sabato 7 febbraio 2015

il Fatto 7.2.15
Fiom Il 14 in piazza contro il rigore

Le ultime decisioni della Bce sul debito greco, “ampiamente annunciate dalle dichiarazioni del cancelliere tedesco Angela Merkel, rappresentano un atto gravissimo che continua a subordinare il bene di una popolazione e le sue scelte democratiche alle logiche finanziarie e speculative. È ora di cambiare. Per costruire un’Europa vera fondata sul lavoro e sulla giustizia sociale serve nuova politica anche della Bce”. Lo scrive la Fiom che propone di “mutualizzare e congelare il debito pubblico, allungare la sua scadenza senza ulteriori interessi”. Insomma bisogna “superare la linea imposta alla Grecia dalla Troika, le rigidità dei vincoli dettati da trattati comunitari tutti da riscrivere. Tutto questo diventa decisivo per il futuro dei nostri Paesi e per la democrazia europea”. Su queste basi, la Fiom sostiene lo sforzo del governo greco e partecipa con le proprie proposte alla manifestazione “Dalla parte giusta. È cambiata la Grecia, cambiamo l’Europa”, indetta per il 14 febbraio a Roma.

il Fatto 7.2.15
Nazareno choc: “Ho moglie”
di Gianni Boncompagni

Secondo gli storici e secondo anche un frammento di papiro copto, presentato pochi giorni fa alla stampa di tutto il mondo, sembra quasi sicuro che il “Nazareno”, cioè Gesù, abbia pronunciato rivolto ai suoi fedeli seguaci la contestatissima frase: “Ecco, questa è mia moglie!”. Ora, se si scoprisse che Gesù era sposato, crollerebbe di colpo l’intera credibilità di una dottrina fondata sul celibato. La caduta del famigerato “patto del Nazareno” si deve forse anche alla pessima stampa che recentemente sta ottenendo il nome del Nazareno cioè Gesù con la sua terrificante “sòla” della moglie. Si dice anche che nei conventi di clausura di tutto il mondo, maschili e femminili, sia in atto una preoccupante protesta che toglie il sonno ai responsabili.

La Stampa 7.2.15
Paesi e buoi
di Mattia Feltri

«Pronto Matteo? Ciao, sono Denis. Senti, sulla storia del falso in bilancio gli ho detto che in quel momento eri in bagno... Sì, sì, ci hanno creduto. Poi su Mediaset gli ho detto che ti eri dimenticato che è di Silvio... Cascati in pieno. Sulla norma del 3 per cento gli ho detto che è sicura come una percentuale di Alfano... Erano entusiasti... Però ascolta: adesso come maremma gli spiego la bambolina di Brunetta piena di spilli?».

Repubblica 7.2,15
Corte dei Conti
Danno erariale annullata una condanna al premier

Firenze. Il premier Matteo Renzi è stato assolto in appello dall’accusa di aver causato un danno erariale alla Provincia di Firenze, di cui è stato presidente. «La verità viene finalmente ristabilita», ha commentato Renzi. Nel 2011 la sezione toscana della Corte dei Conti l’aveva condannato a pagare 14 mila euro per le assunzioni nel suo staff di quattro giovani che, pur non essendo ancora laureati e non possedendo un curriculum congruo, erano stati inquadrati in una categoria di regola riservata ai laureati. I giudici contabili di appello hanno preso atto che l’istruttoria era corredata da ben quattro pareri favorevoli degli uffici della Provincia, tali da indurre “a una valutazione generale di legittimità”.
Per una causa vinta se ne apre un’altra. Il Movimento 5 Stelle ha infatti annunciato un esposto alla Corte dei Conti per il volo di Stato utilizzato da Renzi e famiglia per la vacanza di Capodanno a Courmayeur.

Cosa non si fa per campare!: Migliore, da Bertinotti a Renzi
La Stampa 7.2.15
La sfida sarà Migliore-Cozzolino
Renzi prova la prima rupture
di Jacopo Iacoboni


Sarà il caso di portarsi l’elmetto. Le primarie in Campania - rinviate già due volte, ora dovrebbero tenersi il 22 febbraio - si apprestano a celebrare una specie di Armageddon per la tenuta del partito locale, e una cartina di tornasole per la volontà di Matteo Renzi di cambiarlo o no. La sfida, salvo cataclismi, sarà a questo punto tra Andrea Cozzolino, grande signore del tesseramento, e Gennaro Migliore, la carta neorenziana per provare a rompere i potentati del partito in Campania. De Luca è stato appena dichiarato decaduto dalla carica di sindaco di Salerno per via della condanna a un anno per abuso d’ufficio: presenterà ricorso ma, sostanzialmente, solo per poter trattare meglio con Luca Lotti il suo ritiro dalle primarie. Migliore ha un battesimo del fuoco tremendo; ma anche Renzi, che per la prima volta sfida assetti di potere consolidato Pd nei territori: le correnti e sottocorrenti napoletane non pare aspettino a braccia aperte.

Corriere 7.2.15
No della Procura al piano Veneziani: per «l’Unità» salvataggio lontano
di Ilaria Sacchettoni

ROMA I magistrati di piazzale Clodio hanno espresso parere negativo al concordato che eviterebbe il fallimento della Nuova Iniziativa Editoriale, attuale proprietaria de l’Unità ( nella foto, l’ultimo numero in edicola il 31 luglio scorso ). I loro rilievi non sono vincolanti (alla fine sarà il giudice del tribunale fallimentare, Luisa De Renzis, a decidere nel merito) ma certo allontanano l’ipotesi di un salvataggio a breve del quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Secondo i pm del gruppo dei reati economici, la proposta di salvataggio è inadeguata. Il piano era stato presentato dalla cordata che fa capo a Guido Veneziani, editore anche di «Stop», «Vero», «Rakam», assieme alla Fondazione Eyu, acronimo di Europa-Youdem-Unità ma includerebbe anche
una partecipazione della «Pessina costruzioni», mai confermata ufficialmente.
Il primo rilievo riguarda proprio il prezzo di acquisto del giornale. Manca cioè un accertamento ufficiale. Qual è oggi il valore di mercato de l’Unità ? La Nuova Iniziativa Editoriale avrebbe dovuto includere nella propria offerta la formulazione di una gara che lo certificasse. Senza questo primo passo ogni offerta rischia di essere incongrua e di configurare un illecito. Già questo basterebbe a motivare i dubbi della Procura. Ma la proposta è risultata inadeguata soprattutto dal punto di vista delle garanzie offerte ai creditori del giornale che ha accumulato debiti per oltre 20 milioni di euro. Per raggiungere l’accordo che eviterebbe il fallimento la cordata di Veneziani dovrebbe
essere in grado di offrire assicurazioni sia per il pagamento dell’affitto del ramo d’azienda che, in prospettiva, per l’acquisto della testata. E invece anche quest’aspetto è risultato dubbio e poco convincente. Mancherebbe cioè «l’idonea garanzia a tutela dei creditori». Nessuna certezza insomma per dipendenti e fornitori.
Dall’agosto 2014, data in cui l’Unità ha cessato le pubblicazioni, le voci sulla sua riapertura sono state diverse. Dettagli sull’operazione di salvataggio erano emersi a novembre scorso, dopo che il giudice del fallimentare aveva accolto la richiesta di proroga sui tempi di presentazione del piano e Veneziani aveva annunciato di aver messo sul tavolo 10 milioni di euro. A questo punto, però, l’ipotesi sembra tramontata. Al Tribunale fallimentare, intanto, la prossima udienza è fissata per il 9 febbraio.

il Fatto 6.2.15
L’Unità, dal tribunale altolà a Guido Veneziani: “Dia garanzie ai dipendenti”
Secondo il collegio dei giudici l'operazione ideata dal Pd per salvare il giornale è una "cessione di ramo d’azienda"
Quindi la testata non può essere ceduta separatamente e il compratore deve farsi carico almeno di una parte della forza lavoro
Il rischio è che l'editore di Vero e Stop si tiri indietro e il quotidiano vada in fallimento
di Camillo Dimitri

qui segnalazione di Gianni

il Fatto 7.2.15
De Bortoli dà la notizia: “30 aprile lascio il Corsera”

La notizia del cambio della guardia alla direzione del Corriere della sera era nell’aria già da tempo. Ieri l’attuale direttore, Ferruccio de Bortoli (nella foto), ha fornito una data precisa: “Io me ne vado il 30 aprile 2015”, ha detto de Bortoli, rispondendo, a margine della presentazione di un libro sulla famiglia Rizzoli, a chi gli chiede cosa farebbe se gli venisse chiesto di rimanere a dirigere il Corriere. L’assemblea degli azionisti di Rcs Mediagroup, chiamata ad approvare il bilancio e a rinnovare il consiglio di amministrazione in scadenza, è prevista per il 23 aprile, in tempo per il passaggio di consegne.
Della sostituzione di de Bortoli se ne parla da tempo, ma il giornalista aveva continuato a firmare il giornale. Ieri la data certa.

il Fatto 7.2.15
Roma proibita
Luci rosse sull’Eur: diventa il quartiere della prostituzione
di Alessio Schiesari


Fra tre mesi, anche Roma avrà una zona a luci rosse dove la prostituzione verrà tollerata. Ad annunciarlo è Andrea Santoro, presidente del IX Municipio - quello dove si trova l’Eur - dopo un incontro con il neo assessore alle Politiche sociali, Francesca Danese. In realtà l’Eur è già il quartiere a luci rosse della Capitale: qui, secondo una recente mappatura, più del 50 per cento delle strade sono frequentate da prostitute. Provengono perlopiù dall’Europa dell’est, mentre quelle di colore “esercitano” in periferia. C’è poi il cosiddetto “Fungo”, dove si radunano i transessuali. Con la creazione di una “zona rossa”, già attiva da anni a Mestre, si tenterà di concentrare il fenomeno in una sola strada o piazza. In tutto il resto del quartiere invece per i clienti scatteranno multe da cinquecento euro che, se non pagate subito, saranno recapitate a casa. Ancora se non si sa se la sanzione colpirà anche le prostitute “ma rischia di essere una norma inutile, perché quasi tutte le ragazze risultano nullatenenti”, fa sapere la presidenza del Municipio. La prostituzione è un fenomeno che interessa l’Eur da almeno trent’anni, ma la situazione è esplosa dopo la delibera voluta da Alemanno nel 2008 che la proibiva su tutto il territorio comunale. Dietro al fenomeno c’è una rete di interessi criminali. Quelli delle bande che si contendono il quartiere con liti e pestaggi, e perfino il racket dei condom, con le ragazze costrette ad acquistare le protezioni solo da alcuni “rivenditori”. “La zona rossa sarà presidiata costantemente da operatori sociali, mentre ora sono presenti solo due sere al mese. Avranno il compito di convincere le ragazze a denunciare le violenze e ad accompagnarle nei consultori per gli esami medici”, fa sapere il Municipio. Già a maggio il sindaco Ignazio Marino si era detto favorevole alla zonizzazione dell’Eur. Sarà ora la prefettura a scegliere l’area di tolleranza. Nei mesi scorsi erano state ipotizzate viale Egeo e la zona attorno alla stazione metro Eur Magliana.

Corriere 7.2.15
Premio di produttività ai vigili di strada
L’ultimo paradosso del caso romano
di Paolo Conti


Miracolo romano. Ieri mattina alle 9 Roma pullulava di vigili urbani. Su tutto l’asse dei Lungotevere, per una volta privi di ingorghi. Per le strade di Prati, intorno alla Rai e ai Tribunali. Vigili sulla Cristoforo Colombo e a via Veneto. Al punto che tanti romani, abituati al desolato abbandono degli ultimi tempi, hanno pensato a improvvisi spostamenti del neopresidente Sergio Mattarella o di papa Francesco.
   Niente di tutto questo. Nella notte era stato siglato l’accordo sindacati- Comune. La contestata indennità di servizio esterno (premio riconosciuto — uguale per tutti — solo ai vigili urbani romani per affrontare l’impegno su strada, un po’ come assicurare l’indennità bisturi a un chirurgo) giustamente ritenuta «non applicabile» e illegittima dal ministero dell’Economia , ha cambiato volto e nome ma non sostanza economica. Torna intatta attraverso i «progetti di produttività» su due livelli e tre diversi metodi di valutazione. Ecco perché ieri tanti vigili su strada.
   Ed ecco perché, durante la protesta per l’abolizione dell’indennità, l’indecente caos visto nei giorni della pioggia battente con le strade non governate. Magari tutto andrà meglio, più personale su strada e meno negli uffici, visti gli incentivi. Forse verranno valorizzati davvero i migliori, perché l’aspetto finalmente positivo è che chi resta in ufficio non avrà un euro in più (prima l’indennità era a pioggia, per tutti). Resiste questo unicum tipicamente romano: il vigile che viene quasi implorato ( incentivato ) a governare il traffico stradale abbandonando le comodità degli uffici. Come ha recentemente ricordato Sergio Rizzo, dei 6.077 vigili romani, secondo i dati ufficiali, per le strade ce ne sono da un minimo di 105, la sera, a un massimo di 993, la mattina. Cioè dall’1,7 al 16,3%. Rimane irrisolta la domanda di fondo: perché solo a Roma occorre premiare chi compie il lavoro per il quale è stato assunto, dirigere il traffico?

La Stampa 7.2.15
Svolta all’anagrafe
A Roma registrato il figlio di due mamme
di Elisabetta Pagani


«Loro sono le mie mamme, mi hanno fatto nascere». Il piccolo León, 4 anni a marzo, le presenta così da sempre, Sofia e Alejandra. Agli amichetti e a tutta la gente che incontra per strada. Semplicemente perché loro sono le sue due mamme. Adesso anche in Italia.
La sua nascita era già stata registrata dall’anagrafe di Buenos Aires, dove le due donne, un’italiana e una argentina, vivono, si sono sposate e hanno avuto León grazie alla procreazione assistita. Mercoledì lo stesso atto è stato trascritto dall’ufficiale di stato civile di Roma. Una svolta per l’Italia, dove la famiglia potrebbe trasferirsi a breve. «È il primo caso - osserva l’avvocato delle donne, Alexander Schuster - e ora si aprono le porte per il riconoscimento di tutti i figli delle coppie omosessuali. Certo, tutto questo non sarebbe avvenuto senza la sentenza di Torino».
La sentenza apripista
Già, perché proprio a Torino, il 7 gennaio scorso, due donne, dopo il rifiuto del Comune e un primo no del tribunale, avevano ottenuto dalla Corte d’Appello il diritto alla trascrizione della nascita del bambino come figlio di entrambe. «In quel caso - sottolinea Schuster - si trattava dell’esecuzione di un provvedimento giudiziale, valido solo per la coppia che ha fatto ricorso. A Roma, invece, a riconoscere León, che porta i cognomi di entrambe, è stata l’amministrazione. Un percorso duro, all’inizio ci avevano proposto di registrare come madre solo la partoriente. E al posto dell’altro nome di mettere un omissis».
Le famiglie arcobaleno
«È inaccettabile - commentano Sofia Pagano e Alejandra Flavia Manini - che lo Stato si disinteressi dei diritti e dei doveri di bambini come León». Le famiglie arcobaleno, con due mamme o due papà, sono infatti sempre più numerose, ma l’Italia non le riconosce. «Fra i nostri soci - calcola Giuseppina La Delfa, presidente di Famiglie Arcobaleno - 200 coppie hanno figli e 60 hanno ottenuto il riconoscimento di paternità o maternità all’estero. Speriamo che non intervenga il prefetto facendo cancellare l’atto, com’è successo per i matrimoni gay registrati dai Comuni». «Non credo succederà - confida Schuster - c’è di mezzo un minore». «Lo escluderei - dice l’assessore alle Pari Opportunità di Roma, Alessandra Cattoi - abbiamo solo applicato quanto stabilito dalla sentenza di Torino. Ci sentiamo tranquilli. Siamo dentro un processo che non possiamo fermare. Altre coppie si sono già fatte avanti».

Il Sole 7.2.15
I numeri. Senato debole
Rischio Vietnam come nel 2006, ma opposizioni sfilacciate
di Emilia Patta

I conti sono presto fatti. Con una maggioranza di 172 voti su un quorum di 161, ossia con 11 voti di margine, e con una minoranza del Pd piuttosto agguerrita che si conta in almeno 24 senatori (quelli che hanno votato l’emendamento Gotor contro i capilista bloccati), il Senato rischia di trasformarsi ogni volta in un Vietnam come ai tempi del governo Prodi del 2006-2008, quando per approvare i provvedimenti (spesso con la fiducia) venivano reclutati anche i senatori a vita. Il problema paradossalmente non sono tanto le riforme istituzionali (l’Italicum ormai è “in salvo”, visto che manca solo un altro sì della Camera e Matteo Renzi non a caso non perde occasione di ripetere che non ci saranno ulteriori modifiche), ma tutto il resto. Dalla delega fiscale alla Pubblica amministrazione alla scuola. Tutto quello che passerà in Parlamento dovrà passare naturalmente anche per il Senato. E la rottura (almeno per ora) del patto del Nazareno non significa solo fine dell’alleanza su Italicum e riforma del Senato e del Titolo V, ma la fine di una sorta di gentlemen agreement che si è tradotto fin qui in qualche uscita strategica dall’Aula per far abbassare il quorum. Si tratta di uscite, va detto, che non sono mai risultate determinanti sui provvedimenti economici importanti, dalla Stabilità al Jobs act, sui quali il governo ha posto la fiducia. Ma se i senatori di Forza Italia cominceranno al contrario a votare contro su tutto, la musica potrà cambiare.
Basta riguardare a quanto accaduto la notte del 20 dicembre scorso, quando in sequenza sono state approvate la Legge di stabilità (162 voti), la Nota di variazione al bilancio (con 161 voti, sul filo del quorum) e infine il calendario dei lavori che incardinava in Aula l’Italicum. Solo in quest’ultimo caso i voti a favore di Forza Italia furono determinanti, dal momento che la dissidenza dem votò contro, ma sulla Legge di stabilità e sulla Nota di variazione al bilancio i senatori azzurri uscirono comunque dall’Aula assieme ai grillini (la motivazione fu la protesta contro l’accelerazione dei tempi). Nel caos di quella notte più di un senatore del Pd paventò il pericolo di non farcela per qualche voto, e cadere sul Bilancio avrebbe significato crisi di governo. Da qui l’attenzione rivolta in queste ore dallo stato maggiore del Pd ai numeri in Senato, tra la sacca dei senatori Gal (15 in tutto, di cui tre già votano stabilmente con la maggioranza) e tra i dissidenti del M5S (17 in tutto, anche se fra loro divisi in varie sottocorrenti). «Siamo aperti alla discussione e all’articolazione parlamentare di alcune forze politiche che hanno conosciuto situazioni di sofferenza», ammetteva ieri il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini pur ribadendo che una maggioranza c’è ed è autosufficiente.
Ma potrà bastare rivolgersi a Gal e agli ex grillini, o magari puntare su qualche senatore azzurro in linea con Denis Verdini e contrario alla rottura del patto del Nazareno? Non si rischia davvero di rivivere l’incubo del governo Prodi? I numeri sono quelli che sono, ma la situazione politica è completamente diversa, ragiona Giorgio Tonini, vicepresidente del gruppo democratico e membro della segreteria renziana. «Allora c’era un’opposizione molto compatta, quella di Fi-Udc-Lega guidata da una leadership forte e presente in Parlamento come quella di Silvio Berlusconi, e c’era da parte di questa opposizione compatta la ferma volontà di tornare presto alle urne sull’onda di sondaggi molto favorevoli al centrodestra. Ritorno alle urne puntualmente avvenuto dopo due anni, nel 2008, con la vittoria appunto della coalizione di centrodestra guidata da Berlusconi - dice Tonini –. Oggi la situazione è capovolta. Le opposizioni sono divise tra loro e spesso su opposte posizioni, tra Fi, M5S e Sel, e il centrodestra è imploso e naviga senza più leadership sicura». In questa situazione non è interesse di nessuno, tranne paradossalmente di Renzi se le riforme dovessero incagliarsi, tornare al voto. Anche gli oppositori interni di Berlusconi, e cioè Raffaele Fitto, hanno bisogno di tempo per conquistare il loro spazio. Opposizioni sfilacciate e paura del voto, dunque: queste le vere carte del prosieguo della legislatura. Aspettando che Berlusconi, passata l’irritazione per la vicenda Quirinale, torni a dare il suo supporto almeno su Italicum e riforme istituzionali.

il Fatto 7.2.15
Alla ricerca del senatore perduto
Il governo non ha i numeri per le riforme a Palazzo Madama
Corteggia fuoriusciti M5s, Gal E Sel. Ma spera in B.
di Gianluca Roselli


La maggioranza sulle riforme, al momento, non c’è più. Se il patto del Nazareno è davvero morto e Forza Italia non voterà più l’Italicum e la legge costituzionale, i numeri a Palazzo Madama per fare le riforme non ci sono. Dopo il passaggio dei sei senatori di Scelta Civica al Pd, infatti, nulla è cambiato e la maggioranza viaggia sempre sui 170 voti. Se a questi si tolgono 24 senatori dissidenti del Pd, ecco che il numero si abbassa pericolosamente a 146. Altro che autosufficienza, come aveva declamato Maria Elena Boschi dopo il voto finale sull’Italicum. In quella occasione la legge è passata con 184 voti a favore, ma con almeno 40 azzurri a votare con la maggioranza. Che in quell’occasione ha potuto contare su 130 senatori, tre in più della maggioranza assoluta di 127. Ma il quorum era basso perché in Aula erano presenti solo in 253. Quindi si trattava di un’autosufficienza fasulla.
“NOI SIAMO STATI sempre determinanti. Sia per respingere gli emendamenti di Gotor, sia per approvare il famoso emendamento Esposito, quello del Canguro. Ma anche per assicurare il numero legale. Quindi senza Forza Italia non so proprio come faranno”, osserva l’azzurro Lucio Malan, sempre attento al pallottoliere. Parole ben distanti da quelle pronunciate ieri da Renzi: “Abbiamo i voti anche senza Forza Italia. Quindi andiamo avanti”. Conti alla mano, con l’arrivo dei 6 di Scelta civica, la maggioranza può contare su 113, senatori del Pd, 36 di Area popolare, 17 del Gruppo Autonomie e 6 di Gal. Cui però vanno tolti i 24 dissidenti democrat. A Matteo Renzi, dunque, per stare tranquillo servono almeno una ventina di voti. Dove li prenderà? I maggiori indiziati sono gli ex grillini. Una bella pattuglia di 17 senatori che fanno gola. Sull’Italicum gli ex 5 Stelle hanno votato contro, ma ora le cose potrebbero cambiare perché 6 o 7 di loro sarebbero pronti al dialogo. Molto fluida la situazione anche tra i 15 senatori di Gal, che di solito si sono sempre divisi un terzo a favore, un terzo contro e gli altri assenti. Se Mario Mauro e i suoi votano già con il governo, movimenti si registrano anche dalle parti di Paolo Naccarato. Che ieri ha parlato di “un’area di stabilizzatori pronta a scattare di fronte a marosi e sussulti che il governo potrà incontrare durante la navigazione”. Un gruppo di cui non si conosce ancora il numero ma che, oltre a Gal, pescherebbe tra le fila di Forza Italia, grazie alla regia di Denis Verdini. Il quale pare si stia muovendo sui senatori azzurri per mettere in sicurezza le riforme anche senza patto del Nazareno. “L’unica cosa che posso dirle è che saremo aggiuntivi, arriveranno dall’opposizione, non come quelli di Scelta civica che non hanno spostato una virgola”, sottolinea Naccarato. Qualcuno, infine, guarda anche a Sel. Visto il buon clima instaurato con il Pd per l’elezione del capo dello Stato, dove i due partiti sembrano far parte dello stesso gruppo, magari qualcuno potrebbe essere tentato dall’aiutino sulle riforme. “Da noi non prendono un voto. Quirinale e riforme sono due pianeti distanti anni luce”, assicura Loredana De Petris, capogruppo del Misto e senatrice di Sel. Tempo di fare campagna acquisti, comunque, Renzi ne ha, visto che la riforma costituzionale tornerà a Palazzo Madama non prima di giugno. Quattro mesi di tempo per riannodare i fili del Nazareno (come è più probabile) o recuperare i dissidenti del Pd. Oppure costruirsi una scialuppa di salvataggio. E a vedere la sicurezza del premier, l’operazione potrebbe essere già a buon punto. A meno che, come sussurra qualcuno, il suo sia soltanto un bluff per mettere pressione a Berlusconi e costringerlo a tornare a Canossa.

il Fatto 7.2.15
Scelta civica addio, Linda e Ichino ritornano a Matteo
Il partito di Monti emigra dai democratici
(da dove in parte proveniva)
di Luca De Carolis


L’eterno ritorno. Darebbero soddisfazione agli stoici e a Nietzsche, gli otto parlamentari di Scelta Civica che ieri mattina sono approdati al Pd. O meglio vi sono tornati, perché 5 su 8 degli ex montiani avevano militato a vario titolo nei Dem. La nostalgia, si sa, è canaglia. Così ieri mattina Sc si è svuotata in Senato, dove Mario Monti è rimasto solo. Già, perché in serata ha detto addio anche il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova. “Ma non vado al Pd”, assicura. E Monti? Nessun rancore: “Rispetto la loro decisione, sono persone che stimo per la serietà e la competenza. Grazie a noi l’Italia non è Magna Grecia”.
Pietro Ichino, renziano prima e dopo
Ieri su Twitter i più birbanti hanno folleggiato così: “Ichino era al Pd in prestito con diritto di riscatto”. Certo è che il giuslavorista non poteva che ridiventare renziano, soprattutto in tempi dijobsact. Musica per le orecchie di Ichino, prima parlamentare nel Pci, poi tra i fondatori nel Pd. Eletto con i dem nel 2008, nel 2012 esce da un partito troppo bersaniano per lui, renziano della prima ora, mente del programma sul lavoro del Matteo candidato alle primarie 2012. Nel 2013 torna in Senato con Monti. Ma ormai era tempo di ricongiungersi a Renzi. “Non c’è più alcuno spazio per un partito come Sc, tutti i suoi voti se li è presi il nuovo Pd” rifletteva ieri Ichino. Che i conti li sa fare.
Alessandro Maran, quelle dimissioni contro Matteo
Trafila nell’ultimo Pci, poi Pds e Ds, approda in Parlamento nel 2001. Passa al Pd, fino l’infatuazione per Monti. Nel gennaio 2014, poco più di un anno fa, si era dimesso da relatore al testo sul finanziamento ai partiti. Lo fece contro Renzi, reo di aver bollato Sc come “un partito da prima repubblica”. E si guadagnò gli applausi dell’allora capogruppo Andrea Romano: “Bravo Maran, non si può ridicolizzare Scelta civica”. Per ribadire il concetto, Romano coniò l’hashtag #schienadritta. Nell’ottobre scorso, il fu capogruppo è passato al Pd di Renzi. Dove accoglierà Maran.
Linda Lanzillotta, rutelliana tra i rutelliani
In una parola, rutelliana. Con l’ex sindaco è assessore a Roma dal 1993 al 1999. Confluiscono assieme nella Margherita, e sullo slancio Lanzillotta diventa ministro nel secondo governo Prodi. Tra i 45 componenti del Comitato nazionale del costituendo Pd, nel 2009 segue Rutelli nell’Api. A cavallo dal caso Lusi rompono. Quindi, Sc. Vicepresidente del Senato, nel febbraio di un anno fa votò contro la costituzione come parte civile del Senato nel processo a Berlusconi per la compravendita dei senatori. Un no decisivo. Ora diventa l’ennesima rutelliana alla corte di Matteo. “L’approdo al Pd è l’unico modo per mantenere l’impegno con gli elettori” sostiene.
Gianluca Susta, l’ex Dc che ha perso l’Europa
Maledetta primavera, in cui Susta cadde alle Europee. L’ex Dc, poi Margherita (rutelliano), quindi nel Pd, è stato capolista dei montiani nelle urne della scorso maggio, per la circoscrizione Nord-Ovest. E il deprimente 0,7 per cento ha lasciato in Italia pure lui. Capogruppo in Senato di Sc, deve aver rimuginato a lungo sul “bagno”, fino alla conversione renziana. Ma il Pd della sua Biella rumoreggia. Il segretario provinciale Paolo Furia: “Un processo di riavvicinamento dopo anni richiede non solo un accordo di carattere nazionale ma anche un dialogo di carattere locale. Non siamo un supermercato”.
Irene Tinagli, da Veltroni a Montezemolo
Una storia di pochi mesi. Lei, la sociologa giovane e qualificata, nel comitato del nascente Pd. Regge poco. E le ragioni dello strappo le spiega in una lettera pubblica al segretario Veltroni, in cui si dice delusa per le posizioni dei Dem “su ricerca istruzione e innovazione”, e per quella “retorica del precariato”. Tra i fondatori di Italia Futura, l’associazione di Luca di Montezemolo, collabora con il ministro Francesco Profumo nel governo Monti. L’approdo a Sc è naturale. Ma Tinagli ha spesso lanciato segnali a Renzi: “Fa fatica sulle riforme perché il Pd è diviso”.
Stefania Giannini, ministro (spesso) in bilico
Pragmatica è pragmatica. “Il progetto di Monti è esaurito, ora è il momento di aggregare tutti i riformisti” spiegava ieri il ministro dell’Istruzione. Sollevata, perché ora forse sarà più stabile sullo scranno. In estate la sua poltrona aveva oscillato parecchio. Renzi si irritò per la bozza della riforma dell’istruzione, priva delle necessarie coperture. E a settembre la Giannini dovette schivare i cronisti alla festa dell’Unità a Bologna: “Della riforma non parlo”. Vecchie paure, prima del salto.
Ilaria Borletti Buitoni, due cognomi e tanta generosità
Signora elegante, molto attiva nella beneficenza anche in Africa, si sospende da multiple cariche per candidarsi con Monti, al cui movimento dona 710mila euro. Sottosegretario ai Beni culturali prima con Letta e con Renzi, rappresenta la continuità che sopravvive.
Carlo Calenda, dai film ai Palazzi
Da piccolo recitò in Cuore, diretto dal nonno Luigi Comencini. Una carriera precoce e brillante in aziende brillanti, è anche lui transitato per Italia Futura. Poi gli incarichi di governo, sempre da viceministro dello Sviluppo economico, prima con Letta e poi con Renzi.

