sabato 29 ottobre 2011

l’Unità 29.10.11
Migliaia di pensionati con lo Spi. Cantone: «Sono loro il vero welfare»
Manifestazione dedicata ai precari: la crisi unisce padri e figli
Cgil: nessuna trattativa sui licenziamenti Appello a Cisl e Uil
In settantamila riempiono piazza del Popolo per la manifestazione dei pensionati della Cgil. Due donne, Carla Cantone e Susanna Camusso, scaldano la folla: «No ai licenziamenti», meglio la patrimoniale.
di Massimo Franchi


«Gli unici ammortizzatori sociali rimasti in Italia». Carla Cantone e Susanna Camusso usano la stessa espressione per definire i pensionati arrivati a Roma da tutta la penisola, compresa la Liguria «abbattuta, ma non piegata». Sono settantamila «con i capelli bianchi o colorati, con i reumatismi, ma sempre ribelli, liberi, resistenti», sottolinea con orgoglio dal palco il loro segretario in chiusura del discorso. Piazza del Popolo è stipata di bandiere rosse, di nonni, padri e parecchi figli e nipoti, testimoniati dalle bandiere dell’Udu e dall’intervento dal palco di Luca De Zolt.
I VERI PROBLEMI
Ma è parlando a loro che Camusso dà segnali politici molto forti al governo e a Cisl e Uil. «Sui licenziamenti per ragioni economiche Sacconi dice che vuole aprire un tavolo con le parti sociali. Ebbene, sappia che noi al tavolo non ci andremo e non parteciperemo attacca il segretario generale della Cgil Il ministro che odia i lavoratori deve capire che i sindacati sono autonomi e che non può convocarci solo quando vuole lui. A chi pensa di raccontare che il problema di questo Paese sono i licenziamenti? A cambiare l’articolo 18 non ci siamo stati nel 2001 e non ci staremo oggi», e qui scatta l’applauso più fragoroso. A Bonanni e Angeletti, con cui continuano i contatti per una strategia comune, Camusso poi riconosce coraggio nell’aver tagliato i ponti con il governo: «Abbiamo apprezzato l’uso della parola sciopero, che sembrava oramai abrogata. Facciamo un appello a Cisl e Uil: ritroviamoci a discutere e a trovare ragioni unitarie». E Camusso poi spiega molto delle politiche che la Cgil vorrebbe per cambiare, «perché un’altra ricetta c’è e se il governo l’avesse seguita tre anni fa, quando chiedevamo per primi la patrimoniale che ora è sulla bocca di tutti, forse ci saremmo stati anche noi con Francia e Germania a dettare l’agenda agli altri paesi europei invece di essere commissariati dalla Bce». Se lo slogan, comune a Camusso e Cantone, è: «Ognuno paghi per ciò che ha e inizi a pagare chi non ha mai pagato», mentre nella lettera di Berlusconi all’Europa «c’è ancora l’idea che a pagare siano i lavoratori», il segretario generale della Cgil va più nello specifico: «Sulle pensioni non è vero che la lettera non dice niente, perché la “finestra mobile” diventa un vincolo che allunga a tutti di un anno l’andata in pensione di vecchiaia, colpendo in particolare donne e lavoratori del Mezzogiorno che hanno discontinuità contributiva. Il fondo dei lavoratori dipendenti all’Inps (in attivo per 10 milioni, ricorda Cantone) finanzia quello di autonomi e dirigenti, che pagano meno contributi». Operare sulle pensioni dunque «si può», «ma non ci vuole l’età che si allunga nel tempo, serve invece, qui sì, flessibilità, con le persone che decidono se andare in pensione o continuare a lavorare», spiega Camusso. Altolà invece sul tema «mobilità»: «Serve un decreto per non limitare a 10mila il numero dei lavoratori che ne possono usufruire». Ce n’è pure per Confindustria: «Se riscopre l’amore per il governo appoggiando la lettera alle Ue con l’idea di far mandare le persone in pensione a 70, noi rispondiamo che ce ne ricorderemo quando nelle trattative aziendali ci chiederanno i pre-pensionamenti».
In piazza i pensionati dimostrano il loro dinamismo e la loro fantasia nei tanti striscioni, cartelli e adesivi: «Paghi chi non ha mai pagato», è il più gettonato. Mentre il titolo de L’Unità “Licenziamo Berlusconi”, diventa uno slogan per tutti. Una piazza «senza privilegiati», fatta di persone «con pensioni da fame dopo una vita di sacrifici» ricorda Cantone. Una piazza indignata, che rilancia il «Ver-go-gna, ver-go-gna», urlato dal suo segretario quando ricorda «l’azzeramento del fondo per i non autosufficienti, i tagli al welfare locale, mentre il governo per gli anziani ha un solo progetto, la Social card». Si torna poi a spingere sul tasto della solidarietà padri-figli: «Senza lavoro non c’è welfare, quello che la nostra generazione con sacrifici enormi ha conquistato, e non c’è futuro per l’Italia e i suoi giovani, a cui dedichiamo questa manifestazione e che con l’innalzamento dell’età pensionabile rischiano di trovare un lavoro a 50 anni».
La chiusura, ancora comune per le due segretarie, è uno alla mobilitazione che continua. «Anche se sono tre anni che combattiamo contro il governo sottolinea Cantone non siamo stanchi». Anche perché, come spiega Camusso, «la fine del tunnel la vediamo». E dunque l’appuntamento è per il 3 dicembre. «A piazza San Giovanni, la piazza violata il 15 ottobre dalla violenza, che la Cgil vuole di nuovo piazza di democrazia per una grande manifestazione con un solo slogan: «Lavoro, lavoro lavoro». Ci saranno anche i pensionati, tanti come ieri.

il Fatto 29.10.11
A Roma manifestazione di Cgil e Uil
Missiva all’Unione europea, i pensionati si indignano
di Salvatore Cannavò


I pensionati riempiono piazza del Popolo a Roma in una manifestazione che va oltre la classica scadenza sindacale. Quella che si è vista ieri mattina nella capitale, su iniziativa dello Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati diretto da Carla Cantone, è stata infatti una piazza per certi versi tradizionale, fatta del “corpaccione” forte della Cgil. Pronta a mobilitarsi quando c’è da fare massa critica per dimostrarne la forza. Ma ieri a Roma si è vista anche una piazza diversa. Molto attenta, molto “indignata”, molto politica. È finita con Carla Cantone e Susanna Camusso abbracciate sul palco e poi insieme a cantare “Bella ciao”, ma tutta la manifestazione è stata segnata da quanto sta avvenendo tra Roma e Bruxelles, dalla lettera del governo al-l’Europa, dalla previdenza, dai licenziamenti. Anzi, a indignare di più i pensionati della Cgil non è tanto l’elevamento dell’età pensionistica, che pure è contrastata con forza – “altrimenti quando andranno a lavorare i nostri figli? A 50 anni?”, urla dal palco la Cantone – quanto il progetto di rendere più facile i licenziamenti da parte delle imprese. Una “vergogna” che la Cgil è decisa a fronteggiare con tutti i suoi mezzi: “Ci avete già provato una volta con l’articolo 18 – scandisce Cantone – e vi è andata male”. La Camusso ribadisce il concetto: “Se il ministro Sacconi ha in mente di convocare incontri, sappia che a un tavolo sui licenziamenti la Cgil non siederà mai”.
Ma in questa piazza c’è ancora di più. Incombe lo spettro di un governo in crisi permanente e di un leader di cui vergognarsi. “Guarda che non è vero che la Merkel si è scusata”, dice un pensionato di Napoli a un suo compagno. E mentre lo Spi-Cgil di Perugia distribuisce Baci Perugina – “noi non tiriamo sassi ma solo baci” – un anziano cigiellino dell’Emilia spiega al suo compagno che “sul più importante giornale del mondo (è l’Economist, ndr) “quello” è raffigurato come un clown. Un pagliaccio, capisci?”. “Vergogna, vergogna” è così il grido che sale dalla piazza più volte, prima quando Carla Cantone accusa la lettera alla Ue di immoralità e poi nei confronti della Lega, accusata di giocare sulla pelle dei pensionati.
DAVANTI a una piazza così, la segretaria dello Spi ha gioco facile a chiedere che Berlusconi se ne vada, ma va oltre per dire al centrosinistra che se vuole essere quell’alternativa in cui molti sperano “deve scegliere se stare da una parte o dall’altra perché in mezzo si prendono solo schiaffi”. Insomma, sui licenziamenti il Pd deve avere una posizione chiara.
In Cgil si sta discutendo di quale risposta organizzare contro quella che viene vista come l’ennesima minaccia. La Camusso rilancia le aperture a Cisl e Uil – e da una piazza vicina, Santi Apostoli, dove si tiene la manifestazione degli statali della Uil ieri in sciopero, Luigi Angeletti conferma che un incontro tra tutte le sigle è previsto nei prossimi giorni – dicendo di “apprezzare” la volontà di ricorrere allo sciopero espressa da Raffaele Bonanni e rilancia il tema dell’unità. E in queste ore i sindacati si stanno consultando per capire che margini di iniziativa comune ci possano essere. “Certo – ci confida una dirigente nazionale del sindacato – che una grande manifestazione popolare di tutti, sindacati e forze politiche, oggi sarebbe possibile e avrebbe un grande consenso”. Ci state lavorando? “Se ne sta discutendo”, risponde. Giriamo la domanda a Cesare Damiano che però non rilancia: “Vedremo, ora prepariamo la manifestazione del Pd, poi vedremo”. In realtà nell’organizzare una risposta di piazza al governo i piani si intrecciano e si confondono. Una vera manifestazione popolare, organizzata da tutte le forze sindacali e dai partiti del centrosinistra metterebbe in imbarazzo l’Udc di Casini che non può certo sfilare con la Cgil. E quindi la Cisl frena così come una buona parte del Pd. Probabile dunque che, come si sente ripetere da più parti, si “marci divisi per colpire uniti”, cioè si organizzino diverse iniziative. Ma c’è chi spera che qualcosa in più possa sorgere.
INTANTO, la Cgil dà appuntamento al 3 dicembre quando terrà la manifestazione nazionale con chiusura in piazza San Giovanni “che intendiamo riconquistare al lavoro e alla democrazia” spiega Camusso. Il Pd ne farà una propria il 5 novembre nello stesso luogo. La piazza di ieri chiede qualcosa di più.

Repubblica 29.10.11
"Il produttore di macerie"
"Licenziamenti facili, una provocazione"
No compatto dei sindacati. Il premier: fermi all´800. Confindustria: dialogo
Palazzo Chigi fa suo un disegno di legge di Ichino (Pd) che vuole riformare la materia
di Roberto Mania


ROMA - Fuoco incrociato governo-sindacati sui licenziamenti. Cgil, Cisl e Uil si preparano dopo anni a uno sciopero generale probabilmente unitario. Il premier, Silvio Berlusconi, non indietreggia e va all´attacco, mentre da New York, la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, prova ad allentare la tensione con una sorta di appello ai sindacati: «Lavoriamo insieme, discutiamo insieme, non è con gli irrigidimenti ideologici che risolviamo i problemi del Paese. Un autunno caldo renderebbe tutto più complicato».
Ma per ora il clima è molto diverso. Il leader della Cgil, Susanna Camusso, ha detto, chiudendo la manifestazione nazionale dei pensionati, che «l´unico licenziamento ammissibile è quello del governo». Raffaele Bonanni (Cisl) ha ripetuto che la proposta del governo «è una provocazione, un´assurdità». E Luigi Angeletti (Uil): «Non faremo passare questa legge»
Ma per Berlusconi, che ha scritto una lettera al Foglio diretto da Giuliano Ferrara «la polemica sui "licenziamenti facili" è figlia di una cultura ottocentesca che ignora i cambiamenti del mercato mondiale ed è oltraggiosa per l´intelligenza degli italiani: già ora nelle aziende con meno di quindici dipendenti, dove lavora circa la metà degli occupati, non vige la giusta causa». Nella lettera, Berlusconi - che parla anche di una campagna «fatta di ipocrisie e falsità» - conferma per la prima volta che il vero obiettivo è quello di cambiare l´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che, in caso di licenziamenti senza giusta causa nelle aziende con più di quindici dipendenti, prevede il reintegro del lavoratore e non un risarcimento economico. Finora si era parlato di licenziamenti per motivi economici, mentre l´Europa ha chiesto al governo essenzialmente di modificare proprio quella norma che frenerebbe la crescita dimensionale delle imprese, una delle ragioni della scarsa competitività del nostro sistema.
Berlusconi ha scritto anche di più, oltre a sostenere che «gli imprenditori del ventunesimo secolo non sono i padroni delle ferriere dell´Ottocento». Perché ha spiegato che è intenzione del governo di fare proprio il disegno di legge presentato dal senatore del Pd Pietro Ichino sulla cosiddetta flexsecurity. Una proposta sottoscritta da una cinquantina di esponenti dell´opposizione anche se non è mai diventata la posizione dei democratici. Ichino propone un sistema con un contratto di lavoro a tempo indeterminato per tutte le nuove assunzioni (a parte i casi classici di contratti a termine per punte di produzione stagionale o per sostituzioni) e con protezioni uguali ma senza che nessuno sia «inamovibile». In caso di licenziamento è previsto un sostegno al reddito decrescente per un triennio. Ma non è questa la strada per Pier Luigi Bersani, segretario del Pd: «La verità è che i cassintegrati avranno i licenziamenti e non che i licenziati avranno la cassa integrazione». Nei prossimi giorni Cgil, Cisl e Uil potrebbero decidere l´eventuale sciopero.

il Riformista 29.10.11
Cgil, Cisl e Uil pronte allo sciopero unitario sui licenziamenti
di Giuseppe Cordasco

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l’Unità 29.10.11
Una proposta indecente. Anche contro le imprese
Ma l’obiettivo del governo potrebbe essere un altro: mascherare dietro la liberalizzazione dei licenziamenti la facoltà di espellere i lavoratori scomodi, i sindacalizzati, gli usurati e le lavoratrici-madri
di Luigi Mariucci


C’è da chiedersi quale sia il senso e l’utilità delle misure di liberalizzazione dei licenziamenti per motivi economici annunciate dal governo nella lettera alla UE. Per prima cosa va sgombrato il campo dall’alibi costituito dal «ce lo chiede l’Europa». Da dieci anni la politica delle destre in Italia si è trincerata dietro questo alibi, fin dal libro bianco del 2001: il risultato è che è cresciuta enormemente la precarizzazione del mercato del lavoro, che colpisce soprattutto i giovani e le donne, mentre non è stato scalfito alcun reale privilegio corporativo e non si è attivato nessun strumento di sostegno al reddito e di avviamento al lavoro per i soggetti esclusi dal mercato del lavoro, alla faccia della c.d. flexsecurity. Dietro lo schermo della liberalizzazione delle assunzioni si sono invece rafforzati i meccanismi familistici quando non clientelari: le “conoscenze” ele “raccomandazioni” restano lo strumento più diffuso per trovare lavoro. Lasciamo quindi stare, al momento, la questione europea. Guardiamo a ciò che succede in concreto in Italia.
Su un mercato del lavoro già precarizzato e frammentato, segnato in particolare dal drammatico dualismo nord-sud, si è abbattuta la crisi economica a partire dal 2008. In generale le crisi aziendali si verificano non per deficit di produttività del lavoro o per gap competitivi, specie nei settori più avanzati sul piano tecnologico. Basti guardare alla meccanica emiliana e alle migliaia di piccole imprese, specie artigiane, del nord-est strozzate dalla tenaglia tra caduta delle commesse, ritardati pagamenti dei committenti e difficile se non impossibile accesso al credito. Nelle grande maggioranza dei casi il problema di queste imprese non è quello di liberarsi dei lavoratori ma, al contrario, di trattenerli, di conservare quindi la capacità produttiva in vista di una possibile ripresa. Da qui il massiccio ricorso ai c.d. ammortizzatori sociali in deroga, che consentono una parziale copertura dei salari anche nelle imprese a cui non si applica la cassa integrazione. Che c’entra tutto questo con la liberalizzazione dei licenziamenti per motivi economici? Nulla. Si tratta quindi di una operazione puramente ideologica a cui giustamente i sindacati, per una volta uniti, si oppongono con forza.
A meno che l’obiettivo vero sia un altro: mascherare dietro la liberalizzazione dei licenziamenti per motivi economici quella, in realtà, per motivi “soggettivi”: dare mano libera alle imprese per espellere i lavoratori scomodi, i sindacalizzati, quelli meno produttivi per ragioni oggettive (i lavoratori usurati, le lavoratrici-madri ecc.). Tutto questo in coerenza con il disegno del famigerato art. 8 della legge n.148, quello che consente con contratti aziendali o territoriali di abrogare l’intero diritto del lavoro, compresi i diritti fondamentali.
Una norma indecente, contro cui si sta avviando giustamente una iniziativa referendaria. In entrambi i casi si vellica l’istinto peggiore delle imprese: le si induce a muoversi nella logica del breve periodo, degli interessi immediati, in una prospettiva sostanzialmente anarchica e all’insegna di un selvaggio dumping sociale. Quando ciò che serve è il contrario. Puntare sulla coesione sociale, su un patto di fondo tra le forze produttive che faccia uscire il paese dalla forbice tra misure necessarie di contenimento del debito pubblico e recessione.

l’Unità 29.10.11
«È ora di cambiare» Musica e cultura in difesa della scuola


È ora di dire basta e lo dicono in tanti in questi giorni. Lo fa anche la Flc, l’organizzazione dei lavoratori della scuola e della conoscenza della Cgil, che dà appuntamento questa sera in piazza del Popolo con un evento musicale per dire che è arrivato il momento per il Paese di voltar pagina.
Un’iniziativa che vuole sottolineare la necessità di ripartire dall’istruzione, dal rilancio della ricerca pubblica, ripartire con una vocazione secolare, l’arte e la musica, ripartire dal lavoro. «Ricostruiamo l’Italia» è lo slogan scelto per la campagna che inizia oggi. A partire dalle 18 sul palco si alterneranno Daniele Silvestri, Frankie Hi-Nrg, i Blues Willies e Max Paiella, Ascanio Celestini, Ivana Monti con altre personalità del mondo della cultura, dello spettacolo e del lavoro. A condurre la serata sarà Dario Vergassola. Tra gli interventi, quello del segretario di Flc, Domenico Pantaleo e della leader Cgil, Susanna Camusso.
Saranno con noi tanti artisti spiega Pantaleo per ribadire che esiste un Paese che non si rassegna al declino e al degrado culturale. Ricostruire l’Italia significa rivendicare una maggiore giustizia sociale. Vogliamo fare della conoscenza un bene comune che deve servire alle nuove generazioni per uscire dalla precarietà esistenziale e per poter conqui-
stare un futuro migliore. Il governo Berlusconi invece colpisce duramente i lavoratori, i pensionati e i precari per salvare i ricchi, gli evasori fiscali e le rendite speculative. Per questa ragione occorre aprire una nuova stagione politica e sociale».
Scuola, università e ricerca sono state molto penalizzate dalle scelte del governo che, manovra dopo manovra, gli ha sottratto risorse, mentre un ministro per l’istruzione tra i più criticati della storia recente ha avvilito competenze e professionalità.
Alle “vecchie” ragioni di protesta, Flc aggiunge le ultime, ben rappresentate dalla lettera che il governo ha inviato all’Unione europea che continua Pantaleo «contiene un attacco fortissimo ai lavoratori eal diritto allo studio».

l’Unità 29.10.11
Vecchioni suonerà alla manifestazione di San Giovanni. Già pronte decine di treni e due navi
Vendola apre all’alleanza tra progressisti e moderati: «Purché il programma sia di svolta»
Il Pd prepara la sua piazza Bersani: «Finirà questa notte»
Vecchioni suonerà alla manifestazione del 5 a San Giovanni. Bersani lancerà le proposte per la «ricostruzione». Un obiettivo che per il leader Pd richiede uno schieramento ampio e un patto di legislatura con i centristi.
di Simone Collini


