sabato 20 dicembre 2008

Repubblica 20.12.08
Il silenzio della Chiesa sulle leggi razziali
risponde Corrado Augias


Caro Augias, l'attacco alle frasi di Fini, fa capire come si sia toccato un punctum dolens che la Chiesa non gradisce, quella Chiesa che fu, salvo poche lodevoli eccezioni, sostenitrice del fascismo, a partire da padre Agostino Gemelli allo stesso Roncalli, fino al cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, il quale, nel decennale della Marcia su Roma fece un tale panegirico che il medesimo Osservatore Romano si sent?ì in dovere di prenderne le distanze. Speriamo che la sinistra, se tale è, sia solidale con Fini, non con lo Stato pontificio.
Riccardo Di Camillo riccardodicamillo@libero. it

Gentile Augias, ho letto le dichiarazioni del presidente Fini sulle leggi razziali e la mancata de?nuncia delle medesime da parte dei vertici della Chiesa. Ci furono nobili eccezioni come quella ad esempio descritta da Paolo Mirti nel libro “La società delle mandorle” che racconta come Assisi salvò i suoi ebrei. Quello che a mio avviso ancora manca per una condanna definitiva del regime da parte del presidente Fini ma non solo sono gli aspetti liberticidi del fascismo, le condanne dei tribunali speciali, gli anni di carcere e di confino, le condanne a morte che pure ci furono. Mi ha meravigliato che, durante una conferenza stampa in Tv, il capo dell'opposizione, a fianco del presidente della Camera, non abbia colto lui l'occasione per far estendere a Fini una condanna del regime a tutto tondo.
Roberto Nistri

Le frasi di Fini sul silenzio della Chiesa deli?neano una verità storica che nessuna "sdegnata protesta" può modificare. Nè alcuni ripensamenti tardivi nè l'ospitalità data a ebrei e resistenti da parte di istituti religiosi potrà attenuarla. Mescolare l'ospitalità dal basso, con silenzio e connivenza dall'alto, non è intellettualmente onesto. Si dimentica tra l'altro che lo stesso papa Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000 chiese perdono per l'antisemitismo cattolico protrattosi nei secoli. Casi individuali, anche eroici, non smentiscono una realtà storica accertata. Quello che si può fare, e che qualcuno fortunatamente ha fatto, è capire e spiegare perché ciò avvenne, quale atmosfera generale, quali difficoltà e prudenze, quali esigenze politiche, motivarono un tale atteggiamento che non può essere spiegato oggi con la tragica situazione di ieri. Quello che, per contro, non si dovrebbe in alcun caso fare è ritirare fuori vecchie storie. Per esempio il Movimento cattolico "Azione e tradizione" ha di nuovo proposto la storia del rabbino Israel Zolli il quale nel febbraio 1945 si convertì al cattolicesimo battezzandosi col nome di Eugenio in omaggio a Pio XII. Una vicenda dolorosa nata da un contrasto sorto nel seno della comunità romana sulla quale ha fatto luce il saggio di Gabriele Rigano "Il caso Zolli" (Guerini Studio, 2006) e che non è lecito strumentalizzare in modo così grossolano.

Repubblica 20.12.08
La metamorfosi monarchica dell’Italia
di Franco Cordero


Nella prima lettera raccontavo come sia emerso Leviathan, impresario dei piccoli schermi, ora regnante sui Rutuli: regno sui generis, perché le monarchie superstiti adempiono funzioni rituali vuote d´ogni potere effettivo; lui li vuole tutti, insofferente d´ogni pluralità ed equilibrio; tollera appena una commedia parlamentare, finché ve lo costringa l´attuale carta. Liberti sans gêne gliene scrivono una su misura. Ecco tre segni della metamorfosi monarchica ancien régime: s´è proclamato penalmente immune; l´officina leguleia studia i meccanismi d´una giustizia controllata dal governo, qual era sotto Re Sole; e postulandosi intoccabile, definisce vilipendio ogni rilievo critico; presto rischierà la galera chi canta fuori del coro, poi verrà il turno dei pensieri, perché i delitti vanno spenti in embrione (l´unico delitto da punire, contro la santa Persona; gli altri sono veniali, molto perdonabili, se uno lo merita, essendo il regime largamente criminofilo sotto insegna garantista). L´unico precedente europeo novecentesco è il Terzo Reich d´Adolf Hitler: vengono dal niente tutt´e due, fulminei nel puntare l´obiettivo; a modo loro sono dei geni nei rispettivi campi, con un punto molto debole; operano come fossero onnipotenti. Entrambi dispongono d´arnesi forti: l´ex caporale austriaco, già abulico pittore d´acquarelli, ha sotto mano un apparato bellico senza eguali, industria, tecnologie, masse obbedienti; tra i più ricchi del pianeta, Re Lanterna comanda gli ordigni televisivi (cosa combinerebbe quel diabolico dottor Ioseph Goebbels); armi cospicue ma essendo il mondo uno scacchiere molto complesso, prima o poi soccombe chi vuol dominarlo iniquamente in spregio ai dati obiettivi. La prospettiva egomaniaca è pensiero paranoide, poco raccomandabile. Ad esempio: gli Usa eleggono il presidente; l´incauto monarca rutulo, pedina irrisoria della politica mondiale, stava dalla parte opposta; dovendo dire qualcosa del vincitore, scherza sul colore della pelle, trivialmente; insulta chi rileva la gaffe; infine, offre dei consigli al nuovo eletto volando alto, aquila nel cielo politico.
Sua Maestà ha una corte. Qualche conoscitore lamenta che vi manchi l´equivalente del Titus (o secondo Tacito, Gaius) Petronius, detto Arbiter perché regola il gusto nel milieu neroniano: quale intenditore d´«eruditus luxus», insegna cosa sia «amoenum et molle» ossia l´arte del divertirsi secondo date forme, finché l´odioso Gaio Ofonio Tigellino, praefectus Praetorio, se ne disfa mediante false prove d´un suo feeling nella congiura pisoniana, e lui previene l´ira imperiale svenandosi, esteta anche in exitu; anziché dissertare sull´immortalità dell´anima, recita o forse canta «levia carmina et faciles versus», canzoni leggere e versi frivoli, avendo spedito al tiranno una lettera testamentaria enumerante le turpitudini della corte, nomi inclusi; e lascia uno straordinario romanzo, Satyricon, del quale abbiamo pochi frammenti. Nella reggia rutula manca l´arbiter elegantiarum né il sire lo sopporterebbe: parole, mimica, gesti sanno d´incoercibile volgarità; ai suoi cultori piace così; una persona fine, come le chiamavano una volta, non sarebbe lì; s´allevava gli elettori somministrando fescennini, lazzi, farsa (chi guardi bene sotto la maschera ilare vede il caimano). I favori regali piovono dal cielo imprevedibilmente, pura grazia: dipende tutto da lui; una tale diventa ministro perché il giardiniere ne ha parlato bene; ed è inutile dire quanto stridano i denti nelle risse tra cortigiani. Peccato che tra costoro non vi siano memorialisti paragonabili al duca Saint-Simon. In compenso fiorisce una subletteratura sui fasti del sovrano, con alto spaccio nei luoghi della villeggiatura d´una sinistra chic.
Salito alla cancelleria nel gennaio 1933, Hitler occupa tutti gli spazi del potere in forma più o meno legale, adeguando a sé le strutture preesistenti (Gleichhaltung). Lo fa anche Leviathan ma sopravvivono pensieri dissidenti. Me ne sono accorto l´altra sera guardando un talk-show d´argomento provocatorio: la fiera delle vanità nella Rutulia quasi monarchica; il corpo del re presentato al pubblico; come lo glorificano i preti del nuovo culto; dubbi tentativi d´un ringiovanimento alchimistico; cosa dicono parterre, palchi, loggione; la corsa al carro del fieno, ecc. Uno degl´interlocutori partiva da lontano. Vista in superficie, la vanità non sembra vizio pericoloso: un plutocrate fonda premi letterari, pagando sotto banco, per farseli assegnare; Benito Mussolini scia a torso nudo, va a cavallo, guida l´aereo, batte il passo romano; esistono anche vanità tristi e faticose, vedi l´agonista della penitenza e chi vuol essere l´uomo o la donna più infelici del mondo. Pose fatue ma sotto pulsa l´Ego, abominevole perché si mette al centro dell´universo (Pascal); ed è vorace; il lattante prosciugherebbe il seno (Melania Klein). L´armatura dell´Ego sta nel non vedere le sue miserie (La Rochefoucauld). Marziale racconta d´un Gauro, il cui nome significa vanesio, borioso, gonfio. Ma questo difetto percettivo, costituente difesa organica, è schermo debole: vuol essere ammirato (desiderio d´un desiderio) e «il se voit misérable»; qui scoppia «la plus criminelle passion» che sia immaginabile, un odio mortale della verità insopportabile (ancora Pascal). Siamo entrati nel girone dell´invidia: sentimento rabbioso verso chi possiede quel che l´invidioso non ha (M. Klein); se potesse, annienterebbe possessore e cosa posseduta. Furiose dispute trinitarie, il Terrore 1794, le purghe sovietiche da Trockij a Bucharin: è casistica clinica d´una malattia; gli antagonisti sostengono dei partiti, ossia pretese verità, ma quel che dicono maschera impulsi viscerali; invertite le insegne, sarebbero altrettanto feroci. Ora, l´Io ipertrofico genera un´industria e mercato del falso: i talenti sono l´ultima ruota del carro, falsificabili a man salva; intese consortili operano selezioni perverse, orientate al peggio, con terribili costi sociali.
Discorsi simili offendono l´establishment. Scatta puntuale l´esorcismo nel giornale d´un fratello del re, noto alle cronache penali come imprenditore dei rifiuti e relative discariche. Il columnist turpiloquo deplora i «dieci minuti dieci» dedicati a Pascal e La Rochefoucauld; lagne simili richiedono un avviso sovrimpresso alle immagini: «guardare solo su prescrizione medica perché può indurre sonnolenza». Tale essendo l´esprit de finesse cortigiano, la Rutulia scenderà ancora dal quarantesimo posto nella graduatoria dello sviluppo economico: il malaffare in colletto bianco arricchisce dei pirati e sfama i loro clienti (Marziale li evoca arrancanti dal primo mattino in cerca della sportula) ma frode, corruzione, plagio depauperano l´ambiente; gli effetti, già evidenti, saranno enormi tra una o due generazioni; l´autentica fortuna economica richiede testa, midolla, nervi ossia serietà, odiata dai ciarlatani rutuli.

Repubblica 20.12.08
Alla fine il ministero approva il progetto e concede il finanziamento
Il film su Prima Linea si farà coprodotto dai fratelli Dardenne
Con la regia di Renato De Maria e interpretato da Scamarcio e Mezzogiorno
di Concetto Vecchio


Miccia corta, il film su Prima Linea, alla fine si farà: il ministero dei Beni culturali ieri ha approvato il progetto della Lucky Red, finanziandolo con un milione e 500 mila euro. Al secondo tentativo la commissione per la cinematografia ha detto sì, dopo che lo scorso 7 ottobre aveva chiesto un supplemento di documenti, sentiti i famigliari delle vittime, come da richiesta del ministro Bondi. «Ma - dice Andrea Occhipinti, l´amministratore unico di Lucky Red - nel merito la sceneggiatura non è mutata di una virgola tra una versione e l´altra». Un´affermazione che però stride con il comunicato del ministero: «Rispetto alla prima stesura, presentata sei mesi fa, probabilmente anche in conseguenza delle audizioni e degli auspici formulati dalla Commissione, la sceneggiatura risulta sostanzialmente cambiata. Sembra avere raggiunto l´equilibrio necessario a raccontare una delle storie dei tragici anni che hanno segnato la vita più recente del nostro Paese. L´ultima versione si distacca sostanzialmente dalla prima e soprattutto dal libro, rispetto al quale è liberamente ispirata. Non costituisce apologia di quel drammatico fenomeno, non lo giustifica e non nega le responsabilità politiche, morali e giudiziarie dei protagonisti». Altre condizioni poste: non utilizzare ex terroristi per la promozione del film né devolvere i proventi a Segio e Ronconi.
La produzione, il 16 dicembre, ha incamerato anche il finanziamento Eurimages, il fondo del consiglio d´Europa, riconoscimento riservato di recente anche a "Il Divo" di Paolo Sorrentino. Regia di Renato De Maria, attori protagonisti Riccardo Scamarcio (nei panni di Sergio Segio) e Giovanna Mezzogiorno (Susanna Ronconi), primo ciak a gennaio in Veneto, il film sarà coprodotto dai fratelli Dardenne. Dice Jean Pierre Dardenne: «Avevamo letto e amato molto la sceneggiatura. La confessione di Segio, senza trucco né narcisismo ci avevo sconvolto, ma è stato il mio incontro con Renato De Maria ad avermi convinto. Per la prima volta un´epoca recente della storia europea sarà vista e parlata dal punto di vista di un vecchio terrorista, che ha deciso di guardare a quegli anni senza compiacimento, portando il peso di ognuna delle sue vittime».