La Stampa 7.2.15
Scelta Civica, il congresso del partito che non c’è più
Otto esponenti vanno nel Pd
Ichino: “Manca lo spazio al centro”
di Fabio Martini


C’era una volta un professore di nome Mario Monti, la sua repentina ascesa al governo d’Italia aveva riempito di iperboli i newsmagazine di tutto il mondo e un giorno «Time» arrivò a scrivere in copertina: «Può quest’uomo salvare l’Europa?». Da allora sono trascorsi tre anni esatti e domani, in una saletta convegni del centro di Roma, si svolgerà il primo (e forse anche l’ultimo) congresso di Scelta civica, il partito a suo tempo fondato da Monti, ma da lui stesso «rimosso» dal proprio orizzonte, per effetto di una dichiarazione indimenticabile. A Lilli Gruber che gli chiedeva come avrebbe votato alle Europee, Monti rispose: il voto è segreto. Il congresso che eleggerà segretario Enrico Zanetti, quarantatreenne grintoso sottosegretario in conflitto permanente sia con Renzi che con Padoan, completa una parabola tra le più originali nella storia politica del dopoguerra: nel giro di una ventina di mesi il partito fondato da Monti ha dissipato un patrimonio elettorale e parlamentare cospicuo: i 2 milioni e ottocentomila voti ottenuti alle Politiche 2013 erano il doppio di quelli conseguiti dalla Lega e rappresentavano una percentuale con la quale alcuni partiti (Psi, An, per non parlare dei Radicali) hanno condizionato la politica italiana per decenni.
Oltretutto, poche ore prima del congresso, si è consumata la beffa di otto parlamentati che hanno abbandonato la zattera di Scelta Civica, per approdare nel Pd. Nomi che in qualche modo riflettono la qualità - superiore alla media in termini di competenza specifica - dei gruppi parlamentari di Sc. Oltre a Gianluca Susta, Alessandro Malan, Linda Lanzillotta, il sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni, l’economista Irene Tinagli, il viceministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, Stefania Giannini, che diventò ministro (come Mario Mauro, dieci mesi prima) dopo aver trattato per conto del suo partito le poltrone governative e Pietro Ichino, che argomenta così le ragioni politiche dell’addio, che per lui è anche un ritorno: «Si possono avere le migliori idee del mondo ma poi occorre avere capacità politica per farle diventare realtà. Oggi c’è un leader capace di farlo, il presidente del Consiglio, che tra l’altro ha anche accolto i miei progetti sul mercato del lavoro. D’altra parte stiamo approvando in Parlamento una riforma elettorale che favorirà un sistema bipolare, con una contesa politica al centro. Scelta civica aveva spazio quando la dialettica era tra l’asse Bersani-Vendola e quello Berlusconi-Maroni. Quello spazio non c’è più ed è bene che sia così».
Un’analisi politologica con una sua logica, anche se la tempistica irrispettosa del congresso consente ai «lealisti» di controbattere: «Per avviare un percorso politico comune» con il Pd «sarebbe stato più normale un confronto tra partiti che non trasferimenti individuali», dice il presidente dei deputati Andrea Mazziotti. E pur disertando il congresso. Monti rivendica «orgoglio per un’esperienza politica che ha consentito all’Italia e di non essere diventata, con rispetto parlando, una Magna Grecia».

il Fatto 7.2.15
Trova le differenze
I voltagabbana “stabilizzatori”
di Daniela Ranieri

Finalmente capiamo perché Scelta civica si chiama così: a noi pareva che stessero lì, parcheggiati tra Camera e Senato, sempre un po’ opachi e anodini; in realtà erano in attesa di scegliere di chi mettersi civica-mente a disposizione. Insieme ad alcuni ex-grillini che agitano le braccia nel mare di Twitter sperando che qualcuno nel Pd se li fili, e in compagnia delle frattaglie dei meravigliosi “stabilizzatori” di Gal, sei senatori e due deputati della falange che fu montiana (ma non Monti) accorrono in soccorso di Renzi, consolabile vedovo di Forza Italia dopo la presunta rottura del famigerato patto.
Così potrebbe pure sembrare, se gli intelletti in gioco fossero tanto raffinati da concepirlo, uno sberleffo in soprammercato il fatto che il vicesegretario del Pd Serracchiani abbia annunciato la transumanza degli sceglitori civici proprio a Canale 5, in un programma che si chiama La telefonata: “Io non escludo che la consapevolezza che tanti parlamentari hanno acquisito il giorno dell’elezione del capo dello Stato li renda consapevoli della responsabilità che hanno da qui al 2018”.
La consapevolezza, si sa, rende consapevoli, e se non lo esclude lei c’è da crederle. Ma è il concetto di “responsabilità” ad aprirci un mondo di sterminate delizie. Incantata dai numeri di prestidigitazione istituzionale di Renzi, l’Italia tutta avverte il peso della responsabilità cui chiamano l’approvazione dell’Italicum e il varo degli altri scempi decretizi come il Jobs Act. Per tutto lo stivale scorre una filigrana di costruttivo sacrificio. Perché si avverta soprattutto al Senato, dove i numeri di Renzi traballano e l’unica garanzia di stabilità è Alfano cioè niente, è un segreto di Pulcinella che attiene alla natura stessa della responsabilità.
L’ITALIA è ingovernabile; ciò si sa, soprattutto a sinistra. Da qui i patti della crostata, le larghe intese, la pacificazione, il trattato del Nazareno e tutti i giochi di ruolo che gli accordisti e i trasformisti di ogni risma hanno messo in scena nel corso degli anni. È stata l’ingovernabilità a consentire non solo gli inciuci ma anche tutti i cambi di casacca che hanno contraddistinto la vita della Repubblica. Si può dire che senza l’ingovernabilità l’Italia sarebbe ingovernabile. Nondimeno, fu nell’interesse del “popolo”, come ha rivelato Scilipoti sul Fatto di ieri, che lui e gli altri lillipuziani, scombiccherati, proverbiali “responsabili” hanno salvato B. e il suo governo nel 2010, confluendo dall’Idv. Solo che per uno strano e virtuoso prodigio, laddove quelli erano per tutti traditori, voltagabbana, venduti e altre cose offensive tra cui la più offensiva di tutte, la metonimica “scilipoti”, quelli che oggi transumano a dare il rinforzino a Renzi sono responsabili e basta, senza ironia, gente tutto sommato seria che, piccone in spalla, lavora alla ricostruzione avviata dal professionista delle strategie. E perciò pure i grandi giornali adeguano il vocabolario alla retorica “narrativa” del premier. Tra tutti, il Corriere della Sera – che al tempo dei Razzi, De Gregorio, Calearo, Cuffaro e Scilipoti sguinzagliava le solide e argomentate indignazioni di Severgnini – ieri titolava: “Operazione scelta civica. Renzi amplia il Pd”. Eh, certo. B. comprava, ricattava, seduceva, convinceva, minacciava, persuadeva; Renzi amplia. E i traditori diventano risorse umane da riallocare per il bene del Paese. Di più: il Pd è una casa e Renzi, da buon edile, la amplia buttando giù i muri vecchi e qualche tramezzo di “intermediazione”, e rende il salone delle riforme un open-space.
L’IMPRESSIONE è che più che un grande architetto Renzi sia l’inventore di un format politico che ha reso il Pd un reality, un Amici di Matteo molto liquido, talmente cinico e poco caratterizzato ideologicamente da poter accogliere con scioltezza chiunque ci salti dentro. A cose fatte, il premier ringrazia, senza ringraziare, parlando di “approdo comune” e di “comune cammino per le riforme”.
Un capolavoro di involontaria ironia la nota dei “fuoriusciti”: “Accogliamo l’invito rivoltoci da Matteo Renzi a un percorso e a un approdo comuni”, con “l’obiettivo di concorrere al lavoro entusiasmante che attende il Parlamento nei prossimi anni”. D’altra parte, il partito di Monti aveva proprio l’entusiasmo come sua cifra peculiare. “Decidiamo”, continuano, “di aderire ai gruppi parlamentari del Pd, alcuni di noi anche al partito stesso”, abudantis abundantibus. Intanto domenica c’è il Congresso di Scelta civica, a cui a questo punto non si capisce chi si presenterà. Il deputato Zanetti la butta lì: “Se magari Renzi fa un salto... ”. Ecco, facciamo così e chiudiamo tutte le polemiche: il Pd entri in Scelta civica.

Corriere 7.2.15
I timori sulla tenuta di Ncd dietro la campagna per i nuovi «responsabili»
di Maria Teresa Meli


ROMA I riflettori sono puntati sullo scontro tra Forza Italia e il Pd. Sulla scena della politica è la battaglia tra i democratici e gli azzurri a farla da protagonista. Anche se tra i due schieramenti in realtà ieri c’è stata una prima presa di contatto dopo le polemiche furibonde di questi giorni.
Insomma, la diplomazia sotterranea è già all’opera e questa volta gli ambasciatori di FI non sono stati respinti con perdite. A organizzare le grandi manovre, come sempre, il vicesegretario Guerini, l’uomo delle «ricuciture» per eccellenza, e Lotti, la figura chiave del renzismo.
Ma non è quello che avviene sulla scena a preoccupare Palazzo Chigi. Renzi è convinto che sia «tutta convenienza» di Berlusconi rientrare in gioco almeno per ora. Quel che desta più di un motivo di riflessione è invece ciò che sta accadendo dietro il palco, lontano dai riflettori e su cui prima o poi al Senato si alzerà il sipario. Per questa ragione in quel luogo che per il governo si è fatto sempre più insidioso, a Palazzo Madama, il Pd si è sbrigato a fare incetta di senatori di Scelta civica. Li vuole legati non a un vincolo di alleanza, come è stato finora, ma a un legame più profondo di comune appartenenza a un gruppo parlamentare. Anche perché le vedette del Pd di Palazzo Madama, sempre pronte a registrare ogni stormir di fronda grillina, hanno fatto capire a Palazzo Chigi che dal «Movimento 5 stelle» non vi saranno altre emorragie a sinistra, Quindi su quella parte non si può fare grande affidamento.
Ma perché tutta questa fretta di rimpinguare il gruppo del Pd e di agganciare i cosiddetti «responsabili»? Perché ciò che preoccupa veramente non sono tanto le lacerazioni dentro FI, ma quelle che stanno attraversando l’alleato Ncd. Il Nuovo centrodestra, come si era già visto al momento dell’elezione di Mattarella, è profondamente diviso tra governativi e parlamentari. E adesso, spiegano al Pd, «anche Lupi e Alfano non marciano più compatti come prima». Insomma, nel Nuovo centrodestra si sta ponendo con sempre maggiore insistenza il tema di «che cosa fare da grandi», perché continuare a portare l’acqua al mulino di Renzi significa condannarsi alla marginalità politica. Allora tanto vale presentarsi con il Pd alle prossime elezioni.
Queste fibrillazioni nel Ncd non mettono a rischio l’Italicum, che è approdato alla Camera dove il Pd ha una salda maggioranza. Il problema vero si presenterà quando la riforma del Senato e del titolo V della Costituzione passerà in seconda lettura a Palazzo Madama. Dovrebbe avvenire a maggio. E allora il rischio per la tenuta di quella legge e della stessa maggioranza potrebbe diventare reale. Perché Ncd (o almeno gran parte di essa) potrebbe non votarla e Forza Italia ha già lasciato intendere che alla seconda lettura si sfilerà. A Palazzo Chigi calcolano che su 70 parlamentari centristi solo 30 sono sicuramente «governativi». Un po’ pochini. A Palazzo Madama ci sono voci di senatori ncd pronti a tornare in FI e quindi all’opposizione. Si sussurra dei rapporti mai bruscamente interrotti tra Schifani e Berlusconi.
Sia chiaro, nessuno a Palazzo Chigi pensa che Alfano voglia di proposito far cadere il governo, ma riuscire a tenere in piedi l’esecutivo e la coalizione potrebbe essere difficile. Senza contare il fatto che nel caso in cui la riforma del Senato non vedesse la luce l’Italicum resterebbe a metà: varrebbe solo per la Camera, ma a Palazzo Madama rimarrebbe il proporzionale. E l’ipotesi, che pure è stata avanzata da qualche esponente del Pd, di un decreto per estendere l’Italicum ai due rami del Parlamento non è praticabile. Non si può fare una legge elettorale per decreto. Come se non bastasse, Renzi, l’unico leader che nei sondaggi è in aumento di popolarità, l’unico leader che ha un partito con numero di consensi notevole, non può usare in questo frangente la minaccia di elezioni anticipate. Già, come potrebbe mai un presidente appena eletto sciogliere subito le Camere? Quindi quella delle urne è un’arma spuntata.
Il rischio, si teme a Palazzo Chigi, è di andare al voto tra un anno (perché oltre, in una situazione così sfilacciata, la legislatura non potrebbe comunque andare avanti) vincendo il premio di maggioranza alla Camera ma ritrovandosi «obbligati a una nuova alleanza con la destra al Senato» per governare. Che fare? C’è chi pensa di rinviare la seconda lettura della riforma del Senato a settembre per prendere tempo. E chi pensa il contrario:«Se noi renziani ci fermiamo, siamo perduti, c’è troppa gente che ci vuole acchiappare».

Corriere 7.2.15
Le accuse di Bombassei:
vogliono conservare il posto in una maggioranza da bulli
di Andrea Garibaldi


ROMA «Trovo tutto questo, come dire?, di cattivo gusto».
Onorevole Alberto Bombassei, titolare della Brembo (sistemi frenanti), vicepresidente di Confindustria, dirigente di Scelta civica, il partito di Mario Monti: ce l’ha con gli otto colleghi che hanno scelto il Pd?
«Per me, una sorpresa totale. Con tutto il rispetto e l’amicizia, fare questa scelta quarantotto ore prima del congresso di Scelta civica! Ci sono rimasto male. Ma non sono gli unici fuori luogo».
Anche Matteo Renzi?
«Noi abbiamo appoggiato il suo governo in modo trasparente e lui l’altra sera in tv ha detto: “Non so se Scelta civica esiste ancora…”. Renzi ha un atteggiamento guascone, sprezzante nei confronti delle rappresentanze politiche minori. Delega ogni riforma a una “maggioranza bullesca”».
Perché gli otto suoi colleghi hanno guardato verso il Partito democratico?
«Molti di loro sono politici di professione, spero non siano condizionati da uno spirito conservatore, anche della loro posizione. Li stimo e mi rifiuto di pensare che ci sia opportunismo».
All’interno del grande Pd conteranno più di adesso?
«Più ci si diluisce e meno si conta: è una legge della fisica».
Lei, invece, andrà domani al congresso di Scelta civica (ciò che ne resta)?
«Andrò al congresso. Non salto da un posto all’altro per mantenere la poltrona. E spero che domenica si decida di andare avanti con il progetto di Mario Monti : una casa comune per liberali, riformisti, cattolici e laici».
Nonostante i sondaggi che vi danno intorno all’1 per cento?
«Penso che dobbiamo rinegoziare la nostra presenza nella maggioranza di governo: nessuna obbedienza cieca a chi dice di schiacciare il bottone rosso o quello verde. Se questo non è possibile, ripensiamo pure tutto, a 74 anni non ho velleità di fare carriera politica».
Quali contenuti dovreste portare al governo?
«Il problema è la disoccupazione. Renzi ha fatto molto per il lavoro, ma se si vuole mantenere l’Italia un Paese industriale si deve ridurre il costo del lavoro e quello dell’energia, vanno defiscalizzate le nuove attività industriali».
Lei è anche favorevole al recupero della «concertazione» con Confindustria e sindacati?
«Renzi è il primo presidente del Consiglio deciso a sostenere cambiamenti senza il condizionamento né di Confindustria né del sindacato. Ma non riconoscere a questi organismi il ruolo di rappresentanza è un eccesso di opportunismo politico: genera risentimenti e rischia di lasciare macerie».
Lei restò molto colpito dal messaggio di Renzi a Letta: «Enrico stai sereno», poco prima di prenderne il posto a Palazzo Chigi.
«I vertici di Scelta civica avevano da poco rinnovato la fiducia a Enrico Letta... Nel nostro mondo, non politico, questo comportamento non è ben considerato. Scrissi a Letta una lettera di scuse».
Ci sono errori che lei può imputare a Monti?
«Ha scelto l’impopolarità nel nome del bene del Paese. Monti non aveva il fisico, lo stomaco per digerire critiche ingiuste che nell’altro mondo, quello dell’economia e dell’impresa, non sono così comuni».
L’alleanza con Luca Cordero di Montezemolo è presto finita.
«Montezemolo rappresentava un pezzo di Paese importante, era appena stato un buon presidente di Confindustria. Certo, al momento di candidarsi, fece un passo indietro...».
La storia di Scelta civica è il fallimento dell’impegno della società civile in politica?
«In qualche modo io mi sento respinto dal mondo politico. Non ci si improvvisa politici, ma i politici non possono improvvisarsi finanzieri o economisti: si poteva e si doveva fare squadra in modo equilibrato».
Lei è stato uno dei finanziatori di Scelta civica. Che cifra ha investito? È pentito?
«Non ho impegnato cifre trascendentali, sono restato al livello di altri imprenditori. No, non sono pentito, credevo nel progetto».
Non è stato molto presente in Parlamento, intorno al 30 per cento delle sedute.
«Cerco di esserci quando mi sembra utile. E quando ci sono sto attento, mentre la maggioranza dei deputati fa i fatti suoi al computer. Potrebbe essere più efficiente il lavoro là dentro, grandi sono le perdite di tempo».

Il Sole 7.2.15
Il Parlamento trasformista: in due anni uno su cinque ha cambiato casacca
di Manuela Perrone

qui

La Stampa 7.2.15
Il premier si cautela dalle richieste della sinistra Pd
di Marcello Sorgi


Battezzata da Matteo Renzi, l’operazione “responsabili” che ha portato nelle file del Pd otto parlamentari di Scelta civica, procede e promette nuove sorprese. L’ingresso a tutti gli effetti nella maggioranza dei senatori del Gal, il gruppo per le autonomie, oltre a mettere in sicurezza il governo al Senato, potrebbe segnare una tendenza verso nuove adesioni, singole o collettive. Sebbene finora il grosso degli spostamenti sia avvenuto in un’area che già sosteneva l’esecutivo, la possibilità di allargarla a personaggi come l’ex-ministro della Difesa Mauro, dà l’idea della portata della manovra. Mauro infatti qualche mese fa fu sostituito in commissione perchè dal suo voto (contrario) dipendeva il cammino delle riforme.
Ma non si tratta solo di mettere in campo forze destinate a sostituire i senatori di Forza Italia, dopo la svolta del partito dell’ex-Cavaliere che ha portato all’annuncio della rottura del patto del Nazareno. Il premier punta a cautelarsi dalle richieste della sinistra Pd di rimettere in discussione la riforma del Senato e la legge elettorale, in nome dell’unità ritrovata sull’elezione di Mattarella. Il metodo del confronto non può essere praticato e dismesso secondo le convenienze, obietta la minoranza Democrat. E Bersani polemicamente si chiede cosa abbiano ottenuto in cambio i transfughi.
Renzi ieri è tornato a rivolgersi a Berlusconi, avvertendolo che il governo ha i numeri per portare a termine le riforme. Un discorso fatto a suocera (il leader del centrodestra) perché anche nuora (la minoranza Pd) intenda. Il premier infatti non ha alcuna intenzione di rimettere mano al testo dell’Italicum, che dopo la lunga battaglia al Senato potrebbe essere approvato definitivamente alla Camera se solo fosse votato senza emendarlo, o a quello della riforma del Senato, sul quale si riprende a votare martedì. Sarà un test interessante, se si considera che, pur disponendo a Montecitorio di una maggioranza larga e autonoma, nel precedente passaggio alcuni emendamenti vennero respinti con solo una ventina di voti e con l’aiuto di Forza Italia, che compensava il largo ricorso ai franchi tiratori degli oppositori Democrat.
Da Berlusconi per ora non arriva nessun segnale di marcia indietro. L’ex-Cavaliere non ha gradito l’emendamento in materia di tv che comporta un aggravio per le casse di Rai e Mediaset, la nuova formulazione del falso in bilancio e il monito di Renzi sul 20 febbraio, data in cui il governo dovrebbe riformulare il decreto fiscale rinviato dopo le polemiche sulla cosiddetta norma “salva-Silvio”. Ma che succederebbe se, malgrado l’Aventino ordinato da Berlusconi, Denis Verdini, l’interlocutore di Renzi dentro Forza Italia, decidesse di staccarsi con un gruppo di parlamentari in difesa del patto del Nazareno?

il Fatto 7.2.15
Pier Luigi Bersani
”Bene allargamenti del partito”


Allargare il perimento del partito va bene, ma dietro deve esserci un progetto. È il canovaccio del giudizio con cui Pier Luigi Bersani accoglie gli otto transfughi che oggi hanno lasciato Scelta civica, per aderire al Pd. “Un conto – ha osservato intervenendo a SkyTg24 l’ex segretario le scelte di tipo personale, opportunistico, secondo me sempre disdicevoli; un altro conto è invece quando c’è un passaggio politico. Perché, in questi giorni, è certamente successo qualcosa, sul lato del Pd ma, anche, sul lato della destra e che, quindi, questo debba consigliare una riflessione sull’assetto politico. Io non sono affatto per un Pd più stretto ma sono, se lo si vuole fare più largo, per ragionare politicamente. Perché non può essere solo lo spostamento di persone ma dire con trasparenza al Paese che cosa è cambiato nella politica. Dopo di che, se lo si dice, io sono contento che da centro come da sinistra si possa ragionare su come fare del Pd un grande partito plurale, grande baricentro democratico del sistema”, ha concluso Bersani.

Repubblica 7.2.15
Gli arrivi centristi allarmano la sinistra Bersani: non siamo una porta girevole
Da 293 a 309. All’inizio della legislatura i deputati del Pd erano 293. Ora con ex Sel e ex Sc sono 309
Da 108 a 113. Anche i senatori sono aumentati, passando da 108 a 113 dall’inizio della legislatura
di Giovanna Casadio


ROMA Nichi Vendola, e Lorenzo Guerini, il vice segretario del Pd. Era giugno e i deputati dem erano 293, oggi sono balzati a 310. Al Senato sono saliti a 113 dagli originari 108. Più non quantificabili spostamenti nei territori. Insomma un Pd “acchiappatutto”, da Sel a Scelta civica passando per adesioni in ordine sparso. Il partito che vuole Renzi: allargato e rafforzato, il Partito della nazione, interclassista e a vocazione maggioritaria. Fumo negli occhi per la sinistra dem, che da ieri, dopo l’approdo dei montiani (senza Monti) agita il vecchio pomo della discordia: l’Agenda Monti appunto, lo spauracchio delle politiche di rigore, dalla riforma delle pensioni di Elsa Fornero alla Troika Ue. E perciò «addio sinistra», per dirla con Stefano Fassina.
Peggio ancora è il sospetto che la voglia di allargare e soprattutto la necessità di consolidare la maggioranza al Senato così da avere i numeri per portare a casa le riforme istituzionali, porti a arruolare «Scilipoti, trasformisti, opportunisti», un danno per il Pd, un “do ut des” dai confini opachi. Massimo D’Alema in un’intervista al Messaggero mette in guardia dagli eventuali smottamenti del centrodestra, dalla transumanza di forzisti inquieti della corte di Verdini. Mentre l’ex segretario Pier Luigi Bersani avverte: «Non che io voglia un Pd stretto, ma non deve trattarsi di spostamenti opportunistici piuttosto si spieghi il passaggio politico, non si allarga solo spostando persone». Stesso concetto rilanciato da Davide Zoggia e twittato all’indirizzo del capogruppo a Montecitorio Roberto Speranza: «Non mi convince questa migrazione in massa di Scelta civica, ci sono troppe differenze di linea politica».
«Macché, è un ritorno a casa per molti di loro», reagisce il vice segretario Guerini elencando Pietro Ichino, Linda Lanzillotta, Alessandro Maran, Gianluca Susta, Irene Tinagli, ex dem. «Il Pd è un campo democratico ampio - continua - in linea con la vocazione maggioritaria che impresse Veltroni. Gli arrivi rafforzano la sua capacità di attrazione». Nell’ala sinistra del campo malumori e perplessità. I bersaniani sono irritati, una pattuglia di montiani erano andati via proprio dal Pd dell’ex segretario. «Un partito non è una porta girevole da cui si entra e si esce a seconda di chi vince il congresso», è stato lo sfogo di Bersani con i suoi collaboratori. «Overbooking, posti solo in piccionaia», aveva ironizzato Vendola dopo la scissione di Sel. Ma loro, i migranti, dall’ex vendoliano Gennaro Migliore all’ex montiana Ilaria Borletti Buitoni come si accingono ad affrontare la traversata a bordo del Pd? Imbarazzati? A disagio per l’eterogenea compagnia? Per Borletti Buitoni - sottosegretaria al Beni culturali, famiglia dell’imprenditoria lombarda che creò la Rinascente rac- contata nel libro “Cammino controcorrente” - «le scissioni di Scelta civica, quelle sì sono imbarazzanti. Per il resto l’Agenda Monti ha un’impronta riformista e le politiche di Renzi sono di un Pd che non è quello che era due anni fa. La rivoluzione politica impressa da Franceschini al ministero mi vede in assoluta sintonia». All’altro opposto, Migliore ricorda che già Renzi vantò «il Pd che va da Migliore a Romano». Ovvero da lui fino all’ex capogruppo montiano a Montecitorio. «Un Pd soggetto di governo e nel Pse. Non faccio mai scelte per le quali sentirmi in imbarazzo - precisa -Certo spero che la cultura della sinistra conti di più dentro il partito ». Ma molti timori bollono in pentola. Fassina, che coniò lo slogan “Rottamiamo l’Agenda Monti”, ragiona: «I naufraghi cercano approdo, e questo è normale. Salgono sul Transatlantico che è il Pd. Ma questo dove va? Qual è la sua direzione?». Ricorda quando Monti faceva pressione su Bersani perché gli mettesse il silenziatore. «L’arrivo dei montiani non è la causa ma la conseguenza di uno spostamento dell’asse dem verso politiche liberiste». Sul Jobs Act ad esempio, Ichino insegna. «Siamo in un partito ormai centrista e all’orizzonte c’è il Partito della nazione», s’inalbera Pippo Civati, dissidente democratico, alla ricerca di una cosa di sinistra.

