede, ce la farà a essere un Lui .

Repubblica 2.1.16
Ayaan Hirsi Ali
La scrittrice somalo-olandese: “I terroristi sono protetti dall’omertà. Viviamo uno scontro di civiltà, che iniziò nel 1989 con la fatwa di Khomeini contro Rushdie”
“L’Islam radicale è come la mafia non bastano le bombe la battaglia è culturale”
intervista di Antonello Guerrera

L’ISLAM radicale in Occidente mi ricorda la mafia in Italia. Oltre agli attentati, c’è un’inscalfibile omertà di fondo, anche nelle comunità non estremiste ma contigue al jihadismo. Il terrorismo islamico deve essere combattuto come la mafia. Non bastano le bombe. Serve una battaglia culturale, ma autentica. Bisogna imporre i valori di libertà e diritti umani, che sono superiori a qualsiasi altro. Perché oggi viviamo uno scontro di civiltà. Prima però pensavo che l’Islam fosse irriformabile. Oggi non la penso più così. Una speranza ce l’ho».
Ayaan Hirsi Ali non rinuncia mai alla sua nettezza retorica e intellettuale, che le ha creato tanti sostenitori, critici e nemici. La 46enne attivista e scrittrice somalo- olandese, che ha rinnegato la fede musulmana in gioventù perché secondo lei «inconciliabile con la società contemporanea », oggi vive in America ancora sotto protezione, 24 ore su 24. Questo dopo le minacce ricevute dagli estremisti per la sceneggiatura di Submission, il film che denunciò la “sottomissione” delle donne nell’Islam e che nel 2004 innescò l’assassinio del regista olandese Theo Van Gogh, giustiziato da un jihadista nel centro di Amsterdam. Oggi, non lontano da lì, c’è un nuovo spauracchio: Molenbeek, il sobborgo di Bruxelles da dove sono partiti i terroristi che hanno macellato Parigi e il cuore dell’Europa. Negli ultimi giorni, sempre nella “capitale” dell’Ue e a Monaco, sono stati sventati attentati previsti per Capodanno. Massacri e allarmi che per Hirsi Ali «non sono stati di certo una sorpresa».
Perché?
«Perché il numero di estremisti islamici nel mondo sta crescendo, sempre di più. Il loro obiettivo è l’Europa, da sempre. E nelle nostre periferie trovano porose comunità dove si possono infiltrare. E nascondere».
Allude a una silenziosa complicità dei musulmani europei?
«No. Buona parte delle comunità islamiche non simpatizza affatto con gli estremisti. Ma in esse ci sono componenti sociali e culturali che possono facilitare la penetrazione dei jihadisti e della loro perversa ideologia».
Per esempio?
«Prenda Salah Abdeslam, il terrorista del Bataclan tuttora latitante. Dopo la strage, lo ha raggiunto in Francia un amico dal Belgio, che si è giustificato dicendo che non sapeva niente. Lo stesso un fratello di Salah. Entrambi sono stati rilasciati. Mi sembra impossibile che queste persone non avessero mai avuto in vita il minimo sospetto su Salah per denunciarlo alla polizia».
Magari davvero non c’entravano nulla...
«Io non la penso così. Purtroppo, in una parte della comunità islamica in Europa, c’è ancora tanta omertà, che come colla limita denunce e segnalazioni alle autorità. È un comportamento di tipo tribale, simile a quello della mafia in Italia, che si lega ai concetti di tradizione, famiglia, identità religiosa. Ibn Khaldum, il grande filosofo arabo del XIV secolo, chiamava asabiyya questa fedeltà cieca, di sangue, impermeabile alla società esterna. Anche per questo credo poco nelle “radicalizzazioni sul web”. Ogni estremismo ha un contesto reale favorevole al jihadismo che certe moschee o famiglie aizzano».
Però sempre più musulmani, nelle piazze e in Internet, esprimono la loro contrarietà ai fondamentalisti.
«È vero, dobbiamo ripartire da loro, “i riformatori”. Ho cambiato idea nel tempo. L’Islam può adattarsi alla nostra società. Ma ci vuole pazienza».
E invece come si combattono l’omertà vischiosa e i fondamentalismi? Bastano le bombe in Siria ed Iraq?
«Assolutamente no. L’estremismo si combatte con le idee, pianificando una battaglia culturale, vera e potentissima. Quando i Paesi Bassi mi hanno accolto come rifugiata, mi hanno dato tutto: cibo, soldi, una casa. Ma non la cosa più importante».
Quale?
«L’educazione ai diritti fondamentali dell’uomo, ai valori della società olandese e occidentale: la libertà, la tolleranza, la democrazia, il rispetto delle diversità. Purtroppo europei e americani li danno per scontati, non li trasmettono più, pensano che la superiorità militare e di intelligence sia sufficiente per resistere. Si sbagliano. L’Islam fondamentalista ha una propaganda ricca e poderosa. Pensiamo solo alla dawah dell’Arabia Saudita e cioè ai miliardi che investe nella “missione” di diffondere in tutto il mondo la sua ideologia wahabita (ramo ultra-radicale dell’Islam sunnita, ndr). E noi cosa facciamo? Quando i nostri leader vanno a Riad neanche si azzardano a pronunciare le parole “libertà” o “diritti”. Invece dovremmo scandirle a voce ferma e alta, in nome dei valori universali dell’uomo, che sono superiori a qualsiasi altro. Non dobbiamo avere paura di invocarli, questi valori».
Intanto i movimenti di estrema destra, che inneggiano alla lotta all’Islam, spopolano in tutta Europa. Secondo lei è in atto uno scontro di civiltà?
«Certo. Dal 1989, dalla fatwa assassina dell’Iran di Khomeini contro lo scrittore Salman Rushdie. Ma noi non ce ne siamo accorti. Questo purtroppo ha un’influenza anche sul multiculturalismo, che per me muore se diventa un multietnicismo che al suo interno tollera la sharam, e cioè l’umiliazione delle donne musulmane, oltre alla discriminazione dei gay e l’abiura di libertà, anche di espressione, che certe culture e religioni negano. Se cediamo su questi diritti fondamentali, lo scontro di civiltà in Occidente sarà sempre più devastante».