Corriere della Sera 20.12.08
Abbado: «I tagli alla cultura. Pura ignoranza»


ROMA Claudio Abbado, in un'intervista su Classic voice, la rivista leader di musica classica in Italia, ha attaccato il governo per i tagli alla cultura parlando di «pura dimostrazione di ignoranza». Il Maestro inoltre, citando «Gomorra» come uno dei libri che ha letto di recente, ha promesso al suo autore, Saviano, che gli dedicherà il concerto che terrà a Napoli l'anno prossimo.

Corriere della Sera 20.12.08
Incontro con Nicholas Johnson-Laird di Princeton considerato un «maestro del pensiero»
«Ecco, vi insegno a ragionare»
I modelli mentali che ci aiutano a decidere tra vero e falso
di Massimo Piattelli Palmarini


Stella di prima grandezza nel firmamento della psicologia del ragionamento, Philip Nicholas Johnson-Laird (Phil per gli amici) è attualmente professore all'Università di Princeton, ma inglese per nascita, per formazione, per carriera, e soprattutto per quel suo stile elegante, compassato e insieme cordiale. Con l'Italia ha legami accademici e personali antichi e robusti, parla la nostra lingua correntemente, ci visita almeno un paio di volte all'anno e ha pubblicato più lavori scientifici su riviste scientifiche internazionali con colleghi italiani che non con tutti i suoi collaboratori di altri Paesi messi insieme.
Ad esempio, con Amelia Gangemi (Cagliari) e Francesco Mancini (Roma) Phil ha di recente pubblicato su Psychological Review un importante lavoro che dimostra come le persone che hanno una tendenza alla patologia mentale — depressione o ossessione — ragionano meglio e non peggio delle persone normali, almeno quando ragionano sui temi su cui sono, purtroppo, esperti come, ad esempio, la colpa o la paura. In un'intervista in esclusiva Phil aggiunge: «Va a farsi benedire, quindi, la teoria di Aaron Beck (noto psichiatra americano) secondo la quale causa delle nevrosi sarebbe un difetto nel ragionare».
La fama di Johnson-Laird riposa soprattutto sulla sua teoria dei modelli mentali. Il suo classico libro dal titolo omonimo (edizione italiana Il Mulino 1988) esiste in numerose traduzioni in varie lingue. Mi è capitato di sentir usare l'espressione «modelli mentali» perfino in riunioni di dirigenti di industria.
Che cosa sono questi modelli mentali? Basti un semplice esempio (che Phil ha escogitato, tra tanti, insieme al suo collega informatico Sabien Favary): Consideriamo una mano di carte che noi non possiamo vedere, ma sappiamo con certezza che una delle due seguenti affermazioni è vera, mentre l'altra è falsa: (1) Se c'è un re, allora c'è anche un asso. (2) Se non c'è un re, allora c'è un asso.
La maggioranza dei soggetti così testati conclude che c'è un asso. Strano, perché, ragionando a dovere, se la prima affermazione è falsa, allora c'è un re, ma non un asso. Se la seconda è falsa, allora non c'è nè un re, nè un asso. La maggioranza sbaglia, quindi. Ma gli psicologi del ragionamento non sono qui per bocciare, nè per dare premi ai più intelligenti, vogliono, piuttosto, spiegare perché la maggioranza sbaglia. Ebbene, quando ragioniamo, nella nostra mente si crea spontaneamente, appunto, un modello.
Nel nostro modello vengono rappresentate solo le possibilità che rendono le premesse vere, non quelle che le rendono false. Rappresentate solo quelle possibilità (cioè la presenza di un re con un asso, e l'assenza di un re con un asso), contrariamente a quanto precisa il testo, ne concludiamo che c'è un asso. In altre parole, nella nostra mente, non ci sono autostrade dirette per i con tro-esempi, le negazioni e le falsità. Si passa sempre per la strada di ciò che è vero, o perlomeno potrebbe essere vero. E troppo spesso ci si ferma lì. Infatti, per nostra natura, riteniamo che un solo modello mentale sia meglio di due, due meglio di tre e così via. Quindi, economia mentale ed errore, spesso, ma non sempre, vanno di pari passo.
A parte le innumerevoli onorificenze chiedo a Phil di presentarsi nella sua essenza di studioso: «Da studente (ma ho iniziato tardi, quasi trentenne, dopo aver fatto un po' di tutto, compreso il contabile nei cantieri edili e il pianista jazz) studiavo psicologia e filosofia, ma la mia vera formazione avveniva durante i week-end, quando leggevo i testi di Bertrand Russell, e partecipavo a manifestazioni pacifiste, guidate da Russell, per il bando delle armi nucleari. In quanto studioso della psicologia del ragionamento, cerco di integrare esperimenti, teoria e simulazioni su calcolatore».
Potrebbe, in termini semplicissimi, spiegarci cosa sono i modelli mentali? «Quando ragioniamo, ci rappresentiamo le possibilità e costruiamo un modello di com'è il mondo, un po' come un architetto si rappresenta mentalmente il futuro edificio. Rappresentiamo l'insieme, ma non i dettagli. Ciò che omettiamo spiega molti dei nostri errori di ragionamento. Il fattore più frequente e più importante che causa errori è il non considerare alcune possibilità». E aggiunge: «Come e' stato per la guerra in Irak».
Il Mulino ha appena pubblicato la traduzione italiana del suo recente libro «How we reason » (titolo italiano «Pensiero e Ragionamento»). Chiedo a Phil di riassumere le novità che il libro contiene: «Sono applicazioni della teoria dei modelli mentali alle emozioni, le credenze, le malattie mentali e svariati tipi di ragionamento nella vita ordinaria.
Per finire, gli chiedo quale rovello mentale, quale curiosità profonda lo abbia sospinto costantemente nelle sue ricerche: «Fino da quando ero studente volevo svelare il mistero del pensiero, di come noi pensiamo. Allora ne sapevamo ancora meno, nessuno insegnava corsi sul ragionamento. Ma resta per me ancora misterioso cosa mi abbia sospinto verso questo mistero.»

Corriere della Sera 20.12.08
Due saggi ripercorrono il rapporto storico fra le chiese e lo Stato. Un arco di tempo che va dall'antica Roma a Gramsci
Cattolici lontani dal Papa, veri laici
Da Machiavelli a Cavour: la fede senza gerarchie sorregge la democrazia e l'uguaglianza
di Luciano Canfora


Che il rapporto tra la religione e la politica (o, se si vuole, la vita sociale) sia uno dei temi di più lunga durata che possano impegnare lo studioso di storia è quasi una ovvietà. Meno ovvio è in quanti modi, anche tra loro assai lontani, sia percepito, e si svolga, tale rapporto. La questione si è posta per ogni genere di società, e si presenta in modi diversi per le diverse confessioni religiose, dal «cesaropapismo » dell'impero bizantino, e poi zarista, alla «separazione» realizzata dalla Terza Repubblica francese, quando finalmente si consolidò e fu al riparo dai traumi che per decenni dopo il 1871 l'avevano resa fragile. Che, in materia, l'Italia sia stata un luogo nevralgico e sommamente indicativo è ben noto, ed è stato un bene che l'editore Laterza abbia mandato da poco in libreria una corposa silloge, curata da Michele Ciliberto, intitolata
La biblioteca laica, il pensiero libero dell'Italia moderna. Al centro ideale dell'intera silloge figura la pagina di Machiavelli (dai Discorsi I, 1: «Della religione dei Romani») sulla religione come «fondamento» del vivere civile. Alla conclusione, in posizione giustamente enfatica, vi è il discorso parlamentare di Cavour culminante nella impegnativa formula «Libera chiesa in libero Stato».
Sono ben note le riflessioni che il Machiavelli svolge in quel capitolo a sostegno della funzione di freno che la religione deve esercitare soprattutto nei confronti di masse incolte (gli uomini «grossi », come egli si esprime). Riflessione che, da un lato, si spinge ad indicare in Numa Pompilio, piuttosto che in Romolo, il vero fondatore della compagine romana, e dall'altro rivela netto distacco dal fatto religioso come tale, là dove al Savonarola viene destinato un elogio, che però tradisce ironia, per aver egli — con la religione — tenuto a freno addirittura un popolo tutt'altro che rozzo quale quello di Firenze. «Al popolo di Firenze — così scrive Machiavelli in un sapiente dosaggio di realismo e di ironia che non risparmia certo i suoi concittadini — non pare essere né ignorante né rozzo; nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s'egli era vero o no, perché d'uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza, ma etc.». Nel capitolo seguente Machiavelli traduce in modo originale, e quasi imprevisto, tali premesse e osserva che in Italia l'assenza di religione (e quindi dell'efficacia politicamente positiva che la religione può produrre) è da addebitarsi proprio alla chiesa di Roma («quelli populi — scrive — che sono più propinqui alla chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione»).
Questa considerazione è, per certi versi, vicina a quella cavouriana, posta a fondamento del celebre discorso con cui la silloge laterziana si conclude: che, cioè, proprio il potere temporale della chiesa cattolica ha nociuto e nuoce alla religione, e che dunque tale potere «fu ostacolo non solo alla riorganizzazione dell'Italia ma eziandio allo svolgimento del cattolicismo».
Ovviamente le concrete situazioni storiche in cui si trovano Machiavelli e Cavour sono incomparabilmente diverse. Ma vi è anche, in Machiavelli, un rifarsi assiduo all'esperienza antica, soprattutto romana, che lo porta ad accentuare quell'elemento «strumentale» ( instrumentum regni), che viene da alcuni pensatori antichi e che invece in Cavour non c'è. In Machiavelli operano la lettura e l'assimilazione profonda dell'esperienza romana — come sostanza stessa del suo pensiero — vista attraverso Livio, ma anche attraverso quel libro sesto di Polibio che Machiavelli certamente conobbe e nel quale la formulazione apertamente strumentale dell'uso politico della religione come forte ed efficace regolatore sociale è netta e convinta. Modello ideale lo stesso Cesare, impegnatissimo a farsi eleggere pontefice massimo — dunque supremo esponente della religione — ma intimamente impregnato di convincimenti epicurei. Convincimenti che non gli impedirono affatto di attribuire a quella carica religiosa un ruolo centrale in tutta la sua carriera politica. Né era necessario, per un colto romano, simpatizzare per Epicuro, teorico dell'estraneità degli dei rispetto alle cose del mondo. Anche Cicerone, soprattutto nel De divinatione (bellissimo il commento che ne fece Sebastiano Timpanaro) ma anche nel De natura deorum ci appare scettico, ironico sul mestiere truffaldino degli aruspici, e quasi volterriano, laddove quando parla in pubblico non fa che apostrofare gli «dei immortali» quasi protagonisti remoti, e guida, e giudici, della politica.
Questa «doppiezza» fu propria dei ceti dirigenti del mondo classico, e passò recta via nella moderna cultura umanistica, giacché gli uomini della «Rinascita» proprio della parola di quegli antichi largamente si erano nutriti. Su una tale base, in condizioni storiche certo del tutto diverse, poté purtroppo anche germogliare l'elogio — che non suscita certo molta simpatia — della «dissimulazione onesta». Elogio che nell'Italia dominata dal fascismo fu letto con sensibilità attualizzante, e che certo a buon diritto trova posto in questa silloge laterziana.
In Cavour operano altre premesse. Vi è in lui schietta considerazione per il fenomeno religioso come tale. E quando perciò egli scrive che il recedere della chiesa dal suo potere temporale gioverebbe al cattolicesimo stesso non dà vita ad un sofisma capzioso, ma al contrario esprime il suo autentico pensiero. In questo egli è molto vicino ad un altro pensatore liberale che in profondità ha lavorato su questo problema: Alexis de Tocqueville. È uscita da poco, per le edizioni Dedalo, un'eccellente antologia tocquevilliana a cura di Paolo Ercolani ( Tocqueville, Un ateo liberale) che comprende tra l'altro, dalla Démocratie en Amérique, i capitoli sulla «religione come istituzione politica», beninteso negli Usa. Ed è ammirevole osservare la serietà con cui Tocqueville, aconfessionale, si pone dinanzi al fenomeno originalissimo della lealtà repubblicana dei cattolici americani. Egli approda ad una considerazione non ovvia: «Se da una parte il cattolicesimo dispone i fedeli all'obbedienza, dall'altra non li prepara certo alla disuguaglianza» (p. 224). Onde, osserva, in un Paese lontano dalle impalcature statali del cattolicesimo (la monarchia retta dal Papa), quei fedeli sono i più predisposti ad accogliere il principio democratico dell'uguaglianza ed a viverlo come fondamento stesso del consorzio civile.
Insomma, non solo riflessione fondata sugli antichi e valutazione distaccata del fenomeno storico della religione ma, appunto, comprensione storica. In Italia chi ebbe tale sensibilità fu, in rottura con il generico anticlericalismo della sinistra letteraria e tradizionale, Antonio Gramsci. La cui grandezza nella storia intellettuale del nostro Paese si manifesta anche in questo.