Corriere 7.2.15
Civati e il «trasformismo»: il Pd ormai è un accampamento
Dalla «liquidazione» di Letta alla «sindrome del cambio in corsa»: in un libro la sua visione dell’era renziana
di Monica Guerzoni


ROMA I ribaltoni, i «traditori» Razzi e Scilipoti «eroi del tempo presente», i transfughi di Scelta civica e la «sindrome del cambio in corsa», che ha colpito in un anno 160 parlamentari: «Chi si ferma è perduto». E mentre i cittadini pietrificati dalla crisi restano vittime dell’incantesimo mediatico la sinistra diventa destra, il Pd muta geneticamente nel Partito della nazione e Berlusconi, «senza soluzione di continuità» con il ventennio passato, realizza il contratto con gli italiani del 2001: «Come se il pennarello avesse continuato il disegno». Il pennarello di Matteo, il disegno di Silvio.
Con un tempismo cronometrico Pippo Civati firma Il trasformista - La politica nell’epoca della metamorfosi (Indiana editore). Un pamphlet di 100 pagine, in libreria il 19 febbraio, in cui il più antagonista dei deputati del Pd manda in pezzi lo specchio di Narciso del «premier attualmente in carica». Così lo chiama Civati per smascherarne i lapsus, i paradossi, i ribaltamenti prospettici e denunciarne i limiti: l’incoerenza come manifesto politico, la provocazione come metodo per distrarre dal merito.
Ritratto volutamente ingeneroso dell’era renziana, questo piccolo trattato di semiotica politica è lo strappo finale, la presa d’atto di una distanza incolmabile tra chi si ostina a credere nella sinistra che verrà e chi rimuove i poverissimi perché non votano e quindi «cavoli loro». Tra figure mitologiche, citazioni di Ovidio, Musil e Borges e reminiscenze filosofiche Renzi diventa Zelig, un leader che prende i voti della destra e, con quel «decreto vintage» che è lo sblocca Italia, realizza i sogni di cemento di Berlusconi. Renzi come Leopoldo Fregoli, protagonista di «metamorfosi a catena» come il Porcellum che diventa Italicum. Un leader che fa «l’esatto contrario» di quel che annuncia, picchia sulla sinistra come causa di tutti i mali e, mutando pelle ogni giorno, fonda il «partito del tutti dentro». Maxi «accampamento» dove c’è posto per chi vuole eliminare l’articolo 18 e per chi lo difende.
Cos’è il patto «segreto» del Nazareno se non un «patto col diavolo», in cui il vecchio e il nuovo gattopardescamente si fondono? Com’è potuto accadere che il Nemico sia diventato «l’amico giurato»? La tesi è che un premier in «perenne movimento» ha cambiato tutto, tranne la vita degli italiani: «Realtà gufa, mondo crudele». Nell’attesa della palingenesi lo spettacolo è talmente pirotecnico che i cittadini non si accorgono di un bluff che ha fatto vittime illustri. La «liquidazione» di Enrico Letta? Un «ca polavoro di trasformismo». Intriso di «pessimismo leopoldino», nel finale il libello di Civati intona note di speranza. L’incantesimo delle «lunghe intese» si può spezzare, l’Italia può tornare alla «gara corretta» dell’alternanza. Ma perché si alzi il vento del cambiamento bisogna che il messaggio «laico» delle minoranze si affermi e che gli elettori comincino a soffiare nella direzione giusta. Quella della sinistra.

Corriere 7.2.15
Se D’Alema evoca le purghe (fotografiche) d’epoca staliniana
di Massimo Rebotti


Milano Il nome di Sergio Mattarella avrà anche messo d’accordo tutti nel centrosinistra, ma fino a un certo punto. Per esempio, se si domanda «chi ha voluto Mattarella per primo?» la pace finisce.
Massimo D’Alema è risentito: l’attuale presidente della Repubblica è stato, tra il 1998 e il 2000, vicepremier e ministro della Difesa nei suoi governi. «È divertente vedere — ha raccontato al Messaggero — che io nelle foto fatte circolare da Palazzo Chigi non ci sono». Sostiene D’Alema che l’entourage di Matteo Renzi, raccontando agli italiani il nuovo presidente, abbia operato un occultamento della realtà: Mattarella ministro, Mattarella vicepremier, senza dire di quale governo e di quale premier.
«Nei regimi stalinisti — spiega — c’erano degli specialisti che cancellavano dalle fotografie i volti dei dissidenti». In quei casi la «purga» fotografica seguiva quella reale: i dissidenti prima sparivano per davvero, uccisi, e poi «svanivano» dalle fotografie. Nella storia del comunismo internazionale i casi sono stati tanti: Trotzky rimosso dagli scatti vicino a Lenin, il capo della polizia di Stalin evaporato dalle foto a fianco del leader, il dirigente del Pc cinese cancellato dalle immagini con Mao. «Nel Pd abbiamo dimenticato tanti valori della sinistra — chiosa sarcastico D’Alema — ma questa tradizione è rimasta». Quella che storicamente fu una tragedia, la condanna del dissidente che anticipa la sua cancellazione (perfino dalle foto), si ripete nel Pd sotto forma di polemica iperbolica. Con Massimo D’Alema che, per rivendicare di aver avuto un ruolo nella scelta per il Quirinale, accusa Renzi di averlo «cancellato» dagli strateghi dell’operazione. Quei suoi due governi (con Mattarella) tra il 1998 e il 2000 — dopo la caduta di Prodi e con l’appoggio di Cossiga — furono nel centrosinistra assai controversi. E la condanna all’oblio, secondo D’Alema, arriverebbe fino ai giorni nostri.
L’esagerazione della realtà è parte di ogni propaganda: Renzi fa capire che Mattarella l’ha voluto solo lui e che gli ex Ds sono all’angolo? D’Alema risponde che l’elezione del nuovo capo dello Stato è una vittoria della minoranza e, sotto sotto, sua personale. E la verità su come siano andate davvero le cose, piano piano, viene cancellata dalla fotografia di questi giorni.

Corriere 7.2.15
Voti blindati in Senato, ma si esalta l’opportunismo
di Massimo Franco


Si comprende l’ottimismo sui numeri del governo al Senato, che Matteo Renzi ostenta. Non è soltanto la migrazione della pattuglia di Mario Monti da Scelta civica al Pd: un passaggio che ha il colore dell’opportunismo ma chiude una parentesi politicamente già finita, e formalizza un’appartenenza affidata finora solo al voto favorevole. La vera riserva di consensi parlamentari, per una coalizione che a Palazzo Madama ha dovuto faticare più volte per raggiungere la maggioranza di 161 voti, arriva da spezzoni dell’opposizione. Spunta tra i frammenti espulsi dal Movimento 5 Stelle; e, sul versante opposto, da «costole» del centrodestra ansiose di stare al governo.
Sono una ventina di senatori sui quali Palazzo Chigi ha giustamente puntato molte delle sue speranze di approvare le riforme. Porterebbero l’area della maggioranza oltre la soglia di 190, garantendo margini di sicurezza finora inimmaginabili. C’è già la parola che dovrebbe sublimare questa operazione: «stabilizzatori». Parlamentari eletti per combattere il governo, e ora pronti a puntellarlo per evitarne la crisi. L’operazione sa di trasformismo: quella pratica tutta italiana, inaugurata nel 1883 da Agostino Depretis e basata sulla cooptazione nelle maggioranze di schegge dell’opposizione; e replicata l’ultima volta tra il 2008 e il 2011 dal governo Berlusconi.
Fu giustamente criticata dal Pd, che nei «responsabili» di allora vedeva gli eredi di Depretis; e difesa da FI, che legittimava l’arruolamento come un modo per risarcire Berlusconi della perdita dell’appoggio di Gianfranco Fini. Adesso, la manovra viene attaccata da FI e da Beppe Grillo, mentre nel Pd si tende a difenderla in nome dell’interesse dell’Italia a completare le riforme. Spettacolo discutibile, che riflette la scomposizione del sistema dei partiti e lo sgretolamento di alcuni: un sottoprodotto prima delle elezioni del 2013, con un Parlamento spezzato in tre tronconi; poi dell’arrivo di Renzi.
La domanda è quanto tutto questo rafforzerà davvero la coalizione Pd-Ncd; e se la terrà al riparo dai ricatti di piccole minoranze che alla fine furono tra le cause della caduta di Berlusconi nel 2011. Certo, i cosiddetti «stabilizzatori» offrono a Palazzo Chigi un supplemento di forza contrattuale. Il coltello del patto del Nazareno tra il premier e l’ex premier sarebbe sempre più nelle mani di Renzi. In più, l’idea di un governo col vento in poppa viene accreditata dalla corsa di semi-oppositori nell’orbita del potere. E si alimenta la narrativa di un M5S che perde pezzi.
Eppure, il saldo dell’operazione potrebbe risultare assai più controverso di quanto appaia. Intanto, la trasparenza dei rapporti parlamentari e della dialettica governo-opposizione viene intorbidita per puri calcoli di potere. E gonfiandosi con innesti di formazioni avversarie, la maggioranza finisce per confermare la sua necessità di ricorrere ad un aiuto esterno. Non si vede una grande operazione politica dietro quanto sta avvenendo. Al massimo, un surrogato raccogliticcio di quel patto del Nazareno che l’elezione del capo dello Stato ha scompaginato.

Repubblica 7.2.15
Il cantiere vuoto della destra e la calamita del premier
L’arrivo degli ex montiani nel Pd è anche un messaggio alla “zona grigia” di transfughi grillini e centristi delusi
di Stefano Folli


PER adesso non cambiano i numeri della maggioranza. Soprattutto al Senato, dove il margine è assai sottile, gli eletti di «Scelta Civica» che arrivano in soccorso al vincitore non modificano la situazione: i voti sono gli stessi di prima, visto che il partito di Monti puntellava fin dall’inizio l’alleanza renziana. È il motivo per cui la responsabile dell’Istruzione, Giannini, aveva ottenuto il ministero un anno fa e a maggior ragione lo conserva oggi.
Il senso dell’operazione tuttavia è chiaro. Si tratta di creare un «effetto calamita», dando l’impressione che è in atto uno smottamento definitivo a favore del «partito di Renzi». Come dire: se non vi sbrigate a salire a bordo, dopo per voi sarà troppo tardi. Messaggio rivolto a quanti ristagnano in una sorta di «zona grigia», non più opposizione e non ancora maggioranza, ma sono tentati dal salto trasformista. I transfughi dei Cinque Stelle in primo luogo e forse altri, magari fra i centristi delusi. Renzi è molto abile nel creare l’effetto valanga, suggerendo che il fenomeno è già in corso. Anche se fino a questo momento si è più che altro rafforzata la corrente renziana all’interno del Pd: una corrente ampia e ben nutrita, tenuta insieme dal carisma del leader e dal potere che egli garantisce.
In ogni caso per il partito di Berlusconi è una pessima notizia. Alla quale serve poco reagire con l’accusa al presidente del Consiglio di fare «campagna acquisti», argomento usato a suo tempo (nel 2011) contro il governo di centrodestra. Quindi si tratterebbe di un peccato di incoerenza da parte del Pd. Ma è una polemica perfettamente inutile che serve solo a segnalare la condizione di crescente debolezza di Forza Italia. Dal 2011 a oggi lo scenario è cambiato in modo profondo. Quattro anni fa Berlusconi tentava con i «responsabili» di salvare il suo governo da una costante erosione parlamentare. Oggi Renzi vuole dimostrare di poter fare a meno del contributo di Forza Italia anche al Senato. Il che significa ridurre fin quasi ad annullarlo il potere negoziale di Berlusconi, quando questi vorrà riproporre una versione minimalista del «patto del Nazareno».
Ma c’è di più. Con l’«operazione calamita» Renzi prefigura la prospettiva contenuta nella riforma elettorale. Vale a dire l’Italicum approvato con entusiasmo dal centrodestra giusto alla vigilia della contesa per il Quirinale. Il premio alla lista vincente — e non più alla coalizione — costituisce una spinta possente verso il bipartitismo: una forza politica governa, l’altra si oppone (con i partiti rimanenti confinati in un ruolo minore, più o meno di testimonianza). Non è strano che i movimenti e i sussulti parlamentari di questi giorni anticipino la tendenza: si corre a rafforzare il Pd, che in questo momento è la forza centrale, nel tentativo di guadagnare vantaggi anche personali prima delle elezioni, peraltro ancora lontane.
Invece di una replica stizzita, sarebbe interessante sentire dal partito berlusconiano quale sarà la risposta alla strategia renziana che è chiarissima. Visto che hanno votato l’Italicum pochi giorni fa, si suppone che l’anziano leader e i suoi collaboratori sappiano cosa opporre a un premier che si sta attrezzando per vincere e governare senza condizionamenti. Ma non sembra che sia così. A sinistra, il cantiere del «partito di Renzi» fra poco chiuderà per eccesso di domanda; a destra il cantiere del secondo «partito della nazione» non è nemmeno stato aperto. Certo, ci sono le iniziative di Fitto che si definisce il «ricostruttore». E c’è il tentativo, destinato al fallimento, di rincorrere Salvini con la trovata della «Lega delle libertà»: un po’ tardi visto che il Carroccio post-Bossi è intorno al 16 per cento. In altre parole mancano le idee e anche i volti nuovi per contrastare Renzi. Il che rischia di creare un grave squilibrio in un sistema che è pensato per avere due gambe in grado di bilanciarsi. Per ora la gamba è una sola.

il Fatto 7.2.15
L’intrattenitore della politica
di Franco Arminio


RENZI GOVERNA l’irrealtà. Governare la realtà richiede un lavoro lungo e noioso, bisogna lavorare assieme ad altri e non limitarsi a prenderli per culo, uno alla volta. Renzi fa l’intrattenitore, è il capo comico che ha preso il posto di un altro capocomico che non si rassegna ad andare in pensione. Le leggi elettorali non servono ad eleggere dei governanti, ma dei saltimbanchi, personaggi destinati ad affollare i palinsesti televisivi, pronti a tutto, ma in realtà capaci solo di demolire una lingua gloriosa come quella italiana. La forza di Renzi è tutta nel suo essere un abilissimo politicante romano in un momento in cui di fatto la casta si è perfettamente ricostituita e risistemata: a ciascuno le sue poltrone, a ciascuno la sua parte nella commedia. Le intenzioni producono commenti alle intenzioni e i commenti producono altre intenzioni, una metastasi di parole, un’agonia ciarliera che fa perdere di vista la cosa più semplice: che mondo, che Italia vogliano? Da Salvini a Vendola, c’è spazio per tutti, nessuno esce mai sconfitto da nessuna battaglia, non c’è sangue, non ci sono lacrime, perché sono battaglie di fantasmi. Il dolore è fuori dal Palazzo, le cose vere sono altrove. 

il Fatto 7.2.15
La scelta di Verdini è Renzi
“Il ragazzo non fa prigionieri, non è come D’Alema che abbaiava solo
Se Forza Italia non si rimette in riga Berlusconi è finito
Pronto un gruppo stampella pro governo
di Fabrizio d’Esposito


In momenti come questi, il silenzio vuol dire tante cose. Vendetta. Attesa. Godimento. Doppio gioco. Denis Verdini è un po’ la sintesi di tutto questo. La rottura provvisoria del patto del Nazareno ha fatto accomodare lo sherpa renzusconiano su una sponda del fiume, aspettando il passaggio di vari cadaveri. “Io adesso non mi muovo, mi godo la scena. Silvio non ha capito che questo qui non fa prigionieri, Matteo lo ammazza, non scherza, mica è D’Alema che abbaiava solamente. E siamo solo all’inizio”. La Ricattopoli del Nazareno mette a nudo crudelmente il conflitto d’interessi del Pregiudicato. Il canone delle frequenze tv, il ritorno del falso in bilancio, il rebus angoscioso della Salvasilvio nella delega fiscale, finanche la riforma che bloccherebbe la prescrizione per il processo Lavitola a Napoli sulla compravendita dei senatori (il termine in commissione alla Camera è il 12 febbraio). Il premier gioca durissimo e il fidato Verdini, fidato più per “Matteo” che per “Silvio”, si è preso “una pausa di riflessione”. Godendosi lo spettacolo di queste ore. “Silvio preferisce l’Albero delle zoccole? Faccia pure. Tanto fra una settimana sarà costretto a implorarmi in ginocchio per farmi tornare a trattare”.
L’ultimatum. Poi guerra all’”albero delle zoccole”
L’Albero delle zoccole è una vecchia parodia a luci rosse del film di Ermanno Olmi. Tra gli amici di Verdini, e non solo, l’Albero delle zoccole è l’ultimo insultante sinonimo del cerchio magico che tiene prigioniero l’ex Cavaliere. In primis: la fidanzata Francesca Pascale e la badante Mariarosaria Rossi, colei che vorrebbe cacciare il “duo tragico” formato da Verdini e Gianni Letta. Ancora lo sfogo di “Denis” raccolto dai suoi fedelissimi: “Io aspetto una settimana, a patto però che quelle non mi attacchino più. Altrimenti non so come va a finire”. Verdini sarà pure in silenzio ma non è immobile. Dietro almeno quindici, se non venti, dei nuovi Scilipoti renziani al Senato c’è la sua manona: azzurri, alfaniani di Ncd, finti autonomisti del gruppo di Gal. Incontri, telefonate, abboccamenti. Un’agenda piena, non vuota. Lo sherpa toscano del Nazareno si è fatto addirittura prezioso per il Condannato che ha sbattuto i piedi sul tavolo dopo lo choc per l’elezione di Mattarella al Quirinale. Sì, è vero, l’altro giorno lui e Confalonieri si sono sentiti, ma poi Verdini ha rifiutato un invito a pranzo a Palazzo Grazioli arrivato direttamente dal Pregiudicato.
Il cerchio magico cerca la rivincita
La lotta per il potere dentro e fuori Forza Italia non ha nulla di politico. E la visione verdiniana delle cose è molto semplice: per lui “Matteo” è molto più di un amico e perdere il carro del nuovo pigliatutto di Palazzo sarebbe letale. Al contrario, l’accordo tradito sul Colle per Giuliano Amato, tradito da Renzi ovviamente, è stato una rivincita per il cerchio magico: la Rossi, la Pascale, Toti, Dudù, Romani, la Gelmini. La guerra nucleare nel magico mondo berlusconiano ha poi una protagonista rimasta sinora nell’ombra. È la vera donna influente che sussurra all’orecchio di Berlusconi: la primogenita Marina. Sarebbe lei, infatti, la mandante delle uscite della Rossi contro le colombe nazarene. Ancora una volta lo scontro investe la “roba” di famiglia più che la sostanza politica. Quando dieci giorni fa, l’ex Cavaliere riunì il suo gabinetto di guerra per decidere la linea su Mattarella fu proprio a Marina a dirgli di non porgere l’altra guancia: “Papà decidi tu, per me non ci sono problemi. Mattarella non può danneggiarci, se vuoi rompere fallo, io sarò con te in ogni caso”.
Prima della rottura le azioni vendute da Fedele
La posizione della primogenita, più volte invocata per la successione dinastica dell’anomalo centrodestra italico, è in aperto contrasto con il fronte nazareno del berlusconismo, composto da Gianni Letta, Fedele Confalonieri ed Ennio Doris di Mediolanum, oltre a Verdini naturalmente. Doris, per esempio, ieri ha rilasciato un’intervista per ribadire che “il patto tra Silvio e il premier è una cosa buona per il Paese”. Un lapsus, certamente. Doris avrebbe voluto dire “una cosa buona per Mediaset e Mediolanum”. Basta seguire il filo curioso di una notiziola pubblicata ieri dal Corsera nella pagina dei mercati finanziari. Venerdì 30 gennaio, alla vigilia dell’elezione di Mattarella dopo lo strappo renziano, Confalonieri ha approfittato della fase buona di Mediaset in Borsa (più di 4 euro ad azione) e ha incassato 313.413 euro per 77mila azioni. Un affarone, nel giorno in cui si intonava il provvisorio De Profundis per il Nazareno. Curioso, appunto.
Week end ad Arcore tra politica e affari
Da Verdini all’Albero delle zoccole, per finire a Marina e Confalonieri. Il punto di arrivo coincide con quello di partenza: cosa farà Berlusconi nei prossimi giorni, a partire dalle riforme costituzionali alla Camera, martedì? Le colombe volano bassissime. Il Condannato sembra arroccato su un inedito antirenzismo. Motivazione: “Non mi fido più, Renzi è autoritario e pericoloso”. Intorno a lui tutti stanno a guardare e ad aspettare. Ad Arcore sarà un fine-settimana di riflessione ma gli affari e la tutela del conflitto d’interessi non hanno i tempi della politica. I soldi corrono moto più velocemente. Il soldato Denis tornerà in servizio permanente?

Corriere 7.2.15
Patto in crisi, l’amarezza di Verdini
«Vedo nani e ballerine fare festa»
Il diario: Renzi prepara rappresaglie e organizza le truppe come faceva Masaniello
di Francesco Verderami

qui

il Fatto 7.2.15
Telenazareno: Renzi tiene in pugno B. e De Benedetti
Canone per le frequenze tv: nel 2014 l’Agcom fa uno sconto di 40 milioni di euro in 4 anni a Mediaset e stanga Gruppo Espresso e Telecom con un aggravio di 47 milioni
Ora il premier azzera tutto e deve decidere chi favorire. Altrimenti ci rimette il Tesoro
di Stefano Feltri e Carlo Tecce


Da presidente del Consiglio Matteo Renzi potrà indicare il prossimo direttore generale della Rai. Ha un proficuo rapporto con la Fca di John Elkann e Sergio Marchionne, a cui fanno capo La Stampa e il Corriere della Sera, ma le sue preferenze e le sue indicazioni hanno un impatto molto concreto sui destini di due gruppi editoriali politicamente sensibili: Mediaset e L’Espresso. Il governo ha presentato un emendamento al decreto Mille-proroghe, in discussione alla Camera, che rinvia a data incerta il pagamento di decine di milioni di euro di canone per la concessione di frequenze tv. Una decisione che tiene in sospeso Mediaset e Persidera, società, quest’ultima, al 30 per cento del gruppo Espresso e al 70 di Telecom Italia. Mediaset, grazie a una contestata delibera Agcom, avrebbe risparmiato 38,4 milioni di euro in 4 anni, la Rai 72 circa. L’Espresso, invece, ne avrebbe spesi 47,5 in più in otto anni. E le emittenti locali sarebbero scomparse: Rete Capri, per dire, doveva 2,3 milioni quest’anno.
IL 30 GIUGNO 2014 Telecom ed Espresso mettono insieme un pacchetto di frequenze televisive che detengono, in parte eredità del “dividendo digitale” (Telecom aveva La7 e L’Espresso Rete A quando c’è stato il passaggio di tecnologia) e parte acquistate. Un’alleanza da 96 milioni di euro di fatturato (nel 2013), ottenuti affittando le frequenze a produttori di contenuti, inclusa Mediaset. Un affare che si regge su due semplici variabili: quanto si paga di concessione per le frequenze, un bene pubblico, e quanto si incassa dal canone pagato dal cliente. Dai tempi della legge Gasparri, 2005, pende sull’Italia una procedura d’infrazione europea: il mercato è troppo concentrato tra pochi soggetti. Per rispondere alle richieste europee, il 30 settembre scorso l’Autorità delle comunicazioni (Agcom) cambia il calcolo del canone da pagare per le frequenze. Prima, con la tv analogica, il gettito di 50 milioni di euro era dovuto a un prelievo fiscale di circa l’1 per cento su un fatturato complessivo da canoni di 5 miliardi. Il nuovo sistema di calcolo parte dal valore d’asta delle frequenze tv (31 milioni di euro) e stabilisce che chi deve pagare è la società che gestisce la frequenza, non il gruppo industriale di cui fa parte. Risultato: dopo un graduale rialzo, Persidera pagherà 13 milioni di euro, quanto Rai (con Rai Way) e Mediaset (con Elettronica Industriale). Nel 2014, Persidera ha saldato il conto con soli 802.000 euro. In audizione alla Camera, l’amministratore delegato di Persidera Paolo Ballerani ha contestato il nuovo calcolo: “Esiste una rilevante differenza tra frequenze assegnate gratuitamente o anche illegittimamente occupate e quello oggetto di acquisto da parte di singoli operatori”. Rai e Mediaset si sono trovate la banda aggiuntiva gratis con il passaggio dall’analogico al digitale; Telecom Italia Media ed Espresso, i due soci di Persidera, ci hanno investito 500 milioni. Persidera contesta altre due cose: che viste le precarie condizioni degli editori tv non si può scaricare su di loro l’aggravio fiscale e che Mediaset e Rai hanno la possibilità di ammortizzare meglio il costo, essendo gruppi editoriali e non meri noleggiatori di frequenze. Secondo Persidera, il canone equo sarebbe 230 mila euro, altro che 13 milioni.
IL 29 DICEMBRE il ministero dello Sviluppo economico ha stabilito che, in attesa di decidere come recepire la delibera dell’Agcom in un apposito decreto, i titolari di frequenze devono versare soltanto un acconto pari al 40 per cento della somma dovuta relativa al 2014, calcolata con le vecchie regole. Ma il decreto con i nuovi importi non è mai arrivato. E così, con l’emendamento al Milleproroghe depositato pochi giorni fa, il governo ha deciso di rinviare ancora. Scadenza il 30 giugno. Con una certa soddisfazione degli interessati.
A gennaio la Rai ha pagato 10,5 milioni, Mediaset 7 e Persidera soltanto 320 mila euro. Il gruppo De Benedetti-Telecom è quello che risparmia di più: se le nuove regole fossero già state in vigore avrebbe pagato 1,4 milioni (destinati a diventare 13 in otto anni). Mediaset e Rai avrebbero pagato 3,2 milioni ciascuna (salgono a 13 in quattro anni). Persidera è la più interessata anche per un’altra ragione. Il 5 dicembre, dopo alcune indiscrezioni uscite sui giornali, Telecom Italia Media ha dovuto precisare che “allo stato attuale, più di un soggetto ha manifestato interesse per la società”. Persidera è in vendita. E il suo valore dipende da quanto deve pagare di canone per le frequenze che possiede. La dimostrazione: a gennaio la vendita di Persidera viene accantonata e si pensa di togliere dalla Borsa Telecom Italia Media, per vendere con più calma le frequenze senza sottoporsi ogni giorno al giudizio del mercato.
DI SOLDI nel settore ne circolano ancora parecchi, nonostante la crisi: due settimane fa proprio il Gruppo Espresso, azionista di Persidera, ha venduto per 17 milioni di euro Deejay Tv a Discovery Italia, ramo del colosso americano Discovery Communications. I contenuti saranno prodotti ancora insieme a Elemedia, una società dell’Espresso, e trasmessi sui multiplex di Persidera. In questi anni il gruppo Espresso non è mai riuscito a trasferire la sua forza editoriale di carta (con La Repubblica, L’Espresso e quotidiani locali) nell’etere. Meglio limitarsi a noleggiare frequenze.
Per Mediaset la partita è importante, ma meno decisiva: Silvio Berlusconi sta iniziando a pensare di vendere tutto il gruppo, o almeno la parte Premium, finché ha ancora un peso politico. Le frequenze sono un aspetto collaterale che assume peso, perché i ricavi dalla pubblicità scarseggiano.
IL PATTO DEL NAZARENO sulle riforme pare si sia rotto, ma la vicenda televisiva continua a essere tangibile legame tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Il premier sa bene che finché rimarrà aperta la questione delle nuove regole sul pagamento dei canoni per le frequenze, all’Espresso non saranno molto tranquilli. Con Carlo De Benedetti, fuori dalle aziende di famiglia affidate ai figli ma ancora presidente del ramo editoriale, il premier ha rapporti alterni. L’Ingegnere prima era scettico, poi è diventato ottimista al limite dell’entusiasmo, condiviso da Repubblica. Chissà se nel Gruppo Espresso la scelta di rinviare il salasso governativo da quasi 50 milioni per Persidera sarà stata letta come una cortesia o uno sgradevole tentativo di mantenere influenza sui destini finanziari del gruppo. 