Il Sole 2.1.16
Lo spartiacque tra Islam e radicalismo jihadista
di Alberto Negri

La tomba di Ibn Tamiyyah, il teologo sunnita morto nel 14° secolo, ispiratore di gran parte dei movimenti integralisti contemporanei, si trova a Damasco. È singolare ma significativo che nella Siria di oggi il suo sepolcro sia ridotto a una lapide sbreccata, quasi illeggibile tra l'erba alta e gli sterpi. Questo voluto stato di abbandono, agli occhi dei sunniti, è un simbolo evidente dell’empietà del regime di Damasco, una delle tante ragioni profonde per cui i jihadisti anti-Assad vogliono eliminare il clan degli alauiti.
È qui che bisogna venire per rintracciare le radici del jihadismo contemporaneo, diventata un’ideologia globale dal mondo musulmano al cuore dell’Europa.
La fine dell’Impero ottomano e la dissoluzione dopo la prima guerra mondiale del Califfato da parte di Mustafa Kemal Ataturk aprono una crisi nel mondo musulmano: la prima risposta islamica è la creazione del 1928 in Egitto da parte di Hassan al Banna dei Fratelli Musulmani. L’Islam, dice Al Banna, è un ordine superiore e totalizzante che deve regnare incontrastato sulle società musulmane perché è al tempo stesso «dogma e culto, patria e nazionalità, religione e Stato, spiritualità e azione, Corano e spada».
L’obiettivo di Al Banna, di cui incontrai al Cairo l’anzianissimo fratello prima della rivolta contro Mubarak nel 2011, è imporre la supremazia della sharia, la legge islamica, con un processo di integrazione tra gli stati islamici che deve sfociare nell’abolizione delle frontiere e nella proclamazione del Califfato. Tracciata la strada il movimento degli Ikwan, i Fratelli, incontra però mille difficoltà tra cui la repressione di Gamal Abdel Nasser che giustizia uno degli intellettuali della confraternita, Sayed Qotb.
Qotb incitava i musulmani militanti a separarsi dalle società empie, a liberarsi del materialismo occidentale e creare la loro società per poi lanciarsi alla conquista del mondo con un Jihad integrale.
Qui sono le basi del jihadismo contemporaneo. Ma militanti e intellettuali jihadisti non sono ulema, cioè dei religiosi, e hanno bisogno di una legittimazione: per questo ricorrono ai riferimenti classici e in particolare agli scritti di Ibn Taymiyya, giurista e teologo (1263-1328).
Taymiyya viene citato a piene mani nei comunicati dei gruppi jihadisti per giustificare la guerra santa agli sciiti e agli alauiti, oltre che naturalmente a tutti gli altri miscredenti. Tutto questo però non sarebbe bastato a fare del jihadismo un’ideologia vincente se non ci fosse stata l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979.
La vittoria dei mujaheddin sull’Armata Rossa è resa possibile dai petrodollari dell’Arabia Saudita che impone l’ortodossia del wahabismo, l’ideologia fondante del regno dei Saud. Il suo fondatore, Mohammed Ibn Abd al Wahab (1703-1792), era un predicatore intransigente che considerava l’unica vera religione quella del profeta Maometto e degli antenati, gli “al salaf al salih”, da cui viene il temine Salafismo.
Per Wahab l’unica salvezza è il ritorno all’unicità divina, al Tawhid, eponimo dei movimenti jihadisti.
Tutti quelli che non aderiscono a questo dogma sono definiti ipocriti, eretici o miscredenti: vengono quindi proibite dottrine e pratiche del sufismo, dal culto dei santi ai pellegrinaggi non canonici. Il vero monoteista deve uniformarsi alla sharia che deve essere applicata alla lettera, in particolare le punizioni corporali.
È questa l’ideologia di Al Qaeda trasferita allo Stato Islamico di Abu Omar al Baghdadi che, a differenza dell’organizzazione fondata da Osama bin Laden, è riuscita a conquistare un ampio territorio tra Iraq e Siria dove il 29 giugno 2014 ha proclamato a Mosul il Califfato, simbolo politico e religioso dell’epoca d’oro dell’Islam.
Forti di questa linea ideologica, dal progetto di Al Banna a quello di Qotb, dei riferimenti ai teologi medioevali all’ortodossia radicale wahabita, i jihadisti non potevano tollerare sciiti, alauiti, minoranze di ogni genere o anche i regimi sunniti tiepidamente religiosi o addirittura laici e secolaristi. Questa è la battaglia dentro l’islam che ci riguarda da vicino.

Il Sole 2.1.16
Perché solo l’istruzione potrà battere il terrorismo
Chiunque visiti il Medio Oriente non può fare a meno di notare l'enorme abisso tra le aspirazioni educative, imprenditoriali e occupazionali dei giovani della regione e la dura realtà che priva molti di loro di un futuro positivo.
Infatti, metà della popolazione giovanile tra i 18 e i 25 anni che vive nel Medio Oriente è o disoccupata o sottooccupata.
La crisi globale dei rifugiati sta aggravando questa situazione con lo spostamento di circa 30 milioni di bambini, di cui sei milioni solo dalla Siria, pochissimi dei quali faranno ritorno a casa in età scolare.
Continua pagina 16 L’autore, già premier del Regno Unito, è inviato speciale dell’Onu
per l’educazione
di Gordon Brown