venerdì 19 dicembre 2008

Liberazione 4.11.08
Il capitalismo sta diventando il maggior nemico dell'umanità: ecco la contraddizione principale
Non si tratta di di archiviare una parola ancora viva. Si tratta di dare una politica alla sinistra
Può l'identità comunista essere motore di un soggetto politico non minoritario?
di Rina Gagliardi


La discussione che si sta sviluppando su Liberazione è molto interessante e ricca di utili stimoli. Posso avanzare, però, un dubbio, anzi una preoccupazione? Temo che si tenda, quasi fatalmente, a sovrapporre due piani che, per quanto intrecciati siano, dovrebbero restare distinti: quello dell'identità ideologica (e ideale) e quello della politica (il che fare). Insomma, il rischio è quello di cadere, volenti o nolenti, in quella "deriva identitaria" (o "antiidentitaria", che fa quasi lo stesso) che è non da oggi fonte di danni incommensurabili. Mi spiego, partendo, come è giusto, da me. Se qualcuno mi interroga su "che cosa sono" la mia risposta è chiara e "semplice": sono comunista. Se quello stesso qualcuno vuole sapere, subito dopo, che cosa consegue, per me, da questa dichiarazione, appunto, ideologica e ideale, la mia risposta è altrettanto chiara e "semplice": in questa fase storica, qui e ora, in Italia e in Europa, questa identità va investita nella costruzione di un nuovo soggetto politico. Anticapitalista, radicale e di massa. La sinistra. Una sfida, appunto, che si gioca soprattutto sul terreno della politica e che non deriva dalle o dalla appartenenza ideologica. Una sfida che riguarda oggi anche (se non soprattutto) coloro che non dismettono di declinarsi come comunisti, la loro determinazione, la loro coerenza.
Cercherò di argomentare questa tesi nelle righe che seguono (e scusandomi anzitempo per il necessario schematismo). Intanto, però, va sgomberato il terreno da una polemica alquanto sgradevole: qui non c'è alcuna proposta di abiura o di "pentimento" e soprattutto non c'è alcuna bis-Bolognina. Non solo perché sono passati quasi vent'anni e, rispetto all'89, siamo davvero in un'altra epoca.
Ma perché il parallelo tra il Pci (che in quell'anno aveva ancora un milione e mezzo di iscritti, era attorno al 27 per cento elettorale, aveva una presenza maggioritaria nel sindacato e usufruiva di un fortissimo tessuto di relazioni sociali), e Rifondazione comunista ridotta al 3 per cento, è semplicemente ridicolo.Chi, come da ultimo il segretario Ferrero, usa lo spettro della Bolognina per ottenerne il facile consenso dei militanti (più di pancia che di testa, più emotivo che razionale), dimostra, come minimo, di non volere o di non sapere ascoltare le posizioni diverse dalle sue. E, come massimo, ripiomba in quella "cultura del tradimento" che nel movimento operaio è pratica antichissima - mai sradicata e mai neppure seriamente criticata. Dalla caricatura delle posizioni altrui si passa alla denigrazione e alla delegittimazione morale, quindi al sospetto sistematico e alla accusa, appunto, di "tradimento" - cedimento, imborghesimento, deviazione. Davvero il segretario del Prc pensa che Fausto Bertinotti, Nicky Vendola, Franco Giordano, e la quasi metà degli iscritti di Rifondazione che hanno condiviso la loro posizione congressuale, abbiano l'obiettivo, nientemeno, che di mettere in scena una "farsa"? Davvero ritiene che sia corretto rappresentarli, di fatto, come l'ennesima variante di Giuseppe Flavio? Davvero non ha nulla da replicare al ragionamento sul cambio epocale di paradigma proposto da Marcello Cini? Su queste basi, ahimé, la discussione è davvero difficile, anche se non possiamo, anzi non dobbiamo rassegnarci al classico dialogo tra sordi
Anche a me pare che l'identità comunista - che per altro andrà meglio definita - non sia né da archiviare né da considerare obsoleta. Del resto, il comunismo (non il "socialismo scientifico") pervade di sé la storia umana e la cultura da molti secoli, da molto prima che il modo di produzione capitalistico si dispiegasse nelle sue potenzialità. In epoca moderna, (senza riandare alla rivolta di Spartaco o alla comunità dolciniana), se ne scorgono tracce nei levellers inglesi, in qualche protoilluminista radicale (pensate all'abate Meslier che di giorno faceva il curato e di notte scriveva un diario che arrivava a preconizzare il comunismo come unica salvezza della società) e in qualche rivoluzionario di Francia, in molti carbonari ottocenteschi (la "Società dei sublimi maestri perfetti" di Buonarroti aveva il comunismo come sua meta finale, ciò che era noto soltanto ai gradi più alti dell'organizzazione che lo tenevano gelosamente segreto). Quand'è che da utopia o sogno il comunismo diventa un produttore di soggettività politica? Non solo, ovviamente, quando s'incontra con il movimento operaio, ma tutte le volte che la storia esige salti, rotture, avanzamenti, scalate al cielo: la Rivoluzione d'ottobre, la lunga marcia della Cina, in Italia (e non solo) l'organizzazione dell'antifascismo e della Resistenza - ma poi la Costituzione repubblicana e il "Partito nuovo" di Togliatti. In tutte queste circostanze (e certo in altre), il soggetto politico comunista interviene per "piegare la storia", il corso naturale degli eventi, nella direzione che è in grado di determinare: sia essa la salvezza dalla guerra (Lenin) sia essa l'urgenza del riscatto dalla barbarie del fascismo e del fascismo, sia essa, infine, come è accaduto da noi, la sfida della creazione di una vera e propria controsocietà, che dava libertà e dignità al popolo a cui era negata. Ricordo - qui - i momenti più alti, oltre che i "successi" del comunismo, non certo perché non ne veda le degenerazioni successive (gli orrori dello stalinismo, la statolatria, la riduzione della nostra lotta alla conquista del potere politico), ma perché mi pare molto evidente la "connessione produttiva" che, in tutte queste felici circostanze, si è stabilita tra identità e azione politica. Lenin, ripeto, non ruppe con il Partito Socialdemocratico Russo per ragioni ideologiche o nominalistiche, ma per ragioni politiche. Togliatti e il gruppo dirigente del Pci dell'Italia repubblicana conquistarono un enorme prestigio per il ruolo determinante svolto nella lotta antifascista. Viceversa, in assenza di questa connessione forte, i partiti comunisti, i comunisti organizzati in quanto tali, si sono spesso ridotti a piccoli gruppi,talora settari, comunque irrilevanti (chi ne volesse vedere qualcuno da vicino può utilmente frequentare l'annuale meeting organizzato ad Atene dal Kke).
Ora la domanda cruciale a cui bisognerebbe rispondere con una qualche sincerità è la seguente: oggi, in Italia, in Europa, ci sono le condizioni per far vivere fruttuosamente questa "connessione produttiva" tra identità e politica? Può, cioè, l'identità comunista essere alla base di una soggettività politica in termini che non siano a fortiori limitati e minoritari? Fuori da certezze assolute (sono pronta a ricredermi di fronte a fatti e risultati reali), temo che in questa fase storica una tale coincidenza non si dia. Almeno per tre ragioni.
La prima, quella che salta agli occhi, è l'entità della sconfitta che abbiamo subito, come Rifondazione comunista e come campo della sinistra. Se tutto si riducesse ad un unico errore politico, quello di "essere andati al governo", come ha scritto il compagno Ferrero, la terapia sarebbe facile, facilissima: non "si va più al governo", mai più, (anche per volontà degli avversari, va da sè) e come per incanto il Prc e l'alternativa rifioriscono. Purtroppo, invece, non si è trattato di una pur grave "crisi di assestamento", dovuta magari a una linea sbagliata o alla sopravvalutazione dei rapporti di forza o ad altre ragioni che andranno analizzate, ma di una débacle politica vera e propria. Ora, la sinistra non c'è più: cancellata dal Parlamento, assente dal sistema dell'informazione, dispersa in pezzi, divisa, consunta nella sua credibilità e nei suoi gruppi dirigenti, non uno escluso. Possono i comuniste e le comuniste non considerare la drammaticità di questo panorama come il loro principale assillo politico? Possono far finta di non sapere che, così continuando, ciascuno nei suoi recinti, nei suoi riti, nelle sue stanze, nei suoi comunicati, quel che si prospetta, nella società e nella cultura italiana, è un destino di mera marginalità?
La seconda ragione la indicava già su queste colonne Marcello Cini ed attiene al colossale mutamento maturato nell'ultimo ventennio: il processo che abbiamo altrove definito come la "rivoluzione capitalistica" restauratrice e che, in sostanza, sta segmentando, dividendo, triturando i soggetti tradizionali dell'antagonismo. Ciò che non significa, nient'affatto, che scompare la contraddizione tra capitale e lavoro, o che si dilegua il proletariato (che anzi, nel mondo globalizzato, tende a crescere), o, men che mai, che il capitalismo globale stia garantendo all'umanità "magnifiche sorti e progressive": è davvero l'esatto rovescio, come si evince dalle cronache della crisi finanziaria, dalle guerre, dalla crescita abnorme delle disuguaglianze, dalle catastrofi climatiche ed ambientali che pendono sulla nostra testa. Significa, molto più crudamente e crudelmente, che per la prima volta nella storia dell'ultimo secolo e mezzo, la partita non si gioca più nello scontro finale tra il modo di produzione del capitale e il movimento operaio organizzato. Che forse stiamo arrivando alle soglie della profezia marxiana del "Manifesto", "la comune rovina delle classi in lotta". E che il capitalismo, la mercificazione galoppante di ogni sfera della vita umana (e animale), la logica dell'impresa e del mercato come paradigma assoluto e l'ossessione del Pil sono entrate in contraddizione frontale con la sopravvivenza della specie umana. Non sarà per queste ragioni di fondo che è così difficile - anche per i cultori più affezionati dell'ortodossia - avventurarsi nei meandri della "contraddizione principale"? Il capitalismo sta diventando, palesemente, il maggior nemico dell'umanità: ecco la contraddizione principale. Perciò non ci fa più la cortesia, se così si può dire, di allevare, unificandolo oggettivamente nelle grande manifattura, il proprio becchino: ecco il paradosso che forse non ci aspettavamo. Il paradosso che mai come in questa fase storica si vanno accumulando le ragioni di insostenibilità del modo di produzione dominante, ma si vanno smarrendo le forze del cambiamento, i soggetti dell'alternativa. I becchini.
La terza ragione è il logico corollario delle due precedenti: se un ciclo storico si va concludendo, bisogna adeguare la propria azione al nuovo ciclo che si sta aprendo. Non sto parlando, ovviamente, di tattica, ma di un salto deciso dell' innovazione e della pratica politica dei comunisti - a loro volta dispersi, divisi, diversi l'uno dall'altro per cultura politica, visione del mondo, riferimenti alla storia, idee per il futuro. Non è vero, nient'affatto, che la nozione di comunismo è chiara, univoca, quasi monolitica, e quella di sinistra generica: esistono mille comunismi e mille sinistre potenziali. Ma, soprattutto, siamo tutti (spero) comunisti multiidentitari: luxemburghiani (pochi, come me), o trotskysti, o gramsciani, o togliattiani, ma siamo anche femministe, ambientalisti, pacifiste, libertarie. Se vogliamo che questa ricchezza non diventi un malinconico residuo o un rifugio individuale, è tempo di fare di essa la possibile nuova leva della politica - il nuovo becchino di massa e di popolo che potrà nascere solo in questa temperie, nella mescolanza delle identità e perfino dei desideri. E' tempo (ce lo dicono studenti e prof che fanno tremare i palazzi berlusconiani) di un nuovo "balzo della tigre".
l’Unità 19.12.08
Caso Eluana, la clinica denuncia: il ministro tenta di intimidirci
di Federica Fantozzi