Corriere 7.2.15
Il video e la politica
Frequenti sospetti televisivi
Una norma sulle frequenze tv suscita una ridda di retropensieri su una materia
che per sua natura dovrebbe essere trasparente
di Aldo Grasso

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Repubblica 7.2.15
Ecco l’effetto Quirinale: sì a Mattarella da 6 italiani su 10 e anche il governo recupera Il Pd torna a salire, Fi e Lega giù
Il nuovo presidente della Repubblica parte da dove aveva cominciato Napolitano nel 2006 La sua elezione sembra giovare a Renzi, la cui popolarità risale di tre punti, toccando il 49 % In crescita Vendola e Sel, ma anche i partiti di centro: oltre il 5 per cento. 5Stelle stabili
di Ilvo Diamanti


Forza Italia supera di poco il 14%. Il Carroccio, dopo molti mesi, conosce un arretramento significativo e si ferma all’11%
L’esecutivo riprende 4 punti e arriva al 46%. I consensi tornano dagli elettori di Pd, Sel, Area Popolare, ma anche di Fi e M5S

POCHI giorni dopo l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, il clima d’opinione verso le istituzioni e il sistema politico, fra gli italiani, è cambiato. In particolare, è migliorata l’immagine del governo e del suo premier. Inoltre, si è rafforzato il PD. Ma, soprattutto, è risalita in modo repentino la popolarità del Presidente. Il sondaggio appena concluso da Demos per l’Atlante Politico rileva, infatti, come il 59% degli italiani (intervistati) esprima (molta o moltissima) fiducia nei confronti di Sergio Mattarella. Si tratta, dunque, di 15 punti in più rispetto a Giorgio Napolitano, al momento della conclusione del suo (secondo) mandato. In altri termini, 6 italiani su 10 oggi attendono il Presidente con fiducia. Una maggioranza larga, come quella, d’altronde, che aveva guardato con fiducia Napolitano, al momento dell’insediamento, nel maggio 2006. E ha continuato a sostenerlo, per molti anni. Unico riferimento unitario di un Paese diviso. Oggi, evidentemente, il Paese attende, spera, di potersi riunire di nuovo intorno al Presidente. Anche se i consensi nei suoi riguardi riflettono, sostanzialmente, le dinamiche politiche che ne hanno accompagnato l’elezione. Il sostegno a Mattarella, infatti, è molto elevato a centrosinistra. Anzitutto fra gli elettori del PD. Ma è ampio anche nella base di SEL e del Centro (prossimo al 60%). Mentre è molto più limitato (30% -40%) fra gli elettori di FI e del M5s. Che, in Parlamento, non hanno votato per Mattarella. Il quale, invece, ottiene un consenso (di poco) maggioritario dalla base elettorale della Lega e dei Fratelli d’Italia. Il nuovo Presidente della Repubblica, dunque, sembra aver ristabilito il legame di fiducia con gli italiani. Tuttavia, le stesse ragioni che avevano prodotto il distacco fra il Quirinale e l’opinione pubblica, durante l’ultimo anno, incombono ancora. E rischiano di complicare, presto, il percorso presidenziale di Mattarella. Chiamato, da subito, a confrontarsi con la nuova legge elettorale e le riforme costituzionali. In un contesto politico segnato da nuove tensioni. Anzitutto, dal contrasto fra Renzi e Berlusconi, che si è acceso proprio in occasione dell’elezione del Presidente. Il PdN, il Patto del Nazareno, oggi sembra meno solido. Secondo alcuni, si sarebbe perfino dissolto. A guardare i dati dell’Atlante Politico, però, questa frattura (se di frattura davvero si tratta), ma, soprattutto, l’elezione presidenziale sembrano aver fatto bene al governo e al premier. La fiducia nei confronti del governo, infatti, è risalita di 4 punti nell’ultimo mese. Oggi è al 46%, come in dicembre. Ha recuperato consensi presso gli elettori di tutti i principali partiti. Per primo, evidentemente, il PD (quasi 80%). Ma anche SEL e AP. Perfino FI e il M5s. Unica eccezione: la Lega e i Fratelli d’Italia. Parallelamente, è cresciuta anche la popolarità personale di Renzi. “Stimato” dal 49% degli elettori, 3 punti in più del mese scorso. Una ripresa significativa, per quanto limitata, perché avviene dopo mesi di declino. Renzi, peraltro, è il leader di partito che vede aumentare maggiormente il proprio credito, insieme a Vendola e alla Meloni. Anche se l’unica “opposizione personale” al premier continua ad essere proposta da Matteo Salvini. Il leader della Lega, ormai proiettato decisamente oltre il Po.
È, tuttavia, interessante osservare come gli orientamenti di voto, in questa occasione, siano solo in parte coerenti con le valutazioni “personali” sui leader. Se non per quel che riguarda Renzi e il “suo” partito. Alla ripresa di consensi del Capo, infatti, corrisponde la crescita del PD, che, secondo le stime di Demos, rispetto a gennaio, è aumentato quasi di un punto e mezzo e si attesta al 37,7%. Il livello più alto da ottobre. Peraltro, ormai pare non aver più avversari. Salvo il M5s, che resta attestato poco sotto il 20%. Unica opposizione, che, tuttavia, non riesce a entrare nel gioco delle alleanze. Percepito (e usato) dagli stessi elettori non tanto come alternativa di governo, ma come canale di dissenso. Malessere. Verso tutti. Calano, invece, i consensi ai principali partiti di Destra. Forza Italia: supera di poco il 14%. La stessa Lega, dopo molti mesi, conosce un arretramento significativo. Si ferma all’11%. Molto, rispetto alle Europee, e ancor più rispetto alle politiche del 2013. Ma 2 punti meno di dicembre. Lontana da Renzi e dal PD. Arretra anche di fronte a Berlusconi e a FI. Fra gli altri partiti, infine, crescono, in particolare, SEL e la Sinistra, ma anche i partiti di Centro. Entrambi oltre il 5%. Segno di una crescente “centrifugazione” del voto.
L’elezione di Sergio Mattarella sembra, dunque, aver rafforzato anzitutto l’istituzione che egli rappresenta. Il Presidente della Repubblica. Oggi è guardato con fiducia e speranza dalla maggioranza degli italiani. Questa elezione, però, ha restituito credito al Partito e al Governo di Renzi. Il PdR e il GdR escono rafforzati da questo passaggio. Insieme, ovviamente, al loro Capo (per citare una formula di Fabio Bordignon). Anche se si tratta di una fiducia “a termine”. In vista delle prossime, urgenti, scadenze.
Economiche e istituzionali. Di certo, in questa fase, l’Italia appare un sistema mono-polista, più che bi o multi-polare. Perché ha un solo, unico Capo e un solo, unico partito che contino. Anche se, in Parlamento, la maggioranza del Governo di Renzi dipende da alleanze a geometria variabile - e instabile. Soprattutto dopo che il PdN si è logorato, se non spezzato. Anche perché Berlusconi, insieme a FI, appare indebolito dall’elezione presidenziale.
Per questo, a mio avviso, il Capo - del Governo e del PdR continua a pensare a nuove elezioni. Appena possibile. Anche se il percorso e i vincoli imposti dalla nuova legge elettorale rendono questa possibilità poco possibile. Ma governare un Parlamento eletto in epoca prerenziana, con un PD – allora bersaniano, inseguendo consensi liquidi, di giorno in giorno, penso che per Renzi sia sempre meno sopportabile. Psicologicamente, prima ancora che politicamente.

il Fatto 7.2.15
#enricostaisereno 

Il governatore Rossi
Chiederò a Denis di ricandidarmi... ”
intervista di Davide Vecchi


Enrico Rossi non ha dubbi: “Sono e rimarrò il candidato governatore della Toscana”. Ne è talmente sicuro da sfidare la storia renziana definendosi persino “sereno”. Eppure non solo c’è una fronda interna al Pd che vorrebbe estrometterlo, ma ha anche due problemini da risolvere nell’immediato: un processo per falso ideologico e soprattutto la partita aperta con la Chil Post, società di Tiziano Renzi, il babbo, che avrebbe ottenuto illegittimamente la copertura di un mutuo dalla finanziaria regionale Fidi Toscana.
Sicuro di essere sereno?
Affronto problemi ben più gravi e seri, mi creda: guidare una Regione non è affatto facile. Abbiamo appena varato una legge sulle cave che da queste parti è una faccenda piuttosto sentita e delicata.
A casa del premier hanno altre priorità al momento.
Si riferisce alla vicenda Fidi e Chil immagino.
Immagina bene.
Guardi che è molto semplice: abbiamo ricevuto la comunicazione degli avvocati di Fidi e ci hanno detto che non c’è possibilità di fare azioni nei confronti di Tiziano Renzi.
Il cda ha invece individuato un reato penale: erogazione indebita ai danni dello Stato. Quella comunicazione non l’avete ricevuta?
Non ancora. Ma se ne occupa Fidi, che è un ente autonomo. Noi abbiamo rivelato con assoluto tempismo e piena trasparenza che nella vicenda era mancata la comunicazione delle variazioni societarie da parte di Tiziano Renzi e della banca di Pontassieve con cui aveva il mutuo.
Il cda vi invita ad agire.
Posso dirle quello che so: ieri sera l’assessore Simoncini, che si sta occupando della vicenda, mi ha chiamato a seguito di un colloquio avuto con i vertici di Fidi riferendomi di aver ricevuto comunicazione della non sussistenza dei termini per intraprendere azioni contro Tiziano Renzi; questo è quanto hanno detto gli avvocati a Simoncini due giorni fa e che lui ha riportato a me.
Insomma nessuna denuncia.
La vicenda non è finita, per carità. Noi vogliamo che ci si occupi di Tiziano Renzi come di tutti gli altri e anzi con maggiore scrupolo proprio perché si tratta del padre del presidente del Consiglio.
Nonché segretario del partito che l’ha candidata governatore. Sa che nel Pd lei è considerato un “non fedelissimo”, e quindi consigliano di non ricandidarla?
Posso ripetermi?
Certo
Sono sereno. Ho dato la mia disponibilità a settembre, ovviamente accompagnata con l’ipotesi di partecipare alle primarie con chiunque avesse voluto presentarsi. È stato il partito a decidere che Rossi doveva essere il candidato unico. Punto.
Il partito, ma Renzi che le ha detto?
Fu lui ad agosto, a Forte dei Marmi, a dire che la mia era la candidatura naturale. Parlò prima di me, quindi...
Da agosto gli equilibri politici sono cambiati molto, ha avuto altre conferme più recenti?
No, non ho più visto il premier né abbiamo più parlato di questo.
Alla prima chiama per l’elezione del presidente Sergio Mattarella lei non ha risposto: stava cercando di essere ricevuto da Renzi?
No, no: assolutamente. Ero in aula e stavo parlando con una deputata, non ero con Renzi. Mi sono accorto troppo tardi che toccava a me e così ho aspettato la seconda chiama ma assolutamente non ero con Renzi né lo rincorrevo in cerca di conferme. Se cambierà idea immagino che verrò a saperlo.
A breve si aprirà il processo che la vede tra gli imputati per un buco da 200 milioni di euro alla Asl di Massa Carrara.
Io ho piena fiducia nella magistratura che sta facendo il suo lavoro come è giusto che sia. Sembrerà la solita frase di circostanza ma io ho profondo rispetto nei confronti della magistratura, del resto fui io a denunciare la vicenda. E sono stato poi tirato in mezzo dall’ex direttore amministrativo.
Ermanno Giannetti, condannato a cinque anni e mezzo per peculato, che ha detto agli inquirenti di aver subito delle pressioni da parte sua allo scopo di occultare il disavanzo dei conti dell’Asl.
A breve si aprirà il processo, mi sembra superfluo aggiungere altro.
Non teme che già l’essere indagato potrebbe spingere qualcuno a sollevare dubbi sulla sua candidatura?
Ho già detto che anche in caso di rinvio a giudizio io rimarrò candidato governatore. Aggiungo che i termini per presentarsi alle primarie sono scaduti il primo febbraio e nessuno ha presentato le firme necessarie, inoltre il Pd regionale ha comunicato ufficialmente la mia candidatura alla presidenza. Più di così...
Con Renzi non si sa mai. O magari anche il suo nome era nel patto del Nazareno...
Non credo, anche perché non ho il piacere di avere rapporti con Verdini. Io poi non sono tipo da patti, mai fatti, né del Nazareno né della Madonna del Sacro Cuore. E spero che la rottura del patto sia una rottura vera e che il Pd possa finalmente ritrovarsi unito come lo è stato sull’elezione di Mattarella. In questa fase il partito si è ritrovato.
Nel dubbio che la rottura sia vera...
In effetti potrei chiedere conferma a Verdini. Ma siamo solo al buongiorno e buona sera, davvero non l’ho mai incontrato. A parte gli scherzi, fermo restando le diversità qualche volta potrei sollecitare anche lui.
Per la sua candidatura?
Piuttosto per la Toscana. Ci sono molte cose su cui magari potrebbe attivarsi anche lui.
Sembra la premessa di un patto
La sua è una fissazione. Mi dia retta: stia sereno.

Corriere 7.2.15
La fusione tra gli Aeroporti di Firenze e Pisa

( m. gas. ) L’ultimo ostacolo alla fusione degli aeroporti di Pisa (4,7 milioni di passeggeri annui) e Firenze (2,2) è caduto durante un consiglio comunale, quello di Pisa, che a sorpresa ha approvato un ordine del giorno con il quale si dà il via libera all’operazione anche se condizionata a «precise garanzie» e tra queste l’assicurazione che lo sviluppo di Firenze (realizzazione di una nuova pista e infrastrutture) non peserà sulla nuova società, ma sarà garantito da un finanziamento pubblico di 150 milioni. È un evento che proietta la nuova società (si chiamerà Toscana Aeroporti spa) al quarto posto nella classifica dei sistemi aeroportuali nazionali con 7 milioni di passeggeri annui e un obiettivo di 12 milioni entro il 2029. Gli ultimi due atti della fusione sono le assemblee dei soci della Adf (Firenze) che si terrà lunedì e della Sat (Pisa) che si svolgerà il giorno dopo e difficilmente, dopo il «sì» del consiglio comunale pisano, la parte più critica alla fusione, si potranno avere sorprese. Motore della nuova società è Corportation America del magnate argentino Edoardo Eurnekian che detiene la maggioranza delle azioni dei due scali toscani ed è proprietario nel mondo di altri 65 scali civili. Secondo alcune indiscrezioni, presidente di Toscana Aeroporti, potrebbe essere Marco Carrai , l’attuale presidente di Adf e grande amico del premier Matteo Renzi.

il Fatto 7.2.15
La denuncia, Cesare Damiano
“Cassintegrati: l’Inps addolcisce i dati per compiacere il premier”
di Salvatore Cannavò


Numeri sbagliati per compiacere il governo? Non proprio, ma quasi. Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera, sinistra Pd, critico con Renzi ma sempre con un atteggiamento dialogante, ha fatto la sua denuncia qualche giorno fa dopo aver letto i dati dell’Istituto sulla cassa integrazione relativa al 2014.
Cosa l’ha allarmata?
Ho letto una dichiarazione dell’Inps nella quale si affermava che il totale delle ore di Cassa integrazione autorizzate nel 2014 si attestava a 1 miliardo e 112 milioni registrando una diminuzione di circa il 6% rispetto allo stesso consuntivo del 2013 indicato in 1 miliardo e 182 milioni.
Quindi, una bella notizia?
Certo. Però io verifico trimestralmente i dati dell’Inps e ricordavo che il consuntivo del 2013 non era quello indicato ma 1 miliardo e 76 milioni, oltre 100 milioni di meno. Quindi se confrontiamo il dato 2013 con quello del 2014 si ha un aumento del 3% e non una diminuzione.
Cosa ha risposto l’Inps?
Che l’Istituto provvede nel mese di giugno di ciascun anno a rivedere e aggiornare la cifre del mese di gennaio. Dopo la revisione, quindi, si è arrivati a 1 miliardo e 182 milioni. Ma se vogliamo monitorare davvero la Cig dobbiamo confrontare dati omogenei. Quale sarà, infatti, il dato rivisto a giugno? Sarebbe opportuno non fare dichiarazioni affrettate.
E perché quella fretta?
Non lo so. Avrebbero dovuto precisare che si trattava di un confronto tra dati non omogenei.
L’Inps ha cercato di mostrarsi gentile con il governo?
Non voglio essere malizioso ma qualcuno può essere indotto in tentazione e magari se si può fornire un dato positivo lo si fa. Ma non è corretto.
A proposito di Inps ci sono state polemiche sulla nomina del nuovo presidente accusato di non avere i requisiti adeguati. Qual è il suo giudizio?
Le osservazioni sui requisiti del nuovo presidente venivano soprattutto da parte di Forza Italia e Ncd. Come presidente di Commissione ho pensato fosse giusto valutare il problema. Abbiamo convocato Boeri per un’audizione a cui è venuto da Londra. Per quello che mi riguarda le spiegazioni fornite sono state più che sufficienti. Su 32 votanti, abbiamo avuto 4 astensioni del M5S e un voto contrario di Forza Italia.
A che punto è la discussione sui decreti delegati del Jobs Act?
Il parere del Parlamento non è vincolante e quindi il governo può non tenerne conto. Sarà un passaggio politico. A me premono tre cose: cancellare il riferimento ai licenziamenti collettivi; inserire un criterio di proporzionalità tra infrazione e sanzione; aumentare le indennità in caso di licenziamento.
E che cosa si aspetta dai nuovi decreti che dovrebbero eliminare le tipologie precarie?
Se il governo decide di scommettere tutto sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e lo incentiva con sconti fiscali robusti, sarebbe utile e giusto un tempo più lungo di protezione in caso di licenziamento, diminuire la durata del contratto a termine e cancellare le forme di lavoro più precarie a partire dal contratto a progetto e dall’associazione in partecipazione. Se è un nuovo sistema deve essere coerente.
Dopo l’elezione di Mattarella sono cambiati i rapporti nel Pd?
Con il voto sul Presidente della Repubblica, Renzi ha scelto di rompere l’asse privilegiato con Berlusconi. Però non può essere uno spot. Il metodo della sintesi interna al Pd per poi proporla agli altri deve essere quello guida.
Come minoranza siete ascoltati di più?
Se vogliamo confrontarci non ci mancano le occasioni, io sono disponibile. Ma non mi faccio illusioni. Se non vedo non credo.

Corriere 7.2.15
Scala e Primo maggio, Renzi contro i ribelli
Operai Cgil non disponibili a lavorare, il premier scrive a un orchestrale: farò di tutto, nessun dorma
di Pierluigi Panza


MILANO «Sono a conoscenza della situazione milanese. Naturalmente la penso come lei. E le garantisco che farò di tutto perché questo Paese smetta di essere ostaggio delle minoranze, che spero non siano facinorose, ma sicuramente rischiano di essere miopi. Ce la metteremo tutta, glielo garantisco. Teniamoci in contatto, se le va. E per restare in tema: nessun dorma!».
È la risposta che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha inviato ieri a un orchestrale della Scala che gli aveva scritto sul caso del Primo Maggio. Per celebrare l’inaugurazione dell’Expo, la Scala ha fissato la «prima» della Turandot diretta da Riccardo Chailly. Peccato che il Primo Maggio sia anche la festa dei lavoratori… e mentre quelli di Cisl e Uil hanno dato la disponibilità alla prestazione quelli della Cgil non hanno sciolto le riserve mettendo in forse l’inaugurazione.
La lettera che l’orchestrale ha inviato a renzi è molto dura verso i sindacati. «Il nostro Teatro ha finalmente ottenuto il diritto all’autonomia grazie alla situazione di eccellenza e produttività — si legge nel testo —. C’è stato chiesto di inaugurare l’Expo con una rappresentazione di Turandot . A distanza di poco più di due mesi dall’evento siamo ostaggio di una minoranza di facinorosi che, con la scusa del “diritto” di celebrare la festa del Primo Maggio bloccano il diritto della maggioranza di lavorare in tale data».
Note intonate per le orecchie del premier e, naturalmente, per quelle della soprintendenza, dei dirigenti di Expo e, forse, anche di una parte della Cgil, visto che nella stessa lettera si ricordava che «persino la Camusso ha espresso una critica nei confronti delle loro posizioni...». Infatti la segretaria aveva dichiarato che sebbene il Primo Maggio non fosse «una data disponibile» per le trattative, «l’inaugurazione dell’Expo» doveva «essere una data disponibile». Un modo sibillino per invitare a lavorare. La lettera dell’orchestrale si conclude con un attacco ai sindacati, «che vivono ancorati al passato e non sono in grado di portare niente di buono».
La risposta di Renzi può essere una spinta verso la conclusione del braccio di ferro, che potrebbe concludersi dedicando la serata alle vittime sul lavoro come già accadde con Claudio Abbado in un Primo Maggio degli anni 70. Ma pare che questo non basti agli operai Cgil. Tanto che in serata i coordinatori nazionali del sindacato hanno diramato una nota esprimendo solidarietà «alla Rsa Cgil e ai lavoratori del teatro sottoposti a un’aggressione mediatica per aver difeso un diritto ribadito dalla Corte di Cassazione e indisponibile alla trattativa sindacale». Nella nota si fa anche riferimento al Contratto nazionale di lavoro e all’integrativo aziendale; da questo si può intuire cosa chiedono che entri nella partita.
Sul caso Primo Maggio è intervenuto anche il sindaco di Milano e presidente del teatro. Giuliano Pisapia ha ribadito di considerare «sbagliata» la scelta della Cgil «perché il successo di Expo porterà nuovi posti di lavoro, tanti, e credo che i sindacati debbano preoccuparsi anche se non soprattutto di questo».

il Fatto 7.2.15
Giunta Salva Calderoli
Dare dell’orango a Kyenge è “aspra critica politica”


Il 13 luglio 2013, in un comizio a Treviglio davanti a 1500 persone, il senatore della Lega Nord Roberto Calderoli disse: “Rispetto al ministro Kyenge, veramente voglio dirgli, sarebbe un ottimo ministro, forse lo è. Ma dovrebbe esserlo in Congo, non in Italia. Perché se in Congo c’è bisogno di un ministro per le Pari Opportunità per l’Integrazione, c’è bisogno là, perché se vedono passare un bianco là gli sparano. E allora, perché non va là? Che mi rallegro un pochino l’anima, perché rispetto a quello che io vivo ogni volta, ogni tanto smanettando con Internet, apro “il governo italiano”, e cazzo cosa mi viene fuori? La Kyenge. Io resto secco. Io sono anche un amante degli animali eh, per l’amor del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie, e tutto il resto. I lupi anche c’ho avuto. Però quando vedo uscire delle – non dico che – delle sembianze di oranghi io resto ancora sconvolto, non c’è niente da fare.... ”. La Giunta del Senato, il 4 febbraio scorso, ha ritenuto a maggioranza che Calderoli abbia solo espresso dei giudizi politici sul’ex ministro Cécile Kyenge. Ecco il resoconto di quella seduta.
Il relatore, Vito Crimi (M5S) prospetta l’opportunità che la Giunta deliberi di proporre all’Assemblea la declaratoria di sindacabilità (...) non rientrando le opinioni espresse dal senatore Calderoli nell’ambito delle prerogative tutelate dall’articolo 68, primo comma, della Costituzione.
Carlo Giovanardi (Ncd-Udc) rileva che le opinioni espresse nel caso di specie dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario. Nella storia politica italiana sono ravvisabili numerosi casi nei quali sono state espresse critiche, anche attraverso locuzioni aspre, rispetto ad avversari politici e ciò non ha mai determinato alcun risvolto sul piano processuale penale. Rileva poi che la Lega ha nel proprio ambito sindaci e amministratori locali di colore e conseguentemente l’accusa di razzismo nel caso di specie è del tutto priva di fondamento. Si sofferma infine sulle indiscusse capacità operative del senatore Calderoli in qualità di Vice presidente del Senato, delle quali occorre tener conto. (...)
Lucio Malan (Fi) evidenzia che nel caso di specie il senatore Calderoli, nell’ambito di un comizio politico, ha svolto delle critiche rispetto agli indirizzi politici per le immigrazioni seguiti dal ministro Kyenge, effettuando altresì talune battute a scopo satirico. Nel caso di specie non vi è stata nessuna offesa personale, visto che l’interessata non ha presentato querela. La scelta del magistrato di ravvisare una fattispecie di istigazione all’odio razziale risulta del tutto infondata ed è frutto di un pregiudizio culturale, atteso che se un cittadino di nazionalità europea fosse stato paragonato ad una scimmia nessuno avrebbe ravvisato un reato di tale tipo. Il magistrato non ha poi tenuto conto che un politico ha diritto di fare battute umoristiche, atteso che queste rientrano nel diritto di manifestazione del proprio pensiero di cui all’articolo 21 della Costituzione.
Erika Stefani (Lega) sottolinea che l’autorità giudiziaria ha compiuto delle violazioni procedurali (...) Nel caso di specie è ravvisabile un ingiustificato ritardo con cui il magistrato ha investito il Parlamento della questione di insindacabilità di cui al documento in titolo. Rileva poi che le espressioni oggetto dell’incriminazione sono state estrapolate da un discorso più ampio, con il quale il senatore Calderoli manifestava la propria critica politica rispetto all’operato del ministro Kyenge. (...) L’oratrice richiama poi l’attenzione sulla circostanza che il ministro Kyenge non solo non ha presentato querela, ma ha scelto anche di non costituirsi parte civile nell’ambito del procedimento penale in questione. (...)
Serenella Fuksia (M5S) dichiara di concordare con le valutazioni espresse dalla senatrice Stefani.
Claudio Moscardelli (Pd) (...) evidenzia che le accuse relative alle incitazioni all’odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano anche diverse persone di colore. (...)
Giuseppe Cucca (Pd) precisa che le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell’ambito di un particolare contesto di critica politica, evidenziando altresì che spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose. (...)
Nico D’Ascola (Ncd-Udc) ritiene che la Giunta abbia il potere di effettuare le proprie valutazioni anche in merito alla qualificazione del fatto criminoso effettuata dall’autorità giudiziaria. Tale qualificazione, nel caso di specie, risulta erronea, in quanto è del tutto assente il requisito dell’idoneità della condotta a raggiungere un risultato. (...)
Mario Giarrusso (M5s) sottolinea la valenza razzista delle espressioni utilizzate dal senatore Calderoli, evidenziando che tale circostanza risulta necessariamente e oggettivamente prevalente rispetto a tutte le considerazioni espresse nel corso del dibattito. (...). Enrico Buemi (Psi) evidenzia che nell’attuale contesto storico la critica politica assume spesso toni aspri, evidenziando tuttavia che tale circostanza non può essere trasposta sul piano penale. (...)
Maurizio Buccarella (M5s) fa presente che sul piano metodologico la Giunta è chiamata a riscontrare esclusivamente la sussistenza o meno del nesso funzionale, non potendo la stessa operare valutazioni su altri aspetti, rispetto ai quali l'unico organo competente non può che essere l’autorità giudiziaria. (...)
Doris Lo Moro (Pd) fa presente che non terrà conto nel caso di specie della conoscenza personale del senatore Calderoli, evidenziando che si atterrà esclusivamente ai fatti e che voterà quindi secondo coscienza.
Il relatore Vito Crimi (M5S) (...) ribadisce la necessità di tenere distinti l’ambito processuale, nel quale il senatore Calderoli potrà svolgere tutte le proprie attività difensive e nel quale l’autorità giudiziaria potrà valutare tutti gli elementi attinenti alla vicenda (...) e l’ambito delle valutazioni della Giunta, circoscritte al mero riscontro della sussistenza o meno del cosiddetto nesso funzionale.
Dario Stefano, presidente, non vota. Assenti: Casson (Pd), Pagliari (Pd), Caliendo (Fi) e Della Vedova (Sc) Votano per Calderoli: Moscardelli (Pd), Alicata (Fi), Augello (Ncd), Buemi (Psi), Cucca (Pd), D’Ascola (Ncd), Ferrara (Gal), Filippin (Pd), Fuksia (M5s), Giovanardi (Ncd), Malan (Fi) e Stefani (Lega). Votano per Kyenge: Lo Moro (Pd), Pezzopane (Pd), Buccarella (M5S) e Giarrusso (M5S). Incertezza sul voto di Nadia Ginetti (Pd).