«Perché questa maledetta notte dovrà pur finire», cantava Roberto Vecchioni a San Remo, e poi a piazza del Duomo a Milano, chiamando in entrambi i casi la vittoria. Pier Luigi Bersani ci ha tolto l’imprecazione, aggiunto un di più di assertivo, e su Facebook ieri ha lanciato la manifestazione del 5 novembre a San Giovanni al motto di «finirà questa notte». Non è casuale la citazione. Sabato prossimo Vecchioni suonerà (così come anche i Marlene Kuntz) a quella che per il Pd dovrà essere una «grande festa di piazza». Di fronte alla Basilica saranno allestiti spazi per le famiglie e punti di attra-
zione per i bambini. E Bersani, che dal palco illustrerà «le proposte per la ricostruzione democratica, sociale ed economica del Paese» invita «tutti» ad esserci: «Chi non vuole portare la bandiera del Pd porti il Tricolore perché noi faremo questo in nome del popolo italiano».
La macchina organizzativa in queste ore gira a pieno ritmo. Sono già stati organizzati decine di treni, centinaia di pullman e anche due navi. Sul palco, accanto a Bersani, ci saranno anche il candidato alle presidenziali francesi François Hollande e il segretario della Spd tedesca Sigmar Gabriel. Dice con orgoglio il leader del Pd che non è vero che chi guarda all’Italia dall’estero pensa che da noi non ci sia un governo capace di guidare il Paese ma neanche un’opposizione in grado di dar vita a un’alternativa credibile. «I governi Amato, Ciampi, Prodi, D’Alema: in Europa ci conoscono per quella storia lì, che è una storia di buon nome. Io il 5 novembre porto in piazza a San Giovanni il candidato all’Eliseo dei progressisti, Hollande, il segretario dellla Spd, Gabriel. Provi Berlusconi a chiamare ad una sua manifestazione qualche leader Popolare europeo. Questo dà la misura del rapporto reciproco di credibilità internazionale che c’è in questo momento». Bersani parla all’indomani di un’apertura di credito data dall’Ue alla lettera di Berlusconi, e rispondendo a una domanda che gli viene posta durante la trasmissione “Radio anch’io” esprime il timore che «quando la commissione guarderà ed esaminerà quel documento, sui contenuti e sulla tempistica e sulla credibilità verrà fuori che il governo sta raccontando cose che non ci sono e ci sarà un effetto boomerang».
PATTO CON I CENTRISTI
L’obiettivo resta la «discontinuità politica» e in questa fase il leader del Pd vuole impegnare l’opposizione nella costruzione di una «alternativa credibile»: «Ci sono da fare le riforme e per questo ci vuole uno schieramento ampio, una convergenza forte, al di là delle barriere tra diversi». Dopo il segnale positivo arrivato da Pier Ferdinando Casini, che si è detto disponibile a ragionare su una coalizione «costruita sui contenuti», anche Nichi Vendola parla della possibilità di «un’interlocuzione a tutto campo con i centristi, purché il programma sia quello di una svolta per l’alternativa», e Antonio Di Pietro dice che ora «l’impegno è di trovare un punto d’intesa per sfiduciare il governo Berlusconi e un’alternativa di governo».
I leader di Sel e Idv si candideranno alle primarie del centrosinistra e Bersani assicura che lui sarà in campo («non temo nessuno risponde a chi gli domanda dell’ipotesi di candidatura di Matteo Renzi solo un pazzo può pensare di prendere in mano una situazione come questa»). Quanto ai centristi, se anche non dovesse andare in porto l’alleanza elettorale, per il leader Pd ci sarebbero comunque tutte le ragioni per lanciare un appello alle forze moderate anche dopo il voto, in caso di vittoria del Nuovo Ulivo. Si tratterebbe di una sorta di patto di legislatura per realizzare la necessaria «ricostruzione democratica». Un obiettivo che solo uno «schieramento largo», al di là del premio di maggioranza garantito dal Porcellum, può raggiungere.

il Riformista 29.10.11
Il segretario Pd conferma «Io mi candido»
Bersani anticipa il “Big Bang”
Il Wiki-Pd di Renzi. Duello con Bersani
di Tommaso Labate

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il Riformista 29.10.11
Se la corrente del biberon veste alla marinara
di Emanuele Macaluso

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il Fatto 29.10.11
Renzi non sfonda nemmeno tra i fiorentini
“Qualunquista, vuole andare a Roma” Leopolda2: pochi i giudizi positivi
di Wanda Marra


Si candiderà alle primarie del centrosinistra, rivoluzionerà miracolosamente la politica italiana, offrirà nuova vita al nostro paese con un novello Big Bang (ambizioso titolo per un evento politico)? Un’ambientazione suggestiva (la Leopolda, che fu la prima stazione ferroviaria di Firenze), 8 megaschermi, cena fiorentina per tutti, una scenografia che mette insieme i brontosauri (i dirigenti di partito da pensionare) e il rassicurante salotto di casa, Matteo Renzi è riuscito a catalizzare l’attenzione politica sulla sua iniziativa che si è aperta ieri sera in diretta live su Otto e Mezzo (presente pure un vip doc come Alessandro Baricco) e che finisce domani, seminando il panico tra i suoi presunti amici del Pd e solleticando la curiosità di tutti gli altri.
MA MENTRE i riflettori illuminano la kermesse del sindaco di Firenze (un giorno e mezzo di maratona di liberi interventi di 5 minuti ciascuno), cosa dicono i fiorentini, dopo due anni di amministrazione del trentaseienne ex boy scout, che promuovendo le sue 100 promesse sbaragliò alle primarie il collega di partito, Lapo Pistelli, e poi vinse le elezioni contro l’ex portiere della Fiorentina? Abbiamo fatto una passeggiata per le strade del centro della città (Piazza della Signoria e zone limitrofe) ponendo un paio di semplici questioni ai passanti: cosa non funziona a Firenze? E Renzi vi convince? Molti hanno risposto con nome e cognome, qualcuno ha preferito evitare. Leonardo, 38 anni (si definisce cittadino): “Renzi? É una testa di cazzo. Ha bloccato una città, chiudendo le strade del centro e ci ha infilati tutti nel traffico”. Marta Rosci, 60 anni, pensionata: “Con Renzi ho un rapporto strano, per alcune cose mi piace, per altre penso proprio che si sia montato la testa. É ovunque, mette bocca su tutto. Certo la città è pulita, le strade sono a posto. Però, ci sono tante cose di cui non si interessa affatto: gli scioperi, il Primo maggio, il 25 aprile. É molto ambizioso, è un cattolico d’assalto. E lo sanno tutti che vuole andare a Roma”. Maria Gambioli, 34 anni, insegnante: “Il sindaco? Non mi dispiace. Anche se quando piove, la città si blocca continuamente. Però ha fatto i marciapiedi per le carrozzine. E per me che giro con un bambino piccolo è tanto”. Renata, architetto (e l’età non si dice): “Cassonetti, luci, pedonalizzazione: dobbiamo tutto a Renzi. Io sono una professionista e Renzi mi piace. E ci tengo a dirlo perché sono una delle poche, della mia categoria a pensarla così”. Gianni Seminara, 56 anni, sarto su misura: “Firenze è una città che sta perdendo le sue caratteristiche, come l’artigianato. Qui va tutto per approssimazione, tutto senza un disegno, secondo gli aggiustamenti e i compromessi del momento. E Renzi in questo è maestro. D’ altra parte io mi sto convincendo di una cosa: se gli italiani si guardano allo specchio davvero, capiranno che Berlusconi l’hanno voluto loro. Non è lui che ha corrotto l’Italia, è l’Italia che ha prodotto lui”. Michele, 33 anni, impiegato comunale: “Per Renzi l’unica cosa importante è il fine, e i mezzi non contano. Quando ha deciso che deve fare una cosa, la fa, occupandosi solo che il bilancio sia a posto. Poi, se magari per far questo deve esternalizzare tutto, non gli interessa”. Mario, 48 anni, bancario: “Renzi è giovane, è giovane. Tutti a dire che è giovane: ma basterà? E noi, e tutti gli altri che dobbiamo fare, sparire solo perché abbiamo qualche anno in più? Non lo so, a me non è simpatico. E non mi sembra che l’unica cosa interessante da fare possa essere pensare di annullare la vecchia politica. Le cose le fa? Boh. E comunque, il traffico è ingestibile e i parcheggi carissimi”. Duccio, 28 anni, studente: “All’università fa freddo, ma non so se è colpa di Renzi. E magari, se diventa presidente del Consiglio, la Fiorentina vince il campionato , Berlusconi docet. Bersani, Vendola, Di Pietro? Meglio lui. Una cosa però la voglio dire: Forte Belvedere è chiuso dal 2007, dopo che è morta una ragazza. Per carità, una cosa grave, però che ci vuole a mettere due transenne? Servono 4 anni?”.
VIERI, 32 ANNI, lavora in uno studio di progettazione: “Un esempio di amministrazione? La Tramvia per arrivare in centro: sì, si è fatta, e per molte persone è utile. Però, mi hanno spiegato che si è sbagliato il progetto: se appena va un po’ più veloce esce dai binari, deraglia. Mi pare che Renzi sia bravissimo a far pubblicità a quello che fa. Ha tolto le pensiline dalla stazione di Santa Maria Novella: per carità, giustissimo . Però, stiamo parlando di pensiline, no? Un po’ di senso delle proporzioni! Poi, ho sentito che vuole rifare la facciata di San Lorenzo sul progetto di Michelangelo. Bellissimo, ma con che soldi?”. Marzia Fabiani, coordinatore Retail Mercato e Finanza di Banca Intesa: “Renzi? Mi piace perché non sono di sinistra. Poi, certo, è un qualunquista. Che dubbio c’è? Comunque, se c’è una cosa a cui bisognerebbe lavorare è l’ordine pubblico, evitando che parti del centro storico diventino dominio degli squatter e dei rom: non dovrebbe essere difficile, no? Una cosa è rifondare la città, una cosa mettere qualche filtro”. Valeria Chianese, 31 anni, barista. “Mica lo capisco se l’amministrazione di questa città funziona: molti dicono che la Tramvia è un bene, molti no. Però, io devo dire che dei politici non mi fido proprio e quindi non li seguo, Renzi compreso”. Leonardo, 33 anni, impiegato museale. “Renzi? Lo odio, è un incapace. Si occupa solo di fare una campagna elettorale permanente. E per il resto non fa niente. Anonimo. La rottamazione? Renzi vuole rottamare noi, i fiorentini. Questa città sta morendo, soffocando tra il traffico e le strade chiuse. Non gliene frega niente: lo sanno tutti che vuole andare a Roma”.

il Fatto 29.10.11
Prodi: “Io renziano? Smentisco, casomai sono anziano!”
di Giampiero Calapà


Renziano io? No, guardi, smentisco. Mi continuano a tirare per la giacchetta da più parti: adesso me la tolgo, la giacca”. Romano Prodi, l’unico che ha sconfitto Berlusconi, si smarca dalle voci rimbalzate da più parti su un suo possibile sostegno al sindaco di Firenze alle primarie: “Guardi, preferisco non commentare perché tutte le volte poi esagerano nel portarmi da una parte o dall’altra. Non dirò nulla sulle primarie eccetera. Però, renziano proprio no, casomai anziano, infatti faccio il nonno”, scherza il Professore.
Poco prima la sua portavoce Sandra Zampa era già corsa a precisare: “Un supposto sostegno del presidente Prodi a Matteo Renzi e alla sua iniziativa politica, così come ad altre iniziative promosse da componenti interne del Pd, è del tutto infondata” . Mentre il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, apre alle primarie dicendo di non temere “né Zingaretti, né Renzi”, il governatore della Toscana Enrico Rossi, che si farà vedere alla Leopolda, avrebbe preferito “che Renzi continuasse a fare il sindaco di Firenze (il mestiere più bello del mondo, diceva Renzi solo poco tempo fa, ndr), perché non si lascia un incarico dopo due anni e mezzo, dopo aver suscitato tante aspettative: ma se deciderà davvero di candidarsi alle primarie, sbagliando, dovrà comunque essere libero di farlo”.
Come poteva aspettarsi Renzi il sostegno di Prodi per il Big Bang della Leopolda? La colonna sonora dell’evento sarà di Jovanotti, il più veltroniano dei cantanti. E l’avvicinamento con quello che un tempo per Renzi era il “disastro”, Walter Veltroni, l’uomo che affossò il secondo governo Prodi, appare evidente.

Corriere della Sera 29.10.11
La sfida di Renzi: le primarie? Bersani può perdere
E il leader si prepara a cambiare lo Statuto per contrastare la scalata del sindaco
di Monica Guerzoni


FIRENZE — Alle primarie «corre chi vuole correre». E Pier Luigi Bersani sappia che può anche perdere. «In Francia il segretario del partito socialista Martine Aubry ha corso alle primarie e ha perso...». Matteo Renzi apre la «Leopolda 2011» davanti a duemila persone, non tutte giovanissime, lancia il suo «Wiki-Pd» aperto ai contributi di chiunque e scatena, come promesso, il «Big Bang». E meno male che dice di non sentirsi un «guastafeste»... «Il mio peggior difetto? Sono troppo arrogante, lo ammetto».
Il Pd gli «garba», ma solo «quello serio, quello vero». Si dice che avesse accarezzato l'idea di scendere in campo per la premiership a dispetto dello Statuto, con la segreta speranza di «farsi cacciare» dal Pd per far man bassa di voti. Ma Bersani ha provato a rompergli il giocattolo. Ha detto che si candida, ma non si è fatto scudo delle regole interne del partito e, per sminare la bomba Renzi, ha aperto le primarie a tutti: «Io non ho paura». Bersani non teme Renzi e non teme Zingaretti, però si prepara a cambiare lo Statuto, dove è scritto che il candidato premier è il segretario del partito. «Bene, senza primarie non ci sarebbe il Pd», accoglie la svolta Renzi. E a sera la presidente Rosy Bindi, che allo Statuto si era appellata per stoppare il leader dei «rottamatori», certifica suo malgrado la rivoluzione inevitabile: «Se ci sono richieste di candidatura la strada è cambiare lo Statuto. E corrono tutti». E a quel punto, chi vince? «Bersani, chi mai dovrebbe vincere?».
Vista da Firenze, la partita per il segretario non si annuncia così facile. Basta varcare la soglia dell'ottocentesca stazione Leopolda per capire che Renzi fa sul serio e l'unico paragone possibile è con il Lingotto di Walter Veltroni. C'è un'aria nuova, giovane e non giovanilistica. Un linguaggio facile, immediato. Luci ovattate, come in un locale di tendenza. Ci sono le porte pieghevoli per il calcetto e i canestri da basket, l'area bambini e il palco che diventa palcoscenico «perché nessuno salga su un podio per parlare agli altri». Ma al centro della scena, che evoca un interno Anni 50, seduto al computer come fosse a casa sua, c'è sempre lui. Un po' attore, un po' comico, un po' presentatore. Allegro, ironico, sferzante. A volte volutamente irritante.
La lettera di Berlusconi alla Bce? «Ci fa piacere che abbia calmato l'Europa, ma non si sa nulla di cosa voglia fare il governo». Le alleanze? «Io in coalizione con Diliberto non ci sto nemmeno a Firenze». La pubblica amministrazione? «Basta con i dirigenti a tempo indeterminato».
Si era ripromesso di essere buono con Bersani e compagni, di non trattare troppo male «dinosauri», «sfingi» e altre anticaglie democratiche, ma davanti ai cronisti non resiste: «Bersani che chiede le dimissioni di Berlusconi su Twitter è il tormentone più cliccato. La sfida del centrosinistra è dire cosa viene dopo». Nella testa di Renzi il «dopo» sono le elezioni e non «un inciucione», quale sarebbe per lui un governo tecnico. È un programma in cento punti da lanciare online, è una squadra che «non è una corrente ma molto peggio, perché nun ce ne po' frega' de meno». E un vocabolario che non schiva parole come «supercazzola», rubata al Mario Monicelli di Amici miei.
Renzi, si sa, è uno che non le manda a dire. Parla del programma del Pd e ironizza sull'idea che le soluzioni per la crisi economica possano nascere da «un tizio che sta chiuso al Nazareno e che non ha preso mai voti neppure in un condominio». Che farebbe, se a Palazzo Chigi ci fosse lui? Abolirebbe il finanziamento pubblico ai partiti, ma «non è una ripicchina». Cancellerebbe i vitalizi e il bicameralismo perfetto. Affronterebbe il tema licenziamenti senza tabù. Metterebbe mano alle pensioni, passando dal retributivo al contributivo. Taglierebbe le cattedre universitarie aumentate «in modo squallido e vergognoso». E farebbe carta straccia degli ordini professionali, perché «sono caste». Come ha detto aprendo la tre giorni Davide Faraone, il deputato all'assemblea regionale siciliana che vuole fare il sindaco di Palermo e che sfiderà il candidato ufficiale del Pd.

Repubblica 29.10.11
Il Wiki-partito di Renzi che mette paura al Pd
di Concita De Gregorio


Da Bersani agli ex popolari del Pd ecco chi teme l´offensiva del wiki-sindaco
I prodiani lo sostengono, Berlusconi lo ha invitato e piace ai leghisti scontenti

PUÒ piacere o non piacere, ma è bravo. È bravo a parlare, la cadenza toscana la battuta pronta lo aiutano, e dunque a stare in tv. È bravo a capire cosa serve e cosa no per arrivare dove vuole.
A molti non piace, dal segretario Pd alla Bindi e neanche a Civati e Serracchiani
È bravo a intuire i tempi e i modi, i toni che sempre risultano eccessivi ma funzionano, alla fine, in tempi di eccesso al ribasso. Allo scherno è subentrata la paura, se e quando ci saranno le primarie del centrosinistra Renzi sarà l´avversario da battere: per il segretario, per Vendola e Di Pietro se le primarie saranno di coalizione, per tutti. Si è candidato con chiarezza e con anticipo, alla battaglia per la rottamazione generazionale ha poco a poco sostituito quella delle idee, ha mosso se stesso sulla scacchiera con un gioco che deve andare a dama, quella: provincia, comune, governo.
Può piacere o dispiacere, Matteo Renzi - superstar del weekend alla stazione Leopolda di Firenze, Big Bang non solo del Pd - e a moltissimi non piace. Non al segretario del Pd Bersani («Bersani ha un´idea del partito antica, novecentesca») nè ai suoi giovani leoni, oggi in leggerissimo dissenso dalla linea del segretario ma pur sempre dentro quel recinto, il confine segnato dall´ortodossia ex Pci ex Ds, compagine ancora forte ma in evidente sofferenza dentro un´autentica trincea difensiva ossessionata dal nemico interno. Non piace perché viene dalla Dc, e dunque nell´amalgama mal riuscita del Pd rappresenta, per i Ds, "quegli altri". Non piace neppure a una parte consistente degli ex popolari, Rosy Bindi in testa, per motivi di stile, di programma e in fondo certo di rivalità. Renzi va a messa la domenica e in ritiro spirituale l´estate. È favorevole al nucleare controllato, non ha votato sì a tutti e quattro i referendum sicuro che sull´acqua pubblica ci fosse qualcosa da discutere, non è un paladino dei matrimoni gay ma neppure omofobo, piace agli industriali e ai parroci. Per i cattolici del Pd della vecchia guardia è un rivale temibile, imbattibile sul fronte dei social network, della banda larga e di twitter, roba che Bersani dice di "farsi governare da altri" come se fossero maiali, che poi non si butta via niente ma intanto sporcano e fanno rumore. Non piace più un granchè neppure a Civati e Serracchiani, che alla Leopolda dell´anno scorso erano con lui, anche per via di quella sua così visibile ambizione personale: Renzi vuol fare le primarie e di seguito il presidente del consiglio, «è un furbo», dicono di lui, è uno addestrato alla competizione fin dall´asilo, uno che fa melina al capitale e alle massonerie, alle nobildonne fiorentine e ai Della Valle, «non è affidabile». «Divide e non unisce», dice Rosy Bindi, «al contrario di Prodi» il quale tuttavia seppur attraverso i suoi uomini lo sostiene: sarà pure che c´è in ballo la corsa al Quirinale, che l´alleanza eventuale del Pd con Casini porta in pegno il Colle per Pierferdy e che i prodiani hanno altre ambizioni, ma insomma lo sostiene. Parisi e i prodiani alla Leopolda ci sono. D´Alema lo detesta come chiunque non sia sé medesimo o altri da lui forgiati. Veltroni sta a guardare in crescente silenzio essendo stato Zingaretti, in principio, il suo quarantenne di riferimento.
A chi piace dunque quello che con tutta evidenza sarà il candidato per così dire nuovo alle eventuali primarie di centrosinistra? Il per così dire nuovo Renzi (in politica da quando aveva 17 anni, cioè ormai quasi da venti, già presidente della Provincia, oggi sindaco) piace al centro e a destra, fra i leghisti scontenti del Bossi servile, fra i delusi del berlusconismo imprenditoriale, le partite iva e i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori che sono tanti. Piace a Berlusconi stesso, che lo invita a casa (Renzi ci va, pazienza per le critiche) e ne elogia le virtù che mancano a se medesimo e ai suoi alleati: non usa il dito medio, non bestemmia, non racconta barzellette sui negri e sugli ebrei, non usa metafore falliche come intercalare, non dice culona alle signore.
La rivoluzione della buona educazione. Matteo Renzi è beneducato e svelto. Furbo, ambiziosissimo. Piace, a sinistra, agli scontenti del Pd e alla sinistra di nuova generazione, a un bel po´ di grillini e dipietristi, a quelli che non se ne può più della casta che finora piuttosto silenti - ma in molti - serpeggiano anche nel partito di Bersani. Roberto Benigni gli ha dato di recente la sua benedizione. Santoro lo aveva ospite frequent flyer. A Ballarò e da Lilli Gruber è di casa, la Sette il suo salotto. Nel parterre della Leopolda, la cui sigla è mutuata da una serie americana tv di grande successo, ci sono il giuslavorista Pietro Ichino e Sergio Chiamparino, Alessandro Baricco e il presidente dell´Anci Graziano Del Rio, il vincitore dello Strega Edoardo Nesi, l´inventore dei Gormiti, il fratello di Peppino Impastato, il successore del sindaco assassinato a Pollica, il mago della tv Giorgio Gori, l´inventore della Tecnogym Neri Alessandri.
Sindaci trenta-quarantenni al governo delle città. Apre i lavori Davide Faraone, deputato regionale siciliano anti-Lombardo. Li chiude lui, domenica. Ha predisposto un servizio di baby sitting e di road sharing per arrivare in stazione (vuoi ridurre l´inquinamento? Sei un pendolare? Clicca qui e chiedi un passaggio alla Leopolda, venite insieme). Ha fatto in modo che con "un aggeggino" si possa partecipare alla discussione inviando messaggi in diretta dalla tv, dunque da casa. Troppo inglese, forse, ma chi deve capire capisce. Firma l´invito alla Leopolda con: «Un sorriso, Matteo». È amico personale di Pep Guardiola, l´allenatore del Barca, e chissà che non faccia una sorpresa. Non è abbastanza, certo, per fare un leader di centrosinistra né un presidente del consiglio. È quel che basta, tuttavia, per capire a chi faccia paura, Matteo Renzi, e perché.