La clinica chiede garanzie formali e denuncia il ricatto del ministro Sacconi. Anche la Corte di Cassazione ribadisce che l’atto di Sacconi non può vanificare la sentenza, e ventila anche l’uso del «ricovero coatto».
Di fronte alle «intimidazioni» del ministro del Welfare la casa di cura «Città di Udine» ribadisce la propria disponibilità «a patto che la Regione si prenda la responsabilità di condividere con un atto inequivocabile questo percorso che noi riteniamo di civiltà e pietas». Al termine di un pomeriggio da cardiopalma, tra voci che Eluana Englaro fosse lì lì per essere trasferita a Udine, l’esito del consiglio di amministrazione è ancora uno stallo. La struttura privata, che al terzo piano ha già pronta una stanza e una squadra di una ventina volontari esterni per accompagnare Eluana al distacco del sondino, non si accontenta della presa di posizione del governatore Tondo. Invoca garanzie formali per evitare che la stessa maggioranza, dove l’assessore alla Sanità Kosic si era messo di traverso, sconfessi il presidente o, peggio, che una giunta in futuro chieda ai sanitari conto della disobbedienza al diktat di Sacconi.
È l’amministratore delegato Claudio Riccobon a comunicare il nuovo stop, frutto di una trattativa con Tondo che chiedeva di non essere messo con le spalle al muro. Incertezza fino all’ultimo: Riccobon sta per iniziare la conferenza, poi ci ripensa e si immerge in una conversazione telefonica. La richiesta della clinica allunga i tempi, è prevedibile che ci voglia qualche giorno per il parere della direzione tecnica o dell’Agenzia della Sanità (gli organismi competenti), ma lascia aperto uno spiraglio. Infatti Tondo continua a pensare che «si tratti di un rapporto tra privati», rafforzando l’idea che alla fine l’orientamento sarà questo. Vale a dire una trattativa privatistica in cui la Regione nonentra e che dunque è fuori dall’ambito di applicazione della circolare ministeriale. Anche Kosic ieri sera adotta questa linea.
Ma il comunicato della «Città di Udine» è soprattutto un j’accuse che contiene parole pesantissime sul titolare del Welfare: «Di fronte a un decreto ormai inoppugnabile e definitivo lancia intimidazioni per colpire l’azienda nel suo interesse vitale arrivando a minacciare la revoca dell’accreditamento al servizio sanitario nazionale. Non ci sono parole per commentare: un ministro deve comportarsi in maniera diversa». Davanti a lettere anonime di insulti come «boia», al paragone «con i nazisti nei campi di sterminio», la clinica ribadisce che la scelta «su base volontaria e in forma gratuita» è stata dettata da «pura umanità per consentire a una famiglia di tornare nella sua terra, per porre fine a uno strazio che dura 17 anni» e di cui «tanti benpensanti cercano pilatescamente di lavarsi le mani».
È l’ultimo colpo di scena nell’odissea della ragazza in coma dal 1992 per un incidente d’auto ma mai abbandonata dal padre Beppino e dallo zio Armando che hanno affrontato un lungo percorso giudiziario ottenendo infine il diritto di interrompere l’alimentazione artificiale. In mattinata anche la Corte di Cassazione, per bocca del sostituto procuratore generale Marcello Matera, aveva chiarito che l’atto di indirizzo di Sacconi «è destinato solo alle strutture amministrative non può vanificare una sentenza» ventilando anche come «teoricamente possibile il ricorso alla forza pubblica», cioè al ricovero coatto, se nessuno volesse accogliere Eluana. Un’ipotesi che gli avvocati stanno valutando in queste ore ma considerano un’extrema ratio di fronte al perdurare del muro contro muro. Al momento perdura la speranza che il «chiarimento» richiesto dalla clinica possa venire esaudito dalla Regione. Si mostra ottimista l’avvocato della famiglia Vittorio Angiolini. Anche la curatrice di Eluana Franca Alessio si limita a sperare che Tondo confermi le sue aperture. Riccobon ritiene che «i tempi possono essere mantenuti brevi, si tratta solo di capire se e come la Regione intende applicare l’atto». Oggi il procuratore di Udine incontra i vertici della clinica.
Il presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani giudica la presa di posizione di Sacconi «giuridicamente ininfluente». Ma il sottosegretario Roccella insiste: «Il Friuli la segua o sarà frattura con il governo».

l’Unità 19.12.08
L’etica e l’ingerenza di Sacconi
di Vittorio Angiolini


La Corte Costituzionale tedesca, tempo fa, ha ipotizzato che l’aborto, considerato illecito, potesse essere ammesso qualora la donna si sottoponesse preventivamente ad un’opera di persuasione «etica», con cui lo Stato le ricordasse come la scelta di abortire fosse riprovevole.
Giuristi tedeschi ed europei, anche cattolici, criticarono la Corte, sottolineando come compito dello Stato non possa essere quello di ingerirsi nell’ «etica» e nelle «coscienze» individuali, ma debba essere solo quello di distinguere, con sanzioni adeguate, i comportamenti vietati da quelli ammessi e da quelli protetti come diritto dell’individuo.
L’intervento del Ministro Sacconi sul caso Englaro ripropone il problema: il Ministro stesso dice di non aver vincolato comportamenti, non avendone la competenza, ma dice di aver voluto operare un richiamo doveroso «eticamente». Il problema è di nuovo quello di un’autorità statale che vuole porsi come autorità in campo «etico». La questione non è secondaria. La «bio-etica» esige un dibattito ampio, a cui tutti siano ammessi liberamente e senza esclusioni, neanche a carico di chi rivendica la libertà di propri convincimenti religiosi. La «bio-etica», non può divenire «bio-politica», ossia rimessa alla mano statale e pubblica. Lo Stato e la politica che vogliono appropriarsi dell’«etica» sono, per fortuna, solo un ricordo triste.
Lo Stato faccia il compito suo, che è quello di dare norme giuridiche di comportamento e che, nel caso di Eluana, è un compito ormai esaurito, essendo giunti ad una sentenza definitiva.
Per il resto, anche sugli stati vegetativi, il dibattito liberamente. In campo «etico», l’opinione del Ministro vale quella di qualunque altro cittadino, in quanto non si traduca, o come nel caso nostro sia persino intraducibile, in regole di diritto.

Repubblica 19.12.08
L’offensiva neodogmatica
di Gad Lerner


Ogni giorno di più la Chiesa di Benedetto XVI mostra un volto arcigno alle donne e agli uomini del suo tempo. Accusa di «statolatria» il governo spagnolo, colpevole di «indottrinamento laico».

Scomunica le sentenze della magistratura italiana sul caso Englaro, paragonandole a una condanna a morte. Proclama l´impossibilità del dialogo interreligioso, raccomandando di «mettere tra parentesi la propria fede» quando ci si confronta con le altrui confessioni.
Il papa stesso si erge a maestro di dottrine politiche affermando ? nell´insolita, entusiastica, lettera a Marcello Pera ? che l´unica cultura liberale possibile sarebbe quella radicata nell´immagine cristiana di Dio. Sposando così la forzatura identitaria del "dobbiamo dirci cristiani" e vincolando le scelte etiche della collettività al principio unilaterale dell´agire "come se Dio ci fosse". Il Dio trinitario cristiano, naturalmente, per l´ennesima volta nominato invano.
L´attacco diretto alla Spagna segnala il disorientamento con cui la Chiesa reagisce alla perdita del ruolo di guida esclusiva della morale pubblica, nell´epoca della biopolitica. Sfiduciato nella sua capacità di esercitare una testimonianza evangelica, Benedetto XVI punta sul rafforzamento di un fronte laico conservatore che assuma la dottrina cattolica come ideologia dell´"ordine naturale"; per influenzare così le scelte inedite che le democrazie sono chiamate a compiere di fronte ai progressi tecnico-scientifici e all´evoluzione dei comportamenti familiari.
Ma il tono virulento che ormai contraddistingue l´attuale pontificato ? più politico che teologico ? rivela tutta la sua debolezza proprio quando deve fare i conti con le vicissitudini storiche da cui tale debolezza scaturisce. Non a caso il predecessore Giovanni Paolo II aveva impostato il Giubileo del bimillenario cristiano su un tema controverso come la "purificazione della memoria", vincendo le perplessità della Congregazione per la Dottrina della fede. Se la gerarchia cattolica oggi soffre un deficit di credibilità in Spagna, ciò non deriva anche dalla sua infausta alleanza col franchismo? E non a caso, nell´Italia clericale ma scristianizzata di oggi, abbiamo dovuto assistere a una reazione tanto stizzita dopo le parole di Gianfranco Fini sulla vergogna del 1938. Un´offensiva autoassolutoria che sarebbe stata impensabile solo qualche anno fa.
Ho provato disagio di fronte alla raffica di dichiarazioni lanciate all´unisono da storici cattolici che pure avevano scritto pagine tutt´altro che reticenti quando il clima era diverso. A sentirli ora, irriconoscibili, è parso quasi che la vicenda delle leggi razziali non riguardasse la Chiesa, e anzi la Chiesa potesse andare orgogliosa del modo in cui si comportarono allora i suoi principali esponenti.
Tale superba rappresentazione di sé medesima, aggravata dall´uso di parole sprezzanti nei confronti di chi osa metterla in dubbio, si scontra con una mole di documenti incontrovertibili e noti da tempo. Basterebbe rileggere la corrispondenza tra il gesuita Pietro Tacchi Venturi e il segretario di Stato della Santa Sede, Luigi Maglione, nelle settimane successive alla caduta del fascismo. Quando gli alti prelati si adoperarono per evitare che Badoglio cancellasse in toto la normativa sugli ebrei, «la quale secondo i nostri principii e le tradizioni della Chiesa cattolica ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma». Di fatto nel 1943 il Vaticano chiedeva solo la "riabilitazione" degli ebrei convertiti. Che gli altri restassero pure discriminati: le leggi razziali andavano corrette ma non soppresse.
Del resto sette anni prima, il 14 e il 19 agosto 1938, l´Osservatore romano aveva pubblicato due articoli in cui ? dopo aver vantato le benemerenze accumulate dai papi in difesa degli ebrei nel corso della storia ? rivendicava le proibizioni cui essi venivano assoggettati, motivate non da "ostracismo di razza", bensì dalla «difesa della religione e dell´ordine sociale, che si vedeva minacciato dall´ebraismo». Questo era il modo in cui la Chiesa pensò di reagire alla svolta razzista del regime. Perché stupirsene, visto che negli stessi giorni il governo Mussolini rassicurava per iscritto padre Tacchi Venturi con le seguenti, beffarde parole: "Gli ebrei non saranno sottoposti a trattamenti peggiori di quello usato loro per secoli e secoli dai papi». Erano trascorsi meno di settant´anni dalla definitiva chiusura del ghetto di Roma.
Oggi che il dialogo ebraico-cristiano è di nuovo ostacolato dalla pretesa teologica di conversione del popolo di Gesù, sarebbe bene che, invece di sbandierare una dura opposizione alle leggi razziali che purtroppo non c´è mai stata, gli uomini di Chiesa ricordassero la dottrina antigiudaica vigente nel 1938 (e sconfessata solo nel 1965): cioè l´accusa di "deicidio" con cui venivano spiegati diciannove secoli di discriminazioni. Tanto è vero che il Vaticano denunciava come perniciose le posizioni di leadership culturale assunte dagli ebrei nelle democrazie occidentali. Come stupirsi se poi la società italiana tollerò l´infamia delle leggi razziali?
Tutto ciò è stato materia dolorosa di riflessione nella Chiesa cattolica, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II. Ma ora di nuovo scatta l´anatema. Contro Gianfranco Fini, inchiodato alle sue origini fasciste. E contro Walter Veltroni, colpevole di avergli dato ragione.
Colpisce il richiamo all´ordine rivolto ieri da Avvenire ai dirigenti cattolici del Partito democratico: perché non criticate il vostro segretario, lasciando tale incombenza solo alla pattuglia dei "teodem"?
L´offensiva neodogmatica della Chiesa arcigna non può fare a meno di questi richiami caricaturali all´infallibilità. Il dubbio è bandito, fede e ragione coincidono così come dottrina e natura. Che si tratti di bioetica, di ordinamento familiare, di finanziamento delle scuole cattoliche, o di interpretazioni storiche.
Stranamente tale severità viene meno solo allorquando i politici amici contraddicono i precetti evangelici dell´accoglienza e sparano accuse di "catto-comunismo" sui vescovi che li richiamano. Perché la Chiesa arcigna s´illude di lucrare vantaggi dal conservatorismo laico, e lo supporta a costo di trasmettere disagio in chi vive il cristianesimo come testimonianza di vita. In diversi incontri pubblici cui ho partecipato nelle settimane scorse dentro sedi parrocchiali e istituzionali, mi è capitato per la prima volta di sentire applausi rivolti a sacerdoti e fedeli che criticavano apertamente il papa.