La Stampa 7.2.15
Dietrofront Pd sulle offese a Kyenge: “In Aula voteremo contro Calderoli”
In Giunta si erano espressi per l’immunità del leghista
di Maria Corbi

qui

La Stampa 7.2.15
Insulti alla Kyenge
Così il Senato sdogana il razzismo
di Vladimiro Zagrebelsky


Il razzismo è al bando in Europa. Lo vieta la nostra Costituzione, come lo vietano le dichiarazioni dei diritti fondamentali in Europa, cui anche l’Italia è legata.
La condanna del razzismo, in tutte le sue forme, fa parte del nocciolo duro dell’identità culturale e morale d’Europa.
In Italia poi v’è un motivo specifico per essere ipersensibili e vigilanti, dal momento che abbiamo prodotto le non dimenticate leggi razziali. Eppure vi è molta tolleranza rispetto al razzismo.
Atteggiamenti ed espressioni razziste si vedono in situazioni di disagio sociale grave, in qualche modo connesso con la convivenza difficile con persone e gruppi di origine etnica diversa, come in certe periferie urbane. Quegli atteggiamenti sono da respingere, come quelli frutto di grossolanità e incultura che si vedono nelle curve degli stadi. Ma che dire quando il razzismo ostentato e compiaciuto, irresponsabilmente sorridente è mostrato da chi ha responsabilità politiche e un rilevante ruolo pubblico? La Costituzione e la legge condannano il razzismo, in modo che esso non rientra nella libertà di espressione. Tanto meno il razzismo è tollerabile quando chi se ne fa portavoce, per la posizione pubblica che riveste, ha influenza e eco nella società.
Il senatore Calderoli, vice presidente del Senato, nel corso di un comizio, ha paragonato a un orango Cécile Kyenge, medico italiano di origine congolese, all’epoca ministro dell’Integrazione. Un evidente insulto razzista, privo di qualunque connessione con le posizioni politiche da essa difese, che legittimamente un avversario politico poteva criticare. Un insulto per l’aspetto, il colore, la nascita: razzista, appunto.
Anche in Italia un simile insulto è punito come reato. Ma i parlamentari, come stabilisce la Costituzione, non rispondono delle opinioni espresse nell’esercizio della loro funzione. Se dunque il senatore Calderoli si fosse espresso in quei termini insultanti nell’esercizio delle sue funzioni parlamentari, egli sarebbe non punibile. Ed è proprio questa la conclusione cui è arrivata la maggioranza della Giunta delle immunità del Senato, all’esito di una discussione in cui si è visto richiamato il diritto di usare espressioni anche aspre nel dibattito politico, si è menzionato il diritto di satira e perfino si è arrivati a dire che «spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose» (sen. Cucca, Pd). E per escludere che le parole del senatore Calderoli siano offensive, si è sottolineato che non vi è una querela della vittima. La dignità personale della ministra Kyenge, che ha ritenuto che un’offesa razzista riguardi la comunità nazionale tutta e non la sua sola persona, è stata utilizzata per proteggere l’offensore. E dunque si tratterebbe di lecita critica politica. Naturalmente questa è una decisione politica, su cui hanno pesato considerazioni di interesse politico. Infatti è stata richiamata l’importanza della funzione svolta dal senatore Calderoli (con cui evidentemente è meglio aver buoni rapporti). Ma la naturale politicità della decisione non chiude il discorso; anzi impone di chiedersi quale politica sia quella che, per esigenze di rapporti politici in Parlamento, chiude gli occhi sul razzismo.
La Giunta delle immunità avrebbe dovuto valutare se si era trattato di esercizio delle funzioni parlamentari, poiché l’insindacabilità delle opinioni dei membri del Parlamento non riguarda genericamente l’ambito della attività politica. Sia la Corte Costituzionale, sia la Corte europea dei diritti umani hanno più volte ritenuto che la prassi del Parlamento italiano di coprire ogni genere di attività politica sia esorbitante e inaccettabile rispetto alla esigenza di riconoscere i diritti altrui. E’ facile quindi che, se il Senato approverà la proposta della Giunta, la Corte Costituzionale sia chiamata ad annullarla come contraria alla Costituzione. Ma anche di questa questione la Giunta non si è data cura.
La volgarità del lessico di tanti politici è da tempo divenuta abituale in Italia. Si tratta di un abbrutimento della dialettica politica, che naturalmente non resta in patria, ma fa subito il giro del mondo, contribuendo anch’esso allo svilimento dell’opinione internazionale sull’Italia. Tanto che qualche anno fa, per certe espressioni del ministro dell’Interno Maroni contro i Rom, intervenne il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, preoccupato per l’effetto che certi discorsi, certo linguaggio tenuto da responsabili politici hanno sulla formazione dell’opinione pubblica, stimolando e legittimando atteggiamenti razzisti.
Il razzismo ostentato con ingiurie rivolte a responsabili politici, diversi dalla maggioranza per origine o colore, non è solo un fatto italiano. Ma qui è tollerato e addirittura nobilitato come legittima manifestazione della funzione parlamentare. La Francia, prima dell’Italia, ha visto ministri che sono stati insultati non per la loro posizione politica, ma per la loro origine. Ora vittima degli stessi insulti è la ministra della giustizia Christiane Toubira. Ma in Francia non si crede che l’insulto razzista rientri nella libertà di espressione. E non si fermano i giudici, poiché sono offesi i valori fondamentali della Repubblica. Che, come anche il Senato dovrebbe credere, sono gli stessi della nostra Repubblica.

Corriere 7.2.15
I numeri dell’istruzione
Altro che rivoluzione informatica
Le scuole digitali sono 38 su 8.519
Dal «Libro e tastiera» di Luigi Berlinguer alle tre «I» di Berlusconi, solo slogan a ripetizione
di Gian Antonio Stella

qui

il Fatto 7.2.15
Dietro le giravolte
Austerità, con chi sta Zelig-Renzi?
di Stefano Feltri


Con lui l’Europa doveva #cambiareverso, addio all’austerità, alle regole burocratiche, ai cavilli brussellesi. Fate l’esperimento: scrivete su Google “Renzi superare il 3 per cento”. Troverete le seguenti dichiarazioni in ordine sparso: “Rispetto per chi decide di superare il 3 per cento” (3 ottobre 2014), “Renzi già al lavoro sfida Grillo. E a Letta: il 3 per cento si può sforare” (2 gennaio 2014), “Sulle riforme decido io, non la Troika o la Bce” (10 agosto 2014). C’è qualche filo logico nelle posizioni del premier sull’Europa e le regole contabili o la sua linea oscilla con l’umore e soprattutto in base a chi ha di fronte? Solidarietà generazionale con Alexis Tsipras, con cravatta in regalo da indossare quando la Grecia avrà risolto i suoi negoziati con l’Europa. Ma anche grande sintonia con Angela Merkel, simbolo di ogni intransigenza fiscale, che il premier ha voluto a tutti i costi nella sua Firenze il 22 gennaio, per un vertice privo di contenuti percepibili ma ricco di photo opportunity.
NEL PROGRAMMA DI RENZI per le primarie 2013, quelle che lo hanno portato alla guida del Partito democratico, c’era un capitolo intitolato “superare il 3 per cento”. Svolgimento: “Siamo noi che dobbiamo chiedere all’Europa di cambiare, ma prima di farlo, iniziamo a realizzare in casa le riforme che rinviamo da troppo tempo”, se si fanno le riforme “poi abbiamo le carte in regola per chiedere che cambi verso l’Europa”. Il premier ha scoperto che non è così semplice: a Bruxelles hanno la fastidiosa abitudine di distinguere tra riforme annunciate e riforme approvate, tra soldi virtuali e quelli reali nelle casse pubbliche, tra stime economiche di governo e stime indipendenti.
Quando il 2 luglio 2014 finalmente Renzi ha assunto la presidenza di turno dell’Unione europea è subito andato allo scontro con Manfred Weber, il tedesco capogruppo dei popolari all’Europarlamento. Perché il premier aveva un solo vero obiettivo politico: ottenere la sospirata “flessibilità” sui conti. Dopo sei mesi, nel discorso conclusivo della presidenza lo scorso 13 gennaio, Renzi non ha altro da celebrare che l’approvazione del piano Juncker (21 miliardi reali, che già c’erano, 315 quelli promessi con una spericolata leva finanziaria). Ma è un po’ difficile attribuirne a lui il merito esclusivo. Della flessibilità, nel discorso, nessuna traccia. Eppure, due ore dopo, la Commissione pubblica le “linee guida” sulla flessibilità. Sembra quasi uno sfregio. Renzi non celebra, la ragione è che dal ministero del Tesoro gli hanno spiegato che l’Italia non ha ottenuto benefici. La correzione del deficit strutturale non basta comunque: Bruxelles chiedeva lo 0,5 del Pil, l’Italia offriva lo 0,1, con le nuove soglie deve garantire lo 0,25. Morale: il giudizio della Commissione sulla legge di Stabilità approvata a fine dicembre è ancora sospeso. A marzo può arrivare, se non una bocciatura, almeno un vigoroso invito a fare qualcosa per mettersi in regola.
RENZI LO HA CAPITO e ha archiviato i suoi bellicosi propositi di una volta. Ha molto insistito per avere a Firenze Angela Merkel a gennaio: davvero gli eurocrati oseranno attaccare un così buon amico della Cancelliera più potente d’Europa? Quando Syriza ha vinto le elezioni in Grecia, il premier ha smentito di aver chiamato Alexis Tsipras per fargli le congratulazioni. Lo ha ricevuto a Roma la settimana dopo e davanti alle telecamere è stato tutto sorrisi e scambi di doni, ma quando si è arrivati a parlare delle cose serie, cioè la gestione del debito della Grecia, Renzi ha chiarito: “Le decisioni si prendono nei vertici a Bruxelles”. Poi la Bce minaccia di tagliare i finanziamenti alle banche greche se rompono i rapporti con la Troika? “Una decisione legittima”, assicura il premier.
Forse la sua non è schizofrenia, ma rassegnazione: ha perso la battaglia per la flessibilità e ora non gli resta che cercare la clemenza di Berlino (e dunque di Bruxelles).

il Fatto 7.2.15
Grecia, no al prestito ponte. Monta la rabbia di Atene
di Roberta Zunini


Atene Il giorno fatale della Grecia sarà l’11 febbraio quando, alla vigilia del Consiglio europeo dei capi di governo, si terrà una riunione straordinaria dell’Eurogruppo per discutere della crisi ellenica. La Potnia theron, signora della fauna, secondo Omero, a cui tutti gli esseri viventi appartengono, mercoledì prossimo potrebbe uscire dai radar dell’Unione Europea e diventare un Paese fallito, come se la sua storia non fosse altro che questione di soldi.
DI SPETTRI e fantasmi se ne sono già agitati tanti in Grecia in questi anni di crisi che la popolazione non se ne pre-occupa più. “E chissenefrega se Standar & Poor’s ci ha taglia il rating, tanto peggio di così non potrebbe andare. Decidano pure di affogarci ma sono certo che anche voi italiani e il resto d’Europa ne subirete le conseguenze”. Karolos è un distinto signore di mezza età titolare del più trendy negozio di ottica di piazza Syntagma, di fronte al Parlamento, dove si possono acquistare i grandi marchi di occhiali, come Luxottica. Alla notizia che l’agenzia di valutazione statunitense ha tagliato il rating del suo Paese da B a B-, alza le spalle. Il 25 gennaio scorso ha votato Syriza e non se ne pente: “L’altro ieri qui c’è stata una manifestazione per protestare contro la decisione della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale ma non credo ce ne saranno più perché non è necessario. Era solo per ribadire che supportiamo Tsipras e nessuno potrà cancellare il no-.
Arrabbiati, non preoccupati, i greci affrontano l’eventualità di una bancarotta con spirito nazionalistico, o patriottico, a seconda dei punti di vista. “È vero, abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ma è un atteggiamento generale, non solo nostro. Eppure solo noi siamo additati come i reietti d’Europa. Perché? ”. La domanda di Karolos è destinata a rimanere evasa. Resta il fatto che i greci, anche coloro che hanno votato Nea Demokratia dell’ex premier Antonis Samaras sono uniti contro la presa di posizione del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, e del governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, e sottoscrivono la richiesta di un prestito ponte del neo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. Che non ci sarà, ormai è certo. Il presidente dell’Eurogruppo, il coordinamento dei ministri economici dell’euro, Jeroen Djesselbloem ha detto ieri che Atene non può sperare di avere un finanziamento senza riforme abbinate quando, il 28 febbraio, scadrà il programma della Troika.
Il ministro dell’Economia italiano Pier Carlo Padoan e l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, oggi direttore esecutivo del Fondo monetario Internazionale (che è una delle tre istituzioni della Troika), sono un po’ più sfumati sulle richieste del nuovo esecutivo greco. “C’è una volontà comune, nostra e della Grecia, di trovare per Atene una soluzione duratura e non frettolosa, che poi è anche la soluzione per l’Europa”, dice Padoan, che però sta ben attento a non smarcarci dal fronte europeo e aggiunge: “La Troika è un falso problema: ha ancora una sua attualità, semmai si tratta di ridisegnarne i programmi, di trovare quel delicato, sottile, difficile equilibrio tra due esigenze: la necessità di garantire conti in regola e il dovere di migliorare la vita della gente”. Il problema è che se prevale il panico, in questi difficili giorni di negoziati, la Grecia potrebbe sperimentare una “ulteriore pressione sulla stabilità finanziaria sotto forma di prelievi agli sportelli fino a limitazioni al controllo dei capitali”, dice Standard & Poor’s.
Dopo questi anni di austerità, i greci pensano di essere ormai vaccinati e di poter affrontare il collasso e sono indignati dalle frasi del ministro Schauble di due giorni fa: “Le condizioni accordate alla Grecia nel programma di aiuti sono state oltre ogni misura generose. Cosa direbbero gli altri Paesi sottoposti a vincoli molto più stringenti? ”, ha denunciato il falco tedesco.
SECONDO IL MINISTRO delle Finanze di Angela Merkel, il programma di aiuti alla Grecia “ha avuto più successo di quanto ne abbiano avuto i responsabili politici greci in molti anni. Io lodo i successi della Grecia evidentemente di più di quanto non facciano molti greci”.
L’unica, cauta, apertura è arrivata dal Fmi che “potrebbe rifinanziare il suo prestito alla Grecia”, come dice Cottarelli. Ma ovviamente “con un nuovo programma” di riforme da chiedere in cambio.

Corriere 7.2.15
Non ripetiamo altri gravi errori. Adesso conviene salvare la Grecia
di Lucrezia Reichlin


Non c’è più molto tempo per salvare la Grecia: forse meno di una settimana. Se una soluzione non sarà trovata alla prossima riunione dell’Eurogruppo, Atene si ritroverà nel giro di pochi giorni a non poter ripagare il suo debito a scadenza. La posta in gioco è politica e economica. Ed è su entrambi i fronti che non bisognerà sottovalutare i rischi per l’Unione europea di una possibile uscita della Grecia dall’euro.
Le ragioni per lavorare e trovare un compromesso con il nuovo governo ellenico sono sia etiche sia pragmatiche. Per capirlo bisogna ripercorrere la storia recente.
Come conseguenza di una politica di bilancio irresponsabile del suo governo e dello shock globale del 2008, la Grecia è di fatto fallita nel 2010. All’epoca, l’Europa per la prima volta si trovò ad affrontare la crisi di un Paese dell’unione monetaria e decise di impedire la ristrutturazione del debito di Atene. La scelta, probabilmente giustificata, era dettata dal timore di contagio ad altri Paesi. Si perdettero due anni, costati molto cari ai greci — 10 punti percentuali di prodotto interno lordo, secondo le stime dell’economista francese Thomas Philippon. Nel 2012 si finì per cedere all’evidenza e si trattò una delle piu colossali ristrutturazioni di debito sovrano della storia: si trasferì gran parte dei costi dai creditori privati ai cittadini europei e la si accompagnò a un draconiano programma di austerità e riforme della Grecia monitorato dalla troika (Fondo monetario, Banca centrale europea e Unione europea).
Da allora la Grecia ha perso il 25% del Pil e l’occupazione è caduta del 18%, eppure Atene resta schiacciata da un rapporto debito-Pil che veleggia verso il 180%. La cosiddetta deflazione interna, necessaria per l’aggiustamento, c’e’ stata, ma le riforme, in particolare quella del Fisco, non si sono viste. La Grecia è di nuovo di fatto fallita.
Ora un nuovo governo propone di ripensare la strategia. La richiesta, se si guarda oltre i messaggi a volte infantili, a volte irrealistici, spesso solo provocatori degli uomini di Tsipras, non è del tutto irragionevole. Per due ragioni. La prima morale. La Grecia sta pagando costi extra per non aver potuto ristrutturare nel 2010, strada che avrebbe comportato conseguenze minori per l’economia, come insegna l’esperienza di molti Paesi emergenti. È giusto che quel costo, benché sia una frazione di ciò che i greci dovranno pagare per ritrovare la sostenibilità, sia sostenuto da tutti i membri dell’Unione.
La seconda è economica. La combinazione di riforme e austerità in un Paese con istituzioni fragili e una classe politica discreditata e corrotta non può dare risultati: la vittoria di Syriza lo testimonia. Per questo, ora, la ricerca di un compromesso realistico tra creditori e debitori appare meno onerosa del pugno di ferro. Il pragmatismo deve imporsi sulla volontà di punizione.
Tuttavia, un accordo tra Grecia e Paesi creditori — mi riferisco agli altri partner dell’area euro — deve essere basato su principi generali, senza i quali l’Unione non può funzionare.
Il governo di Atene non vuole un nuovo programma monitorato dalla troika. Chiede di costruire con i membri dell’eurozona un piano di riforme capace di aggredire le cause del fallimento dei precedenti esecutivi, in particolare su evasione fiscale e riforma del sistema contributivo. In sostanza un contratto che imponga obiettivi quantificabili e monitorabili, lasciando ad Atene la sovranità sulla via per raggiungerli. Per arrivare a formulare questo programma il nuovo governo greco chiede tre mesi e un finanziamento ponte che tenga il Paese in vita fino al raggiungimento dell’accordo. La Bce ha comprensibilmente detto di non poter fornire questo finanziamento. Rimanda la palla ai governi: ed è giusto, perché questa decisione coinvolge i contribuenti dei Paesi dell’Unione, quindi i loro rappresentanti politici. La scelta non è neanche della Germania, anche se il punto di vista del maggiore creditore di Atene resta determinante.
L’iniziativa del negoziato deve essere presa dall’Eurogruppo. Solo in quella sede si capirà se tra le prime, irrealistiche richieste di Atene e la durezza della posizione che pare emergere dai primi incontri di questa settimana, ci sia uno spazio per un accordo. Il percorso è difficile. Parte del programma di Tsipras (la riassunzione dei dipendenti statali per esempio) è inaccettabile. Ma è difficile anche per la spirale politica che comporta: ogni vittoria del nuovo governo di Atene si risolve, infatti, in un aiuto ai partiti anti-austerità oggi all’opposizione nel resto d’Europa.
Ma cosa succederebbe se la strada del negoziato non fosse battuta con convinzione e non si raggiungesse un accordo? Non ho dubbi: sarebbe una sconfitta politica ed economica per l’Europa. Come ha scritto Martin Wolf sul Financial Times , la nostra Unione non è un impero ma un insieme di democrazie; per non fallirne il test fondamentale si deve trattare. Il percorso seguito finora non ha funzionato e ci sono ampi margini per un compromesso.
Ma c’è anche una ragione economica. Per i cittadini dell’Unione il costo di un’uscita della Grecia è piu alto di quello di un allentamento delle condizioni di rimborso del debito. Se Atene tornasse alla dracma, diventeremmo di nuovo un insieme di Paesi legati da un sistema di tassi di cambio fissi da cui un Paese può uscire in ogni momento. Tornerebbe anche per l’Italia quel cosiddetto «rischio di convertibilità» da cui Draghi ci mise al riparo nel 2012 con l’affermazione che l’euro sarebbe stato difeso ad ogni costo. Se la Grecia uscisse dalla moneta unica, infatti, perché escludere analogo destino per un altro Paese? La Commissione ha appena ricordato che la ripresa è fragile e la Grecia non è certo l’unico Paese potenzialmente a rischio. L’esperienza degli Anni 90 ci insegna che i sistemi a cambi fissi sono instabili, tanto da aver determinato l’esigenza della moneta unica. Tornare indietro sarebbe un errore che pagheremmo molto caro.

Corriere 7.2.15
I debiti greci e quelli della Germania, qualche utile precisazione
risponde Sergio Romano


I media greci si stanno occupando sempre più frequentemente della cancellazione del debito tedesco del 1953. Sembra si trattasse di importi corrispondenti oggi a diverse migliaia di miliardi di euro.
Potrebbe darci qualche chiarimento in merito?
Virgilio Avato

Caro Avato,
Il  debito non fu «cancellato». Il negoziato che precedette l’accordo di Londra dell’agosto 1953 prese in considerazione tutti i debiti contratti dalla Germania dopo la fine della Grande guerra e stabilì che la somma dovuta raggiungeva i 23 miliardi di dollari. Ma al totale fu applicato uno sconto del 50% e al Tesoro tedesco venne permesso di rimborsare la somma (poco più di 11 miliardi) nell’arco di trent’anni: una clausola che favorì la rapida rinascita dell’economia tedesca negli anni successivi. In assenza dell’Unione Sovietica rimase impregiudicata la questione degli indennizzi per i danni di guerra provocati dalla Germania hitleriana durante la Seconda guerra mondiale.
Fu un accordo troppo generoso? Vi sono almeno due fattori di cui occorre tenere conto. In primo luogo, nell’anno dell’accordo era già in corso un dibattito sul ruolo che la Repubblica federale di Germania avrebbe dovuto sostenere nell’ambito della Guerra fredda. Non era ancora membro della Nato (ne farà parte dal maggio 1955), ma gli Stati Uniti già sostenevano che la sua presenza nello schieramento occidentale sarebbe stata indispensabile. Non era nell’interesse dell’Occidente trattare come un nemico sconfitto il Paese che negli anni seguenti avrebbe avuto, nell’ambito della Guerra fredda, una importanza strategica.
In secondo luogo, l’America aveva compreso (anche se non fu mai riconosciuto esplicitamente) che l’insistenza con cui aveva chiesto ai suoi alleati, dopo la fine della Grande guerra, il rimborso del prestiti concessi dalle sue banche durante il conflitto, aveva avuto, soprattutto per la Germania, effetti catastrofici, da una colossale inflazione alla politica revanscista di Hitler. Come ha ricordato nel suo sito una deputata liberale europea, Sylvie Goulard, gli americani avevano già dato una prova convincente della loro «conversione» quando, anziché chiedere denaro, avevano deciso di darne generosamente con il Piano Marshall.
Quando fu firmato l’accordo di Londra rimase impregiudicata la questione dei danni sofferti dall’Unione Sovietica con cui, in quel momento, ogni trattativa di questo tipo era esclusa. In linea di principio sarebbe stato possibile rimettere la questione all’ordine del giorno in occasione dell’accordo sulla riunificazione tedesca firmato a Mosca il 12 settembre 1990. Ma sarebbe stato facile replicare ai sovietici che l’Urss si era già largamente indennizzata spogliando molte fabbriche tedesche delle loro macchine e parecchi musei dei loro capolavori. Non sembra d’altro canto che Michail Gorbaciov, in quella occasione, avesse l’intenzione di sollevare un problema che avrebbe incrinato sin dall’inizio i rapporti dell’Urss (esisteva ancora) con la nuova Germania. Il leader sovietico non poteva ignorare che ogni grande processo di modernizzazione del suo Paese, dalla rivoluzione industriale fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento al Primo Piano quinquennale sovietico, era stato reso possibile dalle forniture e dalla collaborazione dell’industria tedesca.
Ancora una osservazione, caro Avato. L’accordo di Londra dell’agosto del 1953 non fu firmato soltanto dalle tre maggiori potenze occidentali. Fu firmato anche da tutti i Paesi che erano stati occupati dalle forze armate tedesche durante la guerra. Fra questi vi era, naturalmente, la Grecia.