Continua da pagina 1 Non è quindi sorprendente che il gruppo noto nella regione come Daesh (Stato islamico) crede di aver trovato terreno fertile per reclutare in questa vasta popolazione di giovani insoddisfatti e che non possiedono nulla.
I propagandisti di Daesh stanno abusando dei media sociali nello stesso modo in cui i loro predecessori e contemporanei estremisti hanno spesso abusato delle moschee, ovvero come forum per la radicalizzazione. Il gruppo posta continuamente contenuti che sfidano la coesistenza dell’Islam con l’Occidente ed esorta i giovani alla jihad.
I video estremamente violenti prodotti da Daesh lanciano degli appelli scioccanti. Ma ciò che più attira in realtà i giovani insoddisfatti è l’invito a fare parte di qualcosa che sembra più grande di loro stessi e delle società in cui vivono. Shiraz Maher del Centro internazionale di studio per la radicalizzazione (ICSR) presso il King’s College di Londra individua un sentimento comune che unisce chi viene reclutato: «giusta indignazione, spregio, un senso di persecuzione ed il rifiuto a conformarsi». Come indica un recente rapporto della Quilliam Foundation, Daesh gioca sul desiderio giovanile di essere parte di qualcosa che conta. È l’appello utopico dell’organizzazione che attira la maggior parte dei nuovi reclutati.
Alla luce di ciò, solo pochi non sarebbero d’accordo sul fatto che ci troviamo di fronte ad una battaglia generazionale sia a livello sentimentale che intellettuale che non può essere sconfitta solo dai mezzi militari. L’hard power può ovviamente eliminare i leader hard power di Daesh, ma avremo bisogno di ben di più di questi mezzi per convincere circa 200 milioni di giovani musulmani che l’estremismo rappresenta, letteralmente, un vicolo cieco.
Ci sono molti esempi di operazioni nascoste volte a contrastare il terrorismo nel subcontinente indiano e nel Medio Oriente, tra cui riviste per bambini in Pakistan, video per i teenager nel Nord Africa, emittenti radio nel Medio Oriente e libri e pubblicazioni contro Al Qaeda. Questi strumenti possono aiutare a fare venire fuori la verità sulla vita con Daesh (ovvero brutale, corrotta e caratterizzata da epurazioni interne) in molti modi tra cui attirare l’attenzione sulle defezioni. Come indica infatti un rapporto del 2014, «[la stessa esistenza di defezioni] distrugge l’immagine di unità e determinazione che [il gruppo] cerca di trasmettere».
Ma dobbiamo essere più ambiziosi se vogliamo vincere il conflitto delle idee, sostenendo lo spazio culturale che Daesh chiama “la zona grigia” e che aspira a distruggere. È uno spazio in cui i musulmani ed i non musulmani possono coesistere, scoprire valori condivisi e collaborare. Peter Neumann, direttore dell’ICSR, ha proposto l’idea di una gara su YouTube tra video che spieghino gli aspetti fallimentari di Daesh. «Riceviamo 5.000 video in tempi record» ha detto Neumann. «Quattromila sono di solito spazzatura, ma 1.000 di questi video sono efficaci; quindi 1.000 video contro la propaganda [di Daesh]».
Tuttavia, lo strumento migliore di lungo termine per contrastare l’estremismo è l’istruzione. A Giaffa in Israele una scuola gestita dalla Chiesa di Scozia insegna le virtù della tolleranza ai bambini musulmani, ebrei e cristiani. In tutto il Libano un programma scolastico comune che promuove la diversità religiosa, compreso «il rifiuto di qualsiasi forma di radicalismo e di isolamento settario o religioso», viene insegnato ai bambini sunniti, sciiti e cristani sin dai nove anni. Il paese ha inoltre introdotto dei doppi turni nel suo sistema scolastico per garantire il posto a circa 200.000 bambini rifugiati siriani.
Se il Libano, che vive un contesto turbolento ed è afflitto da violenze settarie e divisioni religiose, è in grado di promuovere la coesistenza e di garantire ai rifugiati siriani la possibilità di studiare, non c’è alcuna ragione per cui altri paesi nella regione non dovrebbero seguire lo stesso esempio.
La scelta non potrebbe essere più chiara. Possiamo stare fermi e guardare una nuova generazione di giovani musulmani esperti del web essere sommersi da false dichiarazioni sull’impossibilità di coesistenza tra l’Islam ed i valori occidentali. Oppure possiamo riconoscere che i giovani del Medio Oriente ed il resto del mondo musulmano condividono le aspirazioni di tutti i giovani del mondo.
Tutte le prove indicano che i giovani della regione vogliono istruzione, occupazione e la possibilità di sfruttare al meglio il proprio talento. Il nostro proposito per il 2016 dovrebbe essere quello di rendere tutto questo una realtà.
(Traduzione di Marzia Pecorari)
Gordon Brown, già premier del Regno Unito,
è inviato speciale delle Nazioni Unite per l’educazione

Repubblica 2.1.16
Saul Perlmutter, premiato per la Fisica nel 2011
“La formula magica della scienza è l’errore”
intervista di Piergiorgio Odifreddi

“Bisogna stare attenti a non sacrificare del tutto le proprie emozioni sull’altare della razionalità”
“Il mio approccio è probabilistico, non deterministico lo scopo è trovare soluzioni il più possibile affidabili”
Troppi affrontano i problemi con arroganza pensando di avere risposte ancora prima di discuterne
È un’impresa sociale perché nessuno è un esperto in ogni campo. E deve coinvolgere anche il pensiero umanista