Repubblica 19.12.08
L'influenza internazionale del fascismo nella campagna contro gli ebrei
Così l'Italia esportò le leggi antisemite
di Michele Sarfatti


Budapest e Bucarest, Tirana e la Spagna di Franco. Sono diversi i paesi che guardarono al modello italiano. Un terreno ancora da esplorare

Pubblichiamo parte dell´Introduzione di al numero speciale de «La Rassegna Mensile di Israel» sulle leggi antisemite del 1938

Sulla legislazione antisemita del 1938 possiamo osservare che sono da tempo disponibili alcune indagini sulla reazione degli italiani antifascisti in Francia e un primo approfondimento sull´intera comunità italiana negli Stati Uniti. Ma ci manca una panoramica generale dettagliata, tale cioè da dare conto sia dell´insieme dei comportamenti nei vari paesi, sia delle tante specifiche vicende. Quasi nulla poi è stato scritto sulle reazioni degli altri governi: gli alleati/alleandi tedesco e giapponese (quest´ultimo indubitabilmente "non ariano"), quelli sotto effettiva influenza italiana, quelli sui quali l´Italia intendeva esercitare influenza, quelli neutrali od ostili, quelli che rientravano nella classificazione di "semiti", pur se "non ebrei", quelli "latini" a tendenza autoritaria.
Per comprendere quanto estesa possa essere l´utilità di queste ricerche e riflessioni, basti richiamare alcune considerazioni sviluppate da Klaus Voigt, pur in un volume dedicato precipuamente al trattamento degli ebrei tedeschi nell´Italia fascista antisemita: «Non si è finora riflettuto sui contraccolpi che la complicità di Mussolini nella politica razziale ebbe sulla situazione degli ebrei in Germania. Con l´introduzione delle leggi razziali in Italia, l´alleanza veniva rafforzata al punto che Hitler poteva dare senz´altro inizio a una fase di più violenta persecuzione degli ebrei. Siamo quindi autorizzati a chiederci se il pogrom della "notte dei cristalli", che ebbe luogo un mese dopo la seduta del Gran consiglio del fascismo, avrebbe as sunto le stesse dimensioni se Hitler avesse dovuto ancora corteggiare Mussolini». La domanda è stata formulata quasi venti anni or sono, le risposte non sono ancora pervenute.
Il divieto radicale di celebrazione di matrimoni del «cittadino italiano di razza ariana» con «persona appartenente ad altra razza», inserito dal regime fascista nel decreto legge 17 novembre 1938 n. 1728, costituì anche una notevole svolta nelle complesse relazioni tra regime fascista e Santa Sede. Infatti nel gennaio 1937 il governo aveva optato per non inserire tale divieto nel decreto legge sui «rapporti fra nazionali e indigeni» nelle colonie, motivando la decisione con «considerazioni di opportunità in rapporto allo spirito informatore dei Patti Lateranensi». (...) Ebbene, questo nuovo divieto italiano, questo successo mussoliniano del novembre 1938, ebbe un´influenza grave e reale fuori d´Italia: venne infatti esplicitamente richiamato in occasione della sua introduzione in altri Paesi. Così, il 2 novembre 1940, mentre l´Ungheria si stava appunto predisponendo a varare tale normativa (nei confronti dei soli matrimoni tra «ariani» ed «ebrei»), il Nunzio a Budapest Angelo Rotta riferì a Roma: «L´esempio poi dell´Italia riesce qui molto funesto». (...)
Gli Stati europei sottoposti a una netta influenza italiana erano pochi, nonché in genere piccoli e di limitato peso specifico. E però essi esistettero. Ne deriva che è oggi legittimo e doveroso indagare quanto quell´influenza concernesse anche l´antisemitismo e il razzismo. In attesa che vengano sviluppate ricerche a carattere ampio e approfondito, si possono intanto richiamare alcuni documenti isolati, testimonianti volta a volta o l´intenzione del governo fascista di esportare la propria legislazione, o la volontà degli altri governi di tenerne conto, almeno in parte. Ad esempio, poco prima dell´invasione italiana dell´Albania dell´aprile 1939, l´ambasciata di quel Paese a Roma comunicò a Tirana di avere «l´impressione che il governo italiano non vede di buon occhio la venuta degli ebrei nella nostra terra e tantomeno la loro sistemazione». Lo studioso che ha reperito il documento, Artan Puto, ritiene che i provvedimenti albanesi del 1938-1939 contro l´immigrazione di ebrei erano motivati più dalla volontà di mostrarsi allineati all´Italia che dalla crescita dell´antisemitismo nella popolazione o nel governo. (...)
Dalla parte opposta del Mediterraneo vi era la Spagna del vittorioso Francisco Franco, con il governo insediato a Burgos. Questo seguiva i nuovi avvenimenti della penisola con grande attenzione e non poche preoccupazioni, dipendendo dal sostegno italiano e necessitando altresì ottimi rapporti con la Santa Sede. Uno studio di Isidro Gonzales Garcia illustra in particolare due casi, entrambi concernenti persone battezzate e non italiane. Il primo, un avvocato ventottenne, intenzionato a lavorare presso la stessa compagnia assicuratrice che lo impiegava in Italia, venne ammesso. La seconda, una giovane che intendeva sposare un italiano non ebreo, da tempo combattente per Franco, no. Il motivo addotto per quest´ultima decisione è proprio il divieto legislativo italiano di matrimoni «razzialmente misti». Pur essendo ella raccomandata da un vescovo italiano, nel suo caso Burgos scelse esplicitamente di non porsi in contrasto col regime fascista. (...)
Tirana, Burgos e San Marino costituiscono un´area internazionale di influenza diretta decisamente modesta. Ma si è detto che quella indiretta raggiungeva Budapest e Bucarest. Insomma, l´Italia di Mussolini ebbe un qualche ruolo nell´estensione della normativa antiebraica. Vale la pena di studiarlo e conoscerlo meglio.

Repubblica 19.12.08
Quando si dice lo giuro
Un saggio di Giorgio Agamben
di Gustavo Zagrebelsky


Conosciamo il giuramento come pertinente alla sfera del sacro e in seguito come istituto giuridico per lo studioso si tratta di una storia che in origine riguarda la parola
Le cose sono molto cambiate nel corso dei secoli e oggi si vive senza un patto giurato
In principio l´atto del giurare mette la lingua umana in relazione con quella divina

La molla intellettuale comune a molta parte delle ricerche di Giorgio Agamben è l´interesse per l´archeologia dell´essere umano, archeologia non come risalita della corrente del tempo verso le origini, ma come scoperta di principi costitutivi e fondativi: arcani, da arké, per l´appunto. C´è molta differenza tra queste ricerche e, per esempio, quella che si potrebbe dire di antropologia filosofica elementare di un Arnold Gehlen, in Italia noto soprattutto per il suo volume tradotto da Feltrinelli nel 1983, col titolo L´uomo. Qui si sviluppa un nucleo concettuale, l´idea dell´essere umano come eccesso di pulsioni che si "istituzionalizza" per tenerle sotto controllo e, su questa idea, si compone un sistema. Questo accenno serve per differenza. In Agamben, è il contrario. Egli, per così dire, segue segni e tracce, dovunque si trovino: certo nella preistoria o ultra-storia, nella storia e perfino nella "poststoria", ma anche nella filosofia, nella filologia, nella linguistica, nella teologia, nella politica, nella fisiologia, nella psicologia, nell´arte e perfino nel diritto. Insomma, un seguire le piste che conducono dovunque si possa trovare qualcosa di utile. Per muoversi così, occorre illimitata curiosità unita a eccezionale vastità del sapere. In ogni caso, sono travolte le consuete divisioni disciplinari accademiche, onde definire Agamben un "filosofo" è certo riduttivo.
Il risultato, secondo il titolo di un suo volume del 2003, è L´aperto, l´essere umano indefinito che viene definendosi, mai definitivamente, entro campi di tensione che, oggi, a differenza d´un tempo, mettono in questione l´esistenza stessa di una sostanza, un´ontologia minima, comune a tutti gli esseri umani e costante in ogni tempo. Davvero, l´uomo non è più una «natura umana», ma qualcosa da ridefinire continuamente attraverso scomposizioni e composizioni dall´esito sempre variabile. I campi di tensione sono i più diversi, determinati da forze materiali ed elaborati culturalmente: corporeità-spiritualità, macchina-organismo, tenebre-luce, tempo finito-tempo infinito, animalità-umanità, eccetera, fino al dualismo radicale vita-morte, proprio dell´epoca della biopolitica e della «nuda vita».
Nel libro che qui si presenta, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Laterza), l´essere umano è considerato nella tensione tra parola significante e oggetto significato. Nel momento in cui l´essere vivente si percepisce come parlante, percepisce anche una realtà esterna che deve essere in corrispondenza, deve essere "corrisposta" dal discorso. Ma non c´è nessuna garanzia di corrispondenza, c´è invece uno spazio vuoto, una distanza incolmabile che nessuna parola, nessuna moltiplicazione di parole può colmare: anzi, si potrebbe dire che il moltiplicare le parole moltiplica questi spazi. Poiché la parola detta non è detta soltanto per sé dal parlante, ma è detta in funzione della comunicazione con altri, per costoro la parola diventa a sua volta una "cosa", un significato che ha bisogno d´essere afferrato attraverso un significante, cioè un´altra parola. Questa può anche essere la medesima della prima, ma con questa entra in un rapporto di indeterminatezza analogo a quello che legava la prima parola alla cosa significata. In altri termini, il linguaggio umano e i rapporti sociali che esso stabilisce sono una somma di innumerevoli spazi intermedi di comprensioni incerte, di fiducia carente, di equivoci, di menzogne, di inganni possibili, di sospetti inevitabili. L´essere umano sta in questo vasto luogo incerto, che le sue parole delimitano da una parte, e la realtà cui il linguaggio si riferisce delimita dall´altra. Qui, in questo spazio, si collocano l´essere umano, in quanto "parlante", e il suo giuramento.
Il giuramento, così come lo conosciamo, è un istituto della religione e del diritto: un´affermazione (di un fatto o di una promessa), assistita dall´evocazione della divinità, o comunque di qualcosa di sacro, come testimone o garante, e da un´auto-maledizione in caso di spergiuro. L´apparato sanzionatorio è messo in moto da norme e strumenti religiosi o giuridici. Sempre secondo le idee ricevute, in base a un paradigma esplicativo di portata generale, in origine il giuramento sarebbe appartenuto alla sfera del sacro, poi, attraverso processi di differenziazione del diritto dalla religione, sarebbe divenuto un istituto giuridico.
Ma, secondo Agamben, la ricerca dell´arké ci porta altrove, rispetto alla religione e al diritto. Il giuramento, nella sua essenza, sarebbe una vicenda della parola, non dell´autorità. Religione e diritto intervengono semmai in un secondo momento, a supporto di un deficit di linguaggio. Il giuramento è una proposizione di validità della parola, cioè di rispondenza fedele del significante al significato; esso non riguarda, in origine, una promessa (di dire la verità, di adempiere un impegno preso) nei confronti dell´udente, ma riguarda il linguaggio stesso e, come tale, appartiene al suo "statuto" e alla condizione di parlante.
L´archetipo della parola è la parola di Dio, la parola creatrice. «E Dio disse: sia la luce. E la luce fu» (Gen 1, 3). La parola di Dio è vera, è la parola per eccellenza, perché essendo creatrice, non ha di fronte a sé "cose significate" cui deve corrispondenza, anzi non ha nulla «di fronte a sé», che non sia nella parola che realizza se stessa. La parola divina è l´esempio più chiaro di "performativo": l´atto linguistico che non descrive uno stato di cose, ma produce immediatamente un fatto, realizzando il suo significato. Sotto questo aspetto, si comprende che Dio non giuri, perché - si può dire - in verità ogni sua parola è un giuramento. Sotto un altro aspetto, si può aggiungere che ogni parola divina è miracolo. «Talità kum», fanciulla alzati, disse il Cristo alla figlia morta del capo della Sinagoga (Mc 6, 41) e la fanciulla si alzò. Ecco un altro esempio della potenza creatrice della parola divina.
Nel modo che è possibile, il giuramento degli esseri umani è un modo di mettere la loro lingua in comunicazione con quella divina, sotto l´aspetto che più d´ogni altro interessa: la corrispondenza tra significante (la parola) e il significato (la cosa), ciò che è alla base della fiducia, la risorsa essenziale per la costruzione di qualsiasi forma di convivenza tra gli umani. Un esempio di "performativo" nel linguaggio umano è certo linguaggio giuridico. «Uti lingua nuncupassit, ita ius esto», dicevano le XII Tavole (come correttamente sarà detto dalla parola, così sarà per il diritto). Un altro è il "sì" che si pronuncia davanti all´ufficiale dello stato civile che, di per sé, produce lo status coniugale. Un altro ancora è il linguaggio legislativo, quando esso determina situazioni giuridiche: l´extra-comunitario che entra nel nostro Paese, in assenza di determinate condizioni, è "clandestino". Qui davvero le parole creano le cose, le situazioni. Ma si vede l´irriducibile differenza rispetto alla parola divina: mentre questa deriva da un potere totalmente fondato su se stesso (l´ «io sono colui che sono» del roveto ardente), la parola umana, per produrre i suoi effetti, ha sempre bisogno di fondare la sua validità su qualcosa, una norma (le XII Tavole o il codice civile) o un principio che la precede come un criterio di validità. Anche la legge è sottoposta a un test di validità. In un supremo esercizio di teologia politica, potremmo dire che lo Stato, assunto come assoluto, cioè come colui che ha detronizzato Dio, potrebbe ambire ad auto-assegnarsi la parola creatrice, la parola che non dipende che da se stessa: lo Stato che potesse auto-definirsi, per analogia, «io, lo Stato, sono colui che sono stato». Ma ciò non è nemmeno per le teorie più marcate in senso assolutistico: lo Stato di Thomas Hobbes è pur sempre e solo un Dio "mortale", di cui occorre comunque poter giustificare la sua "vita".
In breve, il giuramento è un performativo: vuole legare fino a far coincidere la parola con la cosa. Ma, per gli umani, occorre che il giuramento stesso risponda a un criterio di validità. Il criterio è: i giuramenti sono vincolanti. Ma il giuramento non esclude lo spergiuro; l´invocazione del nome di Dio non è garanzia ch´essa non sia "invano". Il perché i giuramenti fossero e dovessero essere vincolanti, per molti secoli è dipeso dalla presenza, testimoniale o vendicatrice, di Dio.
Oggi non è, palesemente, più così, in particolare nella sfera pubblica. Il giuramento, che Machiavelli metteva a base della gloria romana, più ancora che l´obbedienza alle leggi; il giuramento da cui, per Locke, poteva scaturire l´appartenenza al patto sociale, con la conseguenza che gli atei, che non potevano giurare, dovevano esserne esclusi; il giuramento, dunque, non figura più al posto d´onore delle istituzioni politiche, che la secolarizzazione ha reso autonome dalla dimensione del sacro. Dove residua, ha perso questo suo carattere, essendosi trasformato in una semplice «promessa solenne» (Corte costituzionale, sent. n. 334 del 1969), oppure essendo divenuto facoltativo (Corte costituzionale, sent. n. 117 del 1979). L´integrità della parola è rimessa interamente alla auto-responsabilità verso gli altri, potremmo dire alla responsabilità politica di chi la usa. Forse, c´è un rapporto tra evanescenza del giuramento ed evanescenza di questa responsabilità. La menzogna, magari spudoratamente spergiurata; la parola detta e poi subito dopo contraddetta; la parola che vaga male-detta, indipendentemente da ogni legame con un significato: tutto ciò ha invaso la nostra vita e costituisce uno dei non minori segni di disfacimento di convivenza. Il libro di Agamben inizia e termina con la citazione da Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell´Occidente (1992). In questo libro si constatava che le nostre generazioni convivono, pur senza fondarsi su alcun patto giurato, e ci si chiedeva se la novità non dovesse indurre a riflettere su una capitale trasformazioni delle modalità di associazione politica. Agamben, riprendendo questo spunto, conclude con queste osservazioni la sua diagnosi circa la dissociazione tra parola e cosa, causa ed effetto di radicale de-responsabilizzazione del parlante rispetto al parlare e alle cose di cui parla, prima che rispetto all´ascoltatore: «da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall´altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un´esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un´esperienza politica diventa sempre più precaria».
Anche questo è un tassello, non tra i meno preoccupanti, per la comprensione di che cosa sia quella materia mobile, aperta, che è l´essere umano.