Il Sole 7.2.15
La partita greca
I ritardi che l’Europa non può più permettersi
di Alberto Quadrio Curzio


L’Eurozona si trova nuovamente di fronte al caso greco da cui partì agli inizi del 2010 la crisi dei titoli sovrani dei Paesi periferici della Uem. L’Eurozona è adesso però molto più forte nel controllo delle crisi finanziarie e bancarie ma deve con urgenza rafforzare l’economia reale. La strategia del rigore fiscale di ispirazione germanica e quella dei salvataggi di debiti sovrani non vedranno questa volta ulteriori interventi integrativi o correttivi (o salvifici) della Bce di Draghi che ha da poco varato il Qe. Francoforte ha, infatti, deciso di bloccare l’erogazione di liquidità alle banche greche se entro la scadenza da tempo fissata al 28 febbraio la Grecia non troverà un accordo con la troika (Fmi, Bce, Commissione europea) che vigila sulla gestione e il rimborso dei prestiti e sulle riforme strutturali. La troika ha chiesto da tempo alla Grecia ulteriori riforme strutturali già contestate dal governo Samaras mentre il nuovo governo greco ha addirittura minacciato di ripudiare la vigilanza della troika e ha ipotizzato dei “Varoufakis-bond” per la ristrutturazione, il consolidamento e l’indicizzazione del debito greco.
Cruciali saranno perciò le quattro riunioni dell’Eurogruppo, dell’Ecofin e del Consiglio europeo che si terranno nei prossimi 15 giorni ma che non crediamo daranno scorciatoie alla Grecia salvo qualche attenuazione nel riaggiustamento. Lo si è capito dalla cautela dei governi in seguito al tour europeo del duo Tsipras-Varoufakis e lo ha chiarito anche un recente stringato comunicato del presidente del Consiglio Renzi che ha enfatizzato la necessità di decisioni condivise, del rispetto dei patti, del rilancio della crescita. Questa per noi è la strada maestra per superare la crisi greca.
Eurozona: progressi e carenze. Non vanno però scardinati i progressi fatti nell’Eurozona durante la crisi, anche perché quei costi li abbiamo già pagati. Da sempre sosteniamo che puntare solo sul rigore fiscale era sbagliato ma che molti Paesi dovevano fare le riforme strutturali richieste dalle istituzioni europee (sia pure dentro un complesso sistema di adempimenti: two pack, six pack, semestre europeo eccetera).
Riforme straordinarie addizionali sono state chieste a Grecia, Irlanda, Portogallo e, in minor misura, Spagna («Gips») in quanto Paesi fruitori di grandi prestiti anche dai Fondi Europei Efsf e Esm. La Bce ha esercitato, a sua volta, un ruolo cruciale per contrastare l’aggressività dei mercati sui titoli di stato “periferici” e per garantire la liquidità introducendo una serie di innovazioni che l’hanno molto avvicinata alla Fed. Ha inoltre contribuito in modo determinante al varo della Unione bancaria. Queste sono state innovazioni importanti ma due carenze sono state gravi e da superare.
La prima sono le difficoltà e le lentezze decisionali della Uem dentro la Ue. Per superale bisogna accelerare l’attuazione del progetto “Verso un’autentica Unione economica e monetaria” (elaborato dei quattro presidenti di Istituzioni europee ) e dare all’Eurozona una capacità di Governo molto maggiore. Vanno anche riviste le condizioni per l’accesso alla stessa perché non si ripetano casi greci.
La seconda, che dipende in parte dalla prima, è la mancanza di una vera politica per investimenti che sostenessero crescita e occupazione ma anche innovazione e competitività. Gli stessi potevano essere promossi o autorizzando l’applicazione della “regola aurea” dello scorporo delle spese per investimenti dai vincoli di bilancio dei singoli stati e/o varando gli “eurobond” o gli “eurounionbond” (magari con garanzie reali come proposto da Prodi e Quadrio Curzio nel 2011) che non hanno nulla a che fare con i Varoufakis-bond.
Su queste linee di intervento qualcosa si sta adesso muovendo sia con la Comunicazione della Commissione europea del gennaio che evidenzia flessibilità nell’applicazione del patto di stabilità e crescita sia con il piano Juncker per gli investimenti sia con il Qe di Draghi per quel 20% di rischio solidale sui titoli dei debiti pubblici degli euro-stati. Qui che bisogna insistere per puntare sulla crescita. Gli interventi per i G.I.P.S. Bisogna anche evitare di considerare la Grecia come un caso unico. Il che non sarebbe equo verso altri Paesi. Infatti anche Irlanda e Portogallo sono stati assistiti e finanziati dal Fmi, dalla Bce e dai Fondi europei (Efsf e Esm) e quindi assoggettati a riforme strutturali straordinarie e a programmi di rientro dai prestiti sotto il controllo dalla troika (Fmi, Bce, Commissione europea). La Spagna ha invece fruito solo del sostegno finanziario e del controllo europeo per ristrutturazione delle banche. L’Irlanda è entrata nel programma nel novembre 2010 e l’ha concluso nel dicembre 2013. Nel 2014 è cresciuta del 4,8% (con un previsionale 2015 al 3,6%) con una disoccupazione all’11,1% prevista in calo. Il Portogallo è entrato nel maggio 2011 e l’ha concluso nel maggio 2014. Nel 2014 è cresciuto dell’1% (con un previsionale 2015 all’1,6%) con una disoccupazione del 14,2% prevista in calo. La Spagna è entrata in un programma dello Esm nel luglio 2012 e l’ha concluso nel dicembre 2013. Nel 2014 è cresciuta dell’1,4% (con un previsionale 2015 al 2,3%) e con una disoccupazione al 24,3% in calo.
La Grecia è entrata nel programma di assistenza finanziaria della troika nel maggio del 2010 e ha avuto varie tornate di aggiustamento del programma che tuttavia è ben lungi dal concludersi. Nella crisi la Grecia ha perso il 25% del suo Pil e quindi non bastano crescite all’1% (quella del 2014) e del 2,5% (prevista nel 2015) per recuperare il crollo. La Grecia, oltre a proseguire con le riforme strutturali per la crescita, dovrebbe perciò essere sostenuta con un programma di investimenti infrastrutturali finanziati e governati in regime commissariale dalle istituzioni europee. Di questo dovrebbe interessarsi il Governo greco senza esibizioni “sovraniste” in politica estera e senza revoche di privatizzazioni che sono invece importanti per portare investimenti esteri.
Una conclusione. Il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, nel recente incontro con il ministro greco Yanis Varoufakis, ha detto che le riforme strutturali in Grecia devono puntare a una crescita forte per creare occupazione, ridurre l’emergenza sociale, garantire la sostenibilità del debito greco. Ha anche ricordato che spetta all’Eurogruppo e all’Ecofin trovare, con solidarietà e responsabilità, le soluzioni comuni. È una posizione saggia e leale.

Il Sole 7.2.15
Per Tsipras dopo la retorica un tuffo nella realtà
Il tentativo è evitare che Atene ascolti le sirene russe di Vladimir Putin
di Vittorio Da Rold


Dopo un primo momento di simpatia che il nuovo governo greco guidato da Alexis Tsipras aveva saputo raccogliere in Europa e nel mondo, si sta rapidamente passando a un senso di diffidenza e crescente isolamento. Le richieste troppo radicali, che passano da un taglio (haircut) del debito al suo aggancio alla crescita, e le posizioni intransigenti sulla fine dell’esperienza della troika e la richiesta di una revisione radicale del piano di crediti, stanno ponendo in un angolo negoziale Atene.
Siamo arrivati a una vigilia di partita all’Eurogruppo straordinario di mercoledì con «la Grecia contro tutti gli altri 18 partner dell’Eurozona», ha detto un funzionario europeo sinceramente preoccupato della piega che sta prendendo la trattativa.
Certo, non sono piaciute, nelle capitali europee le affermazioni programmatiche del nuovo governo ellenico di voler alzare il salario minimo, riassumere i dipendenti pubblici licenziati, bloccare le privatizzazioni senza mai un accenno concreto su dove trovare i soldi per queste politiche. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, lo ha detto chiaro al meeting di Berlino, quando ha ricordato al ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, che non si possono fare concessioni con i soldi degli altri.
Atene naturalmente è libera di decidere le sue politiche, ma mantenendo i conti in attivo, ripagando i debiti contratti e varando le riforme promesse.
Dopo gli annunci ideologici per Tispras è giunto il tempo del pragmatismo. Il suo governo viaggia su uno stretto sentiero parlamentare: da un lato deve cercare di ottenere qualche concessione dai creditori internazionali rispetto al precedente Memorandum, sul fronte interno deve dare il segnale agli strati più sofferenti della popolazione che l’austerità è stata mitigata. Se non riesce in questa acrobazia il suo destino politico è segnato e le prossime manifestazioni di piazza, magari guidate dall’ultra destra di Alba dorata non saranno pacifiche.
Non a caso ieri l’ambasciatore Usa ad Atene, David Pearce, ha invitato Syriza alla «collaborazione con i colleghi europei e l’Fmi». Washington, dopo le parole di sostegno al governo greco dette dal presidente americano Barack Obama, secondo cui «le nazioni non possono essere spremute come limoni nel mezzo di una depressione», ha spedito ad Atene il vicesegretario aggiunto al Tesoro Usa responsabile degli Affari europei, Daleep Singh, ex banchiere per i mercati emergenti di Goldman Sachs.
Il tentativo è evitare che Atene ascolti le sirene russe di Vladimir Putin.

Il Sole 7.2.15
Se Pechino si tira fuori dal dossier su Atene
di Mara Monti


«La Cina non è interessata a mettere in discussione le relazioni con l’Europa per correre in aiuto della Grecia, un Paese poco interessante dal punto di vista delle risorse naturali e degli investimenti privati». Richard Miratsky, senior director di Dagon Europe analista dell'agenzia di rating cinese ed esperto di investimenti strategici non è meravigliato per quanto sta succedendo in Europa sulla Grecia: «Il peso di Atene in Europa non è particolarmente incisivo, il settore industriale è poco vocato alle esportazioni e quello tecnologico è poco sviluppato. Il nuovo governo sta giocando le sue carte, ma l'unica possibilità per uscire dalla crisi è risolvere i problemi in seno all'Europa e alla Troika». Nei giorni scorsi si era parlato di un intervento di Mosca in soccorso di Atene, sui cui si erano inserite le parole del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama a sostegno di una risoluzione di compromesso, affermazioni che in molti hanno letto come motivate dal rischio di non lasciare Atene tra le braccia di Mosca. Un'ipotesi smentita dallo stesso ministro delle finanze greco Yannis Varoufakis: «Noi non chiederemo mai assistenza finanziaria a Mosca». Miratsky ieri al convegno Assiom Forex, dà un’altra spiegazione: «In questo momento un intervento di Mosca è improbabile: mentre la Cina che non ha investimenti diretti in Grecia, avrebbe i soldi per intervenire, ma non lo farà, la Russia anche se lo volesse non è in una posizione finanziaria per farlo. Quindi solo l’Europa può aiutare la Grecia».
Un aiuto della Cina ad altri paesi in gravi situazioni finanziarie non sarebbe una novità. È successo per l'Argentina dopo il secondo default della scorsa estate e per il Venezuela a un passo dalla bancarotta a causa delle ripercussioni del crollo del prezzo del petrolio: «In tutti questi casi il contesto era completamente diverso sia dal punto di vista geografico sia per l’interesse della Cina alle risorse naturali di questi Paesi», aggiunge Miratsky. Il ruolo della Cina non è stato irrilevante neppure durante la crisi del debito sovrano europeo del 2010: «In quel caso si voleva evitare un breack up dell'euro e Pechino intervenne acquistando titoli governativi dei paesi europei in crisi, anche dell’Italia. Nel caso della Grecia, invece, un’eventuale uscita dall’euro, ipotesi che ritengo improbabile, non avrebbe un grande impatto e comunque non metterebbe a rischio la moneta unica europea. Sia chiaro, l’Italia non è la Grecia –aggiunge l'analista - un eventuale piano di ristrutturazione del governo di Atene non è detto che funzioni, quindi ci sarebbe un'alta probabilità di perdere quanto investito». Oggi la Cina è il terzo investitore al mondo dopo gli Stati Uniti e il Giappone con 108 miliardi di dollari investiti nel 2013 al ritmo di crescita del 23% l'anno e un interesse oggi concentrato sui settori tecnologici: una virata rispetto al passato quando le risorse naturali erano in cima all'agenda.

il Fatto 7.2.15
La sinistra spagnola tra separazioni e amori
di Elena Marisol Brandolini


SANCHEZ, COMPAGNA DEL LEADER DI PODEMOS, LASCIA ISQUIERDA UNITA: FARÒ UN NUOVO PARTITO MA NON MI ALLEERÒ CON IGLESIAS

Barcellona. Tania Sánchez, eletta candidata di Izquierda Unida (IU) alla guida della Comunità di Madrid, ha abbandonato il partito cui aveva sempre appartenuto e di cui, dal 2011, era rappresentante nel Parlamento regionale. Se n’è andata dichiarando di voler lavorare alla formazione d’una lista d’unità popolare, con l’obiettivo d’una confluenza delle forze politiche e sociali progressiste per sconfiggere il Partido Popular alle elezioni del 25 maggio.
La 36enne era risultata vincente nelle primarie di IU dello scorso novembre, dove era stato eletto anche Mauricio Valiente per guidare la lista del partito nella capitale. Entrambi, appoggiati dal settore critico della direzione regionale di IU, avevano sconfitto la corrente di maggioranza, proponendo un cartello elettorale di sinistra per le prossime competizioni elettorali di primavera. Sánchez dichiarava, allora, che IU era un “progetto imprescindibile per l’alternativa” e che, per quanto fosse anche la compagna di vita di Pablo Iglesias, leader di Podemos, il suo progetto politico era diverso da quello del compagno. Ha affermato la sua autonomia politica, dicendo che l’uscita da Izquierda Unida non significa l’adesione a Podemos. Le ragioni della scelta starebbero nella discussione non risolta in seno al partito di Madrid sul ruolo di Izquierda Unida nelle prossime amministrative e regionali e nel coinvolgimento di alcuni dirigenti del partito nello scandalo delle carte di credito di Caja Madrid.
A MADRID, da qualche tempo, IU lavora alla costruzione di una piattaforma elettorale per il municipio, formata da alcuni partiti della sinistra come Podemos e da movimenti sociali, denominata Ganemos, Vinciamo, sulla scorta dell’esperienza barcellonese Guanyem. La corrente critica di IU vorrebbe estendere questo modello anche alle elezioni della Comunità di Madrid, dove però, almeno in teoria, Podemos si presenterebbe con la propria sigla. L’uscita della ex-deputata regionale mette in difficoltà anche Alberto Garzón, candidato per il partito alle elezioni generali del prossimo autunno, nel momento di scegliere quale linea adottare rispetto alla formazione delle liste per le prossime elezioni locali. Sulla sua scelta ha influito anche la decisione di Izquierda Unida di non espellere immediatamente i due dirigenti di partito, Gregorio Gordo e Ángel Pérez, coordinatori negli anni delle carte di credito “opache” di Caja Madrid. Si tratta dello scandalo scoppiato lo scorso autunno, secondo cui oltre 80 consiglieri e dirigenti della banca utilizzarono indebitamente e senza alcun controllo la carta di credito aziendale, dal 1999 al 2012, per spese oscillanti tra i 2.500 e i 12.000 euro. Sulla scelta della giovane leader politica ha pesato probabilmente anche l’esplosione del fenomeno Podemos, con la manifestazione di forza dello scorso 31 di gennaio, a Madrid. L’evidenza di un sentimento popolare che scommette sul cambiamento. A partire dalla capitale spagnola, nelle mani del Partido Popular dal 1991 e, dal 1995, al governo della Comunità autonoma.

La Stampa 7.2.15
Guerra in Ucraina
Dopo Mosca scenari fragili
di Roberto Toscano


Se qualcuno avesse avuto ancora dubbi sulla drammaticità e pericolosità del conflitto in corso nell’Ucraina orientale, il viaggio a Mosca di Angela Merkel e François Hollande dovrebbe indurlo a rivedere le proprie valutazioni. Non sembra esagerato ritenere questo tentativo come una sorta di ultima spiaggia per la diplomazia, dopo di che si aprirebbero scenari imprevedibili, ma comunque inquietanti.
Ma quali sono le prospettive? E su quali basi potrebbe essere trovato un compromesso capace di disinnescare la dirompente carica – tragica per le conseguenze umane e destabilizzante per gli equilibri europei – che caratterizza il conflitto nel Donbass? Certamente l’obiettivo del viaggio non può essere interpretato come teso ad ottenere un chiarimento circa gli obiettivi di Vladimir Putin. Troppo evidente, ormai, è il fatto che la sua è una politica di revisionismo territoriale tesa a rendere reversibile, quanto meno nelle zone abitate da popolazioni russofone, la fine di quella fase della Russia Imperiale che andava sotto il nome di Unione Sovietica.
Dopo la secessione della Crimea, oggi Putin mira a conseguire il riconoscimento, nell’Ucraina orientale, del nuovo status quo territoriale che si è venuto a creare a seguito dell’avanzata degli insorti che la Russia ispira, finanzia ed arma.
Da parte russa si parla del riconoscimento di forme di autonomia, ma sarebbe difficile dimenticare quello che Mosca è riuscita a imporre in Transnistria, in Abkhazia e nella Ossezia del Sud: la creazione di territori che, anche se con uno status ambiguo (e internazionalmente non riconosciuto), di fatto sono stati incorporati alla Russia.
Per quanto sia Hollande sia Mer-kel ribadiscano un giorno sì e uno no un incrollabile impegno per l’integrità territoriale dell’Ucraina, sembra difficile immaginare come Putin possa essere indotto a fare marcia indietro rispetto al suo evidente disegno strategico, che fra l’altro riscuote in Russia un forte consenso popolare. Questo spiega la sostanziale freddezza con cui la missione di pace dei due leaders europei è stata accolta da parte degli Stati Uniti, preoccupati di possibili cedimenti – e, va aggiunto, sempre sospettosi delle intermittenti velleità degli europei di elaborare proprie iniziative di politica estera. E’ più che legittimo, effettivamente, essere scettici sulla possibilità di influire, con una miscela di trattative e sanzioni, su un dirigente politico che, come ha scritto ieri su queste pagine Stefano Stefanini, «non arretra di fronte al disastro economico e all’isolamento internazionale» dato che «ragiona in termini di potere, nazione e territorio, e non di economia, benessere e pace ai confini».
Ma se si può essere scettici sullo strumento diplomatico, non minori sono le perplessità che suscita la via alternativa, quella di puntare sul rafforzamento delle capacità militari ucraine. L’idea che le forze armate ucraine, per quanto aiutate dall’Occidente, siano in grado di battere quelle russe appare molto meno realistica della speranza che funzioni la diplomazia.
Un qualche tipo di intesa, quanto meno capace di ridurre i danni e scongiurare il peggio, dovrebbe tuttavia essere possibile. Ad esempio, sembra di poter dire che la prospettiva di un ingresso ucraino nella Nato (adombrata nel 2008) sia ad un tempo per la Russia un’autentica fonte di preoccupazione geopolitica e un utile pretesto per mettere in atto il disegno revanscista e revisionista di Putin. Non sarebbe male ascoltare i consigli di due protagonisti della Guerra Fredda come Kissinger e Brzezinski e fare marcia indietro rispetto a quell’improvvida e poco realistica prospettiva, ribadendo nel contempo la credibilità della garanzia che la Nato fornisce ai suoi membri. Una necessità, quest’ultima, suggerita non solo dall’opportunità di togliere di mezzo il pretesto principale della politica russa verso l’Ucraina quanto dall’importanza di tranquillizzare i comprensibili timori degli Stati baltici, dove l’irrisolto problema delle minoranze russe potrebbe indurre Mosca a ulteriori, devastanti disegni di «separatismi assistiti».
Il viaggio di Merkel e Hollande ha un significato che va anche oltre la crisi ucraina, nella misura in cui segna il ritorno di una politica estera molto «classica», basata sul ruolo degli Stati più che sul multilateralismo o l’integrazione. Certo, possiamo sperare che questa ritrovata coincidenza fra Parigi e Berlino possa preludere al rilancio di quel motore franco-tedesco cui l’integrazione europea deve moltissimo, ma non si può non vedere che risulta ancora una volta confermato che l’Unione Europea come protagonista della politica internazionale è un progetto piuttosto che una realtà. Avremmo voluto vedere a Mosca, portatrice di un’unitaria proposta europea, Federica Mogherini – e parliamo da europei, non da italiani.
La crisi europea innescata da Vladimir Putin ha anche questo effetto: quello di fare regredire le relazioni internazionali, rivelando tutta la fragilità degli scenari ottimistici sia della globalizzazione che dell’integrazione europea, al loro livello più basico e tradizionale (qualcuno dirà più autentico), della diplomazia dei singoli Stati, del territorio, dell’uso della forza, del nazionalismo.
Non sarà facile nello stesso tempo fermare Putin e contrastare questa regressione sistemica.

Repubblica 7.2.15
La più pericolosa delle crisi
di Lucio Caracciolo


LA GUERRA in Ucraina è la crisi più pericolosa vissuta in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ci sono certo stati conflitti più sanguinosi, come quelli balcanici negli anni Novanta, ma nessuno ha mai pensato che potessero provocare uno scontro globale.
CI sono state tensioni molto gravi durante gli anni del confronto Est-Ovest, a partire dal blocco di Berlino nel 1948, ma l’equilibrio del terrore e la capacità dei leader statunitensi e sovietici di interpretare le mosse altrui hanno evitato lo scoppio di una “guerra calda” nel cuore del nostro continente. Oggi nell’Ucraina orientale, a ridosso del confine russo, si combatte un conflitto indiretto fra Washington e Mosca che divide noi europei mentre mette in questione la pace nel Vecchio Continente. E non solo.
Perché oggi, a differenza degli anni della guerra fredda, russi e americani non si capiscono. Né vogliono capirsi. I “telefoni rossi” non squillano più, o suonano a vuoto. Sarà per l’autismo di Vladimir Putin, che alcuni scienziati noleggiati dal Pentagono vorrebbero affetto da sindrome di Asperger in seguito a un danno neurologico sofferto nel grembo della madre. Sarà per l’indecisionismo di Obama, attribuito da inventivi analisti russi agli effetti della malaria di cui avrebbero sofferto i suoi ascendenti dal ramo paterno, ma che l’ultima dottrina di sicurezza nazionale Usa nobilita, battezzandola “pazienza strategica”. Sarà infine per l’asimmetria delle percezioni reciproche — in Ucraina i russi sentono di giocarsi la vita o la morte della patria, mentre per gli americani è una partita periferica, ingaggiata con un’inaffidabile potenza regionale che s’illudeva di tornare globale. Fatto è che nelle cancellerie europee è scattato l’allarme rosso: bisogna fermare i combattimenti prima che sfuggano completamente di mano e producano la guerra fra Nato e Russia. Di cui l’Europa sarebbe il primario campo di battaglia.
Si spiega così la missione congiunta di Angela Merkel e François Hollande a Kiev e a Mosca. Un inedito: mai la scoppiatissima coppia franco-tedesca si era spesa al massimo livello per salvare la pace in Europa. Berlino e Parigi, come altre capitali europee, fra cui Roma, sono infatti giunte alla conclusione che Mosca e Washington non possono o non vogliono sedare il conflitto. Anzi, potrebbero inasprirlo, innescando un’escalation semiautomatica dalle conseguenze imprevedibili. I precedenti non sono incoraggianti. Ricordiamo la fallimentare missione a Kiev dei ministri degli Esteri di Polonia, Germania e Francia, nei giorni caldi di Majdan, che produsse un compromesso con Janukovich rovesciato poche ore dopo dalle milizie armate che avevano preso la guida del movimento popolare di protesta contro quel regime ipercorrotto. La speranza è che stavolta, con la cancelliera e il presidente che ci mettono la faccia, l’esito sia più concreto, meno provvisorio.
Merkel e Hollande sanno bene che la pace subito non è possibile. Il probabile compromesso strategico che la sorreggerebbe appare oggi indigeribile agli Stati Uniti e alla lega nordico-baltica (Svezia, Danimarca, Polonia, Estonia, Lettonia, Olanda, Norvegia e Lituania), che nella litigiosa famiglia euroatlantica esibisce il viso dell’arme contro Mosca. Esso infatti implicherebbe lo scambio fra l’integrità territoriale dell’Ucraina — salvo la Crimea che (quasi) nessuno si sogna più di riportare sotto Kiev anche se (quasi) nessuno intende ammetterlo formalmente — e la rinuncia dell’ex repubblica sovietica a entrare nella Nato. Al Donbas più o meno russofilo e ad altre regioni orientali sarebbe concessa una robusta autonomia. Inoltre, l’Ucraina potrebbe aprirsi contemporaneamente allo spazio economico comunitario e a quello eurasiatico, egemonizzato da Mosca.
Questa opzione rimane sul tavolo, ma non per ora. L’obiettivo immediato di Merkel e Hollande è di congelare il conflitto prima che l’Ucraina collassi. Gli ultimi mesi hanno confermato infatti l’inconsistenza delle Forze armate ucraine, male armate, peggio addestrate, demoralizzate e soprattutto infiltrate dai russi. L’afflusso di contractors occidentali e di volontari di varia provenienza — tra cui diversi neonazisti — non le ha rese molto più efficienti. Mentre il duo franco-tedesco negoziava ieri sera al Cremlino con Putin, la morsa si stringeva attorno alle unità fedeli (si fa per dire) a Kiev accerchiate a Debaltseve dalle milizie delle repubblichette ribelli e da una legione straniera filorussa (che conta qualche neofascista nostrano), con il decisivo supporto di migliaia di militari (gli “uomini verdi” senza mostrine) e volontari russi, sotto la regia della Quarantanovesima armata di stanza a Stavropol’.
Il caos militare corrisponde al fragile equilibrio politico di Kiev, dove gli oligarchi continuano a spolpare l’osso di un paese in pieno fervore patriottico, devastato da una crisi economica incontrollabile anche dai ministri di importazione — l’americana Natalie Jaresko alle Finanze e il lituano Aivaras Abromavièius all’Economia.
Se il cessate-il-fuoco cui mirano Merkel e Hollande si svelasse utopia, si rafforzerebbero negli Stati Uniti i fautori dell’escalation. L’idea è di armare gli ucraini perché possano respingere i russi. Ipotesi molto ottimistica, stanti i rapporti di forza. Senza considerare che parte delle forniture finirebbe agli stessi russi, incistati nei comandi militari di Kiev. Mosca poi interpreterebbe questa mossa come una indiretta dichiarazione di guerra. Con possibili conseguenze dirette, se ad esempio qualche “addestratore” americano finisse nel mirino russo o viceversa.
Per questo Berlino e Parigi, ma anche Londra e Roma, si sono espresse nettamente contro il riarmo occidentale dell’Ucraina. Obama, prima di decidere, attende di parlarne con la cancelliera Merkel, ospite lunedì della Casa Bianca. «Ho molta considerazione per l’opinione di Angela», ha lasciato filtrare il presidente. Un modo per annunciare la rinuncia a fornire «armi difensive» all’Ucraina? Al contrario, un depistaggio? O solo il riflesso della sua proverbiale refrattarietà a schierarsi? Lo sapremo presto.