La Stampa 29.10.11
Inchiesta del quotidiano  «Die Welt»
Germania, accuse alla Chiesa «Fa affari con la pornografia»


Dopo i casi di preti pedofili un nuovo scandalo investe la chiesa cattolica in Germania: «Fa affari con la pornografia». È quanto ha denunciato il quotidiano «Die Welt», secondo il quale la società editrice Weltbild, di proprietà della chiesa, avrebbe nel suo catalogo decine di pubblicazioni pornografiche. Weltbild (6.400 dipendenti e un fatturato di 1,7 miliardi di euro) ha annunciato che intende difendersi e minaccia cause per diffamazione perché, spiegano alla casa editrice, quelle di cui parla Die Welt sarebbero «pubblicazioni erotiche, non pornografiche». Già nel 2008 alcune associazioni di fedeli avevano prodotto un documento critico di settanta pagine sulle pubblicazioni del gruppo editoriale, che oltre all’erotismo offre titoli su esoterismo, magia e satanismo.

il Fatto 29.10.11
Parigi val bene una messa
Il Cristo dei fanatici
La violenza degli ultra-cattolici francesi che boicottano lo spettacolo della Raffaello Sanzio
di Elisa Battistini


La notizia vera, probabilmente, è che si parli di una delle più importanti compagnie teatrali del mondo (non è un’esagerazione) solo quando c’è la notizia. Di cronaca. Ma, laicamente, è lo stesso regista della Socìetas Raffaello San-zio, Romeo Castellucci (che è stato anche direttore della Biennale Teatro), a non drammatizzare: “Il meccanismo dell’informazione funziona così. In Italia il teatro non interessa, è un’arte minoritaria, non ha a che fare con la vetrina della politica. La cosa positiva degli scontri e delle minacce di questi giorni è che, invece, in Francia è vero oggetto di dibattito”. Allora veniamo alla cronaca. Sul concetto di volto del figlio di Dio, produzione internazionale della compagnia di Cesena, va in scena dal 20 ottobre al Théatre de la Ville di Parigi, uno dei produttori dello spettacolo.
FINO A GIOVEDÌ sera (quando le forze dell’ordine sono riuscite a bloccare i manifestanti fuori dal teatro), tutte le rappresentazioni sono state interrotte da gruppi di estremisti. Giovani, molto giovani. “Hanno meno di 30 anni”, dice uno dei tecnici della compagnia, da Parigi. Appartengono a gruppi come Action Francaise (movimento monarchico), Renoveau Francais (nazionalisti di estrema destra), o Civitas Institut. Formato da “giovani cattolici che difendono l’onore di Cristo”, come si legge sull’hompage del loro sito. O l’associazione Agrif, che si batte per l’identità francese e cristiana. Questi ultimi due gruppi hanno cercato di impedire la messa in scena dello spettacolo per vie legali. Ma il 18 ottobre, il Tribunal de Grande Instance di Parigi ha respinto il loro ricorso e ieri ha respinto la richiesta di impedirne la messa in scena al Teatro 104, dove Sul concetto del volto di Dio “traslocherà” il 2 novembre. Il lavoro mostra a un figlio che accudisce il vecchio padre, con forte realismo. Il figlio gli cambia il pannolone, ad esempio, e ci sono chiari riferimenti agli escrementi. Alle loro spalle, però, c’è il ritratto di Gesù di Antonello da Messina. “E a un certo punto – dice il regista – sul volto di Gesù cola, dall’interno, dell’inchiostro nero. Unire Cristo e la materialità della vita non è però una provocazione. È la realtà umana, anzi è la verità ultima dell’uomo. Perché non dovrei accostare il corpo a Cristo, il cui volto rappresenta la bellezza dell’umano?”. Castellucci, che ha alle spalle decine di lavori formalmente molto potenti e ha sempre osato per quanto riguarda il linguaggio (nel Giulio Cesare metteva in scena due anoressiche per incarnare o forse disincarnare l’anima tormentata di Bruto, ma è solo un esempio tra i tantissimi), questa volta è davvero a disagio. Anche perché si trova a Senigallia, dove sta provando il nuovo lavoro (Il velo nero del pastore che debutterà il 10 novembre al Teatro Vascello all’interno del RomaEuropaFestival) e fa “decine di telefonate al giorno per sapere se a Parigi tutto va bene”. Certo, l’eco sollevata in Francia è grande. Tutti i principali giornali d’oltralpe hanno scritto del boicottaggio, Le Monde ha fatto una lunga intervista al regista ed è partita una petizione in difesa della libertà d’espressione. Primi firmatari: il regista Patrice Chéreau, l’indignatissimo Stéphane Hassel, gli attori Michel Piccoli, Juliette Binoche.
CHI È A PARIGI descrive una situazione folle, ma non pericolosa per attori e tecnici. “I dimostranti – continua il tecnico-attrezzista della compagnia – hanno fatto cose pazzesche, sono saliti in scena ma non ci hanno toccato. Piuttostoselasonopresaconilpubblico. La prima sera hanno iniziato a gridare: Vergognatevi! Andrete all’Inferno! e Abbasso alla Repubblica, viva il re. Il pubblico ha reagito a sua volta, urlando frasi in difesa della libertà d’espressione. Poi sono arrivati una decina di poliziotti e questi ragazzi si sono inginocchiati e hanno iniziato a cantare l’Ave Maria. Alla fine la polizia li ha portati fuori e lo spettacolo è proseguito. Le interruzioni sono durate una settimana, ma dal 21 ottobre, la direzione del Teatro ha chiesto agli spettatori di non reagire e mantenere la calma per far lavorare le forze dell’ordine”. I fondamentalisti cristiani e gli estremisti di destra, nel delirio, si sono dimostrati molto “creativi”: hanno sprangato le porte del teatro (il pubblicoè dovuto entrare dalle porte laterali), lanciato lacrimogeni, sono saliti su un balcone dello stabile e hanno gettato olio di motore e pece sulla gente. Giovedì 27, la prima sera in cui lo spettacolo è andato in scena senza disordini, circa 300 persona hanno manifestato fuori dal teatro (dove ci sono una decina di camionette della polizia) brandendo crocifissi e rosari.
IL PARADOSSO è che, secondo la vulgata, Castellucci – che 30 anni fa ha fondato con la sorella e la moglie la Socìetas, una specie di comunità teatrale più che una compagnia – sia credente. “A questo non voglio rispondere – dice – È un fatto del tutto privato. Di certo se c’è qualche cattolico in buona fede, tra questi manifestanti, non ha visto lo spettacolo. Gesù in questo lavoro è il modello dell'uomo: il suo volto è la cosa più bella che si possa immaginare. Sul concetto di volto del figlio di Dio riflette però sulla vecchiaia, sul timore di essere abbandonati. Chi crede dovrebbe avere un rapporto meditato con la propria fine”. Il regista è sinceramente sgomento, ma da Parigi l’impressione è che il “manipolo” di dimostranti abbia solo una gran voglia di visibilità. Eppure, se la Francia, in questa occasione, rivela un lato estremista, l’Italia rivela un certo provincialismo. Quello di parlare di una delle compagnie italiane più note al mondo solo quando gli lanciano i lacrimogeni. All’estero.

Corriere della Sera 29.10.11
Dialogo tra le religioni e con gli atei. Le nuove sfide di Benedetto XVI
di Andrea Riccardi


N on è abituale che un papa torni in un luogo per commemorare un atto del predecessore. Ma l'altro ieri Benedetto XVI, con vari leader religiosi, è salito ad Assisi per ricordare la Giornata mondiale di preghiera per la pace, voluta da Giovanni Paolo II il 27 ottobre 1986. Infatti quella Giornata fu un evento storico durante la Guerra Fredda, quando convennero esponenti del patriarcato di Mosca, musulmani, il rabbino Toaff e tanti altri: si riunirono per «pregare non più gli uni contro gli altri — disse papa Wojtyla — ma gli uni accanto agli altri». Allora non si parlò molto (solo il papa prese sinteticamente la parola), ma ci fu molto silenzio. L'immagine dei leader religiosi, uno vicino all'altro con il papa tra loro, resta una delle grandi foto del secolo.
Da dove veniva l'idea? Papa Wojtyla era preoccupato per la pace al crepuscolo della Guerra Fredda. Non apprezzava che la lotta per la pace fosse prevalentemente nelle mani dell'Est e delle sinistre. Era convinto che il fondamento religioso della pace andasse ricercato nelle religioni. Tuttavia la cultura pubblica dell'Occidente le considerava fenomeni residuali. L'avanzata della modernità le avrebbe spazzate via o confinate nel privato. Il papa era invece consapevole della loro vitalità. Lottava contro il pronosticato declino del cristianesimo. Nel 1979 l'imam Khomeini era tornato in Iran, mostrando la forza dell'islam. Erano tempi di quella che Gilles Kepel avrebbe chiamato la «revanche de Dieu».
Giovanni Paolo II intuiva che le religioni, sconfinando nel fondamentalismo, avrebbero fomentato guerre e cultura del conflitto. Aveva misurato la forza delle religioni che allora la cultura occidentale sottovalutava ampiamente, presa com'era dal paradigma: più modernità, meno religione. Nell'incontro del 2011, Benedetto XVI può positivamente registrare il significativo capovolgimento di questo paradigma in venticinque anni: ora gli umanisti partecipano alla Giornata di Assisi. Non esiste più l'ateismo di Stato e la religione è una realtà con cui tutti (credenti o non credenti) fanno i conti nella vita sociale e internazionale.
Papa Wojtyla nel 1986 riprese i fili del dialogo interreligioso, iniziato dopo il Concilio (che aveva subito battute di arresto con l'islam), nella prospettiva dell'unità delle genti e della pace. Giovanni Paolo II fu creativo e poetico ad Assisi. Da qui voleva che partisse un movimento di religioni: «la pace è un cantiere aperto a tutti — disse — e non soltanto agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi». Il mondo francescano e la Comunità di Sant'Egidio si sono fatti carico di questa dimensione. C'è stata l'opposizione dei lefevriani, per cui Assisi era una svendita della verità cattolica. Ma papa Wojtyla è ritornato successivamente ad Assisi in momenti difficili: nel 1993 per la Jugoslavia, nel 2002 dopo gli attentati negli Stati Uniti. Allora mostrò di non condividere la cultura del conflitto e prese posizione contro il terrorismo globale. La sfida riguardava tutte le religioni, ma in particolare l'islam.
Benedetto XVI, nel 2006, ha parlato di Assisi 1986 come di «una puntuale profezia». Varie voci erano corse sull'opposizione all'incontro da parte del cardinal Ratzinger, che contribuirono a creare il mito del cardinale intransigente e del pontefice aperto. Nel 2002 ricordo il cardinale partecipe e soddisfatto della Giornata di preghiera. L'intento di Assisi non era «negoziare le nostre convinzioni di fede» — aveva detto Giovanni Paolo II. Ora Benedetto XVI è tornato ad Assisi, convinto dell'attualità del dialogo in un mondo globalizzato, dove la convivenza quotidiana è attraversata dalle tensioni del pluralismo religioso e etnico. La sua linea si muove tra due posizioni che appaiono attraenti: le passioni fondamentaliste e il relativismo cosmopolita. Il fondamentalismo offre il calore di una passione totale. Il relativismo è impregnato di sapore di modernità. Se tanti leader religiosi vanno con il papa ad Assisi, significa però che questo ideale si è fatto strada nei cuori e nelle culture.
Benedetto XVI, chiamando i religiosi all'impegno contro la violenza, ne ha additato un nuovo tipo che cresce tra «i grandi che fanno i loro affari, e poi tanti sedotti e rovinati sia nel corpo che nell'animo». È «l'adorazione di mammona, dell'avere e del potere» in un mondo che nega Dio. Andrea di Creta, poeta liturgico orientale, ha detto descrivendo questa condizione: «idolo a me stesso sono diventato». È la nuova violenza diffusa nelle società della globalizzazione, sotterranea ma talvolta prorompente. Con Assisi 2011 lo spirito di pace tra le religioni continua il suo cammino, mentre ci sono antiche e nuove forme di violenza con cui misurarsi. Forse c'è un mondo nuovo da capire, assai diverso da quello di venticinque anni fa.

Corriere della Sera 29.10.11
Il voto politico dei cattolici. La storia del «Non expedit»
risponde Sergio Romano


A proposito del voto dei cattolici, rispondendo a un lettore, lei ha affermato che «Pio X allentò i vincoli del "non expedit" e permise la partecipazione degli elettori cattolici alle elezioni nazionali». Forse perché i miei studi sono ormai lontani, non ricordo più di che si trattava. Vuole spiegarmelo?
Saverio Rossetti, Milano

Caro Rossetti,
«Non expedit» è una espressione latina che significa «non conviene», «non è opportuno», e si riferisce al voto dei cattolici nelle elezioni politiche italiane dopo la costituzione dello Stato unitario. Nel 1863 un battagliero teologo, Don Giuseppe Margotti, esortò i fedeli, dalle colonne dell'Unità Cattolica, a non essere «né eletti né elettori». La Chiesa dette forma a quella raccomandazione e dal 1868 in poi — come ha scritto lo storico Alfredo Canavero — «la posizione della Chiesa fu quella di ribadire il “non expedit», specialmente all'approssimarsi di scadenze elettorali». Dopo la conquista di Roma, quella esortazione fu formalmente ribadita con un decreto della Sacra Penitenzieria. Con l'aiuto della Biblioteca Ambrosiana e degli Archivi vaticani sono andato alla ricerca del testo originale, ma non l'ho trovato e non escludo che si trattasse di una istruzione proclamata a voce e trasmessa al Paese dai pulpiti delle chiese. Ma il «non expedit» ha una interessante storia successiva che è stata ricostruita da Maria Franca Mellano in un libro intitolato «Cattolici e voto politico in Italia», pubblicato dall'editore Marietti nel 1982.
I primi ripensamenti della Chiesa cominciarono nel 1876, quando il governo della Destra, presieduto da Marco Minghetti, dovette dare le dimissioni e lasciare il posto alla Sinistra di Agostino Depretis. Roma era caduta da sei anni, le prospettive della restaurazione apparivano sempre più improbabili e la nuova classe politica sarebbe stata molto più anticlericale di quella che aveva governato l'Italia negli anni precedenti. Mentre si avvicinavano le elezioni politiche e si annunciava una legge che avrebbe aumentato il numero degli elettori, Pio IX dovette chiedersi se il «non expedit» fosse ancora utile alle sorti della Chiesa in un Paese sempre più potenzialmente ostile. Come ricorda Maria Franca Mellano, il Papa dette incarico a monsignor Nina, segretario della Suprema Sacra Congregazione, di «suggerire innanzitutto agli organi della stampa cattolica di gradualmente modificare il loro linguaggio onde passo per passo abituare l'opinione pubblica all'idea che il mentovato concorso (al voto, ndr) non era in sé in nessun caso illecito e cambiandosi le circostanze poteva eziandio riuscire opportuno». Ma nei giorni seguenti accadde qualcosa (un imprecisato «incidente») che indusse Pio IX a sospendere la sua iniziativa.
Le riflessioni ricominciarono dopo la sua morte, agli inizi del pontificato di Leone XIII. Fu deciso ancora una volta di avviare una cauta discussione sulla stampa cattolica e la persona scelta per orchestrarla fu il brillante giornalista teologo Don Giacomo Margotti che quindici anni prima aveva coniato l'espressione «né eletti né elettori». Nel frattempo il predecessore del «non expedit» aveva cambiato opinione, e si buttò quindi nell'impresa con entusiasmo; troppo forse per tutti coloro che nell'ambito della Chiesa non avevano rinunciato a sperare nella dissoluzione dello Stato Italiano. Leone XIII giunse alla conclusione che i tempi non erano maturi e lasciò al suo successore, Pio X, il compito di modificare la linea della Chiesa.

Corriere della Sera 29.10.11
Divieto del Burqa all'italiana una Proposta che non Convince
di Marco Ventura


È finalmente iniziata alla Camera dei Deputati la discussione sulla proposta di legge anti-burqa. Se approvato, il testo unificato presentato dalla maggioranza includerebbe tra i mezzi atti «a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona», e pertanto vietati dalla legge sull'ordine pubblico, gli «indumenti o accessori di qualsiasi tipo, compresi quelli di origine etnica e culturale, quali il burqa ed il niqab».
Così formulata, la norma è applicabile solo a prezzo di arbìtri e forzature di dubbia costituzionalità. La legge riconoscerebbe infatti alle forze dell'ordine la più ampia discrezionalità nel valutare il caso concreto. Si tratterà un passamontagna con la stessa severità riservata a un burqa? E le sciarpe tirate sul naso renderanno «difficoltoso il riconoscimento della persona» quanto il niqab? Soprattutto, la nuova legge continuerebbe a consentire di portare il burqa a chi avesse un giustificato motivo per farlo, ad esempio la convinzione di seguire un precetto religioso.
Tanto strepito per nulla, insomma. La maggioranza annuncia un'improbabile linea dura, concentra l'ansia da Islam su un problema minore, e intanto priva polizia, giudici e cittadini di norme certe in sintonia con la costituzione e capaci di evitare abusi e ambiguità.
L'imperizia tecnica che la maggioranza ha portato in aula è figlia della demagogia. Un intervento legislativo dal solido profilo tecnico-giuridico è possibile. Ci vorrebbe però che libertà personale, culture e religioni fossero prese sul serio. Che gli apprendisti stregoni si facessero da parte. E che norme sensate ed efficaci sul burqa si inquadrassero in un progetto articolato per l'Italia multi-culturale e per l'islam. In nome di una politica religiosa forgiata sul principio di laicità, la Francia ha vietato il burqa per davvero. Il divieto transalpino ha retto al vaglio della Corte europea e i problemi applicativi sembrano per ora contenuti. Viceversa il tragicomico divieto del burqa all'italiana rischia di essere il trastullo di una maggioranza che non si vergogna di usare la religione per coprire la propria inanità.