Corriere della Sera 19.12.08
L'intervista Carlo Podda, leader sindacale della Funzione pubblica
La Cgil: molte zone d'ombra, la sinistra sbaglia
di Enrico Marro


ROMA — «Il Pd fa quello che vuole, loro fanno politica e magari, in questa fase, hanno bisogno di scambiarsi segnali di dialogo con la maggioranza. Comunque al Senato si sono astenuti, mica hanno votato sì, e forse alla Camera le cose andranno diversamente. In ogni caso, a me, da sindacalista, la riforma Brunetta continua a non piacere». Carlo Podda, leader della Funzione pubblica-Cgil, non si sposta di un millimetro nonostante in Senato la riforma per migliorare l'efficienza della pubblica amministrazione sia passata anche con l'astensione dei Pd, compresi gli ex Cgil Paolo Nerozzi e Achille Passoni.
Come sindacalista non le piace, ma magari è una riforma che ai cittadini serve.
«Guardi, per migliorare i servizi pubblici non servono leggi, ma bisogna concentrarsi sull'organizzazione del lavoro. Di leggi ne abbiamo anche troppe. Ci sono norme sulla trasparenza, sull'autocertificazione, sul diritto all'informazione del cittadino che non vengono ancora applicate».
Nella riforma Brunetta ci sono molte norme tese a migliorare l'organizzazione del lavoro, perché non riconoscerlo?
«Io vedo soprattutto un arretramento della contrattazione rispetto alla legge. Che è esattamente il percorso inverso a quello che si decise nel '92 dopo Tangentopoli, grazie alla privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico alla quale lavorarono Sabino Cassese e lo stesso ministro Maurizio Sacconi, allora per conto di Giuliano Amato. Ora in tempi di ritorno della questione morale, non mi pare opportuno riportare la politica nell'amministrazione. Se a questo aggiunge che il governo ha appena deciso un nuovo rinvio della class action...».
Non salva nulla di questa riforma?
«Guardo con interesse all'Authority che dovrebbe vigilare sul sistema di valutazione dell'amministrazione. Ma anche qui vedo delle zone d'ombra, a partire dalla remunerazione dei 4 membri di vertice, che dovrebbe assorbire 1,2 milioni, senza che questi compensi siano legati ai risultati dell'attività della stessa Authority. Mi pare un po' strano per un organo che basa tutto sul merito».
Intanto, mentre la riforma si propone di migliorare la situazione, la Fp-Cgil risponde lanciando un nuovo sciopero generale per il 13 febbraio.
«Lo sciopero lo abbiamo deciso per altri motivi: il taglio delle retribuzioni dallo scorso luglio, un contratto che vale quanto una social card, la mancata assunzione di 60 mila precari. Quanto allo scopo della riforma, di buone intenzioni sono lastricate le vie dell'inferno... ».

l’Unità 19.12.08
Medici senza frontiere chiede alla Regione Calabria servizi igienici e acqua potabile
Lavorano anche 12 ore per 20 euro, vivono nella paura senza gas e luce
I 1500 del lager nell’aranceto
Msf: immigrati come bestie
di Eduardo Di Blasi


Nelle campagne di Gioia Tauro, da novembre a marzo, si riversano migliaia di immigrati, per lo più clandestini. Lavorano nelle campagne. Guadagnano in media 240 euro al mese. Soffrono fame e freddo.
Da novembre a marzo. Agrumi, freddo, fame. Due fabbriche abbandonate, una vecchia cartiera e un ex deposito nella piana di Gioia Tauro. Da un paio d’anni sono diventate rifugio di oltre 1500 persone. Extracomunitari arrivati dal Sud del mondo al Sud Italia. San Ferdinando, Rosarno, Rizziconi.
Giovani, per lo più: l’84% afferma una ricerca condotta da Medici Senza Frontiere, ha tra i venti e i quarant’anni. Braccia per le arance, stipate nei capannoni.
Antonio Virgilio. responsabile dei progetti italiani Msf, nel chiedere che la Regione Calabria ottemperi all’impegno preso nel settembre scorso di installare servizi igienici, docce e fontane con acqua potabile, racconta a parole quello che video e fotografie dell’associazione già dicono: «All’interno di questi due capannoni, senza acqua, gas e elettricità, si costruiscono casupole di cartone, e per riscaldarsi fanno fuochi che rendono l’aria irrespirabile. Patiscono fame e freddo».
La settimana scorsa Msf ha distribuito beni di prima necessità, «sapone, spazzolino, dentifricio e un sacco a pelo». C’è un dottore di Msf che fa assistenza medica in questo inferno. Ne è uscito un screening medico che fa riflettere. «Arrivano in buone condizioni di salute - spiega Virgilio - si ammalano in 6-12 mesi. Tutte le patologie che abbiamo individuato sono collegate a condizioni di lavoro. A causa della scarsa protezione sul lavoro, sono affetti da micosi perché sono sempre a contatto con agenti chimici e fitofarmaci. Soffrono di problemi osteo-muscolari dovuti alla cattiva postura e alla durezza del lavoro, di gastriti e gastroenteriti per bassa qualità e quantità di cibo e acqua. Hanno problemi alle vie respiratorie perché vivono in ambienti insalubri. In una casa dormono in quaranta, su materassi di fortuna. Sono patologie comuni che si storicizzano perché, essendo esclusi, non accedono alle cure». E’ una vita d’inferno, ma non solo. È un modello produttivo che attraversa una crisi: «C’è grossa precarietà perché c’è poco lavoro. Restano due tre giorni senza mangiare. Vivono in mezzo ai propri escrementi e all’immondizia sotto i tetti sfondati di queste due fabbriche».
Siamo davanti a un fenomeno di sfruttamento massiccio di migliaia di vulnerabili, irregolari nel 75% dei casi. «Forza lavoro nascosta che comunque è necessaria per un certo tipo di economia agricola del sud». Fondamentale, si direbbe, proprio perché in parte schiavizzata. «Se vediamo quante persone lavorano nei campi, capiamo che questo tipo di produzione ha bisogno di un numero di forza lavoro che il decreto sui flussi non copre. Utilizzare forza lavoro a basso costo permette di poter essere più competitivi», constata Virgilio.
Sono migliaia gli stranieri che passano l’inverno in questa piana, e semmai si spostano a Foggia a fare i pomodori o nel Metaponto per le angurie in estate. Poi in Sicilia per la vendemmia. Una massa di persone senza casa. Braccia di schiavi. «Lavori 10-12 ore al giorno per 20 euro, in alloggi di fortuna disumani e a causa della scarsità di lavoro patisci anche la fame».
Di più: il 16% afferma di essere stato vittima della popolazione locale. Per cause di «lavoro», come il rifugiato sudanese «picchiato dal caporale davanti ai suoi compagni perché si lamentava delle remunerazione». Ai due ragazzi feriti a colpi d’arma da fuoco a Rosarno tre giorni fa. «C’è una paura diffusa. e sempre più difficile vivere». sempre se questa può chiamarsi vita.

Repubblica 19.12.08
Bertinotti: è fallito il partito liquido
intervista di Umberto Rosso


«Il partito leggero di Veltroni è fallito. È diventato il partito degli assessori, ecco perché è permeabile ai potentati economici». Fausto Bertinotti spiega così la questione morale nel Pd.

Bertinotti: la questione morale investe il Pd perché è in mano ai sindaci
"Caro Walter, ammettiamolo il partito leggero ha perso a sinistra serve un big bang"

La politica liquida fa proliferare i potentati locali Il baricentro si è spostato nelle periferie: il centro non governa più, comandano gli amministratori
Siamo di fronte ad una crisi di sistema. Investe il Pd che è il fronte più avanzato dell´innovazione
Mi chiedo perché sia diventato così ingombrante il peso di costruttori e imprenditori