Parla Saul Perlmutter, premiato per la Fisica nel 2011: “La verità nasce solo dal confronto”
Saul Perlmutter ha vinto il premio Nobel per la fisica nel 2011 per aver scoperto che le galassie si allontanano fra loro a velocità crescente, e l’universo si espande dunque in maniera accelerata. È stata così confermata un’intuizione di Albert Einstein del 1917, sulla quale il grande fisico aveva avuto in seguito dei ripensamenti, arrivando a considerarla il più grande errore scientifico della sua vita. L’americano Perlmutter, classe 1959, ha dimostrato che il vero errore di Einstein era stato l’aver creduto di essersi sbagliato. All’ultimo meeting dei premi Nobel, a Lindau, la sua conferenza ha però riguardato problemi più generali, come il valore didattico ed educativo del metodo scientifico.
Cosa può insegnare questo metodo all’uomo comune?
«Viviamo in un periodo in cui abbiamo grosse difficoltà a comunicare fra noi per risolvere problemi politici, sociali e tecnici in maniera costruttiva. Nel mondo intero c’è ormai un atteggiamento diffuso ad affrontare questi problemi con rabbia e arroganza, e a pensare di essere in possesso delle risposte prima ancora del confronto. Si pensa che questo sia il modo corretto di affrontare le cose, ma a me sembra che da secoli la scienza ci abbia insegnato una lezione diversa: abbiamo imparato che non solo è molto facile, ma è addirittura probabile che in una discussione si parta con idee sbagliate. A volte facciamo errori globali nella comprensione del mondo fisico e della società umana. Altre volte gli errori sono locali, ad esempio riguardo all’accuratezza dei dati in nostro possesso. Abbiamo cioè imparato che ci sono molti modi in cui possiamo sbagliare, e molti modi in cui possiamo migliorare».
Questo presuppone che si possa effetti-vamente trovare la verità. Cosa che molti invece negano.
«Sicuramente gli scienziati pensano che ci siano molti aspetti del mondo per i quali si possa parlare di verità. Nel senso che il mondo si comporta nel modo in cui si comporta, indipendentemente dal modo in cui noi pensiamo. C’è una realtà oggettiva, anche se noi spesso possiamo soltanto avvicinarci. Il che è comunque sempre meglio che alzare le mani e arrendersi all’idea che non si possa sapere niente».
Anche nel campo umano?
«Certo. Comprese materie complesse, dall’economia al clima al comportamento. Bisogna affrontare queste cose molto umilmente, sapendo che agli inizi si sbaglierà, ma poi si arriverà a far meglio. E il modo è tentare di dare alcune spiegazioni, vedere se ci sono evidenze che le confermano o le smentiscono, correggersi, riprovare a fare un po’ meglio, e così via».
È un approccio più probabilistico che deterministico.
«Assolutamente sì. Bisogna assegnare un grado di affidabilità alle soluzioni, proporzionale alla cura con cui si è considerata la possibilità di sbagliare. E bisogna anche accettare di affidarsi agli esperti, perché per quanto ciascuno di noi possa esserlo nel suo campo, non lo sarà in altri. Gli specialisti non hanno abbastanza larghezza di vedute, e i generalisti non vanno abbastanza in profondità. La conoscenza è un’impresa sociale, e dobbiamo lavorare tutti insieme».
Gli umanisti, però, spesso temono la scienza e il suo potere.
«Proprio per questo è importante includere tutti nel processo. Bisogna capire che questo metodo di lavoro non funziona solo per la scienza, ma per qualunque aspetto della vita. Più gente lo conosce e lo usa, e più gente capirà che gli scienziati non sono dei preti che praticano rituali esoterici, ma dei ricercatori che hanno scoperto un modo per allargare la conoscenza in maniera affidabile. A volte, in maniera tanto affidabile da poterci scommettere la vita: ad esempio, quando voliamo su un aeroplano. Altre volte in maniera molto più dubbia, e bisogna essere cauti».
Molti temono il pensiero razionale.
«Non pretendiamo che la scienza sia l’unico modo possibile per affrontare il mondo, c’è bisogno di un intero arsenale di approcci e di competenze per farlo. Anzi, non ha nemmeno senso iniziare a usare la razionalità, se prima non ci si è domandati come la si possa integrare utilmente con desideri, paure, e gli altri aspetti irrazionali della vita umana».
Lei non vede una contraddizione, ad esempio, tra la scienza e la religione?
«Contraddizioni ce ne sono dovunque. Fanno parte della natura umana. Ma se uno sacrifica tutta una parte della propria umanità sull’altare della razionalità, rischia di fare un errore uguale e contrario all’avversare la scienza perché si teme che assimili l’uomo a un robot».
Vale anche per la religione cattolica?
«Se devo scegliere una cura per una malattia preferisco ovviamente consultare un medico, invece di un prete o un rabbino. Ma, che sia religioso o laico, ciascuno di noi deve decidere volta per volta come tenere in equilibrio i vari modi di comprendere il mondo, e come usare tutti gli strumenti a disposizione nel modo migliore. L’importante è non forzarsi a camminare con un piede solo, o a lavorare con una mano sola. E accettare che gli altri sanno cose che noi non sappiamo, e viceversa».
Lei sembra aver pensato molto a queste cose. Ne ha mai scritto?
«Tengo un corso in cui ho messo insieme una serie di esempi non scientifici che possano insegnare il linguaggio parlato dagli scienziati e addestrare alla loro metodologia. Ad esempio, mostrando l’importanza di rimanere concentrati sui problemi, se ne vogliono risolvere di non banali ».
Questo vale soprattutto per i giovani, distratti da cellulari e computer.
«Anche per gli adulti. Io ad esempio se trovo un puzzle interessante ci posso pensare per dieci minuti, ma se poi devo uscire o far altro lo metto da parte. La cosa può andar bene per i puzzle, appunto, ma gli scienziati mantengono una grande capacità di concentrazione sui problemi attraverso un’esperienza di gruppo che tiene alto l’interesse e la competizione. Il che prima o poi permette di risolverli a meno che non siano insolubili».
E come si fa a sapere se lo sono o no?
«Il gioco consiste nel bilanciare la voglia di lasciar perdere con la constatazione che la maggior parte dei problemi, se uno è disposto a imparare dai propri errori prima o poi vengono effettivamente risolti. Un approccio da adottare anche al di fuori della scienza».
Ad esempio in politica?
«Soprattutto in politica, dove in genere manca la modestia di ammettere che le proprie idee di partenza possono essere sbagliate, devono essere messe alla prova, e possono beneficiare del contributo degli avversari».

Corriere 2.1.16
Il libro postumo del poliziotto sulla notte in cui morì Pinelli
Allegra si è spento a 91 anni. Il figlio: pubblicherò le sue memorie
di Lorenzo Bini Smaghi