Repubblica 29.10.11
Ospedali psichiatrici giudiziari "Chiudete le carceri della vergogna"
di Fabio Tonacci


ROMA - Edifici sporchi, celle claustrofobiche, personale medico quasi inesistente, detenuti legati a letti di metallo con un foro centrale per far cadere le feci. E ancora, bagni alla turca con bottiglie d´acqua da bere depositate nel water per mantenerle fresche ed evitare che i topi risalgano dalle fogne. Flash agghiaccianti della situazione in cui si trovano i sei ospedali psichiatrici giudiziari ancora aperti in Italia. Ad Aversa, a Napoli, a Barcellona Pozzo di Gotto, a Montelupo Fiorentino, a Reggio Emilia e a Castiglione delle Stiviere. Ospitano 1500 internati, condannati dalla giustizia ma ritenuti mentalmente infermi. Vivono in condizioni disumane, raccontate nel dettaglio in un´inchiesta uscita il 28 ottobre sul primo numero di E-il mensile, il nuovo periodico di Emergency.
Il 27 settembre il Senato ha approvato all´unanimità la relazione della Commissione parlamentare d´inchiesta sull´efficacia del servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino. Un testo che impegna il governo a chiudere definitivamente gli ospedali psichiatrici giudiziari, nati nel 1975 con la riforma penitenziaria. Già nel 2008 un decreto della Presidenza del consiglio ne aveva imposto la chiusura, ma poi niente era stato fatto. Nel luglio dello scorso anno una commissione ha ispezionato a sorpresa le sei strutture con una videocamera. Ne è nato un documentario, girato dal regista Francesco Cordio. «Un viaggio nell´Ottocento - lo ha definito Ignazio Marino - quei luoghi sono abissi dove il tempo si è fermato».
Malati e dimenticati. Un´agente penitenziaria in servizio presso l´Opg di Napoli rivela: «Per il 40 per cento degli internati la pericolosità sociale è venuta meno, sono stati dichiarati "dismissibili". Ma i magistrati di sorveglianza non sanno dove mandarli».

l’Unità 29.10.11
Il rapporto di Antigone Il caso limite di Lamezia Terme dove l’indice di affollamento è del 303%
Allarme suicidi 56 nel 2011: uno ogni mille persone. Fuori dagli istituti il rapporto è uno ogni 20mila
Le carceri scoppiano. E c’è chi paga per mangiare
Presentato ieri il rapporto sulle carceri redatto dall’associazione Antigone. «Il sistema è malato spiega il presidente dell’osservatorio Patrizio Gonnella su questo siamo tutti d’accordo, ma le ricette divergono».
di Uciana Cimino


Sarebbe stato scarcerato domani Agatino Filia, 56 anni. Invece, non è riuscito a immaginare un futuro “fuori” e si è tolto la vita impiccandosi giovedì con le lenzuola alla tromba delle scale del carcere di Livorno. È il 56 ̊ detenuto suicida nel 2011, su un totale di 154 morti in carcere. Un detenuto ogni mille. Fuori dal carcere la percentuale è di un suicidio ogni ventimila persone. Che succede fra le mura degli istituti di pena italiani? A stilare il rapporto è Antigone, l’osservatorio sulle condizioni di detenzione che dal 1999, con i propri volontari, ispeziona tutti i penitenziari italiani. Quest’ultimo rapporto non a caso l’ha intitolato “Le prigioni malate” (Dell’Asino edizioni). «Il sistema non può più reggere, il lavoro degli operatori è impossibile, siamo tutti d’accordo sul fatto che è malato, poi le ricette per la cura non coincidono», spiega Patrizio Gonnella, presidente dell’osservatorio. Quali le cause? Il sovraffollamento, innanzitutto. L’Italia è maglia nera in Europa. I detenuti presenti nei 206 penitenziari sono circa 68.500 a fronte di una capienza di 45.817. Con casi limite come quelli di Lamezia Terme (dove l’indice di affollamento è del 303%), Brescia (258%), Busto Arsizio (253%).
Il tutto mentre la pianta organica della polizia penitenziaria è sottostimata di quasi 10 mila unità. Sovraffollamento non dovuto a reati contro il patrimonio o alla mafia «ma all’impatto enorme che hanno avuto la legge Fini-Giovanardi sulle droghe e la Bossi-Fini sull’immigrazione» continua Gonnella.
UNA VERA EMERGENZA
Centinaia sono i ricorsi presentati alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo contro le condizioni inumane di detenzione. Storie che raccontano anche di celle di 4x2 destinate a due persone, in cui entra la pioggia, non c’è acqua calda e gli spazi sono talmente risicati che se un detenuto è in piedi, l’altro deve stare sul letto. Il rapporto non tace casi di violenze, torture e morti sospette. Come il caso di Asti (dove Antigone si è costituita parte civile) in cui i pm hanno ricostruito che i detenuti venivano sottoposti a un «tormentoso e vessatorio regime», o quello della violenza subita da un internato transessuale ad Aversa, o i due agenti di San Vittore accusati di violenza sessuale aggravata e i molti abusi sui detenuti extracomunitari. Da nord a sud lo scenario non cambia: a Bergamo un detenuto è stato ucciso dalla malasanità, troppi ritardi nelle visite. A Lecce è allarme Tbc, scabbia e varicella. A Siracusa un detenuto non può fare la dialisi perché manca il carburante per portarlo in ospedale. A Mantova i detenuti sono alloggiati persino nella sala colloqui e non possono fare sport o attività culturali causa mancanza di personale. Il ministero, poi, paga meno di 4 euro al giorno i tre pasti giornalieri e a queste cifre non c’è guadagno per le ditte appaltatrici. Infatti è permesso e anzi agevolato il sopravvitto che i detenuti acquistano di tasca propria all’interno delle carceri. Questo ha creato «un’oligarchia dei fornitori in cui spadroneggiano solo due ditte». Il governo ha varato il Piano Carceri, presentato nel 2010 dal Commissario Straordinario all’edilizia penitenziaria Franco Ionta, che prevede 11 nuovi istituti e 20 nuovi padiglioni per un costo di 661 milioni da realizzarsi entro il 2012. Solo in questi giorni sono usciti i primi tre bandi e gli unici lavori iniziati sono quelli per l’allargamento del carcere di Piacenza. Ma Antigone obietta: «di quella cifra 100 milioni saranno presi dalla Cassa delle ammende, riservata al reinserimento dei detenuti, inoltre in Italia esistono 40 carceri fantasma, costruiti, arredati e abbandonati; perché non mandarli a pieno regime e risparmiare?».

Corriere della Sera 29.10.11
Le Maserati dei generali
di Gian Antonio Stella


Una sola delle 19 Maserati Quattroporte comprate dal ministero della Difesa costa nella versione base 22.361 euro più dell'intero stanziamento 2011 dato all'Accademia della Crusca, che dal 1583 difende la nostra lingua. Una volta blindate, quattro auto così valgono quanto la dotazione annuale della «Dante Alighieri» che tenta di arginare il declino della nostra immagine nel mondo tenendo in vita 423 comitati sparsi per il pianeta e frequentati da 220mila studenti che seguono ogni giorno 3.300 corsi di italiano.
Basterebbero questi numeri a far capire a una classe dirigente seria, capace di «ascoltare» i cittadini, come l'acquisto di quella flottiglia di auto blu di lusso non possa esser liquidato facendo spallucce. Ci sono gesti che pesano. Soprattutto in momenti come questi. Dicono: la notizia è uscita ora ma il contratto è del 2009-2010. Cioè prima che Tremonti disponesse che «la cilindrata delle auto di servizio non può superare i 1600 cc. Fanno eccezione le auto in dotazione al capo dello Stato, ai presidenti del Senato e della Camera, del presidente del Consiglio dei ministri…».
Sarà… Ma la crisi era già esplosa, il Pil procapite degli italiani era già affondato, il debito pubblico era già schizzato verso il record e l'Ansa aveva già diramato notizie così: «Fotografia del crollo dei mercati nel 2008: Piazza Affari vale la metà rispetto a un anno fa e appena un quarto (23,4%) del Pil, quando ancora a fine 2007 era al 47,8%...». Insomma: eravamo già immersi in quello che Napolitano definisce «un angoscioso presente».
Solo che un pezzo della classe politica, la quale magari ritiene «sostenibili» il prelievo di solidarietà sulle buste paga degli statali, il sequestro per due anni delle liquidazioni, i contrattini-capestro che asfissiano milioni di giovani, trova invece «insostenibile» non solo abbassarsi ad andare in ufficio in autobus, come fanno molti loro colleghi stranieri, ma anche avere «ammiraglie» meno lussuose. La foto ai funerali dei due alpini morti ad Herat nel maggio 2010 diceva tutto: il cronista dell'Espresso contò 259 auto blu.
Dice l'ultimo rapporto governativo che in Italia queste auto più o meno blu sarebbero 72mila e secondo il Giornale costerebbero un tale sproposito da far dire a Brunetta: «Possiamo risparmiare un miliardo di euro in un triennio». Auguri. Certo è che quella fastidiosa notizia sulle 19 berline de-luxe comprate alla Difesa, dove in teoria solo 14 persone avrebbero diritto all'autista ma nel «parco» ci sono cento auto blu e 700 «grigie», è stata vissuta da milioni di cittadini come un cazzotto in faccia. Per non dire di come l'hanno vissuta i carabinieri che battono gli sfasciacarrozze in cerca di ricambi per le vecchie auto scassate. O i poliziotti che a Milano o Cagliari fanno collette per comprare la benzina.
Il Sap, il sindacato degli agenti, accusa: «A Roma circolano ogni giorno 400 auto blu contro 50 macchine della polizia e dei carabinieri addetti alla sicurezza dei cittadini. In pratica per ogni volante o gazzella ci sono otto auto dedicate alla protezione di politici, magistrati…». L'80%, dicono, «potrebbe essere tagliato». Probabile. Tre anni fa Recep Erdogan fu sbattuto in prima pagina sul giornale Hurriyet perché un fotografo l'aveva beccato in campagna elettorale con l'auto di Stato. Scandalo. Non si fa così, in Turchia.

il Fatto 29.10.11
PDCI Il congresso: “Con il Pd per vincere”
Tornano i comunisti, con Cuba e il Vietnam
di Sandra Amurri


ARimini, dove 20 anni fa il Pci si scioglieva dando vita a Rifondazione, si può dire che sia nata la Terza Internazionale e mezzo. Il Partito comunista italiano ha le facce dei compagni di Cuba, Argentina, Brasile, Sudafrica, Corea, Cina, Vietnam, per un totale di 45 delegazioni estere. Occhi a mandorla, visi colorati, mani che credono fortemente in un mondo migliore e celebrano il fallimento del capitalismo. Una nota dolente: le donne. Ancora troppo poche per poter titolare “fine del maschilismo”, malattia che non risparmia la sinistra. Lo sconforto si attenua guardando Milagros Carina Soto Aguero, ambasciatrice di Cuba a Roma, seduta dietro alla delegata del Partito comunista argentino che ha appoggiato la presidente Cristina Kirchner. Carina è una donna forte e semplice: “È bueno che le donne comuniste nel mondo siano in crescita”.
Colpisce un ricambio generazionale, le nuove leve hanno meno di 40 anni e i nuovi iscritti sono studenti, precari della scuola, metalmeccanici. Le note dell’Internazionale che risuonano dopo quelle dell’inno di Mameli, emozionano anche Saleh Ra’Afat, inviato dal presidente palestinese Abu Mazen. L’obiettivo in questo congresso, scandisce a chiare lettere Diliberto, è “ricostruire il Partito comunista italiano”. E le lancette dell’orologio tornano a quella svolta che ha sancito la fine del più grande partito comunista dell’Occidente. “Di errori ne abbiamo fatti tanti, come negarlo, ma siamo pronti a ricominciare” dice Anna, la gioventù stampata sul viso che non conosce l’offesa delle rughe. “Guardando tutti questi comunisti ho pensato che se Berlusconi fosse qui avrebbe un attacco epilettico” esclama ridendo. “A sinistra regna grande frammentazione che genera debolezza”, insiste dal palco Diliberto e il pensiero va a Nichi Vendola con il quale, spiega, “ci legano le stesse sensibilità sulla guerra, sulla difesa dell’ambiente contro il nucleare, sul bisogno di ridare corpo al movimento dei lavoratori. Dobbiamo contribuire a cacciare i mercanti dal tempio, a difendere la Costituzione, a ristabilire l’uguaglianza di fronte alla legge, a combattere la cancerosa corruzione”. “Abbiamo il dovere dell’unità a sinistra – ripete Diliberto – contro Berlusconi e contro il berlusconismo, ce lo chiede il popolo democratico, l’Italia perbene. I lavoratori, se stiamo fuori dal Parlamento, ci percepiscono come ininfluenti. Dobbiamo sconfiggere ogni forma di estremismo velleitario. L’alleanza elettorale è necessaria, ma non sufficiente. Negozieremo alla luce del sole su accordi programmatici chiari ai cittadini e fattibili, come la lotta all’evasione fiscale e alla precarietà, il ruolo del pubblico nell’economia, la difesa dello stato sociale”. Seguono parole chiare come primarie. “Vi parteciperemo anche noi”. Di governi tecnici o di larghe intese neppure a parlarne, la parola d’ordine è: elezioni a marzo. Ce n’è anche per la casta, quella dei “ricchi e dei potenti. L’assemblea dei giovani di Confindustria fa sì che quelli siano i figli dei vecchi di Confindustria”. E in sala si odono parole comuniste come “proprietà collettiva”: così si chiamano i “beni comuni come l’acqua, l’ambiente”, spiega. In verità la platea gremita dopo 3 anni di assenza dal Parlamento è un miracolo a cui Diliberto aggiunge la “cancellazione dai media e la fine delle risorse economiche, la perdita della vecchia sede del partito e la cassa integrazione per tutto il, seppur piccolo, apparato centrale” che definisce la “nostra odierna dignitosa povertà”. E i media non ci sono neppure oggi a raccogliere la consapevolezza degli errori, a raccontare questo piccolo grande spicchio di comunismo nel mondo e il richiamo di Diliberto alla risposta che Enrico Berlinguer diede a Minoli nell’84: “Quali sono le cose di cui va orgoglioso?”. “Sono orgoglioso di essere ancora fedele agli ideali della mia gioventù”.

l’Unità 29.10.11
La Cina è già qui ma l’Europa abbia una voce sola
di Ugo Papi


Negli ultimi tempi si parla sempre più spesso dell’interesse cinese nel sostenere la disastrata economia europea. Sono sempre più insistenti le voci di un piano di salvataggio del gigante asiatico pronto ad intervenire massicciamente nel vecchio continente. Al centro dell’interesse cinese vi sono possibili investimenti nell’economia reale con l’acquisizione di aziende in crisi e l’acquisizione di titoli di Stato. È una questione che rimarrà all’ordine del giorno per l’immediato futuro e negli anni a venire. È infatti evidente che le trasformazioni epocali degli ultimi anni hanno proiettato sulla scena economica internazionale nuovi attori. Il primo di questi è la Cina, con i suoi tassi di crescita impetuosi e soprattutto riserve per oltre 3200 miliardi di dollari. Gli interventi di Pechino si stanno intensificando da tempo. La Cina continua a comprare buoni del Tesoro anche dei paesi meno virtuosi come l’Italia, la Spagna e persino la Grecia, che non possono che salutare positivamente l’aiuto che arriva da oriente. Già oggi un terzo delle riserve cinesi sarebbero in euro, pur nella difficoltà di un calcolo preciso, visto che la Cina considerano questa materia un serio segreto di stato.
La maggioranza dei titoli restando una rigorosa logica di mercato che privilegia sempre gli investimenti più sicuri. Si fa inoltre sempre più insistente la possibilità che l’Impero di mezzo entri con propri capitali in imprese finora controllate dai singoli paesi europei. Per fare solo un esempio italiano, nei giorni scorsi si è parlato di un interessamento della potenza asiatica peri Eni, Enel, persino Finmeccanica. L’interesse cinese nel sostenere l’Europa è evidente: l’Ue è il primo partner commerciale di Pechino. Il volume di scambi commerciali tra l’Europa e la Cina sono più forti di quelli con gli Stati Uniti. Il surplus del paese asiatico rispetto alla Ue è imponente. Lo scorso anno ha toccato la vetta di circa 170 miliardi di euro. Sostenere l’Euro per Pechino significa salvare le proprie esportazioni, tanto più vantaggiose per i consumatori europei, tanto più la moneta europea si mantiene forte. La crisi delle economie occidentali sta già colpendo la Cina. Di fronte ad essa le autorità cinesi hanno reagito predisponendo un rivoluzionario piano quinquennale che prevede una riconversione dell’intera economia dal settore delle esportazioni a quello dell’aumento dei consumi interni, per dipendere meno dall’andamento dell’economia internazionale. Ma per raggiungere l’obiettivo, la Cina ha bisogno di tempo. Intanto la leadership cinese, in questo periodo deve risolvere due problemi.
Tenere sotto controllo il costo della vita, che continua a salire in tutta la nazione alimentando l’inflazione, e allo stesso tempo varare politiche adeguate per non fare calare la crescita economica e l’export, messi a dura prova dalla crisi dell’euro e da un’economia statunitense che non riesce a ripartire in nessun modo. Per il loro sostegno alla zona euro i cinesi chiedono però esplicitamente delle contropartite politiche.Il Premier Wen Jabao ha chiesto chiaramente che l’Europa riconosca alla Cina lo status di economia di mercato. Se questo avverrà, sarà difficile aprire delle procedure anti dumping, con tutte le conseguenze negative che tale scelta comporterebbe per i produttori europei che protestano da tempo per l’invasione di prodotti sottocosto made in China. La scelta dell’Europa, in questo caso, è di natura economica ma anche politica. Fu infatti politica la decisione di riconoscere lo status di economia di mercato alla Russia nel 2002, pur in mancanza di effettive garanzie economiche.
Il vecchio continente si trova di fronte ad una decisione importante che può essere presa con serietà e rigore valutando i pro e i contro di una più massiccia presenza della nazione asiatica nell’economia e nella finanza dei nostri paesi. Ma la scelta avrà un senso se la UE saprà unita aprire un tavolo di discussione con i cinesi sul ruolo e le finalità del loro intervento per salvare l’euro e acquisire aziende strategiche. Se prevarrà l’interesse nazionale e la paura irrazionale a perdere sarà l’intero continente.

il Fatto 29.10.11
La Cina scopre i suoi lavoratori indignados
di Simone Pieranni


Pechino. Esistono anche gli indignados cinesi, ma per coglierne le consuete caratteristiche è necessario spogliarsi dei vestiti occidentali e abbracciare la complessità della Cina. Gli indignati cinesi scavalcano il concetto classista e vedono uniti per la prima volta piccoli imprenditori e i loro lavoratori contro le autorità, pur mantenendo come obiettivo naturale il capitalismo finanziario, di cui sono caduti vittime. Senza piattaforme condivise e percorsi prestabiliti alcuni giorni fa, nei pressi della città di Huzhou, nel Zhejiang, migliaia di “padroncini” - la spina dorsale dell'economia cinese – e i loro lavoratori sono scesi per strada dando fuoco ad auto, sfasciando vetrine di palazzi governativi, sputando la propria rabbia contro le autorità.
Il motivo apparente è stato un tentativo di innalzare alcune imposte sulle piccole imprese, uno sgarbo considerato fuori luogo da chi ha prodotto per il mondo – da questa zona arrivano tutti i capi di abbigliamento per l'infanzia che riempiono i negozi nostrani – e ora si trova ad affrontare una crisi senza precedenti.
NEL ZHEJIANG da mesi si assiste alla fuga e alla chiusura di molte aziende: le banche nel tentativo di congelare l'inflazione hanno chiuso i rubinetti del credito, togliendo la possibilità alle piccole e medie imprese di accedere a prestiti, tagliando sul nascere il loro tentativo di crescere e di innovare per tornare ad essere competitivi vista la recente difficoltà delle esportazioni cinesi: secondo Hsbc Holdings Plc l'attività manifatturiera ha mostrato una contrazione a settembre, corrisposta proprio con la stretta del credito.
Si è sviluppato così un meccanismo, chiamato delle “banche ombra”, con prestiti che sono arrivati a interessi anche del 180%. Chi non ha chiuso, è scappato, creando una situazione d’emergenza che ha visto l'intervento anche del premier cinese. Proprio l'arrivo di Wen Jiabao giorni fa, aveva fatto pensare a manovre immediate: nella consueta attenzione ai riti, di cui il Partito Comunista è ancora oggi grande cerimoniere, si era pensato che la visita di nonno Wen avesse sancito la risoluzione del problema. Invece mercoledì, una passeggiata per ritirare le spese tributarie effettuata da alcuni solerti funzionari statali presso un'azienda che produce vestiti, ha causato la reazione del piccolo imprenditore. “Non pago”, deve aver risposto, causando una reazione a catena che secondo i testimoni, che hanno postato foto e impressioni sul twitter locale, Weibo, è sfociata in una manifestazione violenta di migliaia di persone. È intervenuta la polizia e da ieri la città di Huzhou è sotto controllo, con negozi chiusi e poca gente per strada. Un'indignazione interclassista, che scuote la tranquillità apparente di chi dovrebbe salvare l'Europa.