Presidente Bertinotti, siamo di fronte ad una nuova Tangentopoli, che si abbatte sul Pd, oppure si tratta di singoli episodi di corruzione e malaffare?
«Siamo di fronte ad una crisi di sistema. Investe il Partito democratico semplicemente per la ragione che il Pd, contrariamente a quel che pensano quasi tutti, è la frontiera più avanzata dell´innovazione. Ed è proprio una certa innovazione del nostro sistema la causa prima di quel che sta succedendo».
Ma è come nel ´92?
«La Tangentopoli di allora e i fatti di oggi sono fenomeni diversi, due risposte sbagliate alla crisi della Prima Repubblica. La Tangentopoli del ´92 è fotografata dall´analisi di Berlinguer. I partiti per salvare se stessi occupano tutto, fagocitano lo Stato. Craxi, nella sua chiamata di correo alla Camera, dice: l´ho fatto per salvare i partiti. Che naturalmente non lottano più in nome degli ideali ma provano a sopravvivere attraverso una crescita del loro potere».
La Tangentopoli di oggi?
«E´ quasi il contrario. I partiti diventano partiti del leader e si dissolvono. Nel Pdl, Berlusconi "a machiavella", come direbbero dalle mie parti per intendere machiavellico, tiene insieme il partito del capo e le singole forze politiche, come la Lega e An. Il Pd invece, in questo senso più innovatore, è il partito del leader allo stato fluido, come direbbe Bauman. Ma la dissoluzione del partito cosa fa nascere? I potentati locali. Senza una reale struttura oligarchica al centro, fragile, si appoggia al partito dei sindaci. Sotto il partito del leader ecco così i potenti locali. Il baricentro del potere si è spostato qui. Comandano gli amministratori».
Ma perché la dislocazione "in basso" dovrebbe essere veicolo di corruzione?
«Non di per sé, ma è la miscela con altri fattori che provoca l´esplosione. Intanto, un rovesciamento dell´etica costituente: oggi l´economia comanda sulla politica, che è sempre sotto schiaffo, tende a farsi gradita alle grandi banche, ai costruttori, agli immobiliaristi, ai potentati».
Un fenomeno non nuovo...
«Aggiungiamo l´ultimo elemento: una vera e propria controriforma del quadro istituzionale. Il Parlamento è svuotato rispetto al governo ma è ancora nulla rispetto a quel che è successo a livello locale. I consigli comunali letteralmente non contano più niente. Le giunte sono un insieme di assessori dotati di potere sovrano. Ogni singolo assessore è fuori controllo: ha una delega dal sindaco, il quale è in grado di intervenire solo sulle cose su cui sta, e non risponde di fatto al consiglio comunale. I centri di potere locali sono così diventati irresponsabili democraticamente. Chiamati ad occuparsi di servizi pubblici ormai privatizzati...».
Erano servizi spesso costosi e inefficienti.
«Non lo nego. Ma quando la mensa degli ospedali era un servizio interno, non da affidare in appalto, il rapporto fra affari e politica era precluso a monte. Lo stesso può valere, che so, per le lavanderie degli ospedali. Oppure per i cimiteri, che ormai non sono più luoghi di culto ma di affari. Il tutto, mentre vengono meno le funzioni pubbliche».
In che senso?
«Perché è diventato così ingombrante il peso di costruttori e di immobiliaristi? Ma perché i piani urbanistici, e quindi il ruolo pubblico, subiscono una revisione attraverso quel che viene definito urbanistica contrattata. Il potere pubblico entra sistematicamente in una contrattazione con i privati, ti cedo una parte del territorio e tu mi fai un´opera. Un ragionamento analogo si può fare per gli inceneritori. Così si è spalancata alla strada alla discrezionalità. Non a caso nessuno degli episodi emersi riguarda il finanziamento illecito ai partiti ma lo scambio diretto fra un dirigente politico dotato di potere amministrativo e un soggetto economico».
Il partito degli assessori allora agisce solo per sé.
«Ma è un´organizzazione del consenso elettorale, ovvero il punto nevralgico del nuovo partito leggero. Privo della forza dell´oligarchia, e senza la forza della pressione di massa, il partito leggero ha come stella fissa la vittoria delle elezioni. Voti non olet. Quello che olet lo fa il potentato locale, che "scherma" il partito. Per questa ragione la sollecitazione a "bonificare", per quanto sacrosanta, temo sia inefficace. Per bonificare, bisogna mettere mano a quel sistema. Togli una mela marcia e ne marciscono altre dieci. Il contagio è ambientale. La politica non può delegare alla magistratura».
Si fronteggiano due modi di affrontare la bufera, vedi Napoli. Il sindaco Iervolino giura sulla sua onestà, rimpasta la giunta e va avanti. L´Italia dei Valori esce a tappeto da tutte le giunte della Campania.
«Dipende dal livello delle indagini ma ci sono casi in cui non ce la fai comunque. Sulla moralità della Iervolino pronto a mettere la mano sul fuoco, ma superato un limite di soglia c´è il problema di come un atto politico viene percepito in una città, in un territorio. Non cedo nulla al populismo ma devi poter ritrovare la parola, e a volte per farlo non resta che una discontinuità assoluta, e il voto. Magari per ripresentarsi. Detto questo, io penso però che bisognerebbe cominciare dal grande per arrivare al piccolo».
Dal vertice del Pd.
«Occorre riaprire la discussione sulle forme di democrazia nel territorio. Per esempio certe grandi opere meriterebbero il vaglio di una consultazione referendaria. L´altra questione è tutta politica».
Qual è?
«E´ il momento di reinventare i partiti democratici, di massa e pesanti. La questione morale dovrebbe essere colta come un´occasione di riforma, che intanto riguarda la sinistra. Se il Pd viene coinvolto, invece di scandalizzarsi bisogna guardare alle cause profonde e pensare ad un vero e proprio big bang. Perché oggi in Italia nella lotta politica la sinistra non c´è, e il partito leggero moderno si è rivelato esposto a rischi cui il vecchio Pci, con tutti i suoi limiti, era immune. Ammettiamo che un ciclo è fallito, senza colpevolizzare nessuno. Serve un nuovo inizio, in cui tutti si mettano a disposizione».

Repubblica 19.12.08
Il Paese senza dimissioni
di Francesco Merlo


È un tripudio di "vado avanti" (Villari e Iervolino), "se lasciassi sarei un irresponsabile" (Loiero e Bassolino)

LE DIMISSIONI in Italia sono sempre state una nobile rarità. Ma solo ora sono diventate ignobili, ripugnanti e vili. E dunque davvero qui non si dimette più nessuno.
Nessun topo si sente fuori posto nel formaggio, e nessuno ha l´autorevolezza di imporre le dimissioni a nessuno. Eppure in passato nessun Bassolino e nessuna Iervolino avrebbero potuto resistere al consiglio imperioso di lasciare la poltrona fosse pure per sacrificarsi, nel rito collettivo del capro espiatorio, al bene comune e a un´idea alta di futuro.
E una volta ci si dimetteva anche per amor proprio. Al contrario di quel che pensa Rosa Russo Iervolino ? «vado avanti per difendere la mia onorabilità» ? si lascia non solo quando ci si sente ?al di sotto´, ma anche quando ci si sente ?al di sopra´, come fu, per esempio, il caso di De Gaulle che andò via senza dare spiegazioni e perciò permise a Raymond Aron di scrivere: «E´ un piacere ascoltare il silenzio di quest´uomo».
Insomma, le dimissioni, specie quelle che non vengono date ma sempre rimandate, misurano, oltre che la struttura morale dell´individuo, la dignità etica del luogo in cui ci si muove e il prestigio e la forza politica di chi (non) riesce ad ottenerle.
E basti pensare alla debolezza di un partito che applaude il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, perché sentendosi fuori posto egli si è incatenato al suo posto. Dinanzi alla giustizia non ci sono partiti e il segretario di un partito non è un avvocato. In questi casi, la solidarietà o è inutile o è astuta, o è insensata o è corriva. Non si possono confondere i due piani e, infatti, tutti sanno che Veltroni ha per esempio, sotto sotto chiesto, senza riuscire ad averle, le dimissioni di Bassolino al quale è stata tuttavia espressa solidarietà pubblica: «piena e totale fiducia» dunque, ma secondo la famosa formula filosofica del ?qui lo dico e qui lo nego´, bene illustrata al paragrafo due, comma quarto dell´autorevole trattato «Mamma, Ciccio mi tocca; toccami Ciccio, che mamma non c´è».
Alla fine dunque si capisce solo che Veltroni non ha la forza di fare dimettere Bassolino e la Iervolino, ma neppure Villari e Loiero? Eppure una volta ci si dimetteva perché amavi e credevi, oltre che nelle istituzioni, anche nel partito: uscivi per rafforzare il tuo partito. Mi racconta un dirigente del Pd di un Veltroni sconsolato: «Nessuno mi ha creduto e io stesso ormai faccio fatica a credermi. Ma sono mesi che chiedo la testa di Bassolino». Sfiducia in privato, fiducia in pubblico.
Il punto è che non è vero che dimettersi significa ammettere la propria colpevolezza penale ma soltanto la propria inadeguatezza. Dimettersi è dire ?sorry´ e scansarsi, confessare l´errore e non il crimine, e magari anche l´illusione, il sogno fortissimo: scusatemi, pardon. Dimettersi, prima d´esservi costretti, è anche intelligenza, eleganza, è una battuta di spirito.
Prendete invece l´assessore di Firenze Graziano Cioni che, da solo, ha pronunziato una dopo l´altra tutte quelle frasi del repertorio militare alle quali sempre si ricorre a ridosso della fine, da «rimango al mio posto di combattimento» a «non mi arrenderò mai». E infatti qui è un tripudio di «vado avanti» (Villari e Iervolino), «se mi dimettessi sarei un irresponsabile» (Loiero e Bassolino), «non mi consegnerò ai nemici» , «io sono un combattente». Sono tutti Menenio Agrippa, tutti Coriolano, tutti Enrico Toti. E però la metafora di guerra non precede le dimissioni, che in fondo non compromettono il futuro, ma l´irreversibile uscita di scena, la sconfitta definitiva.
E´ vero che in Italia anche in passato le dimissioni erano un lungo sfinimento e si ricorda per esempio un discorso di Forlani con tre finali diversi perché la Dc aveva elaborato la rimozione-promozione, il dimettersi per immettersi in nuovi poteri e un´infinità di altre combinazioni, ?dimissioni con riserva´, ?dimissioni mai´, ?reincarico´, ?sfiducia´?Ma non si era mai vista una resistenza così estesa e così bipartisan. E poi, diciamolo chiaro: non eravamo abituati alla faccia tosta di sinistra, alla sfrontatezza di sinistra, all´impudenza di sinistra che non si vergogna di se stessa. Ancora un passo e arriviamo a Cuffaro che non solo non si dimetteva, ma disarmava il Diritto festeggiando la condanna con i cannoli.
Ecco dunque Villari che può autoproclamarsi eroe della democrazia perché nessuno ha i titoli per farlo vergognare. Villari ha ragione a iscrivere anche il proprio trasformismo nella democrazia italiana. Da La Marmora a Mastella, dai ribaltoni di De Pretis e Minghetti a quelli di D´Alema e Bossi, dalla cacciata di Ricasoli alle cacciate di Prodi: «cospirazioncelle di gabinetto» le chiamava già il primo direttore del Corriere della Sera Eugenio Torelli-Viollier. E però anche dentro il trasformismo nessuno poteva sfuggire all´imposizione delle dimissioni che alla fine smontavano i conflitti e disarmavano le ideologie. E invece qui Agazio Loiero annunzia «non deporrò le armi», Bocchino pensa che l´accusa contro di lui sia «kafkiana», Lusetti ammette d´essere «distratto», ma di dimissioni non ne parla nessuno.
Per non dire del sottosegretario all´Economia Nicola Cosentino, coordinatore di Forza Italia in Campania, indagato per fatti terribili.
Abbassamento della soglia della dignità collettiva? Bassolino ha detto di non leggere i documenti che firma, parodiando così gli imputati di Norimberga. E Marta Vincenzi, sindaco di Genova, quando arrestarono il suo portavoce annunziò: «E´ il giorno più triste della mia vita». Dimissioni? «No. Farò piazza pulita». Ma i portavoce, i sottopanza, i segretari e gli alterego sono solo disgrazie? Gli italiani hanno il diritto di pensarli come protesi, come il guanto che indossa la casalinga per toccare i residui di cucina senza sporcarsi. E l´errore? Quanti errori bisogna commettere prima di ammettere l´incompetenza che non te li ha fatti riconoscere?
Eppure i non dimissionari, dietro l´inadeguatezza dei loro predecessori, furono pronti a scoprire coraggiosamente i delitti e le complicità: delitti non penali ma civili, delitti di indecenza, di sciatteria, di volgarità politica. Ebbene adesso dietro la propria inadeguatezza tutti coraggiosamente scoprono che esistono le cattive azioni senza autore, le malefatte senza malfattori, i colpevoli dall´innocenza adamantina. Così il deputato Margiotta e il sindaco di Pescara, che è stato arrestato ma non si è ancora dimesso.
Insomma le dimissioni sono state definitivamente cancellate dalla politica italiana. Le sole che continueremo a ricordare sono quelle di Francesco Cossiga che, travolto dal senso di colpa, lasciò il ministero dell´Interno dopo l´assassinio di Aldo Moro, e quelle di Dino Zoff che da allenatore della Nazionale non sopportò gli insulti del premier Berlusconi. Nel paese del ?posto fisso´, ecco dunque chi si dimette: il disturbato e il galantuomo.

Corriere della Sera 19.12.08
La soluzione sbagliata
di Gian Antonio Stella


«No San Vitur? Ahi ahi ahi ahi!» Pare passato un secolo da quando
Cuore faceva il verso a uno spot televisivo sbeffeggiando chi non era ancora finito a San Vittore e pubblicava il «bollettino dei latitanti » e sparava titoli come «Scatta l'ora legale / Panico tra i socialisti». Da quando Massimo D'Alema liquidava le parole di Bettino Craxi su Mario Chiesa dicendo che dare del «mariuolo » a qualcuno era «un modo troppo semplice di cavarsela». Da quando la notizia di un avviso di garanzia all'ex premier Giovanni Goria fu accolta dall'assemblea diessina con un applauso.
Mal comune mezzo gaudio? Non hanno senso, a destra, certi commenti del tipo «chi di tangenti ferisce, di tangenti perisce». Sono forse comprensibili, da parte di coloro che per anni sono stati additati come i monopolisti della mala- politica. Ma non hanno senso. Così come appare insensato quel sollievo a sinistra nel sottolineare che nelle retate e negli scandali di questi giorni, tra tanti esponenti del Pd, è rimasto invischiato anche qualche protagonista della destra, quale ad esempio Italo Bocchino.
Il guaio è che il nodo della corruzione in Italia, al di là delle sorti giudiziarie degli indagati, cui auguriamo di dimostrare un'innocenza cristallina, è rimasto irrisolto dai tempi in cui Silvio Berlusconi racconta che «a Milano non si poteva costruire niente se non ti presentavi con l'assegno in bocca». Lo dicono decine di processi in tutto il Paese. Lo confermano gli studi di Grazia Mannozzi e Piercamillo Davigo che esaminando 20 anni di casellari giudiziari hanno accertato che la bustarella non è tramontata mai anche perché le condanne per corruzione (poi ci sono le assoluzioni, le prescrizioni...) sono nel 98% dei casi inferiori ai due anni. Lo denuncia la Banca Mondiale, secondo cui se ne vanno in tangenti, in Italia, 50 miliardi di euro l'anno, tutti soldi che poi, a causa dei rincari delle commesse, pesano sulle tasche dei cittadini. Così come pesano ancora sulle pubbliche casse le mazzette di una volta, che secondo il centro Einaudi di Torino incisero, soltanto negli anni Ottanta, «dal 10 a quasi il 15% del deficit complessivo».
Lo testimoniano infine le classifiche sulla percezione della corruttela elaborate da Transparency:
nel 1993, in piena Tangentopoli, eravamo al 30˚posto tra i Paesi virtuosi. Nel 2007 stavamo al 41˚e quest'anno siamo precipitati al 55˚.Dietro (a parte la Grecia che di questo passo sorpasseremo a ritroso) abbiamo solo Paesi come la Turchia, la Tunisia, la Georgia, la Colombia... Davanti abbiamo il Portorico, il Botswana, Cipro... Qualcuno obietterà che si tratta di graduatorie da prendere con le pinze. Giusto. Ma certo la nostra reputazione, in questo settore, è pessima.
La tentazione che pare serpeggiare qua e là, a destra e a sinistra, è quella di uscirne dando una regolata alla magistratura: meno inchieste, meno arresti, meno scandali, meno indignazione popolare, meno astensione alle urne. Ma ammesso che qualche giudice abbia esagerato: sarebbe questa la soluzione?