MILANO Antonino Allegra aspettava la morte. Per gli insistenti attacchi delle malattie (conseguenze d’una pesantissima bronchite nel 2003, che l’aveva costretto a rinunciare alle adorate sigarette), per la spossante stanchezza della vecchiaia (aveva 91 anni) e per svelare i propri segreti. In un libro di memorie. Rigorosamente postumo.
Questo pomeriggio, nella parrocchia Regina Pacis di via Quarenghi, nel quartiere di Bonola, periferia Nordovest, non lontano dall’abitazione in un anonimo palazzo di sette piani, si terranno i funerali dell’ex poliziotto, questore a Trieste e Torino, direttore al ministero dell’Interno dell’Ufficio ispettivo, ma nell’opinione pubblica rimasto «legato» al dicembre 1969, quand’era capo dell’Ufficio politico della Questura di Milano. Piazza Fontana, Giuseppe Pinelli. Gli ultimi anni di vita, dopo essersi ritirato in pensione in anticipo per star vicino alla moglie bisognosa di cure, Allegra li ha trascorsi a scrivere. Pagine e pagine per raccontare quello che i giornalisti hanno invano continuato a chiedergli. Ovvero che cosa davvero successe, in quelle vicende come nel delitto di Luigi Calabresi, nel 1972. Allegra, spentosi mercoledì, non aveva mai risposto. Al telefono, al citofono, braccato per strada nelle passeggiate verso il bar, aveva sempre taciuto. Ora c’è il libro che il figlio Salvatore, imprenditore, pubblicherà. «Aveva chiesto di farlo soltanto alla sua scomparsa. Anche con me ha evitato certi discorsi. Diceva che non ero pronto... Ha pianificato tutto. Come il “secondo” matrimonio, da vedovo, con una donna albanese che s’era occupata di mia mamma malata e che successivamente ha seguito papà. Era scappata da Tirana perché perseguitata. L’ha sposata per garantirle un futuro sereno».
Chi è stato Allegra? Quanto ha inciso, nel resto dei suoi giorni, l’anno tragico 1969? Su Pinelli ha «coperto» responsabilità? Ha difeso qualcuno? E per quale motivo non ha mai voluto pubblicamente «difendersi»? Il figlio Salvatore dice che ripeteva una frase: «Sono un funzionario dello Stato e ho il dovere di mantenere il segreto». Ma è chiaro che non può bastare. O forse sì. Nel luglio 2000, nella seduta numero 73 della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Allegra ascoltò gli interrogativi di senatori e deputati. Domanda: «Perché subito dopo piazza Fontana le indagini vennero indirizzate sugli anarchici?». Risposta di Allegra, una persona corpulenta con voce ferma, originario di Santa Teresa di Riva, novemila abitanti sul mare, in provincia di Messina: «Non è vero... Non dicemmo che si trattasse di certi o di altri... Si decise di accompagnare in Questura il maggior numero possibile di esponenti di gruppi di estrema destra e di estrema sinistra». Domanda: «Il dottor Calabresi per anni seguì i fatti relativi all’estrema sinistra... Chi è in una certa area viene a conoscenza di notizie che non verbalizza perché rimangono confidenze... Può essere che sia arrivato a scoprire qualcosa di molto importante per cui doveva essere fermato?». Risposta di Allegra: «Se avesse scoperto qualcosa di molto importante lo avrei saputo».
L’addio a Milano cadde nella seconda metà degli anni Settanta. E altri avvenimenti, con al centro il furore sanguinario delle Brigate rosse, incrociarono la storia di Allegra. Il quale, per ammissione del figlio che ha scelto un altro percorso («Ne faccio parte da ventisei anni»), nonostante la forte insistenza «declinò le offerte della Massoneria». Conosceva mezza Italia, Antonino Allegra. Compreso Silvio Berlusconi che, riferisce il figlio, «è stato il mio padrino alla cresima». Ma tornando alle memorie, a che punto sono? «Non posso anticipare... C’è un unico giornalista, che papà apprezzava: Pansa... E sappia che, ad esempio su Pinelli, tanto non è stato svelato». Com’è morto l’anarchico? «Nessuno vuol credere a un ruolo del Kgb... Papà... conosceva forse troppo... Adesso verrà alla luce. No, aspetti, nessuna strategia di marketing, nessuna volontà di approfittarmi della situazione... Ho amato mio padre, mi ha dato e insegnato la vita. Il libro è un atto doveroso, anzi obbligatorio».

Repubblica 2.1.16
I tabù del mondo un lungo viaggio alla scoperta di ciò che siamo
Edipo, Elettra, Medea, Amleto sono figure che incarnano la dialettica legge-desiderio
Da domani la nostra nuova iniziativa domenicale: tra miti e simboli Massimo Recalcati ci svela pulsioni, divieti, paure ancestrali dell’umanità
di Massimo Recalcati

Il nostro tempo non sembra conoscere più l’ombra tetra del tabù. L’enfasi della libertà da ogni vincolo sembra aver demolito ogni rispetto nei confronti del senso del limite che l’esistenza del tabù indicava. In primo piano è una volontà di autoaffermazione che giudica oscurantiste tutte quelle ragioni che vorrebbero imporle degli ostacoli. Al nostro tempo sfugge il nesso che lega l’esperienza del limite a quella del desiderio. Nella lettera ai Romani Paolo di Tarso mostra, infatti, come sia proprio l’esistenza
stessa della Legge a fare esistere il peccato. Senza la Legge non vi sarebbe né senso della trasgressione, né senso di colpa. È quello che accade nel mito biblico di Adamo e Eva di fronte all’albero della conoscenza: il sonno pacifico della loro innocenza viene interrotto dall’introduzione di un divieto che impone la definizione di una soglia che non si deve valicare. Ma l’effetto di questo divieto non è quello di spegnere il desiderio trasgressivo, ma di alimentarlo insieme all’angoscia che comporta il dramma inedito della scelta: mangiare o non mangiare il frutto proibito? Lo sanno bene anche i bambini: l’oggetto interdetto — l’oggetto sul quale cade la proibizione — è il più desiderato. Il che significa che la Legge non è semplicemente un antagonista repressivo del desiderio, ma lo alimenta continuamente. Un esempio istruttivo e simpatico, se non fosse stato per me assai spiacevole, è accaduto diversi anni fa nel mio studio.
Una paziente cleptomane oltre a raccontarmi in seduta della sua attitudine irresistibile al furto, si appropriava regolarmente dei miei libri in sala d’attesa… Non potevo ovviamente avere la certezza che fosse lei la ladra dei miei libri e ogni mio tentativo di immaginare una replica veniva subito frustrato dall’esigenza di non alterare la neutralità del setting analitico. La mia segretaria, essendo una donna dotata di grande senso pratico, si offrì, vincendo le mie perplessità, per risolvere la situazione: scrisse perentoriamente su dei cartelli appositamente situati sulla libreria: «Questi libri non sono in consultazione ». In sostanza dichiarava — come fece il Dio della scena biblica — i libri presenti nello studio oggetti interdetti, impossibili da prelevare. Ma la sua strategia non tenne in giusta considerazione la lezione di quel mito, ovvero il nesso paradossale che unisce il desiderio alla sua interdizione. Un’epidemia di furti di libri si innescò, con mia grande afflizione.
Questa scenetta mostra molto meglio di saggi paludati il nesso che unisce il desiderio trasgressivo alla Legge. Avviene in ogni regime proibizionista: il divieto di usare determinate sostanze, anziché scoraggiare la loro attrattività, la potenzia. Il punto è che non esisterebbe crimine, violazione, profanazione, furto, senza l’esistenza della Legge. Il che non significa che la Legge sia il Male o lo alimenti, come crede invece il marchese De Sade. Piuttosto è solo l’esistenza della Legge e i tabù che essa genera che rendono la vita umana.
Prendiamo le cose da loro inizio: quale è la parola decisiva di Freud sul desiderio? È quella di mostrare la sua natura incestuosa. Nessuno come lui ha mai insistito tanto su questo punto. Ma affermare che il desiderio umano sia strutturalmente incestuoso non significa sostenere che il desiderio del figlio tenderebbe semplicemente a possedere sessualmente la madre.
Se Freud insiste sul carattere incestuoso del desiderio è per metterne in rilievo una portata assai più ampia. Il desiderio incestuoso è l’immagine di un desiderio illimitato, che non conosce argini, soglie, tabù e che, di conseguenza, sospinge con forza verso il possesso assoluto, non solo e non tanto della madre, ma di “tutto”: avere, sapere, godere, essere tutto.
Il desiderio incestuoso è la rappresentazione della spinta cieca della vita alla propria autoaffermazione che però sconfina nella sua distruzione. Di fronte a questo desiderio la Legge agisce pri- mariamente come ciò che proibendo l’accesso al godimento immediato del corpo della madre trasforma quel corpo in un tabù rendendo però possibile al desiderio umano di dirigersi verso altre mete, allargare e non restringere alla madre l’orizzonte del mondo. Non a caso la Legge dell’interdizione dell’incesto si trova a fondamento di tutte le civiltà umane. Essa inscrive nel cuore dell’uomo l’esperienza dell’impossibile: non si può avere, sapere, godere, essere tutto. Gli esseri umani però non sopportano l’impossibile: l’hybris del loro desiderio (incestuoso) vorrebbe negare ogni limite trasfor-mando l’impossibile in possibile. Si pensi, per fare solo due esempi, al fantasma del collezionista o a quello del feticista che elevano un oggetto (l’ultimo pezzo della collezione, una semplice scarpa col tacco) alla stregua di un idolo che ci dovrebbe proteggere dall’esperienza dell’incompiutezza e della mancanza.
Nelle 52 puntate che saranno pubblicate ogni domenica su Repubblica, dedicate al mondo dei tabù, proverò a raccontare le forme e gli esiti diversissimi che può assumere la tensione, sempre irrisolta, tra il desiderio e la Legge. Non dimenticando di ricordare anche alcune figure mitologiche e letterarie esemplari che la psicoanalisi ha eletto come protagoniste dei suoi cosiddetti “complessi” come il Padre dell’Orda, Edipo, Elettra, Medea, Amleto, Eros, Thanatos e altre, che, in modi differenti, incarnano il potere del tabù e la sfida della sua violazione.