Repubblica 29.10.11
Pechino compra la Svezia, cinesi anche le Saab
Accordo da 100 milioni salva la casa auto. Seconda acquisizione dopo la Volvo
L’azienda era finita in mani olandesi, ma era ormai a un passo dal tracollo
di Andrea Tarquini


BERLINO - La lunga marcia dell´industria e degli investitori cinesi nel mondo libero prosegue a passo sempre più spedito, e soprattutto con obiettivi e priorità strategiche sempre più chiare: acquisire eccellenze, know how tecnologico, teste di ponte su segmenti di mercato qualificati. Saab automobile, l´antica, gloriosa azienda svedese da tempo sull´orlo della bancarotta, è stata rilevata da parte del gruppo Youngman&Pan per 100 milioni di euro. La Repubblica popolare ormai controlla tutta l´industria automobilistica svedese. Un´industria, ricordiamolo, da anni a rischio di tramonto ma che con appunto Saab e con Volvo - già rilevata dai cinesi di Geely - vanta comunque marchi di qualità. Una produzione di sportive e limousine di lusso e gran qualità, a livello quasi premium, modelli che vanno per la maggiore nel vitale mercato nordamericano.
L´accordo ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai restanti 3.700 dipendenti di Saab auto, il cui posto di lavoro è in massima parte a Trolhaettan, nella Svezia meridionale, e in piccola parte nel Regno Unito. L´accordo sarà valido se tutte le procedure fallimentari già definite per Saab saranno rispettate e se verrà approvato da ogni autorità competente. Il crollo di Saab era cominciato nel 2010, quando General Motors, il gigante americano allora in crisi, l´aveva ceduta al gruppo olandese Spyker, poi ribattezato Swan, per concentrarsi sul risanamento a Detroit e sulla sorte di Opel. Ma finora Swan non era riuscita a rilanciare Saab, la cui fine sembrava imminente. Ora sono arrivati i cinesi. Comprano per 100 milioni di euro, ma si impegnano a investire per 480-500 milioni per rilanciare il marchio, e a non delocalizzare. «Abbiamo tirato un bel sospiro di sollievo», ha detto il numero uno di Swan, Victor Muller. Di fronte alle varie difficoltà burocratiche infatti l´interesse della Repubblica popolare a Saab sembrava svanito.
La storia delle auto del regno delle Tre Corone finisce così. Prima la Volvo, simbolo della berlina di lusso supersicura e indistruttibile e auto-mito fin dai primi anni Sessanta per finire alla serie di film Twilight (il giovane vampiro innamorato d´una mortale). Poi la Saab, che dalla mitica ‘Saab 96´ agli ultimi cabrio, nelle pellicole di Hollywood ha visto al volante Jack Nicholson e altri divi, sono caduti in mano alla superpotenza dell´estremo oriente.
Non siamo più alla sola rincorsa dell´Occidente nel mercato delle utilitarie e della produzione di massa. A Pechino evidentemente non basta più neanche copiare (spesso ancora male) grandi berline e Suv made in Germany, anche perché poi per plagio questi prodotti si vedono spesso chiusi i mercati decisivi. Adesso col cavallo di troia svedese cambiano le carte in tavola, e le regole del gioco. Proprio mentre sul piano generale della crisi economica, finanziaria e del debito internazionale la Cina pone chiare condizioni per aiutare Europa e Usa. La vecchia Urss di Kruscev la chiamava competizione pacifica tra i sistemi, ma non aveva i mezzi per condurla. A Pechino invece non mancano né volontà, né strategia di lungo respiro, né miliardi. I produttori europei e Usa, anche di lusso, sono avvertiti.

il Riformista 29.10.11
L’Eurozona chiede aiuto alla Cina per non affondare
Dragone. All’indomani del summit Ue, il dg dell’Esfs è volato a Pechino. Al centro dei colloqui con le autorità della Repubblica popolare, l’investimento del gigante asiatico nelle obbligazioni sul debito comunitario
di Nello Del Gatto

qui

Corriere della Sera 29.10.11
In tv il reality choc sull’ultimo giorno dei condannati a morte
In Cina lo seguono 40 milioni di persone
di Valerio Cappelli


ROMA — «Voglio solo vederti prima dell'esecuzione». Il dialogo tra padre e figlia si svolge attraverso il vetro divisorio. Parlano al citofono. Lei piange disperata, il padre è incatenato ai polsi e ai piedi e indossa il camice arancione dei condannati a morte. «Questo episodio l'ho visto e rivisto e ogni volta l'addio del padre alla figlia mi tocca nel profondo del cuore», dice Ding Yu. E poi, rivolta alla telecamera «Mezz'ora dopo, lei avrebbe avuto solo le ceneri di suo padre».
In Cina Ding Yu è una popolare giornalista televisiva, incarna la quintessenza della tv del dolore, una sorta di Maria De Filippi o Barbara d'Urso di Pechino. Da quattro anni conduce un programma che si intitola «Interviste prima delle esecuzioni». Il documentario ne ripropone una sintesi; si intitola Dead Men Talking e fa il verso al film con Sean Penn e Susan Sarandon. L'ha realizzato il regista australiano Robin Newell.
È un filmato che toglie il fiato, «è a metà strada tra il talk show e il reality — dice Mario Sesti che il 2 novembre lo ospita nella sezione Extra —, è la prima volta che immagini del genere si vedono in Occidente, abbiamo lavorato a lungo per riuscire ad averle. È una specie di diagramma della Cina attuale, dove da una parte permangono residui di pratiche medievali, dall'altra si assiste a un processo di mediatizzazione che trasforma tutto questo in un talk show simile a quelli delle società occidentali».
Il programma in Cina è seguito da 40 milioni di spettatori ed è uno dei tre più visti su una rete di 50 canali. Viene trasmesso in luoghi pubblici, nei bar ma anche nelle prigioni distrettuali. Il produttore ne rivendica il ruolo pedagogico, dice che «è una grande idea, sia commerciale che dal punto di vista della responsabilità sociale. Vogliamo che lo spettatore sia avvisato, in modo tale da evitare tante altre tragedie».
Nulla viene risparmiato, pianti, urla, l'ultimo incontro dei condannati con i parenti nel cortile della prigione prima che vengano caricati su camion militari scoperti che attraversano la città in fila indiana. I prigionieri restano in piedi, hanno un cartello sulla schiena che indica il crimine per cui saranno giustiziati, un monito per i cittadini che osservano la scena in silenzio, ai lati della strada.
Ding Yu prima di raggiungere il carcere, dove si svolgono le interviste, si imbelletta in automobile, poi si fa ritrarre nel weekend a casa mentre prepara le cene in famiglia, dispiaciuta perché la figlia non apprezza i suoi «spring rolls». Nelle interviste recita, si mette in posa, ha un tono compassionevole; ai condannati (è necessario il loro consenso per le interviste), che appaiono storditi o attoniti, chiede: «Ti rendi conto di quello che hai fatto? Non sei mica una bestia». Si fa raccontare i dettagli del delitto: «Quindi hai infilato il coltello dalla schiena?». Ancora: «Non vedo sufficienti ragioni per bruciare vivo tuo marito». Le condannate vengono fatte cantare in coro in prigione: «Dobbiamo essere di buon esempio, ripensare ai nostri errori...».
Ding Yu si vede come «una testimone che entra nelle loro menti prima che arrivi la morte. Non posso dimenticare certi momenti, non posso fare niente. Penso alle persone uccise per colpa loro. E mi fa sentire meglio».
Il 90 per cento dei crimini di cui si occupa riguardano tradimenti e rapine in cui c'è scappato il morto. Zhang Peng, 26 anni, voleva uccidere la nonna della sua ragazza nel sonno, facendo sciogliere del sonnifero nel té. Qualcosa non ha funzionato e ha ucciso sia lei che suo marito. «L'avevi escogitato bene il piano, eh, hai mai pensato a loro?», domanda la telegiornalista. Prima di piangere anche lei, rivolta alla telecamera: «Così giovani, non potranno più vedere il mondo, divertirsi, avere una famiglia».
La scena più straziante è quella del confronto tra i parenti delle vittime con i parenti dei condannati. In alcuni casi se c'è il perdono della famiglia la pena capitale viene commutata in ergastolo. I genitori del condannato si inginocchiano davanti al giudice invocando la clemenza della corte.
In Cina, ricorda la voce narrante, esistono 55 crimini, dal contrabbando all'omicidio, puniti con la pena di morte. Può avvenire in due modi: fucilazione o iniezione letale. I giustiziati sono oltre 3500 all'anno. Uno dei giudici interpellati dice che non sono ancora pronti per rinunciarvi. Le guardie armate prima di sparare si galvanizzano: «Siete pronti?», grida l'ufficiale.
All'epoca del documentario, Ding Yu aveva realizzato 208 puntate: «Io i condannati a morte li tratto come persone comuni. Con me sono calmi, si sentono sollevati, è come se avessero lasciato l'anima da qualche parte».

Corriere della Sera 29.10.11
Quell’abisso fra ricchi e poveri che scatena le crisi globali
La diseguaglianza crescente non è solo una questione etica
di Massimo Mucchetti


Ma che mondo è questo nostro nel quale la concentrazione della ricchezza è tale per cui i bonus della Goldman Sachs, anno domini 2009, sono pari al reddito di 224 milioni delle persone più povere del pianeta? Globalizzare produzione e commerci, attorno al dogma della libera circolazione dei capitali, e deregolare le società occidentali, in nome del massimo lucro di manager e azionisti, ha prodotto il sonno del diritto. E come il sonno della ragione di Goya, anche questo genera un mostro: l'eccesso di disuguaglianza.
La cosa non turba il governo né la Bce: basta leggere il loro scambio epistolare, che promette crescita senza un cenno all'equità. E basta guardare l'asta dei Btp, chiusa sopra il 6%, per capire come tanto realismo economicistico rischi di non convincere nemmeno i mercati per i quali è pensato. Come negli anni Trenta, ci vorrebbero pensieri irregolari. Come quelli emersi tra ieri e giovedì, alla Fondazione Cariplo di Milano nel corso della XXIV conferenza internazionale dell'Osservatorio Giordano Dell'Amore, curata dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e dedicata alle disparità economiche e sociali. Un seminario di alto livello al quale — e non è un buon segno — non ha partecipato la Milano dell'economia e dell'accademia, nonostante l'appello di Guido Calabresi e Guido Rossi.
Si usa dire che la globalizzazione ha tolto dalla povertà assoluta alcuni miliardi di persone, la Cina, l'India. Tutto vero. Ma la globalizzazione ha anche fatto saltare i vecchi equilibri. Branko Milanovic, economista tra le università di Belgrado e del Maryland, ne offre l'incendiaria misura nel grafico che pubblichiamo in questa pagina: l'1% più ricco della popolazione mondiale, circa 70 milioni di persone, guadagna quanto gli ultimi 4.275 milioni. A parità di potere d'acquisto, al 10% più ricco va il 55% dei consumi mondiali. Non è un dato naturale né meritocratico, ma un portato di (in)civiltà, ove si consideri che in Germania, dove vige l'economia sociale di mercato e i sindacati siedono nei consigli di sorveglianza delle imprese dai 2 mila dipendenti in su, il 10% più ricco si aggiudica il 25% dei consumi.
Milanovic corregge Marx: nel secolo XIX il conflitto sociale avveniva dentro Paesi relativamente simili; oggi tra aree del mondo. Di un mondo che tecnologia e finanza hanno interconnesso nella convinzione di poterlo dominare, ma che ora cerca di allentare le tensioni attraverso la migrazione dei popoli. Se i nuovi proletari sono i migranti, bastano le leggi Bossi-Fini o i ranger alla frontiera messicana del Texas a tenere assieme le società? Nell'epoca in cui i tre quarti delle disuguaglianze globali dipendono dalle differenze tra Paesi, la prima forma di rendita diventa la cittadinanza d'origine. E questo sul piano sociale spiazza la politica della concorrenza dentro i Paesi del Primo Mondo e tra questi e il resto del pianeta.
La questione della disuguaglianza non è soltanto etica. L'eccesso di disuguaglianza è, al tempo stesso, figlio e padre della follia finanziaria dell'Occidente. La Grande Depressione del 1929 e la Grande Recessione del 2007, osservano Michael Kumhof e Romain Rancière, due economisti del Fondo monetario internazionale, sono state entrambe precedute da una forte e prolungata impennata della disuguaglianza nei redditi e nella ricchezza e, al tempo stesso, da un analogo rigonfiamento dei debiti del ceti medi e bassi. In entrambi i casi, i ricchi hanno usato le risorse eccedenti i loro pur opulenti consumi per finanziare, tramite il sistema bancario, i poveri nei loro acquisti. E i ricchi si sono pure offerti a modello dei consumi di massa, come Luigi XIV lo era per la nobiltà francese del Seicento. Robert Frank, della Cornell University, cita a esempio la superficie media delle nuove case americane che sale dai 1600 piedi quadrati del 1980 ai 2100 del 2001, mentre le paghe ristagnano. Ma se i poveri indebitati non riescono ad avere i redditi aggiuntivi necessari a rimborsare il debito, conclude Lars Osberg, della Dalhouise University di Halifax, il sistema bancario e finanziario si troverà pieno di attività inesigibili. E per salvarlo dovrà intervenire lo Stato, aumentando il debito pubblico.
Vi è dunque, negli Usa, una chiara catena causale tra disuguaglianza, debito, bolle finanziarie e debito pubblico. E l' Italia? Ne ha parlato a lungo Andrea Brandolini, economista della Banca d'Italia. E tra le tante osservazioni ne ha fatta una controcorrente. Da citare in conclusione.
L'indice Gini (che va da 0 nell'ipotesi che tutto sia equamente diviso tra tutti a 1 nell'ipotesi che tutto sia in mano a una sola persona) è sceso da 0,408 del '68 a 0,297 del 1982 per poi rimbalzare nei primi anni Novanta e volare a 0,351 nel 2004 salvo ridiscendere un po' adesso, causa le perdite finanziarie delle classi più alte. Ebbene, in questo quarantennio, il periodo di maggior crescita (oltre il 3% annuo) sono gli anni Settanta che si concludono con il debito pubblico non oltre il 51% del Pil. Questo non basta certo a rendere formidabili quegli anni come vorrebbe Mario Capanna, ma forse non erano nemmeno il male assoluto come molti oggi dicono. Erano anch'essi un passaggio — doloroso e terribile, causa il terrorismo, infine domato dalla politica — così come un passaggio sono gli anni Dieci di questo secolo. Un passaggio ancora irrisolto, causa l'ignavia delle classi dirigenti.
mmucchetti@rcs.it

Corriere della Sera 29.10.11
Il saggio Aristotele beffato dalla bella Phyllis
Quando l'amore si vendica della filosofia
di Eva Cantarella


Una leggenda che fece la sua comparsa nel XIII secolo in un sermone di Jacques de Vitry racconta che, un giorno, la moglie di Alessandro Magno decise di vendicarsi del precettore del marito (come ben noto, nientedimeno che Aristotele), che aveva rimproverato all'allievo di trascurare per lei gli affari di Stato. Decisa a vendicarsi, dopo aver fatto innamorare Aristotele la donna gli promise di concedergli i suoi favori a condizione che, prima, le consentisse di cavalcare la sua schiena. Aristotele acconsentì, la moglie di Alessandro avvisò il marito di quel che sarebbe di lì a poco accaduto e questi, non visto, ebbe modo di assistere all'umiliazione del suo maestro. Diventata celebre, la storia subì variazioni: secondo Henri d'Andeli, che di lì a poco la riprese, Alessandro sarebbe stato testimone, per caso, della scena del maestro cavalcato dalla sua amante Phyllis. E purtroppo per lo sfortunato filosofo l'aneddoto diventò un tema iconografico popolarissimo. Ironia del destino: per secoli il povero Aristotele venne raffigurato cavalcato da uno degli esseri dei quali si era impegnato con tanta convinzione (e purtroppo con tanta fortuna) a dimostrare l'inferiorità; uno di quegli esseri che, in ragione della loro appartenenza sessuale, secondo lui non possedevano il logos, la grande ragione, di cui solo gli uomini erano detentori. Come l'impietosa iconografia suggerisce, peraltro, in alcune circostanze perdendone totalmente il controllo.

La Stampa TuttoLibri 29.10.11
Roger Penrose
Sono infiniti i Big Bang che hanno fatto il mondo
"Il cosmo rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice, evocando l’«eterno ritorno» di Nietzsche"
di Piero Bianucci


Penrose Il teorico americano della Cosmologia Ciclica Conforme: non esiste un Inizio, l’Universo è una serie di inizi ricorrenti
«Angeli e demoni» dell’olandese Maurits Cornelis Escher

Roger Penrose DAL BIG BANG ALL'ETERNITÀ trad. D. Didero Rizzoli, pp. 357, 22
Roger Penrose LA STRADA CHE PORTA ALLA REALTA’ Trad. E. Diana BUR, pp. 1206, 14,90

L’universo di Roger Penrose rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice della mitologia, evoca l’« eterno ritorno» di cui parla da Nietzsche ne La gaia scienza . Non c’è un Big Bang. Ci sono innumerevoli Big Bang che si succedono senza fine. Penrose, ottant’anni, professore emerito all’Università di Oxford, indica questa teoria con la sigla CCC, che sta per Cosmologia Ciclica Conforme, e la descrive nel suo ultimo libro Dal Big Bang all’eternità . Non è semplice divulgazione. Dalle pagine irte di formule e ostici disegni Penrose offre al grande pubblico, ma anche ai suoi colleghi, una visione cosmologica alternativa.
Il Big Bang classico ha un difetto estetico. Assegna all’universo un inizio: è una radicale asimmetria. Ne deriva un difetto logico: se c’è un inizio, che cosa c’era prima? Inoltre l’inizio ha un prezzo: nell’istante della nascita l’universo doveva essere infinitamente piccolo, infinitamente denso e infinitamente caldo. E’ ciò che i fisici chiamano «singolarità», un modo elegante per battezzare qualcosa che non si sa come inserire nelle conoscenze attuali.
Gli infiniti del Big Bang sono un prezzo che molti scienziati non sono disposti a pagare. Le cose andrebbero a posto se l’universo fosse sempre esistito ed eterno. Ci avevano pensato Bondi, Gold e Hoyle negli Anni 40 del secolo scorso. La chiamarono «teoria dello stato stazionario» perché l’universo, in questo caso, a grande scala appare sempre uguale a se stesso. Neppure questo è gratis: poiché l’universo si espande e tutte le galassie si allontanano l’una dall’altra, per mantenerne la stabilità bisognava supporre la creazione continua di materia dal nulla. Ma il prezzo era accettabile: basta la creazione di un atomo di idrogeno per metro cubo ogni miliardo di anni, una quantità non misurabile, che la meccanica dei quanti potrebbe giustificare.
La scoperta nel 1965 della radiazione cosmica «fossile», il calore residuo del Big Bang, liquidò l’idea dello «stato stazionario»: le due cose erano incompatibili, e la radiazione fossile era una realtà sperimentale, non una teoria, per quanto attraente. L’ambiente di Cambridge che aveva fatto da culla allo stato stazionario era tuttavia così creativo e intelligente da resistere anche all’evidenza delle osservazioni astronomiche. Penrose e il celeberrimo Hawking (è appena uscita una sua precisa e leggibilissima biografia scritta da Kitty Ferguson) vengono dalla scuola di Hoyle e del suo allievo Sciama. Non c’è da stupirsi se ne mantengono l’impronta. La Cosmologia Ciclica Conforme cerca di mettere d’accordo i dati osservativi che danno ragione al Big Bang con lo «stato stazionario»: non esiste un Inizio, l’Universo è una serie di inizi ricorrenti, e a questa conclusione si arriva reinterpretando la Seconda legge della termodinamica, quella secondo cui l’entropia, il disordine, non può che aumentare.
Siamo immersi nell’attualità. Penrose ha inventato una tassellatura periodica che è il modello dei «quasi cristalli» per la cui scoperta tre settimane fa è stato assegnato a il Nobel della chimica a Daniel Schectman, mentre il Nobel per la fisica è andato agli scopritori dell’accelerazione dell’Universo (Perelman, Riess e Schmidt), fenomeno che Penrose concilia con la sua teoria. Le prove della Cosmologia Ciclica Conforme, infine, Penrose le vede nella mappa della radiazione cosmica fossile disegnata dal satellite americano W-Map e ne attende la conferma dal più recente e accurato satellite europeo «Planck». Ogni Big Bang, infatti, dovrebbe ereditare qualche impronta dall’universo che l’ha preceduto, e queste impronte si manifesterebbero nella mappa della radiazione fossile.
L’idea dell’universo oscillante tra successivi Big Bang, non è nuova: ci hanno pensato Einstein (1930) e, nell’ambito della teoria delle stringhe, Gabriele Veneziano (1998). E’ difficile addentrarsi nei tecnicismi che rendono originale la Cosmologia Ciclica Conforme. La «conformità» si riferisce alla geometria dell’universo considerata a scala diversa. Ne troviamo l’analogo artistico in un disegno di Escher che rappresenta una tassellatura formata da angeli e diavoli inscritta in un cerchio. Non a caso Escher frequentava la famiglia Penrose. E non a caso si tratta di angeli e diavoli. All’interrogativo «che cosa facesse Dio prima di creare il mondo». Sant’Agostino rispose: «Preparava l’inferno per chi avesse posto questa domanda».