Repubblica 7.2.15
Il super esercito dello zar una minaccia per l’Occidente
L’incubo della guerra che spaventa l’Europa
di Vittorio Zucconi


A SETTANT’ANNI esatti dalla spallata definitiva dell’Armata Rossa sul Fronte Orientale nell’inverno del 1945, la guerra torna a bussare alle porte della nostra Casa Europa e ci costringe a guardarla di nuovo negli occhi. Mentre migliaia di innocenti, e di meno innocenti — le cifre variano fra i due e i cinquemila — muoiono lungo le rive di fiumi come il Don che costringono la memoria a viaggi a ritroso in ricordi strazianti, l’eterno bivio tra escalation e diplomazia si ripresenta implacabile davanti alle cancellerie occidentali. Le armi, e i riarmi, le mosse sulla scacchiera del Risiko si succedono, proprio nei luoghi che hanno risucchiato il nostro continente, i nostri nonni, le nostre nazioni nel vortice, dal Baltico al Mar Nero, dalla Vistola al Caucaso e che erano sembrati per sempre congelati nell’iceberg di una Guerra Fredda ormai disciolta in alluvione.
Siamo ben oltre i massacri balcanici, le stragi etniche eruttate dal vulcano Jugoslavia scoperchiato dalla morte di Tito, geograficamente vicine, ma strategicamente limitate ai regolamenti di conti fra popolazioni circoscritte, senza un vero rischio di scontro diretto di un’America a lungo indifferente e di una Russia esausta dopo lo sfascio della Unione Sovietica. L’inquietudine che producono le immagini e i racconti di un altro classico di ogni alba di guerra, le reciproche, sdegnate indimostrabili accuse di atrocità e di provocazioni moltiplicate nella grande galleria del vento della Rete, scaturisce dai nomi prima che dai fatti, ancora limitati. Ci volano addosso più dai ricordi che dalla cronaca. L’Ucraina, nella memoria storica dell’Europa evoca paura, è purtroppo sinonimo di tragedie di grandi cieli e orizzonti di neve macchiati dal sangue anche italiano, disseminati di rottami di panzer, di fosse comuni scavate dalle stesse vittime che vi si sarebbero dovute gettare dentro, e da quella piuma radioattiva che proprio da quelle terre cominciò a soffiare verso l’Ovest e il Sud.
Creano ansia, e non rassicurazione, quei leader e governanti europei ed americani che sbattacchiano, senza un’apparente strategia concordata e comune, da una capitale all’altra, in bilico fra le sirene del riarmo e la sindrome dell’ appeasement, dell’accondiscendenza verso il neo bullismo di quel Vladimir Putin che proprio oggi un rapporto psichiatrico segreto del Pentagono e pubblicato grazie al Freedom of Information Act, gli americani sospettano di “autismo”, in senso clinico, non metaforico. I leader delle nazioni europee e degli Stati Uniti oscilla- no nell’ipotesi di dotare le forze del governo Poroshenko, l’unico riconosciuto a Kiev, di «armi offensive letali», come le ha definite Barack Obama, di armamenti veri, come tank, artiglierie, velivoli, pungolato dagli immarcescibili falchi repubblicani in Parlamento, come il vecchio nemico, il senatore McCain. O tentano, come Merkel e Holland di uscire dalla trappola nella quale loro stessi si sono ficcati con sanzioni che provocano tanti danni a chi le subisce quanti a chi le infligge.
Spaventa, insieme con quella “drole de guerre”, quella guerra ancora non guerra fra avversari che si uccidono senza riconoscersi e qualificarsi, nascosti sotto false bandiere, che sono insieme burattini e burattinai nella rappresentazione tragica, la completa incertezza sul copione e sulle intenzioni. L’Ucraina, l’incolpevole crogiolo che ha consumato, e non solo nel XX secolo, tante vite appare, come già la Serbia nel 1914, come la Danzica nel 1939, come le Torri Gemelle del 2001, più l’occasione che la causa profonda per impugnare le spade. Nessuno dice di volere la guerra a tre ore di volo da Milano, da Parigi, da Berlino o a un’ora da Mosca ma la macchina degli arsenali ha ricominciato a macinare.
La Nato, qualunque cosa significhi ormai questa alleanza alla ricerca di un nemico contro il quale giustificarsi, prepara nuove «forse di intervento rapido», certamente non per intervenire in Portogallo o in Sardegna, ma pensa all’Ucraina e Mosca replica subito con la promessa di dare «risposte adeguate», formula che non vuol dire nulla, ma può nascondere il peggio. Sempre la Nato considera seriamente ipotesi di allargamento delle proprie frontiere e quindi delle proprie garanzie militari alle repubbliche Baltiche, terrorizzate dal neo espansionismo russo. La Polonia, secolare vaso di coccio fra l’acciaio dei vicini, invoca armi e rapporti più stretti. Putin, nel panico di una crisi economica e finanziaria che comincia a rasentare il crac, sente avvicinarsi a pressione dell’Europa e della nemica di sempre, la Germani.
Ha quindi disperato bisogno di riattizzare il patriottismo e il nazionalismo del proprio “narodny”, del popolo russo. Mentre l’inflazione cresce, la liquidità scarseggia e soltanto il prezzo dello vodka, il grande anestetico popolare, resta invariato, dopo tanta retorica contro l’alcolismo. Ma i rubli per riarmare l’Armata Rossa, devastata da decenni di tagli e di trascuratezza si troveranno e nuovi mezzi stanno arrivando alle truppe, compresa una versione ammodernata e ancora più micidiale dell’immortale AK47, oggi AK47S. Si sente parlare di 738 miliardi di dollari investiti in riarmo russo nei prossimi 10 anni e se è vero che le armi non uccidono da sole, è ancora più vero che tutte le nuove armi introdotte negli arsenali sono state prima o poi adoperate, la bomba atomica inclusa.
Un giorno, speriamo vicino, guarderemo con incredulità a questa nuova mini marcia della follia, cominciata attorno a territori che dovrebbero apparire insignificanti nel nuovo ordine mondiale. Non ci parrà possibile che, 70 anni dopo la fine della più mortifera guerra nella storia dell’umanità, ancora si possa pensare di morire per Donetsk, come gli alpini dell’Armir mussoliniana e riconoscere che stiamo soltanto dando parole alle paure. Poi uno si ricorda che la guerra nel Pacifico scoppiò attorno all’occupazione giapponese della Manciuria e alle sanzioni imposte degli americani e allora ha, appunto, paura.

Il Sole 7.2.15
I rischi della strategia morbida
di Vittorio Emanuele Parsi


La situazione in Ucraina si fa sempre più drammatica e rischia di andare totalmente fuori controllo. Sul campo le forze regolari ucraine si direbbe stiano sfogando la propria frustrazione per non riuscire ad aver ragione dei ribelli colpendo in maniera indiscriminata la popolazione civile dell’autoproclamata repubblica secessionista del Donetsk.
Nelle settimane precedenti i bombardamenti dei giorni scorsi, l’esercito di Kiev aveva infatti subito pesanti perdite, inflitte dai separatisti filorussi, pesantemente armati e abbondantemente riforniti da Mosca. Al gap nelle dotazioni militari Washington sembra intenzionata a cercare di porre rimedio, con una decisione che sta provocando divisioni dentro la Nato e tra la Nato e la Ue.
Gli americani appaiono decisamente orientati a una politica di balancing nei confronti di Mosca, anche a costo di un’escalation che ritengono comunque sarebbe limitata e di poter controllare. Gli europei temono che un’escalation in Ucraina possa portare a un pericoloso confronto con la Russia, e di fatto lasciano all’America l’onere di dissuadere il Cremlino dal perseguire il tentativo di smembrare ulteriormente l’Ucraina e di modificare i confini emersi dalla sconfitta patita nella Guerra Fredda. È la politica dello “scaricabarile” (buckpassing), tante volte vista all’opera nel corso della storia europea.
Ma che cosa è più “giusto”, o meglio più “appropriato” fare, in una situazione come questa? Mostrare i muscoli e far capire a chi, per primo, ha impiegato e continua a impiegare in maniera e crescente la forza che questa scelta non paga? Oppure una strategia che preveda il graduale, lento, progressivo inasprimento di sanzioni economico-politiche accompagnato però dall’assenza di ogni sostegno militare all’Ucraina? La risposta, evidentemente, non è così univoca come i due partiti contrapposti tendono a rappresentare e, d'altronde, la storia stessa ci ricorda che lo “scaricabarile” è stata la scelta di gran lunga preferita nel corso dei secoli dalle potenze poste di fronte all’aggressione di un “terzo” rispetto al più costoso e rischioso bilanciamento.
Va detto che almeno sulla natura aggressiva della politica russa l’accordo tra i partner occidentali è sostanzialmente unanime. Proprio nelle ultime ore, infatti, la Nato ha deciso di più che raddoppiare le sue truppe destinate alla difesa del centro-est Europa, portando da 13mila a 30mila il dispositivo di intervento rapido “Punta di lancia”, creato appena lo scorso settembre. L’intenzione è chiare e duplice: dissuadere Mosca da qualunque idea di poter fomentare impunemente “ribellioni spontanee” di altre minoranze russe presenti nelle repubbliche baltiche (ex sovietiche) e rassicurare i Paesi entrati nell’Alleanza dopo il 1989 che la garanzia di difesa reciproca si applica nei loro confronti esattamente come verso i “membri storici” della Nato.
Questo passo potrebbe bastare a riaffermare le capacità di deterrenza della Nato, ma è difficile che consegua risultati significativi verso la risoluzione o anche solo la stabilizzazione della crisi ucraina. Rinforzare le frontiere esterne dell’Alleanza è un conto, proiettare un’influenza stabilizzatrice verso l’esterno è cosa ben diversa. In particolare, non si capisce perché Mosca, a fronte di questa sola decisione della Nato, dovrebbe sospendere la sua guerra per proxi nei confronti dell’Ucraina.
Da un lato, il peso delle sanzioni, unito al crollo del prezzo del petrolio e alla flessione di quello del gas naturale (che dovrebbe accentuarsi nel corso dell’anno) sta penalizzando fortemente Mosca, che ora non ha più “il tempo dalla sua parte”, come era vero ancora solo meno di un anno fa. Ora e nel prossimo futuro Mosca non può più ripianare il costo delle sanzioni con i proventi energetici. Si tratta di un vincolo non da poco per le ambiziose (e avventuristiche) politiche strategiche di Putin. Mosca potrebbe così già non essere più in grado di sfidare l’Occidente se quest’ultimo mostrasse una fermezza maggiore, a condizione che ciò avvenisse subito, fino a quando il petrolio naviga intorno ai 50 dollari al barile. D’altra parte, messo con le spalle al muro, Putin potrebbe scegliere un’escalation (controllata, almeno nelle intenzioni). Mentre, viceversa, una politica accomodante potrebbe concedere a Putin il tempo di cui ha bisogno, quello necessario a far sì che il prezzo del petrolio torni a salire, consentendogli così di portare a termine lo smembramento dell'Ucraina. Per ora...
La scelta occidentale non è quindi per nulla semplice o scontata e comunque va apprezzata la buona coesione fin qui mostrata nei confronti di Mosca soprattutto dalla Germania della Cancelliera Merkel, che ha significativamente modificato la sua posizione verso la Russia. È soprattutto la previsione del sentiero che imboccherà nei prossimi anni la Russia (e delle risorse che avrà a disposizione) che dovrebbe influenzare la decisione finale degli alleati: paradossalmente, proprio di fronte a una Russia destinata a consolidarsi stabilmente tra i protagonisti della politica internazionale qualunque atteggiamento accomodante equivarrebbe a un suicidio politico per l’Europa (innanzitutto) e per l’Occidente.

Repubblica 7.2.15
Anne Hidalgo.
“Parigi colpita al cuore ma siamo ancora la capitale mondiale della tolleranza”
Il sindaco della Ville Lumière, parla della strage di Charlie Hebdo e rivendica il coraggio e i valori dei suoi concittadini: “Non abbiamo paura”
intervista di Anais Ginori


“È essenziale dare un segnale per l’unione tra ogni credenza. Quegli assassini erano senza fede né legge.
La salute pubblica è fondamentale per tutte le città. A dicembre ci sarà qui la Conferenza mondiale sul clima.
Siamo tutti figli della République. Non dobbiamo alimentare incomprensioni e fratture nella società”

PARIGI «Non abbiamo paura, Parigi continua a vivere». Anne Hidalgo, 55 anni, è stata in prima linea negli attentati che un mese fa hanno colpito «il cuore della città», come ricorda nella prima intervista dopo le stragi del 7 e 9 gennaio. Nei momenti più difficili, nelle cerimonie di Stato, era l’unica donna, tra François Hollande, Manuel Valls e i rappresentanti delle forze dell’ordine. Hidalgo, eletta nel marzo scorso, vuole difendere una città aperta, tollerante e sicura, che accoglie milioni di turisti, tra cui tanti italiani, lontana dal cliché delle “no-go zone”, presunti quartieri pericolosi descritti dalla tv Fox News che il Comune ha deciso di querelare. La Ville Lumière, promette Hidalgo, continuerà a lottare contro l’oscurantismo, a promuovere la laicità, ma anche il dialogo tra le religioni. Parigi è Charlie, senza se e senza ma. «Siamo la capitale mondiale della libertà d’espressione », dice l’esponente socialista, annunciando nuove iniziative, come un festival internazionale di vignettisti. Oggi non ci saranno commemorazioni ufficiali nella capitale. Parigi, spiega Hidalgo, ha bisogno di voltare pagina, proiettarsi nel futuro. Non a caso, due giorni fa ha ricevuto Ignazio Marino per annunciare un vertice delle città-mondo contro l’inquinamento.
Vuole promuovere un movimento mondiale sull’emergenza climatica?
«È un tema fondamentale per la salute pubblica al quale le grandi città del mondo devono rispondere con pragmatismo e volontarismo. Nessuna capitale può essere attrattiva e innovativa senza garantire anche una qualità dell’aria ai suoi abitanti. In questo senso, abbiamo varato restrizioni al traffico della macchine, con l’assenso di una larga maggioranza di parigini. Sono convinta che le cittàmondo possono essere pioniere e all’avanguardia nella proposta di soluzioni».
L’esempio di Parigi può servire ad altri sindaci, anche in Italia?
«Le città devono affrontare le stesse sfide, ispirandosi le une dalle altre, scambiando buone pratiche. Noi abbiamo lanciato Velib’ e Autolib’ (il noleggio pubblico di biciclette e macchine elettriche, ndr), poi studiato e riadattato in altre città. Da quando sono stata eletta, ho lavorato con i sindaci di Roma e Milano. A dicembre, ci sarà qui la Conferenza Mondiale sul Clima. Un appuntamento cruciale per l’umanità. Il 26 marzo abbiamo invitato a Parigi una cinquantina di sindaci europei, un vertice coordinato anche da Ignazio Marino, sull’esempio di quello organizzato a Roma il 1 ottobre ».
Dopo gli attentati, Parigi non vuole cedere alla paura?
«I parigini hanno reagito con dignità e coraggio, due qualità intrinseche a questa città. Mi ha colpito lo slancio spontaneo di solidarietà e fratellanza, ma non sono sorpresa: so quanto sia forte il nostro attaccamento alla democrazia e alla République. La nostra città continua a vivere e a essere dinamica anche se non dimenticheremo mai coloro che hanno pagato con la vita il prezzo della nostra libertà ».
La libertà d’espressione è minacciata?
«Nelle ultime settimane, i parigini hanno dimostrato quanto tengono alle libertà, e in particolare alla libertà d’espressione. Milioni di cittadini sono scesi nelle strade, moltiplicando gli omaggi alle vittime. L’irriverenza di Charlie Hebdo è stata celebrata e non credo che dobbiamo temere l’autocensura: i parigini sono e resteranno fondamentalmente liberi».
Eppure ci sono dei giovani, anche nelle scuole della capitale, che hanno detto di “non essere Charlie”.
«Siamo tutti figli della République. Dobbiamo stare molto attenti a non alimentare incomprensioni e fratture nella nostra società. Voglio rinforzare lo spirito del “vivere insieme”. A Parigi faremo aprire le scuole anche il sabato per permettere a dei volontari di organizzare corsi di sostegno o animare dibattiti cittadini. È un’iniziativa importante per le giovani generazioni dei quartieri popolari».
Tra gli ebrei della capitale cresce l’allarme. Come si combatte l’antisemitismo?
«Non è una realtà nuova e Parigi è da tempo mobilitata contro questo flagello. Dobbiamo vigilare affinché nelle scuole vengano trasmessi valori di tolleranza e rispetto, ma anche per tramandare la memoria della Shoah che molti giovani purtroppo non conoscono bene oppure negano. Inoltre, dobbiamo dare prospettive concrete ai giovani francesi: solo così potremo far diminuire i discorsi divisi, di intolleranza e di odio. Bisogna anche garantire la sicurezza dei nostri concittadini. Dichiarazioni, atti razzisti o antisemiti devono essere severamente puniti».
A Parigi vive anche la più grande comunità musulmana d’Europa. Gli attentati rischiano di provocare nuove discriminazioni, ostilità?
«Dopo la prova terribile che ha attraversato la nostra città, è essenziale dare un segnale per l’unione tra parigini di ogni credenza. È il messaggio che ho voluto subito trasmettere ai rappresentanti del culto musulmano a Parigi con i quali ho un dialogo proficuo. Gli assassini che hanno colpito il cuore di Parigi erano trucidatori senza fede né legge».
Il pellegrinaggio laico sui luoghi degli attacchi, in rue Nicolas Appert, a Porte de Vincennes, continua ancora oggi. Il comune farà qualcosa per ricordare le vittime?
«Ci saranno targhe commemorative nei diversi luoghi degli attentati affinché i parigini non dimentichino mai i terribili eventi che ci hanno colpito. Stiamo pensando anche alla creazione di un memoriale che dia la misura del dramma vissuto. Vorremmo per esempio dedicare una spianata alla Libertà della Stampa. Abbiamo già consegnato la cittadinanza d’onore a Charlie Hebdo. Organizzeremo un festival annuale di vignettisti della stampa, un progetto a cui pensava Tignous (uno dei disegnatori uccisi, ndr) ».
In Francia esiste un “apartheid”, come ha detto il premier Valls?
«Non userei questo termine legato a una realtà storica precisa e diversa dalla nostra. Ma in Francia esistono territori in cui prevale l’esclusione sociale. Non parlarne sarebbe come essere ciechi e negare le sofferenze di alcuni abitanti. È una situazione che deve incoraggiare politiche ancor più ambiziose in termini di sicurezza, istruzione, sviluppo del lavoro e giustizia sociale. Solo così potremo rafforzare l’unità del popolo francese in cui tutti crediamo».

il Fatto 7.2.15
Il califfo verrà a Roma?
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, mille cose non mi sono chiare sull’improvvisa potenza mondiale del Califfato. La crudeltà si improvvisa (e lo spettacolo è orrendo). Ma le armate?
Silvano

LA LETTERA lega bene due punti che di solito vengono discussi in modo sconnesso. Il primo è la crudeltà, che deliberatamente supera ogni limite e dovrebbe apparire disgustosa, per naturali ragioni psichiche, a quasi tutti, inclusi i popoli e le tribù coinvolte con e intorno al Califfato. Il male del mondo, in guerra e nelle rivoluzioni, è grande e lo abbiamo visto in Europa nel corso della seconda guerra mondiale, prima di tutto l’immenso delitto collettivo della Shoah, ma anche con l’universo dei gulag e le foibe. Però non è mai esibito come merito e come orgoglio di gruppo. Senza dubbio domina al momento una condizione psicotica che viene ancora scambiata per strategia e per politica. D’altra parte si notano, in questa crudeltà da pazzi, almeno due vantaggi folli ma efficaci per i carnefici. Il primo è di terrorizzare i più vicini, tribù e abitanti delle zone occupate, per essere certi che la sottomissione diventi piena e profonda e si allarghi. Un modo di far sapere, quando inizia una invasione, che per chi si oppone non ci sarà scampo. Questa certezza renderà più dura la resistenza ma, in caso di vittoria, più piena ed estesa la sottomissione. C’è un secondo vantaggio: l’opinione pubblica del mondo che noi chiamiamo occidentale (e che comunque è divisa e continua a dedicarsi alla Grecia invece che a eventi di orrore immediato e vicino come quelli discussi) scambia, quasi senza saperlo o volerlo, la crescita di crudeltà con la crescita di potenza. Lo scambio non è assurdo. C’è stato un rapporto diretto e proporzionale fra crudeltà e potenza della Germania nazista, che all’inizio sembrava addirittura non resistibile (e lo sarebbe stato senza Stati Uniti e Russia). Può la stessa cosa valere per il Califfato? Più che un dubbio c’è una evidenza. È vero che le opzioni del terrorismo sono tante e tutte disponibili. Ma le opzioni di armate in marcia sull’Europa sono un’altra cosa. Perciò si leggono con perplessità gli annunci del ministero dell’Interno di Alfano su nuove espulsioni dall’Italia come misura di difesa. Se esiste una “intelligence” così accorata su insidie e pericoli già radicate in Italia, bisognava aspettare le crudeltà del Califfo per adottare misure indispensabili e urgenti? Purtroppo si intravede un altro tipo, meno nobile e meno motivato di ciò che sta facendo Alfano: una mossa leghista che è un tributo a Maroni e Salvini, per far vedere la risolutezza del governo, che potrebbe essere, invece, una mossa nel vuoto. Temo che trovate del genere isolino e incattiviscano gli islamici italiani, legali, laboriosi e buoni cittadini che si sentono sospettati. E dia il segnale che il Califfo si aspettava con le sue minacce contro Roma (siamo sicuri che siano vere?) in rete. Fare il gioco del Califfo (che è altra cosa da un nuovo tipo di sorveglianza intorno al fenomeno) non sembra la trovata più intelligente.

La Stampa 7.2.15
Sono giordano (ma da lontano)
di Massimo Gramellini

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La Stampa 7.2.15
Costi alti e manodopera in calo, la Cina mette al lavoro i robot
Entro il 2017 Pechino diventerà il primo Paese al mondo per numero di automi
di Ilaria Maria Sala

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La Stampa 7.2.15
L’intelligenza artificiale avanza
Saremo fratelli o vittime?
di Gianni Riotta


Nel 1983, sulla rivista «The New York Review of Books», il guru dell’ateneo Mit Joseph Weizenbaum, padre del linguaggio dei computer Eliza che tanti blog battezzerà, stronca il saggio sull’Intelligenza Artificiale «The Fifth generation» di Edward Feigenbaum con violenza, paragonandolo alla propaganda nazista del gerarca Goebbels. La polemica divise gli esperti di Artificial Intelligence tra chi riteneva, come Feigenbaum, padre dei «sistemi esperti» che governano treni veloci, voli spaziali, robot sottomarini, che avremmo presto avuto computer capaci di pensare, e chi invece, come Weizenbaum, riteneva le macchine «umane» un’utopia nefasta.
Da giovani pionieri dell’informatica Weizenbaum e Feigenbaum, entrambi di origine ebraica, erano stati amici al punto da dividere casa e far crescere insieme i bambini, ma la passione pro e contro il software intelligente li oppose fino alle accuse di «nazismo». Che intelligenza e coscienza non siano appannaggio esclusivo dell’Homo Sapiens, ma possano essere condivisi dalle macchine, ci lascia sgomenti, innescando jihad informatiche dal 1956, quando un seminario all’Università di Dartmouth conia il termine «Artificial Intelligence», Ai. Il fisico Stephen Hawking lancia alla fine del 2014 il monito malinconico «L’Intelligenza Artificiale sarà la più importante conquista dell’uomo, peccato che potrebbe essere l’ultima». Teme la creazione, in laboratorio, di robot secondo il comandamento di Cartesio «Cogito ergo sum», persuaso che non convivranno bonari con noi, Padroni e Creatori, ma bramosi di potenza ci distruggeranno per vivere liberi in un pianeta in cui inquinamento, cibo, acqua, effetto serra, i nostri drammi, per loro non avranno peso alcuno. Google ha già sperimentato automobili senza pilota, capaci di auto-guidarsi nel traffico, controllate da sensori: niente più semafori e ingorghi, il traffico gestito in automatico. Gli ingegneri devono però creare un software etico, se un tronco cade sulla strada, l’auto robot proteggerà i passeggeri, magari saltando su un marciapiede a far strage di passanti? Se un suicida si getta davanti ai fari, lo si eviterà mettendo a rischio chi è a bordo o no? Scelte che ciascuno di noi può dover fare al volo, in pochi secondi, ma che per le auto saranno un programma prestabilito a tavolino.
Un ex scienziato di Google, Nate Soares, lavora al suo istituto Miri, proprio per definire quale codice etico vada dettato alle macchine intelligenti per impedir loro di farci del male, secondo il precetto anticipato dallo scrittore di fantascienza Asimov, nelle Tre Leggi della Robotica. Il tecnologo Elon Musk inorridisce leggendo il saggio di Nick Bostrom «Superintelligence» (leggetelo) e la sua amara previsione è raccolta dal Financial Times: «L’Intelligenza Artificiale potrebbe rivelarsi più pericolosa del nucleare». Con i robot a sostituire gli operai pensionati in Volkswagen e i robot a moltiplicarsi in Cina si direbbe che la scomparsa dei posti di lavoro possa essere l’allarme numero 1. Invece il Future of Life Institute in America e il Centre for the Study of Existential Risk a Cambridge si struggono sull’etica della robotica: saremo fratelli o vittime delle nostre macchine?
Italo Calvino, nella sua geniale conferenza del 1967 a Torino, «Cibernetica e fantasmi», si diceva certo che i computer avrebbero scritto romanzi un giorno e che questo sarebbe stato un bene. Mezzo secolo dopo, i computer scrivono libri e articoli di giornale e Demis Hassabis, informatico fondatore dell’azienda Ai DeepMind, la pensa come Calvino: «Non vedo nella nostra intelligenza e coscienza nulla che le macchine non possano riprodurre». Google gli ha dato 300 milioni di euro per dimostrarlo.
Paul Saffo, uno dei più saggi uomini di Silicon Valley, spiega: «Ai ci angoscia perché ci mette davanti a noi stessi, come il peccato originale». Ed è questo che mi affascina da quando interrogavo a Boston Weizenbaum sulla sua disputa con l’ex amico Feigenbaum: perché proiettiamo sulla Macchina Pensante il peggio di noi, immaginandola Gengis Khan, Hitler e Stalin, e non piuttosto San Francesco, Mozart, Anna Frank? Perché temiamo il Figlio Macchina Diavolo più di quanto non auspichiamo il Figlio Macchina Angelo? La risposta è fosca, e non parla dei robot, parla di noi.