Repubblica 2.1.16
Pubblico e privato uniti nella lotta
Sono cruciali entrambi ma devono imparare a collaborare per un futuro migliore
di Mariana Mazzucato

IL dibattito sul ruolo dello Stato e quello del mercato in un’economia capitalista è soggetto a periodiche oscillazioni nella mente e nel cuore dell’opinione pubblica.
LE fasi in cui si sostiene il ruolo dello Stato nello sviluppo economico sono sempre seguite da un attacco contro il suo intervento nel buon funzionamento dei mercati. È stato così per tutto il XX secolo. Ed è stato così anche dopo la recentissima crisi finanziaria e recessione economica a livello globale: dopo un breve periodo, subito dopo lo scoppio della crisi, in cui tutti concordavano che lo Stato aveva un ruolo chiave da giocare per il salvataggio delle banche e lo stimolo della crescita attraverso lo stimolo economico, hanno rapidamente preso il sopravvento quelli che vedevano con allarme l’aumento del debito pubblico (considerato erroneamente come causa della crisi quando invece ne è l’effetto, per via dei minori introiti fiscali, dei salvataggi sempre più onerosi, eccetera). L’austerità è tornata quindi a essere il piatto del giorno, mentre qualunque misura seria di politica economica e industriale è diventata tabù.
Quello di cui la politica non si rende conto è che per tutta la storia del capitalismo moderno lo Stato ha fatto e continua a fare quello che i mercati semplicemente non fanno. E senza questo ruolo la crescita rimane al palo. Non sto parlando dello Stato che si limita a mettere rimedio ai «fallimenti del mercato», ma dello Stato che crea e dà forma direttamente ai mercati.
Prendiamo per esempio il sistema finanziario. Un sistema finanziario efficiente e funzionante deve, in teoria, provvedere i capitali necessari per lo sviluppo dell’economia, favorendo la crescita economica e l’innalzamento del tenore di vita. Una delle banche più importanti degli Stati Uniti si chiama Chemical Bank perché originariamente finanziava il settore chimico (oggi è impensabile che una banca possa essere focalizzata a tal punto sull’economia reale). Negli ultimi anni, però, la finanza non ha sostenuto gli investimenti o l’innovazione nell’economia reale, ma ha finanziato… se stessa. A partire dagli anni Settanta, le innovazioni nel settore, abbinate alla deregolamentazione, hanno reso più facile ricavare profitti con investimenti speculativi in attività finanziarie.
Ma per garantire i fondi necessari allo sviluppo dell’economia serve una finanza paziente, impegnata sul lungo termine. Negli Stati Uniti, la rivoluzione informatica inizialmente fu sostenuta dalla finanza paziente messa a disposizione da una rete di agenzie pubbliche con approccio strategico e mission- oriented, come la Darpa all’interno del dipartimento della Difesa, i National Institutes of Health all’interno del dipartimento della Sanità, la National Science Foundation, la Nasa e il programma Small Business Innovation Research (che ha erogato più finanziamenti ad alto rischio nelle fasi iniziali delle imprese di tutto il settore del venture capital).
E in tempi più recenti anche la rivoluzione verde è stata ed è finanziata da agenzie analoghe, come l’Arpa-E all’interno del dipartimento dell’Energia, o da prestiti garantiti come quelli erogati alla Tesla (per una cifra prossima ai 500 milioni di dollari di fondi pubblici). In alcuni Paesi, come la Germania e la Cina, questa finanza paziente è garantita dal settore bancario pubblico: la KfW in Germania e la Banca cinese per lo sviluppo in Cina svolgono un ruolo guida nella trasformazione in senso ecologico dell’economia del loro Paese (lo stesso Bill Gates ha dimostrato di esserne consapevole quando ha chiesto ai Governi di mettersi alla guida della rivoluzione verde, come fecero con la rivoluzione informatica).
Perfino in un Paese che nell’immaginario dell’opinione pubblica rappresenta il liberismo per eccellenza — la Gran Bretagna — fu grazie all’intervento pubblico che la Rolls-Royce, negli anni Settanta, riuscì a rimettersi in piedi, e più recentemente è stato il Catapult Centre dedicato al settore automobilistico (i Catapult Centres sono organizzazioni pubbliche che hanno il compito di promuovere la ricerca e l’innovazione in vari settori) che hanno consentito all’industria dell’auto britannica di tornare al centro della scena: oggi nel Regno Unito si producono più automobili che in Italia.
L’Italia continua a non disporre di organizzazioni come queste, con un respiro strategico. I problemi dell’economia sono visti soltanto (sia da Berlusconi in passato, sia da Renzi oggi) in termini di «impedimenti» (tasse, burocrazia, eccetera) da rimuovere, invece che in termini di istituzioni da creare per investire e creare i nuovi mercati del futuro.
Prendiamo il caso della Cassa depositi e prestiti: finora non ha mai funzionato come una vera e propria banca pubblica, limitandosi tutt’al più a investire in infrastrutture e facilitare le aziende private, invece di realizzare investimenti strategici in innovazioni capaci di creare nuovi mercati, che sarebbero seguite da investimenti privati.
È questo che fa la KfW in Germania e la Banca cinese per lo sviluppo in Cina. Non è ancora chiaro quali sviluppi avrà l’attuale riorganizzazione della Cassa depositi e prestiti, se sarà solo l’ennesimo cambio di poltrone o se sarà davvero un cambio di rotta. Quello che è certo è che per l’Italia riveste un’importanza cruciale. La ricapitalizzazione è importante, e gli ultimi investimenti sulla banda larga sono uno sviluppo positivo, ma per il XXI secolo non è abbastanza: bisogna imboccare una direzione nuova.
Quale direzione? Per il futuro dell’Italia è fondamentale sgombrare il campo dal dibattito statico «pubblico contro privato». Sono fondamentali entrambi. Il problema è come promuovere collaborazioni sinergiche che consentano al settore pubblico, nel confronto con il settore privato, di mantenere un approccio coraggioso e strategico e stabilire la direzione del cambiamento, invece di limitarsi ad assorbire i rischi, facilitare, amministrare, sovvenzionare e incentivare. Che si parli di istruzione, salute, trasporti, cultura, energie rinnovabili o del futuro della microelettronica, il problema non dev’essere «aprirsi al mercato» (guardate quanto bene ha fatto a Telecom Italia), ma come strutturare e modellare il mercato attraverso investimenti pubblici e privati, che consentano a un settore di diventare più dinamico, innovativo e focalizzato sugli investimenti.
Invece, seguendo la tesi che gli investimenti sono cose che spettano al settore privato e che il settore pubblico esiste solo per regolamentare, sovvenzionare o salvare capra e cavoli quando le cose vanno male (assorbendo la parte
bad e lasciando ai privati il godimento della parte good), si finisce dentro una profezia che si autorealizza, in cui il settore pubblico, proprio perché non vediamo un effettivo «ruolo» per esso al di là di quanto elencato, si ritrova a corto non solo di finanziamenti, ma anche di immaginazione.
Quando un settore manca di immaginazione, muore. Diventa irrilevante, e ovviamente più facile da attaccare. Nel settore pubblico italiano è in opera un circolo vizioso che sta contribuendo ad affossarlo. Solo quando la visione diventa quella di creare insieme un nuovo futuro, invece di lasciare che una parte si accolli il compito di raccogliere i cocci mentre l’altra continua a realizzare profitti di corto respiro, potremo sottrarci al consueto «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima».
Traduzione di Fabio Galimberti