La Stampa TuttoLibri 29.10.11
Radko-Pahor: sogna una “doppia Trieste
di Ferdinando Camon


Boris Pahor è nato a Trieste il 28 agosto 1913 Il suo libro maggiore, «Necropoli», è edito da Fazi
Boris Pahor DENTRO IL LABIRNTO Fazi, pp. 630, 18,50

Libro importante e appassionante, un’epopea tragica e romantica della comunità slovena di Trieste, un libro necessario, che noi italiani non possiamo non leggere, anche se in molti punti ci racconta vicende ignominiose, compiute dai padri dei nostri padri, e che noi non sapevamo. Non queste. Non così. È la storia degli sloveni a Trieste, vista dall’altra parte. L’autore, sloveno nato e vivente a Trieste, s’incarna nel protagonista Radko Suban, ne racconta la vita negli anni ’46-’47, ma trova modo di risalire fino alla liberazione dal lager di Bergen Belsen e più indietro ancora alle persecuzioni dei fascisti contro il suo popolo: nel suo cervello s’accendono, con improvvisi flash anche senza motivo, le vampe del rogo appiccato dalle Camicie Nere alla Casa della Cultura degli sloveni. Fiamme, il palazzo che brucia, scalmanati che saltano e cantano in camicia nera, inni di trionfo, di minaccia e di gioia, figure che scappano e piangono, sono quelli che parlano la lingua scritta nei libri che bruciano.
È il trauma fondante della vita di Pahor. Non lo liquida, non ci riesce. Del resto, perché dovrebbe? Ma lo controlla, è lucido e calmo, non deborda, non maledice, anzi condanna chi vuole violenza per violenza. Ha coscienza che in quell’occasione non fu sconfitto lui o la sua... usiamo questa parola, razza, ma l’umanità. E vorrebbe una soluzione in nome dell’umanità. Non gl’interessa la lotta tra Urss e Jugoslavia, tra capitalismo e comunismo, tra Mosca-Roma (il Pci stava col Pcus, contro Tito) e LubianaBelgrado. Non ha una visione storica o politica del problema, ha una visione umana. E perciò perdente nei fatti, anche se moralmente alta. È un «senzapatria», che non può vivere se non creando legami con la patria. Il più solido legame è questo libro. Storia di Radko-Boris e della comunità slovena e di Trieste e dell’incrocio di Trieste coi regimi che l’hanno attraversata: nella prima guerra i padri sloveni combattevano con l’Austria-Ungheria, hanno perso Vienna e sono finiti sotto Roma, nella seconda guerra hanno perso Roma e rischiano di finire sotto Belgrado, il sogno di Pahor era che si trovassero sotto se stessi. Ma pur essendo tanta la parte storico-politica, questo è per me, essenzialmente, un romanzo d’amore.
Boris recupera la vita di Radko fin da quando esce dal lager, e all’uscita trova l’infermiera francese Arlette. È il primo amore, che attraversa tutti gli altri amori. Mija, Erika, Neva. Donne diverse, amori diversi, ogni amore una visione della vita, la visione più acuta è la prima, quella di Arlette: «Il fondamento di ogni amore è la compassione». Radko-Boris lo scopre all’inizio del libro, lo recupera alla fine. Da Arlette ha avuto niente e tutto, perché Arlette sposa un borghese, si sistema e fa una figlia. Ma in ogni momento è pronta a correre da lui. Lui intanto sta per avere un figlio dalla donna più provvisoria, più estranea, più immatura che ha incontrato, Neva. Ma non vuol legarsi, prende il treno e scappa. Ogni donna è una seduzione, e la seduzione genera un campo magnetico: come vi entra dentro, è attratto nel gorgo, precipita. Lui «patisce» la vita, non vive la vita, è la vita che vive in lui, dettandogli le leggi. Tutto «càpita». Anche gli arresti e le deportazioni, naziste o fasciste. «L’umanità (dovrebbe guardare ai milioni di cadaveri dei lager) come il contadino guarda al letame che favorisce il nuovo raccolto».
Deve pensarla così anche l’inquirente della Casa del Lavoratore che sottopone Radko a un interrogatorio kafkiano, preambolo drammatico al regime comunista che sta per venire. Radko non ama quel regime, non vuole «una» Trieste, sogna una «doppia» Trieste, una Trieste dalle due anime: si sente un essere «anfibio». «La pretesa di conservare l’assoluta purezza dell’ideologia si rivelava simile alla smania per la purezza razziale. Entrambe
“Dagli anni ’46-’47 risalendo alla liberazione dal lager di Bergen Belsen e alle violenze fasciste La storia d’amore di un «senzapatria» che non può vivere se non creando legami con la patria”

Repubblica 29.10.11
Cyber filosofia
Se un videogioco aiuta a capire Kant
di Michele Smargiassi


Non solo scienza e matematica. Anche i libri di testo delle materie umanistiche rinascono in veste multimediale. E rivoluzionano la didattica
I volumi sono "eyes-up": occhi in alto, fissi alla lavagna multimediale. E poi filmati e musica
Storia e letteratura erano il recinto inviolato di un insegnamento lineare testuale e narrativo

La folla assedia la prigione, vuole linciare il presunto omicida. Lo sceriffo, che ha il volto di Clint Eastwood, sa che non si condanna un uomo senza giusto processo, ma sa anche che un assalto causerà molti morti. Sceglierà la soluzione B, il male minore, e consegnerà l´uomo? Sceglierà la soluzione A, la sua coscienza, e pereat mundus? "L´ingiustizia può essere preferibile alla giustizia?".
Il dilemma lampeggia luminoso sulla lavagna elettronica, aspettando una risposta. La classe medita, si divide, discute, cerca argomenti migliori. Eccoli: un colpetto col dito, si apre una scheda, il dilemma prende nome: etica della convinzione contro etica della responsabilità, legge morale contro utilitarismo. Scegli B? Lo schermo dice "La pensi come Hume", e spiega perché. Qualcuno cambia opinione, qualcuno insiste. Il professore riassume. La lezione sul Kant è terminata. Gli studenti rimettono l´Abbagnano nello zaino.
Chissà cosa direbbe lui, Nicola Abbagnano, l´illustre esistenzialista, scomparso vent´anni fa, l´autore del manuale di filosofia più diffuso nella storia della scuola italiana, ancora oggi adottato in una classe su due, cosa direbbe della sua transustanziazione multimediale interattiva.
Il primo manuale lo scrisse nel ´37, dall´89 viene aggiornato da Giovanni Fornero, se ne vendono centotrentamila copie l´anno, finora tutte di carta. Ma l´edizione 2012 sarà molto, molto speciale. Sarà un libro eyes-up, occhi in alto, non sprofondati nella pagina scritta ma fissi sulla Lim, la lavagna multimediale che lentamente, faticosamente sta sostituendo quella di pietra nelle scuole della Repubblica. Doveva accadere, sta per accadere: il libro elettronico, il manuale augmented, il cyber-testo scolastico già familiare ai professori di materie scientifiche, ora sfonda fragorosamente la porta più resistente delle aule umanistiche.
Storia, filosofia, letteratura italiana: tra pochi giorni Pearson Italia, il gruppo editoriale che ha in portafoglio sigle storiche della "scolastica" come Paravia e Bruno Mondadori, insegnerà a quattromila insegnanti di tutta la penisola, nelle trentacinque tappe del convegno itinerante dal titolo "La forza delle idee", come maneggiare questi oggetti didattici ancora non identificati, questi libri-più il cui impatto rischia di essere, per le tradizioni didattiche nazionali, molto più dirompente dell´effetto che hanno avuto i testi elettronici di matematica o fisica. Perché da noi, si sa, la linea fra le due culture divide anche due pedagogie e due didattiche. Storia, filosofia, letteratura sono il recinto ancora inviolato dell´approccio idealistico, crociano, storicistico, sono materie a impianto narrativo, testuale, lineare, e i manuali di studio ne sono stati finora la fedele versione editoriale.
Ma guardateli adesso questi blasonati e anche navigati testi, l´Abbagnano-Fornero di filosofia, il De Bernardi-Guarracino di storia (25 anni di onorato servizio e un terzo del gradimento degli insegnanti), il Baldi di Letteratura (140 mila copie l´anno, in carriera dal ´93), guardateli "dopo la cura": all´apparenza sembrano gli stessi, sono libri, hanno pagine, ma non si usano più come prima. Non li userà più come prima lo studente, che assieme al libro acquisterà una password per accedere online a filmati, immagini, musica, esercizi interattivi. Ma soprattutto non li userà più come prima l´insegnante, che disporrà del libro in formato dvd, carico di ore ed ore di materiali "animabili" da utilizzare in classe, a portata di un clic.
Per la storia, è facile immaginare quali: lezione sulla Seconda guerra mondiale, si naviga tra un discorso di Hitler, un commento di Primo Levi, la mappa animata delle annessioni tedesche, uno spezzone di Salvate il soldato Ryan, i cinegiornali. Ma anche in letteratura esplodono i "contenuti", non più "aggiuntivi", ma primari.
Lezione su Ungaretti: ecco il poeta a Parigi nel ´13, sconvolto dal suicidio dell´amico Sceab, è lui stesso a rievocarlo in un filmato ripescato dalle teche Rai. E poi eccolo soldato sul Carso, interventista sconvolto dall´orrore della guerra, come il suo coetaneo dall´altra parte delle trincee, Otto Dix: i versi de La Veglia fluiscono sullo schermo messi a confronto con la sanguigna Trincea del pittore, la grafica addita somiglianze e riferimenti, ma se vuoi, con un dito il testo smette di scorrere e ogni singolo verso si "apre" e svela schede di analisi linguistica, metrica, retorica, stilistica.
Questa, è chiaro, non è più la lezione umanistica con cui sono cresciute intere generazioni di liceali italiani: il dolce o severo fluire del sapere sotto forma di parole sonanti, all´alto della cattedra verso il basso dei banchi. Rinati in veste multimediale, i nuovi libri di testo inevitabilmente "tirano" la didattica verso il modello anglosassone, il laboratorio hands-on, dove l´impero romano o l´Illuminismo vengono costruiti come i composti nell´aula di chimica, assemblando ingredienti diversi e facendoli reagire.
Come reagirà il ceto insegnante "umanista" italiano? «Nessuna rivoluzione, solo opportunità in più», ridimensiona Emilio Zanette, direttore editoriale Pearson: «il testo scritto non scompare affatto e ogni insegnante ha la libertà e la competenza per usare i materiali nuovi come preferisce». Certo, l´insegnante vecchio stile potrà ancora limitarsi a usare qualche gadget e a rifugiarsi poi nel più classico "per sabato portate da pagina x a pagina y".
Ma la classe docente italiana è più aperta di quel che i luoghi comuni la fanno, e poi gli strumenti finiscono sempre per cambiare i contenuti. E la direzione è chiara: già in via d´estinzione nelle materie scientifiche, il manuale come lo conosciamo resterà, in quelle umanistiche, un testo di riferimento per lo studio a casa. In classe, l´insegnante sarà il concertatore, il regista, l´alchimista di una quantità variabile di ingredienti di volta in volta evocati e fatti interagire davanti alla classe.
Siamo alla didattica "fai-da-te", e al testo come semplice repertorio di attrezzi utili? In fondo, gran parte dei "materiali multimediali", con un po´ di pazienza, si trova già in Rete: è l´inizio della fine del "manuale"? No, questo no, reagisce Roberto Gulli, amministratore delegato di Pearson, una vita passata a creare libri e nessuna intenzione di dismettersi come editore: «Un buon testo è, e lo sarà sempre, un percorso consapevole di organizzazione del sapere che presuppone un autore».
Da questa convinzione la scelta, non solo per prudenziale marketing, di innestare i nuovi contenuti sulla solida base dei manuali classici e ben avviati, invece di creare testi radicalmente nuovi. Forse per questo, dove si può, l´autore stesso si presenta in video, con la sua faccia, la sua voce, e spiega di persona, e tutti vedono che dietro un testo in fondo c´è sempre un uomo, e che un manuale non è la tavola della legge ma una proposta, da accogliere eyes-up, ad occhi ben aperti.

Repubblica 29.10.11
"Basta con il diritto al capriccio dobbiamo tornare moralisti"
Lo abbiamo chiesto a studiosi e filosofi cominciando dal grande saggista
Dalla famiglia alla tradizione, quali sono i riferimenti che valgono anche oggi?
"Con le nuove tecnologie i piccoli insegnano agli adulti: l´esperienza non ha più senso"
"L´anarchismo e la cultura del desiderio non ci hanno portato da nessuna parte"
di Franco Marcoaldi


Leggo dalla bandella della sua Eneide di Virgilio (Rizzoli), che tra le molteplici attività di Vittorio Sermonti – narratore, saggista, traduttore, regista, attore – c´è stata anche quella di docente. Vorrei pertanto cominciare questo nostro incontro incentrando l´attenzione su qualcosa che ha rappresentato, io credo, un giro di boa decisivo per le sorti dell´autorità giusto all´interno della scuola.
Non saprei dire con precisione quando è accaduto, ma da un certo giorno in avanti, di fronte a qualunque conflitto tra allievo e docente, la famiglia, che in precedenza era sempre stata dalla parte del docente, ha cominciato immancabilmente a prendere le parti dell´allievo, ovvero del figlio. Creando non poca confusione di ruoli.
«Credo anch´io che si sia trattato di un passaggio cruciale, che a ben vedere va ricondotto a un fenomeno sociale iniziato negli anni Sessanta, quando i cuccioli del dopoguerra, i famosi giovani, vengono universalmente promossi dalle strategie pubblicitarie al privilegio di un illimitato protagonismo, in quanto ottimi conduttori di consumi. Ho l´impressione che questo aspetto della promozione generazionale consacrata dal Sessantotto, che peraltro sbandierava l´anticonsumismo, non sia stato studiato abbastanza.
«Successivamente, fra gli anni Ottanta e i Novanta, la dilatazione-globalizzazione del mercato ha travolto anche la diga dei giovani ed ex giovani ormai viziati da qualche nostalgia, per tracimare su altri soggetti, più aggressivamente indifesi: i bambini. Da qui una vera e propria pedagogia pubblicitaria del consumo. E in concomitanza con i nuovi assetti familiari, tarlati dal rimorso di genitori magari separati o entrambi in carriera, si è affermata l´elezione dei piccini a despoti assoluti degli acquisti. A giudici inappellabili dei gusti alimentari, emozionali ed informatici delle famiglie. A consumatori modello di un futuro sempre più assillante e puerile».
Poveri insegnanti: in un quadro come questo dev´essere ben duro provare ad esercitare l´autorità.
«Autorità? Ma quando mai? Tanto per cominciare, gli insegnanti non guadagnano una lira e dunque vengono comunemente guardati dall´alto in basso. E poi, come dice il nostro primo ministro, l´educazione che impartiscono è l´esatto opposto di quella che viene proposta a casa! Faccio notare, en passant, che considerare la famiglia come nucleo della società è tipico del cattolicesimo, mentre invece considerare la famiglia come alternativa alla società, è tipico della mafia.
Ebbene, a questo disastro socio-politico tutto italiano si è aggiunta poi la slavina delle nano-tecnologie, che hanno messo un bambino di sei anni in condizione di insegnare a me cose molto più "importanti" di quante gliene possa insegnare io, che ne ho ottanta passati. In un quadro siffatto, il rispetto per l´esperienza e per l´età non ha più alcun senso. D´altra parte, ci aveva pensato già Antonio Machado ad ammonirci: "Ti consiglio in quanto son vecchio?/E tu non seguire il consiglio"».
Eppure, la nostalgia dell´autorità e l´aspirazione al ripristino del suo valore è molto diffusa, radicata.
«Sì, però anche qui dobbiamo metterci d´accordo. Si potrebbe dire che viviamo in un campo di tensione tra il desiderio dell´autorità e il terrore dell´autoritarismo. O, esattamente al contrario, tra il desiderio di autoritarismo e il terrore dell´autorità. Per certo, questa aspirazione tanto diffusa quanto confusa che reclama la restaurazione di un´autorità purchessia, sconta oggi una difficoltà supplementare: il fatto che la sua demolizione sia stata immediatamente rimpiazzata da un assillante culto del potere. Per molti, troppi, ciò che importa è che chi decide, decida di decidere. Il "valore-potere", intendo dire, ha invaso lo spazio del "valore-autorità" e nell´atto stesso di svuotarlo l´ha otturato di sé. Difficile rianimare l´autorevolezza bocca a bocca, posto che chi decide lo voglia. Perché l´esercizio attivo-passivo dell´autorità è troppo rischioso: pretende risorse obsolete, come la riconoscenza e l´ammirazione. Pensare è ringraziare, ha detto qualcuno. Beh, io non vedo in giro molta voglia di ringraziare».
La parola autorità è imparentata anche con auctor, colui che genera, che crea. E lei ha una grande dimestichezza con i grandi creatori del passato, segnatamente con Dante e con Virgilio. Sulla base della sua esperienza, è ancora possibile, per le nuove generazioni, un rapporto fertile con questi giganti?
«Direi proprio di sì, ed è un´ipotesi verificata grazie a una recente e protratta esperienza con i ragazzi a cui leggevo l´Eneide in chiesa, in piazza, a scuola. Qualcuno che andava al sodo mi chiedeva come, secondo me, un giovane che passa ore inchiodato alla play station, che filma col cellulare ogni grinza del quotidiano, che pratica l´ubiquità comunicando in rete con la Nuova Zelanda, possa occuparsi dell´epica classica. Insomma, voglia perder tempo con l´Eneide. Non ho idea. Fatto sta che intanto io constatavo che la "ragazzità" di un ragazzo non lo esonera oggi – come non ha mai esonerato nessuno – dall´unicità e dalla fragile grandezza della persona intera che è.
È molto probabile che la psiche degli umani e la modalità del loro vivere associato rispondano a modelli un po´ meno labili e fluttuanti nel tempo di quanto vorrebbero farci credere sociologi, pubblicitari e sondaggisti.
Insomma, non credo che la lunga durata dell´antropologia, e della grande poesia, tenga il galoppo che quelli pretendono da noi. Anche perché vale per ciascuno, giovane o vecchio che sia, ciò che ci ha ricordato con brusca esattezza George Steiner. "I grandi classici continuano a leggerci più di quanto noi li leggiamo"».
Mettiamola diversamente: c´è ancora uno spazio pubblico ampio, influente, riconosciuto, che ci consenta di mettere a frutto l´autorità emanata dalla grande cultura del passato? Un´autorità capace di offrici, ad esempio, quell´orizzonte di trascendenza inter-generazionale che la nostra società, schiacciata sul presente, sembra avere perso?
«Difficile rispondere. Perché noi viviamo in una sotto-società, che è quella italiana, in cui si afferma il primato della politica, che è poi l´anti-politica, la quale a sua volta è dominata dall´economia che a sua volta è dominata dalla finanza.
Ora, in una situazione come questa, la grande cultura, a maggior ragione quella classica, sembrerebbe non avere più spazio alcuno.
Ma io non credo che la storia umana sia una storia lineare. Dunque non credo che l´attuale rapporto tra il presente e il passato debba necessariamente compromettere, in modo assoluto, il rapporto tra presente e futuro. Oggi lamentiamo, e non a torto, una perdita di orizzonte trascendente nelle nostre società, ma nulla sappiamo di un eventuale sacro prossimo venturo. Sappiamo invece che viviamo in un infelice anarchismo capillare, magari in nevrotica balia delle agenzie di rating. Sappiamo che il diritto al desiderio, il diritto a un infaticabile consumo, il diritto ancor più grave al capriccio, non ci hanno portato da nessuna parte e ci hanno reso piuttosto infelici.
Sarò banale, ma io credo sia cruciale il ripristino di una diffusa cultura della moralità. Sì, banale e moralista. Mi va benissimo. Il fatto che qui da noi il termine "moralista" abbia un unico significato deprecativo, la dice lunga sul genere di moralismo che pratica chi lo depreca. Vedo mestamente imperversare l´etica truccata, verticale e consumistica del desiderio, mentre io amerei che si ripristinasse un patto comune, capace di riattivare l´orizzontalità dei rapporti tra cittadini, con tutti i suoi negoziabili vantaggi».