La Stampa 7.2.15
Tokyo, troppi morti da super-lavoro. E le ferie diventano obbligatorie per legge
Il Primo Ministro giapponese, Shinzo Abe è fra i promotori più attivi della nuova legge: “No a una cultura che falsamente beatifica le lunghe ore lavorative”. Il 22% dei lavoratori giapponesi lavora più di 49 ore a settimana.
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 7.2.15
Sette anni di anarchia in Sicilia
Dal 1943 al 1950 le trame di un «partito unico» contro lo Stato
di Aldo Cazzullo


La Sicilia è «terra incognita» per il resto d’Italia. Considerata un altrove, e come tale fucina di miti letterari, vista come esotico enigma, come inestricabile labirinto di miseria e nobiltà, di sangue e fascinazione, ci accade spesso di perderla di vista, di rinunciare magari non ad amarla, ma a capirla. La vocazione nazionale all’oblio ha fatto il resto. Il risultato è che il libro di Alfio Caruso su fatti accaduti nella più vasta regione d’Italia appena due generazioni fa si legge oggi come una trama misteriosa e sbalorditiva, dipanatasi in epoche oscure e in terre su cui nelle mappe mentali è scritto: «Hic sunt leones».
Va detto che lo sbalordimento non è solo effetto del nostro oblio, ma anche della grande bravura dell’autore. Caruso in questi anni ha raccontato ai suoi lettori pagine drammatiche della storia italiana ed europea, in particolare della Seconda guerra mondiale, restituendo l’onore ai combattenti dimenticati di El Alamein, di Cefalonia, di Nikolajevka, senza concedere nulla al revanscismo nostalgico, anzi documentando gli errori e gli orrori del regime.
Ora con Quando la Sicilia fece guerra all’Italia (Longanesi) torna a occuparsi di quel periodo, in particolare dei sette anni che vanno dallo sbarco del luglio 1943 alla morte di Salvatore Giuliano (5 luglio 1950). E approfondisce la storia della sua terra (Caruso è esponente della grande scuola giornalistica catanese, che ha dato al «Corriere» tra gli altri Nino Milazzo, Francesco Merlo, Maria Grazia Cutuli, Paolo Valentino con incursioni di Giampiero Mughini e Pietrangelo Buttafuoco).
È impossibile restituire in poche righe un intreccio fitto di personaggi, episodi, dettagli; scoperte che fanno luce su misteri antichi, enigmi destinati a rimanere insoluti. È possibile tentare una sintesi. E descrivere almeno la scena su cui si apre il sipario.
Siamo nel 1942. La guerra è ancora in bilico. Ma Andrea Finocchiaro Aprile, notabile della Sicilia prefascista, in contatto con la massoneria e i servizi segreti britannici, spiega ai suoi interlocutori le ragioni per cui gli Alleati la vinceranno. E comincia a preparare il terreno per lo sbarco angloamericano. Finocchiaro Aprile non è un oppositore del regime. Ha tentato di ingraziarsi il Duce con una lettera ignobile in cui si candidava a prendere il posto di Giuseppe Dell’Oro, direttore generale del Banco di Sicilia, «per il caso che il governo fascista, in attuazione delle provvide norme sulla difesa della razza, credesse di doverlo dispensare dal servizio». Mussolini non ha neppure risposto. Ora Finocchiaro Aprile si candida a capeggiare di fatto quello che Caruso chiama il Pus, Partito unico siciliano. E vagheggia di separare l’isola dall’Italia, magari per farne l’avamposto europeo degli Stati Uniti.
Del partito unico fanno parte innanzitutto i latifondisti, disposti a tutto pur di non perdere i privilegi che neppure il fascismo — visto come «un movimento del Nord» — ha intaccato, limitandosi a espropriare gli eredi di Nelson, eroe della nemica Inghilterra. Poi ci sono imprenditori, politici, massoni, qualche magistrato. Ma soprattutto ci sono i mafiosi. C’è, insomma, l’establishment siciliano, che tenta di reggere il ritmo accelerato della storia e magari di anticiparlo, vagheggia di offrire il trono di Sicilia ai Savoia spodestati, arruola volontari per l’indipendenza, si avvale di Salvatore Giuliano come capo dei bravi, arma la mano che a Portella della Ginestra fa strage di braccianti (memorabile la telefonata di rivendicazione del bandito ai carabinieri di Partinico: «Poiché ci siamo assunti il compito di combattere i comunisti, preghiamo i carabinieri reali di cercare di non combatterci perché a noi dispiacerebbe molto usare le nostre armi contro le forze devote al nostro re…». È il 2 giugno 1947, primo anniversario della Repubblica italiana).
Negli anni in cui la Sicilia si ribella allo Stato si combatte una sorta di guerra civile a intensità neppure troppo bassa, che costa duemila morti e si conclude con la grande normalizzazione democristiana. Decisiva è la lunga battaglia (ricostruita dall’autore nei dettagli) di Giuliano contro lo Stato, rappresentato da un altro siciliano: Mario Scelba. Sullo sfondo, emergono altri personaggi da romanzo: come Maria Lamby Karintelka, svedese, spia per conto degli americani, che avvicina il bandito come giornalista e passa giorni interi con lui, fino a guadagnarsi il soprannome di «Pompadour di Montelepre». Ci sono Tommaso Besozzi che rivelerà la vera fine di Giuliano, lo studente catanese (di origine irpina) Antonio Pallante che spara a Togliatti, e gli otto carabinieri caduti a Feudo Nobile, altra strage rimasta impunita. E c’è un palermitano, Antonio Canepa: antifascista, attenta alla vita di Mussolini, progetta di impossessarsi della stazione radio di San Marino per lanciare appelli contro il regime, sfugge all’Ovra, si ricrea una verginità politica ottenendo all’università di Catania la cattedra di cultura e dottrina del fascismo, diventa un agente inglese, scrive un pamphlet indipendentista, si iscrive al Pci e viene ucciso in un agguato rimasto misterioso. Tutto pare accaduto in un’altra epoca su un altro pianeta. Invece è la nostra storia.

Corriere 7.2.15
Heidegger choc: «Gli ebrei si sono autoannientati»

Martin Heidegger lo scrisse: la Shoah è «l’autoannientamento degli ebrei». Il passaggio in cui il pensatore tedesco (1889-1976) giustifica, alla luce della propria filosofia, lo sterminio hitleriano degli ebrei è contenuto nel nuovo volume dei Quaderni neri in via di pubblicazione in Germania. Domani «La Lettura», il supplemento culturale della domenica in edicola con il «Corriere», anticipa in anteprima il contenuto più forte dei taccuini degli anni 1942-48 (volume 97 delle opere complete) con un articolo di Donatella Di Cesare, la studiosa della quale nel 2014 è uscito Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri). Il filosofo arrivò a ritenere il fatto che gli alleati avessero fermato il genocidio un «crimine» peggiore delle camere a gas (espressione da lui scritta fra virgolette).

Repubblica 7.2.15
Quei ragazzi terroristi in fuga dalla libertà
di  Massimo Recalcati


LA LIBERTÀ non è solo possibilità di espressione, alleggerimento della vita da vincoli oscurantisti, emancipazione dell’uomo dal suo stato di minorità, come Kant aveva classicamente definito l’illuminismo. La libertà è anche una esperienza di vertigine e di solitudine che comporta il rischio di vivere senza rifugi, senza garanzie ultime, senza certezze imperiture e fuori discussione. Lo stesso Nietzsche, che fu uno dei maggiori sostenitori della libertà del soggetto di fronte a ogni verità che pretende di porsi come assoluta, insisteva costantemente nel ricordare che la libertà suscita angoscia, spaesamento, che il navigare in mare aperto può generare una seduttiva nostalgia per la terra ferma. È in questa luce che la psicoanalisi ha interpretato la psicologia delle masse dei grandi sistemi totalitari del Novecento. Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) di Freud, Psicologia di massa del fascismo (1933) di Reich e Fuga dalla libertà ( 1941) di Fromm costituiscono una sorta di fondamentale trilogia sul fenomeno sociale del fanatismo di massa e dei suoi processi identificatori che hanno costituito il cemento psicologico di tutti i totalitarismi novecenteschi.
UNA tesi generale ritorna in questi tre testi: non è vero che gli esseri umani amano senza ambivalenze la loro libertà; essi preferiscono anche rinunciarvi in cambio della tutela autoritaria della loro vita. Se la libertà comporta sempre la possibilità della crisi, dell’incertezza, del dubbio, del disorientamento, è meglio fuggire da essa per ricercare in un Altro assoluto una certezza granitica e inamovibile sul senso della nostra presenza al mondo e del nostro destino.
Questo ritratto della psicologia delle masse sembra aver fatto — almeno in Occidente — il suo tempo. La nuova psicologia delle masse non si fonda più, infatti, sullo sguardo ipnotico del Padre-padrone, sul leader come incarnazione farneticante dell’Altro assoluto e sulla esaltazione acritica della Causa (la Natura, la lotta di classe, la Razza). La cultura patriarcale, di cui il totalitarismo fu l’apoteosi più aberrante e crudele, si è lentamente dissolta. Al centro dell’Occidente non è più la dimensione tirannica della Causa ideale che mobilita alla guerra le masse, ma quella dell’individualismo esasperato, della rincorsa alla propria affermazione personale, dell’ipertrofia narcisistica dell’Io. Al cemento armato dei regimi totalitari si è via via sostituita una atomizzazione dei legami sociali causata dalla decadenza fatale della dimensione dell’Ideale rispetto a quella cinica del godimento. Il culto pragmatico del denaro ha sostituito il culto fanatico dell’Ideale. Il nichilismo occidentale non sorge più dalle adunate delle masse disposte a sacrificare la vita per il trionfo della Causa, ma dal capitalismo finanziario e dalla sua ricerca spasmodica di un profitto che vorrebbe prescindere totalmente dalla dimensione del lavoro. Il nichilismo contemporaneo non si manifesta più nella lotta senza quartiere contro un nemico ontologico, ma come effetto di una caduta radicale di ogni fede nei confronti dell’Ideale. E’ il passaggio epocale dalla paranoia alla perversione. Gli ultimi drammatici fatti che hanno investito la Francia e l’Europa comportano però un ulteriore cambio di scena. La critica che la cultura islamica più integralista muove all’Occidente è una critica che tocca un nostro nervo scoperto: il nichilismo occidentale non è più in grado di dare un senso alla vita e alla morte. Il dominio del discorso del capitalista ha infatti demolito ogni concezione solidaristica dell’esistenza lasciando orami evasa la domanda più essenziale: la nostra forma di vita collettiva è davvero l’unica forma di vita possibile? L’idolatria nichilistica per il denaro ha davvero reso impossibile ogni altra fede? La nostra libertà è riuscita veramente a rendere la vita più umana? Il fatto che l’Occidente che non sia più in grado di ripensare consapevolmente le sue forme (alienate) di vita, ha spalancato la possibilità che la critica all’esistente abbia assunto le forme terribili di un ritorno regressivo all’ideologia totalitaria. È un insegnamento della psicoanalisi: quello che non viene elaborato simbolicamente ritorna nelle forme orribili e sanguinarie del reale. L’Islam radicale non è forse l’incarnazione feroce di questo ritorno? Il suo rifiuto dell’Occidente, fanatico e intollerante, non si iscrive proprio nello spazio lasciato aperto da una nostra profonda crisi dei valori condivisi? L’integralismo islamico costituisce il ritorno alla più feroce paranoia di fronte alla perversione montante che ha assunto il posto di comando in Occidente. Alla liquefazione dei valori si risponde con il loro irrigidimento manicheo. Mentre la perversione sfuma sino ad annullare i contrari, destituisce ogni senso della verità, confonde i buoni con i cattivi, mostra in modo disincantato che tutti gli esseri umani hanno un prezzo, la paranoia insiste nel mantenere rigidamente distinti il bene dal male, il buono dal cattivo, il giusto dall’ingiusto offrendo l’illusione di una protezione sicura dall’angoscia della libertà.
In due importanti libri dedicati all’Islam radicale ( La psicoanalisi alla prova dell’Islam, Neri Pozza 2002, Dichiarazione di non sottomissione , Poiesis 2013) lo psicoanalista francotunisino FethiBeslam, professore di psicopatologia all’Università di Parigi-Diderot, ci ricorda come la sottomissione all’Altro salvi e distrugga nello stesso tempo. Essa offre l’illusione di un mondo senza incertezze, chiedendo però in cambio la rinuncia totale alla libertà. La potenza seduttiva dell’integralismo islamico consiste infatti nel proporsi come la sola interpretazione possibile dell’Origine, della voce di Dio, dell’unico Dio che esiste, del Dio “furioso” e giustiziere implacabile. Si tratta di una ideologia identitaria che comporta la sottomissione come unica possibilità di rapporto alla verità fondandosi sulla cancellazione dell’alterità di cui la rimozione della femminilità è l’espressione più forte ed emblematica. L’amore per la Legge sfocia così fanaticamente nell’auto-attribuzione del “diritto di vita e di morte su ogni cosa”. E’ la forma più terribile di blasfemia: uccidere, sterminare, terrorizzare nel nome di Dio. L’Occidente che ha dato prova di aver saputo superare la stagione delirante dei totalitarismi, non ha ora solo il compito di difendersi dal rischio del dilagare della violenza paranoica dell’Islam radicale, ma deve soprattutto provare a rifondare laicamente le ragioni della nostra cultura per evitare che il culto perverso di una libertà senza Legge sia solo l’altra faccia di quello paranoico di una Legge che annichilisce la libertà.

Repubblica 7.2.15
Quando Camus ci insegnò che siamo noi “Lo straniero”
di Roberto Saviano


“L’incolmabile e insanabile solitudine dell’uomo per cui l’esistenza è solo qualcosa che accade”
“Esiste la bellezza ed esiste l’inferno per quanto possibile sono fedele a entrambi”

ALBERT Camus in questi anni mi è stato accanto mentre mangiavo, dormivo, scrivevo. Accanto mentre mi disperavo. Accanto mentre cercavo brandelli di felicità. Era accanto a me quando sono stato troppo frettoloso in un giudizio, consigliandomi di rallentare, di riflettere meglio, di ponderare le mie parole, di pesarle.
Accanto a me mentre tenevo il punto contro l’idiozia estremista, in un’Italia che spesso fa dell’estremismo di maniera scudo, appartenenza, bandiera. Era vicino, silenzioso, costante ombra, amico gradito a cui poter chiedere cose e da cui poter ancora ottenere risposte. È così che accade quando scegli di dialogare con uno scrittore, e non importa che sia morto quasi vent’anni prima che tu nascessi.
Albert Camus ha misurato palmo a palmo il territorio in cui si muove un narratore, il suo limite doloroso e la sua grazia, ovvero le parole. Parole che non sconfiggeranno la fame, che non salveranno vite, che non uccideranno virus, ma lo scrittore non “lavora”, non “agisce” sul potere, piuttosto sulla responsabilità. Camus sa che tutto ruota intorno a questo: responsabilità e ragionamento. Sarà impossibile migliorare il mondo — è la razionale presa d’atto — ma si potranno migliorare le vite delle persone che entrano in contatto con noi, e quindi quell’impossibilità come postulato può cadere.
La vita di Albert Camus è un romanzo che è possibile leggere in tutte le sue opere, vere e proprie tessere di un prezioso mosaico. Francese nato in Algeria. Francese che vive tra francesi d’oltremare. Francese che vive tra arabi. Francese che vive tra arabi che percepiscono le sue origini europee come un privilegio; eppure francese che proviene da una famiglia umile, di lavoratori. Camus nella sua vita si sentirà straniero sempre e per tutti. Straniero in Algeria perché privilegiato, straniero tra francesi. Ma straniero anche e soprattutto per la sua condizione di uomo; quindi, in definitiva, straniero tra stranieri. Si oppose alla Guerra d’Algeria, alla pena di morte per gli indipendentisti, ma non sopportò mai l’ideologia del Fln (Front de libération nationale) algerino che vedeva nella Francia il nemico, in una Francia generica, come categoria in sé, rivolgendo la propria ira verso i francesi più prossimi, quelli fisicamente presenti in Algeria. Il bene e il male è difficile che stiano unilateralmente da una sola parte e le divisioni manichee in bianco e nero, buono e cattivo, giusto e ingiusto, vittima e carnefice tanto semplici da digerire, spesso sono altrettanto false e non spiegano in alcun modo la complessità della vita.
A Stoccolma, nel 1957, in occasione della consegna del premio Nobel, Camus partecipò a un incontro con giovani studenti. In quell’occasione uno studente algerino lo aggredì verbalmente e lui pronunciò, in risposta, una frase per cui la stampa francese di sinistra letteralmente lo crocifisse: «Amo mia madre e la giustizia, ma fra mia madre e la giustizia scelgo mia madre». Quello che Camus voleva dire era: se credete sia ingiusto che mia madre, perché francese ma da sempre modesta e lavoratrice, viva laddove ha sputato sangue e sudore, allora io sto con mia madre e contro la vostra giustizia.
Camus è straniero a tutto. La sua estraneità lo rende cittadino della riflessione continua. E quando nel ‘42 pubblica Lo straniero decide di fissare in volto il più complesso dei temi: l’estraneità dell’uomo alla società, all’universo intero. L’incolmabile e insanabile solitudine dell’uomo. Insomma, quando leggi Lo straniero , quando leggi del suo protagonista che per puro caso ammazza un arabo, quando leggi come tutto avvenga per fatalità, ti accorgi che Camus è riuscito in un’impresa impossibile: quella di descrivere l’esistenza come qualcosa che accade. E l’ha fatto non da uomo rinchiuso nei suoi demoni, non da uomo separato dal suo mondo, ma da uomo che vive pienamente la sua vita, e nonostante ciò ha compreso che la vita in fondo capita, senza ragione, senza colpa, semplicemente capita. Ne Lo straniero Meursault non è Camus, ma è un uomo senza mappa e senza coordinate: non immorale ma perduto proprio come lo scrittore immagina l’uomo del suo tempo. Non ci piace Meursault, è apatico. Poi in un caldo pomeriggio avviene la nostra separazione definitiva dal personaggio, mentre cammina sulla spiaggia, sole negli occhi, ha uno scontro con un arabo e nella colluttazione gli spara, uccidendolo. Meursault viene arrestato e non cerca giustificazioni. Viene condannato a morte e non cerca conforto nella religione. Meursault infastidisce chi si aspetta — la quasi totalità dei lettori — una progressione della sua psicologia nel romanzo, chi vorrebbe che a un certo punto si svegliasse e urlasse al mondo il suo pentimento, che spiegasse le sue ragioni, che si giustificasse, che si difendesse. Invece Meursault quella condanna a morte tutto sommato se l’aspetta, ma non per coscienza: come non ha potuto decidere della sua nascita, allo stesso modo non potrà decidere della sua morte.
Lo straniero l’ho letto da adolescente e sin da allora ho fatto una riflessione che ha accompagnato il ricordo di quella lettura. Ho creduto che nell’estraneità che Meursault — che l’uomo — prova verso se stesso, verso l’umanità, verso l’universo, ci sia anche di che essere, di che sentirsi sollevati. Ho creduto di scorgere, e ancora vedo, nel sentirsi straniero, l’impossibilità di sentire fino in fondo il peso della responsabilità, perché la responsabilità è possibile sentirla solo quando si ha piena percezione, piena consapevolezza di ogni gesto, di ogni decisione. Ma se, invece, ciò che ti capita in gran parte avviene e basta, lo subisci, se non sei agente, ma sempre e solo agito, allora potrai andare al patibolo e le urla d’odio potranno fare da gradita compagnia. È la solitudine la gabbia in cui tutte le riflessioni di Albert Camus avvengono. Quella solitudine che è forse la vera carta universale di appartenenza al genere umano.
Non bisogna credere che l’opera di uno scrittore che affronta ai ferri corti la vita permetta poi di arrivare a facili soluzioni.
Tutt’altro, è la complessità della vita a trovare spazio nelle pagine di Camus. E nella Peste esiste una risposta a Lo straniero , una risposta che chi ama Camus voleva, si aspettava. Una risposta che non consola ma spiega. Puoi fermare la malattia, ma non risolvi il problema. Nel mondo si muore lo stesso, si soffrirà lo stesso. Ma chi lavora e agisce per salvare, per pulire, per guarire forse non costruirà un mondo migliore, ma migliorerà il mondo in cui vive. «Esiste la bellezza ed esiste l’inferno degli oppressi, per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi». Camus ha scritto queste parole che suonano diverse da «Amo mia madre e la giustizia, ma fra mia madre e la giustizia scelgo mia madre», eppure raccontano una stessa anima e uno stesso modo di sentire, vedere e vivere il mondo. Sono parole che restano sotto la pelle, sotto le unghie, incise sui timpani.
Rappresentano per Camus coordinate, la bussola nella sua vita e nei suoi scritti.
E sono le coordinate che il lettore apprende nelle sue pagine. Coordinate di una navigazione che ci accompagneranno per tutta la vita.
Dall’introduzione a-Lo Straniero Copyright © 2-015, Roberto Saviano © 2-015 Bompiani / R-CS Libri S. p. A.
IL LIBRO Lo straniero di Albert Camus (Bompiani, trad. di S.C. Perroni, pagg. 160, euro 12).

Repubblica 7.2.15
Da Dante a Manzoni a Primo Levi se le parole non bastano più
Il suono del silenzio che si ascolta nei libri
di Francesco Erbani


«TACI, a meno che il tuo parlare sia meglio del silenzio»: è la traduzione non proprio letterale di « Aut tace, aut loquere meliora silentio » , l’iscrizione che Salvator Rosa regge con una mano nell’autoritratto che il pittore realizzò a metà del Seicento e che ora è alla National Gallery di Londra. Il silenzio compete con la parola. Non è solo il niente, non è il contrario del rumore né il grado zero della comunicazione. È mancanza e rinuncia, ma anche il “non detto” ha la propria capacità comunicativa.
E la letteratura ha elaborato nei secoli una esauriente gamma di significati che al silenzio si possono attribuire e che riscattano un’immagine apparentemente priva di senso, bensì ricchissima di sfumature, di implicazioni culturali ed emotive. Bice Mortara Garavelli, linguista, studiosa di grammatica (l’ha insegnata per tanti anni all’Università di Torino) ha composto una galleria di silenzi traendoli da un repertorio che va dai tragici greci fino a Carlo Levi, da Dante, Ariosto e Manzoni a Elsa Morante, a Primo Levi, a Lalla Romano ( Silenzi d’autore , Laterza, pagg. 135, euro 18). Mortara Garavelli si è occupata di retorica e si è spinta a ricostruire una storia della punteggiatura, seguita da un prontuario dedicato al punto, alla virgola, al punto e virgola e ai due punti: a dispetto di una presunta aridità della questione, l’ultima edizione disponibile, quella del 2012, avvisa che con essa si è giunti alla quindicesima ristampa.
L’antologia sul silenzio potrebbe allungarsi a volontà, ma intanto dà la misura della frequenza del cimento di autori di diverso carattere con una funzione del linguaggio e della comunicazione che non è solo assenza. O che all’assenza fornisce un valore. Partendo dalle ultime prove ecco che cosa dice Mario Brunello, grande violoncellista, in un libro che intitola proprio al Silenzio (il Mulino), degli esperimenti di un altro grande musicista, John Cage, il quale volle che una volta terminata l’esecuzione della sua opera 4,33, il pianista restasse in silenzio esattamente per quattro minuti e trentatré secondi: «L’intento di Cage era ridefinire il concetto tra suono e silenzio e ricondurre i due elementi a una parità di fronte all’arte musicale».
La parità, o quasi, fra il suono e il silenzio nel linguaggio musicale ha ampia cittadinanza, come ce l’ha in architettura quella fra il pieno e il vuoto. In musica o in architettura il silenzio e il vuoto hanno un’evidenza. In letteratura per definire il silenzio occorre ricorrere al suo contrario, la parola. L’Innominato dei Promessi sposi vede il silenzio accompagnarsi alle tenebre e in coppia, il silenzio e le tenebre, aprono il varco a una morte spaventosa. Il silenzio e la notte sono affiancati nella Gerusalemme liberata . Nel V dell’Inferno Dante esprime il buio in quanto «d’ogne luce muto», perseguendo la trasposizione da una sensazione della vista a una dell’udito già presente nel I dell’Inferno: la selva oscura è un luogo «dove ‘l sol tace».
Fu il teologo e vescovo Gregorio Nazianzeno (III secolo) a elevare il silenzio al rango della parola ingiungendo a chi parla di esser sicuro che quel che sta dicendo è certamente meglio del silenzio stesso. Quasi che il silenzio fosse la condizione naturale alla quale si può derogare solo se ci sono cose molto importanti per interromperlo. Per Ariosto, racconta Mortara Garavelli, il silenzio diventa persona. Nel quattordicesimo canto dell’ Orlando furioso l’arcangelo Michele è inviato sulla terra alla ricerca del silenzio, «quel nimico di parole». Il primo luogo verso il quale si dirige è un convento «dove sono i parlari in modo esclusi, / che ‘l Silenzio, ove cantano i salteri, /ove dormeno, ove hanno la pietanza, / e finalmente è scritto in ogni stanza ». Ma ormai nei conventi, per somma delusione dell’arcangelo, il silenzio «non v’abita più, fuor che in iscritto». Dalla ricerca si appura che dove c’è discordia non c’è silenzio, e che il silenzio, un tempo fiancheggiatore di filosofi e di santi, ora «fece alle sceleragini tragitto».
L’esperienza quotidiana, alla quale può attingere la letteratura, mostra che in silenzio si comunicano tante cose, spesso più efficacemente che parlando. Lo attesta Giovanni Boccaccio nella novella del Decameron in cui nar- ra l’amore straziato di Ellisabetta, alla quale i fratelli uccidono l’amante. È stato Cesare Segre, rileva Mortara Garavelli, a mettere in evidenza come i prolungati silenzi della donna, cadenzati dal pianto, esprimano dolore con «repressa eloquenza». Di contro, i silenzi dei fratelli sono opprimenti, non vogliono convincere, ma reprimere.
Un balzo di secoli e d’atmosfera porta Mortara Garavelli all’ Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra, nelle cui pagine il silenzio, insieme alla ristrettezza di orizzonti, pare dominare l’intera generazione che va in guerra (in quella stessa guerra dove Renato Serra trova la morte nel 1915). Da Serra al mondo contadino di Carlo Levi, il quale racconta le «terre zitte e solennemente silenziose» di Lucania. O, ancora, alla Napoli di Anna Maria Ortese, dove «il rumore fitto di chiacchierii, di richiami, di risate, o solo di suoni meccanici» non riesce a coprire il fatto che «latente e orribile vi si avvertiva il silenzio».
La galleria di Silenzi d’autore è ancora molto estesa. Ma è sull’indicibile per definizione che può chiudersi questa breve rassegna. Ad Auschwitz, scrive Primo Levi in Se questo è un uomo , «per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo».
IL SAGGIO Silenzi d’autore di Bice Mortara Garavelli (Laterza pagg. 152 euro 18)