Corriere 2.1.16
Nell’incertezza si sceglie meglio quando si adottano regole semplici
Le vie della razionalità secondo Gerd Gigerenzer
di Riccardo Viale

Harry Markowitz è un famoso economista americano, noto per avere sviluppato negli anni Cinquanta una teoria che permette di ottimizzare gli investimenti nel campo finanziario. Markowitz in questa teoria mostrava come formare un portafoglio diversificato in grado di misurare il rischio dei vari investimenti per ottenere il rendimento massimo per un determinato rischio. Con questa teoria, per cui ricevette il premio Nobel per l’economia nel 1990, diede inizio all’economia finanziaria.
L’importanza di una teoria con queste ambizioni è evidente. Chiunque, risparmiatore o speculatore, voglia guadagnare dai suoi investimenti sembrerebbe avere in mano uno strumento che lo protegge dal rischio eccessivo e massimizza il suo ritorno economico. Peccato che Markowitz, nel momento di andare in pensione, lasciò da parte le passate ambizioni di ottimizzazione e utilizzò una regola molto meno sofisticata per investire i suoi risparmi: la euristica 1/N. Cosa ci dice questa semplice regola? Se hai un paniere di N titoli, investi il tuo patrimonio in maniera equivalente su ciascuno di essi. In definitiva il fondatore dell’economia finanziaria, nel momento in cui era in gioco il suo patrimonio, non utilizzò la teoria che lo aveva reso celebre, ma una regola che, a tutti noi, a prima vista, sembra un po’ stupida. Ma così non è. Infatti nel 2009 questa regola fu sperimentata contro una dozzina di modelli di allocazione ottimale, tra cui quello di Markowitz. Si presero in considerazione sette tipologie di investimenti d’azioni e il risultato dimostrò la superiorità dell’euristica 1/N sei volte su sette.
Come è possibile tutto ciò? La risposta è contenuta nel lavoro di questi anni di Gerd Gigerenzer e del gruppo di scienziati cognitivi e sociali che si sono riuniti sotto l’egida della Herbert Simon Society il 16 e 17 dicembre a Torino, per parlare di razionalità e complessità. Esso si può riassumere in un concetto: l’incertezza. Prendiamo decisioni su argomenti di cui non possiamo prevedere né quali potranno essere le possibili conseguenze future né attribuire a esse una qualche probabilità. Quando facciamo un investimento finanziario, come quando decidiamo su cosa laurearci o scegliamo una persona come compagna della nostra vita, non possiamo prevedere a cosa andremo incontro. A differenza delle situazioni di rischio, come il gioco alla roulette, in cui conosciamo le possibili alternative e sappiamo dare un peso in termini di probabilità, nella vita reale ciò non è possibile. Per questa ragione ogni pretesa di ottimizzazione rischia di fondarsi sul nulla. Non potendo prevedere la varietà delle conseguenze future, agli ottimizzatori non rimane che basarsi sul passato, rischiando però di fare la fine del famoso tacchino «induttivista» di Bertrand Russell (che tra le previsioni ottimistiche basate sulla qualità della sua vita passata non aveva messo in conto il giorno del Ringraziamento). Come fanno gli ottimizzatori del mondo finanziario, si cerca di costruire modelli sul futuro, facendo inferenze su campioni, tra l’altro inadeguati, del passato (massimo sui 10 anni). E in questo modo si danno pesi alle opzioni future che si rivelano spesso scorretti e che portano a scelte di tipo irrazionale.
Herbert Simon, il padre delle scienze cognitive, aveva ben rappresentato la dimensione dell’incertezza nel concetto di razionalità limitata. La razionalità umana può essere rappresentata dalla metafora di una forbice: la prima lama è quella della nostra mente mentre la seconda è quella dell’ambiente. La nostra mente per decidere usa il più delle volte regole semplici, veloci e frugali chiamate anche euristiche (come quella 1/N).
Queste regole hanno l’obbiettivo di risolvere problemi e raggiungere obbiettivi in un ambiente complesso e incerto. Proprio per l’incertezza del contesto ambientale, spesso, queste euristiche hanno più successo che regole di ottimizzazione e di tipo algoritmico. Da questo punto di vista la razionalità umana non va giudicata limitata, come fanno Dan Kahneman e l’attuale corrente degli economisti comportamentali (tra cui i promotori dell’approccio Nudge alle politiche pubbliche, Richard Thaler e Cass Sunstein), perché non corrisponde ai dettami della teoria economica o del calcolo delle probabilità.
Come spiega Gigerenzer negli ultimi suoi due volumi Simply Rational (Oxford University Press) e Imparare a rischiare (Raffaello Cortina) è proprio l’interpretazione genuina di Simon che ci porta a valutare razionali le decisioni che hanno un valore adattivo, anche se non corrispondono ai requisiti normativi. Le euristiche generano errori ( bias ) che non sono però malattie, ma astuzie della ragione. In questo modo la razionalità da patologica, in quanto non corrispondente ai canoni logici, diventa «ecologica», in quanto corrispondente al successo ambientale .