Repubblica 29.10.11
Escono la ristampa del classico seicentesco e lo studio del filosofo del ´900
Da Hobbes a Schmitt, ecco il Leviatano
di Antonio Gnoli


Quando fu pubblicato, nel 1651, si avvertiva in Europa la necessità di un rinnovo delle istituzioni Tanti poi interpretarono il trattato: da Rousseau a Kant fino a Benjamin

Il Leviatano è un grandissimo libro di teoria politica. Ancora oggi ci turbano le sue analisi. Ancora oggi stupisce la capacità introspettiva con cui Thomas Hobbes indagava la natura umana, estraendone miserie e nefandezze: la cupidigia e l´invidia, l´ostilità e la paura, la menzogna e il tradimento, la violenza e il sopruso. Sentimenti dell´uomo sorretti dal bisogno innato di prevalere sul proprio simile. Si tratta di descrizioni note che tornano alla mente in occasione della nuova edizione del Leviatano (edita da Rizzoli) e della pubblicazione di un vecchio saggio di Carl Schmitt: Sul Leviatano (edito da il Mulino). Entrambi i libri presentano un´introduzione di Carlo Galli che ricostruisce con grande competenza l´alfa e l´omega del capolavoro hobbesiano.
Quando nel 1651 Hobbes pubblica il suo libro, l´Europa – con la pace di Westfalia – ha messo fine al lungo periodo di guerre civili e religiose. Si avverte nel continente la necessità di un rinnovo profondo delle istituzioni, fino ad allora eccessivamente condizionate da una visione feudale e teologica. Hobbes è conscio che soltanto un gesto radicale che azzeri tutto quanto è accaduto in passato, possa far nascere un organismo così potente e persuasivo da regolare la vita dei sudditi. La macchina politica hobbesiana – che Galli riconduce alla prima costruzione del moderno Stato rappresentativo del diritto – ignora i problemi legati alla legittimazione divina e va dritta alla questione essenziale: come superare il disordine che è insito nella natura umana, creando un ordine che sia stabile, duraturo e condiviso?
Il passaggio dallo stato di natura allo Stato propriamente detto (e riconosciuto) si avvale secondo Hobbes di un patto di non belligeranza che gli uomini stringono tra loro, perché fuori da quel patto la vita risulterebbe brutale e insicura. Tuttavia, un accordo così vasto non può che essere un artificio grazie al quale Hobbes formalizza la nascita dello Stato moderno e del legame sociale. Garantendo la pace e con essa la vita degli individui, lo Stato spoglia i suoi sudditi di tutti gli altri diritti. Non a caso c´è chi ha visto in Hobbes delinearsi una prima forma di totalitarismo. Galli ridimensiona questa preoccupazione e semmai scorge nel volto barocco del Leviatano (il nome allude a un mostro marino che Hobbes riprese dalla tradizione biblica) una potenza costantemente minacciata dalle forze della storia. Lo stato hobbesiano è in grado di arginare e ritardare il conflitto, ma non di debellarlo definitivamente. È il dramma nichilistico nel quale versa il pensiero di Hobbes.
Il Leviatano ha avuto numerosi interpreti. Da Rousseau, Kant ed Hegel fino agli stimoli novecenteschi offerti da Benjamin, Strauss, Macpherson, Bobbio e ovviamente Carl Schmitt. Il cui libro, Sul Leviatano, fu pubblicato nel 1938. Giurista autorevole, ma ormai inviso al regime nazista, Schmitt ci consegna pagine esoteriche, attraversate da deliranti pulsioni antisemite, ma anche capaci di illuminare il destino teorico di Hobbes. Già in passato Hobbes era stato al centro dei suoi interessi, ma qui si configura un problema nuovo: è in grado lo Stato leviatanico di affrontare e risolvere quei conflitti per i quali era predisposto? Schmitt mette in dubbio la solidità di fondo dello Stato moderno insidiato dalla imprevedibilità dei soggetti patologici (ai quali lo stesso partito nazista appartiene). È probabile che una tale convinzione la ricavi dalla consapevolezza di vedere i primi segni della crisi dello jus publicum europaeum. Il crepuscolo della sovranità statale sarà infatti uno dei temi portanti del Nomos della Terra. Con l´opera del 1950 Schmitt si va sempre più convincendo che lo spazio geopolitico stia mutando radicalmente e che gli stessi soggetti della politica (in primis gli Stati nazione) come Hobbes li aveva teorizzati, stavano tramontando.
Strana coppia Hobbes e Schmitt. Così la definisce efficacemente Galli. Tanto uno è all´inizio del Moderno quanto l´altro si colloca alla fine di quell´esperienza. «Si tratta», osserva Galli, «di due visioni prospettiche della medesima epoca storica». Scrivendo il Leviatano Hobbes immaginò che il disordine originario, fonte di mortale pericolo, dovesse essere quanto più possibile neutralizzato e sostituito dalle certezze dell´ordine normativo creato dalla ragione umana. È proprio ciò che alla fine Schmitt mise in discussione: l´efficacia di contenere il politico dentro una forma giuridica stabile e condivisa. Era convinto che le potenze (più o meno segrete) della storia difficilmente si sarebbero adeguate alla misura umana. E alla sua ragione.

La Stampa TuttoLibri 29.10.11
È scomparsa la borghesia, e così va in fumo l’Italia
di Lelio De Michelis


De Rita e Galdo La fine della società aperta che «non protegge soltanto i privilegi di pochi»
Giuseppe De Rita Antonio Galdo L'ECLISSI DELLA BORGHESIA Laterza, pp. 92, 14

E' l'Italia secondo Giuseppe De Rita e Antonio Galdo, in questo importante L'eclissi della borghesia (Laterza). Un saggio breve e giustamente polemico, che farà (si spera) discutere.
Un libro che è l'aggiornamento dell' Intervista sulla borghesia in Italia di quindici anni fa, quando i due autori denunciarono quell'anomalia tutta italiana «che aveva preso forma sull'onda lunga del miracolo economico: l'esplosione del ceto medio e il vuoto borghese». Da allora, sostengono oggi gli autori, «il secondo aspetto del fenomeno, la scomparsa della borghesia, si è accentuato fino a divenire il nervo scoperto di un Paese in affanno, sostanzialmente fermo, barricato a difesa del proprio benessere e incapace di proiettarsi verso il futuro». E questo vuoto di borghesia «ha lentamente trascinato la società italiana verso una deriva antropologica caratterizzata da pulsioni individuali, anche le più sfrenate, interessi personali o di singola categoria. Ovunque si è spento il senso del collettivo e la condivisione di obiettivi generali sui quali incontrarsi e ritrovarsi». Il prezzo che l'Italia sta pagando per questo «è altissimo», perché comporta la scomparsa della società aperta che, unica, garantisce opportunità per tutti «e non protegge soltanto i privilegi di pochi».
E la borghesia - classe minoritaria ma essenziale - è importante per De Rita e Galdo. Perché avrebbe - ma qui c'è un nostro disaccordo, portati come siamo a non amare le «classi dirigenti» e a preferire una società di individui autonomi e kantianamente capaci di cittadinanza, senza dover essere «diretti» da qualcuno -, perché appunto avrebbe «un suo insostituibile primato proprio nella funzione di indirizzare il sistema; e quanto più una società è complessa, tanto più diventa necessaria una leadership». Per cui è sì vero - con De Rita e Galdo - che l'Italia dovrà sostituire il noi all'io e «il gusto del collettivo dovrà assorbire le pulsioni individuali e l'etica della responsabilità dovrà affermarsi come antidoto al cinismo e all'indifferenza diffusa»; ma non tanto di individualismo si deve forse parlare, quanto di pulsioni indotte secondo modelli consumistici, che hanno prodotto individui isolati ma conformisti e in massa eterodiretti e appunto funzionalmente pulsionali. E se è ancora vero che questi processi di (per noi falsa) individualizzazione hanno generato un io ipertrofico, hanno anche generato un noi: localistico/egoistico sì, ma comunitario, che ha cancellato la società aperta e impedisce di pensare al futuro.
In Italia c'è comunque - e come non essere d'accordo - un' eclissi della borghesia. Che ha fatto il Risorgimento e la ricostruzione post-bellica. Ma che poi si è appunto eclissata quando è arrivato il boom economico ed è scattata «la molla del benessere», con un imborghesimento di massa e la «cetomedizzazione dell'Italia».
Tutto è ceto medio, ovunque; ma in Italia in modi diversi da altri Paesi. Da noi, Dc e Pci, negli anni, hanno organizzato ma anche bloccato la società. Mentre la borghesia si è accomodata nel sistema, espellendo da sé (aggiungiamo) coloro che invece (come Adriano Olivetti) cercavano un'Italia nuova e virtuosa. E anche quando Berlusconi è arrivato al potere, ha vinto non in nome dei valori borghesi, ma del ceto medio e del populismo. Complice la Lega, «sindacato territoriale» populista del Nord.
Tutto è perduto? No, e i segnali di speranza, per De Rita e Galdo, sono molti. In particolare, «il ritorno al desiderio, alla ricerca di nuovi orizzonti, nuovi traguardi, nuove mobilitazioni». Un desiderio di mutamento (o l'ardore, riprendendo un libro di Roberto Calasso, «qualcosa che brucia dentro di noi»), per la «ricerca di una rete di connessioni con gli altri, di un noi che comprenda l'io, senza escluderlo e senza isolarlo». E allora chissà «che nel fuoco del cambiamento non prenda corpo e si formi quella borghesia di cui oggi siamo orfani e la cui assenza sentiamo come un vuoto nel quale l'Italia è sospesa».
"Ha fatto il Risorgimento e la ricostruzione post-bellica, con il boom economico si è esaurita nel ceto medio"

l’Unità 29.10.11
Hillman, lo sciamano dell’anima
È morto a 85 anni lo psicoanalista e filosofo americano. Allievo di Jung ha re-immaginato l’analisi junghiana riportandola nel mondo. Paladino di una psicologia ecologica non voleva curare i singoli, ma «la civiltà»
di Romano Màdera


Nel 1989 lascia l’attività: basta parlare all’io, vuole la città come interlocutore

È morto James Hillman, uno dei pochi psicoanalisti che si era impegnato in un’impresa straordinaria quanto stravagante, forse infantile o donchisciottesca: curare la civiltà, non più i singoli pazienti! Si può dire che la psicoanalisi ci ha sempre provato, ma senza dirselo, perché in fondo il cambiamento di pochi individui, diventati più attenti alle proiezioni del male sugli altri, più disposti a cercare faticosamente la verità su se stessi, dovrebbero essere anche più capaci di autocritica e di tolleranza. Ma insomma, cambiare il mondo non è compito di un analista, la politica deve rimanere fuori dallo studio.
E invece, all’apice del successo, Hillman, nel 1993, ha osato scrivere Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio. Si è interrogato su quello sguardo psicologico che chiude le finestre sul mondo, separa il paziente dalla sua storia, dalla sua cultura, dalle immagini che ne hanno modellato la percezione, e poi rovescia tutto e fa nascere il mondo dai seni della mamma e dalla camera da letto dei genitori. Hillman si è chiesto se la psicopatologia dei singoli non contenesse invece la sofferenza (pathos) dell’anima (psiche) che cerca di articolare un’espressione, un discorso (logos). Il singolo non è messo al mondo dalla famiglia, in realtà la sua nascita avviene nel mondo che dà forma e voce al carattere e alla vocazione di ciascuno, ed è nel mondo che ciascuno incontra il suo destino.
Quali sono le forme e le voci del mondo? Chi ascolto quando ascolto un sintomo, per esempio quando qualcuno è ossessionato da internet, dal telefonino, dal traffico, dagli appuntamenti di lavoro? Hillman è stato capace di divinare, nell’accelerazione del tempo e nella contrazione dello spazio, così tipici della nostra epoca, una epifania drogata di Ermes-Mercurio il dio degli scambi, dei confini, dei commerci. Certo è la storia che mi parla in un soggetto, e nella storia la sua biografia, e tuttavia c’è qualcosa che evoca, da dentro quella stessa esperienza, un modo di essere e di costruire la realtà che intesse i fili del tempo, che collega le civiltà, che è vasto e profondo quanto solo l’immagine può suggerire senza mai chiudersi in una definizione esaustiva. L’immagine porta nei pressi dell’anima del mondo, della matrice dei nostri vissuti, delle nostre fantasie, delle psicopatologie.
Si tratta allora di rimanere aderenti alle immagini, di farle dialogare tra loro senza costringerle nella camicia di forza riduttiva delle spiegazioni, di dischiuderne la forma che le apparenta: queste forme sono archetipali, in se stesse inattingibili, proprio perché origini comuni capaci di generare immagini sempre diverse, per tempi e per culture diverse.
L’anima del mondo è intessuta, secondo HIllman, da queste energie formatrici che si condensano, volta a volta, in immagini guida di altri immagini: gli dei.
Il politeismo di Hillman non ha però niente di teologico: nella mitologia greco-romana, lui, ebreo americano educato in Europa, trova un repertorio che, rivisto come sguardo psicologico, può curare un mondo afflitto da una postura monoteistica, e quindi intollerante, insofferente delle differenze, incapace di scorgere divinità e bellezza nelle infinite variazioni della natura e dell’arte, senza irrigidirle in qualche direttiva moraleggiante.
Tutto si potrà rimproverare a Hillman, tranne il fatto che abbia solo teorizzato la terapia della civiltà, senza provare di persona a imboccare questa diversa strada. Nel 1989, nel bel mezzo di una carriera professionale ricca di riconoscimenti, abbandona la pratica analitica privata e si dedica allo sviluppo della sua idea di psicologia archetipica, cerca di parlare il suo linguaggio fuori dallo studio, di fare della città il suo interlocutore. Hillman ha scritto di questa decisione come di una profonda «crisi morale». Andava tutto bene con i pazienti, ma sentiva che non stava facendo la cosa giusta, che ritagliare il proprio intervento sul soggetto umano significa rimanere in una prospettiva di tipo cartesiano: voler dedurre la realtà dall’io, per quanto corretto con l’aggiunta dell’inconscio.
IL SUO «POLITEISMO»
Avrebbe potuto però fermarsi a questa critica e continuare a praticare l’analisi junghiana, della quale era uno dei più importanti esponenti nel mondo. Neppure Jung, il suo maestro, gli è bastato: sì, Jung era andato in una direzione che potremmo chiamare terapia delle idee, e non più solo del singolo, ma rimaneva nel solco della tradizione cristiana e monoteista: la sua direzione guardava all’asse che congiunge l’io al Sé, dove il Sé è il nuovo centro unitario del rapporto fra coscienza e inconscio. Troppa unità, troppo «io» ancora. La varietà del mostrarsi dell’anima del mondo è irriducibile alle nostre pretese di afferrarla in una qualche rappresentazione unitaria, per quanto complessa essa voglia essere.
E poi via dall’antropocentrismo della nostra civiltà, dalla sua malattia che infetta le architetture delle nostre città insieme alla devastazione delle foreste e degli oceani: Hillman si è fatto paladino di una nuova psicologia ecologica.
Le rutilanti idee-provocazione di Hillman sono state coraggiose e affascinanti, hanno proposto la via di un pensiero psicologico capace di superare il romanzo familiare.
Rimane oggi da vedere se il suo radicale antiumanesimo, la sua celebrazione del differire infinito, non sia però, anch’esso, troppo figlio del nostro tempo, troppo post-moderno, troppo collusivo con le varie morti di Dio, dell’uomo, del soggetto, dell’io, della morale, dell’unità ... troppo neonietzscheano, insomma.
Forse il corpo del mondo, e quello degli individui, ha invece un disperato bisogno di unità, di progetto, di gerarchie di senso, di ordinato equilibrio.

Chi era. In Connecticut
James Hillman è morto l’altro ieri a Thompson, in Connecticut all’età di 85 anni. Era malato da tempo, ma ha respinto le cure più invasive pur di conservare la sua lucidità e libertà di giudizio. psicologo analista di formazione junghiano, James Hillman nasce nel 1926 ad Atlantic City. Compiuti gli studi di filosofia a Parigi e Dublino, ha studiato psicologia all’Università di Zurigo. Entrato a far parte dell’Istituto di psicologia analitica C.G. Jung, lo dirige tra il 1959 e il 1969. Esponente tra i più originali della psicologia junghiana, è autore di una critica radicale della psicoanalisi, che per lui non deve restare confinata all’interno del rapporto medico-paziente, ma diventare uno strumento di esplorazione della natura umana e di comprensione del disagio dell’uomo nella società.