il Riformista 19.12.08
Alleanze. Soccorso azzurro alla vigilia della delicata direzione Pd
La giustizia riavvicina Silvio e Walter
Veltroni oggi in direzione cavalcherà la questione morale
di Tommaso Labate


In vista del delicatissimo passaggio della Direzione odierna Walter Veltroni non può contare sul fu "fedele alleato" Antonio Di Pietro, che ieri è tornato ad attaccare il Pd per il voto contrario alle richieste della magistratura nei confronti di Antonio Margiotta. Ma un altro alleato di peso, il segretario del Pd, l'ha trovato: Silvio Berlusconi. In un passaggio chiave del consiglio dei ministri di ieri, subito dopo la relazione di Maroni sull'inchiesta in corso a Napoli («Non è possibile sciogliere il consiglio comunale», ha chiarito il titolare del Viminale), il premier si è messo a parlare del Pd e ha chiarito: «Noi siamo da sempre garantisti, sia per quanto riguarda noi che per gli altri. Io spero che i fatti vengano ridimensionati». A onor del vero, l'uscita del Cavaliere, che ha ribadito l'esigenza di dar vita «insieme all'opposizione» a una riforma della giustizia, ha sorpreso assai poco gli altri componenti della sua squadra di governo. Per un semplicissimo motivo: il presidente del Consiglio sa benissimo che un Pd stritolato manu giudiziaria, e quindi eccessivamente debole, non avvantaggia il nascituro Pdl. Anzi. Come ha ammesso il vicecapogruppo al Senato Gaetano Quagliariello sul Foglio di ieri, «Pd e Pdl sono legati da un destino speculare: se il bipartitismo crolla da una parte, finisce anche dall'altra».
Così, complice l'ennesimo consiglio della colomba Letta (di cui ieri ha detto: «A palazzo Chigi fa il superman tutti i giorni. Non so come faccia a leggere tutto...»), «Silvio» ha dato il via libera al soccorso azzurro nei confronti del Pd. E la stilettata al veleno («Ora voglio vedere con che faccia torneranno ad attaccarmi per seguire Di Pietro»), affidata a pochi intimi, è rimasta nel cassetto. Per ora.
Berlusconi o non Berlusconi, Veltroni è convinto di superare senza danni l'esame di oggi. In vista della direzione che si riunirà stamatina, il segretario ha lavorato a una relazione che tiene conto dello stato d'emergenza in cui versa il partito e della necessità di "aprire" agli avversari interni. Il messaggio indirizzato a D'Alema, «Walter» l'ha affidato a Bersani: «Pier Luigi, soprattutto in questo momento dobbiamo dare all'esterno un segnale d'unità» (tra l'altro, va segnalato che per tutta la giornata Maurizio Migliavacca ha mediato con lo stato maggiore dalemiano). Morale? Le «leggi speciali» anticipate ieri dal Riformista dovrebbero rimanere nel pacchetto che sarà oggi votato dal Parlamento del partito. A dispetto dell'«unità di crisi» invocata da Chiamparino e del «direttorio» chiesto da Marco Minniti, «proporremo - come ha dichiarato ieri Beppe Fioroni - una revisione statutaria che rafforzi i poteri del segretario su alcune decisioni che richiedono tempi rapidi, ma anche modifiche sulle primarie che vanno fatte non sempre ma valutate caso per caso consultando i dirigenti sul territorio, e infine radicamento e tesseramento».
Tra gli stessi veltrones, il «tutto il potere al segretario» viene declinato in due modi. In chiave tecnico-formale (i Popolari) e in chiave «politica» (versione Bettini). Nalla relazione, in cui ribadirà la necessità di «azzerare e ripartire» dove serve (come a Napoli), Veltroni potrebbe non sposare fino in fondo nessuna delle due declinazioni. E il discorso di D'Alema? «Dipenderà dalla relazione del segretario», ha confidato il presidente di ItalianiEuropei. La resa dei conti, a meno di clamorosi colpi di scena, sembra esclusa. Se così fosse, l'ordine del giorno che raccoglierà gli spunti più significativi della relazione del leader (più le modifiche ai regolamenti) passerà a larghissima maggioranza.
E il Lingotto 2, annunciato in precedenza? Rimarrà nella relazione di «Walter». Martedì, a Ballarò, Enrico Morando, consigliere di Veltroni, ha citato «la prefettura di Milano» come esempio da seguire per rapidità, efficienza e risparmi. Non è escluso che il segretario, coniugando i temi della giustizia e della pubblica amministrazione, non faccia riferimento al medesimo modello. Come non è escluso un passaggio veltroniano su riforme istituzionali e legge elettorale. In questo caso, però, il modello da seguire non sarebbe quello milanese. Bensì quello «francese». Come nella versione originale del Lingotto.

il Riformista 19.12.08
Cicchitto solidale con gli avversari: «Un partito ridotto così male non serve a nessuno»
«Dobbiamo salvare il Pd. Ma la smettano di piegare la testa alla magistratura»
Il capogruppo alla Camera del Pdl: «Vanno aiutati, anche se a parti rovesciate loro ci avrebbero asfaltato».
intervista di Paolo Rodari


Fabrizio Cicchitto, la tempesta giudiziaria si sta abbattendo sul Partito democratico. Cosa facciamo?
Facciamo che salviamo il Pd. Nel senso che se il principale partito dell'opposizione deve essere fatto fuori dalla magistratura, come sembra stiano mettendosi le cose, allora occorre salvarlo.
Lei è proprio un garantista…
Lo sono. Per me il garantismo è una fede. E deve sempre valere. Anche se non so dire se, a parti rovesciate, sarebbe successa la medesima cosa.
Se al posto del Pd oggi ci foste voi, cosa succederebbe?
Ho paura che ci avrebbero asfaltato, ma non fa niente. Io li voglio salvare lo stesso.
Siamo davanti a una seconda Tangentopoli?
Non esageriamo. Siamo all'inizio di una possibile seconda Tangentopoli.
Cosa sta succedendo?
Il problema sta proprio qui. Nessuno può dire cosa stia succedendo. Si sa soltanto che per la prima volta gli eredi del partito comunista si trovano nel tritacarne della magistratura. Passati indenni ai finanziamenti sottobanco dell'Unione Sovietica e delle cooperative, adesso la storia arriva a presentare il proprio conto. Ma perché proprio ora e chi esattamente vi sia dietro, non so spiegarlo.
Su chi ci sia dietro proviamo ad arrivarci dopo. Adesso mi dica: vuole salvare il Pd per puro zelo garantista o anche per altri motivi?
Beh, c'è anche una questione di opportunità politica. A noi la fine del Pd non serve. A noi serve un Pd forte, col quale sia possibile mettere in campo quelle riforme bipartisan che lo stesso Veltroni, prima del grande tradimento, aveva detto di voler fare.
Grande tradimento?
Il tradimento elettorale. Aveva detto che voleva andare alle elezioni da solo. E noi avevamo reagito a questa sua bella intuizione unendo le forze con il solo accordo con la Lega. Poi lui ha deciso di imbarcare Antonio Di Pietro rifiutando, tra l'altro, i socialisti. Ha ceduto e si è condannato da solo. Se avesse resistito avrebbe comunque perso le elezioni, ma avrebbe posto in essere le basi perché alla prossima tornata elettorale ottenesse un risultato diverso. Non so se la prossima volta avrebbe vinto, ma senz'altro un Pd riformista e indipendente avrebbe rischiato di fare molto bene.
Perché Veltroni ha agito così, secondo lei?
Forse pensava che gli avrebbe giovato cavalcare l'antiberlusconismo e il giustizionalismo. Ma così facendo ha ottenuto il risulato di allontanare gli elettori riformisti da sé: ora un po' voteranno Udc, altri verranno da noi.
Dall'Abruzzo Veltroni può ricominciare?
Dovrebbe ricominciare. Mi auguro che la sconfitta, sia elettorale che politica, spinga l'intero partito a una profonda revisione: o con Di Pietro o da soli per una politica delle riforme e dunque davvero riformista.
Dunque il Pd prossimo futuro è ancora targato Veltroni secondo lei?
Questo non lo so. Perché sia così, tanto per cominciare, bisognerebbe reagire alla magistratura in altro modo.
Ad esempio?
Basta piegare la testa. Basta lamentarsi. Ma reagire cercando di scalfire la deleteria leadership che Di Pietro oggi oggettivamente si è guadagnato e, insieme, ammettendo che sulla questione morale si ha ben poco da dire.
Nel caso Veltroni non ce la faccia, chi dopo di lui?
Non ho un nome e se ce l'avessi non lo farei perché lo condannerei alla morte. Politica, s'intende.
Di Pietro comunque sta andando alla grande…
Secondo me è anche aiutato. Non ho mai visto stampa e tv così favorevoli nei suoi confronti. È quasi imbarazzante.
Manca l'ultima questione. Chi c'è dietro tutto questo bailamme?
Domanda da cento milioni di dollari. Non so rispondere. Certo il succeso politico di Di Pietro fa pensare.

l’Unità Roma 19.12.08
Ospiti preziosi a palazzo Massimo per scoprire il patrimonio archeologico
di Adele Cambria


«Spesso girando per il Museo archeologico vedo visitatori un po’ distratti, scolaresche che si trascinano svogliate per le sale, pur ricche di capolavori, e mi chiedo: che cosa possiamo fare?»
Così, con la sua ardente semplicità, parla Rita Paris, che dirige (appassionatamente) il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, inaugurato dieci anni fa da un governo di centrosinistra, e festeggiato ieri con un itinerario a sorpresa condensato nell’invito misterioso: ”Scopri il Massimo”. (Da oggi fino al 7 giugno del 2009). Al Professor Claudio Strinati è toccato illustrare la prima delle “scoperte” che si offrono ai visitatori del Museo. Si tratta - in prestito dalla Fondazione Sorgente Group - del bellissimo ritratto scultoreo del giovane Marcello, designato da Augusto come suo successore e morto invece a vent’anni. Virgilio gli dedica i versi con cui gli si rivolge, nella sua visita all’Averno, Enea: «O fanciullo degno di compianto, se potessi infrangere il fato, tu sarai Marcello…» La testa è stata confermata dallo storico Antonio Giuliano come desunta dalla maschera di cera che i romani usavano prendere dal volto dei defunti molto amati.(Augusto volle che le ceneri di Marcello riposassero nel suo mausoleo a Campo Marzio). E Rita Paris, facendoci da guida nella visita, sottolinea come le screziature del marmo, non restaurato compiutamente, aggiungano fascino a un volto quasi adolescenziale. Mentre le luci azzurrine, studiate dall’architetta Francesca Storaro, formano - dice il Professor Strinati - un alone di romantico lutto e malinconia attorno al personaggio. Che forse fu ucciso dal veleno, nella villa di Baia, su mandato di Livia, la dark lady che voleva sul trono di Augusto il proprio figlio, Tiberio.
Il paradiso in una stanza
Ma tante altre storie “con figure” troverete nelle altre opere in esposizione. La tomba di Patron, un medico greco del I° sec.a.C. fu scoperta nel 1842 tra Via Latina e Porta Capena dall’archeologo G.P.Campana. Ma la sua collezione fu messa all’asta, probabilmente al Monte di Pietà, nel 1861 ed acquistata in gran parte dall’Ermitage a San Pietroburgo, e, per i frammenti superstiti della tomba del medico, dal Louvre. Françoise Gaultier è arrivata da Parigi per presentare ciò che resta del manufatto. Nella pittura parietale del corteo funebre è riconoscibile la figlia di Patron, Appoleia, che reclina il capo sul petto, con tristezza, e, in una iscrizione marmorea, benedice il padre. Il quale ha lasciato inciso sul marmo un suo poema: «Intorno alla mia tomba nessun pipistrello, ma ogni sorta di incantevole albero…» Perciò il titolo dato a questi frammenti, arricchiti da alberi e uccelli è: «Il paradiso in una stanza».