il manifesto 2.1.16
L’eredità di Freud
di Sarantis Thanopulos

Nel 2015 c’è stato il centenario della pubblicazione di «Metapsicologia»: una raccolta di saggi di Freud, in cui sono definiti i concetti di «pulsione», «inconscio» e «lutto». Ha prodotto un cambiamento drammatico nel modo di concepire la nostra esistenza.
La pulsione e l’inconscio, nell’uso che ne fa Freud, sono concetti epistemologici che fondano un nuovo dominio di sapere e non oggetti di indagine scientifica diretta, fenomeni neurofisiologici di cui studiare sperimentalmente l’esistenza. Freud ha definito la pulsione (concetto limite tra il somatico e lo psichico) come rappresentante psichico degli stimoli corporei, la misura del lavoro che la psiche deve compiere, costretta dal suo legame con il corpo. Il concetto di pulsione ha reso indirettamente conoscibile (mediante l’osservazione dei suoi effetti) la forte spinta corporea che sottende la nostra relazione con il mondo. Sotto l’effetto della spinta, l’essere umano si estroverte, si apre al mondo, può dare senso e direzione alla sua esistenza solo in modo trasformativo.
L’idea dell’inconscio precede Freud e la sua esistenza è oggi riconosciuta dalle neuroscienze. Ogni rappresentazione della realtà avviene in due modi interconnessi: uno segue il principio di piacere e, ignorando il tempo e il principio della non contraddizione, non ha accesso alla coscienza; l’altro segue il principio di realtà e può diventare cosciente. La loro relazione è regolata dalla «rimozione»: le rappresentazioni coinvolte in conflitti psichici sono confinate nel modo di pensare inconscio, dove sono tollerate e, se cercano di diventare coscienti, sono respinte. Freud ha centrato il suo sguardo non direttamente sui processi mentali inconsci, in sé inconoscibili, ma sulle aeree, definite «propaggini», in cui essi penetrano nella coscienza. Ha reso così osservabili forme di pensiero miste, compatibili con la coscienza sul piano formale, ma incongrue sul piano del contenuto: fantasticare, lapsus, atti mancati, motti di spirito, sintomi e soprattutto sogni. Luoghi incerti di comunicazione tra l’inconscio e la coscienza, sedi di un equilibrio instabile tra la potenza destabilizzante del desiderio e le condizioni oggettive della sua soddisfazione. Misurano il conflitto tra la chiusura e l’apertura dell’essere alla vita.
Il conflitto tra due modi di relazionarsi con la realtà, ha il suo punto critico nel contrasto tra il soggetto e l’oggetto centrale del suo desiderio: un soggetto altro. Perché il contrasto non degeneri in lotta mortale, governata dal solo principio di piacere, è necessario perdere l’altro come oggetto della nostra volontà, riconoscerlo nella sua differenza.
Il lutto diventa il perno della nostra relazione con il mondo, il laboratorio della trasformazione che l’estroversione pulsionale (che muove il ritorno del rimosso) imprime alla nostra esistenza. Freud definisce il lutto come prolungamento psichico dell’esistenza dell’oggetto perduto, che consente il graduale distacco da esso, punto per punto. La differenza dell’oggetto –che causa la sua perdita– viene allora interiorizzata ed esso può essere investito in modo nuovo.
Quando, nell’incontro della domanda di piacere con la realtà, la chiusura del vivere ha la meglio sulla sua apertura, la relazione con altro è affidata all’identificazione narcisistica: la sua costituzione come protesi del soggetto. «L’ombra dell’oggetto cade sull’Io» e il conflitto con la diversità, può diventare perdita inesorabile che trascina il soggetto nella melanconia. Cercare di annullare il conflitto, appiattisce la relazione sull’inerzia, come testimoniano i nostri tempi incapaci di essere tristi.

Repubblica 2.1.15
Il diario di Anna Frank è online, sfida sui diritti

ROMA. Da ieri il Diario di Anna Frank è on line. Si può scaricare gratuitamente dal sito di un professore di Nantes, Olivier Ertzscheid, e da quello di una parlamentare francese, Isabelle Attard, che hanno deciso di sfidare la fondazione svizzera Anne Frank Fonds, che gestisce i diritti d’autore dell’opera. La fondazione alcuni mesi fa aveva annunciato che il padre di Anna, Otto Frank, era co-autore e non solo curatore della biografia. L’effetto è stato prolungare il copyright sul libro da ieri (70 anni dopo la morte di Anna Frank) al 2050 (70 anni dopo la morte di Otto). Ertzscheid e Attard sostengono il diritto alla libera diffusione del diario e ieri mattina hanno pubblicato sui rispettivi siti i link per scaricarlo in lingua originale. La fondazione ha fatto sapere che intraprenderà azioni legali contro i responsabili.