il Fatto 29.10.11
Hillman, il profeta dell’Anima
di Franca D’Agostini


La morte di James Hillman spinge a riflettere sulla grande vague anti-teoretica, anti-logica, anti-concettuale che ha attraversato la cultura europea e nordamericana a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, e di cui Hillman è stato un illustre e raffinato esponente. La formidabile carenza di logica e di sensatezza di cui è afflitto il linguaggio pubblico recente, specie italiano (ma anche il dibattito di lingua inglese non scherza, a giudicare da quanto scrive Julian Baggini nel suo repertorio di assurdità Do They Think You’re Stupid?, Granta), ci dice che l’operazione culturale di svilimento del logos a vantaggio del pathos perseguita da Hillman e da molti altri ha avuto gran successo. Ma ci dice anche che forse èilcasodichiuderequelcapitolo e che concetti come anima, cuore, emozione interiorità e amore possono tornare tranquilli a fare il loro dovere, senza bisogno di essere lanciati come cubetti di porfido contro il contrafforte del logos che – secondo il paradigma emozionalista – ospiterebbe la potente e venefica città della Scienza, della Tecnica, e (per gli americani) della Filosofia.
PER COMPRENDERE l’operazione di Hillman credo sia necessario collocarla in due contesti ben definiti: il tramonto della psicoanalisi, e la latitanza culturale della filosofia. La psicanalisi nelle diverse forme inizia un suo chiaro e vistoso declino in Europa già negli anni Settanta dello scorso secolo, le psichiatrie alternative e antiedipiche segnalano con chiarezza che il paradigma freudiano, anche nella versione lacaniana, regge male le nuove condizioni dell’immaginario e del linguaggio condiviso, mentre la versione junghiana sempre più chiaramente trascolora in terapeutica culturale astratta. La situazione non è chiara per il grosso pubblico che ancora pensa a Freud, Jung e Lacan come un’avanguardia culturale, ma non sfugge alla sensibilità di Hillman cheprocedesenz’altroarivoltare la psicologia analitica come un guanto e a riciclarla come filosofia. La psiche, insegna Jung è abitata e sovrastata dal collettivo, e dai contenuti mitici immaginativi archetipici che l’umanità intera condivide. Perché allora curare i singoli?
La psicanalisi di Hillman esce dallo studio e dalla clinica individuale e diventa terapeutica delle idee, dell’umanità intera, e non delle singole persone. Programma tipicamente filosofico: ecco Hillman incamminato a svolgere il ruolo husserliano di “funzionario dell’umanità”. Il programma destinato a fare di Hillman il maestro e profeta degli animisti mitomani e antilogici di tutto il mondo si annuncia nel Mito dell’analisi del 1972. L’Occidente, così si spiega nel libro, avrebbe umiliato e assoggettato l’immaginazione e l’anima, e in generale il femminile (anima junghianamente è per l’appunto il femminile). Di qui il rilancio dell’idea di Keats, secondo cui il mondo è la “valle del fare anima”. Cosa si deve fare in questa vita? Semplice: making soul, contro una cultura che ha dimenticato gli dei e l’anima e il potere fantastico dell’invenzione creati-va umana. La critica naturalmente era rivolta al tendenziale positivismo della psicanalisi, specie freudiana, ma il making soul divenne una cifra importante della psicologia archetipica hillmaniana, facendone il paradiso del femminismo differenzialista. Americano di nascita, ma europeo di formazione (studia alla Sorbona e a Dublino) Hillman torna in America nel 1984, e qui ha una visione chiara del gioco che contrappone i cosiddetti techies e i fuzzies, i tecnocrati e i vaghi, si direbbe. È una guerra politico-culturale che infuria nei tardi anni ottanta, ed è tipica di contesti e culture dove la filosofia (che appunto dovrebbe chiarire le idee sull’irrilevanza della dicotomia: essendo la tecnica stessa estremamente vaga, e le vaghezze necessariamente determinate , dovendo dirsi in parole) è povera o assente.
IN QUESTA GUERRA l’anti-positivismo di Hillman ha buon gioco. Il suo progetto a mano a mano (e con lieve contraddizione rispetto all’assunto) diventa un vero e proprio sistema filosofico, dotato di una metafisica, un’antropologia, un’etica, e ancheinprospettivaunapolitica.In breve quella hillmaniana è una metafisica panteistica, e panpsichistica. Il mondo “è pieno di dèi”, Hermes, Afrodite, Ares sono le immagini archetipiche che ci guidano nel vivere amare e soffrire. La psiche inoltre non è solo dentro di noi, è tutto intorno a noi. All’uomo psicologico (che vive “facendo anima”) Hillman oppone l’uomo spirituale (mirante a una perfezione trascendente) e l’uomo normale (che si identifica con l’adattamento pratico e sociale). Il codice dell’anima del 1997, rivede la terapia: si tratta non di crescere ma di decrescere, tornare alle nostre radici, vedere da vicino quale sia il mito o il dio che ci guida, e così conoscere la nostra “vocazione”. Naturalmente, non è filosofia vera, e pertanto originale e intellettualmente esigente, ma una popularphilosophie gentile, che rielabora materiali largamente presenti nella tradizione della filosofia pratica, ed è piena di colore, di narrazioni, miti e figure. Un fenomeno editoriale insomma (il suo Codice dell’anima fu un best seller in tutto il mondo). Hillman è stato in definitiva un grande divulgatore e grande narratore dell’inconscio. Ma i contenuti per così dire politici della sua dottrina – al di là delle sue intenzioni – hanno fatto non poco danno in un’epoca che certo aveva bisogno di filosofia, ma non di quella filosofia, e che voleva una scossa da torpedine marina, ma non quella scossa emozionalistica e psichistica. Coloro che hanno fatto del socratismo visionario di Hillman una ideologia a volte sono andati troppo in là. In un libro di un intellettuale hillmaniano, di cui non farò il nome, si legge che le donne sarebbero superiori in quanto avrebbero l’intelligenza dei sentimenti, “e come dice l’etimo della parola stessa, ‘sentimento’ vuol dire: avere il senso, il sentire, nella mente” (?!). Il povero Hillman, conoscitore di molte lingue ed esperto di etimi ingegnosi e sottili, come avrebbe valutato una simile idiozia?
 *Docente di Filosofia della Scienza al Politecnico di Torino

La Stampa TuttoLibri 29.10.11
Hillman: “Sto morendo ma non potrei essere più impegnato a vivere”
“Con la morte vicina, la vita si esalta”
di Silvia Ronchey


L’ultima intervista Al capezzale dello psicoanalista che ha domato il dolore per ragionare sulla propria fine
Hillman «Guardando la mia fine ad occhi aperti, e riflettendoci sopra, mi rendo conto di realizzare qualcosa di molto prezioso»

«Sto morendo, ma non potrei essere più impegnato a vivere». Così aveva scritto, nella sua ultima mail. E così l’ho trovato, quando sono andata a salutarlo per l’ultima volta nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, pochi giorni prima che morisse: il fantasma di se stesso, ma incredibilmente vitale; il corpo fisico ridotto al minimo, quasi mummificato, tutto testa, pura volontà pensante. Restare pensante era la sua scommessa, la sua sfida. Per questo aveva ridotto al minimo la morfina, a prezzo di un’atroce sofferenza sopportata con quella che gli antichi stoici chiamavano apatheia : un apparente distacco dalla paura e dal dolore che traduceva in realtà un calarsi più profondo in quelle emozioni. L’unica cosa che contava era analizzare istante dopo istante se stesso e quindi la morte come atto oltre che nella sua essenza. Se Steve Jobs, morendo, ha lasciato detto «stay hungry, stay foolish», l’ultimo insegnamento di James Hillman può riassumersi così: «Resta pensante» fino all’ultima soglia dell’essere.
Il tempo qui sembra fermo, le lancette puntate sull’essenza ultima.
«Oh, sì. Morire è l’essenza della vita».
Com’è morire?
«Uno svuotamento. Si comincia svuotandosi. Ma, si potrebbe chiedere, che cos’è o dov’è il vuoto? Il vuoto è nella perdita. E che cosa si perde? Io non ho “perso” nel senso comune di “perdere”. Non c’è perdita in quel senso. C’è la fine dell’ambizione. La fine di ciò che si chiede a se stessi. E’ molto importante. Non si chiede più niente a se stessi. Si comincia a svuotarsi degli obblighi e dei vincoli, delle necessità che si pensavano importanti. E quando queste cose cominciano a sparire, resta un’enorme quantità di tempo. E poi scivola via anche il tempo. E si vive senza tempo. Che ore sono? Le nove e mezza. Di mattina o di sera? Non lo so».
E’ una condizione perseguita dai mistici.
«Oh sì, dall’induismo per esempio, gli induisti ne scrivono. Ma in questo caso è tutto unwillkürlich , involontario. E’ accidentale».
Comunque non credo non ti sia rimasta nessuna ambizione.
«Davvero?» [Apre di scatto gli occhi finora socchiusi, con un lampo azzurro di sfida].
Ti resta quella degli antichi romani: lasciare il tuo pensiero ai posteri.
«E’ vero. E’ molto importante per me che il mio pensiero rimanga. Ma la parola posteri mi rimanda a postea , a un dopo, a un futuro, in cui non voglio essere trasportato adesso».
Perché esisti solo al presente.
«Sì, e voglio tenere chiusa la porta con il cartellino “Exitus”. La potrò aprire a un certo punto, quando capirò come farlo nel modo giusto. [Tenta di scuotere il capo, ma il dolore lo ferma]. Non saprei ora come aprire quella porta senza che ne dilaghi una folla di creaturine che vogliono qualcosa. Molti degli antichi filosofi ne sono stati catturati, probabilmente tu sai chi lo è stato più degli altri. Io non voglio. Il mio compito è dialogare e tenere il dialogo aperto su quel che accade momento per momento. Il mio è piuttosto un reportage. Dal vivo. Dal vero».
Non potrebbe essere altrimenti: o non fai il reportage - come la maggior parte di chi si trova nella tua condizione - oppure ciò che riferisci è la verità. E penso che tutti siano affamati di questa verità.
«Tutti sono affamati di morte. La nostra cultura lo è. Io, qui, come vedi, ne parlo continuamente. Ma non la esprimo. Perché nella morte io sono impegnato. Non voglio uscirne, per esprimerla, per vederla o guardarla in trasparenza. Non cerco di formularla. Ogni tanto si realizza qualcosa che mi porta in un altro luogo dal quale posso osservarla. Magari anche di riflesso. Ogni sorta di cose si riflettono in questa introspezione, ma non l’attività essenziale di ciò in cui sono impegnato [ossia l’atto del morire]. Il tempo che mi dò è il qui e ora».
Capisco «E’ molto importante ciò che semplicemente il giorno ci dà, ogni singola cosa che si realizza durante il giorno. La persona, l’osservazione che ha fatto, l’odore dell’aria in quel momento.
"«Non si chiede più niente a se stessi si comincia a svuotarsi dei vincoli che parevano importanti» «Le persone vengono da me per parlare e quando troviamo le parole giuste la sofferenza si allevia»"
E queste cose hanno bisogno di accettazione, di ricognizione, di riconoscimento... Adesso non ho ancora la parola giusta. Ma trovare le parole è magnifico. Trovare la parola giusta è così importante. Le parole sono come cuscini: quando sono disposte nel modo giusto alleviano il dolore».
E il dialogo aiuta a trovarle?
«Sì, e mi rende così felice.
Sai, da qualche tempo le persone vengono da me come se avvertissero in me il richiamo di quel vuoto di cui parlavo. Se io non fossi così vuoto, non verrebbero».
Come un risucchio che attira.
«Dev’essere così».
O una condizione di saggezza?
«No. Una calamita. Cercano qualcosa cui attaccarsi. Vogliono qualcosa, ed è la mia capacità di cristallizzare e formulare. Due parole che sono usate per una delle ultime fasi dell’alchimia. Cristallizzazione e formulazione. Le persone sono in pessima forma di questi tempi, il mondo è in pessima forma. E in qualche modo il mio avere trovato qualche solidità li attrae».
Ma non parlavi di vuoto?
«Sì. Il mio stato di svuotamento esprime qualcosa che non avevo finora realizzato e che può riassumersi nella parola coagulatio . Due princìpi governano tutti i processi alchemici: la coagulatio e la dissolutio . Coagulatio in alchimia significa rapprendersi in un punto, diventare più solidi, più definiti, formati, dotati di morphe . Ora l’intero processo che sto attraversando è la coagulazione della mia vita nel tempo . Ma la coagulatio è sempre seguita dalla dissolutio . Che è esattamente il contrario: dissoluzione, le cose che si separano, si sciolgono, perdono la loro capacità di definirsi. La cosa interessante è che improvvisamente questo spiega i miei sintomi. Non faccio che pensare, morbosamente, che sto affondando sempre di più, che mi sto dissolvendo. Ma le due cose, dissoluzione e coagulazione, sono inscindibili. Non è fantastico? Non ci avevo riflettuto finché non mi è venuta per la prima volta in mente la coagulatio . E la rubefactio , che permette alla bellezza di mostrarsi. Così ora sono una persona diversa. Non avevo mai percepito queste cose dentro di me. O non le avevo mai riconosciute. Prima, non avevo mai saputo chi ero».
Da dove viene questa consapevolezza?
«Oh, decisamente dal morire».
Ti dici «impegnato nel morire». Vuoi arrivare alla morte in piena consapevolezza. Ma, come diceva Epicuro cercando di spiegare perché non bisogna averne paura, «se ci sei tu non c’è la morte, e se c’è la morte non ci sei tu».
«Esatto».
Mi sto domandando se allora questo tuo morire non sia un’intensificazione del vivere.
«Assolutamente sì, non c’è il minimo dubbio. Quando la morte è così vicina la vita cresce, si esalta. Ne sono certo. Ma non vorrei essere presuntuoso».
In che senso?
«Orgoglio, arroganza, hybris : attenzione a non peccare contro gli dèi. Mai, in nessuna occasione».
Certo, ma non credo che la tua sia hybris . Credo sia puro coraggio affrontare la morte a occhi aperti. E’ raro, ed è per questo che il tuo reportage è così prezioso.
«E’ prezioso, sì. Mi sto rendendo conto di qualcosa che non avevo mai realizzato prima. Ha a che fare con un certo argomento di cui Margot ed io dovremo parlare prima, una certa decisione che io potrei prendere. Sai, nel mondo di oggi mi è consentito, come lo sarebbe stato nel mondo greco».
Capisco a cosa alludi.
«Ma il punto è che dovrei mettermi nelle loro mani, e sarebbero loro a decidere. In qualche modo io sarei il loro strumento, non loro il mio. Intendiamoci, lo spero. Ma sarebbero loro a informarmi quand’è il mio momento. Oppure potrei prenderlo nelle mie mani, che sono lo strumento classico: la mano [Hillman fa il gesto di trafiggersi il petto], o la vasca da bagno, come Petronio. Ma il fatto è che l’intera cerimonia - perché la definirei così non è ancora lontanamente immaginabile. O meglio, l’idea è immaginabile, dato che ne sto parlando ora. Ma c’è un’altra idea, sempre antica, che in qualche modo contrasta. Primum nil nocere . Primo, non fare del male. [Si tratta del giuramento di Ippocrate]. E allora, qual è la decisione migliore? che ne pensi?».
Gli antichi stoici dicevano, a proposito del suicidio: «C’è del fumo in casa? Se non è troppo resto, se è troppo esco. Bisogna ricordarsi che la porta è sempre aperta». Evidentemente, la tua casa non è ancora piena di fumo. Quando lo sarà, lo sentirai.
«Riuscirò a sentirlo?».
Forse ti sentirai confuso. Quello che so è che ora stai respirando, non c’è fumo nel tuo cervello, nella tua psiche, nella tua anima. Quando ci sarà, forse prenderai in considerazione il suggerimento degli stoici. Non sei forse un pagano? Non hai allenato per tutta la vita il tuo istinto a percepire le epifanie degli dèi?.
«Oh sì che sono un pagano. E’ questo il punto».
E’ pagana anche la tua percezione della bellezza, del grande teatro verde della natura che hai scelto per questa tua ars moriendi, questa tua arte pagana del morire che è anche, o anzi è soprattutto un’arte estrema del vivere.
«Non mi piace definirla un’ars moriendi. E’ piuttosto un’arte dello stare in prossimità dell’essere, tenersi più stretti possibili a ciò che è».
"«Non mi piace definirla un’ars moriendi ma un tenersi più stretti possibili a ciò che è» «Sono un pagano e non vorrei essere presuntuoso o arrogante Non bisogna mai peccare contro gli dèi»"

I suoi testi fondamentali
Il suicidio e l’anima Adelphi 2010
In questo libro Hillman ha restituito l’idea di anima a un secolo, il Novecento, dominato dalla psiche. «Prima di allora l’anima la si trovava o al cimitero o in chiesa, non era un concetto psicologico. Reintroducendo l’anima recuperavo anche tutta la sua tradizione».

Il codice dell’anima: Carattere vocazione, destino Adelphi 1997
Qui, accanto alla nozione di anima, ha introdotto quella, altrettanto antica, di demone individuale. «E’ un’idea che deriva da un mito esistente in tutto il mondo: entriamo in questo mondo con una vocazione particolare e un particolare carattere. Socrate chiama questo nostro compagno demone - daimon».

Il mito dell’analisi Adelphi 1991
Introduce per la prima volta il concetto di «fare anima», partendo da una citazione di Keats: «Chiamate, vi prego, il mondo “la valle del fare anima”. Allora scoprirete a cosa serve il mondo». Un’idea che non ipotizza una salvezza, ma implica l’essere coinvolti nella sostanza del mondo.

Saggio su Pan Adelphi 1982
Perora il ritorno a quella «Grecia psichica», che «ci offre una possibilità per correggere le nostre anime», e ha esaltato il politeismo greco, «la più riccamente elaborata di tutte le culture», sostenendo la necessità di un ritorno dell’uomo contemporaneo a un’«anima politeista».

Fuochi blu Adelphi 1996
La metafora dell’alchimia è una delle più adatte a descrivere il processo interno di trasmutazione attraverso l’immaginazione che Hillman propone quale terapia dell’anima. Nel deserto americano, l’infelicità è blu alchemico. L’umore blue trasfigura le apparenze in realtà immaginali, il cielo azzurro richiama l’immaginazione mitica ai suoi ambiti più lontani.

Corriere della Sera 29.10.11
Hillman detectve delle tenebre
di Giulio Giorello


Ricordate Stephen Dedalus, il Telemaco dell'Ulisse di Joyce, che solitario sulla spiaggia della baia di Dublino medita sui confini dell'anima? Fin dove essa si estende? Forse, fino all'ultima stella che si scorge all'orizzonte.
Dunque, l'anima non è imprigionata dentro il corpo, come pretendeva molta filosofia — da Platone a Cartesio — ma è il nostro corpo che fluttua nell'anima. Questa tentazione antidualistica, che nell'Occidente ritroviamo nella filosofia della luce di Giovanni Scoto Eriugena (810-877 circa), come negli ultimi Cantos di Ezra Pound, attraversa la riflessione del grande eretico della psicoanalisi James Hillman, scomparso all'età di 85 anni. Hillman è stato accusato di aver «tradito» Carl Gustav Jung, a sua volta traditore di Sigmund Freud; per di più «l'eresia nell'eresia» di Hillman ha fatto irruzione nei campi dell'antropologia, della storia e persino della politica. Sul lettino viene ora «analizzata» l'intera società, con la miriade di relazioni che si stabiliscono tra quelle irripetibili singolarità che sono gli individui.
Se c'è un classico che mi viene in mente quando sfoglio un volume di Hillman, questo è il filosofo Giambattista Vico (1668-1744): l'anima del singolo individuo non è una sostanza ma un'attività, qualcosa che partecipa alla continua trasformazione dell'Anima del Mondo. Ma al Dio unico che come un monarca reggeva la compagine dei cieli, Hillman preferiva l'apparente caos del politeismo, con le sue tante divinità dalle mille facce. Gli antichi dèi non sono mai morti; al più si sono addormentati, e nel loro sonno continuano a sognarci come noi li sogniamo a nostra volta. Ed è un'illusione pensare che si possano esorcizzare riconducendoli con la stessa terapia psicoanalitica alla razionalità dell'esistenza diurna. Ermes ed Ercole, Apollo e Afrodite, il terribile Dioniso e il grande dio Pan si risvegliano nelle pieghe della vita di ogni giorno, nei tanti contrasti e conflitti che costellano la nostra società apparentemente così disincantata e tecnologizzata.
Ma anche il Disincanto, la Tecnica e la Psicoanalisi sono un intreccio di miti: Prometeo, Dedalo o Edipo non sono comparsi invano sulla scena delle idee. Per Hillman non è il mito che va spiegato, ma il mito è la spiegazione stessa. Come ebbe a scrivere in Saggi sul Puer (Raffaello Cortina, 1988): l'esploratore dell'anima cerca «un'apertura nella trama del fato», che è anche «un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più complicato o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta attraverso l'apertura nei fili dell'ordito al momento giusto, perché il varco ha solo un tempo limitato e il colpo va dato mentre esso resta aperto». Così il setting psicoanalitico si tramuta in una incessante investigazione, aperta a tutti coloro che riescono a praticare l'arte di cogliere l'occasione.
Hillman ha saputo raccogliere in questo modo la sfida dell'oracolo di Delfi, che è anche quella della filosofia di Socrate: conosci te stesso. Soleva dire che «il mondo è come un giardino» che ci si offre con l'immediatezza «di un riflesso sul lago». Ma il giardino dell'anima può essere labirintico, e come quello dell'Eden ospitare... il suo Serpente. Il caos del politeismo produce anch'esso dell'ordine, ma è un ordine instabile pieno di fenditure: guai che qualcuno pensi di aver trovato la risposta definitiva alla domanda di Delfi. Conoscere se stessi è l'indagine più difficile, rischiosa e talvolta persino mortale. Nessuna formula pronta per l'uso è a disposizione. Nel libro di Hillman che ho amato di più, Il sogno e il mondo infero (Edizioni di Comunità, 1984; il Saggiatore, 1996; Adelphi, 2003), quel che impedisce all'ordine della mente di diventare odiosa burocrazia dello spirito è il meccanismo del revel/rebel. Una baldoria (revel) tutt'altro che innocua, ma che getta i semi dell'insurrezione dell'anima. Così i suoi confini ci sfuggono di continuo, e scopriamo che vana è la pretesa di illuminare in modo completo ciò che è dentro di noi. Ma questa non è una maledizione, bensì una grazia che ci viene dal «mondo infero», cioè dagli strati dell'inconscio che sottendono le avventure della nostra consapevolezza. Dopotutto — come dicono i mitici personaggi di Joyce — siamo «tenebra che splende nella luce».

E Adelphi pubblica i libri che amava
Una raccolta dei libri che più amava: è l'iniziativa cui sta lavorando Adelphi per Natale in ricordo di James Hillman, il grande psicoanalista e filosofo statunitense morto giovedì a 85 anni a Thompson, in Connecticut. Questa sorta di strenna ideata dalla sua principale casa editrice italiana, curata da Paolo Pampaloni e Marco Ariani, vuole offrire al lettore una chiave in più per comprendere la profondità e la complessità del pensiero dell'autore. Di James Hillman Adelphi ha pubblicato numerosi titoli. Tra gli ultimi: Il suicidio e l'anima (2010; nella foto); Il codice dell'anima (2009); La forza del carattere (2007).